13-05-08 magazzino 19p16 13:07 Pagina 16 CULTURE SINDACALI I rapporti tra Cgil e mondo cattolico in un seminario della Fondazione Di Vittorio Le polarità che si toccano Storie diverse unite da esperienze comuni. La necessità di un confronto che vada oltre la contingenza immediata La Cgil e il mondo cattolico a cura di Carlo Ghezzi prefazione di Emilio Gabaglio ROMA, EDIESSE, 2008 pp. 96, euro 8,00 “C numero 19 anno 2008 i siamo reciprocamente studiati e ascoltati poco, e abbiamo dato per scontato molto l’uno dell’altro”. È in questa frase di Giuseppe Casadio, presidente dell’Associazione per il Centenario Cgil, che può essere sintetizzata la cifra di questo volume, frutto di un convegno svoltosi a Roma nel febbraio dello scorso anno. La consapevolezza del solco culturale tra movimento sociale cristiano e sindacalismo di matrice socialista ha permesso però un approccio più mirato alle vicende di un secolo di storia durante il quale si è passati da stagioni di dura contrapposizione tra le più grandi forze sindacali italiane ad una faticosa ma costante ricerca di unità. Un percorso simile, com’è evidente, non si può fare se ciascuno degli interlocutori non è disposto a rimettere in discussione qualcosa di se stesso. In questo senso, è ricca di suggestioni la densa riflessione di Adolfo Pepe. Il direttore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio ripercorre le tappe di elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, risalendo fino al concetto di giusta mercede elaborato dalla Scolastica e da san Tommaso. Ed è proprio questa linea di continuità, a differenza di quanto avverrà con altri filoni propri del pensiero moderno, a rendere possibile un confronto destinato a grandi sviluppi, a partire dalla pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum. Questo pur non negando, ovviamente, tutti i limiti di una concezione basata in larga misura anche su corporativismo e organicismo sociale, esaltati in nome della negazione a priori del conflitto sociale e delle sue inevitabili asprezze. Ma venendo ad anni più vicini, è di notevole interesse la ricostruzione che Carlo Felice Casula, docente di Storia contemporanea all’Università Roma tre, fa dell’esperienza delle Acli. Si è trattato infatti di una sorta di laboratorio che non ha mancato di gettare semi particolarmente fruttuosi proprio in materia di confronto tra culture diverse, soprattutto durante la presidenza di Livio Labor. Come sottolinea Casula, in quel passaggio degli anni 70, le Acli “espressero un grande, creativo impegno nel tentativo di ripensare in Italia, non solo dal punto di vista storico-teorico, ma anche dal punto di vista organizzativo, un percorso di ricomposizione, di ‘unità sindacale’, come da slogan ripetuti e ritmati da tanti cortei operai e studenteschi”. Particolarmente stimolante anche la relazione di Andrea Ciampani, docente di Storia del movimento sindacale all’Università Lumsa di Roma. Se il primo problema interpretativo che egli individua (laicità della Cisl e diverso approccio della Cgil al mondo cattolico) è ormai questione storicizzata, non altrettanto si può dire per altri due temi. Anzi, l’alternativa tra sindacato generale e associativo e il problema della partecipazione alle decisioni nelle relazioni industriali ci rimandano direttamente all’oggi, a veri e propri nodi identitari di cui, allo stato, non è possibile ipotizzare lo scioglimento. Eppure, la coscienza del cammino percorso e l’indubbia suggestione di formule come quella del “pluralismo convergente” devono spingere a continuare la ricerca. L’approccio di Guglielmo Epifani va proprio in questa direzione. Il segretario generale della Cgil invita infatti a dare carattere strategico alla riflessione su questa materia. Il punto di partenza per farlo c’è, ed è ampiamente condiviso da tutti gli interlocutori; i valori tipici di un sindacato confederale (dunque solidale e non corporativo). Senza rinunciare alla propria cultura e storia, bisogna cercare ancora. E forse, lasciando da parte ogni presunzione, si riuscirà a costruire soluzioni inedite, com’è avvenuto altre volte nella storia del sindacato italiano. MARCO ROSSI SARTORI/LEZIONI DI DEMOCRAZIA “L a crisi della democrazia è magnificamente aiutata dall’inconsistenza del sapere che la dovrebbe capire e far capire”. Far conoscere la democrazia in ogni sua sfaccettatura, rendere accessibili gli strumenti necessari per esercitare a pieno i propri diritti: questo è ciò che tenta di offrire, ad un cittadino poco avvezzo alla scienza politica, in un libretto di neanche cento pagine, Giovanni Sartori, politologo tra i più autorevoli al mondo (La democrazia in trenta lezioni, Milano, Mondadori, 2008, pp. 128, euro 12,00). Trenta brevi lezioni. Il libro (curato da Lorenza Foschini, giornalista Rai) è ambizioso, ed è sicuramente difficile racchiudere un argomento tanto vasto in uno spazio così ridotto senza lasciar fuori dalla trattazione temi importanti o scadere nel mero nozionismo. Sartori riesce nell’impresa, rendendo comprensibili, nel modo più semplice e pratico possibile, concetti, dilemmi e funzioni della democrazia. Dopo le prime lezioni introduttive all’argomento, il lettore si troverà di fronte un Sartori pronto a rimproverarlo di indifferenza verso l’ideale democratico. Il professore ci chiama alla difesa della nostra libertà, ci invita a conoscere chi riesce a garantire, appunto, la democrazia. Esorta a criticarla (se vogliamo) non screditandola a priori, chiede di non ridurne il valore ad una semplice procedura decisionale. “Dobbiamo distinguere tra la macchina e i macchinisti. I macchinisti sono i cittadini, e non sono un granché. Però la macchina è buona (…) Per costruire questa macchina ci abbiamo messo quasi duemila anni. Cerchiamo di non perderla”. Ma Sartori ne ha per tutti. Si scaglia contro la globalizzazione che ha portato ad uno “sviluppo non sostenibile”, ignorato dagli economisti; contro il multiculturalismo che, al contrario del pluralismo, non crea integrazione; contro l’aspirazione messianica di esportare la democrazia, percepita sull’altro fronte come un’aggressione culturale; contro le ideologie, morte ma mai sepolte, che ancora oggi agiscono come “pensieri bloccanti”. Interessante è, infine, l’analisi che il politologo fa della “destra” e della “sinistra”. La sinistra, nelle intenzioni, è altruismo; la destra è egoismo. Ma poi possono intervenire conseguenze non previste: la sinistra può perdere le sue virtù e una volta al potere si espone maggiormente al fallimento morale; la destra, al contrario, attraverso l’egoismo può ottenere comunque risultati di interesse collettivo. Antonio Coletta ECONOMIA/PUBBLICO E PRIVATO Un testo di Marco D’Alberti La regolazione che cambia Poteri pubblici, mercati e globalizzazione Marco D’Alberti BOLOGNA, IL MULINO, 2008 pp. 168, euro 11,00 L 16 a storia mostra che i pubblici poteri si sono sempre occupati di economia anche se, a seconda dei periodi, con ampiezza e intensità diverse. Una fase interessante si è aperta a partire dal 1980, quando si è consolidata la globalizzazione degli scambi e il ruolo dei pubblici poteri nell’economia è parso, secondo diversi studiosi, in progressivo declino. L’analisi condotta da Marco D’Alberti ripercorre storicamente i principali andamenti del rapporto tra economia e pubblici poteri (dall’età antica al mercantilismo; dall’Ottocento ai giorni nostri), giungendo a esaminare la fase odierna, con uno sguardo particolare ai soggetti pubblici che assumono misure di disciplina dell’economia, alle procedure necessarie per la loro adozione e alle diverse tipologie, ai nessi tra regolazione e concorrenza. L’autore non condivide le tesi più radicali che considerano la fine o la drastica riduzione degli interventi pubblici una conseguenza della liberalizzazione dei mercati. Tesi secondo le quali, inoltre, la deregolazione, la semplificazione normativa e amministrativa e la privatizzazione di beni e imprese pubbliche sarebbero fenomeni che “dimostrano il definitivo dominio dell’autoregolazione dei mercati e delle imprese economicamente più forti, rispetto alla disciplina posta dai pubblici poteri” e “il corrispondente irreversibile dominio degli interessi delle grandi imprese private e delle logiche mercantili”. Lo studio condotto da D’Alberti, invece, sottolinea che, nonostante lo sviluppo della globalizzazione e la ripresa delle teorie sul liberalismo economico, “la regolazione pubblica persiste e mantiene notevole ampiezza e intensità, trovando anzi nuovi spazi nella dimensione ultranazionale”. Quel che cambia, infatti, è il modo in cui i pubblici poteri regolano i rapporti economici. Se da una parte riemerge, dopo quasi un millennio dalla sua prima comparsa, la lex mercatoria – oggi costruita soprattutto dalla maggiori imprese multinazionali e dai loro consulenti giuridici per favorire i propri interessi – dall’altra permane un ruolo importante delle imprese pubbliche e persistono strumenti di programmazione economica in importanti settori come l’energia o i trasporti. Non solo. Anche se oggi i pubblici poteri sono inclini a privatizzare imprese pubbliche, a semplificare molte regolamentazioni, ad adottare raccomandazioni e altre forme di soft law nei confronti di imprese, ciò non toglie che permangano diverse restrizioni al commercio, alle liberalizzazioni, alla concorrenza “in nome di pretesi valori pubblici o sociali usati talora in maniera strumentale dagli Stati per giustificare scelte di neoprotezionismo e di particolarismo”. La globalizzazione, comunque, resta oggetto di numerose critiche. Motivo? L’eccessiva sproporzione a vantaggio delle logiche di mercato, della business community, e a scapito degli interessi pubblici, dei valori sociali, dei diritti umani. Una voce, ad esempio, è quella dell’economista Joseph Stiglitz che ha espresso un duro giudizio sul Fondo monetario internazionale e sulla Banca Mondiale, colpevoli di aver adottato una visione basata sul “fondamentalismo di mercato”. Conclusione? Secondo D’Alberti, “si dovrà rafforzare il bilanciamento fra libero mercato e valori non economici, che è stato avviato dal diritto comunitario, ispirato nelle norme e nella giurisprudenza all’economia sociale di mercato” e “si dovranno attenuare le scelte neoprotezionistiche e neocorporative come controtendenze allo sviluppo della concorrenza”. G. CECILIA BERTONI