Es.Cover.ISFOL.n.2_Es.Cover.ISFOL.n.2 10/06/11 13:42 Pagina 1
Contributi di
Domenico Barricelli
Francesca Bergamante
Francesco Carchedi
Sebastiano Fadda
Giovanna Giuliano
Emiliano Mandrone
Elisabetta Perulli
Davide Premutico
Cristiana Ranieri
Andrea Ricci
Pierluigi Richini
Simona Tenaglia
Simona Testana
Michele Tiraboschi
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OSSERVATORIO ISFOL
RIVISTA TRIMESTRALE
ANNO I, N. 2/2011
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OSSERVATORIO
ISFOL
flexicurity
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apprendistato
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conciliazione
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micro
imprese
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mobilità
sociale
mobilità sociale
immigrati libretto formativo
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sussidiarietà
sussidiarietà
immigrati
Osservatorio
Rivista trimestrale, anno I, n. 2/2011
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Osservatorio Isfol
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2011Italiano, Inglese
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Osservatorio Isfol è la rivista storica dell’Isfol (Istituto
per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori).
Si pone come luogo di confronto e dibattito nella comunità
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della formazione e delle politiche sociali.
La rivista nasce nel 1975 con il titolo Osservatorio sul mercato
del lavoro e sulle professioni. Dal 1986 al 2006 diventa
Osservatorio Isfol. Con struttura e contenuti rinnovati,
la rivista riprende le pubblicazioni nel 2011 con lo stesso titolo.
Lavoro, formazione, politiche sociali
Trimestrale
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Iscrizione al Tribunale di Roma n. 420/2010 del 21.10.2010
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L’Isfol, Istituto per lo sviluppo della formazione professionale
dei lavoratori, è un ente pubblico di ricerca che opera nel campo della formazione, del lavoro e delle politiche sociali.
Svolge attività di studio, consulenza e assistenza tecnica, ponendosi a supporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche
sociali, così come delle altre istituzioni nazionali, regionali e
locali che intervengono nei sistemi del mercato del lavoro, dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita e dell’inclusione
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Osservatorio Isfol
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Redazione
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Segreteria di redazione
Federica Biondi
Anita Giordani
Osservatorio Isfol n. 2/2011
5
INDICE
9 Editoriale
di Sergio Trevisanato
Laboratorio
15 Problemi e prospettive dell’apprendistato
di Michele Tiraboschi
33 Lavoro in somministrazione e flexicurity
di Sebastiano Fadda
47 Immigrazione e formazione professionale
di Francesco Carchedi
Officina
67 L’integrazione socio-economica degli immigrati
di Giovanna Giuliano, Simona Tenaglia e Simona Testana
87 La modulazione dei tempi di lavoro
di Francesca Bergamante
105 La mobilità sociale
di Emiliano Mandrone
123 Rendimenti del capitale umano e lavoro
di Andrea Ricci
6
Indice
139 Le competenze dei titolari di microimprese
di Domenico Barricelli, Davide Premutico e Pierluigi Richini
157 Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
di Elisabetta Perulli
179 L’identità dell’impresa sociale
di Cristiana Ranieri
199
209
221
227
Teche
Parole chiave
Rassegna
Recensioni
Novità ISFOL
231 English abstracts
235 Autrici e autori
238 Per collaborare alla rivista
Osservatorio Isfol n. 2/2011
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EDITORIALE
Nel maggio scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato un importante progetto di riforma
dell’apprendistato, ora al vaglio delle Regioni e delle parti sociali. Le prime reazioni lasciano ben sperare per un esito positivo del percorso avviato con l’Accordo dell’ottobre 2010.
Strumento essenziale per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, l’apprendistato troppo a lungo è stato inteso dalle imprese semplicemente come espediente per abbattere i costi della mano d’opera, mortificandone la valenza formativa. Ancora oggi tale fattispecie
contrattuale è «utilizzata poco e male», come scrive Michele Tiraboschi nel saggio con cui
abbiamo voluto aprire questo secondo numero dell’Osservatorio.
Uno degli aspetti centrali della questione ruota intorno alla definizione degli standard:
professionali, formativi e di certificazione delle competenze. Sono ambiti che anche l’intesa relativa alle Linee guida per la formazione ha recentemente rilanciato e su cui l’ISFOL è
impegnato da tempo. La messa in trasparenza e il riconoscimento degli skills, compresi
quelli acquisiti on-the-job, è una condizione essenziale per rafforzare l’occupabilità dei lavoratori. Sul tema segnaliamo il contributo di Elisabetta Perulli, specificatamente dedicato
al Libretto Formativo del Cittadino, quale strumento di valorizzazione delle competenze
maturate nelle imprese.
Ancora una volta torniamo a parlare di giovani, in questo caso nell’ottica delle dinamiche generazionali. Utilizzando i dati ISFOL-PLUS, Emiliano Mandrone analizza i processi di
mobilità sociale sia in riferimento all’istruzione sia al lavoro. La capacità di affrancamento
di chi ha una bassa dotazione familiare non sembra essere cresciuta in modo significativo
negli ultimi anni, lasciando trasparire una sorta di «inerzia intergenerazionale». Al tempo
stesso, emerge una saturazione del mercato dei laureati che riduce le garanzie di mantenimento dello status tra chi proviene da famiglie a dotazione elevata.
Entriamo così nel campo dei rendimenti dell’istruzione. Ci si chiede se studiare paghi ancora. I dati PLUS confermano che le performance lavorative degli individui continuano a essere migliori per coloro che hanno titoli di studio alti. Viceversa, i risultati peggiori sono appannaggio di chi non consegue la scuola dell’obbligo, dei drop-out e anche dei giovani che
sono arrivati al diploma liceale ma non hanno preso la laurea. Il grado di emancipazione
delle nuove generazioni, quindi, appare direttamente proporzionale al livello d’istruzione.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
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Chi studia di più non solo ha tassi di occupazione più alti di chi studia meno, ma ha maggiori possibilità di raggiungere posizioni lavorative migliori rispetto a quelle dei genitori.
Ciò detto, rimane il fatto che la domanda di lavoro qualificato da parte delle imprese
non assorbe, nel nostro paese, la corrispettiva offerta. Per questo i rendimenti salariali dell’istruzione – come illustra Andrea Ricci nel suo contributo – sono in rallentamento. Il punto è comprendere le cause di questo fenomeno, per poterlo affrontare nel modo più adeguato. Innanzitutto, non ci troviamo di fronte a un eccessivo numero di laureati in senso
assoluto bensì a un mismatch tra il livello delle competenze delle persone e le mansioni richieste dal sistema produttivo. Evidentemente il problema ha una natura composita, riguardando il lato della domanda e quello dell’offerta, le modalità di intermediazione tra
l’una e l’altra, le prassi di gestione del personale nelle imprese.
Poiché i rendimenti salariali dell’istruzione risultano stabili per le lauree scientifiche, si
profila la possibilità che un sistema educativo tradizionalmente incentrato sugli studi
umanistici abbia un qualche impatto sullo scollamento tra domanda e offerta di lavoro
qualificato. Va aggiunto che il prevalere di logiche basate sull’anzianità favorisce progressioni in carriera che rischiano di andare a discapito dei più meritevoli sotto il profilo delle
competenze, caratteristica quest’ultima che non di rado appartiene alle fasce giovanili
della forza lavoro. L’intermediazione informale – che di fatto determina la trasmissione
dell’occupazione per appartenenza familiare – riduce anch’essa il ruolo degli apprendimenti nelle performance inerenti la mobilità ascensionale.
Sul lato della domanda si fa spesso riferimento alla debolezza strutturale della richiesta di lavoro qualificato, connessa a fattori quali il peso dei settori non innovativi o la piccola dimensione delle imprese italiane. Da questo punto di vista, particolarmente fecondi
appaiono gli interventi volti a creare network di aziende per raggiungere la «massa critica»
necessaria ad attivare processi di innovazione. Non a caso risulta in continua crescita il
settore dei servizi alle imprese.
È quel che emerge anche dall’indagine presentata da Barricelli, Premutico e Richini sugli strumenti di supporto allo sviluppo delle competenze dei titolari di microimprese. Si rileva, infatti, una marcata esigenza di dar vita a reti locali che rompano il senso di «isolamento» avvertito dagli imprenditori e stimolino l’azione congiunta dei diversi stakeholders
attivi su uno stesso territorio. Tra le possibili modalità di sostegno della formazione che gli
intervistati ritengono molto utili viene indicata – subito dopo la richiesta di agevolazioni fiscali e crediti di imposta – la disponibilità di aiuti per partecipare a percorsi condivisi con
altre aziende. Si delinea, inoltre, l’esigenza di una conduzione formativa diversa dalla tradizionale didattica d’aula. Circa un terzo dei titolari di microimprese dedica almeno un’ora al
giorno al proprio aggiornamento professionale ma ciò avviene prevalentemente attraverso
modalità incentrate su Internet, riviste di settore, fiere e convegni, scambi di esperienze.
Altro filo conduttore con cui leggere questo numero dell’Osservatorio, nella sua nuova
veste editoriale, è la dimensione delle politiche attive del lavoro. Sebastiano Fadda analizza nel dettaglio le molteplici funzioni del lavoro in somministrazione, soffermandosi in ultimo sui prerequisiti indispensabili per sfruttarne le notevoli potenzialità. Primo fra tutti il
livello di «capacità istituzionali», che vuol dire adeguate competenze professionali degli
operatori, coinvolgimento delle parti sociali, un’efficace governance capace di integrare
fra loro i diversi soggetti titolari di interventi sul mercato del lavoro. Sullo sfondo riman10
Editoriale
gono i principi della flexicurity, delineati a livello comunitario e ormai parte integrante
della Europe 2020 Strategy.
Con un occhio altrettanto attento al livello europeo Francesca Bergamante affronta il
tema della conciliazione, su cui lo scorso marzo il Ministero del Lavoro ha raggiunto un’intesa con le parti sociali. Lo sviluppo di politiche family-friendly è essenziale per sostenere
l’occupabilità delle donne. L’articolo si incardina sulle questioni della flessibilità oraria, del
part time e del telelavoro. Un dato su tutti: l’Italia e la Spagna sono gli unici due paesi in
cui non si è verificata una flessione della rigidità oraria nell’ultimo decennio.
Infine, il contributo di Cristiana Ranieri sull’impresa sociale, come vettore di processi di
sussidiarietà operativa, e due saggi sull’immigrazione, negli ultimi mesi oggetto di un forte interessamento mediatico. Il primo, a firma di Francesco Carchedi, offre una disamina
sul fenomeno di autodeterminazione dell’identità professionale dei lavoratori immigrati e
delle scelte che operano nell’adeguamento delle competenze possedute, in relazione con le
necessità espresse dal mercato del lavoro italiano. Il secondo, a cura di Giuliano, Tenaglia
e Testana, è focalizzato sull’accesso dei cittadini immigrati ai servizi territoriali, descrivendo l’evoluzione delle strategie di integrazione promosse sui territori.
Sergio Trevisanato
Osservatorio Isfol n. 2/2011
11
LABORATORIO
s.m. dal lat. mediev. laboratorium, der. di laborare «lavorare»
Locale o edificio fornito di apposite installazioni
e apparecchi per esperienze […] o, in genere, per studi,
ricerche ed esperimenti tecnici o scientifici (LUI, vol. XI)
Problemi e prospettive
dell’apprendistato
Alla vigilia di una nuova riforma
di Michele Tiraboschi
Riassunto: la necessità e il significato di una nuova riforma dell’apprendistato, secondo le
linee di indirizzo contenute nella delega del cosiddetto «collegato lavoro», rispondono al
fatto che ancora oggi in Italia questo istituto, decisivo per le prospettive occupazionali dei
giovani e la qualità del lavoro, sia poco e male utilizzato. Da un lato, solo una delle tre tipologie contrattuali previste dalla legge Biagi, e cioè l’apprendistato professionalizzante, è
pienamente operativa, mentre l’apprendistato per l’esercizio del diritto-dovere di istruzione e formazione e l’apprendistato di alta formazione stentano a decollare. Dall’altro lato,
l’apprendistato è concepito e utilizzato come un semplice contratto di lavoro «flessibile»,
in cui la parte della formazione è del tutto accessoria e secondaria alla relazione lavorativa. Benché il legislatore stia tentando, da quasi quindici anni, di valorizzarne la valenza
educativa e formativa, esso continua a essere utilizzato come uno strumento per reclutare
giovane forza lavoro a basso costo, anche in virtù dei generosi incentivi economici e normativi previsti dalla legge. Si comprende così l'importanza di un progetto di riforma, come
quello approvato dal Consiglio dei Ministri del 5 maggio 2010, che tuttavia, per poter realizzare i condivisibili obiettivi che si propone, dovrà ora ottenere un consenso non facile e
non scontato dagli attori regionali e dalle parti sociali.
Parole chiave: Contratto di apprendistato; Incontro domanda-offerta di formazione; Inserimento lavorativo
Posizione del problema
Con l’articolo 1, comma 30, lettera c), della legge n. 247 del 2007 il Parlamento affidava al
governo la possibilità di legiferare, previa intesa con le Regioni e le parti sociali, sui temi
della formazione e dell’apprendistato. In virtù di tale delega, riattivata dalla recente legge
n. 183 del 2010, il governo si appresta a varare una riforma dell’apprendistato, anche alla
Osservatorio Isfol n. 2/2011
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luce della volontà di rilanciare l’istituto, espressa dalle Regioni e dalle parti sociali, oltre
che dallo stesso governo, nell’intesa siglata il 27 ottobre 20101.
La necessità e il significato di una nuova riforma dell’apprendistato rispondono al fatto che ancora oggi in Italia questa fattispecie sia utilizzata poco e male: da un lato, solo
una delle tre tipologie contrattuali previste dalla legge Biagi, e cioè l’apprendistato professionalizzante, è pienamente operativa, mentre l’apprendistato per l’esercizio del dirittodovere di istruzione e formazione e l’apprendistato di alta formazione stentano a decollare. Dall’altro lato, l’apprendistato è concepito e utilizzato come un semplice contratto di
lavoro, in cui la parte della formazione è del tutto accessoria e secondaria alla relazione lavorativa. Benché il legislatore stia tentando, da quasi quindici anni, di valorizzare la valenza educativa e formativa dell’apprendistato2, esso continua a essere utilizzato come uno
strumento per reclutare giovane forza lavoro a basso costo, anche in virtù dei generosi incentivi economici e normativi previsti dalla legge.
Con l’ormai prossima riforma il governo è chiamato a dare certezze sul complesso intreccio normativo che si è stratificato negli anni, a livello di legislazione nazionale, discipline regionali, normative contenute nei contratti collettivi di riferimento, ma anche pronunce della Corte costituzionale e della giurisprudenza in generale; complessità normativa
e incerto riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni che sono persino richiamati dall’intesa del 27 ottobre 2010 per il rilancio dell’apprendistato. L’intervento legislativo dovrà
poi affrontare, tra gli altri, il tema degli incentivi economici e normativi, individuando target specifici di popolazione, e privilegiando, come già indicato dalle recenti leggi in materia di bilancio dello Stato, le tipologie di apprendistato sostanzialmente non operative, ossia quella per i minorenni, dai 15 ai 18 anni, e quella per l’alta formazione. Sul primo fronte, solo Lombardia, Veneto e Provincia di Bolzano hanno provveduto a sottoscrivere le necessarie intese con il Ministero del Lavoro e il Ministero dell’Istruzione, al fine di implementare la norma contenuta nell’articolo 48 del decreto legislativo n. 276 del 20033. L’apprendistato alto resta invece sconosciuto nelle regioni meridionali mentre è stato disciplinato in modo completo in molte regioni del Nord. Le regioni del Centro hanno invece approvato una regolamentazione incompleta o comunque non operativa.
Alla luce di un quadro normativo così frammentato, e preso atto della lacunosa iniziativa delle regioni nel mettere a regime un sistema operativo di formazione professionale
per gli apprendisti, il legislatore del 2008 era intervenuto con il decreto legge n. 112 ispirandosi al principio di sussidiarietà e alla necessità di valorizzare e rafforzare il ruolo della
contrattazione collettiva e l’autonomia delle parti, per un decollo dell’apprendistato. In
questa prospettiva si può leggere l’introduzione del comma 5-ter dell’articolo 49 e la modifica all’articolo 50 del decreto legislativo n. 276 del 2003 (vedi infra nel testo).
Oggi una nuova riforma dell’apprendistato non può che tornare a ispirarsi a quegli
1 Per un approfondimento di dettaglio, si veda
L. Rustico, M. Tiraboschi, Apprendistato: intesa tra
governo, Regioni e parti sociali, «Guida al lavoro»,
n. 43, «Il Sole 24 Ore», 5 novembre 2010.
2 Per la ricostruzione dell’attuale disciplina
delle diverse tipologie di apprendistato vedi D. Pa-
16
Problemi e prospettive dell’apprendistato
pa, Il contratto di apprendistato. Contributo alla
ricostruzione giuridica della fattispecie, Giuffrè,
Milano, 2010 (Collana Adapt - Centro Studi Marco
Biagi, 1).
3 Si vedano le intese richiamate in <www.fareapprendistato.it>.
stessi principi, anche in forza di quanto previsto dalla lettera della stessa delega: ai sensi
della lettera a), comma 33, dell’articolo 1 della già citata legge n. 247 del 2007, tra i principi e i criteri direttivi a cui il governo si sarebbe dovuto attenere, il primo è quello del
«rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva nel quadro del perfezionamento
della disciplina legale della materia». In altre parole, la delega del governo Prodi valorizzava le dinamiche intersindacali, nella logica di un sistema di produzione del diritto di fonte
eteronoma, per adeguare cioè la regolamentazione delle materie in esame alle esigenze
del mercato del lavoro, e in particolare della categoria. Tanto più in un campo, come quello della formazione dei lavoratori, delle professionalità e dei mestieri, che si caratterizza
per l’importanza di valorizzare le persone, in relazione ai peculiari contesti produttivi e
territoriali.
Tra gli altri principi e criteri direttivi, la lettera b) del comma 33 del citato articolo 1 introduce un altro tema, quello degli standard, oggi centrale per il nostro sistema nazionale
di formazione iniziale e continua, nell’ottica dell’apprendimento permanente.
Il governo, nell’intervenire sul disegno legislativo dell’apprendistato, dovrà quindi tenere conto della necessità di individuare «standard nazionali di qualità della formazione in
materia di profili professionali e percorsi formativi, certificazione delle competenze, validazione dei progetti formativi individuali e riconoscimento delle capacità formative delle
imprese, anche al fine di agevolare la mobilità territoriale degli apprendisti mediante l’individuazione di requisiti minimi per l’erogazione della formazione formale». Il tema degli
standard è stato oggetto di attuale riflessione e dibattito a livello istituzionale con la recente ripresa, nel 2010, del «Tavolo Unico per la costruzione del sistema nazionale di standard minimi professionali, standard formativi e riconoscimento e certificazione degli standard», avviato nel lontano 2000, formalizzato nel 2006 e rimasto attivo per un biennio, fino al 2008, senza produrre alcun risultato operativo. Il tema è centrale, non solo in quanto oggetto di impegni presi dall’Italia in sede comunitaria, nell’ambito del processo di cooperazione europea in materia di istruzione e formazione, ma anche perché, a livello nazionale, intercetta il nodo strategico della divisione di competenze sui temi della formazione
e del lavoro e porta a una riflessione, già ricordata, sul ruolo della contrattazione collettiva e delle relazioni industriali in materia di formazione. Come precisato dalla stessa legge
n. 247 del 2007, il governo è chiamato a individuare degli standard di qualità della formazione in materia di:
•
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•
profili professionali, ossia l’esito del processo formativo, il mestiere;
percorsi formativi, cioè quanto attiene alla parte didattica e alla relativa metodologia;
certificazione delle competenze, maturate in tutti i contesti;
validazione dei progetti formativi individuali;
riconoscimento delle capacità formative delle imprese, da valorizzare come sedi formative.
La ratio della norma in esame è esplicitata con riferimento alla necessità di facilitare la
mobilità degli apprendisti, anche grazie a un titolo con valore pubblico, riconosciuto sul
territorio nazionale e anche in ambito europeo. A questo fine, secondo il legislatore del
2007, l’individuazione di requisiti minimi per l’erogazione della formazione formale avrebOsservatorio Isfol n. 2/2011
17
be potuto garantire l’offerta a tutti i giovani di una formazione vera, certificabile, di qualità. Questo passaggio tuttavia rivela una particolare confusione, che ha peraltro caratterizzato tutto lo sviluppo del dibattito istituzionale su questi temi, portando a sovrapporre
le competenze del sistema di istruzione e formazione, riconducibili ad esempio al rilascio
di un titolo di studio con valore pubblico, con quelle del mercato del lavoro, relative alla
contrattazione collettiva e alla sua competenza nel regolare i profili professionali ai fini
dell’inquadramento e della classificazione del personale disegnando così non solo i percorsi di carriera e i trattamenti retributivi dei lavoratori ma anche, più in generale, gli stessi
modelli organizzativi di impresa a livello settoriale e merceologico.
Standard professionali e standard formativi
Il percorso istituzionale e il dibattito sul tema degli standard iniziarono ben oltre un decennio fa, in ragione della necessità di individuare criteri e metodi per garantire condizioni di eguaglianza su tutto il territorio nazionale, con riferimento al rilascio di qualifiche
professionali, ossia titoli di studio del sistema di istruzione e formazione professionale.
Numerosi accordi furono firmati sia in sede di Conferenza Stato-Regioni che di Conferenza unificata, in materia di standard formativi e di certificazione delle competenze. Il 18
febbraio 2000 venne firmato il primo accordo Stato-Regioni avente a oggetto «l’individuazione degli standard minimi delle qualifiche professionali e dei criteri formativi e per l’accreditamento delle strutture della formazione professionale». Seguì l’accordo in Conferenza unificata del 19 giugno 2003 per la realizzazione nell’anno scolastico 2003-2004 di
«un’offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale nelle more
dell’emanazione dei decreti legislativi di cui alla legge 28 marzo 2003, n. 53, qualifiche
professionali».
Nello stesso anno, l’art. 52 del decreto legislativo n. 276 del 2003 introdusse quello che
ancora oggi è l’unico precetto normativo relativo al tema in oggetto, istituendo presso il
Ministero del Lavoro il repertorio delle qualifiche professionali «predisposto da un apposito organismo tecnico di cui fanno parte il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca, le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e i rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni». Il repertorio
delle qualifiche professionali trovava invero spiegazione, nella legge Biagi, alla luce del
precedente articolo 51 «Crediti formativi», dove si prevedeva, al comma 1, che «la qualifica
professionale conseguita attraverso il contratto di apprendistato costituisce credito formativo per il proseguimento nei percorsi di istruzione e di istruzione e formazione professionale» e, al comma 2, che «entro dodici mesi dalla entrata in vigore del presente decreto,
il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca, e previa intesa con le regioni e le province autonome definisce le modalità di riconoscimento dei crediti di cui al comma che precede, nel rispetto
delle competenze delle regioni e province autonome e di quanto stabilito nell’accordo in
Conferenza unificata Stato-regioni-autonomie locali del 18 febbraio 2000 e nel decreto
del Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale del 31 maggio 2001». La lettera della legge faceva esplicito riferimento alla necessità di legare le qualificazioni professionali del
18
Problemi e prospettive dell’apprendistato
mercato del lavoro con i titoli di studio del sistema educativo di istruzione e formazione4
senza tuttavia confondere i due piani che sono e restano almeno concettualmente distinti
(e cioè standard professionali da un lato, standard formativi dall’altro lato).
Recependo la necessità di attuare il «partenariato istituzionale per la definizione degli
standard formativi minimi, a partire da quelli relativi alle competenze di base, al fine di
consentire il riconoscimento a livello nazionale dei crediti, delle certificazioni e dei titoli,
compresi i crediti acquisiti in apprendistato, anche ai fini dei passaggi dai percorsi formativi ai percorsi scolastici e viceversa, nonché per la definizione delle procedure relative alla determinazione e all’integrazione delle risorse, al monitoraggio e alla valutazione», di
cui all’accordo 2003, la Conferenza Stato-Regioni siglò l’accordo del 15 gennaio 2004. A
ciò seguì l’accordo firmato in Conferenza unificata il 28 ottobre 2004 per la certificazione
finale e intermedia e il riconoscimento dei crediti formativi.
Questo ricco percorso era integralmente rivolto alla necessità di individuare standard
che garantissero il diritto dei cittadini a vedersi rilasciati dei titoli di studio pubblici di livello regionale, con valenza e uguale qualità su tutto il territorio nazionale. Su un altro
piano si è sempre posta, invece, la questione delle qualificazioni contrattuali, dei profili
professionali e della definizione da parte dei contratti collettivi dei sistemi di classificazione e inquadramento professionale. Come a dire che, seppur nell’ottica dell’integrazione tra
i due sistemi, sia necessario tenere distinto il caso di un percorso professionale in apprendistato che conduca al rilascio di un titolo di studio, come è quello dell’apprendistato per
l’esercizio del diritto-dovere di istruzione e formazione e dell’apprendistato di alta formazione, e un percorso di apprendistato che conduca al riconoscimento di una qualificazione
ai (soli) fini contrattuali (inquadramento e relativo trattamento economico). In linea di
principio, nella prima ipotesi il controllo pubblico è d’obbligo, in quanto è un diritto individuale del cittadino vedersi riconosciuti i titoli di studio su tutto il territorio nazionale. Nel
secondo caso, invece, là dove si faccia riferimento all’organizzazione del mercato del lavoro, alle professionalità, ai mestieri, ai processi produttivi, è più opportuno demandare la responsabilità di un intervento classificatorio all’autonomia delle parti.
Eppure nel 2006 l’avvio di un «Tavolo Unico per la costruzione del sistema nazionale di
standard minimi professionali, standard formativi e riconoscimento e certificazione degli
standard», pur avendo il merito di cercare di integrare le materie, nell’ottica di un sistema
di apprendimento permanente, segnò una sostanziale inversione di rotta rispetto alla direzione intrapresa nel 2000 in Conferenza Stato-Regioni di tenere distinte le diverse tipologie di standard, mischiando piuttosto competenze e piani di ragionamento, come è eviden4
Ciò è stato riconosciuto anche dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 176 del 10/14
maggio 2010, là dove richiama il diritto individuale soggettivo dell’apprendista di vedersi riconosciuti i crediti per la formazione svolta durante un
contratto di apprendistato professionalizzante, con
«formazione esclusivamente aziendale». A questo
proposito, vedi M. Tiraboschi, L’apprendistato professionalizzante dopo la sentenza n. 176/2010 della Consulta, «Guida al Lavoro», n. 23, «Il Sole 24
Ore», 4 giugno 2010. Documentazione al riguardo
anche in E. Bellezza, M.T. Cortese, L. Rustico (a cura di), L’apprendistato dopo la sentenza della Corte
costituzionale n. 176 del 2010, «Bollettino Speciale Adapt», n. 21, 15 giugno 2010, <www.adapt.it>;
E. Carminati, L. Rustico (a cura di), L’apprendistato
dopo l’intervento della Corte costituzionale: una
sentenza che non fa chiarezza, «Bollettino Speciale Adapt», n. 18, maggio 2010, <www.adapt.it>.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
19
te dal nome stesso del Tavolo. Il Tavolo incaricò ISFOL e tecnostruttura delle Regioni di rappresentare lo stato dell’arte in materia di standard, sia delle prassi sia della produzione
normativa e regolamentare, e di avviare una sperimentazione per la produzione di standard professionali nell’ambito dei settori del metalmeccanico e del turismo. La sperimentazione fu ripresa nel 2010 con il fine di definire gli standard professionali nelle aree della
chimica, delle produzioni alimentari e del TAC sistema moda.
Nello stesso anno, tuttavia, il senso di marcia fu riportato nella direzione ante 2006,
quando le Regioni, tutte le parti sociali e il governo firmarono un’intesa contenente le Linee guida per la formazione nel 20105, un accordo che detta i principi, i criteri e le direzioni in cui lavorare nel campo della formazione in vista dell’uscita dalla crisi.
Le linee guida riportano chiarezza nella discussione su standard e apprendistato, separando il tema degli standard professionali da quello degli standard di certificazione pur
nella ottica di un loro inevitabile raccordo.
Nella premessa dell’intesa del febbraio 2010 «le parti si impegnano a convergere entro
il primo semestre del 2011, in una ottica di innalzamento della qualità della offerta formativa e nella prospettiva del necessario raccordo con il sistema dei servizi pubblici e degli altri servizi competenti al lavoro di cui al decreto legislativo n. 181/2000, verso un sistema
nazionale di standard professionali a conclusione del tavolo nazionale a ciò dedicato e di
certificazione delle competenze». In questo passaggio è chiaro che gli standard professionali si riferiscono alla competenza degli attori del mercato del lavoro, visto ad esempio il
riferimento ai servizi competenti al lavoro di cui al decreto legislativo n. 181 del 2000 e alla prospettiva di placement. Al quinto punto delle linee guida, invece, l’intesa prevede la
«definizione, a partire dalle esperienze già presenti a livello regionale, in via sperimentale
per il 2010, di un sistema di accreditamento su base regionale e secondo standard omogenei condivisi a livello nazionale di ‘valutatori/certificatori’ valorizzando il ruolo delle parti
sociali e dei loro organismi bilaterali». L’intesa qui fa riferimento alla necessità di definire
degli standard per la certificazione di competenze acquisite in qualsiasi contesto di apprendimento, formale, non formale o informale, compresa la formazione sul lavoro, da registrarsi sul Libretto Formativo, introdotto dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 276/
2003. Le parti firmatarie concordano cioè sulla necessità di garantire un sistema che permetta di riconoscere, valutare e certificare «le effettive competenze dei lavoratori comunque acquisite, in modo da rafforzare la trasparenza e la migliore informazione nel mercato
del lavoro, da accrescere la capacità di offerta sul mercato del lavoro, da migliorare l’incontro tra domanda e offerta e da stimolare la ricerca delle più utili attività formative».
Standard e riforma dell’apprendistato
Avendo in mente questi presupposti e la necessità di fare chiarezza nel sistema, il legislatore della prossima riforma dovrà intervenire sull’apprendistato, anche con riferimento al
5 Cfr. l’intesa del 17 febbraio 2010 tra governo, Regioni e parti sociali rilanciata dalla successiva intesa del 20 aprile 2011 tra governo e Regioni
20
Problemi e prospettive dell’apprendistato
che estende la validità dell’accordo dal 2010 fino
al 2012 (entrambe le intese sono reperibili in
<www.fareapprendistato.it>).
tema degli standard, possibilmente tendendo separate le varie tipologie: professionali, formativi e di certificazione, là dove i primi sarebbero materia della contrattazione collettiva,
i secondi e i terzi sarebbero oggetto di disciplina da parte del soggetto pubblico regionale.
Sempre nel 2010, alle linee guida fece seguito l’intesa del 27 ottobre per il rilancio dell’apprendistato, che pure richiama la necessità di chiarire il riparto di competenze tra Stato
e Regioni in materia di formazione per l’apprendistato. Le parti, al fine di dare nuovo impulso all’occupazione giovanile e immediata certezza a lavoratori e imprese relativamente al
quadro giuridico di riferimento, aprono una fase di transizione di dodici mesi, in attesa della definizione di una revisione e di un definitivo chiarimento della normativa vigente. L’intesa definisce un quadro normativo transitorio per l’apprendistato professionalizzante, confermando l’«operatività dell’apprendistato professionalizzante, come disposto dai commi 5 e
5 bis dell’articolo 49 del decreto legislativo n. 276 del 2003, con particolare riferimento alla
funzione surrogatoria dei contratti collettivi nazionali di lavoro e degli accordi interconfederali là dove la Regione non abbia regolamentato la materia d’intesa con le associazioni dei
datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano regionale». Le parti concordano altresì «di confermare, per le ipotesi di cui al comma 5 ter dell’articolo 49 del decreto legislativo n. 276 del 2003, in materia di formazione esclusivamente
aziendale, e alla luce della sentenza n. 176 del 2010 della Corte costituzionale, le previsioni
contenute nei contratti collettivi e negli accordi interconfederali che hanno disciplinato
l’apprendistato professionalizzante anche in applicazione di detto comma, che rimangono
valide per le Regioni che non hanno già provveduto a definire compiutamente la normativa
ai sensi dell’articolo 49, commi 5 e 5 ter, del citato decreto legislativo n. 276 del 2003».
Se questo sarà il quadro normativo vigente nel periodo di transizione identificato dalle
parti, la nuova riforma dovrà ispirarsi ai principi contenuti nella delega del 2007 che «con
riferimento all’apprendistato professionalizzante» disponeva che il governo provvedesse
all’«individuazione di meccanismi in grado di garantire la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e l’attuazione uniforme e immediata su tutto il territorio nazionale
della relativa disciplina» (lettera c) del comma 33 articolo 1 della legge n. 247 del 2007). Si
richiedeva cioè di garantire a tutti uguali diritti (attraverso la determinazione di livelli essenziali delle prestazioni), e che la disciplina forse attuata in modo uniforme e immediatamente su tutto il territorio nazionale, cosa che non può certo provenire dal collage di diverse discipline regionali, bensì dai contratti collettivi nazionali.
Infine, la lettera d) del comma 33 dell’articolo in esame prevedeva l’adozione di misure
volte ad assicurare il corretto utilizzo dei contratti di apprendistato, spesso, invece, scelto
dalle imprese soltanto per i vantaggi normativi ed economici che la legge prevede. Tale necessità si comprende, peraltro, osservando lo stato dell’arte sull’utilizzo dell’apprendistato
in Italia fotografato dai preziosi rapporti di monitoraggio a cura dell’ISFOL.
Il significato di una nuova riforma
La volontà di rilanciare l’apprendistato poggia sulla diffusa consapevolezza della condizione di incertezza e spiazzamento in cui si trovano i giovani italiani, in seguito a scelte educative e formative spesso inconsapevoli, disorientate, viziate da false rappresentazioni del
Osservatorio Isfol n. 2/2011
21
mercato del lavoro, disallineate rispetto alle sue tendenze. Pochi semplici dati rendono
l’idea dell’inadeguatezza e del ritardo dei giovani italiani rispetto ai coetanei di altri paesi:
in media, in Italia l’età del primo impiego è 22 anni, contro i 16,7 anni dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi. In media, in Italia, pochi giovani lavorano durante il percorso
scolastico: meno di 1 su 5 al Nord e al Centro (rispettivamente il 19,6% e il 17,5%) e solo il
9,2% nel Mezzogiorno. La maggior parte dei giovani (il 65,8%) si iscrive all’università, laureandosi poi con grave ritardo, in media a 27-28 anni, facendo così crollare i tassi di attività dei giovani italiani rispetto ai coetanei europei. Peraltro, l’OCSE stima che nel nostro paese circa il 24% dei giovani tra i 14 e i 29 anni non è ufficialmente né occupato, né coinvolto in percorsi di istruzione e formazione, facendo registrare una media del 13% di giovani
«né-né» che è pari al 5,4% della popolazione dei ragazzi in età del diritto-dovere di istruzione e formazione. Se osserviamo le carriere scolastiche, emerge un altro preoccupante problema, di cui poco si parla, e cioè quello del disadattamento scolastico, che porta un ragazzo su cinque in Italia ad abbandonare la scuola, contro una media europea del 15% circa6.
La grave situazione sin qui descritta è causa del fenomeno del cosiddetto disallineamento tra domanda e offerta di competenze: in uscita dai percorsi scolastici e universitari, i giovani si presentano sul mercato del lavoro con competenze di scarso rilievo, e comunque già obsolete per il mercato del lavoro, proprio perché sviluppate in contesti lontani dall’esperienza reale del mondo produttivo, poco caratterizzati da incontro, alternanza,
contaminazione e integrazione tra attività di formazione e lavoro.
In Italia questo modo di concepire la separazione tra mondo dell’istruzione e formazione e mercato del lavoro è senz’altro, almeno in parte, retaggio del noto pregiudizio culturale che vuole che chi studia non lavori e che chi lavora non studi. Questo fenomeno potrebbe concorrere a spiegare la condizione di disagio dei giovani nel mercato del lavoro e
la loro difficoltà a inserirsi in percorsi lavorativi qualificanti e con buone prospettive occupazionali e di crescita professionale, nonché il parallelo rischio di restare imprigionati, anche per anni, nel limbo di stage reiterati o lavori occasionali, saltuari e, cosa ben più grave, privi di qualsiasi contenuto formativo.
Rispetto ai problemi richiamati, i paesi più virtuosi in Europa – Olanda, Germania, Finlandia, Danimarca – sono gli stessi che da anni adottano sistemi educativi e formativi basati sull’alternanza scuola/lavoro e che offrono ai loro giovani percorsi differenziati non
solo nei contenuti, ma anche nelle metodologie didattiche, nella progettazione della formazione e nella scelta delle sedi ad essa deputate, sempre più legate al lavoro e alle imprese, a tutte le età. L’apprendistato è lo strumento che, in questi e altri paesi, sintetizza virtuosamente formazione e lavoro, donando preziose occasioni di sviluppo delle competenze, a partire da quella, sempre più importante, di apprendere ad apprendere: una premessa
alla sfida dell’«occupabilità» delle persone, lungo tutto l’arco della vita.
Alla luce di questo complesso scenario si può meglio comprendere la volontà degli attori sociali italiani, confermata anche in un anno di crisi come il 2010, di riconoscere nell’apprendistato un’occasione educativa e formativa per molti giovani, e di rilanciarlo qua-
6
Ampia documentazione in <www.adapt.it>,
Indice A-Z, voce Istruzione, formazione, lavoro, e in
22
Problemi e prospettive dell’apprendistato
Osservatorio Adapt su Istruzione, formazione, lavoro.
le prezioso strumento, antico e allo stesso tempo moderno, che, integrando formazione e
lavoro, insegni ai giovani un mestiere e li accompagni nel delicato e spesso turbolento percorso di ingresso nel mondo del lavoro.
È questo uno dei messaggi di Italia 2020: piano d’azione per l’occupabilità dei giovani
attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro7, il documento programmatico firmato il 23 settembre 2009 dai ministri Sacconi e Gelmini, in cui si affermava che «lungi dall’essere un ‘semplice’ contratto di lavoro, l’apprendistato rappresenta in effetti un innovativo strumento di placement, fondato sulla integrazione tra sistema educativo e formativo
e mercato del lavoro, che supera la vecchia, quanto artificiosa distinzione tra formazione
‘interna’ e formazione ‘esterna’ all’impresa e consente ai giovani un rapido e stabile ingresso nel mondo del lavoro». Sempre meno, infatti, si parla di «contratto di apprendistato», per
far spazio alla parola «apprendistato», nome che rappresenta uno strumento ricco di storia,
tradizione e promesse per il futuro delle relazioni di lavoro.
Un preciso impegno a collaborare per il rilancio dell’apprendistato è stato poi formalizzato nelle già citate «Linee guida per la formazione nel 2010», che richiamavano l’apprendistato «in una logica di placement, volta cioè ad ottimizzare un incontro dinamico e flessibile tra la domanda e l’offerta di lavoro e a rendere più efficiente il raccordo e, là dove
opportuna, l’integrazione tra il sistema educativo di istruzione e formazione e il mercato
del lavoro, in modo da rispondere alla domanda di competenze da parte dei settori e dei
territori in cui le imprese operano»8.
Infine, lo storico e già più volte citato accordo del 27 ottobre 2010, tra governo, Regioni, Province autonome e parti sociali, per il rilancio dell’apprendistato, che, per la prima
volta dopo quasi un decennio, ha visto concordi tutti gli attori interessati alla regolamentazione dell’istituto attraverso un’intesa volta a definire percorsi formativi maggiormente
effettivi e più aderenti a un’idea dell’apprendistato come principale leva di placement nell’incontro dinamico tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Rilanciare tutte e tre tipologie di apprendistato
della riforma Biagi
Nonostante le grandi potenzialità del contratto di apprendistato e la condivisa volontà di
rilanciarlo e valorizzarlo quale leva di placement per l’ingresso dei giovani nel mercato del
lavoro, a distanza di quasi dieci anni dalla riforma Biagi ancora il 30% circa dei contratti
di apprendistato è stipulato secondo la disciplina della legge Treu, operativa in via residua-
7
Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali
e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca, Italia 2020: piano d’azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro, 23 settembre 2009, <www.
adapt.it>, Indice A-Z, voce Istruzione, formazione,
lavoro.
8
Intesa tra governo, Regioni, Province autonome e parti sociali, Linee guida per la formazione
nel 2010, 17 febbraio 2010, in <www.adapt.it>,
Indice A-Z, voce Istruzione, formazione, lavoro. Per
un commento vedi E. Bellezza, L. Rustico, Formazione nel 2010: ecco le linee guida dell’Italia, «Bollettino Speciale Adapt», n. 6, 18 febbraio 2010,
<www.adapt.it>.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
23
le in attesa della piena attuazione della riforma medesima. L’XI Rapporto di monitoraggio
ISFOL rileva infatti che gli apprendisti assunti nel 2009 ai sensi del d.lgs. n. 276/2003 – in
particolare in apprendistato professionalizzante ex art. 49 – sono il 72,2% del totale, seppur con un significativo aumento di ben 10 punti percentuali rispetto all’anno precedente,
Figura 1. Rappresentazione del differenziale tra contratti di apprendistato
professionalizzante ed ex l. n. 196/1997 dal 2007 al 2009 per macroarea geografica
100
80
60
40
20
0
-20
-40
Gen 2007
Lug 2007
Nord-ovest
Dic 2007
Gen 2008
Nord-est
Lug 2008
Centro
Dic 2008
Gen 2009
Sud e isole
Italia
Lug 2009
Fonte: ISFOL, Monitoraggio sull’apprendistato, XI Rapporto
Tabella 1. Apprendisti occupati nei tre principali comparti (v.a., variazione % rispetto
all’anno precedente e composizione %. Anni 2006–2009)
Comparto
2006
2007
2008
2009*
Artigianato
Industria
Terziario
Totale
220.794
120.900
241.758
583.452
228.753
137.758
268.220
634.731
217.577
145.617
279.685
642.879
187.945
129.687
270.431
588.063
–4,9
+5,7
+4,3
+1,3
–13,6
–10,9
–3,3
–8,5
Incremento % su anno precedente
Artigianato
Industria
Terziario
Totale
–1,2
+5,1
+8,1
+3,8
+3,6
+13,9
+10,9
+8,8
* Dato provvisorio
Fonte: ISFOL, Monitoraggio sull’apprendistato, XI Rapporto
24
Problemi e prospettive dell’apprendistato
il 2008, quando solo il 62,3% degli apprendisti risultava assunto ex art. 49, contro il 37,7%
assunto in base alla normativa del Pacchetto Treu. L’XI Rapporto di monitoraggio ISFOL chiarisce inoltre che il passaggio dalla vecchia alla «nuova» disciplina pare essere più rapido
nelle regioni del Centro Italia, allineato alla media nazionale al Nord, più lento al Sud.
Una delle ragioni di tale ritardo nell’attuazione della riforma Biagi, oltre a quelle già individuate in apertura, risiede certamente nel mancato o parziale recepimento della disciplina ad opera di alcuni contratti collettivi nazionali di lavoro, in particolare del settore artigiano, ove il 60% degli apprendisti è assunto ancora ex l. n. 196/1997, percentuale che
crolla al 13,8% nell’industria e al 12,8% nel terziario.
L’apprendistato per l’esercizio del diritto-dovere
di istruzione e formazione
L’apprendistato per l’esercizio del diritto-dovere di istruzione e formazione, se da un lato è
certamente uno degli istituti più innovativi introdotti dalla riforma Biagi, dall’altro è stato
anche uno dei più sfortunati, paralizzato, almeno fino a pochi mesi fa, dall’inerzia delle Regioni9. Pensato per offrire ai giovanissimi una valida alternativa rispetto al tradizionale canale di istruzione e formazione scolastica, questo contratto consente ai giovanissimi – ragazzi tra i 15 e i 18 anni – di conseguire una qualifica professionale triennale tramite un
percorso che valorizza la capacità educativa e formativa del lavoro, in dialogo con la scuola. Nella logica della riforma Biagi, l’apprendistato di primo livello è uno strumento volto
ad accompagnare la crescita personale e professionale dei minori che scelgono di abbandonare la scuola e, per contro, di non lavorare: sono in Italia circa 126.000, il 5,4% del totale della popolazione di riferimento, i giovanissimi tra i 14 e i 17 anni che non sono inseriti in nessun percorso di istruzione e formazione, né lavorano regolarmente10. L’apprendistato-scuola ha anche l’obiettivo di rispondere al disagio di quei ragazzi che, pur restando
tra i banchi, non trovano nei paradigmi educativi della scuola italiana concrete e positive
risposte, o anche solo una guida, per sviluppare un percorso formativo coerente rispetto ai
propri talenti e ai futuri sbocchi occupazionali.
Dopo anni di inerzia da parte di tutte le Regioni, solo la Lombardia11, a settembre del
2010, e il Veneto12, nel marzo 2011, hanno concluso le apposite intese, necessarie per l’at9 È disciplinato dall’art. 48, d.lgs. n. 276/2003.
Per un’analisi critica dell’istituto vedi G. Bertagna,
L’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, «Diritto delle relazioni industriali», n. 4, 2008; S. D’Agostino, L’apprendistato di primo livello: problemi e prospettive,
«Diritto delle relazioni industriali», n. 4, 2008.
10 Sul tema vedi E. Bellezza, L. Rustico (a cura
di), L’esercito dei dispersi: 126 mila ragioni per rilanciare l’apprendistato di primo livello, «Bollettino Speciale Adapt», n. 4, 26 gennaio 2010.
11 Per una ricostruzione del percorso che ha
portato alla firma dell’accordo, cfr. S. Facello, L.
Petruzzo (a cura di), Fare scuola in apprendistato:
nuove opportunità in Lombardia, «Bollettino Speciale Adapt», n. 30, 1° ottobre 2010. Un commento
tecnico in M. Tiraboschi, Lombardia apripista per
l’apprendistato di primo livello, «Guida al lavoro»,
n. 39, «Il Sole 24 Ore», 8 ottobre 2010.
12 Per un approfondimento, E. Carminati, L.
Rustico, Regione Veneto: al via l’apprendistatoscuola, «Guida al Lavoro», n. 16, «Il Sole 24 Ore»,
15 aprile 2011.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
25
tivazione dell’apprendistato «di primo livello», con il Ministero del Lavoro e delle Politiche
sociali e con quello dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, sentite le parti sociali. Le
intese sottoscritte si pongono l’obiettivo primario di mettere in virtuosa comunicazione
due mondi fino ad ora nettamente separati, quello della scuola e quello del lavoro, al fine
di permettere il conseguimento di un titolo triennale secondo una modalità innovativa,
che valorizza l’ambiente di lavoro come luogo formativo. La scuola si fa impresa e l’impresa si fa scuola, come avviene già in molti paesi europei – Danimarca, Germania, Austria,
Svizzera – che sono gli stessi che registrano oggi i più bassi tassi di disoccupazione e di dispersione giovanile; lo stesso avviene, peraltro, da anni nella Provincia autonoma di Bolzano, che ha sviluppato in materia una significativa e positiva esperienza13.
I dati diffusi dall’ultimo monitoraggio ISFOL rivelano una presenza minima di minori tra
gli assunti in apprendistato, pari nel 2008 al 2,8% del totale degli apprendisti, in calo rispetto al 2007, e riconducibile unicamente al modello Treu, stante la totale mancata attuazione – almeno fino al settembre 2010 – dell’art. 48 del d.lgs. n. 276/2003. Spicca positivamente, come anticipato, il dato della Provincia autonoma di Bolzano, unica nel 2008
ad aver attivato il canale del diritto-dovere, con una presenza di minori pari al 36,2% del
totale, sintomo del successo dell’istituto.
Figura 2. Composizione % per classi di età degli apprendisti occupati.
Anni 2007 e 2008
40
35
30
25
20
15
10
5
0
15-17
18-21
22-24
2007
25 e oltre
2008
Fonte: ISFOL, Monitoraggio sull’apprendistato, XI Rapporto
13
Vedi B. Winkler, A. Pietrocarlo (a cura di),
L’apprendistato nella provincia autonoma di Bol-
26
Problemi e prospettive dell’apprendistato
zano, «Bollettino Speciale Adapt», n. 14, 13 aprile
2010, in <www.adapt.it>.
L’apprendistato di alto livello
L’art. 50 del d.lgs. n. 276/2003 disciplina un altro istituto innovativo, l’apprendistato cosiddetto di alto livello, che consente a un giovane, maggiorenne e fino ai 29 anni, di acquisire un titolo di studio di livello secondario o terziario (universitario, di alta formazione, per
la specializzazione tecnica superiore o un dottorato di ricerca), mediante una formazione
che integra la frequenza di corsi presso università o altre istituzioni formative alla presenza e allo svolgimento di attività lavorativa in azienda14.
L’idea di fondo è la medesima che ha ispirato l’introduzione della tipologia in dirittodovere, ossia mettere in comunicazione il mondo del lavoro e quello dell’istruzione, così da
fornire ai giovani non solo contenuti teorici e astratti, ma anche una formazione pratica e
on-the-job. L’obiettivo ulteriore è quello di anticipare l’ingresso dei giovani nel mondo del
lavoro, costruendo percorsi formativi solidi, tali da garantire loro la massima occupabilità
e adattabilità futura. Le aziende hanno infatti la possibilità di indirizzare il percorso formativo dell’apprendista, così da renderlo del tutto corrispondente al profilo professionale
di cui necessitano e che spesso faticano a reperire nel mercato. Nel complesso, l’apprendistato di alto livello, cosiddetto «di terzo tipo», può certamente contribuire a elevare il livello di qualità delle competenze del personale e a investire in giovani talenti, a loro volta fidelizzati rispetto a chi crede in loro e nel loro futuro.
La collaborazione virtuosa e l’interazione tra sistema produttivo e sistema formativo
potrebbero, infine, consentire di superare il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, marcato anche ad alti livelli, sviluppando gradualmente un’offerta formativa moderna,
che miri a far maturare le giuste e nuove competenze per i nuovi lavori.
Anche in questo caso la legge demanda alle Regioni la regolamentazione dei profili formativi e della durata del contratto, d’accordo con le parti sociali, con le università e con le
altre istituzioni formative. Tuttavia, la stessa norma – art. 50 d.lgs. n. 276/2003 – stabilisce che, in caso di assenza di regolamentazione regionale, l’attivazione dell’alto apprendistato sia rimessa ad apposite convenzioni stipulate direttamente tra il singolo datore di lavoro e l’istituzione formativa prescelta, superando così l’ostacolo dell’inerzia delle Regioni.
L’XI Rapporto di monitoraggio ISFOL sottolinea che il ricorso a questa tipologia contrattuale, nonostante le grandi potenzialità e l’immediata applicabilità, è ancora scarso, pur
alla luce della soddisfazione manifestata dalle parti contraenti per i risultati ottenuti nella
sperimentazione che ha portato alla stipula di circa mille contratti in quasi cinque anni.
Numeri, quelli italiani, ancora lontanissimi rispetto a quelli di paesi come la Francia o la
Germania, che hanno da tempo abbattuto la resistenza culturale verso il sistema dell’alternanza scuola/lavoro, valorizzato quale strumento prezioso per la formazione delle persone
in grado di aumentare la crescita e la competitività.
14 Art. 50, d.lgs. n. 276/2003. Per un approfondimento vedi P. De Vita, R. Di Toma, L. Rustico, S.
Spattini (a cura di), L’apprendistato di alta forma-
zione, «Bollettino Speciale Adapt», n. 28, 21 luglio
2010.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
27
L’apprendistato professionalizzante
L’art. 49 del d.lgs. n. 276/2003 disciplina l’apprendistato professionalizzante, il più simile al
precedente modello Treu, che consente ai giovani tra i 18 e i 29 anni di conseguire una
qualificazione professionale ai fini contrattuali, attraverso una formazione sul lavoro e
l’acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali. Il programma formativo del giovane è individuato nel cosiddetto piano formativo individuale, documento
da allegare al contratto, che anticipa e illustra il percorso che il giovane seguirà in coerenza con gli obiettivi professionali e personali da raggiungere.
Come già osservato, l’apprendistato professionalizzante è oggi mediamente il più diffuso, anche se il suo utilizzo è complicato e frenato dal rebus di competenze che il legislatore del 2003 ha ripartito tra Stato, Regioni e parti sociali. Scelta questa necessaria e obbligata alla luce del nuovo riparto definito dalla riforma del titolo V della Costituzione, in virtù del quale compete alle Regioni tutto ciò che afferisce alla materia della formazione, allo Stato ciò che invece riguarda il rapporto di lavoro, senza trascurare la necessità di riconoscere uno spazio di autonomia alle parti sociali.
Il comma 5 dell’art. 49 affida così la regolamentazione dei profili formativi dell’istituto
alle Regioni e alle Province autonome, d’intesa con le associazioni datoriali e sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano regionale, nel rispetto dei criteri e dei
principi direttivi enunciati dalla norma stessa.
Preso atto dell’iniziale – e in molti casi duratura – inerzia della maggior parte delle Regioni, alcune delle quali mai arrivate a emanare la relativa legge di attuazione o intervenute in maniera frammentaria e il più delle volte incompleta, il legislatore nel 2005 – ad opera dell’art. 23, comma 2, d.l.14 marzo 2005, n. 35 – ha in un primo tempo introdotto il
comma 5-bis, il quale autorizza la contrattazione collettiva, in via sussidiaria e cedevole
rispetto alla normativa regionale, a definire i profili formativi.
Un ulteriore ostacolo, tuttavia, all’effettiva attuazione dell’istituto era ed è rappresentato dall’inadeguatezza e dalla carenza dell’offerta formativa pubblica. L’ultimo Rapporto
di monitoraggio ISFOL registra che ancora oggi solo poco più el 26% degli apprendisti riceve una qualche forma di formazione pubblica.
Per questo motivo, il legislatore è intervenuto una seconda volta, nel 2008, introducendo l’ipotesi dell’apprendistato professionalizzante con formazione esclusivamente aziendale, che valorizza la capacità formativa dell’azienda affidando a questa la possibilità di
gestire interamente, al suo interno o all’esterno, la formazione dell’apprendista15. La Corte
costituzionale – con sentenza n. 176 del maggio 2010 – ha tuttavia parzialmente ridimensionato la portata dell’intervento legislativo da ultimo richiamato. In particolare, ha affermato che, anche in caso di formazione esclusivamente aziendale, deve essere riconosciuto
alle Regioni un ruolo rilevante, di stimolo e di controllo dell’attività formativa16.
15
Art. 49, comma 5-ter, d.lgs. n. 276/2003 introdotto dall’art. 23, comma 2, del d.l. 25 giugno
2008, n. 112. Per un approfondimento vedi M. Tiraboschi, Apprendistato professionalizzante: il canale della formazione aziendale, in Id. (a cura di),
28
Problemi e prospettive dell’apprendistato
La riforma del lavoro pubblico e privato e il nuovo
welfare, Giuffrè, Milano, 2008.
16 Vedi M. Tiraboschi, L’apprendistato professionalizzante dopo la sentenza n. 176/2010 della
Consulta, «Guida al Lavoro», n. 23, «Il Sole 24 Ore»,
Tabella 2. Indicatori dell’attività di formazione pubblica per apprendisti realizzata
nell’anno 2008 (v.a. e %)
Regioni
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Prov. Bolzano
Prov. Trento
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud e isole
Italia
Iscritti
% iscritti/
occupati (a)
Apprendisti
che hanno
terminato
% apprendisti
che hanno
terminato
25.070
815
45.282
3.970
4.770
5.230
11.900
3.773
42.310
8.585
2.234
5.261
106
1.555
461
1.600
5.234
378
(c) 935
–
126
46,0
45,8
37,5
81,9
63,4
6,7
91,7
19,6
69,1
15,3
13,2
18,1
0,2
11,9
24,2
6,8
15,8
12,2
11,1
–
1,1
17.016
210
39.085
(b) 1.301
3.968
2.857
(b) 3.279
3.079
28.959
4.663
1.414
3.881
91
1.139
192
1.380
4.794
305
–
–
56
67,9
25,8
86,3
32,8
83,2
54,6
27,6
81,6
68,4
54,3
63,3
73,8
85,8
73,2
41,6
86,3
91,6
80,7
–
–
44,4
74.940
68.180
16.186
10.289
169.595
38,2
41,4
10,0
10,9
26,3
59.390
40.364
10.049
7.866
117.669
79,3
59,2
62,1
76,5
69,4
(a) I dati sull’occupazione sono quelli dell’INPS (media 2008); nel calcolare la quota percentuale per macroarea sono state considerate solo le regioni per le quali sono pervenuti i dati sugli apprendisti partecipanti alla formazione.
(b) Il dato si riferisce agli apprendisti che hanno completato l’intero percorso pluriennale di formazione o
che lo hanno interrotto.
(c) Il dato è stato calcolato come quota parte del totale degli apprendisti iscritti nel biennio 2008-2009.
Fonte: ISFOL, Monitoraggio sull’apprendistato, XI Rapporto
4 giugno 2010. Documentazione al riguardo anche
in E. Bellezza, M.T. Cortese, L. Rustico (a cura di),
L’apprendistato dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 176 del 2010, «Bollettino Speciale
Adapt», n. 21, 15 giugno 2010; E. Carminati, L. Ru-
stico (a cura di), L’apprendistato dopo l’intervento
della Corte costituzionale: una sentenza che non fa
chiarezza, «Bollettino Speciale Adapt», n. 18, 27
maggio 2010.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
29
Tale pronuncia ha generato ulteriore confusione, soprattutto tra le parti sociali, e ha
provocato preoccupazione rispetto alla sorte degli accordi nel frattempo intervenuti per
disciplinare la fattispecie con formazione esclusivamente aziendale e dei contratti di lavoro di conseguenza stipulati.
Parziale conforto è arrivato dall’intesa sull’apprendistato sottoscritta tra governo, Regioni e parti sociali lo scorso 27 ottobre 2010, che ha tra l’altro confermato, per le ipotesi
di formazione esclusivamente aziendale, le previsioni contenute nei contratti collettivi e
negli accordi interconfederali che hanno disciplinato l’apprendistato professionalizzante,
che rimangono valide per le Regioni che non abbiano già provveduto a definire compiutamente la normativa ai sensi dell’articolo 49, commi 5 e 5-ter, del decreto legislativo n. 276
del 2003. L’intesa ha peraltro introdotto una significativa novità per le imprese multilocalizzate, prevedendo che in questi casi si applichi la normativa regionale della Regione dove l’impresa ha la sede legale, secondo le modalità già chiarite dalla nota circolare del Ministero del Lavoro del 17 settembre 2008.
La complessità del quadro descritto consente di comprendere l’importanza strategica e
la necessità di una riforma che lo componga, e che davvero e finalmente consenta all’apprendistato di decollare. Che una riforma di semplificazione e maggiore agibilità dell'istituto sia possibile lo dimostra ora il testo unico in materia di apprendistato, approvato dal
Consiglio dei Ministri del 5 maggio 2011, su cui Regioni e parti sociali sono ora chiamate a
esprimere il proprio consenso come espressamente previsto dai criteri di delega. Dovremo
pertanto attendere i prossimi mesi per capire se il percorso intrapreso nell'ottobre 2010,
con l'intesa sull'apprendistato, rappresenti la tappa finale per fare dell'apprendistato uno
strumento strategico per l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e per la produttività
del lavoro stesso.
Prospettive evolutive
Di fronte all’emergenza della disoccupazione giovanile, e alla necessità di rilanciare la
competitività del nostro paese sui mercati internazionali, la sfida, per l’Italia così come per
altri paesi17, è comprendere che l’apprendistato è il vero e privilegiato canale d’ingresso dei
giovani nel mercato del lavoro e, allo stesso tempo, la vera formazione in alternanza attraverso cui preparare i giovani d’oggi per i mercati di domani.
Gli interventi legislativi sono certamente necessari, al fine di garantire le condizioni di
maggiore chiarezza istituzionale possibile, con riferimento, ad esempio, al riparto di competenze Stato-Regioni. Ma non saranno sufficienti, se le parti sociali, le imprese, le scuole
e le università e, non ultimi, i giovani e le loro famiglie continueranno a perpetuare modelli educativi e formativi che ormai appartengono al passato. In particolare, non appare più
sostenibile concepire i percorsi di vita secondo la scansione studio-lavoro-pensione: oggi
l’apprendimento e le occasioni di formazione devono necessariamente accompagnare tut17 A. Laurent, Apprentissage – Séduisante mirage, «L’Express», 20 aprile 2011, <www.fareapprendistato.it>.
30
Problemi e prospettive dell’apprendistato
to l’arco della vita di una persona, intrecciandosi e integrandosi con il percorso lavorativo
e professionale. Questi cambiamenti, di natura culturale, richiederanno molto tempo, e
non potranno certo realizzarsi senza un adeguamento del denso tessuto di attori del mercato del lavoro. Le parti sociali, i protagonisti delle relazioni industriali, sono quindi chiamati ad accompagnare questi lenti processi, cogliendo le sfide e le opportunità insite nei
grandi cambiamenti, come quello che vede la formazione come una delle principali leve
per costruire le relazioni del mercato del lavoro di domani. Al fine di sostenere questi soggetti, fornendo supporto operativo e concreto, è necessaria innanzi tutto un’informazione
completa e corretta sui temi sin qui analizzati. Con riferimento all’apprendistato, il portale <www.fareapprendistato.it>, realizzato in cooperazione con Adapt (<www.adapt.it>),
ha il preciso scopo di promuovere e supportare l’effettiva e corretta implementazione in
Italia dell’apprendistato, valorizzandone in particolare la valenza educativa e formativa,
attraverso la diffusione di una completa e corretta informazione sullo sviluppo della materia, sia da un punto di vista giuslavoristico, sia con riferimento ai profili formativi. È questo
un esempio concreto di come i processi di riforma legislativa possano essere accompagnati, anche in modo innovativo, con il supporto delle nuove tecnologie, offrendo piattaforme
di scambio e confronto tra le parti coinvolte, al di là dei lenti e complessi processi di intervento normativo.
Per citare questo articolo: Michele Tiraboschi, Problemi e prospettive dell’apprendistato,
«Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 15-31.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
31
Lavoro
in somministrazione
e flexicurity
Sette funzioni strategiche
di Sebastiano Fadda
Riassunto: l’articolo intende prospettare le potenzialità che in questo contesto si aprono
per il lavoro in somministrazione e per le Agenzie del lavoro, prendendo in considerazione
sette funzioni strategiche per la flexicurity: il matching, l’outplacement, la sicurezza combinata, la job search, l’accumulazione di capitale umano, l’emersione del lavoro nero e il sistema organico di ammortizzatori sociali. Successivamente viene tracciato un quadro sinottico che mostra le possibili interconnessioni tra le Agenzie del lavoro e gli altri soggetti titolari di politiche del lavoro in relazione a queste funzioni.
La realizzazione di queste prospettive richiede l’approntamento di adeguati strumenti
operativi e adeguate architetture istituzionali, ma l’articolo si conclude mettendo in luce
alcuni prerequisiti fondamentali perché ciò possa accadere.
Parole chiave: Reinserimento lavorativo; Capitale umano; Politiche dell’occupazione
L’aggiornamento della Strategia di Lisbona contenuto nella Europe 2020 Strategy attribuisce un ruolo centrale alla cosiddetta flexicurity. La Guideline 7 afferma testualmente che
«Gli Stati membri devono integrare i principi della flexicurity adottati dal Consiglio europeo nelle loro politiche del mercato del lavoro».
La gestione della flexicurity, qualunque sia la forma che essa può assumere nel contesto istituzionale del nostro paese, non può non basarsi su una stretta interazione tra i diversi soggetti di natura pubblica e privata che operano nel mercato del lavoro. Questa nota intende mettere a fuoco un particolare aspetto, che è quello del possibile ruolo del lavoro in somministrazione e delle Agenzie del lavoro nel quadro delle politiche attive del lavoro orientate a realizzare la flexicurity.
Prima di procedere in questa esplorazione, è però necessario introdurre una precisazione di fondamentale importanza. Molto spesso si guarda ai gradi di flessibilità e di sicurezza in termini di trade off, quasi che una maggior sicurezza per i lavoratori debba necessariamente andare a detrimento della flessibilità per i datori di lavoro e, viceversa, una maggior flessibilità a disposizione dei datori di lavoro debba andare a scapito della sicurezza
Osservatorio Isfol n. 2/2011
33
dei lavoratori. Questa visione non è corretta ed è basata sull’ipotesi che nel mercato del lavoro giochino soltanto due soggetti: i datori di lavoro e i lavoratori considerati individualmente. Ma non è così: intanto, queste due parti possono agire come soggetti collettivi, e
dare luogo a forme assicurative a garanzia della sicurezza, ma poi ancora di maggior rilievo è la presenza di un terzo soggetto: lo Stato. Esso opera non soltanto come regolatore (e
quindi, in termini generali, come determinante dell’accesso alle risorse e del loro uso), ma
anche in quanto chiamato in causa dal dato di fatto incontrovertibile che, se dal punto di
vista dell’impresa è giusto considerare il lavoro come un fattore di costo variabile, dal punto di vista sociale, o della collettività, esso non può che essere considerato invece come un
costo fisso. Il costo della «sussistenza» del lavoratore prescinde dalla misura della sua utilizzazione nel processo di produzione. Così come il costo di sussistenza di un cavallo da
traino (si perdoni il paragone) utilizzato come forza motrice differisce sotto questo profilo
dal costo del carburante utilizzato come forza motrice.
In realtà, a parte la sicurezza micro del singolo posto di lavoro, le altre tre forme principali di sicurezza (la sicurezza dell’occupazione, la sicurezza del reddito e la sicurezza «combinata» – tutela previdenziale, pensionamento, attività non profit) non confliggono con le
diverse forme di flessibilità (numerica, oraria, funzionale e salariale), anzi devono essere
considerate complementari. Come recita ancora la Guideline 7, «measures to enhance flexibility and security should be both balanced and mutually reinforcing». Il problema che si
apre quando nel gioco entra il terzo soggetto, lo Stato, con la funzione di supportare in ultima istanza questa dimensione di costo fisso, è quello di evitare che tale funzione venga
abusata, da un lato, dalle imprese per ridurre il costo del lavoro utilizzato nei processi produttivi e, dall’altro lato, dai lavoratori per ridurre l’offerta di prestazione lavorativa.
È proprio per evitare tali abusi che ogni combinazione di (auspicabilmente) alti gradi di
flessibilità con (auspicabilmente) alti gradi di sicurezza, concepita in termini di complementarità e non di trade off, deve essere inserita in un sistema organico di politiche (attive e passive) del lavoro volte a garantire il buon funzionamento del mercato del lavoro.
In tale funzionamento devono convergere una serie di soggetti-attori (appunto, governo,
parti sociali e soggetti individuali) e una serie di strumenti regolativi (leggi, accordi collettivi, contratti individuali). Ciò deve inserirsi in un quadro molto complesso di azioni e di linee
politiche che richiede assolutamente di essere costruito e gestito in maniera integrata. L’integrazione delle politiche e la coerenza delle azioni dentro una strategia organica costituiscono quindi una condizione necessaria per la realizzazione di un buon sistema di flexicurity, e purtroppo si tratta di una condizione rarissimamente soddisfatta nel nostro paese.
Il punto che qui si vuole approfondire è se il lavoro in somministrazione possa essere
considerato esso stesso come uno strumento capace di favorire la stabilità occupazionale
(ben distinta dalla stabilità del posto di lavoro), favorendo l’«occupabilità» e i processi di
riallocazione del lavoro e divenendo quindi esso stesso, con il concorso attivo delle Agenzie, parte costitutiva del sistema di flexicurity.
Per svolgere questa riflessione si può procedere in primo luogo col prendere in considerazione singolarmente le principali funzioni che si sviluppano nel mercato del lavoro, esaminando il ruolo che in esse può giocare il lavoro in somministrazione nel contesto di
un’interazione con gli altri soggetti, per giungere poi a comporre una visione sinottica dell’intera rete di interazioni tra le politiche del lavoro. Con riferimento a ciascuna funzione
34
Lavoro in somministrazione e flexicurity
vanno quindi messi in luce i possibili ruoli del lavoro in somministrazione, il rapporto con
gli altri soggetti titolari delle politiche del lavoro e le necessarie integrazioni con le altre
politiche pubbliche.
La prima funzione da prendere in considerazione è la funzione di matching tra posti vacanti e persone in cerca di occupazione. Tale funzione viene derivata, com’è noto, dalla cosiddetta curva di Beveridge, a proposito della quale si deve distinguere la posizione della
curva dai diversi punti lungo una curva. La prima, con la sua distanza rispetto all’origine,
dà una misura degli elementi strutturali e frizionali che incidono sul livello di disoccupazione, e indica che, per ogni rapporto tra numero dei posti vacanti e numero di persone in
cerca di occupazione, il tasso di disoccupazione sarà tanto più alto quanto più alta è la
consistenza di tali elementi; mentre i secondi indicano, per ogni dato insieme di elementi
frizionali e strutturali, che il tasso di disoccupazione è tanto più alto quanto più basso è il
numero dei posti vacanti.
Il lavoro in somministrazione si può considerare capace di incidere su entrambe queste
dimensioni. La tempestività con cui le Agenzie del lavoro sono in grado di rispondere adeguatamente alla domanda proveniente dalle imprese si traduce in una riduzione degli elementi frizionali e strutturali della disoccupazione e quindi favorisce l’occupazione aggregata. Per altro verso, poiché i posti vacanti nascono con particolari e diverse caratteristiche non solo relative alle mansioni e alle competenze richieste, ma anche alla durata della prestazione lavorativa, si può ritenere che non si aprirebbe sul mercato la «vacanza» di
un certo numero di posti di lavoro per prestazioni di durata temporale molto limitata se
non esistesse la possibilità di coprirli con una corrispondente tipologia di rapporto di lavoro. Quindi anche per via della sollecitazione dell’incremento del numero dei posti vacanti
di questo tipo (fermo restando che ciò non spiazzi la creazione di posti vacanti di altro tipo) la presenza delle Agenzie di somministrazione contribuisce alla diminuzione del tasso
di disoccupazione. Occorre notare che resta imprecisato se ciò possa significativamente
influire sulla dimensione dell’occupazione misurata in unità di lavoro standard, ma è certo
che contribuisca alla riduzione della disoccupazione di lunga durata, e questo rappresenta
un risultato molto utile per il miglioramento generale delle condizioni del mercato del lavoro. Quanto più il livello di occupazione aggregata viene garantito, tanto più è possibile
accogliere alti gradi di flessibilità a livello micro. In questo senso quindi il lavoro in somministrazione può essere considerato in sé un elemento di flexicurity.
Se si aggiunge la possibilità che le Agenzie di somministrazione svolgano un’attività di
selezione o su specifica richiesta di singole imprese o per la costituzione di un «buffer» di
forza lavoro classificata per competenze e per disponibilità alla quale le imprese possano
attingere, emerge una notevole funzione di intermediazione che favorisce ulteriormente i
processi di matching.
In questa funzione è evidente l’opportunità, anzi la necessità, di una collaborazione e di
un’integrazione con l’azione svolta da altri soggetti, e in particolare dai servizi pubblici per
l’impiego. La circolazione, la tempestività, la completezza e l’attendibilità delle informazioni e la possibilità di costituire una banca dati intercomunicante e un sistema integrato
di osservazione delle dinamiche e delle tendenze evolutive del mercato del lavoro e degli
scenari di sviluppo sono fattori importanti per la costituzione di una piattaforma comune
Osservatorio Isfol n. 2/2011
35
su cui appoggiare un’azione integrata dei diversi soggetti pubblici e privati operanti in
questo campo e nello stesso tempo per consentire l’accesso a un’informazione più adeguata per gli individui in cerca di occupazione.
Ancora, questa funzione di matching deve trovare un supporto nelle altre politiche
pubbliche; si possono menzionare in particolare le politiche dei trasporti, le politiche della
salute, le politiche abitative per la riduzione degli elementi strutturali che disturbano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Una seconda funzione in relazione alla quale è riscontrabile un ruolo positivo del lavoro in
somministrazione consiste nel cosiddetto outplacement. Esso consiste nell’attività di supporto alla ricollocazione professionale, ed è generalmente svolto da una società specializzata con l’obiettivo di riorientare sul mercato del lavoro le risorse umane in uscita da
un’azienda. Il crescente ricorso a separazioni, individuali o collettive, tra lavoratori e aziende richiama l’attenzione sulla problematica del trauma del licenziamento e della difficoltà
della ricerca di una nuova occupazione. Le società specializzate agiscono su mandato delle aziende sia in caso di licenziamenti individuali (outplacement individuale, generalmente rivolto a professionalità elevate), sia in caso di licenziamenti collettivi (outplacement
collettivo, generalmente rivolto a grandi crisi aziendali o anche a processi di grandi ristrutturazioni aziendali), ma nel secondo caso vengono coinvolti nel processo di ricollocazione
anche altri soggetti, quali sindacati, enti locali, associazioni di categoria, autorità politiche. In tutti i casi, i passaggi fondamentali dell’azione di outplacement consistono: a) nell’accertamento delle competenze professionali possedute dal soggetto in uscita; b) nella
prospezione di altre occupazioni esterne all’azienda che licenzia o in altre aree o rami della stessa azienda (scouting); c) nell’eventuale attività formativa necessaria nel caso debba
essere colmato un gap tra le competenze possedute e quelle necessarie per la nuova posizione lavorativa. Spesso è la stessa azienda che richiede il servizio di outplacement a farsi
carico dell’eventuale onere aggiuntivo della formazione, soprattutto nei casi di outplacement collettivo, se questo è previsto da accordi sindacali.
Bisogna riconoscere che in Italia il ricorso ai servizi di outplacement non è ancora molto diffuso, specie se paragonato a paesi come la Francia, l’Olanda e il Regno Unito, né molto numerose sono le società di outplacement (l’AISO, che raggruppa le principali società
operanti in Italia, ne conta una decina). Dal lato delle imprese concorre a determinare questo scarso sviluppo l’esitazione ad accollarsi nel processo di licenziamento un simile costo
aggiuntivo privo di ritorno economico. A ciò potrebbe ben obiettarsi che il licenziamento
produce una sorta di esternalità negativa nel sistema economico, il cui costo dovrebbe essere almeno parzialmente internalizzato al fine di stimolare la ricerca di tutte le possibili
strategie per evitarlo. Bisogna poi segnalare che proprio la crescente sensibilità nei confronti della «responsabilità sociale» dell’impresa sembra favorire una disposizione più favorevole verso l’utilizzazione di questo strumento.
Dal lato dei lavoratori esiste una diffidenza nei confronti di un servizio di accompagnamento alla ricollocazione professionale perché si ha la percezione che l’accettazione di tali servizi significhi quasi spianare la strada al licenziamento rendendolo meno gravoso e
più accettabile.
Infine, lo Stato si impegna poco in questo settore perché, a causa di una lunga serie di ra36
Lavoro in somministrazione e flexicurity
gioni, esso è in Italia tradizionalmente più incline a praticare politiche del lavoro di tipo passivo, restringendo la dimensione della sicurezza del lavoro alla mera erogazione di integrazioni del reddito o a una tutela della job security piuttosto che all’impegno per l’employment
security che richiede l’adozione di più impegnative politiche del lavoro di carattere attivo.
Il ruolo che il lavoro in somministrazione può sviluppare in relazione a questa funzione
appare evidente. Da un lato le Agenzie del lavoro possono utilizzare direttamente il loro
portafoglio di richieste di missioni per incominciare a ricostruire pezzi di reinserimento
nell’attività lavorativa dei soggetti che hanno perso il lavoro, d’altro lato possono utilizzare la base informativa e di conoscenza costruita nella loro esperienza per fornire servizi di
outplacement alle imprese che ne fanno richiesta. Si può aggiungere che l’inclusione di attività formative nell’azione delle Agenzie ben si inserisce nella funzione di aggiustamento
delle competenze che il servizio di outplacement svolge nella prospettiva del placement.
La funzione di outplacement si configura quindi come una componente fondamentale
del sistema di flexicurity, una sorta di «ammortizzatore sociale» che può essere gestito anche dalle Agenzie di somministrazione. E di fatto tali Agenzie vanno sviluppando questo
settore di attività al loro interno quando non arrivano, come nel caso di Adecco nei confronti della Lee Hecht Harrison (società leader mondiale nei servizi di Career management
& Outplacement, di cui Adecco Human Capital Solutions è provider italiano), ad acquisire
direttamente società di outplacement. Ma per tale gestione si pone un’evidente necessità di
integrazione con i titolari di tutte le politiche attive del lavoro, in particolare con i centri di
formazione e con le autorità responsabili delle politiche formative a livello provinciale e a
livello regionale; ma anche, e soprattutto, con i titolari delle politiche passive a sostegno
del reddito perché si realizzi un’effettiva complementarità tra le due linee di azione. Inoltre,
soprattutto quando si tratta di outplacement collettivo, ci sono due strumenti di carattere
pubblico cui dovrebbero far riferimento i soggetti coinvolti nel processo di outplacement. Il
primo è dato dalla costituzione di «unità di crisi», con la partecipazione delle parti sociali e
delle autorità di politica economica, affinché l’attività di outplacement possa innestarsi in
un quadro di politiche concertate per una strategia organica di sviluppo del territorio. Il secondo dovrebbe essere costituito da una batteria di sostegni all’effettiva diffusione dei servizi di outplacement, del tipo della riduzione degli oneri fiscali e contributivi per le assunzioni dei soggetti coinvolti in tali processi (come avviene per le assunzioni dalle liste di mobilità) o del parziale accollo a carico dello Stato dei costi di tali servizi. Se, come affermato
dalla presidente dell’AISO (Gabriella Lusvarghi, dicembre 2007, <www.aiso-outplacement.
it>), i tempi medi di reimpiego attraverso i servizi di outplacement sono di circa 6 mesi contro i 24 mesi dei soggetti in mobilità, potrebbe realizzarsi un notevole risparmio di spesa
pubblica attraverso una sostituzione tra i due strumenti di «ammortizzazione».
Una terza linea di riferimento fa capo a quella che viene talvolta chiamata, come prima si
è detto, «sicurezza combinata». Questa dimensione della sicurezza costituisce un aspetto
fondamentale della flexicurity e consiste fondamentalmente nel «combinare» tutti quegli
elementi e quelle condizioni dell’organizzazione complessiva della vita civile che favoriscano sia il mantenimento del posto di lavoro in presenza di ostacoli individuali sul lato
dell’offerta sia la permanenza degli individui nel mercato del lavoro pur in presenza di variazioni anche radicali del loro stato occupazionale.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
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Rientrano in questa categoria sicuramente tutte quelle azioni che vanno in direzione
della cosiddetta «conciliazione» relativamente all’occupazione femminile (come, ad esempio, i servizi di child care, gli asili nido, l’assistenza agli anziani, i congedi per maternità, il
coordinamento degli orari). Vi rientrano anche le misure finalizzate a rendere possibili percorsi di pensionamento flessibile nell’ottica dell’active ageing raccomandata dall’Unione
europea. Inoltre, questa categoria abbraccia anche tutte le misure volte a evitare l’uscita
dalla forza lavoro sia per il prodursi del discouraged worker effect, sia per il lungo protrarsi dello stato di disoccupazione. Circa queste ultime, il ruolo del lavoro in somministrazione risulta abbastanza chiaro dalla tipologia dei servizi svolti, e potrebbe essere rafforzato
accentuando, come si è detto sopra, l’impegno nei servizi di outplacement. A proposito
delle altre due indubbiamente bisogna trovare nuove modalità di raccordo per offrire servizi specifici e personalizzati, prendendo in carico situazioni individuali e promuovendo in
una triangolazione di responsabilità (imprese, Agenzie e autorità locali) la maggiore «compatibilità» tra gli elementi che condizionano l’offerta di lavoro e l’organizzazione del lavoro che determina le caratteristiche della domanda. L’aspetto consulenziale, propositivo e
innovativo di questo impegno emerge con chiarezza, come pure con chiarezza emerge la
necessità di organizzare in un sistema coerente tutte le azioni dei diversi soggetti pubblici
e privati in funzione della realizzazione di crescenti livelli di «compatibilità». Non a caso i
paesi che presentano un modello sociale complessivo più generosamente orientato a sostegno di questa «compatibilità» sono anche i paesi che presentano i più alti tassi di attività e i più efficienti modelli di flexicurity.
Un’altra rilevante funzione che si svolge nel mercato del lavoro va presa in considerazione
per cercare di visualizzare un quadro completo delle politiche del lavoro con le quali la
somministrazione di lavoro e l’attività delle Agenzie possano interagire per contribuire alla realizzazione di un efficiente sistema di flexicurity.
Si tratta della funzione di job search, ossia della ricerca di lavoro. In tutti i modelli di
job search, la durata della ricerca di lavoro (che nei casi di ricerca da parte di persone non
occupate corrisponde alla durata della disoccupazione) dipende fondamentalmente da due
elementi: da un lato i costi diretti e indiretti dell’attività di ricerca e dall’altro lato il livello del salario di riserva che a sua volta incide sulla probabilità di incontrare una proposta
di lavoro accettabile determinando, quindi, il beneficio del protrarsi dell’attività di ricerca.
Supponendo che il lavoro in somministrazione venga accettato dall’individuo nel corso,
e non a conclusione, della sua attività di ricerca di un lavoro di carattere più stabile, appare evidente che la sua retribuzione riduce i costi indiretti della prosecuzione della ricerca
di lavoro e questo, a sua volta, dovrebbe consentirgli di tenere il suo salario di riserva a un
livello piuttosto alto anche se le probabilità di incontrare proposte di lavoro così retribuito
fossero realmente molto più basse di quelle percepite e/o sperate dall’individuo. Il primo
effetto del lavoro in somministrazione sembra dunque, paradossalmente, quello di allungare la durata della ricerca ritardando l’accettazione di un lavoro stabile.
Tuttavia, il quadro delle probabilità di incontrare proposte di lavoro relative ai diversi livelli retributivi si definisce con maggior chiarezza a causa della stessa funzione di ricerca incorporata nel rapporto con l’Agenzia. Infatti, quanto più efficiente è il programma di ricerca
attiva dell’occupazione svolta dall’Agenzia nella sua attività estesa di intermediazione, sele38
Lavoro in somministrazione e flexicurity
zione e orientamento, tanto più verosimile risulta la stima delle probabilità di incontro di
proposte di lavoro relative ai diversi livelli retributivi, e pertanto tende a estinguersi il gap
tra probabilità effettive e probabilità ipotizzate o percepite. Poiché la durata della disoccupazione da ricerca si spiega in gran parte proprio con l’estensione di questo gap, la sua riduzione dovrebbe comportare un’abbreviazione della durata della ricerca e quindi una riduzione della disoccupazione. Questa proprietà agisce quindi in senso opposto alla diminuzione
del costo indiretto della ricerca e dovrebbe prevalere nel risultato finale, proprio perché, se
pur rimane basso il costo marginale della ricerca, il beneficio marginale tende ad annullarsi.
Naturalmente, se si ipotizza che nessun altro lavoro sia disponibile sul mercato se non
quello in somministrazione, non si pone per l’individuo alcun problema di accettazione o di
rifiuto e la ricerca non ha luogo: l’individuo è sempre indefinitamente a disposizione per il
lavoro interinale. Ma questa è una pura ipotesi di scuola; il lavoro interinale resta sempre
una forma di utilizzazione transitoria per le imprese: in un’ottica di lungo periodo e in un
mercato competitivo le imprese sono spinte sempre ad accumulare conoscenza e capitale
umano attraverso rapporti di lavoro più stabili.
Si può concludere affermando che in ordine alla job search il ruolo delle Agenzie di
somministrazione è positivo: con la loro azione il costo della ricerca diminuisce ma contemporaneamente la durata della ricerca si accorcia. Si può quindi parlare di un processo
di facilitazione dell’ingresso nel mercato del lavoro. E si può anche dire che questo processo sarà tanto più effettivo quanto più le Agenzie intensificheranno la frequenza delle missioni e il coinvolgimento dei lavoratori interinali in programmi di ricerca attiva del lavoro.
È fortemente auspicabile la complementarità di questo ruolo delle Agenzie con i programmi di ricerca attiva e di orientamento condotti da altri operatori, pubblici e privati, del
mercato del lavoro, e in particolare dai servizi per l’impiego. L’intercomunicabilità delle
banche dati e il coordinamento delle azioni nell’ambito degli stessi territori potrebbero
giovare all’efficacia di tutti gli operatori. Nelle condizionalità per l’accesso alle integrazioni degli ammortizzatori sociali potrebbe essere inclusa la partecipazione ai programmi di
job search gestiti dalle Agenzie del lavoro.
Sul piano delle politiche pubbliche si può pensare, in relazione a questa funzione, a un
processo che coinvolga tutti gli operatori nella direzione di maggior trasparenza e razionalizzazione dei differenziali salariali. Ciò richiede la demolizione di discriminazioni, cartelli,
lobby e aree privilegiate e la restituzione al salario della proprietà di riflettere da un lato
l’effettiva accumulazione di conoscenza, know how e skills applicati e dall’altro la scarsità
relativa delle capacità professionali.
In relazione a un’ulteriore funzione di enorme rilevanza nel mercato del lavoro, quella dell’accumulazione di «capitale umano», sorgono numerosi problemi.
In presenza di un’accentuata mobilità e di un carattere episodico e occasionale del rapporto di lavoro, l’impresa non potrebbe appropriarsi dei benefici dell’investimento di risorse nella crescita professionale del lavoratore e quindi non sarebbe interessata a realizzarlo. Nella medesima situazione il lavoratore, inserito in un vortice di brevi ed episodici rapporti di lavoro, percepirebbe l’irrilevanza del miglioramento delle sue capacità professionali rispetto alle sue posizioni lavorative e ciò toglierebbe ogni motivazione a investire nell’accumulazione del proprio capitale umano. Appare chiaro che se queste due dinamiche si
Osservatorio Isfol n. 2/2011
39
alimentassero l’una con l’altra si innescherebbe una spirale foriera di gravi conseguenze
per il mercato del lavoro e per il sistema produttivo. Dequalificazione della forza lavoro,
perdita di produttività, abbassamento dei livelli retributivi, riduzione dell’occupabilità, aumento dell’instabilità occupazionale; in altre parole un generale movimento del mercato
del lavoro in direzione opposta a quella prevista dai modelli di flexicurity.
Se il lavoro in somministrazione venisse inteso come semplice strumento di realizzazione di un’illimitata mobilità potrebbe effettivamente alimentare tale spirale, ma proprio le
Agenzie di somministrazione hanno invece la possibilità di razionalizzare l’uso della flessibilità e di piegarla verso gli obiettivi di una politica attiva del lavoro. Esse possono infatti, da
un lato, concepire e organizzare le «missioni» come moduli di un percorso di crescita della
professionalità disegnato sulla base delle specifiche caratteristiche di ciascun lavoratore e,
d’altro lato, far sì che le imprese utilizzino, sì, il lavoro somministrato come risposta alle loro esigenze temporanee, ma anche come canale di selezione nell’ottica di un’utilizzazione di
forza lavoro stabile. In questo senso le Agenzie possono svolgere un ruolo attivo dentro un
sistema di flexicurity orientato alla employment security e allo sviluppo del capitale umano.
Disegnare processi di crescita della professionalità significa avere la capacità di individuare gli elementi di learning by doing incorporati nelle prestazioni lavorative presso le
imprese destinatarie delle missioni, collegarli tra loro e saldarli con momenti formativi interni all’impresa, interni all’agenzia e anche propri di strutture esterne per condividerli poi
con i lavoratori che dovrebbero impegnarsi a percorrerli. Per indurre le aziende ad adottare un’ottica di utilizzazione stabile della forza lavoro occorre invece che le Agenzie abbiano la capacità, da un lato, di offrire loro personale selezionato in maniera affidabile e, dall’altro, di condividere con esse la valorizzazione delle valenze formative dell’esperienza di
lavoro nel quadro di una crescita della professionalità del lavoratore in missione. In questo
rapporto con le imprese utilizzatrici le Agenzie potrebbero svolgere anche un’altra importante funzione. È noto come in Italia, per diversi motivi, la capacità di assorbimento da
parte delle imprese di personale di alti livelli di professionalità sia estremamente bassa. Le
Agenzie potrebbero contribuire a un’espansione di questa capacità mediante un’azione di
consulenza circa la migliore utilizzazione del personale somministrato.
È evidente che la possibilità di svolgere queste funzioni complesse è legata all’esistenza di una grande professionalità e credibilità delle Agenzie, da costruirsi con l’acquisizione
di una grande competenza nei campi che spaziano dall’organizzazione del lavoro ai processi di innovazione, dalla percezione dei bisogni (non solo della domanda) formativi alla
progettazione di interventi formativi, dalle tendenze evolutive del sistema economico ai
contenuti delle strategie e dei piani di sviluppo.
La stessa complessità di queste funzioni comporta, peraltro, la necessità che l’azione
delle Agenzie si intrecci con quella degli altri operatori, pubblici e privati, nel campo della
formazione e con le strutture di erogazione delle integrazioni del reddito, oltre che con
l’azione degli enti bilaterali. In particolare tale collaborazione deve svolgersi nei campi della lettura dei fabbisogni, della revisione dei progetti formativi, della condivisione di banche
dati, della progettazione di iniziative congiunte.
Il terzo polo, quello delle politiche pubbliche, entra qui in campo con una serie di implicazioni tra le quali si possono menzionare: la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione professionale, la regolamentazione dell’apprendistato e dell’apprendistato per l’alta
40
Lavoro in somministrazione e flexicurity
formazione, il sistema di formazione continua e di lifelong learning in genere, il sistema di
bilancio delle competenze e di certificazione delle competenze. Infine, va riconosciuta una
particolare importanza all’integrazione con le politiche per l’innovazione. La scarsa capacità di assorbimento e di valorizzazione da parte delle imprese del capitale umano posseduto dai lavoratori è in gran parte dovuta alla relativa arretratezza della frontiera tecnologica su cui operano le imprese. Un’accelerazione delle innovazioni non solo tecnologiche
ma anche organizzative e gestionali si trasformerebbe in una maggiore domanda di professionalità di alto livello e nello stesso tempo costituirebbe un incentivo per i singoli individui a investire nell’accumulazione di capitale umano.
Un’ulteriore funzione nei confronti della quale il lavoro in somministrazione può svolgere
un ruolo positivo è quella dell’emersione del lavoro nero. Tra le tante dimensioni possibili
dell’azione per contrastare la diffusione del lavoro nero, quella dove il lavoro in somministrazione ha più capacità di incisione è sicuramente la prevenzione. I fattori determinanti
del fenomeno del lavoro nero sono numerosi e complessi e appartengono sia al lato della
domanda da parte dei datori di lavoro sia al lato dell’offerta da parte degli individui disponibili. A volte si verificano incroci di interessi convergenti, come nel caso delle motivazioni di carattere fiscale o nel caso degli aggiramenti di vincoli per il doppio lavoro; a volte gli
interessi e i vantaggi sono interamente dalla parte del datore di lavoro e traggono vantaggio da un’ampia offerta che per diverse ragioni si trova in stato di necessità e priva della
possibilità di scelte alternative.
È unanimemente riconosciuto che le azioni di carattere repressivo, se pur necessarie e
doverose, non sono sufficienti per contrastare efficacemente il fenomeno e che più risolutive, anche se la loro efficacia si rivela più nel lungo periodo, sono da considerarsi le misure di carattere preventivo. Dal lato dell’offerta è ovvio che una crescita del livello di attività economica e una diminuzione dei tassi di disoccupazione contribuiscono a ridurre l’area
di forza lavoro disponibile per il lavoro irregolare, e in questo senso il lavoro in somministrazione gioca un ruolo positivo nella misura in cui contribuisce al miglioramento di queste variabili. È possibile però individuare alcuni aspetti specifici sui quali il lavoro in somministrazione può apportare un contributo particolare. Due rivestono un particolare rilievo. Il primo attiene alla prospettiva dell’aumento del livello di protezione sociale per coloro che partecipano al mercato del lavoro regolare. Una maggior consistenza degli ammortizzatori sociali per coloro che pur privi di continuità dello stato di occupazione sono inseriti nel circuito dell’intermediazione di lavoro gestito dalle Agenzie del lavoro può costituire un forte incentivo per gli individui a collocarsi in questa area di «disponibilità» per il lavoro, piuttosto che in quella rivolta al lavoro irregolare. Ciò vale per tutti i settori dove più
si concentra il lavoro irregolare: sia quelli dove c’è una maggior richiesta di professionalità non elevate, come l’agricoltura e l’edilizia, sia quelli dove si aprono maggiori spazi per
professionalità più elevate, come quelli del terziario.
Il secondo attiene alla somma di vantaggi in termini di occupabilità acquisibili con la
partecipazione ai programmi e ai servizi connessi allo svolgimento di lavoro in somministrazione. L’aiuto fornito dalle Agenzie, sia con lo svolgimento diretto di funzioni di matching, job search, orientamento, formazione ecc., sia con la partecipazione alla rete costituita da tutti i titolari delle politiche del lavoro, contribuisce a offrire ai lavoratori sommiOsservatorio Isfol n. 2/2011
41
nistrati opportunità di crescita professionale, di stabilità occupazionale e di qualità lavorativa che non potrebbero avere restando all’interno del circuito del lavoro irregolare.
Anche sul lato della domanda di lavoro la possibilità di utilizzare la tipologia della somministrazione può agire nel senso di favorire un minor ricorso al lavoro irregolare. Si pensi
alla semplificazione degli oneri burocratici a favore dalle imprese utilizzatrici (che potrebbe essere ulteriormente accentuata sviluppando le possibilità del lavoro «accessorio» in
triangolazione con il sistema di voucher dell’INPS). Si pensi, inoltre, ai vantaggi goduti attraverso la fruizione dei servizi di selezione, di formazione e di consulenza forniti dalle
Agenzie del lavoro più evolute.
In questo campo l’integrazione con gli altri operatori pubblici e privati del mercato del
lavoro assume un’importanza strategica, proprio come conseguenza dell’elevata complessità della problematica relativa al fenomeno del lavoro irregolare. Tale integrazione riguarda sia il complesso del sistema di politiche attive del lavoro, sia le specifiche comunicazioni con le banche dati necessarie per rilevare eventuali compresenze di lavoro irregolare con
la fruizione dei servizi connessi al rapporto con le Agenzie di somministrazione.
L’intero sistema delle politiche pubbliche entra poi in gioco in quest’area in primo luogo con le politiche di sviluppo economico orientate a prosciugare l’offerta di lavoro irregolare dirottandola verso le varie e differenziate tipologie di lavoro regolare. Sempre nella direzione di ridurre l’offerta di lavoro irregolare agirebbero l’estensione della compatibilità
tra diverse attività lavorative o tra attività lavorativa e trattamenti pensionistici, come pure la riduzione della pressione fiscale. In secondo luogo, sul lato della domanda, si apre il
campo della riduzione degli adempimenti burocratici, del peso degli oneri fiscali e contributivi gravanti sulle imprese per evitare i quali esse subiscono una spinta verso l’utilizzazione del lavoro in forme irregolari. Infine, su questo lato, va razionalizzato e reso efficiente anche l’intero sistema repressivo, nei due aspetti della capacità di rilevare le situazioni
irregolari e di applicare le relative sanzioni.
Un’ultima considerazione va infine fatta a proposito della gestione della cosiddette «politiche passive del lavoro». Tutte le varie forme di sostegno del reddito finora generalmente
classificate nella categoria delle politiche «passive» devono cambiare segno e devono divenire «attive». È necessario, infatti, che a queste misure non venga attribuita soltanto la
funzione di alleviare la carenza di reddito dei lavoratori nei periodi di disoccupazione e
quella, importantissima, di stabilizzazione anticiclica della domanda; ma è necessario che
venga loro attribuita anche, e soprattutto, quella di favorire e supportare la ristrutturazione e l’innovazione del sistema produttivo. Occorre quindi che esse da un lato si innestino
nelle politiche di ristrutturazione del sistema produttivo e dall’altro che si integrino con
tutte le politiche attive del lavoro (dall’orientamento al matching, dalla consulenza alla
formazione). Solo in questo modo può trovare piena realizzazione il concetto di flexicurity,
volto a coniugare effettivamente la flessibilità con la employment security intesa nella sua
dimensione macroeconomica. La gestione tecnica di tutte le interconnessioni tra le varie
misure delle varie politiche che devono integrarsi tra loro richiede un impianto istituzionale e organizzativo molto efficiente. Nella costruzione di tale rete organizzativa un ruolo
importante può essere svolto dalle Agenzie che gestiscono il lavoro in somministrazione.
Esse, infatti, attraverso la pluralità delle funzioni che possono svolgere, sono in grado di
42
Lavoro in somministrazione e flexicurity
fungere da interfaccia tra il sistema degli ammortizzatori sociali, il sistema delle politiche
attive del lavoro e il sistema delle politiche di sviluppo. Per far questo è necessario però costituire una rete tra tutti gli operatori, pubblici e privati, del mercato del lavoro, di cui le
Agenzie del lavoro costituiscano un nodo visibile e responsabile. In tale rete, la separazione del lavoratore dall’impresa deve essere collegata con l’erogazione delle integrazioni del
reddito; l’integrazione del reddito deve essere collegata con la partecipazione ai programmi di outplacement, di ricerca attiva del lavoro e di orientamento, questi devono essere a
loro volta collegati con programmi di formazione, i quali a loro volta devono essere collegati con le politiche di sviluppo e con le dinamiche economiche del territorio che devono
costituire il punto di riferimento per l’intero sistema di interventi. Ovviamente, i diversi
soggetti che svolgono queste funzioni devono essere collegati tra loro e trovare una forma
di coordinamento istituzionalmente strutturata.
Il quadro riassuntivo dei collegamenti e delle interconnessioni tra lavoro in somministrazione e il complesso delle funzioni integrate della flexicurity nell’ottica della employment
security è descritto nella tabella 1.
Non v’è dubbio che la concreta realizzazione delle funzioni e delle interconnessioni sopra descritte e riassunte nella tabella riportata alle pagine seguenti richieda la risoluzione
di molti problemi operativi e la costruzione di un’appropriata architettura istituzionale. Ma
questa non è sufficiente; molto spesso le più articolate strutture istituzionali si sono rivelate anche le più sterili dal punto di vista operativo e dei risultati. Non è difficile trovare
degli esempi proprio nel campo delle politiche del lavoro.
Perché un sistema del genere su esposto possa funzionare efficacemente è necessaria
l’esistenza di tre condizioni generali.
La prima di queste è data da un elevato livello di «capacità istituzionali». L’esigenza di
capacity building, che viene sempre sottolineata con riferimento ai paesi di recente o di
prossimo ingresso nell’Unione europea, esiste anche, e fortissima, nel nostro paese. Questa
«capacità» si compone di tre dimensioni. La prima è quella del possesso di adeguate competenze professionali da parte dei soggetti preposti allo svolgimento delle funzioni di cui si
è detto. La carenza di conoscenze e di capacità tecniche che caratterizza spesso il personale della pubblica amministrazione preposto a queste funzioni è impressionante. È urgente che i responsabili della formazione del personale della pubblica amministrazione prendano atto di queste lacune e dei corrispondenti bisogni di formazione e rivedano le loro
politiche in proposito. Anche le università, per altro verso, devono offrire adeguate occasioni di acquisizione di competenze di alto livello da mettere a disposizione non soltanto
del personale pubblico, ma anche degli operatori privati nel mercato del lavoro. La seconda dimensione riguarda la costruzione di un’adeguata infrastruttura istituzionale. È necessario rivedere profondamente la governance del mercato del lavoro. In particolare, bisogna
predisporre uno schema organizzativo e una serie di connessioni istituzionali che realizzino l’integrazione tra i diversi soggetti titolari degli interventi sul mercato del lavoro per
consentire l’integrazione e la coerenza tra i contenuti degli interventi. L’integrazione, la
coerenza e la complementarità devono realizzarsi tra i diversi livelli territoriali, tra le diverse aree di intervento e tra gli operatori pubblici e gli operatori privati. La terza dimensione
riguarda il coinvolgimento della responsabilità delle parti sociali. Anche a non voler recuOsservatorio Isfol n. 2/2011
43
44
Lavoro in somministrazione e flexicurity
• Ricollocazione diretta
nel portafoglio delle Agenzie
• Attività di placement
delle Agenzie
• Missioni contro disoccupazione • Coimpostare programmi
di lunga durata
di reinserimento con i servizi
• Missioni per pensionamento
per l’impiego
flessibile
• Pensionamento flessibile
• Counseling per conciliazione
con l’INPS
• Somministrazione e riduzione
costi della ricerca
• Aggiustamento aspettative
proposte di lavoro
Outplacement
Sicurezza combinata
job search
• Condivisione banche dati
e osservatori
• Cooperazione con altri
soggetti per programmi
di ricerca attiva
• Coinvolgimento nella
condizionalità per i sussidi
• Integrazione con attività
dei Centri di Formazione
• Integrazione con attività
di placement di altri soggetti
pubblici
• Servizi per l’impiego:
banca dati, borsa lavoro
• Osservatori
• Altri soggetti pubblici
e privati
• Somministrazione in diretta
risposta alle domande
delle imprese
• Emersione nuova domanda
di lavoro temporaneo
Matching
Connessioni con altre
politiche del lavoro
Ruolo del lavoro
in somministrazione
Funzioni
Tabella 1. Quadro sinottico: lavoro in somministrazione ed employment security
Trasporti
Abitazioni
Servizio sanitario
Sviluppo locale
Sistema formativo
(segue)
• Trasparenza e razionalizzazione
dei differenziali salariali
• Apertura concorrenza
e riduzione cartelli
• Segnali di skill e scarsità
relativa
• Politiche fiscali e previdenziali
per active ageing
• Politiche di cura dei bambini
e degli anziani
• Compatibilizzazione orari
• Politiche concertate
da specifiche «unità di crisi»
• Facilitazioni fiscali per
assunzioni in schemi
di outplacement
•
•
•
•
•
Connessioni con altre
politiche pubbliche
Osservatorio Isfol n. 2/2011
45
Ruolo del lavoro
in somministrazione
• Organizzazione delle missioni
in percorsi di crescita
professionale
• Intesa con le imprese
per ottica di lungo termine
• Protezione sociale
per i lavoratori
in somministrazione
• Partecipazione a programmi
di politica attiva del lavoro
• Funzione di sostegno
al reddito
• Funzione di stabilizzazione
anticiclica
• Funzione di supporto
alla ristrutturazione
Funzioni
Accumulazione di
capitale umano
Emersione lavoro nero
Sistema organico
di ammortizzatori sociali
Tabella 1 (segue)
• Connessione con i SPI
e con l’INPS
• Connessione con il sistema
formativo
• Connessione con le autorità
di governo del MdL
• Controlli incrociati per evitare
contemporaneo svolgimento
di lavoro nero
• Integrazione con la rete
degli operatori pubblici
del MdL
• Iniziative congiunte con altri
operatori della formazione
• Coordinamento con enti
bilaterali
• Coordinamento con gli
erogatori dei sussidi
Connessioni con altre
politiche del lavoro
Spesa pubblica per l’istruzione
Apprendistato
Lifelong learning
Politiche per l’innovazione
• Interazione col sistema
produttivo e col mondo
delle imprese
• Interazione con gli organismi
di programmazione economica
• Riduzione delle incompatibilità
tra attività lavorative
• Riduzione degli adempimenti
burocratici relativi al lavoro
• Riduzione degli oneri fiscali
e contributivi
•
•
•
•
Connessioni con altre
politiche pubbliche
perare il vecchio termine del «partenariato», non v’è dubbio che per rendere efficienti ed
effettivi i processi di aggiustamento nel mercato del lavoro sia necessaria una forte collaborazione, nel rispetto del ruolo di ciascun soggetto, tra i datori di lavoro, le organizzazioni dei lavoratori e gli organismi pubblici. Oltre le argomentazioni di carattere teorico sono
le esperienze dei diversi paesi, specie laddove i principi della flexicurity hanno trovato miglior realizzazione, che dimostrano i benefici effetti di tale collaborazione.
La seconda condizione generale è data dalla realizzazione di un clima di fiducia tra gli
agenti del mercato del lavoro. È ormai generalmente acquisito che un contesto di relazioni
di fiducia tra gli agenti sia proficuo per il buon funzionamento dei mercati. Nel mercato del
lavoro esistono diversi segnali di scarsa fiducia, specialmente nei confronti degli operatori
pubblici, ma anche nei confronti di quelli privati. I dati sull’utilizzazione dei servizi per l’impiego sia da parte delle imprese sia da parte dei lavoratori sono molto espliciti al riguardo.
Non bisogna però cadere nell’errore di credere, o addirittura di pretendere, che le relazioni
di fiducia si creino per mezzo di una sorta di atto fideistico da parte degli agenti. Esse si costruiscono attraverso la costruzione della reputazione, e quindi sono il risultato empirico di
una serie di casi ripetuti di interazione tra gli agenti. Ci si trova quindi davanti a un caso di
processi cumulativi: una cattiva performance degli strumenti di intervento genera una cattiva reputazione, la quale produce un peggioramento della fiducia, il quale a sua volta accresce il malfunzionamento di tali strumenti, che abbassa ancora il livello di fiducia, e così
via. È facile capire che per migliorare il funzionamento dell’intero sistema delle politiche attive del lavoro in tutte le sue componenti occorre proprio partire col curare particolarmente il buon risultato di alcuni servizi essenziali; questo può infatti innescare un processo positivo che conduce alla creazione di un adeguato sistema di relazioni di fiducia.
La terza condizione è data dalla disponibilità di risorse finanziarie. Come è noto, l’Italia
è tra tutti i paesi europei quello che destina alle politiche attive e passive del lavoro la
quota più bassa (neanche il 2%) della spesa sociale complessiva, la quale, raggiungendo a
sua volta una quota che si aggira intorno al 25% del PIL, si situa leggermente al di sotto
della media dell’Europa a 15. Questo dato tradisce, a parte le considerazioni sull’entità della spesa sociale nel complesso, la scarsa considerazione attribuita al sistema delle politiche
del lavoro. Se si considera che un efficace sistema di politiche del lavoro giova sia all’allocazione efficiente della forza lavoro, sia alla crescita professionale dei lavoratori, sia alla
macrostabilità occupazionale, si può concludere che a soffrire le conseguenze della sua assenza siano non soltanto le condizioni dei lavoratori, ma anche il livello di produttività e la
crescita del livello generale di attività economica.
Per citare questo articolo: Sebastiano Fadda, Lavoro in somministrazione e flexicurity,
«Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 33-46.
46
Lavoro in somministrazione e flexicurity
Immigrazione
e formazione
professionale
Alcune considerazioni
di Francesco Carchedi
Riassunto: la partecipazione dei lavoratori immigrati alle attività produttive – e quindi il loro inserimento occupazionale – è il risultato congiunto delle competenze pregresse, acquisite nel paese di partenza (studi effettuati, lavori svolti e abilità professionali acquisite ecc.);
di quelle che risultano dai processi di auto etero-costruzione dell’identità professionale
(una volta in Italia), quale prodotto della scelta del comparto produttivo – o dall’attrazione
che esso esercita poiché generatore della corrispondente domanda – nella quale ci si orienta per la ricerca di lavoro; delle caratteristiche che tale lavoro richiede per essere svolto e
delle modificazioni/aggiustamenti che avvengono da parte degli interessati per predisporsi
a soddisfare tali caratteristiche ed entrare in produzione. Non secondaria è l’influenza che
gioca il quadro normativo che regola le presenze degli immigrati e gli effetti che esso produce non soltanto sul mercato del lavoro in particolare ma nella vita più complessiva dei
medesimi in termini di accoglienza/integrazione socio-economica.
Parole chiave: Lavoratori stranieri; Inserimento lavorativo; Integrazione sociale
Cenni sul contesto
La presenza numerica dei lavoratori stranieri nel nostro paese si è andata incrementando
in modo considerevole nell’ultimo decennio (al 2009 ammontavano – secondo l’ISTAT –
complessivamente a circa 4.235.000 unità)1, determinando, al contempo, uno spostamento significativo delle aree di provenienza dei medesimi. Infatti, gli immigrati, nella loro
maggioranza, non provengono più dai paesi africani (settentrionali e centrali subsahariani)
1 Cfr. ISTAT, Bilancio demografico nazionale.
Anno 2009, Comunicato stampa del 23 giugno
2010, p. 1.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
47
– come accadeva negli anni Ottanta e parte dei Novanta – ma dai paesi dell’Est europeo (e
in piccola misura dall’Asia)2. Questo spostamento dell’asse geografico-territoriale per l’approvvigionamento di forza lavoro dall’estero risponde, anche, a una strategia geopolitica,
giacché è stato attivato e guidato dall’Unione europea per rafforzare il processo di transizione democratica dei paesi dell’ex blocco sovietico, limitando, al contempo, i flussi provenienti dal bacino Sud del Mediterraneo e dall’Africa australe3.
Ciò ha contribuito, come conseguenza non secondaria, a determinare un maggior equilibrio nella struttura di genere all’interno delle molteplici comunità presenti: sia per l’accentuarsi dei ricongiungimenti familiari (facilitati dalla «libera circolazione» dei cittadini
neo-europei)4 che per le nascite di bambini (soprattutto delle comunità di maggior consistenza insediativa), nonché da un relativo aumento del capitale sociale e professionale (più
vicino al livello delle necessità che esprime la struttura tecnologica e produttiva del nostro
paese). Questi fattori indicano, nel loro continuo intrecciarsi, e in modo pressoché inequivocabile, ormai, una radicale tendenza alla stabilizzazione di una consistente componente
straniera e dunque, di conseguenza, una maggiore aggregazione della domanda di percorsi di integrazione sociale, occupazionale e formativa (scolastica e professionale).
La capacità contributiva – diretta o indiretta – delle componenti immigrate occupate, in
aggiunta, come si evidenzia in questa fase storica, contribuisce a coprire sostanzialmente
gli oneri di spesa che tali percorsi sottendono (suffragati dai dati dell’INAIL riguardanti le assunzioni) e dunque, in linea teorica, anche quelli attinenti alla formazione professionale. In
altre parole, le componenti immigrate occupate in modo regolare non solo appaiono ormai
autosufficienti a coprire le spese che le riguardano direttamente, ma contribuiscono, a loro
volta, a coprire anche una parte di quelle scolastico-formative, di assistenza e previdenza
delle componenti della popolazione autoctona5. In altri termini, l’arrivo consistente delle
componenti immigrate e la loro incorporazione nel mercato del lavoro nazionale – che si
concretizza e manifesta anche attraverso i dati ufficiali concernenti le assunzioni dell’ultimo decennio – indica, in sostanza, che i fattori attrattivi (pull factors) che innescano le catene migratorie derivano, in particolare, dal volume complessivo della domanda di lavoro
(nelle sue diverse articolazioni qualitative)6 che proviene dal sistema produttivo e che rima-
2
Cfr. Banca d’Italia, Relazione annuale. Presentata all’Assemblea ordinaria dei partecipanti.
Anno 2008, Roma, 29 maggio 2009, pp. 124-125.
Tale spostamento, oltre a quanto affermato, è avvenuto anche – secondo la Banca d’Italia – per
una maggiore pianificazione dei flussi mirati su
alcune collettività invece che su altre (cioè in base
ai Decreti flussi che emana il governo italiano in
base all’art. 3 comma 4) e per l’ingresso dei nuovi
paesi dell’Est europeo. I paesi dell’Est europeo ammontano, al 2008, a circa il 52% delle presenze
complessive (su circa 3.500.000 di unità), seguite
da circa il 23% di cittadini di origine africana, dal
16% di quelli asiatici e dal 10% (circa) di latinoamericani. Secondo l’ultimo rapporto della Caritas
(cfr. Immigrazione. Dossier statistico 2010, XX Rap-
48
Immigrazione e formazione professionale
porto, pp. 79 sgg.), l’ammontare complessivo della
popolazione di origine straniera è di circa
4.500.000; aggiungendo circa 500.000 minorenni
si arriva intorno ai 5.000.000 di unità.
3 P. Monzini, Treatment of Third Country Nationals at the EU’s External Borders, Roma, 2010,
pp. 3 sgg.
4 Caritas Italiana, Europa. Allargamento a Est e
immigrazione, IDOS, Roma, 2004; cfr. in particolare
Prima parte, cap. 2, p. 26.
5 Banca d’Italia, Relazione annuale, cit., p. 133.
6 Articolazioni qualitative che riflettono, in sostanza, il tipo di relazione contrattuale che il sistema aziendale – sia nel suo complesso sia per particolari comparti merceologico-produttivi – promuove/richiede e con il quale si presenta alla forza la-
ne inevasa per specifici motivi socio-demografici; motivi per lo più correlabili alla mancanza fisico-numerica delle coorti di forza lavoro autoctona destinata al mercato del lavoro7.
L’arrivo e l’inserimento dei lavoratori immigrati, nei comparti dove è richiesta la loro
presenza e dove trovano occupazione, determina, altresì, in linea generale, un doppio processo: per un verso, la ricerca – da parte appunto dei singoli migranti e finanche dei loro
piccoli gruppi di prossimità o delle istituzioni preposte, quali i Centri per l’Impiego – del
modo attraverso il quale definire/autodefinire la propria identità o le proprie (presenti o
potenziali) identità professionali; per l’altro – di conseguenza – il modo attraverso il quale
intendono invece presentarsi attivamente sul mercato del lavoro, ossia dopo aver scelto
quale immagine del sé professionale proporre tra le diverse precedentemente definite e
dunque strumentalmente da utilizzare con successo8.
Quest’ultima rappresenta infatti l’immagine da proporre all’esterno, in quanto considerata maggiormente funzionale alla ricerca attiva di un’occupazione in precisi comparti
produttivi; ricerca mediata molto spesso dai gruppi di prossimità (percorso informale mediante «passaparola» intracomunitaria) o dagli operatori dei Centri per l’Impiego o delle
Agenzie interinali oppure come conseguenza dello svolgimento di percorsi di formazione/
qualificazione professionale (percorso formale, perseguito/perseguibile in quanto disoccupati o occupati in base alla normativa vigente)9.
La partecipazione dei lavoratori immigrati alle attività produttive – e quindi il loro inserimento occupazionale – è il risultato congiunto: 1) delle competenze pregresse, acquisite
nel paese di partenza (studi effettuati, lavori svolti e abilità professionali acquisite ecc.); 2)
di quelle che risultano dai processi di auto/eterocostruzione dell’identità professionale (una
volta in Italia), quale prodotto della scelta del comparto produttivo – o dall’attrazione che
esso esercita poiché generatore della corrispondente domanda – nella quale ci si orienta per
la ricerca di lavoro; 3) delle caratteristiche che tale lavoro richiede per essere svolto e delle
modificazioni/aggiustamenti che avvengono da parte degli interessati per predisporsi a
soddisfare tali caratteristiche ed entrare in produzione. Non secondaria è l’influenza che
voro disposta a occuparsi. In sintesi, se il sistema o
il sub-sistema compartimentale offre alla manodopera contratti standard, contratti atipici o rapporti
senza contratto (sia quelli elusivi di una parte degli
oneri fiscali sia quelli completamente al nero).
7 Al riguardo si rimanda a P. Fermin (a cura di),
Immigrazione per lavoro in Italia. Evoluzione e prospettive, Rapporto 2011, Ministero del Lavoro Italia Lavoro Spa, Roma, pp. 42 sgg., in particolare
laddove si rileva che la crescita della popolazione
italiana – e della componente occupata – avviene
grazie alla presenza immigrata, colmando così il
gap negativo della popolazione naturale.
8 PARSEC (a cura di), Sperimentazione di un servizio di orientamento e incontro domanda e offerta
di lavoro per i lavoratori romeni soggiornanti nell’area livornese. Il caso del centro per l’impiego di
Cecina-Rosignano, Rapporto di Ricerca, Provincia di
Livorno, Roma-Livorno, dicembre 2008, pp. 72 sgg.
9 Tale processo di costruzione identitaria della
professionalità, ovviamente, non è un fenomeno
nuovo, non scaturisce ex novo dai gruppi in questione e non è solo appannaggio degli immigrati
presenti nel nostro paese. Esso emerge con forza
anche da recenti indagini realizzate su gruppi di
emigranti italiani. Questi nel ripensare ed esplicitare in brevi storie di vita la loro esperienza migratoria affermano, anche con molta ironia, che la loro identità lavorativa è stata in parte o del tutto
un’invenzione tout court; un’invenzione effettuata, con il concorso di altre persone, per corrispondere adeguatamente a quanto richiesto dai mercati lavorativi delle aree di arrivo e di stabilizzazione di breve o lunga durata. Cfr. F. Calvanese, F.
Carchedi (a cura di), Emigrazione e immigrazione
in Campania. Il caso dell’Alto Sele, Ediesse, Roma,
pp. 145 sgg.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
49
gioca il quadro normativo che regola le presenze degli immigrati e gli effetti che esso produce non soltanto sul mercato del lavoro in particolare ma nella vita più complessiva dei
medesimi in termini di accoglienza/integrazione socio-economica.
L’incorporazione dei lavoratori stranieri
L’incorporazione dei lavoratori stranieri all’interno del mercato del lavoro viene dunque a
determinarsi attraverso un processo multidimensionale di strutturazione delle modalità di
insediamento territoriale (sia sociale che giuridico e culturale) e del profilo professionale
richiesto dagli apparati produttivi e dai mercati del lavoro locali. Alcuni dati ufficiali offrono il quadro statistico dell’importanza della presenza dei lavoratori stranieri nel mercato
del lavoro italiano, essendo molto significativa e ben strutturata, il cui andamento – nell’arco di tempo compreso tra il 2001 e il 2007 – è sintetizzato nella tabella 1; questa riporta, suddivisi per macroaree, i dati delle loro assunzioni10.
In valori assoluti tali assunzioni ammontavano al 2001 a circa 842.000, mentre al 2007
raggiungono 1.993.000 unità, cioè più del doppio (con un incremento che raggiunge circa
il 135%), di cui quasi il 40% interessa la componente femminile. In base alle macro-aree
nazionali il Nord-Est registra proporzionalmente il rapporto maggiore dell’incremento nell’arco di tempo considerato (circa il 50%), a fronte del 44,5% e del 38% rispettivamente
del Nord-Ovest e del Meridione (mentre il Centro si attesta al 33,3%). Rapporti che sotten-
Tabella 1. Assunzioni degli stranieri per area geografica di lavoro. Anni 2001-2007 (v.a.)
Anni
Nord-Est
Nord-Ovest
Centro
Mezzogiorno
Italia
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
279.589
374.794
343.283
388.452
392.259
444.543
563.688
283.651
445.963
396.931
433.613
434.265
514.536
636.829
171.679
276.308
253.398
347.418
341.396
384.433
514.747
107.484
160.446
137.708
164.231
164.422
176.398
277.750
842.403
1.257.511
1.131.320
1.333.714
1.332.342
1.519.910
1.993.014
Fonte: nostre elaborazioni su dati INAIL, 2009
10 L’INAIL considera paesi a forte pressione migratoria i paesi in via di sviluppo, e a bassa pressione quelli dell’OCSE. L’INAIL utilizza dati che riguardano le aree di nascita degli assicurati registrati presso i suoi archivi, il cui insieme è dato
dagli stranieri nati all’estero. Stranieri identificati
mediante il codice fiscale e non sulla base della
50
Immigrazione e formazione professionale
cittadinanza usata, in genere, per definire lo status di straniero. Infatti, nei dati INAIL potrebbero
esserci italiani nati all’estero, appunto con il codice fiscale del paese di nascita, che hanno allo
stesso tempo il passaporto italiano. Cfr. INAIL, Rapporto annuale sull’andamento infortunistico, Roma, 2009.
dono le dinamiche del lavoro macroregionali. I settori economici, invece, dove la richiesta
di manodopera è maggiore – come si legge nella tabella 2 – sono sostanzialmente tre: da
una parte il comparto alberghiero e ristorazione, dall’altra quello del lavoro domestico e di
cura, nonché una varietà di comparti aggregabili in «altri servizi».
Insieme questi comparti assorbono il 55,3% delle assunzioni (seguendo l’andamento
della cosiddetta «terziarizzazione dell’occupazione»). Anche nel comparto delle costruzioni
(con il 15,3% di assunzioni) e in quelli dell’agricoltura e dell’industria alimentare (con il
13,2%) la manodopera di origine straniera è piuttosto rilevante (anche considerando le
componenti occupate senza contratto). Si tratta di comparti produttivi che sovente – e in
modo alternato – assumono, per una parte dei lavoratori immigrati momentaneamente disoccupati, la funzione di lavori-rifugio in attesa di qualcosa di migliore e maggiormente
remunerativo.
Alcuni di questi settori, come vedremo meglio in seguito, sono quelli in cui la formazione è maggiormente strutturata e continuativa e dove vengono coinvolti anche lavoratori e
tecnici di origine straniera. Le distribuzioni delle assunzioni sulla base della dimensione
aziendale – ossia in relazione al numero di addetti – sono sintetizzate nella tabella 3.
Le aziende che assumono più immigrati sono quelle con un numero di addetti compreso tra 1 e 9, mentre si registra una leggera flessione – nel periodo all’esame – in quelle da
10 a 49 addetti e un leggero aumento per quelle più grandi (oltre i 250 addetti). Restano
pressoché simili, invece, le percentuali relative alle aziende che hanno un numero di addetti tra i 50 e i 249. In pratica, il ricorso alle maestranze di origine straniera taglia ormai
trasversalmente tutto il sistema produttivo, a prescindere dalle dimensioni aziendali. La
preponderanza però di quelle più piccole rispecchia l’alta consistenza numerica che hanno
Tabella 2. Assunzioni degli stranieri per settore economico. Anni 2002 e 2007 (v.a. e %)
Settore economico
Agricoltura e industria alimentare
Metalmeccanica
Chimica
Tessile
Resto industria
Costruzioni
Commercio
Alberghi e ristoranti
Servizi alle persone
Altri servizi
Attività non determinate
Totale
2002
2007
144.004
75.159
33.650
47.132
66.884
212.499
87.541
218.269
199.333
169.623
3.114
11,5
6,0
2,7
3,7
5,3
16,9
7,0
17,4
15,9
13,5
0,2
263.318
86.506
25.118
33.463
59.615
305.823
104.819
391.640
431.316
279.985
11.285
13,2
4,3
1,3
1,7
3,0
15,3
5,3
19,7
21,6
14,0
0,6
1.257.208
100,0
1.992.888
100,0
Fonte: nostre elaborazioni su dati INAIL, 2009
Osservatorio Isfol n. 2/2011
51
Tabella 3. Assunzioni degli stranieri per dimensione aziendale. Anni 2001-2007 (v.a. e %)
1-9
10-49
50-249
250 e oltre
Anni
Assunti
%
Assunti
%
Assunti
%
Assunti
%
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
352.299
612.707
513.903
617.691
607.063
648.101
899.709
41,8
48,7
45,4
46,3
45,6
42,6
45,1
207.513
296.500
233.663
262.346
259.779
290.428
386.700
24,6
23,6
20,7
19,7
19,5
19,1
19,4
98.754
119.028
123.175
142.667
148.750
163.449
209.558
13,8
11,5
12,3
11,4
11,6
12,0
12,1
166.102
203.216
244.262
302.104
310.911
398.358
465.259
19,7
16,2
21,6
22,7
23,3
26,2
23,3
Totale
assunti
842.403
1.257.511
1.131.320
1.333.714
1.332.342
1.519.910
1.993.014
Fonte: nostre elaborazioni su dati INAIL, 2009
storicamente nel panorama nazionale, formato – appunto – da piccole e piccolissime imprese (in misura di circa il 93%) e dove la formazione professionale (soprattutto quella acquisibile dall’esterno) è storicamente altrettanto meno utilizzata.
La formazione professionale. Dati sulle aziende e sui beneficiari
Se la collocazione dei lavoratori stranieri tende a concentrarsi per lo più nelle piccole/piccolissime aziende (con meno di 9 addetti, quindi), anche i dati della formazione professionale proposti dal Sistema Excelsior assumono una valenza significativa per definire la loro
partecipazione ai percorsi formativi che si attivano, appunto, all’interno (o provengono
dall’esterno) delle aziende medesime. Secondo i dati prodotti nel 2009 dal Sistema informativo Excelsior (promosso dal Ministero del Lavoro e da Unioncamere - Camere di Commercio d’Italia)11 le imprese che hanno effettuato corsi di formazione continua – per classi dimensionali e per settori produttivi nel periodo intercorrente dal 2003 al 2009 – sono
sintetizzate nelle tabelle 4 e 5.
Come si evince dalla prima tabella, le imprese con una dimensione maggiore svolgono
corsi di formazione in maniera strutturale, giacché – per il periodo considerato – le percentuali si attestano intorno al 70% dei casi. Il rapporto percentuale si rovescia nelle imprese più piccole. Pur tuttavia le valutazioni di Excelsior sono al riguardo altrettanto positive. Lo sono non tanto per l’ampiezza delle percentuali di piccole aziende che svolgono la
formazione, quanto per il «forte dinamismo» – in direzione di un maggiore sviluppo della
11
Cfr. Ministero del Lavoro e Unioncamere Camere di Commercio d’Italia, Formazione continua e tirocini formativi attivati nel 2009, Sistema
informativo Excelsior, Roma, 2009. L’indagine viene svolta su un campione di 100.000 aziende e
52
Immigrazione e formazione professionale
dunque il valore assoluto delle percentuali riportate in tabella è un sottoinsieme dello stesso campione. Sito: <www.excelsior.unioncamere.net>. Le
tabelle utilizzate sono a p. 21.
Tabella 4. Percentuale di imprese che hanno effettuato attività di formazione continua
per classe dimensionale. Anni 2003-2009 (%)
Classe dimensionale
dipendenti
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
1-9
10-49
50-249
+ 250
17,3
37,8
55,2
72,2
17,1
26,4
37,1
71,3
15,6
26,6
43,1
74,2
16,6
27,5
42,6
74,5
18,8
29,5
44,7
75,2
23,3
28,0
49,8
80,8
28,8
39,0
64,5
83,2
Totale Italia
22,4
20,0
18,8
19,8
21,9
25,7
32,1
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2009
Tabella 5. Percentuale di imprese che hanno effettuato attività di formazione continua
per settore. Anni 2003-2009 (%)
Settori
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Industria
Public utilities
Costruzioni
Commercio
Altri servizi
22,0
–
15,6
21,1
26,3
16,2
–
17,3
18,2
24,9
16,1
–
16,0
16,4
23,3
15,3
–
18,5
17,5
24,4
17,6
–
24,1
21,2
23,8
20,1
–
30,1
23,8
26,4
25,0
45,0
34,0
30,1
35,6
Totale Italia
22,4
20,0
18,8
19,8
21,9
25,7
32,1
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2009
formazione (interna ed esterna) – che sta caratterizzando tali aziende negli ultimi anni. «La
formazione che erogano le piccole imprese – o più spesso, e comprensibilmente, la acquistano sul mercato, come affermano gli estensori del rapporto – sia pure in maniera discontinua, passa dal 15,6% del 2005 a quasi il doppio nel 2009» (con il 28,8%).
Dalla seconda tabella emergono le percentuali delle aziende che hanno effettuato, internamente o esternamente, corsi di formazione continua suddivise per alcuni settori produttivi. Il primato spetta alle Public utilities (aziende municipalizzate o aziende private che
erogano servizi pubblici), che si attestano al 45% ma dove le componenti straniere trovano ancora significative barriere all’ingresso (e dunque alla formazione da esse erogata).
Anche nell’industria manifatturiera, nelle costruzioni, nel commercio e negli altri servizi si
registra un sostanziale sviluppo della formazione, ma con intensità differenziate e con una
diversa partecipazione dei lavoratori stranieri.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
53
Le costruzioni e gli altri servizi seguono, in termini percentuali, le Public utilities (anche
se a rilevante distanza). Nel settore industriale, in senso stretto, la formazione interessa
circa un quarto delle imprese, mentre nel settore del commercio essa interessa poco meno
di un terzo delle imprese ma con un trend che negli ultimi anni tende a stagliarsi verso l’alto e dunque è da considerarsi positivo (poiché passa dal 21,1% al 30,1%). La maggiore o
minore incidenza della formazione professionale che si registra all’interno dei differenti
settori economici, e dunque nelle singole imprese che li caratterizzano, sembra, con molta
probabilità, riflettere le differenti performance produttive e di innovazione di processo e di
prodotto che le stesse imprese, a diversa dimensione, mettono in essere12.
Ma chi sono i fruitori principali della formazione mirata alle componenti della popolazione occupata, a quella in cerca di occupazione e a quella inattiva? Secondo l’ISFOL13, su
circa 1.407.000 partecipanti (a corsi di formazione nel 2009 con durata minima di 48 ore)
suddivisi nei gruppi appena citati, il 26,4% erano operai generici, il 32,8% operai specializzati, mentre il 44,4% e il 41,6% erano, rispettivamente, impiegati e dirigenti/quadri nonché titolari d’impresa (sia individuali che associati).
In linea generale la partecipazione è preponderante tra i giovani in età compresa tra i
15 e i 24 anni, sia per quanti sono occupati che per quanti sono cerca di occupazione. Tra
gli occupati, invece, registrano i ricercatori dell’ISFOL, si nota una maggiore propensione degli occupati adulti. La frequenza ai corsi di formazione/riqualificazione, infatti, è più alta
tra quanti hanno un’età compresa tra i 35 e i 54 anni, poiché giocano un ruolo determinante, oltre al fatto di essere occupati, sia la condizione professionale già acquisita sia il
profilo socio-demografico, tra cui il genere, l’istruzione pregressa e la cittadinanza di nascita o di provenienza. In sostanza, gli adulti – per lo più maschi, con una scolarizzazione
medio-alta e di nazionalità italiana –, essendo già occupati, accettano ulteriori percorsi
formativi per incrementare le proprie competenze professionali e posizionarsi meglio nei
percorsi di carriera14.
Le donne mostrano un’analoga tendenza (in qualche caso anche maggiore) – rispetto
agli uomini – a frequentare corsi formativi, sia quelle già occupate che quelle in cerca di
occupazione. Il motivo principale risiede nel fatto che «la specializzazione formativa rappresenta spesso l’unico vantaggio competitivo in grado di ridurre le barriere di ingresso nel
mondo del lavoro e sovente anche quelle di uscita»15. Per quanto concerne la variabile «cittadinanza di nascita» – e dunque l’essere straniero/a e immigrato/a – può divenire un elemento di selezione negativa non secondario. Anche se non ci sono dati specifici al riguardo, possiamo – per esclusione – affermare, in primis, che le categorie professionali che partecipano maggiormente alla formazione (cioè impiegati, dirigenti/quadri e titolari di impresa) sono quelle in cui le maestranze di origine straniera sono numericamente molto
basse. Anzi – per citare i dati della Banca d’Italia – potremmo dire quasi inesistenti: esse
ammonterebbero, infatti, al 2008, soltanto all’1% del totale generale, mentre per gli operai e gli imprenditori (sempre di origine straniera), il cui ammontare si aggira, rispettiva12
Ibidem.
Rapporto annuale sulla formazione
continua. 2010, Roma, 2010, p. 25. Le percentuali
dei diversi tipi di figure professionali si riferiscono
13 ISFOL,
54
Immigrazione e formazione professionale
al totale degli addetti di tutte le imprese italiane
(che però il Rapporto non evidenzia).
14 Ivi, p. 20.
15 Ibidem.
mente, intorno al 16% e al 2,3%, la partecipazione alla formazione potrebbe essere (statisticamente) più significativa e più rilevante, anche se non ne conosciamo l’entità16.
Secondariamente, come rilevano diversi studi (quasi una costante nel tempo), la collocazione dei lavoratori stranieri è preponderante nella fascia bassa del mercato del lavoro e
nella piccola/piccolissima impresa (dove la formazione come sopra accennato registra ancora tassi di partecipazione numericamente non significativi), ovvero laddove la caratterizzazione maggiore delle mansioni svolte è la genericità e la flessibilità delle medesime
(proprio per il fatto che sono dequalificate) e le relazioni con i datori di lavoro sono per lo
più basate su rapporti individuali e di prossimità (utili invece per la formazione on-thejob). Inoltre, le componenti immigrate, in generale, hanno una struttura demografica – rispetto a quella italiana (e di altri paesi europei) – mediamente molto giovane e al contempo mediamente meno istruita17, almeno formalmente, poiché (sovente) sacrifica gli studi
per emigrare/lavorare all’estero.
Tale precisazione è d’obbligo poiché il nostro sistema e le procedure di riconoscimento e
di equipollenza dei titoli di studio acquisiti all’estero sono piuttosto arretrati e farraginosi.
La normativa corrente prevede che i titoli di studio e i titoli professionali conseguiti in uno
Stato estero non abbiano alcun valore18, e dunque una parte degli stranieri rinuncia a dichiarare i propri titoli, sia per richiedere il permesso di soggiorno, sia per l’iscrizione ai Centri per l’Impiego, sia per l’acquisizione della residenza anagrafica19, abbassando di fatto il
numero degli scolarizzati. Ciò potrebbe comportare, almeno per certi gruppi di immigrati –
e in una certa misura ciò viene rilevato anche da altre indagini di campo20 – una loro sottoutilizzazione professionale, nel senso che una parte cospicua delle maestranze straniere
svolge mansioni non in linea con le sue reali competenze scolastico-professionali.
I titoli di studio e la formazione in Italia. Il caso dell’edilizia
Stando ai risultati di indagini di campo, laddove si richiede il titolo di studio, le risposte dei
lavoratori stranieri intervistati evidenziano un «capitale sociale» (sotto il profilo scolastico)
significativo. Mettendo a confronto (con le dovute cautele dettate dalla diversa impostazione metodologica)21 i titoli di studio rilevati da due indagini – una dell’IMED nel 1999 e l’altra
di ISMU, CENSIS e IPRS nel 2010 – infatti, come emerge dalla tabella 6, si evidenzia che: 1) nel16
Banca d’Italia, Relazione annuale, cit., p.
127.
17
Ivi, p. 123.
I percorsi di formazione, in CENSIS,
ISMU, IPRS, Immigrazione e lavoro. Percorsi formativi, centri per l’impiego e politiche attive, Quaderni
ISMU, Milano, 2010, pp. 137-149.
19 PARSEC (a cura di), Sperimentazione di un
servizio di orientamento e incontro, cit., pp. 72 sgg.
20 Per una riflessione sull’argomento cfr. F.
Carchedi (a cura di), La risorsa inaspettata. Lavoro
e formazione degli immigrati nell’Europa mediter18 CENSIS,
ranea, Ediesse, Roma, 1999; PARSEC (a cura di), Sperimentazione di un servizio di orientamento e incontro, cit., pp. 75 sgg.; N. Magnani, Immigrati e
formazione professionale. Il caso del Veneto, in M.
Lombardi (a cura di), Percorsi di integrazione degli
immigrati e politiche attive del lavoro, Franco Angeli, Milano, 2005, pp. 129 sgg.; nonché CENSIS, I
percorsi di formazione, cit.
21 F. Carchedi (a cura di), La risorsa inaspettata, cit., p. 129; CENSIS, I percorsi di formazione, cit.,
p. 139. Per la parte metodologica di entrambe si
rimanda ai rispettivi testi.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
55
Tabella 6. Titoli di studio a confronto
Titolo di studio
IMED
(1999)
ISMU, CENSIS, IPRS
Maschi Femmine Totale
Nessuno
Elementare
Media inferiore
Scuola media superiore
Scuola di formazione
professionale
Laurea/master post-laurea
Totale
(2010)
Maschi Femmine Totale
–
5,7
29,5
37,5
–
3,6
13,1
41,7
–
5,0
24,2
38,8
3,0
16,0
44,5
29,7
2,9
12,2
39,8
35,2
3,0
14,2
42,3
32,3
5,1
22,2
9,5
32,1
6,5
25,4
–
6,8
–
9,9
–
8,3
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: nostra elaborazione su dati ricerca IMED (1999) e ricerca ISMU, CENSIS e IPRS (2010)
la prima ricerca poco meno di un terzo degli intervistati (il 30%) dichiarava titoli di studio
equivalenti alla nostra licenza elementare o di terza media, mentre nella seconda ricerca tale gruppo raggiunge circa il 60% del totale; 2) nella prima ricerca coloro che dichiaravano
titoli di studio medio-alti (diploma di media superiore, diploma di formazione professionale
e laurea) raggiungevano più dei due terzi degli intervistati, nella seconda circa il 40%.
In entrambi i casi la componente femminile è quella che appare maggiormente scolarizzata, a prescindere dalle aree e dai paesi di provenienza. La seconda indagine (ISMU, CENSIS e IPRS) rileva un altro dato importante, cioè che la quasi totalità degli intervistati (il 94%
su circa 16.000 unità) ha conseguito il titolo di studio nel paese di origine e dunque, come
sopra accennato, esso non è valido nel nostro paese. La validità del titolo di studio è riconosciuta soltanto in presenza di «accordi bilaterali» o «normative speciali» (sono poche tuttavia in entrambi i casi) che ne permettono l’equipollenza (come recita l’art. 39, comma 4,
del T.U. n. 286/1998). Allo stato dell’attuale normativa, dunque, si determina un circolo vizioso tra una manodopera scolarizzata (mediamente stimabile intorno al 50% in base a
quanto emerso dalle due ricerche citate), con titoli di studio elevati ma non riconosciuti,
inserita nei comparti lavorativi più dequalificati e senza – o con rara – possibilità di mobilità ascensionale. Per una parte di questi lavoratori l’unica possibilità di mobilità – dettata
per lo più da esigenze retributive – è quella di tipo orizzontale: ossia passare da un’occupazione all’altra, ma sempre nei comparti più bassi della struttura produttiva.
Un’esperienza significativa, invece, emerge dal settore edile, anche perché i dati ufficiali – elaborati da FORMEDIL22 – tengono conto della nazionalità di origine dei corsisti e
22 Cfr. FORMEDIL, Rapporto 2008. La formazione
del sistema bilaterale delle costruzioni. Le attività
del 2007, Maggioli, Santarcangelo di Romagna-
56
Immigrazione e formazione professionale
Roma, 2009, pp. 20-26. L’indagine riporta i dati del
2007 attinenti a 5.000 corsi realizzati da 96 scuole
edili che hanno coinvolto 83.225 allievi (p. 10).
dunque la partecipazione degli immigrati alla formazione professionale nel settore è maggiormente visibile. La tabella 7 riporta i lavoratori italiani e stranieri che hanno frequentato corsi di formazione in qualità di operai, mentre la tabella 8 quelli che li hanno frequentati in qualità di tecnici. Dalla prima tabella emerge che gli allievi di origine straniera ammontano a 4.711 unità, pari al 35,5% – poco più di un terzo, quindi – del totale degli allievi (cioè 16.548, di cui 11.837 italiani). Il numero più alto di allievi frequenta scuole edili
ubicate nell’area settentrionale del paese e dunque in queste aree risulta essere maggiore
anche il numero degli stranieri.
La partecipazione più alta degli allievi stranieri si registra nella formazione caratterizzata dall’apprendistato professionalizzante (con 1.869 casi) e nella formazione continua
(con 1.608 casi), ossia tra i lavoratori occupati. Minore invece è l’ammontare di quanti entrano in formazione da disoccupati. È interessante notare anche il fatto che tra quanti frequentano l’apprendistato professionalizzante la componente giovanile è preponderante,
mentre nella formazione continua è la fascia adulta a esserlo. Formedil, per l’anno 2009,
ha inserito corsi brevi di 16 ore formative, portando il numero degli allievi stranieri a circa
tre volte e mezzo il numero di quelli che avevano frequentato nel 2007.
Infatti, con tale innovazione, gli allievi stranieri sono diventati 14.734, di cui circa
8.600 hanno frequentato soltanto questo tipo di corso23. I tecnici in formazione, in aggiunta, sia italiani che stranieri, sono numericamente di meno. Gli stranieri, a (parziale)
conferma di quanto detto in precedenza, raggiungono soltanto le 238 (nel 2007) unità, pari al 3,5% del totale di quanti hanno frequentato il corso per diventare tecnici nel campo
dell’edilizia.
Anche in questo caso il tipo di formazione maggiormente sostenuta è quella caratterizzata dalla sua continuità, cioè dai lavoratori già impiegati. Da segnalare anche il corso integrativo per geometri poiché si tratta di un’ulteriore specializzazione professionale. Negli
anni successivi (2008 e 2009) – secondo il Rapporto 2010 – il numero dei tecnici stranieri
rimane sostanzialmente invariato24.
La formazione all’estero per potenziali lavoratori migranti
L’art. 23 del T.U. n. 289/199825 permette la realizzazione di corsi di formazione all’estero
per l’approvvigionamento di figure professionali qualificate da occupare in aziende italia-
23 FORMEDIL, Rapporto 2010. La formazione del
sistema bilaterale delle costruzioni. Le attività del
2009 e l’evoluzione dal 2001 ad oggi, Grafema, Roma, 2010, p. 29.
24 Ibidem.
25 L’art. 23 del Testo unico sull’immigrazione
recita: «Nell’ambito dei programmi approvati […]
il Ministero del Lavoro», in collaborazione con altri
enti pubblici e privati accreditati che intervengono nel settore dell’immigrazione, può «promuovere attività di istruzione e di formazione professio-
nale nei paesi di origine. L’attività […] è finalizzata: 1) all’inserimento lavorativo nei settori produttivi che operano sul territorio italiano, 2) in aziende italiane che operano all’interno dei paesi di origine, 3) allo sviluppo di attività produttive o imprenditoriali autonome nei paesi di origine» (cfr.
comma 1 e 2). Questi lavoratori «sono preferiti nei
settori di impiego ai quali le attività formative si
riferiscono ai fini della chiamata al lavoro» in base
alla normativa corrente (comma 3).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
57
58
Immigrazione e formazione professionale
A
2.337
A = allievi; di cui S = di cui stranieri
Fonte: nostra elaborazione dati FORMEDIL, 2008
Totale
728
182
353
42
5
4
9
0
1.455
0
0
20
0
84
66
A
601
70
3
362
103
0
0
34
29
di cui S
Centro
0
2
0
di cui S
Mezzogiorno
Orientamento
0
Apprendistato diritto/dovere 92
Corsi triennali di qualifica
48
Corsi integrati (recupero
dispersione scolastica)
0
Apprendistato
professionalizzante
382
Formazione disoccupati
359
Formazione occupati
(continua)
1.350
Altra formazione
106
Tipo di formazione
per operai
5.590
1.720
443
1.509
226
315
477
439
461
A
1.605
500
82
587
106
28
35
170
97
di cui S
Nord-Est
7.166
2.261
671
2.066
285
102
792
114
875
A
2.485
1.029
141
915
147
10
111
27
105
di cui S
Nord-Ovest
Tabella 7. Tipo di formazione per operai italiani e stranieri svolta per macroaree geografiche. Anno 2007
16.548
5.684
1.262
4.685
1.052
455
1.415
729
1.681
A
4.711
1.608
226
1.869
360
38
146
233
231
di cui S
Totale
Osservatorio Isfol n. 2/2011
59
130
0
0
0
14
102
127
0
0
0
0
0
0
0
0
Totale
A = allievi; di cui S = di cui stranieri
Fonte: nostra elaborazione dati FORMEDIL, 2008
585
103
0
767
51
0
A
40
18
di cui S
16
1
0
0
0
0
2
0
0
1
9
3
di cui S
Centro
0
0
A
Mezzogiorno
Orientamento
0
Apprendistato diritto/dovere
0
Apprendistato
professionalizzante
0
Attività integrativa /
Corsi geometri
122
Corsi professionali
post-diploma
39
Master 1° livello
0
Corsi professionali
post-laurea
76
Master 2° livello
0
Formazione professionale
disoccupati
170
Formazione professionale
occupati (continua)
317
Altra formazione
43
Tipo di formazione
per operai
1.816
176
786
0
71
0
0
77
472
152
9
A
26
3
3
7
0
0
2
0
1
3
7
0
di cui S
Nord-Est
3.384
1.277
271
45
176
2.261
193
6
1.099
194
99
0
A
196
145
0
2
10
0
6
0
21
4
8
0
di cui S
Nord-Ovest
Tabella 8. Tipo di formazione per tecnici italiani e stranieri svolta per macroaree geografiche. Anno 2007
6.552
2.482
617
300
252
24
439
6
1.796
318
291
27
A
238
149
3
9
10
0
10
0
22
8
24
3
di cui S
Totale
ne (ubicate sia in Italia che all’estero, cioè nei paesi dove si svolgerà il corso formativo) che
non riescono a coprire i rispettivi posti di lavoro vacanti. L’intenzione del legislatore è
quella di promuovere l’arrivo di figure professionali qualificate e inserirle direttamente
nelle aziende richiedenti seguendo una corsia preferenziale. Al di là delle intenzioni, però,
le procedure che regolano l’intero percorso formativo rimangono molto complicate e i risultati finali sono poco aderenti alle aspettative: sia per numero complessivo di persone
coinvolte, sia per la durata temporale dell’intero percorso da perseguire, sia per il reale inserimento delle stesse nel territorio italiano (o in aziende italiane ubicate all’estero).
Nella tabella 9 sono riportati i dati salienti dei progetti finanziati al riguardo nel 2007,
nel 2008 e nel 2009 dal Ministero del Lavoro, da cui si possono ricostruire i profili professionali di uscita ipotizzati. Il totale dei progetti realizzati nei tre anni finanziati ammonta
a 40, con un coinvolgimento di circa un migliaio di lavoratori. I paesi dove sono stati realizzati questi progetti sono molteplici, ma tra tutti emerge il Marocco (tra l’altro uno dei
paesi considerati «a forte pressione migratoria») e a distanza il Perù, la Moldavia e l’Ucraina (considerati, al contrario, «a bassa pressione migratoria»). Alcuni importanti enti promotori sono direttamente le Regioni italiane – la Lombardia, le Marche e la Puglia – nonché agenzie di formazione a livello regionale (ENAIP Veneto, Confcooperative Emilia-Romagna ecc.). I titoli di studio richiesti, in genere, sono quelli equiparabili alla nostra licenza
media o media superiore, anche se in qualche caso è richiesta una laurea o titoli assimilabili. In molti casi, invece, si richiede soltanto «esperienza nel settore», come per le figure
professionali da formare nel campo dell’edilizia, della ristorazione e nella saldatura o nel
comparto metalmeccanico.
Queste esperienze formative, comunque, rimangono limitate (tra l’altro non potrebbero essere diverse) e dunque non possono influenzare più di tanto – in termini incrementali – il capitale sociale complessivo dell’insieme dei migranti che decidono di venire in Italia
da quella particolare area geografica. Il punto critico che le istituzioni nazionali e regionali dovrebbero affrontare con maggior rigore e continuità rimane l’attivazione di processi
formativi da sviluppare su larga scala sull’intero territorio nazionale, includendo strutturalmente in essi le componenti straniere della popolazione. Al fianco di tale processo occorre tener presente, tra l’altro, che le normative attuali non rendono fluidi i percorsi di accoglienza e di integrazione sociale ed economica degli immigrati presenti.
Brevi osservazioni conclusive
I processi formativi non possono essere svincolati dai processi più ampi di inclusione delle
componenti immigrate, poiché la partecipazione delle stesse ai corsi di formazione professionale non è disgiungibile dalla partecipazione più estesa che i giovani di origine straniera devono avere nella scuola (ai differenti ordini e gradi) e da quella degli adulti – occupati o in cerca di occupazione – nella vita sociale, culturale e politica all’interno della nostra
società. La formazione professionale non è un’isola dove si compongono le competenze
professionali, a prescindere dalle condizioni più ampie che caratterizzano la presenza degli
stranieri e loro ritmi di carattere esistenziale e socio-relazionale.
L’apprendimento linguistico degli stranieri deve divenire una pratica ordinaria sia sco60
Immigrazione e formazione professionale
Osservatorio Isfol n. 2/2011
61
OIM-Italia
Confcooperative
Regione Lombardia
1
1
4
ARCI
Regione Marche
1
4
Milano
Marocco
Associazione Apoliè
8
Nigeria
Russia
Ucraina
Moldavia
Marocco
Marocco
Filippine
Moldavia
Brasile
Ucraina
Marocco
Paese di svolgimento
del corso
N.
Ente promotore
progetti
realizzati
80
40
40
70
30
320
Anno 2007
N. corsisti
Specializzati nel settore carni
Non specifica
Aiuto cuoco
Profilo di uscita
Diploma media superiore
e inferiore
Diploma media superiore
(segue)
Operatori sociali per minori
Saldatore qualificato
Aiuto cuoco e addetti
alla ristorazione
Settore edile
Diploma medio (conoscenza Operai settore del legno
alfabeto latino)
Operai edili
Aiutanti familiari
Mastro muratore
Cultura italiana
Diploma media superiore
Altamente qualificati
(laurea e oltre)
Diploma media superiore
Titoli di studio richiesti
Tabella 9. Numero di progetti finanziati dal Ministero del Lavoro in base all’art. 23 del T.U. sull’immigrazione, ente promotore,
paese di svolgimento, titolo di studio richiesto e profilo professionale di uscita previsto. Anni 2007, 2008 e 2009
62
Immigrazione e formazione professionale
Perù
Ucraina
Moldavia
Etiopia
India
Nepal
Unione industriali
Pordenone
Confcooperative
Emilia-Romagna
Veneto
ENAIP
Compagnia
delle Opere
Confapi
Treviso-Belluno
1
2
6
5
6
Cina
Perù
Ucraina
Tunisia
Perù
Ucraina
1.060
115
Anno 2009
125
100
100
20
20
Anno 2008
N. corsisti
Fonte: nostra elaborazione su dati del Ministero del Lavoro - Italia Lavoro
40
Albania
Regione Puglia
1
Perù
Paese di svolgimento
del corso
N.
Ente promotore
progetti
realizzati
Tabella 9 (segue)
Esperienza edilizia
Diploma media superiore
Non specificato
Non specificato
Non specificato
Non specificato
Esperienza edilizia
Esperienza edilizia
Titoli di studio richiesti
Operatore edile esperto
per muri a secco
Lingua italiana
Tecnici sanitari
Metalmeccanici specializzati
Lingua italiana per
metalmeccanici specializzati
Profili operai diversi
Lavoratori domestici
Saldatore qualificato
Cultura italiana
Operatore metalmeccanico
Manutentori elettrici
e meccanici
Operatore edile esperto
per muri a secco
Profilo di uscita
lastica che extrascolastica, così la mediazione culturale-linguistica non deve restare appannaggio esclusivo dei servizi sociali (anche se la copertura è soltanto parziale) ma deve
estendersi anche alle imprese e alle aziende ad alta concentrazione di lavoratori stranieri.
Tali attenzioni rimandano a quello che ormai è definito l’approccio al diversity management, cioè l’attenzione alle differenti componenti di lavoratori non solo in base al genere
ma anche in base alla nazionalità di provenienza e alle modalità di rapportarsi con il mondo del lavoro. Il rischio è la discriminazione, ovvero l’impossibilità di consolidare gli skills
personali e di farli evolvere adeguatamente. Un altro aspetto critico che sembra incombere su intere componenti immigrate è quello di restare ancorati alle attività lavorative di
bassa manovalanza, alla discontinuità occupazionale e dunque alla precarietà esistenziale.
Questa è imputabile alle difficoltà che si registrano nei meccanismi normativi che dovrebbero facilitare l’integrazione sociale (anche introducendo il diritto al voto amministrativo),
mentre – al contrario – sembrano ostacolarla delegandola alla mera attività dei singoli e
dei piccoli gruppi di riferimento intracomunitari (con rischio di eccessiva etnicizzazione
delle relazioni e forme variegate di isolamento dalla popolazione locale). In tale quadro
anche l’accesso alla formazione professionale non può che essere modesto, come è modesta l’attenzione che si pone agli aspetti statistici del tema esaminato poiché non si riesce
– se non in modo approssimativo – a circoscriverne numericamente i beneficiari di origine
straniera.
Per citare questo articolo: Francesco Carchedi, Immigrazione e formazione professionale,
«Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 47-63.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
63
OFFICINA
s.f. dal lat. officina, der. di opifex -ficis «operaio, artigiano»
Impianto a carattere industriale o artigiano, nel quale
si effettuano lavorazioni […] inerenti alla fabbricazione
di semilavorati […] e all'esecuzione di montaggi,
riparazioni, revisioni e manutenzioni (LUI, vol. XV)
L’integrazione
socio-economica
degli immigrati
Strade percorribili
di Giovanna Giuliano, Simona Tenaglia
e Simona Testana
Riassunto: l’analisi della relazione tra flussi migratori e condizione sociale realizzata in questo lavoro ha come obiettivo quello di acquisire conoscenze sugli effetti prodotti dalle leggi
regionali sulla popolazione immigrata, nonché focalizzare strumenti e canali di accesso dei
cittadini immigrati ai servizi territoriali al fine di promuovere i processi di integrazione.
Lo studio ripercorre, oltre alle principali teorie sociologiche di integrazione, le indagini
condotte nelle annualità precedenti sul tema dell’integrazione degli immigrati nel nostro
paese e sull’accesso ai servizi socio-sanitari, del lavoro e della formazione, tenendo presente che è infatti a livello locale che il processo di integrazione della popolazione immigrata si realizza. Vengono inoltre presentate le principali statistiche sulla presenza di immigrati nelle regioni italiane (livello di istruzione, status occupazionale ecc.). Vengono infine presentati i risultati dell’indagine empirica condotta in quattro regioni italiane (FriuliVenezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna e Abruzzo), sia attraverso una descrizione dell’accesso ai servizi territoriali interessati dall’indagine, sia tramite una verifica econometrica
dei modelli di integrazione sociale degli immigrati.
Parole chiave: Immigrazione; Infrastrutture sociali; Integrazione socio-economica
Introduzione
Si assiste da anni a un fenomeno di globalizzazione dell’immigrazione che rende necessario riflettere sul termine «integrazione» e sulla relativa politica che i singoli Stati devono
mettere in campo. Si sta assistendo alla diffusione di un’inquietudine legata per un verso
alla spinta a emigrare che in molte nazioni, e non solo quelle in via di sviluppo, sta crescendo, e dall’altro alla preoccupazione diffusa nei paesi di destinazione dell’immigrazione
per gli arrivi massicci di persone che periodicamente investono le frontiere.
Il processo di integrazione in questi ultimi anni è al centro di forti dibattiti in tutta
Osservatorio Isfol n. 2/2011
67
l’Europa, anche in virtù del fatto che molti degli Stati membri si sono trasformati da paesi
di emigrazione a paesi di immigrazione. I movimenti migratori che hanno investito i vari
Stati europei hanno determinato una rivisitazione e un aggiornamento delle precedenti
politiche di integrazione.
Tra gli aspetti che ricevono più attenzione vi sono le conseguenze che i flussi migratori in entrata, soprattutto nel caso di unskilled workers, determinano sul mercato del lavoro
locale, nonché le difficoltà per gli immigrati di integrarsi nel mercato del lavoro dei paesi
destinatari, molto più elevate rispetto a quelle degli autoctoni.
Da qui l’esigenza per gli Stati europei di una politica di integrazione, cioè una politica
che investa tutti gli ambiti della vita delle singole persone, dall’alloggio all’assistenza sociale e all’istruzione, in grado di inserire all’interno dei vari contesti sociali e territoriali la
persona prima come individuo e poi come immigrato (Ranieri, 2010).
Il termine «integrazione» è talmente vasto che rimanda a una serie di definizioni che
non solo possono variare nel tempo e nello spazio ma possono mutare anche a seconda del
paese considerato. Questo è legato al fatto che gli aspetti che compongono il welfare state
presenti all’interno dei paesi di destinazione dell’immigrazione variano da una società all’altra, e soprattutto varia il ruolo che l’immigrato occupa all’interno dello scenario economico e sociale. Tale situazione rende l’integrazione un fenomeno dinamico che coinvolge
tutte le dimensioni della vita dell’individuo.
Il processo di integrazione viene visto come un percorso che riguarda due entità distinte, che vede da una parte l’immigrato che cerca di inserirsi, dall’altra la società ospitante
che in alcuni casi lo aiuta, in altri lo lascia fare, in altri ancora lo ostacola nel raggiungimento del proprio scopo (Golini, Strozza, Amato, 2001).
Le modalità con cui si può includere l’immigrato all’interno della società si possono inserire in un continuum che va dall’assimilazione al multiculturalismo (Coleman, 1994).
Nella dottrina sociologica l’aspetto che ha dominato per molti anni la scena è stato
quello integrazionista, ossia l’approccio che affida alla cultura e ai modelli di comportamento condivisi e interiorizzati con il processo di socializzazione l’unione della società.
Questo porta, inevitabilmente, verso un’integrazione percepita come adesione alle norme,
alla cultura e alle abitudini presenti in una comunità.
All’interno del dibattito sociologico che è nato intorno a tale termine si possono raggruppare alcune delle principali correnti che permettono di tracciare tre distinte definizioni del termine stesso (Zincone, 2000):
1. integrazione come uguaglianza;
2. integrazione come utilità;
3. integrazione come somiglianza.
Queste tre correnti di pensiero ci conducono verso l’individuazione di altrettanti modelli di
integrazione. Dall’interpretazione dell’integrazione come somiglianza nasce, infatti, il modello assimilativo. Il concetto utilitaristico di integrazione si è materializzato, invece, nel modello tedesco del lavoratore ospite «Gastarbeiter». Un ulteriore modello, infine, che si è diffuso nel corso degli ultimi vent’anni è quello multiculturale. Questo modello trova le proprie
basi nell’ordinamento «flessibile e pluralistico della democrazia britannica e trova le attuazioni più avanzate in Canada e con accezioni diverse in Olanda e Svezia» (Ambrosini, 2001).
68
L’integrazione socio-economica degli immigrati
Oggi ci troviamo a vivere in una fase caratterizzata da forte instabilità economica e politica, e la strada che sembra presentarsi come la più auspicata fa riferimento al modello
dell’interculturalità, ossia società in cui gli autoctoni vivono insieme ai gruppi etnici «con
scambi culturali che mirano ad arricchire il patrimonio di ognuno dei popoli, senza però
che vi siano culture egemoni da un lato e culture subordinate dall’altro» (Golini, 1999).
Parlare di integrazione, inoltre, vuol dire anche esaminare l’impatto dell’immigrazione
sul mercato del lavoro, in particolare sui salari e sul livello di disoccupazione dei lavoratori
con basse qualifiche. La letteratura economica cerca di dare una risposta alle inquietudini
che si sono diffuse all’interno delle società ospitanti. In particolare tre sono gli aspetti economici che destano preoccupazioni: i) la riduzione dei salari dei nativi; ii) la sottrazione di
posti di lavoro agli autoctoni del paese di destinazione; iii) il peso di spese gravanti sul bilancio pubblico derivanti da bassi salari e disoccupazione degli immigrati. Nonostante le
numerose analisi, non è ancora chiaro quali siano gli effetti dell’immigrazione sui salari e
sulla disoccupazione dei paesi di destinazione. Le valutazioni sono molto diverse tra le varie nazioni e gli aggiustamenti dei mercati del lavoro sono differenti tra paesi, sollevando
così il problema della presenza di fattori specifici a ogni nazione, quali politiche del lavoro
e del prodotto, che influenzano l’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro.
Alcune statistiche descrittive
Negli ultimi decenni si sta sempre più assistendo a un graduale inserimento di cittadini
stranieri. Il processo di integrazione che a fatica o meno si prova a creare sui territori è influenzato dalla loro giovane età media e dalla loro attitudine alla mobilità. Sicuramente
riuscire a rilevare le loro caratteristiche socio-demografiche crea la base e un utile strumento per riuscire a determinare le reali dimensioni del loro accesso al sistema di welfare,
al mercato del lavoro e ai servizi offerti dal territorio.
Nell’ultimo triennio la popolazione straniera residente in Italia ha avuto una crescita
meno sostenuta rispetto a periodi precedenti, ma si rileva una popolazione al 1° gennaio
2011 di 4.563.000 persone con un saldo del 7,5% rispetto al 7% del 2010 e all’8,8% del
2009. Nell’ultimo decennio la popolazione straniera si è addirittura triplicata. Tali tassi di
crescita differiscono da regione a regione: in Emilia-Romagna si notano livelli di incidenza
dell’11,3%, rispetto all’11% dell’Umbria, al 10,7% della Lombardia e al 10,2% del Veneto. Al
contrario nel Mezzogiorno i tassi sono decisamente più bassi; la crescita minore si ha con il
2,2% in Sardegna, che è anche fanalino di coda in termini di presenze di stranieri residenti
con il 2%. Informazione tanto più rilevante se si confronta con la presenza della popolazione italiana residente. Le regioni settentrionali contano la presenza del 44,5% della popolazione italiana e del 61,2% della popolazione straniera mentre nel Sud risulta il 36,2% del
totale della popolazione italiana e il solo 13,5% di quella straniera (ISTAT, 2010). La presenza
più rilevante di stranieri si è sempre avuta nel Centro-Nord ma tale tendenza negli ultimi
anni si è andata modificando. Come si può osservare dalla tabella 1, una maggiore crescita
si è avuta nei paesi del Sud Italia; l’effetto è prodotto dal movimento migratorio con l’estero, mentre nelle restanti parti d’Italia risente degli effetti della dinamica naturale.
Oggi la presenza di stranieri per la popolazione italiana costituisce un riequilibrio parOsservatorio Isfol n. 2/2011
69
Tabella 1. Stranieri residenti al 1° gennaio per regione (anni 2002-2010) per 100 residenti
Regioni / ripartizioni
geografiche
2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
2010
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Trentino-Alto Adige
Bolzano
Trento
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
2,7
2,2
3,6
2,3
3,3
3,1
3,4
3,5
3,2
3,5
3,2
3,4
3,2
3,0
1,7
0,8
0,7
0,7
0,6
0,9
1,0
0,7
3,0
2,4
4,2
2,7
3,8
3,6
4,0
4,0
3,7
4,1
3,6
3,9
3,7
3,3
1,9
0,8
0,8
0,9
0,6
0,9
1,0
0,7
4,1
3,0
5,2
3,4
4,4
4,1
4,8
5,2
4,3
5,2
4,6
5,1
4,7
3,9
2,5
1,0
1,1
1,1
0,9
1,4
1,3
0,9
4,8
3,5
6,3
4,1
5,1
4,6
5,5
6,1
4,9
6,2
5,4
6,2
5,4
4,7
3,0
1,2
1,5
1,2
1,0
1,6
1,4
1,0
5,3
4,0
7,0
4,6
5,7
5,3
6,0
6,8
5,4
6,9
6,0
6,8
6,0
5,2
3,4
1,3
1,6
1,2
1,1
1,7
1,5
1,1
5,8
4,4
7,6
5,0
6,2
5,8
6,6
7,3
6,0
7,5
6,4
7,3
6,5
6,0
3,7
1,5
1,7
1,3
1,1
1,8
1,6
1,2
7,1
5,2
8,5
5,6
7,0
6,7
7,4
8,4
6,8
8,6
7,5
8,6
7,4
7,0
4,5
2,0
2,0
1,6
1,6
2,5
2,0
1,5
7,9
5,9
9,3
6,5
7,7
7,3
8,2
9,3
7,7
9,7
8,4
9,6
8,3
8,0
5,2
2,3
2,3
1,8
2,0
2,9
2,3
1,8
8,5
6,4
10,0
7,1
8,3
7,8
8,8
9,8
8,2
10,5
9,1
10,4
8,9
8,8
5,7
2,5
2,5
2,1
2,2
3,3
2,5
2,0
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Centro-Nord
Mezzogiorno
Italia
3,2
3,4
3,1
3,2
0,9
2,4
3,7
4,0
3,5
3,7
0,9
2,7
4,7
5,0
4,3
4,7
1,2
3,4
5,7
5,9
5,1
5,6
1,4
4,1
6,3
6,6
5,7
6,2
1,6
4,5
6,8
7,2
6,3
6,8
1,6
5,0
7,8
8,1
7,3
7,7
2,1
5,8
8,6
9,1
8,3
8,7
2,4
6,5
9,3
9,8
9,0
9,3
2,7
7,0
Fonte: ISTAT, Movimento e calcolo annuale della popolazione straniera residente e struttura
per cittadinanza
ziale dal basso alla struttura per età della popolazione; ciò vuol dire che la presenza di
stranieri non è indifferente sull’impatto demografico della nostra popolazione, essi contribuiscono a rinnovare la popolazione presente. L’età media degli stranieri residenti è di 31,8
anni; tra questi il 22% ha un’età non superiore ai 17 anni e ben il 68,5% ha meno di 40
70
L’integrazione socio-economica degli immigrati
anni. Il profilo tracciato anche in questo caso presenta differenziazioni territoriali: nel
Nord l’età media è di 31,1 anni, con persone al di sotto dei 17 anni al 23,5%, a fronte di
un’età media di 33,3 anni nel Sud e una presenza di minori del 18,5%.
Nel nostro paese tra i minori si ha la presenza di uno straniero su dieci e in Lombardia
tale dato registra un livello di uno su otto. Se si considera un’età compresa tra i 18 e i 39
anni si rileva la presenza di uno straniero ogni otto residenti per un’incidenza del 12,7%.
Un impatto sugli effetti demografici è determinato anche dal più elevato tasso di fecondità della popolazione considerata. La crescita è determinata dalla più giovane età nel procreare: le donne straniere hanno un’età media della madre di 27 anni e 9 mesi rispetto ai 31
anni e 7 mesi delle italiane; il numero medio di figli per le prime è 2,3, per le seconde 1,3.
Nel 2009 le famiglie con la presenza di almeno uno straniero sono l’8,3% della popolazione di riferimento per un totale di 2.074.000; il 6,6% delle famiglie italiane ha un capofamiglia straniero. Il grado di integrazione nella comunità autoctona è espresso dalla quota di famiglie miste ossia di famiglie composte da italiani e stranieri sul totale di quelle
con stranieri: tale indicatore è del 22,6%. Anche in questo caso il numero maggiore è al
Nord ed è composto da famiglie più giovani rispetto a quelle con solo italiani; infatti in
questo caso l’età media è di 30 anni contro quella di 43 per gli individui italiani.
Un ulteriore elemento di integrazione è espresso dai matrimoni misti, anch’essi in crescita: sono pari al 10% nel 2008. Nei matrimoni misti è sempre più frequente la presenza
dell’uomo come cittadino italiano rispetto a quella della donna.
Se si considera il paese di origine, i rumeni risultano il numero maggiore seguiti da albanesi e marocchini, cinesi e ucraini che rappresentano il 50% delle comunità presenti nel
nostro paese.
Gli stranieri in Italia hanno un grado di istruzione medio-alto; infatti nel 2009 il 40,2%
ha un diploma di scuola superiore e il 10,1% una laurea in un’età compresa tra i 15 e i 64
anni. Il grado di istruzione piuttosto elevato ci pone ad attestare che la scelta di emigrare
nel nostro paese è fatta in buona parte da persone in grado di avere tutti gli strumenti per
poter considerare gli effetti prodotti dalla scelta nel lasciare il paese; quasi certamente esse sono spinte dalla valutazione che tale scelta avviene per poter migliorare le proprie condizioni di vita. Non ultimo, molte di esse valutano anche il miglior livello scolastico di cui i
loro figli potranno avvalersi nel nostro paese.
Predominante è però la prima generazione di immigrati. Riuscire ad avere un lavoro è
quasi sempre una delle priorità, a dimostrazione che l’immigrazione è un fenomeno abbastanza recente in Italia ma anche che il lavoro è uno dei passi fondamentali nel processo
di integrazione. In effetti gli esiti della presenza straniera si risentono anche sul mercato
del lavoro. Infatti gli stranieri rappresentano l’8,6% del totale degli occupati. Sia il tasso di
occupazione che quello di attività sono più elevati per gli stranieri che per gli italiani: il
tasso di occupazione è del 64,5% per gli stranieri e del 56,9% per gli italiani nel 2009,
mentre quello di attività del 63,4% contro il 43,7%. Al contrario avviene per il tasso di disoccupazione, rispettivamente dell’11,2% per gli stranieri e del 7,5% per gli italiani, mentre per quello di inattività si rileva il 27,3% per gli stranieri contro il 38,4%.
Il processo di integrazione non avviene sempre consentendo le migliori condizioni. Più
di un terzo delle famiglie straniere (il 34,5%) si ritrova in condizioni di deprivazione materiale (ISTAT, 2011), e con un’intensità di deprivazione più elevata: infatti il 53,4% delle famiOsservatorio Isfol n. 2/2011
71
Tasso di inattività
(15-64 anni)
Tasso di
disoccupazione
Tasso di occupazione
(15-64 anni)
Figura 1. Tassi di occupazione, disoccupazione e inattività della popolazione nazionale
e straniera per ripartizione geografica. Anno 2009 (%)
Popolazione
nazionale
Popolazione
straniera
Popolazione
nazionale
Popolazione
straniera
Popolazione
nazionale
Popolazione
straniera
0
10
Nord
20
30
Centro
40
Mezzogiorno
50
60
70
Totale
Fonte: ISTAT, Noi Italia, 2010
glie deprivate lo è in maniera grave. Le famiglie più deprivate si trovano in prevalenza al
Centro-Nord.
Il 58,7% delle famiglie straniere vive in affitto o subaffitto mentre il 23,1% ha una casa di proprietà e il 12,5% possiede un alloggio in uso gratuito o usufrutto (per il 60% è fornito dal datore di lavoro), dato del tutto difforme da quello delle famiglie italiane. Le condizioni dell’abitazione in cui vivono è nel 13,3% dei casi poco dignitosa, spesso si trovano
in case sovraffollate (il rapporto è 13 a 5) o con problemi strutturali dell’alloggio. Anche se
l’ambiente circostante in cui vivono non è dei migliori, gli stranieri tendono a non affermarlo; ciò sicuramente è dovuto al confronto con il proprio paese di origine.
Le famiglie straniere hanno certamente più difficoltà economiche rispetto a quelle italiane e ciò si rispecchia nel ritardo sul pagamento di bollette: il 23,4% è in arretrato con le
bollette, il 26,3% ha difficoltà a pagare l’affitto, il 28,1% non ha avuto i soldi per i vestiti
necessari, il 64,9% non riesce a far fronte a spese impreviste di 750 euro. Di fatto, però,
nelle situazioni di difficoltà si ritrovano delle reti amicali o parentali per cui possono contare su qualche forma di aiuto economico (24,7%).
Se si analizzano i dati previsionali, nel 2030 si osserva un rallentamento dei flussi dalle aree di immigrazione dall’Est Europa mentre un netto aumento si avrà dall’Africa.
Sembrerebbe quindi che, anche se non senza difficoltà, le famiglie straniere in Italia
riescano a portare avanti un processo di integrazione; ancora devono essere rimossi ostacoli per avere la piena cittadinanza, ma sembrerebbe che negli ultimi anni, seppur con len72
L’integrazione socio-economica degli immigrati
tezza, piccoli progressi stiano avvenendo. Dal rapporto ISMU risulta che siamo al decimo
posto tra i paesi dell’UE e del Nord America, in termini di politiche adottate, ma ci sono alcuni settori da porre in maggiore osservazione: l’istruzione, la partecipazione politica e le
discriminazioni. È importante però considerare anche l’opinione pubblica: nell’indagine
«Transatlantic Trends: Immigrazione» risulta che gli italiani sono più scettici nei confronti
degli stranieri. Nel 2010 il 56% degli italiani ritiene che gli immigrati contribuiscano all’aumento della criminalità, cresce la percezione che gli immigrati siano troppi (53%) e
senza possibilità di lavoro (75%). In riferimento all’integrazione dei figli di immigrati,
quindi agli «immigrati di seconda generazione», solo il 24% degli italiani è pessimista. Così come cresce la consapevolezza dell’esistenza di una significativa richiesta di mano
d’opera immigrata e che essa rappresenta una forza lavoro complementare per il paese soprattutto nei settori dei servizi, agricoltura e industria manifatturiera, tanto che il 69% degli italiani non considera che gli immigrati gli tolgano il lavoro e il 76% sostiene che essi
svolgono lavori che non sarebbero svolti altrimenti. Il 49% però, guardando al futuro, si dice contrario a incoraggiare l’immigrazione per motivi di lavoro.
Sperimentare l’accoglienza
Questo è il contesto da cui è nato un percorso di ricerca realizzato nell’ambito delle politiche di welfare, per verificare il livello di integrazione della popolazione immigrata in alcuni contesti territoriali. Nello specifico è stata condotta un’indagine, «Accesso della popolazione immigrata ai servizi territoriali e strategie di integrazione», in alcune regioni del
Centro-Nord, al fine sia di acquisire notizie ed elementi di conoscenza sui reali effetti di ricaduta indotti dalle leggi regionali sulla popolazione immigrata, sia di focalizzare l’analisi
sugli strumenti e i canali di accesso dei cittadini immigrati ai servizi territoriali. In questo
ambito ci si è posti l’obiettivo di delineare un quadro generale delle esperienze realizzate
nelle diverse aree territoriali oggetto di analisi, per valutare l’evoluzione delle strategie di
integrazione promosse a livello locale per favorire il pieno inserimento degli immigrati nel
tessuto sociale. L’attenzione è stata focalizzata su una serie di aree territoriali localizzate
in quattro regioni del Centro-Nord che ricadono all’interno dell’Obiettivo 3 e che avevano
per prime emanato provvedimenti legislativi in base a quanto prescritto nel Testo Unico
(Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Abruzzo e Liguria).
In ognuna delle quattro regioni individuate, sono state selezionate due sub-aree all’interno delle quali condurre l’indagine.
Il dimensionamento ha tenuto conto di due principali aspetti:
1. la funzione di attrazione dei territori, ad esempio il tessuto industriale di piccole e medie aziende, le attività agricole, la presenza di poli universitari;
2. le caratteristiche demografiche della popolazione autoctona e di quella immigrata, per
verificare anche la significatività delle concentrazioni in alcune aree specifiche.
Nello specifico dei flussi migratori, l’indagine ha rilevato le caratteristiche distintive e i
percorsi storici che hanno caratterizzato il progetto migratorio della popolazione che si è
trasferita nel nostro paese.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
73
Le aree individuate per l’effettuazione della rilevazione sono state le seguenti:
• in Liguria, l’area metropolitana di Genova e la città di Savona;
• in Friuli-Venezia Giulia, il territorio che gravita su Trieste e la zona di Latisana, in provincia di Udine;
• in Emilia-Romagna, le città di Bologna e Modena;
• in Abruzzo, la selezione delle aree di Pescara e di Avezzano.
La realizzazione dell’indagine di campo ha interessato complessivamente circa 400 cittadini immigrati residenti nelle aree selezionate: 100 questionari per ciascuna regione oggetto dell’indagine1. La realizzazione dell’indagine di campo ha colto principalmente le dimensioni seguenti:
• le condizioni sociali, economiche e ambientali che contraddistinguono la realtà vissuta
dai cittadini immigrati;
• la domanda e l’offerta di servizi e prestazioni per la popolazione immigrata, evidenziando i punti di forza e le aree di criticità che si registrano a tale proposito;
• il grado di socializzazione e la domanda di partecipazione proveniente dagli immigrati;
• le opinioni e le valutazioni espresse sugli aspetti più importanti relativi alle politiche
realizzate per lo sviluppo dell’integrazione della popolazione immigrata.
Un ulteriore approfondimento dei percorsi di integrazione attuati è stato rilevato sul grado di conoscenza e sui canali utilizzati per la ricerca e l’accesso alle risorse di welfare quali abitazione, lavoro e formazione, servizi socio-sanitari.
Il gruppo complessivo degli intervistati è composto in egual misura da uomini e donne,
per lo più giovani (il 72,9% non ha compiuto i 40 anni), che dichiarano di vivere in Italia
mediamente da più di otto anni e di avere un’occupazione (l’80%).
Dal titolo di studio in possesso (solo il 14% non ha alcun titolo di studio) e dallo stato
civile riscontrato si evidenzia che la configurazione tracciata sottolinea un aspetto rilevante delle migrazioni contemporanee: il superamento dell’ideal-tipo dell’immigrato con una
sola figura sociale, poco qualificato, generalmente di sesso maschile. L’evoluzione demografica e sociale della popolazione immigrata mostra una popolazione con maggiore dotazione di capitale umano e sociale che ha altresì modificato il proprio profilo anagrafico, con
la crescita della componente femminile e la nascita di seconde e terze generazioni.
La descrizione dei percorsi migratori intrapresi da individui o da gruppi di individui deve poter tenere conto del paese di provenienza, delle esperienze compiute dall’uscita del
paese di origine, delle motivazioni all’origine della scelta di immigrare.
La stessa area di provenienza fa parte delle «condizioni» dinamiche del processo migratorio2. Nei casi studiati l’ingresso in Italia non è stato preceduto da periodi di tempo trascor1
La rilevazione è stata effettuata nel periodo
giugno-settembre 2008.
2 Ad esempio vi sono flussi provenienti dai
paesi a forte pressione migratoria o provenienti da
paesi a sviluppo avanzato. Secondo la classifica-
74
zione ISTAT, i paesi a forte pressione migratoria sono quelli appartenenti all’Europa centro-orientale,
all’Africa, all’Asia (fatta eccezione per Israele e
Giappone) e all’America centro-meridionale.
L’integrazione socio-economica degli immigrati
si in altri paesi3. L’individuazione delle motivazioni del soggiorno in un altro paese rappresenta un fattore fondamentale per comprendere le caratteristiche assunte dai flussi migratori nei paesi di accoglienza. I motivi che inducono a emigrare costituiscono spesso alcuni
degli elementi più importanti che delineano l’evoluzione degli insediamenti migratori e il loro grado di consistenza e stabilità sul territorio. I risultati dell’indagine confermano che la ricerca del lavoro è tuttora di gran lunga il motivo principale all’origine della scelta di emigrare nel nostro paese. Più di sette immigrati su dieci (72,8%) presenti nelle regioni oggetto di
analisi affermano infatti di essere venuti in Italia spinti dalla volontà di trovare un’occupazione in grado di migliorare le loro condizioni rispetto a quelle vissute nei paesi di origine.
Nel chiedere agli intervistati quale fosse la loro precedente occupazione (nel paese di
origine) e quale quella al momento dell’intervista (in Italia), più di un terzo si è dichiarato
disoccupato nel paese di origine; questa condizione muta decisamente nel periodo di permanenza in Italia dove l’immigrato dichiara di aver trovato un impiego, tanto che la percentuale dei disoccupati – in Italia – è soltanto del 2,9%. Per quanto riguarda la categoria della «non forza lavoro» (casalinghe e studenti) essa scende, rispettivamente, dal 34,1% e dal
14% nel paese di origine al 6,6% e al 3,9% in Italia. In questo senso è rinforzato l’assunto
che la migrazione verso il nostro paese sia spinta soprattutto dalla ricerca di un lavoro.
Le altre motivazioni da cui è scaturita la scelta dell’Italia quale paese di immigrazione
sono (figura 2):
• la presenza preesistente nel nostro paese di familiari e conoscenti (circa i due terzi degli analizzati);
• l’accessibilità geografica e territoriale dell’Italia dal paese di origine (circa il 15% delle
frequenze);
• quote analoghe di cittadini immigrati, pari a poco più del 14% del totale dei casi, hanno dichiarato di essere venuti in Italia per la buona conoscenza della lingua e per l’esistenza di leggi che non ostacolano l’ingresso degli stranieri.
I quesiti relativi alle motivazioni all’origine della scelta di immigrare in Italia, l’individuazione dei diversi paesi che hanno contrassegnato l’esperienza migratoria prima dell’approdo nel nostro paese e la verifica dei rapporti esistenti tra essi e i nuclei familiari di appartenenza permettono di rintracciare degli elementi circa il modo in cui viene sperimentato
l’insieme delle problematiche connesse con l’accoglienza. L’inserimento, quindi, e l’impatto con la realtà sociale di un paese straniero.
Il livello e la qualità dell’offerta di servizi territoriali per l’immigrazione ha costituito,
quindi, un aspetto di fondamentale importanza che ha potuto condizionare in modo decisivo l’esperienza vissuta nel nostro paese.
3 Qualora rappresentasse un secondo processo
migratorio, gli Stati interessati dalle presenze migratorie coincidono quasi sempre con i grandi
paesi europei caratterizzati dalla presenza di forti
flussi di popolazione immigrata (nell’ordine Francia, Spagna, Germania ecc.).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
75
Figura 2. Motivi della scelta dell’Italia come paese in cui emigrare
Presenza di familiari e/o conoscenti
65,5
30,8
Opportunità di trovare lavoro
Paese più accessibile geograficamente
14,9
Conoscenza della lingua italiana
14,4
Leggi che favoriscono l’ingresso
14,4
Strutture di accoglienza adeguate
2,2
Altro
3,2
0
10
20
30
40
50
60
70
Fonte: elaborazione dati ISFOL
Servizi: utilizzo e valutazione
Un’attenzione particolare è stata dedicata all’analisi dell’utilizzo dei servizi e alla valutazione di affidabilità, che portano con sé quattro principali questioni che riverberano nell’intelaiatura delle politiche locali sociali e sanitarie: la questione dell’accoglienza, della
salute globale, della regolazione e della valutazione.
L’acquisizione delle opinioni relative allo stato e alla qualità dell’offerta di servizi per
l’immigrazione presenti sul territorio ha permesso di focalizzare l’attenzione su:
• il livello delle conoscenze posseduto dagli immigrati sull’insieme dei temi che riguardano l’offerta di servizi e prestazioni sociali e le fonti da cui sono state raccolte le informazioni su tali argomenti;
• tipologia e caratteristiche del ricorso ai servizi.
È stato in tal modo possibile delineare un quadro generale degli atteggiamenti e dei comportamenti assunti dal campione di popolazione immigrata nei confronti dei servizi presenti sul territorio (Fabrizi, Ranieri, Testana 2010).
Rispetto alla conoscenza dei servizi offerti il punto di partenza riguarda la considerazione che l’accesso all’informazione costituisca, tra i molteplici interventi necessari per superare i rischi di emarginazione degli immigrati, un aspetto importante per assicurare l’accesso
ai servizi e che l’offerta di assistenza pubblica debba altresì rispondere a fattori di visibilità.
76
L’integrazione socio-economica degli immigrati
Circa otto cittadini immigrati su dieci hanno affermato di aver ricevuto informazioni
sui servizi socio-sanitari disponibili (il 73,1% degli uomini e l’89,1% delle donne).
La disarticolazione di questo dato per periodi di permanenza in classi mostra che l’acquisizione di informazioni aumenta con il tempo di permanenza: si passa infatti dal 76%
dei soggetti presenti in Italia entro un periodo di 24 mesi a un 89,8% di quelli presenti da
oltre 60 mesi.
Più dell’80% dei casi oggetto di indagine ha utilizzato una o più volte alcuni dei servizi sociali o sanitari disponibili offerti da strutture pubbliche. Risulta del tutto trascurabile
il ricorso a operatori privati. All’esistenza di livelli di conoscenza estesi e diffusi sull’offerta di servizi per gli immigrati si accompagna dunque un ricorso sostenuto alle prestazioni
erogate dalle strutture pubbliche localizzate sul territorio.
L’insieme delle prestazioni erogate dalle unità sanitarie di base costituisce di gran lunga
il tipo di servizio più richiesto dalla popolazione immigrata (più del 90% degli intervistati
che hanno utilizzato le prestazioni offerte dei servizi ha dichiarato di aver fatto ricorso a
queste strutture). Quasi un quarto ha usufruito dei servizi degli uffici del lavoro (con circa
+10% con il crescere del tempo di permanenza), mentre poco meno del 15% si è rivolto alle unità della pubblica amministrazione per la richiesta di contributi di tipo economico.
Circa l’8% ha utilizzato i buoni erogati per l’acquisto dei libri scolastici; quote pari a
poco più del 6% del totale dei casi hanno usufruito dei servizi di accoglienza. Si registra in
questi due casi (che chiaramente riflettono due ordini di esigenze fortemente correlabili al
processo di integrazione) una controtendenza: l’utilizzo dei buoni libro varia da percentuali di prima fase dello 0% a quelle del 13,5%, l’accoglienza temporanea dal 16,1% al 4,7%.
Nella grande maggioranza dei casi, secondo l’esperienza degli intervistati, gli operatori
dei servizi pubblici parlano solo la lingua italiana. Le lingue straniere maggiormente conosciute dal personale che opera presso le unità della pubblica amministrazione preposte all’offerta di servizi alla popolazione immigrata sono in prevalenza lingue europee, nell’ordine l’inglese, il francese e lo spagnolo.
Le opinioni formulate dagli intervistati sulle attività di servizio rivolte agli immigrati
hanno consentito di delineare un quadro generale dei giudizi espressi in riferimento al grado di soddisfazione sull’utilizzo dei servizi e delle prestazioni ricevute in Italia nel quadro
dei contesti regionali presi in esame4. Le valutazioni formulate dagli interessati offrono
elementi utili a una lettura dei livelli di offerta in base alle esigenze provenienti dagli stessi. Fare luce sulle relazioni intercorrenti tra processi migratori e accesso ai servizi richiama
l’attenzione sulla questione dell’accesso intesa sia come descrittore qualitativo dell’attività dei servizi stessi, sia come indicatore dei processi e dei percorsi d’integrazione. L’attenzione è posta principalmente a due livelli: quello dell’accesso all’informazione e quello della razionalizzazione e diversificazione dei servizi.
Il primo livello valutato deriva dalla considerazione già evidenziata che l’accesso a una
corretta informazione è condizione necessaria per la realizzazione del processo di integra4 Nel quadro nazionale i dati recentemente
pubblicati dall’indagine ISTAT (2011) evidenziano che
i cittadini stranieri presentano i seguenti gradi di
soddisfazione per i servizi: 6,7% non soddisfatto;
33,1% intermedio; 48,4% soddisfatto (nel rilievo
comparativo, la popolazione residente italiana mostra rispettivamente percentuali del 18,4%, 45,1%,
31,6%).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
77
zione. Oltre l’80% del totale dei casi che hanno ricevuto informazioni sui temi relativi all’offerta di servizi sociali ritiene del resto di possedere un soddisfacente grado di conoscenza sulle caratteristiche dei servizi/prestazioni di tipo socio-sanitario erogati su base
territoriale. I giudizi sui servizi offerti dimostrano, dunque, la presenza dei livelli di gradimento in riferimento alla differenziazione della conoscenza delle opportunità esistenti e il
tempo di permanenza.
Il territorio come risorsa
Per meglio comprendere il fenomeno dell’immigrazione in Italia ci si è posto l’obiettivo di
guardare agli aspetti relativi ai singoli territori, oltre che a quelli relativi all’economia e alla società più in generale. Tali approfondimenti sono stati realizzati attraverso la ricostruzione di alcune dimensioni, quali elementi e aspetti che caratterizzano il territorio. Queste
dimensioni contribuiscono da un lato alla definizione di risorse per l’accesso ai servizi da
parte della popolazione immigrata, dall’altro, e più in generale, alla promozione di processi di integrazione.
Sulla base delle informazioni raccolte è possibile riflettere intorno a una definizione di
territorio o di risorsa territoriale che prenda in considerazione le seguenti dimensioni: la
composizione delle reti di relazione che costituiscono canali informativi per l’accesso ai
servizi e ad altre risorse di contesto (che contribuiscono a definire la dotazione di capitale informativo); gli attori territoriali la cui azione è identificata/percepita quale contributo all’integrazione della popolazione immigrata (che rappresentino una risorsa di opportunità del territorio per i percorsi di integrazione); le reti sociali e la partecipazione alla
vita associativa.
La dimensione geografico-spaziale del luogo di residenza (centro/periferia) può avere
un suo valore interpretativo se si considerano le modalità insediative e le differenti dotazioni delle aree (offerta di infrastrutture e di mobilità).
In particolare, sono gli aspetti relativi alle reti di relazione e alle risorse relazionali, che
possono essere mobilitate all’interno del territorio di insediamento, che risultano un fattore determinante per le carriere migratorie, sia nella determinazione dei percorsi di arrivo
sia nella definizione delle traiettorie di stabilizzazione e integrazione.
Il rendimento atteso dal proprio capitale sociale è apprezzabile nel corso del tempo, in
particolare nel fronteggiamento di situazioni di crisi o per l’accumulazione di capitale informativo utile nell’orientamento alle opportunità di un territorio. Le reti di relazione e la loro
composizione divengono quindi fondamentali per l’implementazione di strategie individuali e familiari per il reperimento di risorse e per lo sviluppo del proprio progetto migratorio.
Ulteriore elemento ricavabile dall’indagine e che può fornire dati sulla caratterizzazione del contesto territoriale come risorsa utile per l’integrazione è rappresentato dalla registrazione della percezione degli immigrati e degli attori territoriali che operano a favore
dell’integrazione.
Un tema strategico per la valutazione delle capacità di accesso alla rete dei servizi da
parte della popolazione di un territorio è la considerazione del capitale informativo a disposizione dei soggetti e le modalità con cui gli individui lo generano e lo alimentano. Co78
L’integrazione socio-economica degli immigrati
me indicato nella legge n. 328/2000, l’esigenza primaria dei cittadini è: avere informazioni complete sulla gamma dei diritti, delle prestazioni e delle modalità di accesso al sistema
locale dei servizi sociali e al sistema dei servizi socio-sanitari; conoscere le risorse sociali
disponibili nel territorio in cui i cittadini vivono e che possono risultare utili per affrontare
esigenze personali e familiari nelle diverse fasi della vita e del ciclo familiare.
Dall’indagine scaturisce che le fonti informali di carattere familiare-parentale sono, nel
reperimento delle informazioni sui servizi territoriali, le modalità di utilizzo preminente
(55%). Queste ultime rappresentano il vantaggio informativo, in particolare della popolazione femminile, in quanto a disposizione fin dal loro arrivo. Di fatto circa la metà delle
donne intervistate (46,4%) è arrivata in Italia per ricongiungersi alla famiglia, contro il
17,7% degli uomini. Si assume quindi in termini generali che la presenza del nucleo familiare possa rappresentare una proxy adeguata per la valutazione del livello di maturazione
della propria carriera migratoria.
Anche la partecipazione ad attività associativa, per quanto interessi una parte esigua
del campione (14,6%), verifica il fatto che essa possa essere utilizzata come una dimensione proxy descrittiva del grado di radicamento e proattività verso il contesto territoriale: la
quasi totalità dei partecipanti ad attività associative si ritiene abbastanza (53,2%) o molto informata (44,7%). Solo una minoranza (2,1%) ha la percezione di essere poco informata, contro il 18,8% di chi non partecipa ad alcuna attività associativa. Va detto che il gruppo di chi partecipa ad attività associative risulta composto da persone con un alto livello
di istruzione.
Va sottolineato che tra i risultati anche il numero di anni di presenza insiste su un maggiore livello di informazione. Quest’ultimo aspetto sembra sostenere l’ipotesi che a un maggiore radicamento possa corrispondere la percezione del miglioramento del proprio capitale informativo rispetto all’offerta dei servizi del territorio. Ma quanto posto a tesi è che siano determinanti parimenti agli anni di permanenza e alle caratteristiche relative alle reti.
Le fonti utilizzate con maggiore frequenza per l’acquisizione di notizie relative all’offerta di servizi per gli immigrati sono costituite dai canali di natura informale rappresentati dai rapporti sviluppati con gli amici e dai parenti/familiari (rispettivamente circa il
55% e poco più del 45% del totale delle frequenze registrate). Per sondare le dotazioni di
rete a disposizione del soggetto immigrato e comprendere le eventuali diverse strategie
nell’attivazione dei canali informativi e di supporto rispetto alla diversificazione dell’offerta è interessante per analogia guardare ai comportamenti del campione rispetto alla composizione dei network utilizzati per la ricerca dell’alloggio e del lavoro. Per le risposte che
non siano perfettamente sovrapponibili a quelle utilizzate per i servizi sociali territoriali,
tuttavia è possibile notare come anche per la casa e il lavoro familiari e conoscenti immigrati rappresentino la fonte di informazione o di intermediazione principale (il 45,1% per
l’intermediazione immobiliare e il 64,6% per la ricerca del lavoro). Sono quindi innanzitutto le reti di natura primaria a rappresentare quel network di supporto e di veicolazione di
alcune informazioni strategiche per l’orientamento sul territorio e per il reperimento di risorse fondamentali quali l’alloggio e il lavoro.
Un ruolo rilevante in questo ambito viene svolto anche dall’associazionismo tra gli immigrati (circa il 30%), per certi versi classificabile ancora tra le dotazioni di network di natura primaria e che incarna spesso una finalità o suppletiva o integrativa di quei servizi inOsservatorio Isfol n. 2/2011
79
formativi e di orientamento territoriale che in alcuni contesti possono essere deficitari o
privi di quella declinazione interculturale che garantisce maggiore accessibilità. A questo
proposito è interessante tenere in considerazione quanto affermato dal campione rispetto
alla lingua parlata dagli operatori dei servizi territoriali: la maggioranza del personale che
opera presso le unità della pubblica amministrazione preposte all’offerta di servizi alla popolazione immigrata parla solo l’italiano. Uno dei motivi del maggiore ricorso ai servizi informativi offerti dall’associazionismo immigrato, prevalentemente da parte di soggetti con
un basso livello di scolarizzazione, può essere determinato anche dalla difficile accessibilità delle informazioni determinata dal fattore linguistico.
Le strutture dei servizi sociali (28%) e le ASL (circa un quarto del totale) rappresentano il
primo anello del sistema formalizzato dei servizi cui gli immigrati si riferiscono per ricevere
informazioni e orientamento. In tutte e quattro le regioni oggetto di indagine sono questi
due servizi a svolgere la funzione prevalente di front office per la popolazione immigrata.
Infine, un risultato da evidenziare complessivamente è che sulla base delle diverse dotazioni personali (in particolare di capitale umano) e del diverso grado di anzianità migratoria, i soggetti siano in grado di combinare in diverso modo le risorse relazionali e informative del territorio: gli immigrati con un livello di scolarizzazione più basso e con una minore anzianità migratoria prediligendo i canali parentali e amicali e quelli dell’associazionismo; gli immigrati con un livello di scolarizzazione più elevato e con un maggiore radicamento territoriale combinando le strutture relazionali di natura primaria con i canali più
istituzionali delle unità di servizio pubblico territoriale. Va però osservato un ulteriore elemento: a fronte di un buon livello di capitale informativo, di una tendenza alla stabilizzazione e dell’orientamento al radicamento nel tessuto sociale dei contesti di insediamento
(e, almeno per una quota di intervistati, di un buon livello di capitale sociale misto), le
esperienze della maggioranza dimostrano come le reti primarie e in particolare familiari
costituiscano il nucleo centripeto delle traiettorie sociali degli individui: quasi il 40% del
campione dichiara di trascorrere abitualmente il proprio tempo libero con la propria famiglia e il 26,7% con amici e conoscenti connazionali. Il capitale di relazioni misto (connazionali, altri immigrati e italiani) interessa un altro 26%. Solo il 9,5% sostiene di trascorrere abitualmente il proprio tempo libero con cittadini italiani. A questo si può aggiungere
il dato relativo ai luoghi di ritrovo e di socialità principalmente frequentati: il 54,5% delle
frequenze di risposta registrate indica che gli immigrati del campione non frequentano
abitualmente alcun luogo di ritrovo.
Interessante è evidenziare il dato sull’andamento del ricorso a organizzazioni del territorio nei termini di «concentrazione», nei vari periodi di permanenza, del bisogno dichiarato di una sua esigenza. La domanda era posta in questi termini: «A chi si rivolgerebbe per
soddisfare un fabbisogno?». Per la struttura che le policy per l’immigrazione e le logiche di
intervento a favore dell’integrazione sociale ed economica dei cittadini immigrati hanno
assunto nel nostro paese, la riflessione sulla dimensione territoriale come risorsa non può
prescindere dall’indagare, anche solo a livello di percezione, il protagonismo di quali soggetti venga identificato come strategico per i percorsi di radicamento territoriale.
Nell’analisi dei dati sulla percezione dei rank order, promotori di integrazione, la maggioranza delle frequenze di risposta interessa gli organismi di rappresentanza che operano
a livello comunale (37%), seguiti dalle rappresentanze diplomatiche dei paesi di prove80
L’integrazione socio-economica degli immigrati
nienza degli immigrati (26,8%), dalle organizzazioni della Chiesa cattolica (22,3%) e dagli
organismi istituzionali di rappresentanza presenti a livello provinciale (quasi il 13%). Secondo le opinioni espresse dagli immigrati consultati nel corso dell’indagine, gli organismi
istituzionali di rappresentanza che operano a livello comunale costituiscono le organizzazioni territoriali che più hanno favorito la crescita dei processi di integrazione della popolazione immigrata. Le difficoltà (di dialogo e spazio di partecipazione) incontrate dall’avvio
delle esperienze delle consulte e dei consigli degli immigrati presso gli enti locali non hanno dunque compromesso il grado di fiducia riscosso da questi organismi che vengono tuttora percepiti come le organizzazioni che hanno concorso maggiormente alla crescita dell’integrazione dei cittadini immigrati. Infatti, a un’analisi incrociata del dato specifico del
ruolo considerato delle rappresentanze dei paesi interessati con gli anni di permanenza, risulta che ad esse sia attribuito un peso significativo e costante.
In base alle valutazioni degli intervistati un ruolo non trascurabile per lo sviluppo dei
processi di integrazione è stato svolto anche dalle organizzazioni del Terzo Settore, dai sindacati e dagli organismi di rappresentanza regionali (ognuno di questi item è stato indicato da circa il 9% del totale dei casi).
Esaminando la relazione tra valori medi di permanenza e ricorso alle organizzazioni, si
evidenzia il riferimento al Terzo Settore quale preminente comportamento dei soggetti che
hanno trascorso più anni in Italia. Dato, questo, che va letto anche in riferimento al crescente fenomeno di sviluppo nell’ambito del Terzo Settore dell’associazionismo tra e per gli
immigrati nel nostro paese (FEO-FIVOL, 2008).
Da quanto finora detto si può notare come un ruolo molto importante sia assunto da
tali associazioni, in quanto organismi impegnati sul fronte del «mantenimento» dell’identità culturale di origine degli immigrati, e al tempo stesso a mettere in luce il contributo che
questi soggetti, nel processo di cambiamento in atto nella regione, riescono ad apportare.
In questo senso l’associazionismo promosso dai cittadini stranieri che nel nostro territorio risulta sempre più significativo, anche numericamente, si è dimostrato una risorsa
importante per le istituzioni collaborando nella definizione di politiche e servizi. Favorire
dunque la partecipazione attraverso le associazioni ha il fine non solo di realizzare progettualità positive, ma anche di permettere agli immigrati di farsi conoscere dai cittadini italiani e di attivare processi virtuosi di scambio e dialogo interculturale.
Per quanto il campione rilevi nell’insieme un buon livello di inclusione nel tessuto sociale e una tendenza alla stabilizzazione e alla maturazione del proprio profilo socio-demografico testimoniato dalla presenza di nuclei familiari, sembra ancora debole la risorsa
territoriale nella sua declinazione di promozione di socializzazione tra italiani e immigrati
e di sviluppo di capitale sociale misto. Per quanto con qualche differenza regionale, coerentemente con le logiche di impostazione degli interventi e della programmazione dell’offerta per l’integrazione, anche agli occhi del campione sono gli enti locali pubblici a presidiare insieme alla rete degli attori del privato sociale e dell’associazionismo immigrato le
politiche di integrazione territoriale.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
81
Una verifica empirica dei modelli di integrazione
Una verifica dei modelli di integrazione è stata realizzata dall’analisi econometrica. Per
realizzare tale analisi è stato utilizzato il database appositamente costruito con i 400 questionari somministrati agli immigrati nelle regioni oggetto d’indagine.
Una caratteristica di tale rilevazione è rappresentata dal fatto che le domande servono
a raccogliere il punto di vista degli immigrati e quindi la loro percezione della qualità dei
servizi di cui hanno usufruito.
Nell’analizzare il livello di integrazione sociale degli immigrati sono stati controllati alcuni fattori condizionanti quali l’età, il sesso, la durata del soggiorno in Italia, la presenza
della famiglia, il livello di istruzione, la conoscenza della lingua italiana dell’intervistato
come percepita dall’operatore che ha somministrato il questionario e lo status lavorativo.
È interessante prima di tutto considerare le risposte date dagli immigrati circa la distribuzione del tempo libero5 incrociandole con alcune caratteristiche quali livello di istruzione, tempo di permanenza, sesso, età, presenza della famiglia, occupazione. Per quanto riguarda il livello di istruzione, come si può vedere dalla tabella 2, sono gli immigrati con più
basso titolo di studio ad avere maggiori contatti sia con connazionali, familiari e non, che
con italiani. Tuttavia nel caso di contatti con italiani, gli immigrati con livello di istruzione
medio-alto mostrano valori percentuali più elevate. Questo risultato è in linea con quello
di Faini et al. (2006), in cui risulta che gli immigrati con livello più elevato di istruzione
parlano meno con il vicinato, ma hanno maggiori relazioni sociali al di là delle persone che
vivono nel loro quartiere.
Anche la permanenza nel paese di destinazione rappresenta una variabile significativa
per valutare l’integrazione degli immigrati. Nell’analisi vengono individuati tre gruppi di
Tabella 2. Impiego del tempo libero: classificazione per titolo di studio (%)
Classificazione titolo di studio
Con la famiglia
Con amici/conoscenti italiani
Con amici/conoscenti connazionali
Con amici/conoscenti misti
basso
medio
alto
69,3
64,1
81,5
48,1
20,3
23,1
14,8
43,3
10,5
12,8
3,7
8,7
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: ISFOL
5
Nel questionario è presente una sezione dedicata alle relazioni sociali. La domanda (D34) che
rileva ai fini dell’analisi riguarda la distribuzione
del tempo libero degli individui tra: 1) vita familiare; 2) tempo trascorso con conoscenti/amici
82
italiani; 3) tempo passato con amici/conoscenti
connazionali; 4) tempo trascorso con amici/conoscenti misti; 5) tempo libero dedicato ad amici/conoscenti nativi di altri paesi.
L’integrazione socio-economica degli immigrati
immigrati: persone che risiedono nelle regioni analizzate da meno di 5 anni, dai 5 ai 15 anni e oltre i 15 anni. Il risultato significativo che emerge dall’analisi è che per individui che
risiedono da oltre 15 anni si riduce significativamente il tempo trascorso con i connazionali (5,4%, contro il 64,7% per persone che risiedono da meno di 5 anni nella stessa regione). Ben diversa invece è la distribuzione del tempo libero, tra amici e conoscenti misti, per
persone che risiedono da periodi diversi in Italia. Le percentuali sono infatti rispettivamente del 40,8% (residenti da meno di 5 anni), 37,8% (residenti tra 5 e 15 anni) e 21,4% (residenti da oltre 15 anni). La riduzione delle percentuali di tempo trascorso con italiani o
stranieri di altre nazionalità per le persone che risiedono da oltre 15 anni in Italia conferma ciò che emerge dallo studio di Faini et al. (2006), i quali ottengono che il livello di socializzazione si riduce per gli immigrati che vivono nel paese ospitante da oltre 25 anni.
Considerando infine lo status lavorativo, è possibile notare come gli immigrati che
hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato trascorrono il loro tempo libero sia
con famiglia (35,1%) e connazionali (23,9%), che con italiani (30,8%) e conoscenti misti
(38,5%). Chi ha un lavoro autonomo passa invece prevalentemente il suo tempo libero in
famiglia (23,4%), con connazionali (23,9%) e nativi di altri paesi (33,3%). Ugualmente i disoccupati trascorrono molto tempo libero con la famiglia (22,7%) e con amici/conoscenti
misti (26,9%). Un elemento da notare riguarda il fatto che coloro che hanno contratti a
tempo determinato, indeterminato e collaborazioni, trascorrono oltre il 20% del tempo libero con italiani. In tal senso il lavoro può allora rappresentare un canale attraverso il quale realizzare un’integrazione sociale degli immigrati e quindi un aspetto importante da tenere in considerazione nel formulare politiche che favoriscono l’integrazione.
L’ipotesi che si vuole testare attraverso l’analisi econometrica è che il livello di integrazione sociale dipenda da alcune caratteristiche quali età, sesso, livello di istruzione, status
lavorativo, presenza della famiglia, tempo di permanenza e conoscenza della lingua del paese ospitante come valutata dall’intervistatore. L’equazione che viene stimata è la seguente:
(1)
FTi = α0 + α1TSi + α2EDi + α3AGEi + α4EMPLi + α5FAMi + α6SEXi + α7LANi
dove FTi rappresenta la distribuzione del tempo libero (con amici/conoscenti italiani, con
amici/conoscenti/familiari connazionali, con amici/conoscenti misti e con amici/conoscenti di altri paesi ), EDi è il livello di istruzione (basso, medio, alto), AGEi è l’età degli intervistati, divisa in sei classi (da 16 a 25, da 25 a 35, da 35 a 45, da 45 a 55, da 55 a 65, oltre
65), EMPLi rappresenta lo status lavorativo (disoccupato, lavoratore autonomo, dipendente a tempo determinato, dipendente a tempo indeterminato, collaboratore, irregolare),
FAMi assume valore 1 se è presente la famiglia, SEXi indica il sesso e infine LANi rappresenta la conoscenza della lingua italiana dell’immigrato (inadeguata, scarsa, sufficiente, buona e ottima).
Il test del rapporto di verosimiglianza permette di verificare come soltanto le variabili
titolo di studio e classe d’età non risultino significative. La stima dell’equazione (1) è stata
realizzata attraverso un Logit multinomiale, tecnica che ha consentito di stimare quattro
equazioni per ogni individuo, ognuna corrispondente a una diversa alternativa per l’impiego del tempo libero.
Un risultato che emerge in modo evidente è che avere maggiori contatti nel tempo liOsservatorio Isfol n. 2/2011
83
bero sia con la popolazione locale che con connazionali sia sensibilmente correlato con
l’assenza della famiglia (è evidente che tale dato interpreta i comportamenti proattivi dello sviluppo di capitale umano da parte della popolazione immigrata; dall’altro canto non
può soddisfare la formulazione di politiche mirate allo sviluppo di socialità che fanno leva
sull’assenza della famiglia!). Un impatto positivo sull’integrazione sembra inoltre produrlo
la conoscenza della lingua. Nell’ipotesi in cui la variabile dipendente è rappresentata dal
tempo libero trascorso con gli italiani, la conoscenza della lingua a un livello ottimo, buono e sufficiente produce effetti positivi sulla variabile tempo libero.
Sebbene non risultino esserci altre variabili significative, emerge con chiarezza come la
conoscenza della lingua sia uno strumento fondamentale per favorire l’integrazione, così
come l’offerta di opportunità per uscire dal gruppo dei pari. Questi risultati possono rappresentare degli utili suggerimenti per i policy makers nel formulare politiche di integrazione, e cercano di fornire degli elementi di riflessione più approfondita al dibattito in corso negli ultimi mesi affinché non vengano ripetuti soltanto stereotipi e luoghi comuni non
sostenuti da indagini empiriche.
Conclusioni
Il disegno di analisi sui percorsi di integrazione della popolazione immigrata, nel contributo sommariamente tracciato6, ha dato impulso a riconsiderare la relazione tra le cosiddette politiche dei flussi, di competenza dello Stato centrale, e quelle di integrazione, che fanno capo ai governi locali, nell’ottica delle strategie di inclusione sociale. Emerge chiaramente dall’analisi condotta che, in presenza di contesti impegnati nella produzione di politiche dedicate, un ruolo fondamentale di leva sia rappresentato dalle funzioni di intermediazione sociale. Emerge, inoltre, come i comportamenti del gruppo di popolazione analizzato mantengano piuttosto una relazione con le proprie cerchie etniche non negando l’importanza svolta da partecipazioni più organizzate alla vita sociale e politica del territorio.
In ultimo, il dato sensibile sull’accesso ai servizi di welfare dimostra come il capitale informativo sia un ulteriore prodotto di strategie riferibili a funzioni di mediazione. Nella conclusione si vuole evidenziare quanto, così come esposto al tavolo di lavoro interministeriale istituito presso il Viminale7, il processo in corso di definizione della figura del mediatore
culturale permetta di coniugare alcuni elementi che attraversano la differenza tra politiche specifiche e politiche ordinarie (ISFOL, 2009).
Coerentemente con il quadro generale proposto dei dati sulla popolazione immigrata,
che rappresenta un fenomeno da considerare permanente piuttosto che transitorio, la sfida, quindi, sarà rappresentata dalla verifica sulla tenuta dell’approccio universalistico ai
diritti delle politiche ordinarie.
6
Si ringrazia Cristiana Ranieri per il contributo dato.
84
7
«La promozione della figura del mediatore
culturale», tavolo promosso nell’ambito del FEI.
L’integrazione socio-economica degli immigrati
Bibliografia
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FEO-FIVOL, Le organizzazioni di volontariato del Mezzogiorno d’Italia nella rilevazione FIVOL
2006, Roma, 2008.
Golini A., La popolazione del pianeta, il Mulino, Bologna, 1999.
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Ranieri C., Migrazioni e welfare sociale. Prendersi cura del «corpo», per accogliere «storie di
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Per citare questo articolo: Giovanna Giuliano, Simona Tenaglia, Simona Testana, L’integrazione socio-economica degli immigrati, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 67-85.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
85
La modulazione
dei tempi di lavoro
Uno strumento di conciliazione
di Francesca Bergamante
Riassunto: in molti contesti, come in ambito comunitario, si ribadisce il ruolo dei meccanismi di work-life balance nel favorire l’occupazione e l’attività femminile. Va sempre più
emergendo però l’idea che il tema della conciliazione debba essere considerato e sviluppato a partire dalla convinzione che il raccordo tra tempi di lavoro e tempi di vita non sia una
prerogativa solo femminile. In questo quadro un ruolo positivo è giocato dal tema della
riorganizzazione degli orari e dei tempi di lavoro. Il contributo proposto, in primo luogo, ha
l’obiettivo di analizzare la diffusione delle forme di flessibilità dell’orario di lavoro nei paesi europei. In secondo luogo affronta alcuni aspetti della flessibilità oraria, del part time e
del telelavoro in Italia, analizzando congiuntamente il lato della domanda di lavoro e quello dell’offerta.
Parole chiave: Work-life balance; Conciliazione; Flessibilità dell’orario di lavoro
Introduzione
È ormai da molti anni che a livello europeo e italiano si ribadisce l’importanza dello sviluppo degli strumenti di work-life balance1 e di politiche di conciliazione tra sfera familiare e
lavorativa (e viceversa). Molto si insiste sul ruolo di tali strumenti nel favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro ed evitare che alla maternità si affianchi l’inattività,
dinamica che, come è noto, caratterizza in modo particolare l’Italia. Il dibattito che si sviluppa intorno a questi temi pone anche la questione del passaggio dal termine «conciliazione» a quello di «condivisione», nell’ottica che il lavoro di cura non rimanga unica prerogativa femminile (Piazza, 2010; Giannini, 2009; Gregory, Milner, 2009).
1 L’espressione work-life balance è stata usata
alla fine degli anni Settanta per indicare l’equilibrio tra il lavoro di un individuo e la sua vita priva-
ta. Per una definizione di work-life balance si veda
il sito <www.worklifebalance.com>.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
87
A marzo di quest’anno, in Italia, le parti sociali hanno firmato con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali un’intesa sulle «Azioni a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro»2. Nell’accordo sono indicati i punti da seguire nella definizione
di politiche di flessibilità degli orari di lavoro, con l’obiettivo di migliorare il rapporto tra le
sfere familiare e lavorativa e di contribuire all’accesso e alla permanenza delle donne nel
mercato del lavoro.
Nell’ottica della crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro, gran
parte della letteratura individua nella flessibilità oraria uno degli strumenti principali nell’implementazione di politiche finalizzate a favorire la conciliazione tra l’ambito familiare
e quello lavorativo (CNEL, 2010; Ferrera, 2008); in altri contributi si evidenzia anche il ruolo
positivo della diffusione di servizi per la prima infanzia (Borra, 2006; D’Addio, 2005; Del
Boca et alii, 2003; Aaberge et alii, 2005). Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale,
non sempre le opinioni convergono sulla certezza che possa essere una modalità di svolgimento dell’attività in grado di sostenere il work-life balance. In particolare si sottolinea,
infatti, che il contratto part time può concorrere all’equilibrio tra famiglia e lavoro, se ha
un carattere volontario e coinvolge sia la componente femminile, sia quella maschile dell’occupazione (Rustichelli, 2010; Bettio, Smith, Villa, 2009; Köllo“, Scharle, 2007). Altro presupposto dell’utilizzo positivo del part time è che non vi sia una penalizzazione sia in termini di welfare, sia di stabilità lavorativa e di carriera (Paci, 2005). La reale possibilità di
scelta di un orario ridotto e un’adeguata protezione sul fronte della legislazione del lavoro
e della previdenza possono rendere il part time un elemento in grado di equilibrare i tempi di lavoro e tempi di vita anche in un’ottica di parità di genere (Altieri, 2007; Bergamante, 2010). In tal senso l’esempio dell’Olanda, in cui all’elevata quota di lavoratrici part time
corrispondono anche alti tassi di occupazione femminile e il part time è molto diffuso anche tra gli uomini occupati, è oltremodo esplicativo.
A partire dal tema di questa intesa, con questo contributo, si intende offrire un’analisi
di alcuni aspetti ritenuti fondamentali nello sviluppo di politiche family-friendly, riguardanti in particolar modo i tempi di lavoro. Il lavoro è così strutturato: nella prima parte si
analizza la flessibilità oraria in Europa e le variazioni tra i paesi; nella seconda parte si sviluppa il tema dell’organizzazione dei tempi di lavoro nel contesto italiano; infine sono presentate alcune riflessioni conclusive.
Un’Europa flessibile
Per la costruzione di un quadro comparativo a livello europeo sui tempi di lavoro, sono stati utilizzati i dati della 5a Indagine Europea sulle Condizioni di Lavoro (European Working
Conditions Survey, EWCS) del 20103, realizzata da Eurofound. Alla base di queste analisi vi è
2
L’accordo è consultabile su <www.lavoro.
gov.it>.
3 L’Eurofound ha realizzato cinque indagini
sulle condizioni di lavoro in Europa (1990, 1995,
2000, 2005 e 2010). Allo scopo di comparare i dati
88
La modulazione dei tempi di lavoro
a livello europeo, l’Eurofound sviluppa un approccio metodologico unificato e un sistema di assicurazione della qualità. L’ultima indagine cross-nazionale è la 5a Indagine Europea sulle Condizioni di
Lavoro, condotta nel 2010, realizzata nei 27 Stati
l’assunto che il tema della diversa articolazione degli orari di lavoro, se da una parte si pone come necessario nel dibattito sulla partecipazione, dall’altra deve essere affrontato nell’ottica che la conciliazione e il work-life balance siano aspetti che riguardano entrambi i
generi. Negli ultimi anni, infatti, sono aumentate le richieste di congedi da parte dei padri
e il tempo che essi dedicano alla gestione della famiglia, anche se, soprattutto nei «paesi
mediterranei», il modello del male-breadwinner continua a essere dominante (Trifiletti,
1999 e 2005; Naldini, 2002).
La prima informazione utile alla comprensione della situazione generale del rapporto
tra tempi di lavoro e tempi di vita è di tipo percettivo e si riferisce alla soddisfazione dei lavoratori rispetto al loro work-life balance. In generale emerge che il 18,7% dei lavoratori
dell’Unione europea a 15 paesi si dichiara insoddisfatto, evidenziando in ogni caso una
piccola diminuzione rispetto al 19,2% registrato nel 2000. Confrontando i dati rispetto al
genere emerge una tendenziale maggiore insoddisfazione per gli uomini rispetto alle donne (figura 1). Mentre gli uomini incontrano maggiori difficoltà di «bilanciamento» tra i 30
Figura 1. Occupati che dichiarano che gli orari di lavoro si conciliano non molto bene
o per niente bene con gli impegni familiari o sociali, donne e uomini, anni 2000 e 2010
45
40
35
30
25
20
15
10
5
DK
UK
NL
IE
Donne 2000
AT
BE
LU
SE
Donne 2010
FI
DE PT
FR
Uomini 2000
IT
ES
EL EU27 EU15
Uomini 2010
Fonte: elaborazione su dati European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
- European Working Conditions Survey, 2010
membri dell’Unione europea, oltre che in Turchia,
Croazia, Norvegia, Macedonia, Montenegro, Albania e Kosovo. La popolazione di riferimento è costituita da occupati residenti nei paesi considerati,
nella fascia d’età 15 anni e oltre (16 e oltre in
Spagna, Regno Unito e Norvegia). Lo strumento di
rilevazione è un questionario somministrato con
tecnica PAPI. Come nelle precedenti indagini, i risultati della 5a EWCS possono essere considerati
rappresentativi dei lavoratori in Europa, grazie all’utilizzo di tre differenti tipi di peso.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
89
e i 49 anni (cioè a metà della loro carriera lavorativa), le donne sono meno insoddisfatte,
ma lo sono costantemente lungo tutto il corso della loro carriera, dal momento che continuano a occuparsi in misura prevalente del lavoro familiare e di cura. Tale dato può sembrare controintuitivo, ma si può spiegare considerando che molte più donne adattano la
vita lavorativa alle esigenze domestiche, ad esempio lavorando part time o non facendo
ore di straordinario, riducendo dunque le ipotesi di conflitto tra la sfera lavorativa e quella familiare (Eurofound, 2010).
Tuttavia, al di là dell’informazione di sintesi proveniente dalla media europea, si sottolineano marcate differenze tra i paesi. Da una parte si trovano infatti Stati membri in cui
quasi la totalità di uomini e donne è soddisfatta delle possibilità di conciliazione. In particolare, si osserva il caso della Danimarca in cui si registra una generale soddisfazione, a cui
si affianca anche una sua crescita tra il 2000 e il 2010 per entrambi i generi. La ragione di
questo quasi perfetto equilibrio sta, da una parte (come vedremo), in una diffusa flessibilità delle modalità di lavoro e, dall’altra, nello sviluppo di un sistema forte di servizi per l’infanzia con una copertura settimanale full time (Bergamante, 2011).
In altri contesti nazionali, invece, l’insoddisfazione per le proprie possibilità di conciliazione è molto maggiore e si differenzia anche rispetto al genere. In particolare, i paesi con
un welfare «mediterraneo», pur mostrando una diminuzione nel tempo dell’insoddisfazione
sia femminile sia maschile, continuano a presentare valori abbastanza elevati. In Italia, nel
2010, si segnalano valori al di sopra della media europea (sia a 15, sia a 27 paesi) con una
non soddisfazione femminile del 21,7% e maschile del 27,5%. Vedendo gli andamenti nel
tempo notiamo, però, che l’aumento totale della soddisfazione, tra il 2000 e il 2010, è solo dovuto all’innalzamento dei valori della componente femminile; per gli uomini, infatti,
nell’arco di tempo considerato si assiste a una lieve crescita dell’insoddisfazione (+0,6).
Un elemento fondamentale per la comprensione delle difficoltà relative all’equilibrio dei
tempi di lavoro e di non lavoro è, come detto, quello relativo alle modalità orarie di lavoro.
In tal senso sembra utile confrontare i dati sull’entrata e sull’uscita dal lavoro con orario fisso e anche quelli sulla quota di persone che lavora lo stesso numero di ore ogni giorno.
In primo luogo va considerato che ancora molto alta risulta la percentuale di persone
che in Europa lavora con orari fissi in uscita e in entrata; tale percentuale è comunque diminuita nel tempo, passando dal 64,9% del 2000 al 61,5% del 2010 per la media a 15 paesi. Sul fronte della distribuzione oraria giornaliera, si nota che, sempre nell’UE15, si registra
un calo delle persone che lavorano le stesse ore tutti i giorni, ma la percentuale rimane al
di sopra del 57%. L’Italia e la Spagna sono invece le uniche realtà territoriali in cui la flessione della rigidità oraria nel tempo rivela un senso contrario: nel lasso di tempo in esame,
infatti, è aumentata la quota di persone che lavora con orari fissi in entrata e in uscita, ma
anche quella di coloro che lavorano le stesse ore tutti i giorni.
Un utile approfondimento su questi temi può essere realizzato raffrontando i diversi
valori disaggregati rispetto al genere (figure 2 e 3). Emerge in modo chiaro che le donne,
più degli uomini, hanno lavori in cui maggiore è la rigidità dell’orario, aspetto questo sostanzialmente legato alla maggiore presenza delle donne in professioni di natura impiegatizia. Allo stesso tempo, la componente femminile, più di quella maschile, evidenzia una
fissità del numero di ore lavorate nei giorni della settimana. Dalla lettura congiunta delle
figure 2 e 3, però, si desume che la rigidità caratterizza in particolar modo alcuni paesi e
90
La modulazione dei tempi di lavoro
Lavora lo stesso numero
di ore ogni giorno (%)
Figura 2. Donne che lavorano con orari fissi e lo stesso numero di ore ogni giorno, 2010
80
75
70
65
60
55
50
45
40
35
30
PT
ES
EL
IT
IE
UK
EU27
EU15
LU
DE
FI
FR
BE
NL
AT
SE
DK
50
55
60
65
70
75
80
Lavora con orario fisso di inizio e fine (%)
Fonte: elaborazione su dati European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
- European Working Conditions Survey, 2010
Lavora lo stesso numero
di ore ogni giorno (%)
Figura 3. Uomini che lavorano con orari fissi e lo stesso numero di ore ogni giorno, 2010
75
70
65
60
55
50
45
40
35
30
ES
IT
LU
IE
UK
BE
FI
EL
EU27 EU15
FR
SE
NL
PT
DE
AT
DK
45
50
55
60
65
70
Lavora con orario fisso di inizio e fine (%)
Fonte: elaborazione su dati European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
- European Working Conditions Survey, 2010
non altri. In particolare in Portogallo, Spagna, Italia e Grecia non sembra essere molto presente un modello flessibile di organizzazione dei tempi di lavoro, che al contrario delinea
maggiormente i contesti del Nord Europa e, in parte, dell’Europa centrale.
Solo la Finlandia evidenzia una quasi corrispondenza tra i valori per genere, ma soprattutto mostra la più bassa percentuale di lavoratori che hanno orari fissi sia in entrata, sia
in uscita e tale elemento contraddistingue entrambi i generi.
Allo scopo di approfondire il tema è opportuno considerare quali sono le modalità con
cui vengono stabiliti gli orari di lavoro e come questo processo si distingua rispetto alla
forma contrattuale (tabella 1). Tale analisi è stata condotta con l’obiettivo di verificare se,
Osservatorio Isfol n. 2/2011
91
Tabella 1. Modalità con cui vengono stabiliti gli orari di lavoro, anno 2010 (%)
«Sono stabiliti dalla società/
organizzazione con nessuna possibilità
di cambiarli» e «Si può scegliere
tra diverse forme di articolazione
dell’orario di lavoro definite
dalla società/organizzazione»
Employee: Employee:
Selfpermanent
other
employed
contract arrangement
BE
DK
DE
EL
ES
FR
IE
IT
LU
NL
AT
PT
FI
SE
UK
EU15
EU27
72,7
49,7
69,2
95,5
91,6
78,4
78,8
84,1
74,4
50,3
68,7
95,3
56,4
46,8
77,4
75,1
77,6
79,9
62,4
72,7
91,1
87,3
78,5
85,9
78,0
64,3
59,1
69,2
88,0
61,0
47,6
79,3
77,8
79,0
11,5
9,3
21,8
6,3
7,0
21,5
16,8
10,8
9,1
9,3
21,4
10,9
11,7
11,6
12,9
14,0
12,2
Totale
64,4
47,7
64,7
63,5
79,5
70,8
70,7
67,5
65,6
45,7
63,1
78,5
52,2
43,3
68,7
66,7
67,7
«Entro certi limiti, si possono adattare
i propri orari di lavoro (ad esempio
orario flessibile)» con «Lei stesso/a
stabilisce interamente il suo orario
di lavoro»
Employee: Employee:
Selfpermanent
other
employed
contract arrangement
27,3
50,3
30,9
4,5
8,4
21,7
21,2
15,9
25,6
49,7
31,3
4,7
43,6
53,2
22,6
24,9
22,4
20,0
37,6
27,3
8,9
12,7
21,5
14,1
21,9
35,7
40,9
30,8
11,9
38,9
52,4
20,8
22,1
21,0
88,5
90,6
78,2
93,7
93,0
78,5
83,2
89,2
90,9
90,7
78,5
89,0
88,3
88,4
87,1
86,0
87,8
Totale
35,6
52,3
35,4
36,6
20,6
29,2
29,3
32,5
34,4
54,3
36,9
21,5
47,8
56,6
31,3
33,3
32,4
Fonte: elaborazione su dati European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
- European Working Conditions Survey, 2010
in linea generale, è possibile evidenziare una minore rigidità dell’orario per le forme contrattuali «non standard», caratteristica questa da più parti evidenziata come positivamente legata alla flessibilità e atipicità contrattuale.
Per questo confronto sono utilizzate le risposte alla domanda prevista nel questionario
dell’EWCS «Come vengono stabiliti i suoi orari di lavoro?», quali indicatori della possibilità di
contrattare l’articolazione oraria4.
4 Per semplificare le analisi sono state accorpate alcune modalità: «Sono stabiliti dalla società/
organizzazione con nessuna possibilità di cambiar-
92
La modulazione dei tempi di lavoro
li» con «Si può scegliere tra diverse forme di articolazione dell’orario di lavoro definite dalla società/organizzazione» e «Entro certi limiti, si possono
La media europea a 15 paesi mostra (ma quella a 27 non si discosta di molto) che oltre
il 66% dei lavoratori non ha quasi alcuna possibilità di intervenire sulla definizione degli
orari di lavoro; si discostano fortemente da tale media solo tre paesi: Danimarca, Olanda e
Svezia, in cui sono invece superiori al 50% le quote di persone che possono adattare i propri orari di lavoro, o addirittura possono interamente determinarli. La maggiore impossibilità del lavoratore di scegliere gli orari di lavoro si riscontra, al contrario, in Spagna, in cui
la percentuale è del 79,5%.
Analizzando i dati disaggregati rispetto alla forma contrattuale si notano alcune interessanti differenze. In primo luogo si sottolinea che i lavoratori autonomi sono, come prevedibile, quelli per cui la possibilità di decidere i propri orari di lavoro è altissima. Sul totale degli autonomi nell’UE a 15, infatti, l’86% è quasi totalmente o in parte libero di stabilire l’articolazione dei tempi di lavoro. Tale caratteristica si ritrova anche considerando i singoli paesi. Facendo ancora riferimento alle medie europee, emerge inoltre che i lavoratori
con contratti a tempo indeterminato hanno maggiore possibilità di determinare i propri
orari rispetto a chi ha altre forme contrattuali.
Il rapporto fra flessibilità contrattuale e flessibilità oraria non sembra dunque caratterizzare tutti i contesti. Le percentuali di lavoratori che possono decidere in parte o totalmente quanto lavorare tra i lavoratori a tempo indeterminato variano molto e raggiungono i valori più alti ad esempio in Svezia, Olanda, Finlandia e Danimarca.
Sempre considerando i dati dell’EWCS, in merito alle modalità con cui sono definiti gli
orari di lavoro, si nota che, fra le donne occupate in Europa (sia considerando la media a
15 che a 27), sono minori i casi in cui gli orari di lavoro si possono adattare con certi limiti o addirittura autodeterminare, rispetto a quanto si registra fra gli uomini occupati: nell’UE a 15 la percentuale di occupate che può più o meno decidere i tempi di lavoro è del
37,4%, mentre quella degli occupati è del 34%. Si nota, comunque, una tendenza nel tempo verso la riduzione delle possibilità di intervento del lavoratore nell’organizzazione degli
orari del lavoro, riduzione evidenziata dal fatto che dal 2005 al 2010 si registra un calo in
tal senso, sia per gli uomini (–2,3%), sia per le donne (–1,6%). Il crescente aumento della
rigidità aziendale sulla scelta degli orari si registra in Italia e in Irlanda, con una differenza negativa per entrambi vicina all’11%.
Tali dati mostrano chiaramente come in molti paesi ci siano forti differenze tra i generi e come tali diversità possano incidere sui meccanismi di work-life balance.
Per cogliere pienamente questo fenomeno, sembra interessante analizzare i dati sulle
modalità con cui sono stabiliti gli orari di lavoro rispetto alle macrocategorie professionali. Nell’indagine EWCS si propone una suddivisione per «Tipo di occupazione», basata sull’aggregazione delle dieci categorie individuate nella classificazione delle professioni ISCO; i
quattro tipi di occupazione sono: High-skilled clerical, Low-skilled clerical, High-skilled
manual, Low-skilled manual 5. Dalla lettura di queste informazioni così aggregate, emerge
adattare i propri orari di lavoro (ad esempio orario
flessibile)» con «Lei stesso/a stabilisce interamente
il suo orario di lavoro».
5 Le quattro tipologie professionali sono state
costruite sulla base delle seguenti aggregazioni. 1)
High-skilled clerical: Legislators, senior officials
and managers e Professionals; 2) Low-skilled clerical: Technicians and associate professionals,
Clerks, Service workers and shop and market sales
workers; 3) High-skilled manual: Skilled agricultu-
Osservatorio Isfol n. 2/2011
93
chiaramente che il raggruppamento in cui è maggiore la possibilità di decidere gli orari di
lavoro è quello degli impiegati altamente qualificati (High-skilled clerical), con una percentuale del 52,4% nell’UE a 15; tutti gli altri gruppi mostrano una maggiore rigidità nelle
forme di intervento sulla definizione dei tempi di lavoro. Al secondo posto si trovano gli
High-skilled manual che, comunque, solo nel 30,8% dei casi possono decidere la loro flessibilità oraria. Anche i valori italiani ricalcano quasi interamente quelli registrati a livello
generale in Europa, mentre Svezia, Finlandia e Danimarca spiccano per le più alte percentuali di libertà di definizione degli orari per quasi tutti i raggruppamenti professionali.
Il quadro relativo ai dati sui tipi di occupazione qui delineato permette di spiegare le
ragioni per cui alle donne occupate risulti maggiormente difficile contrattare gli orari di
lavoro. La segregazione occupazionale femminile, molto evidente anche a livello verticale
(CNEL, 2010), oltre a essere negativa di per sé, ha ovvie implicazioni anche sulle modalità e
sull’organizzazione dei tempi di lavoro, aspetto questo che può indurre a scegliere il part
time come ultima possibilità di conciliazione.
Quale ulteriore elemento di flessibilità oraria, in subordine a quanto previsto dai modelli organizzativi aziendali, si ritiene opportuno, sempre in ottica europea, proporre un
confronto delle possibilità per i lavoratori di usufruire di una o due ore di permesso per occuparsi di questioni personali o familiari (figura 4)6.
In linea generale nell’Unione europea si registra una difficoltà nel prendere una o due
ore off per circa il 35% dei lavoratori, con valori inferiori per la componente maschile sia
per la media a 15 paesi, sia a 27. La Svezia, con una quota di persone che possono assentarsi dal lavoro con poche difficoltà (15,1%) molto al di sotto della media europea, costituisce un esempio di eccellenza, ulteriormente sostenuto dalla quasi totale assenza di differenza tra donne e uomini. Anche in Olanda e in Danimarca i valori sono molto al di sotto di quelli registrati a livello medio in Europa, ma si delinea però una sia pur lieve difformità nel raffronto delle percentuali fra i generi.
La situazione di rigidità oraria che, come visto, caratterizza l’Italia sembra in parte mitigata da una discreta possibilità di prendersi qualche ora per ragioni personali o familiari.
Le donne, d’altro canto, accusano una maggiore difficoltà rispetto agli uomini, pur mostrando comunque valori al di sotto delle medie europee.
Il mercato della flessibilità in Italia
In questa seconda parte del contributo si intende esaminare, nel contesto italiano, alcuni
aspetti del rapporto tra modulazione dei tempi di lavoro e conciliazione familiare, sia maschile, sia femminile. Il riferimento è pertanto al concetto di «conciliazione condivisa» che
ral and fishery workers, Craft and related trades
workers; 4) Low-skilled manual: Plant and machine operators and assemblers, Elementary occupations, Armed forces.
6 Allo scopo di semplificare e sintetizzare la
lettura dei dati, sono state scelte e accorpate due
delle quattro modalità relative al quesito del que-
94
La modulazione dei tempi di lavoro
stionario EWCS «Lei direbbe che per lei riuscire a
prendere una o due ore di permesso durante l’orario di lavoro per occuparsi di questioni personali o
familiari sia…». Le due modalità considerate sono:
«Abbastanza difficile» e «Molto difficile». Le altre
possibilità di risposta al quesito erano: «Per niente
difficile» e «Non troppo difficile».
Figura 4. Occupati che dichiarano di avere difficoltà (abbastanza, molte) nel prendere
una o due ore di permesso durante l’orario di lavoro per occuparsi di questioni personali
o familiari, donne e uomini, 2010
55%
50%
45%
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
SE
NL
DK
UK
IE
AT
FI
IT
Donne
LU
PT
BE
Uomini
ES
EL
FR
DE EU15 EU27
Totale
Fonte: elaborazione su dati European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
- European Working Conditions Survey, 2010
supera la visione settoriale del lavoro di cura e in cui sono ridefiniti i ruoli all’interno dei nuclei familiari, i servizi offerti alla famiglia e si modifica l’organizzazione del lavoro (Piazza,
2010). Nel primo ambito rientra ad esempio il tema dei congedi parentali e la loro ulteriore
«apertura» ai padri; nel secondo ci si concentra, invece, sullo studio dell’offerta di servizi dedicati all’infanzia, in particolare per i bambini fino a 3 anni (Bergamante, 2011; Borra, 2006;
Frey, 2002; Jaumotte, 2003; Bertoncin, Haim, 2010). Nell’ultimo elemento rientra, appunto,
il tema della flessibilità e della rimodulazione dei tempi e degli orari di lavoro.
Sul fronte dell’organizzazione dei tempi di lavoro un punto fondamentale è rappresentato dalla l. n. 53/20007, che contiene «Disposizioni per il sostegno della maternità e della
paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle
città» e ha l’obiettivo di favorire l’equilibrio tra lavoro, cura, formazione e relazione, istituendo anche strumenti di flessibilità dell’orario di lavoro (Gobbi, 2009).
In particolare l’art. 9 della legge introduce la possibilità di sostenere economicamente
le aziende che intendono sviluppare sistemi sperimentali di rimodulazione dei tempi di lavoro o dar vita a percorsi formativi per madri che rientrano al lavoro dopo i congedi. Di fatto sono stati riscontrati problemi nell’implementazione e nell’applicazione dell’art. 9 (Gottardi, Piazza, 2009; Riva, 2010).
La l. n. 53/2000 è stata successivamente modificata dall’art. 38 della legge 18 giugno
7
Successivamente modificata dall’art. 38 della legge 18 giugno 2009, n. 69.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
95
2009, n. 69, in cui, tra l’altro, si tenta di riconsiderare le politiche di conciliazione come
politiche del lavoro e, pertanto, si incoraggia il sistema produttivo a investire su questo
aspetto (Riva, 2010).
In questo quadro, dunque si colloca il già citato recente accordo sulle «Azioni a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro» che ribadisce e auspica l’importanza di una piena attuazione dell’art. 9 della l. n. 53, condividendo il valore della flessibilità family-friendly. Per lo sviluppo dei contenuti dell’accordo viene creato un tavolo tecnico incaricato di studiare la possibilità di applicare le buone pratiche individuate dall’Osservatorio della consigliera di parità. Nell’ambito delle best practices considerate vi sono, in
particolare, riferimenti ai regimi di orario, al lavoro a tempo parziale, al telelavoro e ai permessi (flessibilità individuale o banca delle ore).
In questa parte si intende pertanto offrire alcuni elementi in grado non solo di evidenziare la consistenza di alcuni aspetti relativi alla flessibilità oraria, in Italia, ma di comprendere se, e in che modo, sia possibile individuare una convergenza tra le richieste dal
lato dell’offerta di lavoro e le esigenze della domanda di lavoro.
Una prima lettura dei dati sul part time in Italia può, quindi, essere utile a comprendere nello specifico l’applicazione questo strumento in termini di sviluppo positivo delle modalità di conciliazione.
Tra il 2000 e il 2009 si è assistito a una lieve crescita della quota di lavoratori che ha
un contratto part time (tabella 2), ma sostanzialmente tale aumento è dovuto all’incremento relativo alla componente femminile sul mercato del lavoro; per quella maschile, al
contrario, si passa dal 5,2% al 4,9%. A caratterizzare, inoltre, il lavoro a tempo parziale è
però negli ultimi anni anche la crescita dell’incidenza del part time involontario che passa
dal 34,9% del 2004 al 46,5% del 2009 (ISTAT, 2011) e che riguarda in maggior modo gli uomini (56,1%), pur presentando percentuali rilevanti anche tra le donne (42,7%). In tal senso, per le ragioni già espresse, non sempre è possibile considerare positivamente il lavoro
in orario ridotto.
Tabella 2. Occupati a tempo parziale per genere e ripartizione geografica,
anni 2000 e 2009 (%)
2000*
2009
Ripartizioni
geografiche
Uomini
Donne
Totale
Uomini
Donne
Totale
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Mezzogiorno
Italia
5,2
5,6
7,6
7,5
6,5
23,6
26,3
27,2
22,2
24,6
12,8
14,0
15,3
12,2
13,4
4,9
4,0
5,6
5,7
5,1
28,4
29,1
28,7
25,4
27,9
14,8
14,7
15,3
12,5
14,3
* Dati ricostruiti
Fonte: elaborazione ISFOL su dati ISTAT-RTFL 2000 e RCFL 2009
96
La modulazione dei tempi di lavoro
Se in linea generale gli occupati full time chiedono di lavorare con un orario ridotto, per
la maggioranza dei casi ciò è dovuto a esigenze di cura dei figli ed è dunque connesso alle effettive esigenze di equilibrio con la sfera familiare.
Per approfondire questo tema vengono utilizzati i dati dell’indagine ISFOL-PLUS 2008
(Participation Labour Unemployment Survey)8. Alcune differenze si possono riscontrare
considerando il genere: per le donne la cura dei figli è presente come motivazione nel
73,2% dei casi, mentre per gli uomini solo nel 21,5%; inoltre ben il 31,9% degli uomini che
lavora full time ha dichiarato che chiederà in futuro di lavorare a tempo parziale per avere
più tempo libero.
Allo stesso tempo è però anche utile comprendere quanti siano i casi in cui le organizzazioni imprenditoriali abbiano rifiutato il part time ai propri dipendenti e, soprattutto,
quali siano le motivazioni alla base di tale rifiuto. Sul totale delle persone che hanno fatto
richiesta di lavorare con orario ridotto, risulta che solo l’1,5% ha visto non concretizzarsi
questa opzione (tabella 3), ma tale percentuale sale al 3,1% considerando la componente
femminile. Nonostante la quota dei rifiuti risulti irrisoria, a titolo indicativo possiamo considerare le motivazioni addotte dalle imprese e riportate dai lavoratori; emerge che per oltre il 47% tali rifiuti sono legati a esigenze produttive.
Un utile confronto delle risultanze sul part time è dato dalle analisi sul lato della domanda di lavoro. I dati a disposizione sembrano evidenziare chiaramente che la dimensione
del tessuto produttivo gioca un ruolo di primo piano nell’impiego di personale con contratto part time; questa relazione è in anche determinata dal fatto che al crescere della dimen-
Tabella 3. Occupati che hanno fatto richiesta di un contratto part time senza
che sia stato concesso e hanno intenzione di chiederlo in futuro, per genere, 2008 (%)
Hanno fatto richiesta di part time ed è stato negato
Dipendenti full time che hanno intenzione di chiedere
un part time in futuro
Uomo
Donna
Totale
0,6
3,1
1,5
2,6
15,0
7,1
Fonte: elaborazione su dati ISFOL-PLUS, 2008
8
La rilevazione ISFOL-PLUS, che attualmente è
alla sua quarta edizione, è un’indagine con cadenza periodica già condotta negli anni 2005, 2006 e
2008. La rilevazione è di tipo campionario e coinvolge in ogni occasione circa 40.000 individui. Il
campo d’osservazione è rappresentato dalla popolazione residente in Italia con età compresa tra 18
e 64 anni. In particolare le seguenti fasce di popolazione non vengono incluse nella popolazione di
riferimento: gli uomini inattivi (esclusi studenti e
pensionati da lavoro) tra i 18 e i 64 anni, le donne
inattive tra i 40 e i 64 anni (escluse studentesse e
pensionate da lavoro), gli studenti uomini con più
di 29 anni, le studentesse con più di 39 anni, i
pensionati da lavoro con meno di 50 anni. La rilevazione è effettuata attraverso la somministrazione di un questionario strutturato con tecnica di tipo CATI. Il dettaglio massimo delle stime è la regione. I dati utilizzati per questa analisi fanno riferimento al 2008.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
97
sione d’impresa aumenta anche il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori che positivamente incide sull’accettazione delle richieste dei lavoratori di passare a un orario ridotto.
Sulla base dell’indagine ISFOL-RIL9 2007 è possibile rapportare, infatti, i dati relativi alla
dimensione aziendale con le motivazioni principali per cui le imprese utilizzano i contratti
a tempo parziale (figura 5). Al crescere del numero di addetti, aumentano le percentuali di
utilizzo di questa modalità di lavoro in risposta a un’esigenza e a una richiesta del lavoratore. Al contrario, nelle aziende di minori dimensioni, rispetto alle medie e grandi imprese,
si registrano più alte percentuali di contratti part time utilizzati per ragioni di natura organizzativa e di produzione. In ogni caso, sul totale delle aziende prese in esame, sembra però comunque prevalere la richiesta del lavoratore rispetto al bisogno aziendale e tali dati,
per certi versi, confermano quanto rilevato circa le percentuali di lavoratori che hanno fatto richiesta di abbandonare il full time, ma non ne hanno avuta la possibilità. I risultati
Figura 5. Motivo principale per cui l’impresa utilizza il contratto part time
per numero di addetti, anno 2007
80
70
60
50
40
30
20
10
0
È un’esigenza del datore
di lavoro (ragioni
organizzative, produttive,
stagionalità ecc.)
È richiesto dai lavoratori
Da 1 a 15
Da 16 a 50
Perché la produttività
dei lavoratori è migliore
51 e oltre
Altro
Totale
Fonte: elaborazioni ISFOL su dati ISFOL-RIL, 2007
9
I dati utilizzati nell’analisi empirica sono ottenuti dalla Rilevazione sulle Imprese e Lavoratori
(RIL) condotta dall’ISFOL per gli anni 2005 e 2007 su
un campione rappresentativo di imprese del settore extra-agricolo. In particolare le due indagini RIL
per il 2005 e il 2007 sono realizzate per mezzo di
questionari somministrati a un campione rappresentativo delle società di capitali e società di persone operanti nel settore privato extra-agricolo. Il
questionario raccoglie informazioni sulle caratte-
98
La modulazione dei tempi di lavoro
ristiche di impresa, sull’organizzazione aziendale,
sulla composizione dei lavoratori e sulle caratteristiche delle relazioni industriali, tra cui l’incidenza
della retribuzione integrativa e la presenza dei
sindacati. Il dataset è costituito da un campione
sezionale di 21.728 imprese nel 2005 e di 24.450
imprese nel 2007. La dimensione longitudinale del
campione riguarda invece 12.144 imprese, che sono presenti in entrambe le rilevazioni.
delle analisi mostrano, infatti, una tendenziale disponibilità delle imprese a rispondere alle esigenze dei dipendenti, e in parte tale «apertura» può anche essere frutto dell’idea che,
in alcuni casi, la produttività degli occupati possa aumentare se le esigenze del lavoratore
vengono soddisfatte dall’impresa.
Ai temi fin qui proposti sembra utile accostare quello del telelavoro, considerato da più
parti un utile strumento di miglioramento delle condizioni di lavoro e di conciliazione tra
vita personale e professionale.
Già nel quadro della Strategia Europea per l’Occupazione il Consiglio europeo ha invitato le parti sociali a dar vita a intese finalizzate a modificare l’organizzazione del lavoro,
anche includendo accordi sulla flessibilità. In tal senso nel 2002 è stato stipulato l’Accordo quadro europeo sul telelavoro che identifica alcuni punti generali che saranno attuati
dai singoli Stati secondo le procedure e le prassi nazionali delle parti sociali. L’accordo tende a definire un quadro generale delle condizioni di impiego dei telelavoratori e garantisce
a questi gli stessi livelli di protezione dei lavoratori che svolgono l’attività presso il datore
di lavoro. L’accordo quadro definisce il telelavoro come «una forma di organizzazione e/o di
svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un
contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere
svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa»10.
Nel 2004 è stato firmato in Italia un accordo che recepisce l’intesa europea del 2002 sul
telelavoro, e ne trasferisce i contenuti nel contesto nazionale11. Tale accordo definisce il
quadro di riferimento per la regolazione del telelavoro, demandando ampio spazio alla contrattazione collettiva e individuale, sebbene quella individuale debba rispettare gli standard
minimi di protezione stabiliti nell’accordo stesso. Nel settore privato la maggior parte degli
accordi nazionali stipulati a livello settoriale stabilisce il carattere volontario del telelavoro
e l’esigenza che i telelavoratori abbiano le stesse garanzie in termini di diritti rispetto a
quelli stabiliti dalla legge e dagli accordi collettivi per i lavoratori che svolgono la propria
attività nei luoghi di lavoro classici. Nel settore pubblico la normativa sul telelavoro regola
a livello generale diversi aspetti quali i compensi, i diritti dei telelavoratori e le condizioni di
lavoro; la materia è diventata, inoltre, oggetto di contrattazione collettiva.
In Italia quasi inesistenti sono i dati sul telelavoro. Da una parte possono essere utilizzati quelli prodotti dall’ISTAT tramite le indagini annuali sull’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle imprese con più di 10 dipendenti, ma in questo caso
il telelavoro si riferisce agli impiegati che trascorrono parte del loro tempo di lavoro fuori
dai luoghi di lavoro principali, lavorando in uffici esterni o a casa e utilizzando il computer
e le attrezzature correlate che legano il telelavoratore all’ufficio principale.
Più attinenti risultano i dati prodotti dall’indagine ISFOL-PLUS12, che permettono, inoltre,
di ricavare informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche dei telelavoratori. In primo
luogo, secondo quanto espresso dai lavoratori intervistati con l’indagine ISFOL-PLUS, emerge che solo il 4,3% delle aziende prevede un contratto di telelavoro (tabella 4). Anche in
10 Una traduzione italiana dell’accordo è scaricabile dal sito <www.unife.it>.
11 L’accordo italiano è consultabile al link:
<http://centri.univr.it>; per ulteriori informazioni
si veda <www.eurofound.europa.eu/eiro/2007/12/
articles/it0712049i.htm>.
12 Per maggiori informazioni sull’indagine si
veda la nota 8 del presente articolo.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
99
Tabella 4. Occupati che dichiarano che la loro azienda prevede contratti di telelavoro
per numero di addetti, anno 2008 (%)
La sua azienda prevede
contratti di telelavoro
Numero di addetti
Fino a 15
Da 15 a 50
51 e oltre
Totale
91,3
3,0
5,7
100,0
89,6
3,6
6,9
100,0
85,4
6,3
8,3
100,0
88,9
4,3
6,9
100,0
No
Sì
Non saprei
Totale
Fonte: elaborazione su dati ISFOL-PLUS, 2008
questo caso la dimensione aziendale gioca un ruolo di primo piano: all’aumentare del numero di addetti, cresce anche la percentuale di possibilità di accesso al telelavoro. Questo
dato è ovviamente legato alla maggiore disponibilità di dotazioni tecnologiche, ma anche
e soprattutto al fatto che nelle aziende di maggiori dimensioni è più probabilmente diffusa la specializzazione di alcune funzioni che possono dunque essere svolte fuori dai luoghi
di lavoro.
Il tema del telelavoro, al di là delle sue effettive possibilità di applicazione a tutte le
realtà aziendali, è comunque, oltre che di attualità, molto sentito dai lavoratori. Al 7% di
persone (7,6% per gli uomini e 6,1% per le donne) che dichiara di lavorare con questa modalità si affianca, inoltre, circa un 13% (cifra identica per uomini e donne) di coloro che
sostengono di voler chiedere in futuro l’applicazione del contratto di telelavoro qualora
l’azienda in cui lavora ne dia la possibilità (ISFOL-PLUS, 2008).
Le potenzialità di utilizzo del telelavoro sembrano comunque essere molto elevate, se
consideriamo la quota di attività lavorativa che potrebbe essere svolta in luogo diverso da
quello dell’ufficio principale (figura 6). In linea generale l’11,6% degli occupati sostiene
che quasi tutto il proprio lavoro potrebbe essere svolto non in azienda; a questo valore si
può aggiungere anche il 16,8% dei dipendenti che sostengono di poter telelavorare molto.
Se si osservano i dati relativi a quanto dichiarano le donne, emerge in modo chiaro che
il lavoro femminile, più di quello maschile, potrebbe essere svolto in altri luoghi: il 29,5%
delle donne potrebbe infatti passare al telelavoro per molta o quasi tutta l’attività (considerando congiuntamente le fasce dal 51% al 75% e dal 76% in poi). Questi dati possono
in parte essere giustificati dalla segregazione verticale della componente femminile dell’occupazione che, come noto, confina le donne in attività lavorative più di natura esecutiva che gestionale (Rustichelli, 2010) e dunque più facilmente realizzabili in luogo diverso
da quello dell’ufficio.
100
La modulazione dei tempi di lavoro
Figura 6. Percentuale dell’attività lavorativa che potrebbe essere svolta con il telelavoro,
per genere, 2008
45
40
41,2
44,0
37,5
35
32,9
30
28,3
30,3
25
20
16,6 17,2 16,8
15
11,1 12,3 11,6
10
5
0
Meno del 25%
Tra il 25% e il 50%
Uomo
Tra il 51% e il 75%
Donna
Dal 76% in poi
Totale
Fonte: elaborazioni ISFOL su dati ISFOL-PLUS, 2008
Conclusioni
Le analisi proposte, oltre a offrire spunti per successivi approfondimenti, consentono di effettuare alcune riflessioni conclusive.
Dalle evidenze empiriche si osserva che le donne continuano a essere penalizzate sul
fronte della diversa articolazione degli orari in ambito lavorativo, sia perché madri o potenzialmente tali, sia perché non presenti nelle professioni e nelle posizioni che tendenzialmente risultano più flessibili. In Europa è però chiaro che a fare veramente la differenza (oltre ovviamente ai sistemi di welfare che caratterizzano i diversi paesi) sono le peculiarità dei modelli organizzativi dominanti nei singoli paesi che hanno, infatti, decise ricadute sulle possibilità di decisione degli orari di lavoro e/o sulla loro fissità.
Da un lato dunque si collocano i paesi in cui l’attività e l’occupazione femminile sono
elevate, i servizi per l’infanzia sono diffusi (anche con orari full time) e la flessibilità dell’orario di lavoro rende adattabile la vita privata alle esigenze produttive. In queste stesse
realtà gli schemi di protezione e di welfare sono generosi e i modelli che li orientano hanno una natura più universalistica e non sono perciò tarati su uno dei due generi. In tal senso, evidentemente, si sviluppano modelli organizzativi che tengono conto del fatto che le
esigenze di conciliazione non devono essere solo appannaggio di qualcuno e, pertanto, riflettono le impostazioni di welfare sul versante dell’organizzazione produttiva.
Dall’altra parte siamo di fronte a realtà territoriali in cui il modello è rovesciato. La partecipazione femminile si riduce, l’offerta di servizi per l’infanzia è sostanzialmente contenuta e i sistemi di welfare assumono un carattere particolaristico, anche frutto del modelOsservatorio Isfol n. 2/2011
101
lo del male breadwinner ad essi sottostante che illumina le scelte di policy. In tal senso a
far fronte alla scarsità e alla rigidità dell’offerta di servizi per l’infanzia sono sostanzialmente solo le donne che modulano (quando possono) i loro tempi e modi di lavoro. In questo quadro, i modelli organizzativi aziendali flessibili, quando esistenti, tendono a coprire
solo una parte delle esigenze di conciliazione, ma è chiaro che non possono sostituirsi a un
sistema di sostegno diffuso.
Un altro aspetto fondamentale su cui ragionare e modulare gli interventi a sostegno
della partecipazione femminile, anche attraverso iniziative finalizzate a favorire il worklife balance maschile e femminile, è quello della dimensione del tessuto produttivo. Come
mostrato, la flessibilità oraria, la possibilità di stabilire in modo più o meno autonomo i
propri orari di lavoro o usufruire del part time, quando richiesto dal lavoratore, o la diffusione del telelavoro, sono aspetti numericamente ancora molto contenuti in Italia e, laddove questi ambiti sono entrambi a regime, si registra una partecipazione femminile al
mercato del lavoro più consistente.
La rimodulazione dei tempi di lavoro e delle modalità di articolazione oraria varia in relazione alla dimensione delle aziende. Le realtà di più ampie dimensioni possono essere più
flessibili e più disponibili all’incontro delle esigenze di conciliazione dei lavoratori, ma bisogna riflettere sull’evidenza che in Italia il sistema produttivo è per lo più costituito da
piccole e piccolissime imprese. In tal senso le «pratiche» di work-life balance e le relative
policy devono tenere conto di questi aspetti e si deve ragionare su quali possano essere gli
strumenti alternativi e su come adeguare i dispositivi esistenti a queste realtà produttive,
affinché la flessibilità dell’orario possa essere effettivamente applicata.
Non bisogna trascurare che in Italia la sfida dell’innalzamento dell’occupazione femminile si va sempre più associando a quella della crescita demografica, ancora sotto la «soglia
di rimpiazzo», a causa dei bassi tassi di fecondità femminile che continuano a caratterizzare il paese (OECD, 2011). In questo quadro, siamo ancora lontani dallo sviluppo di quel sistema virtuoso in cui maternità e lavoro sono due sfere non in conflitto, ma piuttosto integrate, e gli strumenti di policy sono orientati effettivamente nel giusto senso. Le carenze del sistema di welfare sul fronte dei servizi all’infanzia (nonostante gli ultimi anni abbiano mostrato un aumento) sono piuttosto evidenti, così come il carattere residuale delle
politiche per la famiglia. Il rischio ulteriore è che si giunga a quel «suicidio demografico»
che da più parti si teme, a cui, guardando le dinamiche, non si legherebbero, però, neanche
alti tassi di occupazione femminile.
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Per citare questo articolo: Francesca Bergamante, La modulazione dei tempi di lavoro,
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104
La modulazione dei tempi di lavoro
La mobilità sociale
Conservazione e rinnovamento
tra generazioni
di Emiliano Mandrone
Riassunto: la mobilità sociale è il passaggio da una collocazione iniziale (l’origine) a una
collocazione finale (la destinazione) rispetto a una dimensione – sociale, economica, culturale – e in termini temporali. Una certa dinamica caratterizza i sistemi aperti, dove la tenuta dei livelli raggiunti dalle prime generazioni (tendenza conservatrice) non impedisce
correnti ascensionali delle seconde (tendenza rinnovatrice). In questo articolo si tenta di
stimare – sulla base empirica ISFOL-PLUS 2008 – quali dinamiche siano in atto, nell’istruzione e nel lavoro, e chi sia stato eventualmente escluso. In particolare si stimano alcune misure di mobilità sociale, di apertura del sistema e le relazioni causali intergenerazionali. Infine si mettono in luce i percorsi migliorativi e peggiorativi, individuando alcune delle scelte determinanti nel conseguimento di un percorso performante, a livello sia individuale
che collettivo. Il tema è di interesse pubblico, poiché la determinazione ottimale delle risorse – anche e soprattutto umane – è una delle funzioni primarie e fondanti dello Stato.
Parole chiave: Risorse umane; Cambiamento sociale; Mercato del lavoro
Introduzione
Ampio è il dibattito sulla costituzione e trasmissione intergenerazionale del proprio patrimonio, nelle diverse forme di capitale professionale, relazionale, immobiliare, culturale,
biologico ecc. Una buona conoscenza della catena di distribuzione tra genitori e figli consente un intervento pubblico precoce su quelle dinamiche lente o farraginose, foriere di
mediocri percorsi scolastici e poi lavorativi, ovvero una correzione in corsa della traiettoria
individuale (in termini di scelte scolastiche e orientamento lavorativo), nell’interesse sia
individuale (massimizzazione del proprio potenziale, emancipazione da contesti borderline,
diffusa felicità e soddisfazione lavorativa) che sociale (produttività, qualità della forza lavoro e riduzione delle componenti marginalizzate).
La questione è annosa. Famoso è il mito anti-aristocratico in ragione del quale Platone
Osservatorio Isfol n. 2/2011
105
classificava gli individui in tipi d’oro, d’argento e di bronzo, e sosteneva che i genitori d’oro che
avessero figli di bronzo avrebbero dovuto riconoscerne i limiti e prendere coscienza dei rischi
connessi, in quanto lasciare la conduzione degli affari a individui di bronzo solo perché provenienti da famiglie d’oro avrebbe garantito una sicura rovina per l’organizzazione dello stato. Viceversa, l’organizzazione sociale avrebbe dovuto fare in modo che gli individui d’oro fossero riconosciuti come tali – indipendentemente dalle loro origini – e potessero assumere appropriate
posizioni nella società. In termini più moderni possiamo riformulare lo stesso concetto sostenendo che una società che garantisca una adeguata mobilità sociale è una società efficiente (in
quanto gli individui più capaci svolgono ruoli di maggiore responsabilità, ricoprendo posizioni di
più elevato status socioeconomico), ed è nel contempo anche più equa (perché garantisce eguali opportunità di accesso sulla base delle capacità individuali) (Checchi, Dardanoni, 2002b).
Molteplici e affascinanti sono le interpretazioni della mobilità sociale, dalla circolazione
delle élite di Pareto, dove il concetto di mobilità si associava a quello di stabilità dell’equilibrio sociale, in particolare nell’asimmetria nella distribuzione del reddito (legge di Pareto),
al concetto di apertura sociale di Tocqueville in termini di fluidità sociale.
Il dibattito successivo a Pareto si è polarizzato tra chi (Blau e Duncan) riteneva che un sufficiente grado di mobilità sociale rendesse accettabile la disuguaglianza prodotta dallo sviluppo capitalistico, perché avrebbe rappresentato una forma di stimolo all’ascesa sociale, e chi (i marxisti)
invece riteneva marginale il ruolo esercitato dalla mobilità in un contesto di rigida divisione del
lavoro (Checchi, Dardanoni, 2002b).
Sottraiamo il tema alla contesa ideologica richiamando la nota idea dell’eguaglianza nei
punti di partenza di Einaudi (1942) – un auspicio richiamato più volte nella Carta costituzionale, frutto dell’idea di bene comune di un liberale autentico – che affermava perentoriamente la necessità – economica, non solo etica – di applicare una periodica rotazione
nelle posizioni di maggior rilievo nella collettività – una messa a maggese, nella migliore
tradizione rurale – ovvero una forte mobilità sociale nell’interesse della società.
Operativamente si utilizzerà la definizione più neutrale di Checchi e Dardanoni (2002a)
in cui la mobilità sociale è il passaggio da una collocazione sociale iniziale (l’origine) a una
collocazione sociale finale (la destinazione). Questo passaggio implica l’evoluzione di due
fenomeni: da un lato il tempo, in quanto la collocazione sociale viene registrata in due
istanti di tempo diversi, e dall’altro lo status socio-economico. Se utilizziamo grandezze
che possono essere ordinate secondo un dato criterio di status socio-economico possiamo
parlare di mobilità verticale (in quanto studiamo il movimento in un ordine gerarchico).
Le motivazioni di un’attenzione e – conseguentemente – di un intervento pubblico sono rintracciabili nell’idea di legislatore bonus pater familias che interviene in assenza di
una guida capace: «spesso le famiglie povere riducono l’investimento nell’istruzione dei
propri figli non tanto e non solo per ragioni economiche, quanto piuttosto per ragioni culturali» (Checchi, Ichino, Rustichini, 1999). La decisione di investire nell’istruzione dei propri figli dipende dalle aspettative che i genitori hanno sulle capacità dei figli, ma questa
analisi è a sua volta condizionata dalla loro esperienza. Pertanto se sei povero o poco
istruito ti aspetti che tuo figlio mutuerà queste caratteristiche e pertanto sarai meno propenso a opzioni alternative, alimentando comportamenti che si autoavverano, inibendo le
(potenziali) progressioni scolastiche e lavorative dei tuoi figli.
106
La mobilità sociale
Mobilità: istruzione
Ampi progressi ha fatto il livello di istruzione degli italiani in questi ultimi cinquant’anni. I
padri dei più giovani, ad esempio, hanno ormai praticamente tutti un titolo di studio quando individui privi di istruzione erano ancora sensibilmente presenti tra i genitori degli attuali cinquantenni. Sia il numero dei laureati che quello dei diplomati è in costante crescita – per i più giovani, un genitore su due ha almeno un diploma – a fronte di una graduale diminuzione dei titoli bassi.
Il processo di espansione dei livelli di scolarizzazione è ben visibile nella figura 1. Considerando gli individui (a partire dai 25 anni di età poiché prima larghe fasce della popolazione sono ancora in fase di costituzione della propria dote di istruzione) per quattro generazioni o classi d’età si può vedere l’effetto dell’innalzamento dell’obbligo formativo (riduzione di chi ha solo la licenza media). Invece un 7-8% (costante nel tempo) non riesce a
proseguire verso un titolo medio-superiore e altrettanti non riescono a prendere la laurea;
questi fenomeni di drop-out1 sono una patologia endemica nel nostro paese che rappresenta uno dei più importanti problemi del nostro sistema scolastico. È evidente l’espansione continua del liceo (tutti gli indirizzi) e dei diplomi tecnici, inoltre appare rilevante la
crescita, in termini relativi, dei laureati e dei percorsi scolastici post-laurea.
La relazione tra l’istruzione propria e i livelli di istruzione della famiglia di appartenenza rappresenta una delle questioni di maggior rilievo nell’analisi e implementazione di politiche sociali. Pertanto, per comprendere questi legami, si illustra una lettura di tipo intrafamiliare2 dei legami che la generazione Padre (genitore) ha con la generazione Figlio (intervistato), sia in termini di mobilità sociale (dallo status di origine a quello di arrivo) che
di probabilità condizionata del Figlio di occupare un certo status dato quello del Padre3.
Inoltre queste organizzazioni di dati offrono anche letture particolarmente sintetiche dell’evoluzione delle distribuzioni dei fenomeni indagati: dai marginali di riga ricaviamo la distribuzione del Figlio, mentre i marginali di colonna mostrano la distribuzione per i padri.
Lo «status» della tabella 1 è il titolo di studio posseduto. Esemplificando, ci sono 100
coppie di figli e padri: il titolo di studio prevalente del Padre è la licenza elementare men1
«Low-skilled workers face increasing difficulties on the labour market due to the steady
skills upgrading experienced in most G-20 countries. In some emerging G-20 economies, a significant share of the adult population – including
especially women and ethnic minorities – is functionally illiterate and this represents a major barrier to accessing productive employment. While
policies improving educational attainment have
the potential to reduce the share of the low-skilled in the labour force, life-long learning initiatives are essential to prevent skill obsolescence and
atrophy and to support the low-skilled who have
already left the education system». Meeting G-20,
Paris, 2011.
2 Per i cambiamenti di status sociale di un sin-
golo individuo si fa riferimento al concetto di mobilità infragenerazionale, mentre si parla di mobilità intergenerazionale quando ci si riferisce ai cambiamenti di status sociale di una dinastia (cioè nel
passaggio dai genitori ai figli) (Checchi, 2010).
3 Per identificare l’istruzione e l’occupazione
della famiglia di origine, si utilizzerà lo status del
Padre poiché il campione di ISFOL-PLUS non considera le inattive over 50, rendendo le stime per genere sulla famiglia selezionate per costruzione; la
partecipazione femminile è stata a lungo molto
bassa per cui molte madri avrebbero indicato «non
occupata». Per «figli» si intendono gli intervistati
di entrambi i generi. La condizione dei padri è
quella prevalente nella vita mentre per i figli è
quella attuale.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
107
Figura 1. Titolo di studio con drop-out, per classi d’età
Da 50 a 64
anni
Da 40 a 49
anni
Da 30 a 39
anni
Da 25 a 29
anni
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
Al massimo licenza media
Lic. media + tentat. prosecuzione
Diploma professionale 3-4 anni
Liceo class/scient/ling/art 4-5 anni
Diploma istituto tecnico 5 anni
Dipl. maturità + tentat. prosecuzione
Diploma/laurea breve 3 anni
Laurea v.o./3+2/ciclo unico 5 anni
Master I/II PhD specializzazione
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
Tabella 1. Mobilità sociale e probabilità condizionata dell’istruzione
Padre
Figlio
Figlio
Lic.
Lic. Dipl. Laurea Totale
elem. media
Lic.
Lic. Dipl. Laurea Totale
elem. media
Lic. elem.
Lic. media
Diploma
Laurea
7,6
0,3
0,1
0,0
22,2 18,3
7,3 14,5
2,4 9,2
0,4 2,3
3,5 51,6
3,9 26,1
5,0 16,7
3,0 5,7
14,6 43,0 35,6 6,8 100,0
1,2 28,0 55,8 15,0 100,0
0,6 14,2 55,4 29,8 100,0
0,0 7,7 40,5 51,8 100,0
Totale
8,0
32,3 44,4 15,3 100,0
8,0 32,3 44,4 15,3 100,0
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
108
La mobilità sociale
tre il titolo prevalente del Figlio è il diploma. Una mobilità ascensionale (o migliorativa),
dall’istruzione elementare del Padre verso la laurea del Figlio, riguarda 3,5 coppie su 100.
La mobilità discendente (o peggiorativa) da un Padre con la laurea a un Figlio con le medie
superiori riguarda 0,4 coppie su 100. Circa 9 coppie su 100 sono rimaste nella medesima
condizione di diplomati. Se vogliamo sapere qual è la probabilità di essere laureato condizionata dalla posizione del Padre possiamo leggere la seconda parte della tabella, dove ci
sono le frequenze relative tra la distribuzione del Figlio per il marginale del Padre: ci sono
6,8 laureati per ogni Padre con licenza elementare; questa incidenza sale al 15 se il Padre
ha le medie inferiori, al 29,8 se ha il diploma e arriva al 51,8 se è laureato.
Qual è stata l’evoluzione nella scolarizzazione degli italiani? In termini assoluti l’incidenza di individui con istruzione superiore è cresciuta ininterrottamente negli ultimi anni
(tabella 1), tuttavia appare interessante notare che sono altresì cresciuti i miglioramenti
intrafamiliari, ovvero il titolo di studio posseduto dai genitori è stato sovente superato da
quello dei figli. I laureati passano infatti da un livello del 5% a un’incidenza del 15%, i diplomati salgono dal 16% al 44% e, ovviamente, coloro che hanno frequentato solo la
scuola elementare scendono dalla metà a meno della decima parte. Più interessanti sono
le composizioni delle evoluzioni: se la metà dei padri laureati ha un figlio con almeno la
laurea, la quota scende a un terzo dei diplomati, un sesto di chi ha fatto le medie inferiori
e solo il 7% di chi ha fatto le elementari.
La prima sottotabella della tabella 2, relativa ai 25-29enni, contiene ancora alcuni giovani nella fase formativa e ciò, ovviamente, sottostima il loro livello di istruzione poiché
molti cicli non sono ancora stati conclusi. Si commentano pertanto le performance a partire dagli attuali trentenni. Il 46% di loro risulta diplomato e il 2% in possesso di una laurea. Tra gli ultracinquantenni, il Padre possedeva il diploma nel 20% dei casi mentre solo il
5% dei genitori si era laureato, pertanto l’istruzione superiore formale (diploma e laurea) è
passata dalla prime alle seconde generazioni dal 10% al 45%, con un grandissimo incremento (35%) di dotazioni informative, professionali e culturali.
Questo incremento è stato frutto del contributo di diverse «generazioni» con diversi impianti e sistemi scolastici; l’eterogeneità è elevata nel tempo e nello spazio. La generazione 50-64 anni ha registrato un incremento del 35%, ma partendo da livelli medi più bassi
(diplomati 32%), simili in termini assoluti quelli della classe 40-49 anni che però partiva
da livelli medi più alti (diplomati 42%). La classe 30-39 anni registra una crescita analoga
ma con livelli medi ancora superiori (diplomati pari al 46%). Controllando per la classe
d’età, la probabilità di essere laureato condizionata dall’avere un «Padre laureato» passa
dal 66% della classe 50-64 anni al 70% della classe 40-49 anni per tornare a circa il 62%
per la classe 30-39 anni.
Questo fenomeno implica una riduzione del nesso causale tra «istruzione Padre alta» e
«istruzione Figlio alta», che in termini egualitari pare una buona notizia. Se guardiamo i
30-39 anni con genitori con istruzione «Licenza media», solo il 18% raggiunge l’apice dell’istruzione. Ovvero se nel passato essere in una famiglia a dotazione elevata di capitale
umano era una garanzia di mantenere lo status, nel recente passato la garanzia si è ridotta, ma la capacità di chi ha una bassa dotazione familiare di affrancarsi non pare significativamente cresciuta. Ovvero i risultati osservati sono il prodotto di un effetto composito
frutto due tendenze distinte: l’inflazione del livello di istruzione, dovuto alla scolarizzazioOsservatorio Isfol n. 2/2011
109
Tabella 2. Mobilità sociale e probabilità condizionata dell’istruzione
Figlio
Padre
Figlio
Figlio
Elem. Media Dipl. Laurea Totale
Elem. Media Dipl. Laurea Totale
25-29 Elem.
Media
Diploma
Laurea
0,5
0,2
0,0
Totale
30-39 Elem.
Media
Diploma
Laurea
Totale
40-49 Elem.
Media
Diploma
Laurea
Totale
9,3 12,7
7,5 24,3
1,4 15,1
0,2 3,5
1,8 36,8 50,2 11,2
0,5 19,4 62,6 17,5
0,2 5,2 56,1 38,5
2,4 39,7 57,9
100,0
100,0
100,0
100,0
0,7 18,5 55,7 25,1 100,0
0,7 18,5 55,7 25,1 100,0
2,4 20,0 18,0
0,1 9,4 15,9
0,3 1,5 10,6
0,0 2,1
3,6 43,9
5,8 31,1
7,0 19,4
3,5 5,6
5,4 45,5 40,9 8,1 100,0
0,2 30,1 51,0 18,7 100,0
1,5 7,9 54,6 36,0 100,0
0,6 37,7 61,8 100,0
2,7 30,9 46,5 19,8 100,0
2,7 30,9 46,5 19,8 100,0
4,0 32,7 24,4
0,5 5,5 12,1
1,3 4,9
0,0 1,3
4,0 65,1
3,0 21,1
3,2 9,3
3,1 4,5
6,2 50,2 37,5 6,1 100,0
2,4 26,1 57,2 14,3 100,0
13,7 52,4 33,8 100,0
1,1 29,4 69,5 100,0
4,5 39,5 42,7 13,3 100,0
4,5 39,5 42,7 13,3 100,0
50-64 Elem.
23,6 28,5
Media
0,5 2,3
Diploma 0,1 0,8
Laurea
0,2
Totale
2,8 25,4
6,8 38,8
10,4 27,0
5,1 8,9
24,1
21,2
6,6
3,3
0,9
31,7 32
4,8 78,0
2,3 11,7
3,0 7,1
2,1 3,2
12,2 100,0
30,2 36,5 27,2 6,2
4,5 19,4 56,4 19,6
0,8 10,8 46,0 42,4
5,0 28,7 66,3
24,1
100,0
100,0
100,0
100,0
31,7 32,0 12,2 100,0
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
ne di massa, e l’«inerzia intergenerazionale», dovuta alla trasmissione/conservazione Padre-Figlio delle posizioni. Tutto ciò implica una lettura a macchia di leopardo in cui trovare tendenze generali non è semplice.
Mobilità: occupazione
Per analizzare la mobilità occupazionale si è scelto di raggruppare le modalità della professione in 2 e 4 stati. La variabile dicotomica che considera le professioni «alte» (1, 2, 3 digit) e «basse» (tutte le altre) è particolarmente utile per le tabelle molto nidificate da va110
La mobilità sociale
riabili di controllo, mentre la quadripartizione (alta, media, bassa e non occupato), comprendendo anche coloro che sono attualmente non occupati 4, consente analisi sulla partecipazione lavorativa.
Il livello professionale è utilizzato per individuare (ovviamente in maniera approssimativa)5 lo status professionale al fine di ordinare una pseudo classe sociale della famiglia. Le
Tabella 3. Matrice di mobilità e probabilità condizionata per età e reddito
Classe
Occup. d’età
Padre del figlio
Occupazione Figlio
Alta
Bassa
Totale
Alta
25-29
Bassa
Totale
6,4
25,8
32,3
6,5
61,0
67,4
13,0
87,0
100,0
Alta
30-39
Bassa
Totale
6,5
27,2
33,8
6,5
59,6
66,1
Alta
40-49
Bassa
Totale
6,7
28,4
35,1
Alta
50-64
Bassa
Totale
5,5
27,8
33,3
Reddito
familiare
Figlio
Occupazione Figlio
Alta
Bassa
Totale
Tra 0 e
1.000
2,8
20,6
23,5
3,8
72,4
76,2
6,6
93,4
100,0
13,0
87,0
100,0
Tra 1.001
e 2.000
3,0
21,3
24,2
4,2
71,3
75,5
7,2
92,8
100,0
3,6
61,0
64,6
10,3
89,7
100,0
Tra 2.001
e 3.000
5,2
29,4
34,6
5,1
60,2
65,3
10,3
89,7
100,0
3,5
63,1
66,6
9,0
91,0
100,0
Tra 3.001
e 5.000
11,6
37,2
48,9
6,4
44,7
51,1
18,1
81,9
100,0
Oltre
5.000
25,3
35,8
61,1
6,3
32,4
38,7
31,6
68,4
100,0
Alta
Bassa
Totale
Professioni Alte: digit 1, 2, 3; Basse: digit 4, 5, 6, 7, 8, 9
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
4 Le analisi sulle matrici di mobilità e le probabilità condizionate relative all’«occupazione»
dovrebbero considerare sia i genitori (Padri) degli
occupati (per i quali disponiamo delle informazioni sull’attuale attività lavorativa) sia delle persone
in cerca (di cui però non abbiamo informazioni
sulla posizione lavorativa). Ovvero considerando
solo gli occupati selezioniamo implicitamente i
padri dei non occupati.
5 Il limite principale è rappresentato dal fatto
che nel 1 digit confluiscono anche tutti gli imprenditori, che spesso non hanno livelli di istruzione particolarmente alti o livelli economici non necessariamente relativamente elevati; si pensi a un
piccolo imprenditore, artigiano o commerciante.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
111
professioni «alte» sono costantemente aumentate nel tempo. Per le madri la «non partecipazione» è andata riducendosi significativamente passando in mezzo secolo da 70 a 45
donne non occupate su 100. Le analisi tra ambiti (classi d’età, ceto, aree di residenza, genere ecc.) possono offrire ulteriori letture (tabella 3). Le permanenze sono simili in tutti i
gruppi lasciando intendere una saturazione del sistema e una frenata della mobilità.
Controllando per il ceto, ovvero il reddito della famiglia di appartenenza, inteso come
tutte le entrate da salari, affitti e rendite al netto delle proprietà, la mobilità è inversamente proporzionale alla ricchezza, ovvero la permanenza nella condizione bassa è appannaggio delle famiglie meno ricche.
Sono risultati in linea con Pisati e Schizzerotto (2004), che scrivono: «per gli uomini più
giovani, oltre alla ripresa del tasso di immobilità, c’è anche una caduta della mobilità ascendente e un arresto di quella discendente. Tutto questo segnalerebbe il raggiungimento di
una fase di maturità del mercato del lavoro, con il conseguente ridimensionamento delle
chances di miglioramento che erano state offerte dai precedenti cambiamenti strutturali».
Invece, utilizzando la quadripartizione «professione alta, media, bassa e non occupato»,
si nota (tabella 4) un’«alta» probabilità dei Padri con posizioni lavorative elevate di avere
un Figlio in posizioni lavorative elevate, pari al 38%; invece la probabilità di avere una professione alta data la posizione di partenza del Padre bassa si riduce sensibilmente, al 15%.
La conservazione dello status o inerzia specifica è pari al 38% per i livelli alti, al 36% per i
livelli medi e al 15% per i livelli bassi.
Queste performance sono legate (sporcate) alle performance dei figli in età under 25
che sono ancora in divenire, mentre quelle dei genitori sono considerabili come informazioni invarianti, date. Controllando per l’età del Figlio (tabella 5), per le classi mature (con
una carriera già in buona parte effettuata) si osserva come cambiano i risultati. Innanzi
tutto la progressiva terziarizzazione del sistema produttivo ha modificato l’incidenza delle
posizioni per livello: le occupazioni alte tra i 25-29enni sono il 21%, tra i trentenni il 26%,
tra i quarantenni il 31% e per gli over 50 il 6%.
Tabella 4. Mobilità sociale: professione Figlio vs Padre
Figlio
Padre
n.o.
Figlio
Alta Media Bassa Totale
n.o.
Alta
Media
Bassa
1,30 0,56 1,04
3,12 4,17 2,94
14,82 13,01 18,63
10,67 5,34 13,35
0,37 3,26
0,53 10,76
4,67 51,12
5,50 34,86
Totale
29,90 23,07 35,95 11,07 100,00
n.o.
Alta Media Bassa Totale
39,75
28,98
28,98
30,62
17,12
38,74
25,45
15,31
29,90 23,07 35,95 11,07 100,00
Professioni Alte: digit 1, 2, 3; Intermedie: digit 4, 5, 6, 9; Basse: digit 7, 8
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
112
La mobilità sociale
31,77 11,36 100,00
27,35 4,93 100,00
36,44 9,13 100,00
38,29 15,78 100,00
Tabella 5. Mobilità sociale e probabilità condizionata: occupazione per classi d’età
Figlio
Figlio
Padre
25-29 n.o.
Alta
Media
Bassa
Totale
30-39 n.o.
Alta
Media
Bassa
Totale
40-49 n.o.
Alta
Media
Bassa
n.o.
Alta Media Bassa Totale
n.o.
Alta Media Bassa Totale
2,5 1,0 1,5
4,8 4,1 3,8
19,1 12,6 20,6
8,0 3,7 10,2
0,4 5,3
0,2 12,9
4,2 56,4
3,5 25,4
45,9 19,3 27,7 7,0
36,9 31,5 29,7 1,9
33,8 22,3 36,5 7,4
31,6 14,6 40,1 13,7
34,3
21,4 36,1
8,2 100,0
34,3
0,7 0,6 1,0
1,8 4,9 4,0
11,6 15,8 22,3
8,5 4,8 11,8
0,3 2,7
0,9 11,6
6,0 55,7
5,0 30,1
25,9 21,9 39,2 12,9
15,4 42,5 34,7 7,4
20,9 28,4 40,0 10,7
28,4 15,8 39,1 16,6
22,7 26,1 39,1 12,2 100,0
0,4 0,4 1,0
0,7 5,9 2,9
3,7 17,2 21,6
4,6 8,1 19,1
Totale
9,3
50-64 n.o.
Alta
Media
Bassa
1,4
1,6
15,1
19,0
Totale
Figlio
15,3
6,7
7,8
11,4
31,6 44,6 14,4 100,0
9,3
0,4 3,3
0,4 7,2
3,9 43,6
6,6 46,0
37,2 20,9 30,6
11,3 100,0
8,2 100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
22,7 26,1 39,1 12,2 100,0
0,6 2,4
0,4 9,8
5,5 48,0
8,0 39,8
0,6 0,9
3,4 1,7
10,9 13,7
6,1 14,3
21,4 36,1
100,0
100,0
100,0
100,0
44,0
22,9
34,7
41,4
17,9
60,3
35,8
20,4
43,5 23,3 100,0
29,4 3,6 100,0
45,0 11,4 100,0
48,0 20,2 100,0
31,6 44,6 14,4 100,0
17,4 27,6 11,0
47,3 23,6 6,2
25,0 31,4 9,0
13,2 31,1 14,4
37,2 20,9 30,6
100,0
100,0
100,0
100,0
11,3 100,0
Professioni Alte: digit 1, 2, 3; Intermedie: digit 4, 5, 6, 9; Basse: digit 7, 8
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
Questo fenomeno, tuttavia, ha una casualità incerta, ovvero la questione è endogena,
dovuta alla demografia (baby boom) che ha sostenuto la domanda di occupazioni elevate,
oppure è un effetto esogeno, tecnologico-organizzativo, per cui la domanda è mutata? Più
avanti vedremo alcune tendenze in atto che sottendono dinamiche dovute a più componenti che, simultaneamente, alimentano la ricomposizione in atto.
Un Padre con un’occupazione «alta» ha un Figlio di 25-29 anni in una posizione lavorativa analoga («alta») per il 31% dei casi, che diventano il 42% dei casi per i figli 30-39enni,
il 60% per i figli 40-49enni e diminuiscono al 47% per gli over 50. Parallelamente un Padre
con occupazione «bassa» ha un Figlio con occupazione «alta» per le 4 classi d’età, rispettivaOsservatorio Isfol n. 2/2011
113
mente, nel 14%, 15%, 20% e 13% dei casi. Infine con un Padre con posizione lavorativa
«bassa» il Figlio ha una probabilità di avere un impiego «basso» del 14%, 16%, 20% e 14%.
Relazioni intergenerazionali
Esiste una relazione tra professioni elevate e istruzione elevata? Se ci fosse un «mercato
dell’istruzione» potremmo dire che in generale l’ascesa delle prime induce all’aumento delle seconde. Quando questo processo incrementale subisce in una componente un rallentamento si creano disallineamenti tra la domanda e l’offerta di lavoro qualificato. Vediamo
(figura 2) inizialmente il livello della generazione dei Padri (a sinistra): in ogni decade si
creava una quantità incrementale di professioni alte che richiedevano istruzione alta. Sistematicamente la domanda superava l’offerta. Ciò ha determinato6, o meglio ha contribuito a
sostenere, l’aumento dei livelli di istruzione per la generazione successiva. Invece, se ci si
sofferma sulla generazione Figli (a destra), si vede come la DLQ sia più piatta, sebbene su livelli assoluti superiori a quelli registrati 20, 30 e 40 anni fa dai loro Padri, a fronte di un incremento dei laureati. Quindi, sebbene il livello di laureati aumenti costantemente (OLQ Offerta di Lavoro Qualificato) il numero di posti di lavoro per laureati (DLQ – Domanda di Lavoro Qualificato) negli ultimi anni non aumenta in maniera adeguata ad assorbire i nuovi
laureati. Esiste pertanto un disallineamento tra il sentiero di crescita della domanda e quello dell’offerta che comporta una saturazione del mercato dei laureati (in cui sono tracimati anche altri soggetti). Questo processo di evoluzione della domanda e offerta di capitale
umano non necessariamente deve essere visto in termini assoluti (è un bene o un male) ma
piuttosto in termini relativi (è adeguato o non adeguato)7, ovvero si osserva come la qualità della prestazione evolva meno che proporzionalmente rispetto alla quantità delle prestazioni svolte, in virtù pure degli effetti legati all’introduzione delle nuove tecnologie. Lo shift
è anche in parte causato dall’innalzamento dell’istruzione formale disgiunto da un pari incremento nella gerarchia occupazionale (pseudo classe sociale), ovvero il bancario ragioniere è rimpiazzato da un laureato in economia, a parità di mansioni e posizione sociale8.
Pertanto la carenza di una domanda di lavoro qualificata in grado di sfruttare le potenzialità di un lavoratore più strutturato e un sistema non stagno in cui abbondano le infil6 L’istruzione è, come abbiamo visto, nella prima e più importante fase un processo indotto dalla famiglia e dal sistema istituzionale, e solo più
avanti il percorso è autodeterminato. Pertanto le
scelte scolastiche della generazione dei nati negli
anni Ottanta sono state influenzate dalle credenze sull’utilità dell’istruzione dei loro genitori,
quindi ampia parte della natura e dimensione delle performance registrate vent’anni dopo è frutto
di un contesto molto diverso da quello in cui si
realizzano. Un lag temporale che espone a spiazzamenti e a certa dose di aleatorietà nelle opzioni.
7 Ipotizziamo di scolarizzare tutti i cittadini
italiani al massimo titolo di studio. Essi non po-
114
La mobilità sociale
tranno occupare solamente posizioni apicali, serviranno comunque impiegati e operai. Ovvero se
non cresce la struttura produttiva e organizzativa
del sistema non si potrà non accettare l’idea di
portare alla laurea persone che poi svolgeranno
mansioni inferiori alle loro possibilità.
8 È ovvio che cinquant’anni fa le posizioni migliori erano appannaggio di una minoranza, poi
con il progresso e il benessere diffuso le posizioni
buone sono aumentate. Questo processo di crescita dei livelli dell’istruzione medi e delle professioni apicali riguarda tutta la società, in una sorta di
effetto inflazione del valore del titolo di studio o
del posto di lavoro.
Figura 2a. Incidenza professioni elevate
(DLQ) e laurea (OLQ) dei Padri (per età
del Figlio)
Figura 2b. Incidenza professioni elevate
(DLQ) e laurea (OLQ) dei Figli/intervistati
40
40
35
35
30
30
25
25
20
20
15
15
10
10
5
5
0
Da 25 a 29
anni
Da 30 a 39
anni
DLQ Padri
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
Da 40 a 49
anni
OLQ Padri
Da 50 a 64
anni
0
Da 25 a 29
anni
Da 30 a 39
anni
DLQ Figli
Da 40 a 49
anni
Da 50 a 64
anni
OLQ Figli
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
trazioni di soggetti impropri crea fenomeni di sottoccupazione e, specularmente, di overeducation.
Troppi laureati, quindi, per questa economia? In realtà le alte incidenze di laureati nelle classi giovani sottendono grandezze relativamente contenute (figura 3): ci sono meno di
800.000 laureati a fronte di poco più di 700.000 occupazioni per laureati per la classe giovani nella classe 25-29 anni (che potrebbe ancora migliorare le percentuali di conseguimento del titolo di laurea); i 40enni avevano quindi in termini assoluti più posizioni alte
«disponibili». Cioè i good jobs scarseggiano mentre i good boys aumentano.
Al netto dei vari effetti individuali, appaiono mutate le possibilità/potenzialità di oggi rispetto a quelle di ieri, in un contesto storico – la società della conoscenza – che dovrebbe
avvantaggiare (come accade nei paesi più avanzati) chi ha un capitale umano superiore. Ovvero la dinamica demografica determina un flusso di offerte di lavoro qualificato inferiore,
in termini assoluti, rispetto all’incidenza relativa, che continua a crescere. In altri termini
nel mercato del lavoro diminuisce la domanda di professioni qualificate oppure c’è stato,
per una parte delle generazioni più vecchie, un improprio passaggio verso posizioni più alte
rispetto al posizionamento che il loro capitale umano avrebbe fatto ritenere più corretto. È
in corso, quindi, un fenomeno di razionamento della domanda di lavoro qualificato a danno
dei più giovani e qualificati dovuto al fatto che sono state elevate alcune persone, dalle politiche di seniority, in posizioni superiori al loro livello di competenza riducendo i posti di lavoro qualificato disponibili rispetto ai colleghi più giovani, e meglio dotati in termini di abilità (saper fare) e istruzione (formale). Generalizzare non è mai opportuno, si pensi ad alcune competenze tecniche che effettivamente sono un patrimonio prezioso per le imprese e
Osservatorio Isfol n. 2/2011
115
Figura 3. Professioni alte e laureati, per decili di età (v.a. e %)
45%
2.000.000
40%
1.800.000
35%
1.600.000
1.400.000
30%
1.200.000
25%
1.000.000
20%
800.000
15%
600.000
10%
400.000
5%
200.000
0%
0
10
9
8
VECCHI
7
6
5
4
Decili di età (18-64)
Laureati v.a.
Prof. alta v.a.
Prof. alta %
3
2
1
GIOVANI
Laureati %
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
detenuto solo marginalmente dai più giovani; tuttavia alcune politiche sindacali e interventi normativi hanno sostenuto questa dinamica non lineare, con le note conseguenze sulla
produttività, la gestione della pubblica amministrazione, le «fughe dei cervelli» ecc.
Le soluzioni-bandiera sono ridurre la creazione di nuovi laureati (scelta decisamente
antistorica) o aumentare i posti di lavoro elevati (scelta di difficile e lunga realizzazione)
oppure ragionevoli vie di mezzo come politiche industriali mirate al sostegno di una produzione elevata che generi domanda di lavoro qualificata e/o aumento dell’obbligo formativo, magari con criteri di selezione degli accessi ai percorsi nei livelli superiori.
A ulteriore riprova del ruolo del contesto occupazionale / domanda di lavoro mostriamo
(tabella 6) le matrici di mobilità occupazionale e le probabilità condizionate per individui
con già una carriera matura, di 40-49 anni, controllando per la necessità (o meno) del loro titolo di studio nell’espletamento della loro attività.
I livelli di probabilità di transitare in posizioni elevate (ovvero la capacità di emancipazione del titolo di studio) partendo da posizioni basse è quattro volte superiore se si lavora in contesti attenti al capitale umano rispetto ad ambienti in cui l’istruzione formale non
è tenuta in considerazione.
In che modo le scelte scolastiche, le opzioni prese prima dai genitori e poi dai singoli
individui, hanno modificato le performance lavorative degli individui, in termini comparati? Si sono considerati i miglioramenti in termini di progressione professionale. Nella figura 4 si vede come i progressi più rilevanti, in termini di progressione intergenerazionale
nella gerarchia lavorativa, siano appannaggio, anche controllando con l’età (al netto dell’effetto carriera), dei percorsi scolastici più impegnativi.
116
La mobilità sociale
Tabella 6. Mobilità occupazionale: ambiente che richiede il titolo di studio o meno
Figlio →
Titolo di studio non necessario
Padre ↓
n.o.
Alta Media Bassa Totale
n.o.
Alta Media Bassa Totale
n.o.
Alta
Media
Bassa
–
–
0,1
0,3
–
0,9 0,5 1,4
3,3 3,0 0,7 7,0
10,1 25,6 9,7 45,5
4,5 27,5 13,8 46,1
0%
0%
0%
1%
0%
48%
22%
10%
Totale
0,4
17,9 57,0 24,8 100,0
0%
18% 57% 25% 100%
n.o.
Alta
Media
Bassa
–
1,0 1,3
–
9,8 3,4
0,1 28,1 21,8
0,1 13,6 14,3
0,7 3,0
0,1 13,3
2,1 52,2
3,6 31,5
0%
0%
0%
0%
32%
74%
54%
43%
Totale
0,2 52,5 40,8
6,5 100,0
0%
52% 41%
Titolo di studio necessario
65%
43%
56%
60%
35%
10%
21%
30%
100%
100%
100%
100%
44% 24% 100%
25% 1% 100%
42% 4% 100%
45% 12% 100%
7% 100%
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008 (sottopopolazione 40-49 anni)
I risultati peggiori (si osservino le classi centrali: 30-49 anni) sono appannaggio di chi
non ha conseguito neanche la scuola dell’obbligo o ha interrotto un diploma (drop-out) o,
paradossalmente, ha conseguito un diploma liceale senza arrivare alla laurea (l’effetto
spiazzamento tipico del liceo). Le performance sono ulteriormente amplificate nel caso di
carriere dei figli sensibilmente migliori rispetto ai padri.
Nella figura 5 sono illustrati i miglioramenti e i peggioramenti (intesi come un livello
gerarchico del Figlio meno di quello del Padre) per alcuni «controlli».
Il successo e l’insuccesso sono – ovviamente – frutto di scelte speculari: chi ha più studiato ha maggiormente migliorato le proprie posizioni nella gerarchia lavorativa e ridotto
le possibilità di un peggioramento relativo. Così pure chi ha scelto di partecipare a un concorso pubblico, avviare un’attività autonoma, lavorare in ambienti sensibili al titolo di studio posseduto, conseguire un diploma professionale o tecnico. Viceversa i percorsi di studio interrotti molto presto. L’intermediazione informale e gli ambienti lavorativi non sensibili al titolo di studio conducono a minori performance in termini di mobilità ascensionale
e aumentano i rischi di peggioramenti relativi.
L’istruzione rimane l’unico treno, seppur debole e nel lungo periodo, cui si può aggrappare chi parte da posizioni svantaggiate nella gerarchia sociale. Infatti, nonostante ingenti e costosi (individualmente e collettivamente) fenomeni di over-education (Franzini, Raitano, 2011), la possibilità di ottenere performance migliori di quelle registrate dalla generazione di partenza appare fortemente collegata al percorso scolastico, anche dei primi cicli di studio (ciò mette in luce il ruolo rilevante nel contrasto ai fenomeni di drop-out del
sistema scolastico e di assistenza sociale pubblico).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
117
Figura 4. Miglioramenti in termini di gerarchia professionale per titolo di studio
e drop-out
I
H
G
F
E
D
C
B
A
0
0,10
0,20
50-64
0,30
40-49
0,40
30-39
0,50
0,60
0,70
18-29
Legenda: A = al massimo licenza media; B = licenza media + tentativo prosecuzione; C = diploma professionale 3-4 anni; D = liceo classico/scientifico/linguistico/artistico 4-5 anni; E = diploma istituto tecnico
5 anni; F = diploma maturità + tentativo prosecuzione; G = diploma/laurea breve 3 anni; H = laurea magistrale 3+2/ciclo unico 5 anni; I = master I/II PhD specializzazione.
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
Conclusioni
Queste ultime analisi fanno tornare alla mente il «ciclo di Galbraith»9, ovvero quel processo che permetteva a ogni generazione di migliorare la propria condizione rispetto a quella
precedente, che in Italia sembra essersi interrotto.
9
In The Affluent Society, Galbraith esprime,
già nel 1958, la tesi secondo cui l’evoluzione della
società e dell’economia va verso una direzione in
cui ciò che contano sono soprattutto i livelli dei
consumi. I cittadini non vengono quasi più considerati persone portatrici di idee e valori, ma solo
«consumatori», esplicitando il fatto che a livello
sociale si conta solo in funzione del proprio livello
118
La mobilità sociale
di consumi. Quest’opera, per molti versi profetica,
valse a Galbraith feroci critiche. Ancora dominante ed esclusiva era l’idea che il progresso economico coincidesse con lo sviluppo industriale e potesse essere misurato esclusivamente da indicatori quantitativi, come la crescita del prodotto interno lordo, escludendo parametri sociali o ambientali.
Figura 5. Miglioramenti e peggioramenti di status occupazionale
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
Miglioramenti
Canale: ag. interinale
Liceo
Il titolo di studio
non è necessario
Canale: amici e parenti
Lic. media + tentat.
prosecuzione
Al massimo licenza media
Canale: offerte
sulla stampa
Canale: autocandidature
Canale: CPI
Diploma
Dipl. + tentat.
prosecuzione
Ambiente professionale
Ist. professionale
Il titolo di studio
è necessario
Canale: attività
autonoma
Concorsi pubblici
Laurea
Post lauream
0%
Peggioramenti
Fonte: ISFOL-PLUS, 2008
L’istinto di conservazione è una tendenza ancora latente nella nostra società, sebbene
sempre più tecnologica e terziarizzata; si pensi ad esempio agli alti livelli di intermediazione informale (che sostanzialmente sono una trasmissione dell’occupazione per appartenenza familiare) che riguardano ormai circa un impiego su due (Mandrone, 2011b). Questi
comportamenti rendono endemico il fenomeno di (im)mobilità sociale. Tuttavia la contrapposizione tra immobilità e mobilità rischia di essere fine a se stessa. Più importante
appare la necessità di un continuo set-up della miscela tra difesa dello status quo e possibilità di miglioramento, tra spinte conservatrici e riformatrici. Se è comprensibile (e auspicabile), a livello individuale, che i figli mantengano almeno lo status sociale dei padri, ciò
limita la possibilità di emergere degli outsider, di chi è sprovvisto di network familiare. Il rischio è una segmentazione sociale tra chi è su e vuole restarci e chi è giù e non vuole restarci. Ma questo scenario è un problema non soltanto in termini di giustizia sociale o pari opportunità. Infatti queste istanze, a livello aggregato, appaiono non solo inique ma soprattutto pericolose, in quanto rappresentano un limite alla crescita, allo sviluppo e quindi, in definitiva, al benessere collettivo. Nel lungo periodo limitare la mobilità (facendo un
parallelo potremmo dire alimentare politiche protezionistiche) rappresenta un rischio concreto per tutti di perdere quote di benessere e ricchezza. Infatti, se coloro che meritano
non possono esprimere la loro produttività, il sistema ineludibilmente ne risentirà in termiOsservatorio Isfol n. 2/2011
119
ni di competitività10. Ricordiamo la regola aurea «se non si cresce non c’è niente da (re)distribuire», e se, addirittura, ci si avvia al declino (riduzione della ricchezza e del benessere)
non ci sarà niente da preservare e tramandare.
Alcuni propongono una spiegazione storica delle scelte (e delle omissioni) fatte dal legislatore che hanno condotto a questa prevalenza delle istanze conservatrici. L’attuale lassismo va ricercato negli ingenti sforzi fatti nel passato a favore dei padri e dei nonni per avviare e sostenere la crescita e lo sviluppo. In quest’ottica, di lunghissimo periodo, oggi si
raccolgono i frutti di quegli investimenti pubblici (in istruzione, infrastrutture, sanità, case
ecc.) e ora si attende che sia la catena di distribuzione intrafamiliare a sostenere le istanze
dei figli. Ovvero l’idea è che lo sviluppo di ieri ha portato al benessere di oggi che consente
risorse per lo sviluppo di oggi e il benessere di domani. Tutto ciò al netto di coloro che i padri non ce li hanno o che non hanno fatto fortuna. Se questo scenario fosse credibile bisognerebbe individuare e dotare chi non ha usufruito, neanche indirettamente, di aiuti e farlo
diventare a sua volta la pietra angolare su cui far proliferare una florida discendenza.
Bibliografia
Baffigi A., Luigi Einaudi: teoria economica e legislazione sociale nel testo delle Lezioni, Banca d’Italia, Roma, 2009 (Quaderni di Storia Economica).
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Mandrone E. (a cura di), Labour Economics. PLUS Empirical Studies, ISFOL, Roma, 2011a.
10 Essere figli di qualcuno non deve essere una
condizione né necessaria né sufficiente per svolgere un’attività. Un bravo chirurgo potrebbe avere
un figlio bravo come lui come chirurgo e allora la
cosa non avrebbe conseguenze negative, sarebbe
solo un naturale trasferimento di conoscenze, una
sorta di trasmissione del talento. Ma se il figlio
120
La mobilità sociale
non è bravo come il padre chirurgo (ma la stessa
cosa vale per il giornalista come per l’artigiano,
per l’imprenditore come per il bancario) allora la
sua collocazione rappresenta un rischio e un costo
per il sistema. Quando questo fenomeno dilaga, in
mancanza di lapis philosophorum che muti il
bronzo in oro, il rischio cresce.
Mandrone E., L’intermediazione pubblica, privata ed informale, «Rivista di Politica Economica», n. 1, 2011b.
Pisati M., Schizzerotto A., The Italian Mobility Regime: 1985-97, in R. Breen (a cura di), Social Mobility in Europe, Oxford University Press, New York, 2004.
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Per citare questo articolo: Emiliano Mandrone, La mobilità sociale, «Osservatorio Isfol», I
(2011), n. 2, pp. 105-121.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
121
Rendimenti del capitale
umano e lavoro
Cosa succede in Italia
di Andrea Ricci
Riassunto: l’articolo rappresenta un tentativo di sviluppare un’analisi sistematica dei rendimenti del capitale umano nel contesto più generale della dinamica strutturale del mercato del lavoro italiano, utilizzando dati microeconomici sulle imprese e sui lavoratori. Si
esamina quindi, da un lato, il legame tra dinamica strutturale del mercato del lavoro, rendimenti salariali dell’istruzione ed evoluzione della qualità della domanda di lavoro, facendo riferimento a dati individuali sui salari e sull’occupazione; dall’altro, cosa accade «dentro» le imprese, concentrandosi sui rendimenti del capitale umano per la performance produttiva. In questo quadro di analisi si dimostra che investire in istruzione, nel nostro paese, paga sempre di meno, sia in termini di prospettive di salario che in termini di qualità del
lavoro. In altre parole l’evoluzione del mercato del lavoro e del sistema produttivo italiano
negli ultimi anni non è in grado di valorizzare gli investimenti in capitale umano degli individui e delle imprese.
Parole chiave: Capitale umano; Domanda di lavoro; Produttività
Introduzione
L’analisi economica dei rendimenti del capitale umano è un tema di ricerca tanto dibattuto quanto complesso. Vi sono molti studi che hanno indagato in che misura l’investimento
in istruzione permette di migliorare le prospettive lavorative delle persone, in termini di
salari e occupazione. Meno numerose sono state le ricerche focalizzate sulla relazione tra
formazione nei luoghi di lavoro e performance delle imprese in termini di produttività, profitti e costi del lavoro (Brunello, Garibaldi, Wasmer, 2007).
A nostra conoscenza, tuttavia, non vi è stato alcun tentativo di sviluppare un’analisi sistematica dei rendimenti del capitale umano nel contesto più generale della dinamica
strutturale del mercato del lavoro italiano, utilizzando dati microeconomici sulle imprese e
sui lavoratori.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
123
Il presente contributo rappresenta uno sforzo in questa direzione. In particolare l’obiettivo è quello di definire un ordito analitico coerente all’interno del quale declinare le evidenze relative ai rendimenti del capitale umano per le imprese e per i lavoratori e, di conseguenza, sviluppare un quadro di riferimento generale per proporre misure efficaci di politica economica.
In tale prospettiva le analisi presentate in queste pagine sono sviluppate in un’ottica tipicamente dinamica, sfruttando la disponibilità di informazioni cross-sezionali ripetute nel
tempo e di dati longitudinali. Ciò permette di osservare i fenomeni in esame nell’arco di un
lungo periodo di tempo (nel caso dei lavoratori) e tenendo conto dell’eterogeneità non osservata dell’ambiente produttivo (nel caso delle imprese). Le riflessioni di politica economica che se ne possono dedurre non si basano quindi su fenomeni congiunturali ma, per così dire, strutturali e di medio-lungo periodo.
In questo quadro analitico si mettono in luce alcuni risultati sorprendenti, soprattutto
se comparati a ciò che emerge negli altri paesi industrializzati. Innanzitutto, si dimostra
che investire in istruzione paga sempre di meno nel nostro paese, sia in termini di prospettive di salario che in termini di qualità del lavoro. La diminuzione dei rendimenti salariali
dell’istruzione è tale da condizionare la stessa struttura dei salari e la dinamica del mercato del lavoro italiano. In secondo luogo, la domanda di lavoro qualificato espressa dal sistema delle imprese non è stata in grado in questi anni di assorbire il pur lieve incremento
di offerta di lavoro qualificato, che si è accompagnato all’aumento dei tassi di scolarizzazione della forza lavoro. Ciò si rivela nella diffusione del fenomeno mismatch tra il livello
delle competenze delle persone e le mansioni richieste dal sistema produttivo. In terzo luogo, gli investimenti in formazione e in competenze di diversa natura (formali e informali,
implicite ed esplicite) che si realizzano nelle aziende non sono in grado di garantire performance produttive tali da compensare il «deprezzamento» dei rendimenti dell’istruzione che
si verifica nel mercato del lavoro. In altre parole, l’evoluzione del mercato del lavoro e del
sistema produttivo italiano negli ultimi anni non è stata in grado di valorizzare gli investimenti in capitale umano degli individui e delle imprese. Anzi. La realtà economica mostra
dei potenziali disincentivi ad investire in istruzione e formazione con effetti negativi non
solo sulle prospettive di reddito delle persone, ma sulle stesse capacità di crescita del sistema produttivo. Il ruolo della politica economica in tal senso è fondamentale. In particolare, le analisi empiriche sottolineano l’opportunità di integrare, da una parte, misure di politiche del lavoro e dell’istruzione che migliorino il livello e la qualità dell’offerta di lavoro
e, dall’altra, interventi di politica industriale che siano in grado di favorire la qualità della
domanda di lavoro espressa dalle imprese.
L’articolo è strutturato in due parti. Nella prima parte si esamina il legame tra dinamica
strutturale del mercato del lavoro, rendimenti salariali dell’istruzione ed evoluzione della
qualità della domanda di lavoro, facendo riferimento a dati individuali sui salari e sull’occupazione. Si vedrà così che l’evoluzione del mercato del lavoro negli ultimi anni è stata caratterizzata da un progressivo declino delle opportunità di salario e di qualità dell’occupazione
per le persone con più alti livelli di istruzione. Questa evoluzione può essere sintetizzata dalla rilevanza del fenomeno dello skill mismatch e può essere spiegata, per una parte rilevante, dalla debolezza della domanda di lavoro qualificato espressa dalle imprese italiane.
Sulla base di tali risultati la seconda parte dell’articolo va a esaminare cosa accade
124
Rendimenti del capitale umano e lavoro
«dentro» le imprese, o meglio si concentra sui rendimenti del capitale umano per la performance produttiva, utilizzando dati sui bilanci delle imprese. In particolare si analizza il legame tra l’uso dei contratti a tempo determinato e/o l’organizzazione di corsi di formazione, da una parte, e la performance delle imprese in termini di produttività, costi del lavoro
e profitti, dall’altra.
In effetti, l’uso dei contratti a termine influenza l’investimento in capitale umano nella
misura in cui condiziona la durata media e/o la qualità delle relazioni di occupazione e, per
questa via, la possibilità di accumulare competenze attraverso attività di tipo learning by
doing. L’analisi dei rendimenti produttivi dei corsi di formazione, invece, completa il quadro
che emerge dall’esame dei rendimenti produttivi dei contratti a termine mettendo in luce
che, indipendentemente dalla natura e dalla modalità con cui si accumulano le competenze, il contesto produttivo italiano non offre sostanziali opportunità di valorizzare gli investimenti in capitale umano. L’articolo termina con alcune riflessioni di politica economica.
Le tendenze di fondo, il mercato del lavoro e il capitale umano
L’analisi dei rendimenti del capitale umano in Italia non può prescindere da un breve inquadramento teorico ed empirico delle tendenze di fondo che nel corso degli ultimi trent’anni hanno influenzato in modo determinante la struttura dei salari e dell’occupazione
nella maggior parte dei paesi industriali.
La letteratura economica è ormai piena di studi comparativi in cui si dimostra chiaramente in quale misura i grandi cambiamenti che si sono associati all’innovazione tecnologica e alla globalizzazione dei mercati abbiano favorito una sostanziale crescita della domanda di lavoro qualificato e, di conseguenza, un incremento significativo delle disuguaglianze occupazionali e reddituali tra persone con alti livelli di capitale umano e persone
meno qualificate (Autor, Katz, 1999).
In particolare la diffusione delle nuove tecnologie, la competizione internazionale e le
riforme del mercato del lavoro si sono accompagnate negli ultimi decenni a un processo di
riallocazione settoriale e a un aumento dei flussi in entrata e uscita dall’occupazione che
tendono a favorire quegli individui in possesso di competenze di natura «generale», adattabili cioè a contesti produttivi e organizzativi sempre mutevoli (Wasmer, 2006). Tali conoscenze sono associate tipicamente al conseguimento di elevati livelli di istruzione. In altre
parole, le capacità di astrazione e deduzione che sono sviluppate attraverso gli investimenti in istruzione costituiscono sempre più un fattore di fondamentale importanza non
solo per le prospettive di crescita macroeconomica, ma anche per i destini professionali
delle persone. Ne è conferma il fatto che in molti paesi industrializzati si è assistito a un
graduale processo di polarizzazione del mercato del lavoro, con un incremento significativo della quota di occupazione nei posti di lavoro di «buona» qualità, quelli che richiedono
l’esercizio di mansioni astratte e cognitive, e una diminuzione dell’occupazione nei posti di
lavoro di «media» qualità, in cui si richiede l’espletamento di compiti lavorativi ripetitivi e
tecnici (Autor, Katz, Kearney, 2006; Goos, Manning, Salomons, 2008).
In definitiva ciò che emerge dal confronto internazionale riguarda alcune tendenze comuni alla maggior parte dei paesi industrializzati. Tra queste: il diffuso incremento dei preOsservatorio Isfol n. 2/2011
125
mi salariali e occupazionali dell’istruzione, la crescente importanza delle conoscenze e delle competenze di natura generale rispetto a quelle specifiche e la polarizzazione del mercato del lavoro.
Nonostante la specificità dei contesti produttivi e istituzionali dei diversi paesi, infatti,
la pervasività di tali evidenze a livello internazionale è tale da costituire un necessario ordito macroeconomico all’interno del quale interpretare la realtà italiana (ISFOL, 2009).
Il declino dei rendimenti salariali dell’istruzione in Italia
L’analisi dell’evoluzione dei rendimenti salariali dell’istruzione (RSI, d’ora in poi) non può
prescindere dalla definizione di un quadro descrittivo capace di illustrare sia l’evoluzione
dei salari che la variazione della struttura dell’occupazione in termini di dotazione di capitale umano. A tal fine si utilizzano i dati dell’Indagine sui Bilanci e sulla Ricchezza delle
Famiglie (SHIW) della Banca d’Italia per il periodo tra il 1993 e il 2006 facendo riferimento
a un campione di lavoratori dipendenti nel settore privato. Le variabili di interesse di cui si
vuole verificare l’andamento temporale sono tre, fondamentalmente: il salario netto mensile, il livello di istruzione e l’esperienza lavorativa. In particolare, il salario reale netto
mensile è ottenuto dividendo il reddito annuale da lavoro, al netto delle imposte e dei contributi sociali, per il numero di mesi lavorati e deflazionando la somma così ottenuta con
l’indice dei prezzi al consumo del 2004. Il livello di istruzione è misurato dal massimo titolo di studio conseguito dagli individui. In questo caso, si identificano quattro livelli di
istruzione: scuola elementare, scuola secondaria inferiore, scuola secondaria superiore,
laurea e oltre. L’esperienza lavorativa è un’altra importante dimensione del capitale umano in possesso degli individui. Nell’analisi che segue viene definita dalla differenza tra l’età
del lavoratore nell’anno di indagine e l’età dichiarata inerente l’inizio della carriera lavorativa. Ed è classificata in otto categorie.
Nella tabella 1 vengono riportate le statistiche descrittive relative alle caratteristiche
del campione tra il 1993 e il 2006. La prima evidenza che emerge dalla tabella 1 è la stabilità del salario reale netto mensile, il cui valore medio risulta essere di 1.318 euro nel periodo iniziale e di 1.358 euro nel periodo finale della nostra analisi. A fronte della stagnazione dei salari si assiste a un incremento della dotazione di capitale umano dei lavoratori. In particolare, vi è un aumento del livello medio di istruzione degli occupati: la quota di
lavoratori in possesso di un titolo di livello universitario passa dal 4% circa nel 1993 al 9%
nel 2006, mentre la quota di coloro che sono in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore aumenta dal 33% circa al 47%. Diminuiscono invece i lavoratori con istruzione elementare e media inferiore. Per quanto riguarda l’esperienza lavorativa, si assiste a un
incremento della proporzione di coloro che lavorano da almeno 16 anni e a una riduzione
per chi ha meno di 15 anni di esperienza. Dunque, anche sotto questo profilo, la dotazione
di capitale dei lavoratori è aumentata nel corso del periodo in esame.
Il quadro descrittivo che emerge dalla tabella 1, d’altra parte, è ulteriormente rafforzato dai risultati dell’analisi econometrica. Lo studio condotto da Naticchioni, Ricci e Rustichelli (2010) sui dati della Banca d’Italia dimostra, ad esempio, che tra il 1993 e il 2004 i
lavoratori con un livello di istruzione universitario hanno visto diminuire il salario medio
126
Rendimenti del capitale umano e lavoro
Tabella 1. Statistiche descrittive dai dati SHIW, 1993-2006
1993
1995
2002
2004
2006
0,18
0,45
0,33
0,04
0,16
0,40
0,39
0,04
0,09
0,38
0,44
0,08
0,09
0,38
0,45
0,08
0,05
0,38
0,47
0,09
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
0,18
0,13
0,14
0,13
0,13
0,11
0,09
0,08
0,18
0,16
0,12
0,13
0,13
0,11
0,09
0,08
0,16
0,12
0,13
0,16
0,15
0,11
0,10
0,07
0,14
0,13
0,14
0,17
0,14
0,11
0,09
0,09
0,13
0,13
0,13
0,17
0,15
0,12
0,09
0,09
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
Media
10° percentile
50° percentile
90° percentile
1.318
723
1.177
2.006
1.255
722
1.104
1.930
1.295
750
1.165
1.916
1.304
775
1.195
1.933
1.356
822
1.224
1.994
N. osservazioni
4.052
3.798
4.195
4.341
4.386
Istruzione
Primaria - analfabeta
Secondaria inferiore
Secondaria superiore
Laurea o post-laurea
Esperienza in anni (in classi)
0-5
6-10
11-15
16-20
21-25
26-30
31-35
>36
Salari netti mensili
Fonte: elaborazioni ISFOL su dati della Banca d’Italia
associato al loro titolo di studio di ben 26,4 punti percentuali rispetto al salario percepito
dai lavoratori in possesso di licenza elementare. La diminuzione dei rendimenti salariali è
ancora più evidente per i diplomati. Nello stesso periodo di tempo, il salario associato al
diploma di scuola secondaria superiore è diminuito di 39,9 punti percentuali rispetto al salario garantito da un titolo di studio elementare1. È immediato constatare come tali evi1
L’analisi empirica di Naticchioni et alii (2009)
è ottenuta utilizzando un’equazione minceriana
dei salari che viene poi stimata sui dati della Banca
d’Italia facendo riferimento a un campione di lavoratori dipendenti del tutto analogo a quello della
tabella 1. Tradizionalmente l’equazione minceriana
viene formalizzata facendo dipendere il (logaritmo)
livello dei salari da un insieme di variabili esplicative tra cui, appunto, il livello di istruzione, l’esperienza professionale e il genere dei lavoratori.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
127
denze siano in contrasto con quanto avvenuto nella maggior parte dei paesi OECD, dove negli ultimi decenni si è assistito a un significativo aumento dei differenziali salariali tra lavoratori qualificati e lavoratori meno qualificati.
Va sottolineato, inoltre, che il risultato generale del declino dei rendimenti dell’istruzione in Italia non viene alterato quando si utilizza un’informazione più dettagliata sul tipo di diploma di scuola secondaria superiore (liceo, istituti tecnico-professionali) e dei titoli di laurea (laurea con indirizzo umanistico, laurea con indirizzo scientifico, laurea con
indirizzo professionale). Si dimostra, in effetti, che la riduzione dei RSI interessa in misura
analoga i licei e gli altri tipi di istituti secondari. Per quanto riguarda i titoli universitari, la
diminuzione dei RSI riguarda le lauree con indirizzo umanistico e le lauree con indirizzo
professionale. La diminuzione dei RSI associata alla laurea in materie scientifiche, invece,
non è statisticamente significativa.
Infine, la diminuzione dei RSI non sembra dipendere da quei criteri di selezione del campione relativi alle decisioni di partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e alle
scelte di occupazione nel settore del lavoro dipendente, né ai possibili effetti negativi delle politiche di riforma del sistema scolastico sulla qualità del capitale umano. Questi risultati sono derivati replicando le analisi empiriche per diversi campioni di lavoratori (i soli
uomini che lavorano a tempo pieno, includendo i lavoratori autonomi nel campione totale,
distinguendo tra lavoratori giovani e lavoratori adulti).
Istruzione, esperienza lavorativa e dinamica della disuguaglianza
Naturalmente, la dinamica dei rendimenti dell’istruzione non è l’unico elemento che identifica la complessa relazione che lega l’investimento in capitale umano e l’evoluzione strutturale del mercato del lavoro. Alcuni aspetti meritano una riflessione più approfondita.
Innanzitutto è opportuno utilizzare una definizione più ampia di capitale umano, che
includa oltre alle conoscenze formali apprese durante il percorso scolastico anche le competenze informali sviluppate grazie all’esperienza nei luoghi di lavoro. In secondo luogo è
importante capire quale è la rilevanza della componente non osservabile delle capacità
produttive delle persone (motivazioni, ambizioni, abilità cognitive e non cognitive ecc.) che
possono incidere in modo rilevante sulle potenzialità di reddito dei lavoratori. Si è argomentato come queste abilità non osservabili siano in qualche modo correlate positivamente al livello di istruzione (e all’esperienza lavorativa), per cui sorge l’esigenza di indagare
l’importanza relativa del capitale umano osservabile e del capitale umano non osservabile
dei lavoratori nel processo di determinazione dei salari. Infine, vi è una dimensione tipicamente macroeconomica della relazione tra salari e capitale umano, nelle sue varie forme
(formale e informale) e caratteristiche (osservabile e non osservabile). La struttura dei salari infatti evolve sotto la spinta di cambiamenti di fondo (tecnologia, globalizzazione, istituzioni) che influenzano non solo l’indice complessivo di disuguaglianza salariale ma anche le sue singole componenti.
Sulla base di queste considerazioni Naticchioni e Ricci hanno analizzato la relazione
macroeconomica che lega l’evoluzione della struttura dei salari e il processo di accumulazione del capitale umano in tutte le sue componenti, osservabili (livello di istruzione e/o di
128
Rendimenti del capitale umano e lavoro
esperienza) e non osservabili (abilità professionali cognitive e non cognitive). L’applicazione di tecniche di regressione quantile si rivela particolarmente utile a questo scopo perché
permette di scomporre la variazione della struttura dei salari in tre distinte componenti:
una prima componente legata alla variazione della «quantità» di capitale umano in possesso dei lavoratori, una seconda componente relativa alla variazione dei «prezzi» con cui il
mercato remunera i servizi del capitale umano e una terza componente riferita alla variazione delle capacità e abilità produttive non osservabili2.
L’analisi di scomposizione quantile condotta da Naticchioni e Ricci dimostra, in effetti,
che la sostanziale stabilità della disuguaglianza dei salari che si registra in Italia durante il
periodo 1993-2006 per i dipendenti del settore privato è, in realtà, l’esito di due forze contrapposte. Da una parte, vi è una pressione verso l’aumento della disuguaglianza legata al
fatto che il livello medio di esperienza lavorativa e di istruzione in possesso dei lavoratori
cresce nel tempo (tabella 1). Dal momento che i lavoratori più qualificati percepiscono un
reddito superiore a quello dei lavoratori meno qualificati, ne consegue che l’effetto di
composizione dovuto all’incremento dello stock di capitale umano della forza lavoro favorisce l’incremento della disuguaglianza. D’altra parte, vi è una tendenza verso la diminuzione della disuguaglianza associata alla forte riduzione dei rendimenti salariali dell’istruzione. La diminuzione dei RSI è così forte da compensare (in valore assoluto) la spinta positiva esercitata dall’accumulazione di capitale umano da parte dei lavoratori. Inoltre, anche
la componente non osservabile della disuguaglianza ha un impatto negativo sulla disuguaglianza e ciò spiega perché l’accumulazione di capitale umano in Italia genera nel tempo
una progressiva compressione delle opportunità di reddito per i lavoratori più qualificati, a
differenza di quanto accade negli altri paesi avanzati.
In definitiva, diverse ricerche empiriche sono coerenti nel descrivere un mercato del lavoro in cui investire in istruzione rende sempre meno da un punto di vista del reddito da
lavoro. La riduzione dei premi salariali dell’istruzione è tale da esercitare una pressione
verso la compressione della disuguaglianza tra i dipendenti del settore privato. Anche questo costituisce un elemento piuttosto singolare se comparato a quanto avvenuto nelle altre economie industriali nel corso degli ultimi vent’anni.
Qualità dell’occupazione, domanda di lavoro qualificato
e skill mismatch
A questo punto, come spiegare il puzzle che caratterizza la dinamica del mercato del lavoro in Italia? Tra i fattori indicati più spesso come responsabili della compressione dei salari e dei rendimenti dell’istruzione vi sono le rigidità delle istituzioni e la qualità dell’istruzione pubblica. In particolare, il sistema di contrattazione collettiva sui salari e la qualità
non elevata delle competenze apprese a scuola spiegherebbero, secondo alcuni, il blocco
del mercato del mercato del lavoro e la penalizzazione di cui soffrono gli individui che investono più a lungo in istruzione.
2
Per una discussione approfondita sulle tecniche di scomposizione quantile e le potenzialità
delle loro applicazioni, si rimanda al contributo di
Naticchioni e Ricci (2010).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
129
Queste spiegazioni possono avere una loro solidità interpretativa quando si esaminano i
dati in un ambiente statico. Tuttavia perdono forza di persuasione se riferite ad un contesto
di analisi dinamico. A partire dagli anni Novanta, infatti, si è assistito a una progressiva liberalizzazione dei contratti di lavoro, ad un indebolimento della forza contrattuale dei sindacati e a riforme della scuola superiore e dell’università. Tale processo di riforma istituzionale ha certamente aumentato la pressione concorrenziale nel mercato del lavoro, soprattutto
per il segmento della forza lavoro più giovane e istruita. E ciò avrebbe dovuto favorire un incremento, non una diminuzione, dei differenziali salariali a favore delle persone più istruite.
Sulla base di tali argomenti, le spiegazioni che chiamano in causa le rigidità del mercato e la scarsa qualità dell’offerta di lavoro non sembrano convincenti. Quello che sembra
rilevante, piuttosto, è il ruolo giocato dalla natura specifica della domanda di lavoro
espressa dalle imprese italiane. È opportuno ricordare, d’altra parte, che il nostro sistema
produttivo è specializzato in settori tradizionali, è caratterizzato da una scarsa diffusione
delle innovazioni tecnologiche e da una dimensione medio-piccola delle aziende. In questo
ambiente economico è possibile che la crescita della domanda di lavoro qualificato non sia
stata in grado di assorbire l’incremento seppur contenuto dell’offerta di lavoro qualificato.
In altre parole, vi sono ragioni per ritenere che in Italia non vi sia stato un fenomeno pervasivo di cambiamento tecnologico di tipo skill-biased (e/o task-biased) analogo a quello
riscontrato in altre economie avanzate e capace di sospingere la domanda relativa di lavoro qualificato e, quindi, l’aumento dei premi salariali con cui il mercato remunera le componenti osservabili e non osservabili del capitale umano delle persone.
Questa ipotesi può essere verificata empiricamente sviluppando un’analisi specifica
sulla dinamica della struttura dell’occupazione e sulle modalità con cui è cambiata la natura della domanda di lavoro qualificato in Italia negli ultimi anni.
A tal fine si utilizzano i dati della Rilevazione sulle Forze di Lavoro (ISTAT) per i dipendenti occupati nel settore privato nell’anno 1993 e nell’anno 2006. La dinamica della struttura
dell’occupazione è poi esaminata facendo riferimento alla classificazione internazionale
ISCO, che permette di distinguere tre tipologie di posti di lavoro: i posti di lavoro di «buona»
qualità o skilled, i posti di lavoro di qualità «media» o semiskilled e i posti di lavoro di «cattiva» qualità o unskilled. I posti di lavoro di buona qualità sono quelli che richiedono lo svolgimento di compiti e mansioni lavorative di natura astratta e non ripetitiva, tipicamente associati a un elevato profilo professionale (definiti con le categorie 1 e 2 della classificazione ISCO 88). I posti di lavoro di «media» qualità possono richiedere lo svolgimento di mansioni e compiti di natura ripetitiva e codificata e non sono associati al possesso di qualifiche
professionali particolarmente elevate (tipicamente impiegati, ISCO 3-8). I posti di lavoro di
«cattiva» qualità non richiedono invece specifiche professionalità e sono associati tipicamente a mansioni di natura manuale (tipicamente lavori manuali, ISCO 9).
La tabella 2 mostra i risultati dell’analisi relativa alla variazione delle quote del monte
ore lavorate nelle tre tipologie di occupazione. L’aspetto più rilevante da sottolineare riguarda l’aumento relativo della quota di ore lavorate nelle occupazioni di buona qualità
(5,8%), la diminuzione della quota di ore lavorate nelle occupazioni di media qualità
(–5%), mentre la quota relativa di posti di lavoro di cattiva qualità rimane sostanzialmente stabile nel corso del periodo esaminato. Si assiste quindi a una certa polarizzazione della qualità dell’occupazione in Italia.
130
Rendimenti del capitale umano e lavoro
Tabella 2. Quota delle ore lavorate in professioni skilled, semiskilled e unskilled
nel 1993 e nel 2006 e relativa variazione. Settore privato, classe di età 18-64. Italia
Quota 1993
Quota 2006
Variazione %
Unskilled
ISCO 9
Semiskilled
ISCO 4-8
0,12
0,11
–0,8
0,69
0,64
–5,0
Skilled
1-3
ISCO
0,19
0,25
5,8
Fonte: elaborazioni su dati della Rilevazione sulle Forze di Lavoro (ISTAT)
D’altra parte, la circostanza che la domanda di lavoro e l’occupazione di buona qualità
riflettano più o meno esattamente un aumento della domanda di lavoro qualificato dipende dalla misura in cui i posti di lavoro migliori siano in grado di assorbire i lavoratori più
istruiti. In linea di principio, infatti, è possibile che la quota relativa dei lavoratori più
istruiti nelle varie tipologie di posti di lavoro possa variare nel corso del tempo, allentando
il legame tra l’evoluzione della quota occupazionale nei posti di lavoro di buona qualità e
l’evoluzione della domanda di lavoro per gli individui più istruiti.
Questa ipotesi si può dimostrare esaminando la variazione delle ore lavorate dei soli lavoratori laureati nelle diverse tipologie di posti di lavoro3. I risultati dell’analisi sono mostrati nella tabella 2. Le evidenze relative ai lavoratori laureati sono in questo caso molto
diverse da quelle relative alla variazione dell’occupazione totale. In particolare si nota che
la quota di ore lavorate dal segmento più istruito della forza lavoro aumenta dell’1,5%
nelle occupazioni di cattiva qualità e del 4,5% nelle occupazioni di media qualità, mentre
diminuisce in misura significativa nei posti di lavoro di buona qualità (–6,2%).
Il fatto che lavoratori con elevati livelli di istruzione vengano assorbiti in misura crescente in posti di lavoro che richiedono basse o medie qualifiche sottolinea un’altra caratteristica del tutto specifica del mercato del lavoro in Italia: l’evoluzione delle opportunità
occupazionali dei lavoratori più istruiti si è progressivamente scollegata dall’evoluzione
della qualità dei posti di lavoro offerti dal sistema delle imprese. Questo skill mismatch tra
qualifiche formali dei lavoratori e qualità delle occupazioni è probabilmente legato alle caratteristiche tecnologiche e competitive del nostro sistema produttivo, come si è già argomentato in precedenza4.
3
La Rilevazione sulle Forze di Lavoro è stata
completamente rinnovata nel 2004. Si potrebbe
pertanto sostenere che la comparazione 19932006 sia influenzata da tale break strutturale. Come test di robustezza si ripete l’analisi sul periodo
1993-2003 ottenendo le stesse dinamiche. Risultati analoghi si derivano utilizzando i dati INPS per
il periodo 1993-2003.
4
L’evidenza del mismatch emerge come elemento caratterizzante del mercato del lavoro in
Italia anche sviluppando un’analisi microeconomica sulla probabilità di trovare un posto di lavoro di
buona qualità per un campione di persone con titolo di studio universitario (Curtarelli, Gualtieri,
2011).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
131
Tabella 3. Quota delle ore lavorate da laureati in occupazioni skilled, semiskilled
e unskilled nel 1993 e nel 2006 e relativa variazione. Settore privato,
classe di età 18-64. Italia
Quota 1993
Quota 2006
Variazione %
Unskilled
ISCO 9
Semiskilled
ISCO 4-8
0,013
0,028
1,5
0,189
0,236
4,7
Skilled
1-3
ISCO
0,798
0,736
–6,2
Fonte: elaborazioni su dati della Rilevazione sulle Forze di Lavoro (ISTAT)
Tuttavia un ruolo importante sembra essere svolto anche dai meccanismi «interni» del
mercato del lavoro italiano. In altre parole, nel nostro paese si tende a premiare l’esperienza lavorativa e le qualifiche professionali informali piuttosto che l’istruzione e le qualifiche
formali. Le carriere sono strutturate soprattutto in base all’attachment al mercato del lavoro e alla tenure all’interno delle imprese, cosicché non sorprende che un aumento delle
ore lavorate nei posti di lavoro di buona qualità corrisponda a una diminuzione della quota di ore lavorate da parte dei laureati nelle occupazioni migliori. Nel corso del tempo,
quindi, i posti di lavoro di buona qualità tendono a essere occupati con probabilità crescente da quei lavoratori con una maggiore esperienza lavorativa e, eventualmente, con un
minore livello di istruzione.
A conclusione di questa prima parte, si possono avanzare alcune considerazioni preliminari circa la relazione tra rendimenti del capitale umano e dinamica strutturale del mercato del lavoro in Italia.
In primo luogo le analisi empiriche fanno emergere piuttosto chiaramente una relazione
tra il declino dei RSI e la dinamica relativa della domanda e dell’offerta di lavoro qualificato
nel nostro paese. Negli ultimi quindici anni si è assistito a un incremento significativo dell’offerta di lavoro da parte di individui in possesso di un titolo universitario (tabella 1). Al
tempo stesso, il sistema delle imprese non è stato in grado di esprimere un aumento della
domanda di lavoro qualificato capace di assorbire l’aumento dell’offerta di lavoratori laureati (tabella 3). Certamente, in quale misura la debolezza della domanda di lavoro qualificato dipenda dalle caratteristiche tecnologiche e competitive del sistema produttivo delle
imprese italiane non può essere chiarito sulla base di dati individuali. È necessario entrare
dentro le imprese. Ciò che si può dire a completezza del quadro interpretativo è che la debolezza della domanda dei lavoratori più istruiti si accompagna a una polarizzazione della
qualità dell’occupazione e ciò chiama in causa i meccanismi interni che regolano il funzionamento del mercato del lavoro e l’organizzazione delle imprese (tabella 2).
132
Rendimenti del capitale umano e lavoro
Investimento in capitale umano e sistema delle imprese
Nei paragrafi precedenti si è argomentato che il declino dei rendimenti dell’istruzione può
essere messo in relazione alla debolezza della domanda di lavoro qualificato da parte delle
imprese. La dimostrazione di questo fatto si basa sull’utilizzo di dati individuali sia per
quanto riguarda l’analisi dei salari che per ciò che concerne l’evoluzione della qualità dell’occupazione. In questa seconda parte, invece, l’analisi dei rendimenti del capitale umano
viene affrontata in una prospettiva diversa, guardando a ciò che accade «dentro» l’impresa5.
L’attenzione si focalizza in particolare sul legame tra accumulazione di conoscenze e
abilità professionali nei luoghi di lavoro e performance produttiva delle imprese. A questo
proposito, va sottolineato che le competenze e le abilità produttive possono essere acquisite implicitamente nel luogo di lavoro sotto forma di apprendimento di tipo learning by
doing oppure esplicitamente, attraverso la partecipazione a corsi di formazione professionale. Tale distinzione chiama in causa il ruolo delle istituzioni del mercato del lavoro e, soprattutto, la legislazione a protezione dell’impiego. Nello specifico, la diffusione dei contratti a termine può condizionare la natura e la modalità di accumulazione delle competenze in misura analoga a quanto permette di fare l’organizzazione dei corsi di formazione. L’analisi dei rendimenti del capitale umano per le imprese non può dunque ignorare
questa dimensione istituzionale del mercato del lavoro.
Le indagini empiriche a cui si fa riferimento nei paragrafi successivi si basano su una
banca dati che integra le informazioni sui bilanci delle imprese provenienti dall’archivio
AIDA e le informazioni sulle caratteristiche e la composizione dei lavoratori ottenute dalla
Rilevazione sulle Imprese e i Lavoratori (RIL) dell’ISFOL. Nonostante la banca dati RIL-AIDA sia
limitata agli anni 2005-2007, la componente longitudinale del campione permette di sviluppare delle indagini econometriche che tengano conto dell’eterogeneità non osservata
delle imprese studiate. Questo aspetto è di cruciale importanza quando si studiano gli effetti produttivi dell’investimento in capitale umano, poiché gli incentivi ad accumulare conoscenze e abilità professionali nei luoghi di lavoro interagiscono con elementi non osservabili delle imprese, come la qualità del management, la natura delle relazioni industriali ecc.
Contratti a termine, produttività e costo del lavoro
Lo studio condotto da Devicienti, Naticchioni e Ricci (2011a) esamina la relazione tra uso
di contratti a tempo determinato e performance delle imprese con il fine di verificare se la
durata della relazione di occupazione e, quindi, l’opportunità di acquisire abilità attraverso il learning by doing sia legata in qualche misura alla produttività e alla capacità di realizzare profitti da parte delle imprese. La letteratura economica, in effetti, ha identificato
almeno due canali attraverso cui l’impiego di contratti a termine condiziona la performance di impresa e le prospettive di occupazione. Il primo canale mette in evidenza un mecca5 Per una discussione approfondita sugli incentivi e sui rendimenti dell’investimento in capitale umano che per le imprese e i lavoratori si rea-
lizza nelle imprese si vedano Garibaldi (2005) e
Croce (2008).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
133
nismo per così dire «virtuoso». Quando i contratti a termine svolgono una funzione di
screening device, il loro utilizzo permette di verificare le abilità del lavoratore ed è, quindi,
funzionale a migliorare la qualità delle relazioni di occupazione. In tale circostanza sia le
aziende che i lavoratori possono avere incentivi a investire in conoscenze e competenze
professionali che valorizzino la relazione di impiego con un impatto positivo sulla performance produttiva (Boeri, Garibaldi, 2007).
Il secondo canale illustra un meccanismo «vizioso». Se i contratti a termine vengono
utilizzati esclusivamente come strumento per ridurre i costi operativi o come strategia per
far fronte a inattese variazioni del ciclo economico, la loro diffusione si traduce in una riduzione della durata media della relazione di impiego. Ciò tende a disincentivare lo sforzo
produttivo e l’acquisizione di competenze specifiche da parte dei lavoratori e, per questa
via, può risolversi in una riduzione della performance dell’impresa (tra gli altri, Blanchard,
Landier, 2002).
Le analisi econometriche condotte sui dati RIL-AIDA sembrano in effetti confermare questa seconda ipotesi. Il ricorso ai contratti a termine riduce la produttività delle imprese e
questo risultato vale sia quando si applicano regressioni ordinarie dei minimi quadrati sia
nel caso in cui si applicano tecniche panel che tengono conto dell’eterogeneità non osservata delle imprese.
Non solo. Le elaborazioni empiriche mostrano che il ricorso ai contratti a termine penalizza la produttività più di quanto permetta di ridurre il costo del lavoro. Di conseguenza vi sarebbe una relazione negativa tra la quota di contratti a termine e la profittabilità
delle aziende in Italia.
Sebbene i risultati di questo studio siano in qualche misura preliminari, la loro rilevanza non va sottovalutata. Essi rivelano infatti una sorta di «miopia» degli imprenditori quando hanno a che fare con forza lavoro «flessibile». Le imprese sembrano valutare eccessivamente la riduzione dei costi che l’uso dei contratti a termine garantisce nell’immediato
(minori salari, minori contributi sociali ecc.), mentre sottostimano la perdita di produttività che si può realizzare in futuro a causa dell’instabilità della relazione di occupazione e
del conseguente disincentivo dei lavoratori a investire in capitale umano. Potrebbe essere
dunque il diverso timing sui costi – che si riducono immediatamente – e sulla produttività – che invece è differita – a svolgere un ruolo importante per spiegare il puzzle della relazione negativa tra contratti a termine e profitti.
Le determinanti della domanda di lavoro a termine
Le argomentazioni precedenti sono state approfondite da Devicienti, Naticchioni e Ricci
(2011b) andando ad indagare le determinanti della domanda di lavoro a termine. L’analisi
dei fattori sottostanti la domanda di lavoro a tempo determinato è utile nella misura in cui
permette di capire se la flessibilità del lavoro viene richiesta dalle imprese per testare le
abilità e le capacità lavorative degli individui oppure semplicemente come opzione strategica per ridurre il costo del lavoro e/o fronteggiare in modo efficiente le fluttuazioni economiche. Come si è detto in precedenza, nel primo caso l’uso dei contratti a termine può
rappresentare una fase che precede la stabilizzazione del rapporto di impiego e, come ta134
Rendimenti del capitale umano e lavoro
le, potrebbe favorire l’accumulazione del capitale umano dei lavoratori e la produttività.
Nel secondo caso i contratti a termine rappresentano «binari morti» per i lavoratori. I rinnovi contrattuali hanno una prospettiva limitata di stabilizzare la relazione di impiego, almeno nel breve periodo. Quindi i lavoratori non hanno sostanziali incentivi a investire nelle competenze professionali e nelle tecnologie produttive che sono specifiche delle imprese in cui sono occupati.
Anche in questo caso, i risultati che emergono dall’applicazione di diversi modelli di regressione sui dati RIL-AIDA confermano un utilizzo «non produttivo» della flessibilità contrattuale. L’uso dei contratti a termine è correlato positivamente con la presenza di segmenti «deboli» della forza lavoro da un punto di vista contrattuale (donne, operai, non sindacalizzati ecc.) e con la volatilità dell’ambiente economico. Al contrario, le imprese che
hanno una buona performance produttiva e investono in formazione hanno una minore
propensione a ricorrere alla flessibilità contrattuale. In Italia sembra quindi prevalere un
modello competitivo che interpreta la flessibilità contrattuale soprattutto come uno strumento di riduzione dei costi piuttosto che come elemento per mettere alla prova le abilità
e le competenze degli individui nel processo produttivo.
Investimento in formazione e performance delle imprese
A completezza del quadro analitico è necessario sviluppare una discussione relativa ai rendimenti della formazione professionale, ovvero di quelle competenze e abilità produttive
che sono accumulate esplicitamente in azienda, attraverso la partecipazione a corsi di formazione. La differenza rispetto alle analisi condotte per contratti a termine non riguarda,
quindi, la natura in sé dell’investimento in capitale umano (di tipo generale o specifico),
bensì la modalità di accumulazione delle competenze produttive e professionali. Rispetto
al learning by doing, infatti, la formazione professionale presuppone l’organizzazione, il finanziamento e la partecipazione a corsi e/o eventi formativi in qualche modo codificati e
strutturati (sia all’interno delle aziende che al di fuori di esse). In questo caso, le difficoltà
dell’indagine empirica riguardano soprattutto il problema della «qualità» dell’investimento
in formazione e la ripartizione del costo del suo finanziamento tra imprese e lavoratori (ed
eventualmente settore pubblico). Non tanto la misurazione della «quantità» dell’investimento, problema che in parte può essere limitato dalle informazioni relative all’intensità
della formazione.
Sulla base di queste considerazioni Ricci (2011a) ha utilizzato i dati RIL-AIDA per stimare l’impatto diretto della quota dei formati sul valore della produzione e sul costo del lavoro. I risultati delle analisi di regressione sono quelli attesi, nella misura in cui la formazione ha un effetto positivo tanto sulla produttività che sul costo del lavoro. D’altra parte,
l’applicazione di tecniche panel dimostra che in alcune circostanze l’effetto della formazione sul costo del lavoro può rivelarsi maggiore (in valore assoluto) di quello esercitato
sulla produttività. Sulla base di queste evidenze preliminari è dunque possibile che l’organizzazione dei corsi di formazione possa ridurre i profitti di impresa. Naturalmente vi sono
delle spiegazioni plausibili per interpretare questo risultato in apparenza sorprendente. La
prima tra queste chiama in causa il breve orizzonte temporale dell’analisi (2005-2007) e
Osservatorio Isfol n. 2/2011
135
l’assenza di informazioni su chi sostiene effettivamente il finanziamento della formazione.
Detto ciò, sembra comunque evidente che gli investimenti in formazione non sembrano
essere una strategia da perseguire per competere efficacemente sul mercato, come invece
accade in altri paesi.
Considerazioni conclusive
La discussione sviluppata nelle pagine precedenti e i risultati delle ricerche empiriche a cui
si è fatto riferimento, a questo punto, possono essere esaminati nel loro insieme.
Il primo aspetto da sottolineare si riferisce alla specificità del mercato del lavoro italiano per ciò che riguarda gli incentivi a investire in capitale umano da parte di imprese e lavoratori. Da prospettive di analisi diverse è stato verificato, infatti, che i premi dell’istruzione in termini salariali e di qualità dell’occupazione diminuiscono nel tempo, la formazione organizzata dalle aziende non è profittevole e la flessibilità contrattuale è utilizzata
in modo da non garantire un aumento dei profitti. Tra i maggiori paesi industrializzati l’Italia risulta particolarmente penalizzata per le prospettive dell’investimento in capitale
umano, anche alla luce del divario con altri paesi che presentano quote di occupati in possesso di istruzione secondaria e terziaria sensibilmente superiori al nostro.
Il secondo aspetto concerne l’interpretazione che si può dare a tali evidenze. Nello specifico, il filo conduttore che permea i risultati delle ricerche è il ruolo fondamentale giocato dalla domanda di lavoro qualificato nello spiegare la penalizzazione dell’investimento in
capitale umano nel nostro paese. In proposito si è argomentato che negli ultimi anni l’incremento dell’offerta di lavoro qualificato, sia in termini di istruzione della forza lavoro
che di formazione nelle imprese, non ha corrisposto a una crescita analoga della domanda
di lavoro qualificato da parte delle imprese. A sua volta, la debolezza strutturale della domanda di lavoro qualificato è legata principalmente a una specializzazione produttiva in
settori a tecnologia matura, alla piccola dimensione media delle aziende e a un modello
competitivo che tende a privilegiare la riduzione dei costi nel breve periodo piuttosto che
l’investimento innovativo con prospettive temporali più ampie.
L’ultima considerazione riguarda le implicazioni di policy delle analisi prodotte. La riduzione progressiva dei rendimenti economici del capitale umano e l’evidenza del mismatch
suggerisce infatti un orientamento delle politiche dell’offerta di lavoro in modo coordinato
alla ripresa di una politica industriale in grado di incidere sulla sostenibilità dei livelli di
competitività delle imprese italiane e, parallelamente, sulle condizioni della qualità della
domanda di lavoro. A tal fine gli esempi che provengono da altri paesi indicano, da un lato,
la strada dell’incentivo allo sviluppo di settori emergenti (nuove tecnologie, energie rinnovabili, servizi ad alto valore aggiunto) e, dall’altro, l’esigenza di favorire network di imprese
in grado di superare il problema del raggiungimento della necessaria «massa critica» che
possa attivare il volano dell’innovazione. In molte realtà, anche italiane, si segnalano i successi raggiunti da forme aggregative quali i consorzi tra università, enti pubblici di ricerca e
associazioni datoriali a livello regionale, che hanno permesso la creazione di poli tecnologici in grado di aggregare la domanda delle imprese locali e creare così delle economie di scala e di agglomerazione per lo sviluppo delle nuove tecnologie (Rondi, Silva, 2009).
136
Rendimenti del capitale umano e lavoro
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Per citare questo articolo: Andrea Ricci, Rendimenti del capitale umano e lavoro, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 123-137.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
137
Le competenze
dei titolari
di microimprese
Politiche, modelli e strumenti
di Domenico Barricelli, Davide Premutico
e Pierluigi Richini
Riassunto: quali sono gli aspetti peculiari che caratterizzano l’apprendimento dei titolari
d’impresa, gli elementi distintivi del loro percorso di aggiornamento e sviluppo delle competenze? E quali possono essere le politiche e gli strumenti utili a sostenere lo sviluppo
dell’apprendimento di queste peculiari figure di lavoratori autonomi? Attorno a tali interrogativi l’ISFOL ha costruito nel corso degli anni le sue numerose attività di studio e di ricerca con l’obiettivo di far emergere pratiche e strumenti per lo sviluppo e il sostegno della
formazione continua di imprese e lavoratori. A fronte di tale scenario e data la centralità
di azioni e politiche dirette ad affrontare prioritariamente, attraverso programmi formativi mirati ad accrescere la cosiddetta «adattabilità» dei lavoratori, i gap di innovazione e le
conoscenze esistenti nei sistemi territoriali caratterizzati da micro e piccole imprese, è stata avviata tra dicembre 2010 e gennaio 2011 un’Indagine per identificare specifiche politiche, modelli e strumenti a sostegno dello sviluppo delle competenze dei titolari di microimprese nelle regioni dell’Obiettivo Convergenza (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e
Sicilia), di cui il saggio dà un’anticipazione.
Parole chiave: Imprese; Imprenditori; Formazione continua
Introduzione
Com’è noto, una delle indagini istituzionali e di livello internazionale più rilevanti sui processi formativi delle imprese, la Continuing Vocational Training Survey (CVTS) di EUROSTAT, riguarda le aziende da 11 dipendenti in su, a dimostrazione di come la conduzione di indagini rivolte alle microimprese presenti un’oggettiva difficoltà riconducibile a diversi fattori, non solo di natura tassonomica del target1. Certamente altre indagini sono state con1 A tal proposito, la Comunità europea nel
2003 e nel 2005 ha emanato specifiche direttive
sulle microimprese. In particolare la Raccomanda-
zione 2003/361 della Commissione del 6 maggio
2003, relativa alla definizione delle micro, piccole
e medie imprese (in GUCE L 124 del 20/05/2003),
Osservatorio Isfol n. 2/2011
139
dotte, a diversi livelli, su questo specifico segmento – si pensi, in particolare a Excelsior –,
anche se solo marginalmente riguardano lo sviluppo e il supporto ai processi di crescita
delle stesse e dei titolari di impresa.
Gli stessi modelli organizzativi e i paradigmi interpretativi che ne conseguono sono molto spesso enucleati sulla base delle esperienze e delle testimonianze raccolte presso le
grandi imprese, in molti casi multinazionali, mentre più recente è la letteratura che, partendo dal concetto di network e di sviluppo regionale, tende a inserire il ruolo delle piccole e
piccolissime realtà produttive all’interno delle dinamiche di crescita dei territori, percepiti e
definiti in alcuni casi come learning regions. In particolare questi studi enfatizzano le capacità che i network di imprese (verticali e orizzontali) hanno nella produzione, riproduzione e
trasmissione delle conoscenze e delle competenze in un territorio, determinando spesso
processi di sviluppo di tipo distrettuale o extradistrettuale e di crescita territoriale intersettoriale2. Anche in questo caso, spesso, gli studi hanno concentrato la loro attenzione su
esperienze appartenenti ad aree particolarmente significative per il loro tessuto produttivo,
quali quelle del Nord Europa o del Nord Italia (soprattutto Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia), trascurando contesti più complessi, in cui l’assenza di un tessuto produttivo denso
rende più ardua l’individuazione di chiavi interpretative sui potenziali modelli di sviluppo.
Interessante è anche lo studio Condizioni di lavoro nell’Unione europea: organizzazione
del lavoro del 20093 in cui, a partire dalla percezione dei lavoratori, vengono rilevati quattro modelli organizzativi con caratteristiche proprie sia nei sistemi e nelle pratiche di lavoro che nei processi di generazione e mantenimento delle competenze. Nello specifico i
quattro modelli emersi sono: «forme discrezionali di organizzazione»; la tradizionale «Lean
production» o «Produzione snella» di derivazione toyotista; forme «tayloriste»; forme tradizionali o «a struttura semplice». In base a tale studio le microimprese troverebbero maggior
riscontro all’interno sia del primo modello4, soprattutto nei settori che gestiscono un alto
contenuto di conoscenza, che nell’ultimo5, in particolare tra le imprese legate ai settori più
tradizionali sia del primario che dei servizi.
A partire da questi contesti teorici e di esperienza, l’Area Politiche e Offerte per la Formazione continua dell’ISFOL, attraverso un’indagine ad hoc condotta nell’ultimo trimestre
del 2010, ha inteso approfondire alcuni temi legati ai possibili strumenti di supporto allo
sviluppo delle competenze dei titolari di microimprese, anche al fine di colmare, per quanto parzialmente, alcune lacune informative sulla percezione di efficacia di possibili strumenti di intervento, da parte dei titolari di microimprese che operano nei territori dell’Obiettivo Convergenza.
individua tali realtà aziendali in base al loro organico, al fatturato e al bilancio complessivo.
2 Castells (2002) cita gli studi di Ernst, che distingue cinque tipologie di network. In Italia va
fatto riferimento, tra gli altri, agli studi sui sistemi
di rete di Enzo Rullani e agli studi di Luciano Pilotti sui sistemi di microimprese.
3 L’indagine, condotta sui 27 paesi dell’Unione,
è stata curata dalla European Foundation for the
Improvement of Living and Working Conditions.
4 Il primo modello è caratterizzato da autono-
140
Le competenze dei titolari di microimprese
mia nel lavoro, nell’apprendimento e nella soluzione dei problemi; dalla relativa complessità dei
compiti lavorativi; dall’autovalutazione della qualità del proprio operato da parte dei dipendenti. Il
modello sembra identificare learning organisations
o modelli adhocratici di organizzazione del lavoro.
5 Il quarto modello è caratterizzato da strutture organizzative semplificate e dall’impiego di
metodi di lavoro scarsamente codificati, di natura
prettamente informale.
La particolarità del target ha suggerito l’adozione di un approccio di ricerca composito,
di tipo quali-quantitativo, attraverso cui valorizzare le informazioni direttamente raccolte
presso gli imprenditori. Il percorso di ricerca ha previsto, inoltre, l’accompagnamento per
tutto il percorso di un gruppo di esperti sia nell’analisi dei processi organizzativi e di formazione delle imprese di minore dimensione, sia (in quanto appartenenti al mondo associativo) nelle politiche di sviluppo delle microimprese. Il loro apporto è consistito nell’analizzare e ridefinire le informazioni e gli stimoli provenienti dalle due fasi di ricerca previste:
la prima, di tipo qualitativo, che ha visto la realizzazione di 5 focus group (3 condotti nelle principali città del Sud – Napoli, Bari, Catania –, e 2 in realtà produttive del Nord – Bologna, Mestre); la seconda, di tipo quantitativo6, ha raggiunto oltre 1.600 titolari di microimprese ubicate nelle regioni del Sud, includendo anche tre regioni, utilizzate come piccolo campione di controllo, del Nord (Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto), caratterizzate
dalla presenza di un sistema territoriale che tende a includere le microimprese in sistemi di
rete e di sviluppo integrato con le imprese di maggiori dimensioni.
Nel presente articolo si presentano alcune anticipazioni relative all’indagine, a partire
da quanto emerso nei focus group, rimandando a successivi approfondimenti e segmentazioni analitiche.
Principali evidenze dai focus group
Attraverso i focus group si è inteso verificare, al di là delle esigenze di testare lo strumento di raccolta della informazioni utilizzato nella fase quantitativa, la sensibilità dei titolari
di microimprese rispetto ai temi dello sviluppo delle competenze – a partire dall’excursus
autopercepito e condiviso durante la fase di discussione –, dei contesti di sviluppo territoriale e degli attuali limiti rispetto alla possibilità di accesso all’aggiornamento continuo
per gli imprenditori. È stato inoltre possibile cogliere le prime reazioni rispetto ad alcune
proposte di intervento, dei veri e propri concept di servizio, in gran parte ispirati ad azioni
di supporto già sperimentate in contesti sia nazionali (a livello di politiche regionali), sia
internazionali. In questa logica sono state raccolte anche informazioni di feedback che
hanno in parte modificato la descrizione dei servizi di supporto successivamente proposta
nelle interviste telefoniche.
Rispetto alle ipotesi dei servizi va evidenziato che alcune di quelle proposte si ispirano
agli interventi di formazione a domanda individuale, finanziabili attraverso voucher o carte di servizio sul modello dell’Individual Learning Account (ILA): al di là degli strumenti, è
stato rilevante soprattutto comprendere la natura del servizio da finanziare, se questo
debba essere più vicino alla consulenza individualizzata, centrata sulla formazione blended, o debba essere scelto nell’ambito dell’offerta più tradizionale, spesso attraverso la
creazione di un catalogo qualificato dalle amministrazioni locali competenti. Oltre al mo6 L’indagine è stata realizzata con il supporto
di Unicab Italia S.p.A. per quanto riguarda i tre focus group realizzati nelle regioni meridionali e le
interviste telefoniche. I restanti due focus sono
stati realizzati a Bologna, con la collaborazione di
Emilia-Romagna, e a Mestre, con la collaborazione di Confindustria Veneto SIAV.
CNA
Osservatorio Isfol n. 2/2011
141
dello della formazione individualizzata e a strumenti più tradizionali, come i piani di formazione aziendali o pluriaziendali o alle agevolazioni fiscali, è stato proposto anche un
servizio disegnato in parte sulla base dell’esperienza inglese di Investor in People, che prevede il supporto alla definizione di un piano di sviluppo aziendale accompagnato dall’intervento di esperti qualificati o di agenzie specializzate e caratterizzato da diverse tappe
incrementali fino al raggiungimento di una sorta di efficienza permanente nel sistema di
approvvigionamento di nuove conoscenze e competenze individuali e aziendali7.
In generale i focus hanno evidenziato alcune differenze tra microimprese essenzialmente riconducibili sia alla dimensione d’impresa che alle tipologie di figure imprenditoriali, laddove sono state distinte: le imprese di tipo «monocratico», costituite da un imprenditore/lavoratore in proprio con un dipendente, le imprese di tipo «familiare», ossia costruite sul nucleo familiare, e quelle di tipo «non familiare» che hanno soci e dipendenti
esterni rispetto al nucleo parentale.
Gli imprenditori monocratici, soprattutto, vivono spesso il proprio ruolo come borderline rispetto alla possibilità di entrare o rientrare nel sistema del lavoro dipendente, derivando da ciò una strategia di crescita spesso di tipo conservativo, anche rispetto alla possibilità di investire in processi di apprendimento. Gli imprenditori di tipologia «familiare»
avvertono in molti casi il peso di una tradizione imprenditoriale, trasmessa nel tempo: il
nucleo familiare svolge un ruolo ambivalente, percepito sia come serbatoio emotivo e motivazionale, sia come limite alla possibilità di intraprendere strategie di sviluppo non in linea con la tradizione e le attese del nucleo stesso. Sotto questo aspetto gli imprenditori
«non familiari», supportati da soci, mostrano, spesso, una maggiore autonomia di sviluppo
e avvertono con più frequenza l’esigenza di innovare per competere sui mercati.
Tutti gli imprenditori di microimprese, pur partendo da condizioni differenti, sono però
alle prese con problematiche trasversali, acuite nella fase di crisi economica, che spesso rimandano a sistemi di governo dei processi da cui si sentono esclusi, e che riguardano:
• i cambiamenti, in senso restrittivo, del sistema finanziario, soprattutto rispetto all’accesso al sistema bancario e al recupero crediti;
• le politiche di network e di cartello operate dalle grandi imprese da cui spesso dipendono;
• le difficoltà di seguire i cambiamenti nel sistema produttivo, con particolare riguardo
per la crescente quota nel mercato del lavoro di prestazioni «in nero», elemento questo
emerso significativamente anche nelle interviste telefoniche e in tutte le aree del paese, che finisce per influenzare la possibilità di congegnare prodotti e servizi di qualità a
costi competitivi.
Alla luce di questi elementi quasi tutti gli imprenditori partecipanti ai focus sono consapevoli della necessità di disporre di competenze allargate e composite, spesso difficili da reperire semplicemente sul mercato dell’offerta formativa. Queste, infatti, sono legate alle
caratteristiche dei prodotti e/o servizi (ideati, realizzati o distribuiti), alle innovazioni tec7 Per approfondimenti consultare il sito dell’iniziativa (in inglese): <www.investorsinpeople.
co.uk>.
142
Le competenze dei titolari di microimprese
nologiche, alle disposizioni ed esigenze di natura fiscale e finanziaria, all’organizzazione
d’impresa, alla capacità di pensare e creare innovazione e alla necessità di allargare il mercato anche in direzione internazionale.
L’approvvigionamento di tali competenze rimane un percorso non sempre accessibile, sia
per la difficoltà a individuare in proprio l’offerta formativa più adeguata, sia per la necessità di «rompere» un senso di relativo isolamento in cui si sente immersa la maggior parte degli imprenditori, anche nei territori – soprattutto nel Nord Italia – in cui vi è un radicamento dell’associazionismo imprenditoriale e più forte risulta la rete consulenziale. Pur in presenza di tali ostacoli, tuttavia, gli imprenditori sembrano offrire una risposta di tipo «conservativo», giudicando maggiormente favorevoli le proposte di intervento che rimandano a
una gestione in proprio del processo formativo, sia che si tratti di voucher per titolari di impresa da spendere su cataloghi ad hoc o attivando servizi di coacher individualizzati8, sia del
ricorso al credito d’imposta. Meno immediate risultano le proposte legate a interventi organici che comportano il contatto con agenzie specializzate di consulenza o piani di sviluppo
in grado di connettere l’impresa con le risorse potenziali del territorio o con esperienze vissute in altri contesti nazionali e internazionali. Su questo atteggiamento può pesare una
certa diffidenza nei confronti di strutture e istituzioni (pubbliche e private) che, in molti territori, vengono vissute essenzialmente come presenze «burocratizzanti» rispetto ai potenziali percorsi di sviluppo, anziché come organismi di attivazione delle opportunità.
I primi risultati delle rilevazioni quantitative
Complessivamente sono stati intervistati 1.651 imprenditori di microimprese; di questi
1.351 operano nelle regioni Obiettivo Convergenza e in Basilicata, gli altri 300 nelle tre regioni del Nord in precedenza citate9. Questi ultimi sono stati utilizzati come piccolo campione di controllo i cui risultati non sono pertanto estensibili in termini di rappresentatività all’universo delle microimprese settentrionali. Attraverso di esse, tuttavia, si è inteso cogliere alcuni spunti di riflessione e tendenze rispetto alle tematiche trattate nell’indagine
con lo scopo di evidenziare la presenza di percezioni e atteggiamenti significativamente
divergenti tra le due aree del paese.
8 A tal proposito è interessante evidenziare
come la Provincia di Trento, a partire dal marzo
2011, abbia avviato una sperimentazione di finanziamento, attraverso risorse FSE, di consulenze di
coaching, rivolte anche a imprenditori, finanziate
attraverso lo strumento di Individual Learning Account (ILA).
9 Nello specifico, per quanto riguarda le imprese del Sud, l’indagine è stata condotta su un
campione rappresentativo dell’universo dei titolari
di microimprese (con almeno 1 dipendente e fino
a 10 addetti) residenti in Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Sicilia. La composizione dell’universo di riferimento (circa 268.000 titolari) è stata
identificata sulla base della Rilevazione ISTAT sulle
Forze di Lavoro, media 2008. La metodologia di
campionamento ha fissato la numerosità del campione per ogni singola regione (errore campionario
al 5%); a seguito di ciò si è provveduto a estrarre
le unità di campionamento (individui da intervistare) secondo la procedura casuale semplice. Sono stati inoltre garantiti dei livelli minimi di inclusione per le imprese artigiane, per la posizione
professionale (imprenditori - lavoratori in proprio)
e per i cinque macrosettori economici (agricoltura,
industria, costruzioni, commercio, servizi) al fine
di contenere l’errore medio per ciascuna disaggregazione proposta in fase di analisi dei dati.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
143
Alcune caratterizzazioni del campione intervistato
Rispetto al campione degli imprenditori meridionali, la ricerca rispetta per alcune dimensioni strutturali le caratteristiche salienti dell’universo di riferimento. Non stupisce, pertanto, che quasi 4 intervistati su 5 siano uomini, a conferma di una declinazione di genere
estremamente connotata e che è coerente anche rispetto alla cosiddetta classe manageriale del paese, anch’essa caratterizzata da una scarsa presenza femminile. Rispetto ai macrosettori economici gli imprenditori appartengono prevalentemente al terziario (tradizionale e avanzato) con circa il 60% di intervistati, seguito dalle costruzioni e dal manifatturiero. Il peso non eccessivo di quest’ultimo rispecchia del resto le caratteristiche essenziali del tessuto produttivo meridionale delle microimprese, ove, fatta eccezione per alcune limitate aree urbane di Campania, Puglia e Sicilia, il motore dello sviluppo riguarda essenzialmente attività di tipo artigianale legate al terziario e ad alcune produzioni tipiche «ibride» riconducibili alla filiera agro-alimentare.
A conferma di ciò si nota come, anche nell’ambito delle attività artigianali, all’interno
del campione sia prevalso comunque il terziario nel suo complesso: nello specifico il commercio, la consulenza/servizi alle imprese, i servizi alle persone e gli studi professionali impegnano il 55% circa degli intervistati, a fronte del 22% di coloro che svolgono attività
nell’ambito della piccola industria.
Anche per quanto riguarda la localizzazione dei mercati si riscontra una bassa propensione da parte delle microimprese meridionali a operare nell’ambito di un mercato extralocale (poco meno del 30% opera in mercati più estesi). Del resto il fenomeno è del tutto
coerente se si considera il tipo di localizzazione (in aree spesso lontane dai mercati più articolati ed economicamente più ricchi del Centro-Nord del paese), le caratteristiche delle
attività e le dimensioni d’impresa, tutti aspetti che finiscono per avere una ripercussione
Figura 1. Attività operata nell’ambito delle imprese artigiane
Attività commerciale
32%
22%
Piccola industria
20%
Laboratorio artigianale
Consulenza/servizi
alle imprese
9%
7%
Studio professionale
6%
Servizi alle persone
4%
Attività turistica
0%
5%
10%
Fonte: elaborazioni ISFOL, 2011
144
Le competenze dei titolari di microimprese
15%
20%
25%
30%
35%
anche rispetto ad altre caratterizzazioni strutturali del campione, in particolare rispetto
alla scarsa tendenza a creare network e sinergie tra gruppi e altre imprese e ad associarsi
alle categorie di rappresentanza datoriale (risulta associata meno della metà del campione). È quest’ultimo certamente uno dei dati di maggiore contrasto rispetto ad altri territori del paese, dove le categorie di rappresentanza svolgono una funzione riconosciuta anche
tra le microimprese, garantendo, in alcuni casi, una messa in comune di servizi di supporto altrimenti non facilmente accessibili a livello individuale.
A tal proposito occorre evidenziare come gli indirizzi delle politiche di sviluppo locale
tendano sempre più a considerare e stimolare la costruzione di reti anche tra realtà produttive «minori». Non a caso la normativa più recente incentiva l’attivazione dei cosiddetti «contratti di rete»10, che concedono agevolazioni fiscali per il reinvestimento degli utili
nel network di appartenenza. In particolare, i più recenti contratti istituiti sul territorio nazionale tendono a coinvolgere, insieme alle imprese, vari stakeholders protagonisti dello
sviluppo socio-economico col fine di costruire diverse tipologie di reti centrate sulla produzione, sulla promozione e vendita, sui servizi assicurativi, finanziari e mutualistici, nonché incentivanti i processi di innovazione e di trasferimento tecnologico (CENSIS, 2010).
Cambiamenti significativi nel ruolo imprenditoriale e azioni ritenute necessarie
per affrontarli
Dal manifestarsi della crisi recessiva internazionale, a fine 2008, gli imprenditori individuano i principali fattori di cambiamento nell’esercizio del proprio ruolo nell’aumentata
incertezza sui tempi di pagamento da parte dei clienti (78,0%), nella crescente difficoltà ad
essere competitivi rispetto a chi offre prestazioni «in nero» (70,3%) e nel peso crescente degli aspetti di gestione amministrativa (68,4%).
Il raffronto con il ranking ottenuto tramite le rilevazioni presso i titolari di microimprese del Centro-Nord evidenzia una sostanziale sovrapposizione: i fattori di cambiamento individuati dagli imprenditori del Sud e da quelli del campione di controllo del Centro-Nord
non differiscono significativamente nell’ordine di importanza.
La graduatoria in sé, inoltre, presenta alcuni elementi di novità rispetto ad alcune convinzioni correnti. Ad esempio, la difficoltà di accesso al credito non risulta essere così prioritaria come lo sono i problemi di liquidità legati ai tempi di pagamento, probabilmente determinati da eccessiva dipendenza da singoli committenti. Ciò risulta essere vero soprattutto nelle imprese industriali (87% rispetto al valore medio del 78%), tanto più all’aumentare del numero di dipendenti; la pressione è relativamente inferiore nelle imprese costituite da imprenditori senza soci (74,1%) e in quelle fino a due dipendenti (73,6%). Il peso crescente della gestione amministrativa (ovvero l’impegno dell’imprenditore verso gli
adempimenti amministrativo-contabili, fiscali, tributari ecc. legati alla gestione delle attività di impresa) risulta essere direttamente correlato alla dimensione di impresa, espressa
in termini di numero di dipendenti, e presenta differenze tra le regioni: è relativamente
10 Istituiti con la legge n. 33/2009, e con successivi decreti, in particolare il DL n. 78/2009 del
Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
145
Figura 2. Cambiamenti avvertiti negli ultimi tre anni
Incertezza nei tempi di pagamento
78,0%
Difficoltà a competere contro il lavoro nero
70,3%
Crescita del peso della gestione amministrativa
68,4%
Difficoltà a specializzare le produzioni per competere
59,2%
Difficoltà di accesso al credito
58,6%
Difficoltà a riorientare le conoscenze dei dipendenti
57,1%
Mancanza di adeguati strumenti anti-crisi
39,9%
Difficoltà a seguire le innovazioni tecnologiche
32,5%
0%
20%
40%
60%
80%
100%
Fonte: elaborazioni ISFOL, 2011
meno avvertita in Puglia e in Calabria (60,8% e 64,7% rispetto alla media del 68,4%) ed è
al di sopra della media in Basilicata, Campania e Sicilia.
Riveste inoltre un certo interesse il dato relativo alla crescente difficoltà ad essere competitivi rispetto a chi offre prestazioni «in nero», pressoché equivalente tra imprese del Sud
e del Centro-Nord. La tendenza è indifferenziata – relativamente ai soli dati nelle regioni
meridionali – sia per quanto concerne la tipologia di imprenditori, sia per dimensione di
impresa che per territorio. È invece significativamente superiore alla media (pari al 70,3%)
nei settori delle costruzioni (79,7%) e dell’industria (76,2%), che, in misura maggiore rispetto al terziario, hanno risentito della crisi e presumibilmente hanno avvertito uno spostamento dei fattori di competitività sul piano di pratiche «opache» o del tutto illegali.
Relativamente ad altri fattori considerati dalla rilevazione, può essere opportuno riportare che la mancanza di strumenti anti-crisi, pur non particolarmente avvertita (con una
media del 39,9%), assume maggiore rilevanza tra le imprese con soci non familiari e, in
particolare, nel settore delle costruzioni (53,2%). Va ricordato, infatti, che nel Meridione
tale settore si sostanzia, più che in altri territori del paese, di commesse di edilizia pubblica, ridotte in ragione della crisi recessiva. Le microimprese rappresentano l’anello debole
della filiera e ciò motiva la diversa percezione sulla necessità di interventi anti-crisi.
Tornando al tema delle difficoltà di accesso al credito, le differenze si situano soprattutto a livello territoriale: risultano infatti particolarmente richiamate dai titolari di impresa della Calabria (con il 68,8% a fronte di una media del 58,6%), seguiti da quelli della
Campania (61,9%) e della Basilicata (59,9%). Puglia e Sicilia evidenziano invece una relativamente migliore dinamicità e fiducia.
Riguardo alle iniziative che gli imprenditori dovrebbero mettere in atto per ovviare alle
difficoltà riscontrate nella gestione imprenditoriale, accentuate nella fase di crisi, le quat146
Le competenze dei titolari di microimprese
tro azioni maggiormente menzionate (figura 3) sono: migliorare la gestione e il controllo
economico-finanziario dell’impresa (73,3%), trovare nuove idee e strumenti per conoscere i
bisogni e i desideri del cliente (65,7%), scambiare esperienze e informazioni attraverso relazioni più forti tra imprese e/o imprenditori (64,3%) e raccogliere maggiori informazioni su
nuovi prodotti (62,7%).
La necessità di migliorare la gestione economica dell’impresa, individuata da quasi i tre
quarti degli intervistati, mette in evidenza uno degli aspetti maggiormente critici nell’attività imprenditoriale, ovvero l’adozione di quegli orientamenti e quegli strumenti utili al
mantenimento dell’equilibrio aziendale, oggi reso più complesso e precario, nella contemporanea necessità di adottare nuove strategie di investimento per rafforzare e ampliare la
propria presenza sui mercati di riferimento. Tale necessità è avvertita in particolare dalle
microimprese del commercio (il 78% rispetto alla media del 73,3%), in quelle con maggior
numero di dipendenti e con soci non familiari (76,1%), probabilmente in ragione di una
minore flessibilità dei costi di gestione delle attività.
La necessità di informarsi sui desideri e bisogni dei clienti, su nuovi prodotti e su nuove
modalità di produzione – e quindi su nuove idee imprenditoriali – è particolarmente avvertita dai titolari di microimprese, tanto più per coloro che operano senza soci e con non più
di 2 addetti che versano probabilmente in condizioni di maggiore isolamento. È però tra le
aziende con più di 6 dipendenti e con soci non familiari che si rileva la maggiore propensione a ricorrere a scambi di esperienze e informazioni tra imprenditori, rivelando quindi un
atteggiamento culturale più aperto alla condivisione delle problematiche e all’individuazione di possibili soluzioni per il continuo rilancio delle attività aziendali.
È altresì avvertita da poco più di un terzo delle imprese l’opportunità di creare alleanze
con centri di ricerca e di innovazione, che comunque non è da considerarsi irrilevante. È
Figura 3. Necessità per fronteggiare i cambiamenti intervenuti nella fase recessiva
Miglioramento gestione economica
73,3%
Nuove idee per capire il cliente
65,7%
Scambio di esperienze
e informazioni tra imprenditori
64,3%
62,7%
Informazioni su nuovi prodotti
55,6%
Riposizionamento sul mercato
Nuovi sistemi di produzione
54,0%
Studio delle imprese concorrenti
53,3%
Alleanze con centri
di ricerca e innovazione
34,9%
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
Fonte: elaborazioni ISFOL, 2011
Osservatorio Isfol n. 2/2011
147
particolarmente avvertita nel settore delle costruzioni (47,2% rispetto alla media del
34,9%) in ragione dei forti sviluppi tecnologici intervenuti in questo settore, che hanno
creato una nuova domanda (si pensi ad esempio alle recenti evoluzioni nel campo della demotica e dei sistemi di risparmio energetico).
Atteggiamenti e comportamenti nei confronti della formazione continua
La rilevazione dei fabbisogni di aggiornamento. È fortemente avvertita dai titolari di microimprese la necessità di provvedere all’aggiornamento e all’innovazione delle conoscenze e
competenze, sia proprie che dei collaboratori (con una media di 2,9 su una scala di importanza crescente da 1 a 4). L’autovalutazione è considerata lo strumento principale per la
rilevazione e la comprensione dei propri fabbisogni, spesso supportata dal confronto con i
sistemi di relazione più significativi: in primo luogo con i familiari, quindi con altri imprenditori/colleghi e con fornitori (figura 4). Più difficilmente si ricorre a esperti e consulenti di
formazione o alla propria associazione di rappresentanza, soprattutto tra le imprese di dimensione minore (gestite dal solo titolare e con non più di 2 addetti).
Ostacoli di accesso alla formazione continua. L’atteggiamento positivo nei confronti dei
benefici della formazione è controbilanciato da alcune valutazioni e opinioni sulla formazione strutturata, che rappresentano veri e propri ostacoli alla sua fruizione (figura 5). In
primo luogo viene avvertito il problema del costo di partecipazione, giudicato elevato, a
fronte del quale le opportunità di finanziamento offerte dal sistema pubblico non offrono
Figura 4. Modalità di rilevazione dei propri fabbisogni formativi da parte dei titolari
di microimprese (valori medi, su scala da 1 a 4)
2,97
Autovalutazione
2,86
Confronto con i componenti familiari
Scambio di esperienze con altri
imprenditori e colleghi
2,66
2,43
Confronto con fornitori di tecnologie e software
Partecipazione a fiere e/o seminari di settore
2,4
Confronto con imprese concorrenti
2,28
Rapporto con esperti/società
di consulenza e/o formazione
2,27
2,18
Rapporto con associazioni di rappresentanza
0
Fonte: elaborazioni ISFOL, 2011
148
Le competenze dei titolari di microimprese
1
2
3
4
una valida soluzione in ragione della complessità delle procedure previste. Nella valutazione del «costo», considerato in un’accezione più ampia e non strettamente ricondotta all’aspetto economico, possono essere fatte rientrare le difficoltà di distaccare dal lavoro le
poche risorse (titolari e/o dipendenti) necessarie a garantire il normale svolgimento delle
attività produttive (espresse dall’item offerta formativa non adatta ai tempi e alle esigenze
di lavoro della piccola impresa).
Significativi sono inoltre i richiami ad alcuni limiti oggettivi, tra cui la scarsa disponibilità di consulenti e formatori e la frequente caratterizzazione dell’offerta formativa su
metodologie didattiche non adeguate, per lo più incentrata sulla tradizionale didattica
d’aula e su un’articolazione di contenuti derivata dall’esperienza formativa con imprese di
maggiore dimensione.
L’effettivo aggiornamento/innovazione delle competenze dei titolari. Sono state innanzitutto rilevate informazioni di carattere generale nel merito dei tempi dedicati all’aggiornamento, delle modalità adottate e delle tematiche prevalenti di interesse. Si è quindi approfondita la partecipazione ad attività formative nel 2010 (dall’inizio dell’anno al momento
della rilevazione).
Gli imprenditori adottano strategie di approvvigionamento delle informazioni e di nuove conoscenze in sintonia con i ritmi e le abitudini di lavoro, privilegiando situazioni e occasioni non necessariamente dedicate esclusivamente all’aggiornamento professionale. In
questa prospettiva navigare su Internet (80,3%), leggere una rivista di settore (82,1%), con-
Figura 5. Valutazioni e opinioni negative sulla formazione continua
(valori medi, su scala da 1 a 4)
Costi troppo elevati
3,12
Difficoltà di accesso a fondi
pubblici per la formazione
3,07
Non adatta ai tempi e alle esigenze di lavoro
2,85
Limitata disponibilità di consulenti e formatori
2,55
Benefici difficili da apprezzare
2,51
Metodologie didattiche non adeguate
2,45
Probabilità che il dipendente
formato lasci l'impresa
2,27
0
1
2
3
4
Fonte: elaborazioni ISFOL, 2011
Osservatorio Isfol n. 2/2011
149
frontarsi con altri imprenditori (68%) o con la rete di consulenti esterni (61,2%) diventano
modalità di approfondimento contigue alla prassi quotidiana di lavoro. Non a caso circa un
terzo dei titolari di microimprese dedica almeno un’ora al giorno al proprio aggiornamento
professionale e un quarto dichiara invece di formarsi tre-quattro ore alla settimana.
I temi di aggiornamento sono «tecnico-specialistici», riconducibili prevalentemente alle specificità del settore di appartenenza dell’impresa e al suo core business (76,1%). Minore rilevanza assumono i temi trasversali legati agli aggiornamenti del quadro normativo
(38,6%) e ai modelli manageriali/gestionali (28,9%), generalmente considerati dagli stessi
imprenditori più consoni alle imprese di maggiori dimensioni.
Rispetto alle specifiche iniziative dedicate appositamente alla formazione nel corso del
2010 (figura 6), il 48,6% gli intervistati ha utilizzato la partecipazione a fiere e mostre industriali/commerciali come canale strutturato privilegiato per comprendere gli andamenti
dei mercati, le nuove tendenze e i nuovi bisogni della clientela di riferimento. In coerenza
con questa strategia cognitiva, si collocano gli scambi di esperienze con altri imprenditori
(41,0%) e le iniziative seminariali (38,1%).
La partecipazione a iniziative formative di aula ha riguardato circa un terzo dei titolari
intervistati; coerentemente con le tendenze rilevate in altre ricerche sulla formazione continua, la partecipazione tende a decrescere con la riduzione della numerosità di addetti. È
ridotta la percentuale di coloro che dichiarano di aver usufruito di iniziative di formazione
a distanza (15,3%).
Interventi a sostegno dei titolari di microimprese
L’indagine, tra i principali obiettivi, ha inteso rilevare le opinioni e le valutazioni degli intervistati nel merito di possibili interventi a sostegno delle microimprese, che meglio di al-
Figura 6. Modalità di erogazione delle attività di formazione strutturata fruite nel 2010
dai titolari di microimprese
60%
48,6
50%
40%
41,0
38,1
33,9
30,0
30%
20%
15,3
8,5
10%
0%
Corsi in aula
Formazione
a distanza
Seminari,
Partecipazione Periodi di studio
conferenze,
a fiere, mostre
workshop industriali/commerciali
Scambi di
Consulenze
esperienze individuali (coaching,
counseling ecc.)
Fonte: elaborazioni ISFOL, Area Politiche e Offerte per la Formazione continua e Servizio statistico, 2011
150
Le competenze dei titolari di microimprese
tri possano adattarsi alle peculiari condizioni ed esigenze delle loro realtà aziendali.
Un primo dato riguarda il contributo che lo Stato, le istituzioni e gli enti locali potrebbero fornire, anche in ragione del prolungarsi della crisi recessiva, per sostenere le imprese
che rischiano di perdere competitività. Secondo gli intervistati, le modalità più rispondenti sono individuabili in: sussidi economici legati alla partecipazione a iniziative di formazione (78,1%), azioni di consulenza utili a verificare lo stato di salute dell’impresa – check-up
– e per riorientare le attività di business (69,6%) e sussidi economici per il sostegno al reddito (68,1%).
Relativamente alle politiche di sostegno per la formazione (figura 7), gli intervistati
hanno espresso un elevato grado di interesse nei confronti del ricorso ad agevolazioni fiscali/crediti di imposta (molto utile per il 76,5%). Si tratterebbe quindi del riconoscimento
delle spese sostenute – e della relativa deducibilità – per la partecipazione a iniziative formative, secondo tempi e modalità individuati autonomamente dal titolare stesso. La scelta prevalente degli intervistati su questo strumento sembra essere legata alla necessità, da
un lato, di individuare autonomamente forme e modi più rispondenti ai propri fabbisogni
e, dall’altro, di poter disporre di modalità di riconoscimento degli investimenti realizzati in
formazione più agili e veloci delle procedure di rendicontazione normalmente previste dai
finanziamenti pubblici.
Una seconda opzione indicata dai titolari riguarda la disponibilità di risorse e supporti
per partecipare ad attività di formazione condivise con altre aziende del settore/territorio
con esigenze/bisogni comuni (molto utile per il 34,9%). Il titolare e/o i dipendenti dell’impresa, in questo caso, partecipano a iniziative di formazione, in parte finanziate da risorse
pubbliche, con altre imprese con le quali condividono analoghi problemi e/o necessità di
crescita, anche con l’obiettivo di creare reti d’impresa utili a gestire attività comuni (forniture di tecnologie, servizi ecc.).
Figura 7. Valutazioni e opinioni su possibili modalità di sostegno della formazione
Agevolazioni fiscali
3,56
Risorse per corsi comuni
con altre imprese
3,00
Risorse per piani
formativi aziendali
2,96
Voucher individuali
2,89
Risorse per learning tour
2,81
Voucher per coaching
2,69
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
Osservatorio Isfol n. 2/2011
151
Fonte: elaborazioni ISFOL, 2011
Inoltre, un importante livello di interesse è manifestato anche nei confronti della disponibilità di risorse per partecipare a piani di formazione aziendale con il ricorso a esperti/consulenti per l’adozione di strumenti e metodologie di sviluppo organizzativo (molto utile per
il 34,9%). In questo caso l’impresa viene sostenuta finanziariamente al fine di poter ricorrere a esperti/consulenti, anche su individuazione dello stesso titolare, per definire un piano di sviluppo dell’impresa, oppure nel collaborare all’identificazione di modelli e strumenti per il raggiungimento degli obiettivi del piano, compresa l’individuazione dell’offerta formativa più rispondente ai propri fabbisogni. Questa scelta fornisce importanti indicazioni
sull’avvertita necessità, da parte dei titolari di microimprese, di avviare attività di pianificazione e programmazione della formazione aziendale (anche in termini di budget).
Minor interesse sembrano rivestire, invece, altri due strumenti suggeriti: il primo relativo alle attività di coaching, che probabilmente risente di una scarsa conoscenza, tra i piccoli imprenditori, di questa interessante metodologia di affiancamento; il secondo riconducibile ad attività di learning tour, importante strumento di confronto e benchmarking
tra sistemi territoriali di imprese, ma ancora poco noto e diffuso.
Conclusioni
Dai primi risultati di ricerca emerge con chiarezza la capacità dei titolari di microimprese di
tradurre il disagio legato alle necessità crescenti di allineamento con i mercati – sempre più
globali e complessi da decifrare in condizioni di recessione economica – in fabbisogno formativo. La formazione continua è percepita come strumento per riorientare le conoscenze e
le competenze dei collaboratori ma, ancor più, come ausilio alla formulazione di nuove strategie, legate a una maggiore comprensione dei nuovi bisogni della clientela di riferimento, a
una maggiore conoscenza delle nuove opzioni di prodotto e delle tecnologie innovative di
produzione, a una gestione oculata dell’impresa sul piano economico e finanziario.
Ma la distanza tra le esigenze rilevate presso il campione di titolari e la percezione di
ciò che il mercato della formazione può effettivamente offrire è ampia. Si tratta, infatti, di
una popolazione che, per le particolari condizioni operative in cui versa, necessita di conoscenze e competenze legate all’evoluzione tecnica delle attività di gestione, facilitando e
sistematizzando modalità già ampiamente utilizzate nella quotidianità.
In altri termini, si tratta di adottare una strutturazione della didattica che faciliti lo
scambio di conoscenze ed esperienze, soprattutto a livello settoriale, tra imprenditori e tra
essi ed esperti (anche non «formatori»), su contenuti tecnico-specialistici specifici, con
particolare riferimento ai temi dell’innovazione, modalità già fruttuosamente utilizzata dai
titolari di microimprese anche se in modo informale.
E si rende necessario il ricorso a modalità di conduzione formativa diversa dalla tradizionale didattica d’aula, che faccia ricorso a «contaminazioni» già ampiamente sperimentate in
altri contesti aziendali (ovvero all’applicazione alla formazione di tecniche narrative, teatrali, cinematografiche o ancora delle metodologie del coaching, del counseling ecc.) e che
hanno mostrato negli anni recenti un’elevata capacità di coinvolgimento delle figure apicali delle imprese nello sviluppo di competenze connesse allo sviluppo strategico dell’impresa
e delle sinergie tra attori locali. Recenti lavori di ricerca condotti dall’ISFOL hanno evidenzia152
Le competenze dei titolari di microimprese
to le relazioni tra impiego di metodologie formative innovative e modalità di riconoscimento dei costi e di rendicontazione, al fine di renderne maggiormente praticabile l’utilizzo da
parte delle Regioni e delle Province delegate, nonché dei Fondi Paritetici Interprofessionali.
Ridurre l’impegno di spesa della partecipazione alla formazione e ricorrere a setting
formativi più coerenti con le esigenze degli imprenditori non sono comunque le uniche
priorità per facilitare l’accesso alla formazione dei titolari di microimprese. Ancora oggi,
nonostante i numerosi sforzi di semplificazione amministrativa operati in particolare dai
Fondi Paritetici, le procedure previste per l’accesso a opportunità di formazione rappresentano un serio ostacolo. È da cogliere in questa direzione l’indicazione degli intervistati che
rimarca una netta preferenza verso forme di deducibilità fiscale della formazione, considerate più agili e coerenti con la minore dimensione dell’impresa.
In tal senso, si rende evidente la necessità di considerare l’universo delle microimprese
non come un unico aggregato, ma differenziato in relazione alla tipologia dell’imprenditore (senza soci / «monocratico», con soci familiari, con soci non familiari) e al numero di addetti effettivamente impiegato (avendo rilevato differenze tra imprese fino a 2 dipendenti,
con 3-6 addetti e oltre i 6), oltre che alla più scontata appartenenza di settore. Ad esempio, la particolarità delle imprese con non più di 2 addetti e guidate da un imprenditore
«monocratico» configura una casistica maggiormente legata ai processi di esternalizzazione di produzioni da parte delle imprese di maggiori dimensioni, più che alla fisionomia di
impresa nel senso più proprio. Queste imprese, recentemente definite «microimprese da job
creation» (Barricelli, Russo, 2005), rappresentano spesso per chi ci lavora la principale e
unica fonte di reddito; è indicativo in tal senso il limitato fatturato medio rilevato, che non
supera i 500.000 euro. Da parte di queste imprese, più che di altre tipologie di micro-imprese, perviene maggiormente l’indicazione dell’opportunità che il sistema pubblico intervenga con strumenti di policy quali le forme di sostegno al reddito, normalmente appannaggio delle grandi imprese.
L’indagine ha inoltre palesato come tra le imprese campione del Sud e quelle di controllo del Nord non si siano registrati sostanziali scostamenti sia nell’indicazione delle problematiche gestite nei diversi ambiti, sia nell’individuazione di potenziali soluzioni. L’uniformità di simile percezione rafforza ulteriormente l’ipotesi che la dimensione d’impresa rappresenti di gran lunga il fattore distintivo strutturale e peculiare per questo segmento rilevante dell’economia nazionale. In questa direzione sembra dunque necessaria la promozione di
una politica di livello nazionale a supporto dello sviluppo dei processi di formazione dei titolari di microimprese, seppur declinata in relazione ad alcune peculiarità soprattutto legate alla distinzione tra le citate imprese da job creation e quelle definite a livello internazionale come «gazzelle»11. Queste ultime, nel campione d’indagine, corrispondono a circa il
30% di quelle intervistate e si caratterizzano per la consuetudine a confrontarsi con i mercati estesi (nazionali e internazionali), e per possedere un maggior fatturato medio e un più
elevato numero di addetti rispetto a quelle presenti negli stessi settori.
11 In Italia è stata presentata dall’ISTAT una prima analisi su queste peculiari imprese (high growth
e gazzelle), che hanno presentato una rapida crescita occupazionale in un periodo relativamente
breve: <www.istat.it/salastampa/comunicati/non_
calendario/20101223_00/testointegrale2010
1223.pdf>.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
153
L’individuazione di una politica di supporto, come del resto emerge dall’indagine, potrebbe basarsi su due approcci apparentemente distonici, ma che possono svolgere una
funzione compensativa l’uno rispetto all’altro. Un primo dovrebbe essere centrato sull’implementazione di servizi alla formazione di tipo individualizzato e personalizzato e concretizzarsi attraverso un approccio di consulenza specialistico. In questa direzione vanno considerati sia gli strumenti di finanziamento, come voucher, carte ILA, finalizzati ad acquisire
consulenze basate sul coaching o sul counseling, sia il supporto che può essere offerto da
figure di specialisti (i cosiddetti «support manager»), che sono in grado di verificare l’andamento economico-finanziario e ridefinire gli asset strategico-organizzativi, anche utilizzando la leva formativa.
Entrambe le tipologie di intervento potrebbero risultare dispendiose, se viste come a
prevalente carico dei finanziamenti pubblici. In questa direzione non va sottovalutata l’esperienza inglese di Investors in People, che come già accennato in precedenza consente di
costruire un percorso personalizzato di crescita competitiva motivando l’imprenditore a
investire in qualità, innovazione e processi di apprendimento continuo.
Un secondo approccio è finalizzato a rompere il senso di «isolamento» avvertito dagli imprenditori e assecondare la necessità, emersa con chiarezza dall’indagine, di costruire sistemi operativi locali sempre più interconnessi, centrati sul modello della rete. Da una parte
sembra rilevante costruire occasioni di raffronto (anche attraverso vere e proprie situazioni
di benchmark) tra imprenditori, dall’altra individuare relazioni con i centri di ricerca e i parchi scientifici e tecnologici – oggi, in gran parte ancora slegati dal tessuto produttivo. In termini di strumenti operativi ciò può tradursi nel finanziamento di iniziative di formazione
centrate sullo scambio diretto (dall’attivazione di giornate di scambio seminariali all’organizzazione di learning tour benchmark oriented) e nel consolidamento di accordi e protocolli in grado di stimolare l’azione congiunta dei diversi stakeholders che agiscono su uno stesso territorio. In quest’ultima direzione non vanno trascurati gli accordi di integrazione tra
amministrazioni locali, parti sociali e Fondi Paritetici Interprofessionali nella gestione di risorse dedicate alla formazione continua: una specifica attenzione nella finalizzazione degli
obiettivi operativi potrebbe essere posta proprio nei confronti delle microimprese.
Bibliografia
AIP (a cura di), Nuove forme di organizzazione produttiva, di coordinamento e di assetto giu-
ridico, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano, 2008.
Barricelli D., Il valore dell’apprendimento di sistema per le micro e piccole imprese: gli investimenti formativi per i titolari d’impresa, «FOR», n. 83, 2010.
Barricelli D., Russo G., Think micro first. La microimpresa di fronte alla sfida del terzo millennio: conoscenze saperi e politiche di sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2005.
Castells M., La nascita della società in rete, Università Bocconi editore, Milano, 2002.
CENSIS, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2010, Franco Angeli, Milano, 2010.
European Commission, Enterprise and Industry, Putting Small Businesses First – Europe Is
Good for SMEs, SMEs Are Good for Europe, 2008 (new edition).
EUROSTAT, Structural Business Statistics - SBS size class EU 27, 2005.
154
Le competenze dei titolari di microimprese
ISTAT,
Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo, Roma, 2010a.
Approfondimenti, «L’imprenditorialità in Italia. Anni 2005-2008», Roma, 2010b.
Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Rapporto Annuale sulla Formazione Continua
in Italia, 2007, Roma, 2008.
Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Rapporto Annuale sulla Formazione Continua
in Italia, 2010, Roma, 2011.
Pilotti L., Alberini S., Formazione nelle micro-imprese e sistemi. Territoriali locali, in ISFOL,
Formazione continua e politiche di sostegno per le micro-imprese, Roma, 2003 (I libri
del Fondo Sociale Europeo)
Vergani A. (a cura di), Il valore del dopo: Formazione Continua e Valutazione, Franco Angeli, Milano, 2009.
ISTAT,
Per citare questo articolo: Domenico Barricelli, Davide Premutico, Pierluigi Richini, Le
competenze dei titolari di microimprese, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 139-155.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
155
Il Libretto Formativo
nei contesti aziendali
Valorizzare le competenze in impresa
di Elisabetta Perulli
Riassunto: il tema della valorizzazione e riconoscimento delle competenze comunque e
ovunque acquisite permea da diversi anni il dibattito e le strategie delle istituzioni comunitarie e nazionali.
Esiste tuttavia ancora il problema di individuare modalità e strumenti di concreta valorizzazione di quanto è appreso in modalità non formale e informale soprattutto nei contesti di lavoro, e ricondurlo a un circuito di leggibilità e riconoscibilità sociale in quanto
componente essenziale del capitale umano. Lo studio di cui si riportano i risultati nel presente contributo è stato condotto nel 2010 ed è finalizzato alla preliminare valutazione di
fattibilità per l’adozione del Libretto Formativo del Cittadino quale strumento di trasparenza e valorizzazione delle competenze maturate nei contesti di impresa. In particolare in
questa indagine sono stati individuati e analizzati 19 casi di studio relativi ad altrettante
aziende che hanno adottato strumenti e metodologie di gestione e sviluppo delle proprie
risorse umane basate sull’identificazione, valutazione e valorizzazione delle competenze.
L’obiettivo finale è stata la costruzione di una SWOT analysis che ha messo in luce diverse
questioni chiave sottese al possibile utilizzo di strumenti di trasparenza delle competenze
che dialoghino con quelli pubblici e giungere così al coinvolgimento attivo del mondo delle imprese nella creazione di un più ampio spazio dell’apprendimento che comprenda i
contesti formativi tradizionali al pari di quelli organizzativi e sociali.
Parole chiave: Competenze; Gestione risorse umane; Libretto Formativo; Validazione dell’apprendimento non formale e informale
Introduzione
Il tema della trasparenza e del riconoscimento delle competenze comunque e ovunque acquisite rappresenta stabilmente da alcuni anni un oggetto di dibattito nonché di concrete
politiche di intervento a livello dell’Unione europea così come nell’ambito dei principali
Osservatorio Isfol n. 2/2011
157
paesi occidentali. Si è sempre più convinti infatti che non basta promuovere costantemente l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita attiva (come già da anni ribadito e praticato attraverso importanti processi europei quali Lisbona 2001) ma occorre anche renderlo
visibile, valorizzarlo, innestarlo in un circuito sociale di comunicazione e significatività che
agevoli i processi di evoluzione sociale e professionale assicurando a individui e sistema
produttivo resilienza1 e flessibilità nei confronti degli eventi.
Risulta evidente che competenze estremamente pregiate e ampiamente spendibili in
questa prospettiva sono spesso le più «invisibili» poiché non certificate in quanto acquisite
fuori dai circuiti formali di apprendimento, ed è per questo che la stessa Commissione europea invita in modo pressante i paesi membri ad allestire e attivare sistemi in grado di far
emergere e porre in valore le competenze che gli individui maturano nelle esperienze di lavoro ma anche nel volontariato e nell’esercizio della cittadinanza attiva così come nella vita privata.
Anche in Italia si è discusso a lungo intorno a questa prospettiva e uno dei punti di arrivo del dibattito istituzionale sviluppatosi in questi anni in Italia è stata l’istituzione del Libretto Formativo del Cittadino varato per decreto interministeriale nel 2005 (su iniziativa
del Ministero del Lavoro e tramite un Tavolo interistituzionale) quale strumento unitario e
personale per la registrazione e il tracciamento di esperienze maturate e competenze acquisite. A tale proposito va sottolineato che l’implementazione del Libretto si pone in stretta
relazione con le politiche recentemente annunciate nel nostro paese allo scopo di garantire
una maggiore efficacia delle attività formative in rapporto ai fabbisogni delle imprese, per
dare corpo a un nuovo modello di workfare, assicurando in tal modo una maggiore centralità alle molteplici forme di apprendimento attuate entro il contesto aziendale2.
Il Libretto, ancorché non ancora implementato a regime, è stato sottoposto in questi
anni a numerose sperimentazioni in ambito pubblico attraverso l’impegno delle Regioni
che lo hanno via via testato su target specifici quali apprendisti, lavoratori stranieri, volontari, giovani in fase di prima qualificazione, lavoratori in transizione occupazionale a causa di crisi aziendali. In tutti questi contesti applicativi questo strumento ha fornito risultati molto promettenti, pur subordinati alla presenza di alcune imprescindibili condizioni di
esercizio come documentato dal rapporto finale sulla prima fase di sperimentazione3. Tra
queste prioritariamente ne ricordiamo tre:
1 La resilienza è la capacità di far fronte in
maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle
difficoltà. Persone resilienti sono coloro che immerse in circostanze avverse riescono, nonostante
tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo
slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti.
2 Per l’intera tematica si consultino: Commissione di studio e di indirizzo sulla formazione in
Italia, Rapporto sul futuro della formazione in Ita-
158
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
lia, 2009; Ministero del Lavoro, della Salute e delle
Politiche sociali, Libro bianco sul futuro del modello sociale. La vita buona nella società attiva, 2009;
Governo italiano, Piano di azione per la piena occupabilità, Italia 2020; Intesa tra Governo, Regioni,
Province autonome e parti sociali. Linee guida per
la formazione nel 2010, 17 febbraio 2010.
3 Rapporto finale sulla sperimentazione del Libretto Formativo del Cittadino 2008, <www.nrpialia.it>, Area Riservata alla Sperimentazione del Libretto.
a. la realizzazione di un processo di servizio flessibile ma omogeneo in quattro fasi a cura di operatori opportunamente preparati;
b. l’adozione di descrittivi standard o referenziali delle competenze da registrare;
c. la presenza di un’infrastruttura informatica atta a garantire il costante aggiornamento
del Libretto nel tempo.
In questo percorso sperimentale, era tuttavia rimasto ancora da esaminare il punto di vista
e il potenziale ruolo delle aziende, che rappresentano un produttore ma anche un percettore importante delle informazioni che viaggiano con il Libretto: le aziende infatti sviluppano e si avvalgono di competenze professionali quale fattore importante di risultato e
competitività, eppure a ciò non sempre corrisponde una compiuta consapevolezza e rappresentazione di questo patrimonio, così come appare difficile assicurarne la trasparenza e
la portabilità esterna nei casi in cui ciò si rende necessario.
Sulla base di questa esigenza di approfondimento espressa anche nelle sedi istituzionali coinvolte nel processo di elaborazione del Libretto Formativo, l’ISFOL, su incarico del Ministero del Lavoro e in partnership con lo Studio Santarsiero di Roma, ha condotto nel
2010 una «ricerca-intervento sull’applicabilità del libretto formativo del cittadino nei contesti aziendali quale strumento di trasparenza e analisi dei processi di apprendimento individuali e collettivi». L’idea guida della ricerca era quella di utilizzare il framework concettuale del Libretto per aprire uno spazio di osservazione su come le aziende lavorano con le
competenze, come le definiscono, le trattano e adottano programmi specifici per valorizzarle in funzione degli obiettivi di impresa. Questa osservazione nelle ipotesi di lavoro può
essere di grande utilità per ragionare in questo campo sulla possibile compatibilità tra le
logiche su cui si muove l’intervento pubblico e quelle su cui viaggia il mondo produttivo.
A partire da questa idea il lavoro di ricerca è stato sviluppato attraverso tre fasi sequenziali che hanno prodotto un quadro organico di informazioni composto di tre risultati indipendenti e autoconsistenti:
1. in primo luogo è stata realizzata un’indagine di sfondo on desk finalizzata a costruire
un primo quadro di comprensione di vantaggi e problemi connessi all’obiettivo di introdurre o proporre in ambito aziendale un dispositivo istituzionale di trasparenza e portabilità delle competenze quale è il Libretto. In particolare in questa fase si è tentato di
capire, nei limiti di un esame di documenti, come si presentano oggi in Italia le pratiche aziendali di gestione delle competenze, a quali fini sono dirette e per quali categorie di dipendenti nonché di quali concetti e metodologie di avvalgono;
2. la seconda fase del lavoro è stata dedicata a un’indagine di campo presso referenti di
un universo di 130 aziende segmentate per dimensione e localizzazione geografica, indagine che puntava a un approfondimento sul tema della trasparenza, validazione e
certificazione delle competenze, in chiave di politiche per il lifelong learning, visto dal
vertice di osservazione dell’impresa;
3. la terza fase ha invece riguardato un intervento sperimentale di proposta del Libretto
Formativo in tre contesti aziendali su piccoli numeri di dipendenti.
I risultati complessivi delle tre fasi di lavoro sono in corso di analisi e saranno oggetto di
una prossima pubblicazione. In questo contributo sono tuttavia riportati alcuni risultati di
Osservatorio Isfol n. 2/2011
159
sintesi della prima fase, ovvero l’indagine di sfondo on desk, risultati che hanno generato
un’analisi SWOT di introduzione alla realizzazione delle fasi successive.
Le prassi di valorizzazione delle competenze nelle imprese
La presenza ormai consolidata di sistemi, processi e pratiche di valorizzazione delle competenze in azienda deriva la sua stessa esistenza a partire dal presupposto che una delle
condizioni essenziali per la sopravvivenza di un’impresa è rappresentata dalla sua capacità di differenziarsi dalle altre dal punto di vista produttivo, organizzativo e funzionale4.
In virtù di questo assunto le imprese, soprattutto se di grandi dimensioni o finalizzate
alla produzione di innovazione e di know how innovativo, tendono a promuovere e ad attivare azioni di valorizzazione delle competenze presenti all’interno dell’organizzazione
puntando allo sviluppo intrinseco dell’efficienza produttiva e al miglioramento delle condizioni funzionali dell’azienda stessa. I processi di valorizzazione interni alle imprese si
connotano dunque – e la cosa ci appare coerente quanto mai ovvia – come percorsi fortemente autoreferenziali e contingenti, finalizzati alla risoluzione di specifiche esigenze organizzative e strutturali.
L’impresa nell’ambito di questa analisi di sfondo è l’ambito privilegiato di apprendimento non formale e informale: l’analisi di specifici casi in cui le imprese hanno attivato
processi di valorizzazione delle competenze dei propri dipendenti può quindi contribuire
alle riflessioni sul tema della validazione degli apprendimenti non formali e informali e
quindi sul Libretto Formativo quale strumento utile a questo fine. In questa chiave può essere opportuno ribadire la distinzione tra pratiche di valorizzazione interne all’impresa, come quelle illustrate nel presente contributo, e pratiche finalizzate alla trasparenza e alla
portabilità esterna, e per farlo assumiamo una schematizzazione ispirata agli ultimi studi
di Guy Le Boterf in ordine alla condivisibilità sociale della competenza e ai relativi dispositivi5. Tale distinzione, che proponiamo nella tabella 1, sostiene la necessità di distinguere
con chiarezza prima di porre in relazione pratiche di natura diversa ancorché spesso accomunate da linguaggi e metodologie simili.
Fatta questa essenziale premessa, ai fini dell’individuazione delle pratiche da osservare
sono state consultate fonti documentali diverse ma primariamente la letteratura manageriale nazionale riferita agli ultimi cinque anni con un’indagine documentale e bibliografica
tradizionale realizzata nello specifico attingendo a repertori bibliografici, biblioteche,
benchmarking realizzati da community professionali HR, rassegne e riviste di settore, rassegne normative ecc.
Sono state inoltre effettuate ricerche web, per recuperare letteratura grigia e specifica
di settore, aziendale, di ricerca e di divulgazione, attraverso un set di parole/frasi.
È stato infine effettuato un reperimento diretto di documentazione interna. Questa
terza modalità è stata utilizzata proprio per i casi aziendali, spesso non pubblicati ma re4 A. Camuffo, VI Giornata della Formazione
Manageriale ASFOR, formazione manageriale: un
progetto per lo sviluppo del paese, 2008.
160
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
5 Guy Le Boterf, Costruire le competenze individuali e collettive, Guida, Napoli, 2008.
Tabella 1. Valutazione, validazione e certificazione
Valutazione interna
Validazione interna
Validazione esterna
per certificazione
Oggetto
Valutare la competenza
di un individuo
in un contesto
di organizzazione
per misurare la
prestazione o
valutare il potenziale
Riconoscere con un atto
organizzativo che un
soggetto ha acquisito
competenze
corrispondenti
a quelle richieste
Riconoscere che le
competenze validate
dall’interno
dell’organizzazione hanno
un valore in rapporto
a dei riferimenti collettivi
esterni
Referenziale
Referenziale di
competenze interne
all’organizzazione
Referenziale di
competenze e di
validazione interni
all’organizzazione
Referenziale di
certificazione e di
qualificazione esterno
e indipendente dal
particolare contesto
organizzativo
Modalità
In situazione di lavoro
reale o ricostruita
per simulazione
In situazione di lavoro
reale o ricostruito
per simulazione con
il supporto di prove
Analisi dell’esperienza
con il supporto di prove
o dossier
Relazione
con il tempo
Processo continuo per
stimare la progressione,
la sostenibilità delle
competenze e procedere
in conto all’occorrenza
degli avvenimenti
Atto formale circoscritto
nel tempo
Atto formale circoscritto
nel tempo con prospettive
esterne di spendibilità
Istanza
Interna
all’organizzazione
Dispositivo interno
ma negoziato
Esterna
(individuo/collettività)
Attestazione
Nessuna
Attestazione interna
che si può registrare
su un libretto individuale
di competenze
Diploma, certificato o titolo
rilasciato da un’istanza
esterna all’impresa: Stato,
categoria professionale,
istanza contrattuale.
Equivalenza riconosciuta
all’esterno
Validità
Nessuna
Interna
all’organizzazione
Esterna
all’organizzazione.
Adattabilità a un mercato
del lavoro settoriale,
nazionale o internazionale
Osservatorio Isfol n. 2/2011
161
peribili attraverso il diretto coinvolgimento di referenti aziendali, che si sono, nell’ambito
di questa fase della ricerca, prestati a dare indicazioni, documentazione e riferimenti relativi ai contenuti in oggetto.
Al termine di questa analisi sono stati individuati 19 case history di cui si illustrano le
coordinate nella tabella 2. In alcuni casi, ove le informazioni raccolte e utilizzate non fossero in alcun modo pubblicate, si è preferito omettere il nome dell’azienda per tutelarne la
privacy.
Risultati dell’analisi dei case history
Le attività di benchmarking effettuate a livello nazionale e internazionale6 evidenziano
che assistiamo a una diffusione di prassi innovative basate sull’uso del costrutto di competenza come base per l’implementazione di nuovi sistemi di gestione delle risorse umane.
Per quanto le aziende presentino situazioni diverse, emerge che la gran parte collega (considera efficace) la gestione delle competenze a strumenti di gestione delle risorse umane
quali nell’ordine sviluppo e formazione, mappatura dei ruoli organizzativi, selezione in ingresso, valutazione delle prestazioni e pianificazione degli sviluppi di carriera.
Nell’illustrazione dei risultati che segue saranno esaminati quattro diversi aspetti di
analisi:
1. le caratteristiche dei sistemi di competenze nelle aziende e le problematiche per la loro implementazione;
2. la questione dell’individuazione delle competenze, ovvero linguaggi, tassonomie e strumenti;
3. la questione della valutazione;
4. l’utilizzo e l’impatto dei sistemi di competenze sulle funzioni aziendali (selezione, formazione, sviluppo, sistema premiante).
Primo aspetto: costruire e implementare il sistema delle competenze
Tra le aziende analizzate al confronto solo il 54% dispone di un sistema di gestione delle
competenze pienamente funzionante. In gran parte delle altre aziende è in fase di realizzazione o di sperimentazione. Tra quelle che lo utilizzano o lo hanno comunque già parzialmente realizzato, una piccola parte, il 30%, lo ha in essere da più di 5 anni. Il 50% ne
ha cominciato la realizzazione da 3 o 4 anni, gli altri da relativamente poco tempo.
Tuttavia è bene tenere presente che esaminando più in dettaglio i dati, azienda per
azienda, emerge che occorre tener conto anche della capacità di ciascuna di definire un
modello efficace, per cui anche aziende che hanno iniziato da poco a implementarlo si
considerano pienamente operative, e viceversa.
6 Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione,
2007.
162
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
Tabella 2. Case history e fonti
Caso/azienda/progetto
1. Telecom Italia, «Architettura
delle competenze»
2. Chiesi Farmaceutici, «Mercato
e strategie definiscono
le competenze chiave»
3. Azienda di servizi partecipata,
«Integrazione tra competenze
e analisi retributiva»
4. Selex Sistemi Integrati, «L’attenzione
allo sviluppo delle competenze»
5. Banca Mediolanum, «Sviluppo
di competenze e compensation»
6. Gruppo bancario italiano,
«Integrazione tra competenze
e strumenti di gestione»
7. Gruppo Angelini, «La valutazione
delle competenze»
8. Azienda metalmeccanica italiana
ad alta tecnologia, «Modello
delle competenze»
9. Farmaceutica multinazionale, TUBE
«Through Unique Business Evolution»
10. Progetto Equal, «Investing in People –
Un modello di validazione
delle competenze»
11. CRIF, «Allineamento strategico
e adattamento del sistema
di gestione delle competenze»
12. Canon, «Empowerment
e accreditamento professionale»
Fonte
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
Studio Santarsiero, 2008
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
Studio Santarsiero, 2007
<www.zerounoweb.it>, 2005
Studio Santarsiero, 2008
Studio Santarsiero, 2009
<www.equalmacerata.it>, 2007
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
ISFOL, Esperienze di validazione dell’apprendimento non formale e informale in Italia e
in Europa, 2006
(segue)
Osservatorio Isfol n. 2/2011
163
Tabella 2 (segue)
Caso/azienda/progetto
13. Ferrero, «Tradizione e innovazione
nello sviluppo delle competenze»
14. Engelhard, «Competenze e valori»
14. Gucci, «Empowerment
e accreditamento professionale»
15. KPMG Advisory, «Esperienze,
conoscenze e capacità»
16. STMicroelectronics, «Informatizzazione
delle competenze»
17. MECM, «Empowerment
e accreditamento professionale»
18. FIAT Auto, Progetto FIAT
Formazione per occupabilità,
Integrazione formazione-lavoro
Fonte
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
ISFOL, Esperienze di validazione dell’apprendimento non formale e informale in Italia e
in Europa, 2006
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
Benchmarking Study Business International,
Competenze: rilevazione, valutazione e gestione, 2007
ISFOL, Esperienze di validazione dell’apprendimento non formale e informale in Italia e
in Europa, 2006
Pubblicazione a cura di Italia Lavoro e Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali,
2009
Se si considera quale sia la popolazione aziendale interessata, è abbastanza evidente
che in generale le aziende che adottano il modello di gestione delle competenze tendono
ad applicarlo all’intera azienda (esclusa l’alta direzione e, a volte, i dirigenti). Di solito ne
viene limitata l’applicazione ad alcune famiglie professionali solo nelle fasi iniziali.
Tuttavia esistono anche aziende, seppure una minoranza, che lo applicano solo a figure critiche per il successo dell’azienda in presenza di una strategia data.
L’applicazione del sistema ai dirigenti è, in genere, piuttosto limitata e le aziende che lo
fanno su tutti i dirigenti sono una minoranza, numericamente uguale a quelle che hanno
deciso di non coinvolgere queste figure nel sistema delle competenze. Le altre, o applicano
il sistema solo a famiglie di ruoli, o a competenze critiche per l’azienda. Altre stanno valutando o hanno in progetto l’estensione. Da notare che il sistema è molto più diffuso per i
quadri (applicato a tutti o a intere famiglie professionali), e quasi in egual misura agli impiegati, mentre pochissime aziende lo applicano agli operai.
La gran parte delle aziende gestisce il modello attraverso sistemi informatici, nella
grande maggioranza dei casi sviluppati ad hoc o fortemente personalizzati. Si tratta d’al-
164
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
Figura 1. Popolazione aziendale interessata al sistema
Funzione
strategica
8%
Singola famiglia
professionale
0%
Alcune famiglie
professionali
23%
Tutta l'azienda
69%
Figura 2. Supporti informatici utilizzati
Piattaforma
standard
0%
Piattaforma standard
Non supportato
personalizzata
da informatica
11,1%
11,1%
Piattaforma con sviluppo
di procedure specifiche
22,2%
Applicazione
realizzata ad hoc
55,6%
tronde di realtà in cui l’applicazione alla popolazione aziendale è limitata e che, dovendo
gestire piccoli numeri, possono farlo manualmente.
Quando ai protagonisti della gestione del modello, ovvero i referenti della funzione risorse umane, viene chiesto di esprimersi sulle difficoltà incontrate, la preoccupazione di
gran lunga prevalente riguarda la complessità e l’onerosità della gestione. Solo in secondo
piano appaiono aspetti quali la sensibilizzazione degli interlocutori coinvolti o l’integrazione con gli altri strumenti gestionali delle risorse umane.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
165
In dettaglio, tra le difficoltà emerse dai referenti risorse umane, vi sono le seguenti:
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recuperare tutte le competenze presenti in azienda;
numerosità della popolazione e complessità/diversificazione dei mestieri;
mappatura dei ruoli;
integrazione con altri strumenti di gestione delle risorse umane;
allineamento al modello scelto come comune da parte di tutte le realtà del gruppo;
adattare le specificità della struttura mantenendo la coerenza e la funzionalità del modello;
garantire un coinvolgimento costante del management aziendale;
processo di utilizzo poco efficiente, necessità di integrazione con le altre funzioni HR;
tempi per condividere la piattaforma professionale e i contenuti delle competenze con
i vari responsabili;
difficoltà nel conciliare precisione e ricchezza delle informazioni con la fruibilità del
modello;
aggiornamento nel lungo periodo;
sviluppare una cultura sulla gestione delle competenze;
per la fase di mappatura: tempistica (realizzarla velocemente);
in fase di valutazione: la definizione delle priorità di sviluppo / modalità di valutazione;
decidere se valutare le competenze nello stesso momento in cui si effettua la valutazione della prestazione o se prevedere un momento ad hoc;
in fase di gestione: l’onerosità dell’aggiornamento;
integrazione delle informazioni provenienti dai sistemi di gestione e informatizzazione
del tutto;
linguaggio comune;
definizione dei ruoli organizzativi / mansioni comuni;
valutare l’impatto che l’utilizzo di questi strumenti genera sul business;
implementare progressivamente il sistema integrando i diversi processi HR in modo da
aumentare l’efficacia dello strumento.
Se si considerano invece le criticità segnalate dai fruitori, i criteri generali sono confermati; sono prevalenti le considerazioni sulle difficoltà di applicazione (a vario titolo) e sullo
scarso collegamento con le leve gestionali. Altre criticità minori (ripetizione dei contenuti
dopo qualche ciclo, incompletezza del censimento, soggettività della valutazione) possono
in generale essere riferite a una percezione che, in fondo, vede il sistema come un momento burocratico voluto dalla funzione risorse umane.
Tra le criticità segnalate dai fruitori si possono elencare:
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166
non facilmente fruibile;
tempi per metabolizzare il sistema;
soggettività della valutazione;
difficoltà nel gestire i contenuti;
omogeneità di linguaggi;
mancanza di collegamento con sistema premiante;
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
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confusione con l’inquadramento del CCNL;
formazione;
assenza di alcuni sottogruppi identificati di ruoli professionali;
ripetizione dei contenuti dopo qualche ciclo di valutazione;
non sono mai esaustivi;
iniziale carenza di un collegamento sistematico con l’offerta di training interno;
legami non chiari con le altre leve di gestione delle performance e con quelle di sviluppo;
• non collegato con retribuzione;
• assenza di una corrispondenza esplicita con i livelli gerarchici.
Secondo aspetto: individuare le competenze
La gran parte dei processi considerati, primo tra tutti la mappatura dei ruoli organizzativi,
prevede l’individuazione delle competenze collegate a ciascun ruolo. A questo proposito risulta interessante una panoramica delle definizioni di competenza utilizzate dalle aziende
considerate. La tabella 3 ne riporta alcune, estratte proprio dalla lettura della documentazione in nostro possesso.
Alla pluralità delle definizioni corrisponde tuttavia una certa convergenza nelle tassonomie utilizzate e nella metodologia di individuazione.
Ad esempio nel processo di mappatura è prassi frequente organizzare l’osservazione e
la descrizione per descrittori aggregati in un numero limitato (circa 10) poiché ciò consente di considerare gli aspetti critici e di generare sistemi leggeri e facilmente gestibili. In
questo senso i descrittori identificati nelle azioni di mappatura sono frequentemente stratificati in tre livelli di progressiva tipizzazione:
• Competenze core di azienda: limitate a cinque o meno, sono i comportamenti essenziali per ottimizzare le performance dell’azienda nel proprio contesto competitivo che generano il massimo valore aggiunto per i clienti. Sono valide per tutte le aree aziendali.
Tra di esse si possono includere generalmente la passione e la ricerca dell’eccellenza,
l’attenzione al lavoro di gruppo, l’attenzione al cliente.
• Competenze comuni alla famiglia professionale: generalmente da tre a cinque, identificano comportamenti comuni a una famiglia professionale, quali l’attenzione alla qualità, la disponibilità all’ascolto, l’intelligenza emotiva.
• Competenze specifiche di ruolo: identificano i comportamenti specifici di un ruolo all’interno di una famiglia professionale.
Dal punto di vista metodologico i criteri7 dichiarati come determinanti per l’individuazione
delle competenze sono nell’ordine:
7 Questi quattro criteri sono i più diffusi e presenti nei modelli per l’individuazione delle competenze. Si veda Benchmarking Study Business In-
ternational, Competenze: rilevazione, valutazione
e gestione, 2007.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
167
Tabella 3. Definizioni di competenza utilizzate dalle aziende
Competenze tecniche: l’insieme delle conoscenze ed esperienze professionali rilevanti relative a prodotti, strumenti, processi e mercati che una persona possiede e applica nello
svolgimento del proprio lavoro.
Competenze comportamentali: una serie di comportamenti agiti attraverso i quali si raggiungono certi risultati.
Il modello delle competenze è così composto:
1. Esperienza: tutti i progetti su cui un professional ha lavorato.
2. Capacità comportamentali: competenze distintive per ciascuna qualifica derivanti dalla Performance Review annuale.
3. Conoscenze (Funzionali, Industry, IT, Lingue Straniere): conoscenze tecnico-applicative
con il relativo grado di approfondimento.
È l’insieme delle conoscenze e delle abilità che derivano dallo studio e dall’esperienza, applicate nell’ambito lavorativo.
Insieme integrato di risorse che consentono al soggetto di interagire efficacemente con il
contesto in cui è inserito, raggiungendo i propri obiettivi e/o assicurando i risultati che gli
sono di volta in volta richiesti.
È l’insieme delle conoscenze, capacità e atteggiamenti che permettono la realizzazione di
una determinata performance.
È l’insieme di conoscenze e capacità (tecnico-professionali e manageriali) che producono
output professionali.
L’insieme di conoscenze tecnico-specialistiche e capacità necessarie per raggiungere i risultati richiesti ai diversi ruoli organizzativi.
Conoscenza: sapere ed esperienza di natura professionale acquisibili con lo studio e l’attività pratica.
Capacità: comportamenti organizzativi che possono essere descritti e riconosciuti quando
vengono messi in atto dalle persone.
È una caratteristica personale casualmente correlata a prestazioni efficaci e superiori.
L’insieme di conoscenze, skills, behaviors, attitudes, values legati al business success.
•
•
•
•
le prospettive del business e le strategie competitive;
ruoli e job descriptions;
i processi aziendali;
i best performers.
Per quanto riguarda le modalità di identificazione delle competenze, una volta definiti i
criteri, si è esaminato l’ordine di prevalenza degli strumenti utilizzati che è il seguente:
168
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
•
•
•
•
•
•
•
interviste;
consulenza esperti esterni;
focus group o workshop;
analisi repertori competenze esistenti;
questionari;
analisi di incidenti critici;
analisi di successi.
In generale la metodologia originale di definizione di competenze distintive (quella degli
incidenti critici) risulta tra le meno utilizzate nella realtà, e praticamente tutte le aziende
privilegiano strumenti meno impegnativi come risorse assorbite.
Considerando i ruoli coinvolti nel processo di mappatura, risultano attive ovviamente
le persone della funzione risorse umane, e quasi nella stessa misura il middle management. Hanno un ruolo secondario, in pratica nella stessa misura, il top management e i
consulenti.
Se invece osserviamo le tipologie di competenze declinate nei diversi modelli in esito
alla mappatura, emerge che tutte vi inseriscono competenze funzionali tecnico-specialistiche (ovvero tecnico-professionali). Quasi tutte considerano anche le competenze trasversali, mentre solo poco più della metà declinano competenze specifiche di business
(evidentemente determinate da strategia, settore operativo, livello e caratteristiche della
competizione). Le competenze gestionali, di general management, sono invece utilizzate
da un numero di poco superiore alla metà del campione considerato. Questo dato non stupisce se si considera che molte aziende non applicano il modello ai dirigenti, per i quali le
competenze manageriali sono essenziali.
Analizzando il peso delle diverse tipologie per le singole figure, per i dirigenti prevalgono le competenze trasversali, quelle che si possono definire di integrazione tra le varie
componenti dell’azienda. Ovviamente immediatamente dopo si collocano le competenze di
general management (stimolo allo sviluppo delle persone, gestione delle persone ecc.). Per
i commerciali prevalgono le competenze trasversali, seguite però da quelle specifiche di
business. Per i tecnici sono poste in primo piano le specifiche di business (quelle a maggior
componente, appunto, «tecnica»), mentre per le posizioni di staff tornano a essere essenziali quelle trasversali, seguite da quelle più specificatamente funzionali.
Figura 3. Tipologie di competenze declinate nei modelli
Funzionali
tecnico-specialistiche
Trasversali
Specifiche di business
General management
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
Osservatorio Isfol n. 2/2011
100%
169
Figura 4. Peso delle diverse competenze per figure professionali
100%
75%
50%
25%
0%
Manager
Specifiche di business
Commerciali
Trasversali
Tecnici
Funzionali
Staff
General management
Terzo aspetto: valutare le competenze
Per la valutazione delle competenze le aziende analizzate nei casi aziendali utilizzano molteplici strumenti, tra i quali valutazione della prestazione, autovalutazioni validate dalla gerarchia, interviste e colloqui, assessment center, sono tra quelli più utilizzati. La quantità di
strumenti utilizzati in sinergia è molto variabile e va da un minimo di uno (test e work sample in un caso), fino a un massimo di nove:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
valutazione della prestazione;
autovalutazioni validate dalla linea;
interviste a colloqui;
assessment center;
schede di valutazione della linea;
test e work sample;
valutazione a 360°;
esercizi «in tray» e «in basket»;
questionari di comportamento;
esercizi e dinamiche di gruppo;
role playing individuali.
I responsabili diretti sono quasi sempre coinvolti nella valutazione, prevalentemente attraverso la compilazione di schede di valutazione o attraverso la convalida delle autovaluta170
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
Figura 5. Modalità del feedback sulla valutazione
Individui
e funzione RU
10%
Funzione RU
e capo diretto
10%
Individui,
funzione RU
capo diretto
80%
zioni dei loro collaboratori. Nella stragrande maggioranza dei casi viene effettuata preventivamente una formazione ai valutatori. Nel 40% dei casi il responsabile diretto non partecipa alla restituzione del feedback ai valutati. Nella maggioranza dei casi viene restituito un feedback sugli esiti correttamente indirizzato a tutte le figure coinvolte (individui,
funzione RU, capo diretto), il 10% non eroga alcun feedback al dipendente e in un numero
eguale di situazioni non viene dato al capo diretto.
Nei casi in cui ai valutati venga dato il feedback è sempre previsto un colloquio e nella
maggior parte dei casi anche la possibilità di accesso alla valutazione attraverso i sistemi
aziendali o su carta.
Quando viene dato alla funzione RU ciò avviene tramite supporti cartacei oppure on
line, nel 60% dei casi accompagnati da un colloquio. Ai capi, nel 45% dei casi attraverso
un colloquio, accompagnato o meno da supporti di qualche tipo. Negli altri casi l’informazione viene inviata su carta o è accessibile on line. Nel 40% dei casi il responsabile diretto
non partecipa alla restituzione del feedback ai valutati.
Quarto aspetto: utilizzare il sistema
Il sistema di competenze in azienda nella gran parte dei casi è utilizzato per gestire processi di selezione, valutazione delle performance, programmi di sviluppo e formazione, sistemi di compensation.
Una leggera maggioranza tra le aziende considerate gestisce in modo integrato i processi di valutazione delle competenze e delle performance. La valutazione delle performance è sempre fatta dal responsabile diretto, in qualche caso a partire da un’autovalutazione, in altri col supporto di una valutazione di colleghi o interfacce del valutato. Nelle
aziende coinvolte non viene usata a questo proposito la valutazione a 360°, né ci sono
contributi da parte dei collaboratori del valutato. Mediamente il capo diretto vede impe-
Osservatorio Isfol n. 2/2011
171
gnata nella valutazione di ciascun collaboratore un’ora nel 50% dei casi, oltre le due ore in
un terzo dei casi.
Il 50% delle aziende considerate non utilizza il sistema delle competenze per indirizzare il processo di selezione, mentre lo fa sempre il 40%, e il restante 10% solo per le figure
di alto profilo.
Le motivazioni, per l’utilizzo delle competenze nel processo di sviluppo, che raccolgono
più consenso sono quelle maggiormente rivolte alla «soggettività», come responsabilizzare
le persone al miglioramento, stimolare la consapevolezza dell’individuo. Tuttavia ne sono
presenti anche altre più legate a strumenti gestionali come il definire piani e azioni di sviluppo, identificare gap collettivi/fabbisogni di formazione, definire percorsi di carriera.
Solo in pochissimi casi si considera che le competenze possano essere legate alla gestione delle politiche di compensation.
Solo in pochissimi casi, e in situazioni che potremmo definire esogene, ossia legate a
problematiche legate a fenomeni di riorganizzazione, di riposizionamento strategico, che
produce obsolescenza professionale, il modello di competenza è utilizzato anche in percorsi di uscita.
Come emerge dalla figura 6, il legame con le politiche di compensation non risulta tra
le motivazioni frequentemente addotte dalle aziende per lo sviluppo delle competenze, ma
a una domanda specifica il 50% delle aziende gestisce un collegamento tra il profilo di
competenze e il sistema di retribuzione. Sono tuttavia evidenziate una serie di difficoltà,
seppure da un numero limitato di aziende, prevalentemente legate ai rischi di non trasparenza o di difficile equilibrio tra valutazioni quantitative sulle performance e quelle qualitative sulle competenze. Quello che viene sottolineato in questo caso è il rischio che il bilanciamento tra le due metta in secondo piano aspetti importanti ai fini dell’indirizzo ai risultati dell’azione delle persone.
In dettaglio: se una valutazione delle competenze direttamente legata al sistema premiante può inficiare l’oggettività della valutazione stessa, la mancanza di un collegamen-
Figura 6. Utilizzo in sviluppo del profilo di competenze
Responsabilizzare al miglioramento
Stimolare consapevolezza individuo
Definire piani e azioni di sviluppo
Identificare gap collettivi/
fabbisogni di formazione
Definire percorsi di carriera
Gestire la politica delle ricompense
0%
50%
Manager
172
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
Quadri non manager
100%
Impiegati
Figura 7. Difficoltà nell’integrazione con il sistema di compenso
Rischio di valutazione
non oggettivo / non trasparente
Peso rispetto ai risultati quantitativi
Confusione con le qualifiche CCNL
Enfasi sulla performance
di breve periodo
0%
20%
40%
60%
80%
100%
to esplicito provoca una diffusa percezione di scarsa trasparenza del sistema premiante.
Un legame troppo «algoritmico» tra le due valutazioni rischia di non tener conto di alcuni
aspetti che caratterizzano il valore della persona, e di porre troppa enfasi sulla performance di breve periodo. Altri sottolineano il rischio di una perdita di coerenza fra i diversi livelli di expertise. Altri ancora il rischio di un’eccessiva soggettività nel legame fra competenze agite e risultati quantitativi.
Conclusioni: SWOT analisys
Dalle evidenze raccolte possiamo trarre alcune osservazioni conclusive e introdurre alcune
piste di lavoro tramite l’analisi SWOT che le sintetizza (tabella 4).
Dovendo infine disegnare una prospettiva di lavoro, possiamo identificare tre sfide fondamentali che vanno affrontate oggi in direzione di una possibile sinergia tra pratiche
aziendali e strumenti pubblici di trasparenza delle competenze:
1. rendere compatibili le finalità e gli interessi;
2. condividere le codifiche e i linguaggi;
3. garantire la sostenibilità economica.
La prima questione chiama in causa la doverosa distinzione tra istanze differenti che sono
proprie dell’intervento aziendale da un lato e dell’intervento di supporto all’individuo dall’altro. Il Libretto Formativo è di per sé uno strumento prioritariamente destinato sostenere l’individuo nella sua «navigazione» formativa e professionale, ma possiede l’indubbia natura di veicolo informativo per imprese e servizi. È quindi questo un caso in cui la negoziazione tra interessi diversi, seppur non necessariamente contrapposti e praticata in un contesto apparentemente tecnico (ovvero non tradizionalmente «contrattuale»), riveste un
ruolo importante sia in una dimensione sistemica (esigenza di norme e dispositivi con
chiarezza dei ruoli), sia in una dimensione concreta e contestuale ovvero legata alle specifiche iniziative. Ed è proprio alla costruzione di questo ingranaggio di interessi che sono leOsservatorio Isfol n. 2/2011
173
Tabella 4. Analisi SWOT su possibile sinergia tra pratiche aziendali e strumenti pubblici
di trasparenza delle competenze (Libretto Formativo)
Punti di debolezza
Punti di forza
• I descrittivi utilizzate dalle aziende
sono contestuali e distintivi
e le competenze trattate sono
normalmente poco trasferibili
• L’apprendimento dell’individuo
in azienda è spesso subordinato
alle priorità di impresa e frutto
di una non adeguata negoziazione
• I criteri di valutazione e gli
indicatori di competenza sono
definiti da ciascuna azienda
e, pertanto, variano in misura
consistente da un’azienda all’altra
• Possibile confusione con quanto
previsto nel CCNL
• Si segnalano problemi di onerosità
del processo e scarsa coordinazione
con l’intera organizzazione
• Diffondersi del costrutto di competenza
nelle imprese come nei sistemi formativi
e del lavoro e sostanziale movimento
di convergenza sui linguaggi
• Progressivo accrescimento della
consapevolezza e trasparenza dei
processi di apprendimento organizzativo
• Oggettivo fabbisogno copertura
conoscitiva del patrimonio di competenze
interno all’azienda e, in particolare,
di sottogruppi di dipendenti non gestiti
secondo un sistema di gestione
delle competenze
• Affermazione dei protocolli
informatizzati per la gestione
delle informazioni
Minacce
Opportunità
• Resistenza all’utilizzo del dispositivo
perché gli standard sono propri
dell’azienda che ha contribuito
a gran parte della realizzazione
del progetto, e possono comportare
informazioni di natura riservata
o possono non essere destinati
a essere divulgati in quanto propri
dell’organizzazione del lavoro,
delle mansioni ecc.
• Resistenza all’utilizzo del dispositivo
per costi e tempi previsti di gestione
in assenza di risorse dedicate
non aziendali
• Resistenza all’utilizzo del dispositivo
per non omogeneità di indicatori
e metriche tra repertori, standard
professionali e propri modelli aziendali
• Esigenza di valorizzazione del ruolo
formativo dell’impresa verso
una possibile certificazione
di competenze nel quadro pubblico
delle qualificazioni professionali
• Esigenza di miglioramento dei servizi
svolti dai Centri per l’Impiego a causa
di una migliore leggibilità
e comunicabilità dei fabbisogni
• Spinte per un migliore accesso
delle imprese alla formazione finanziata
• Crescente mobilità dei lavoratori
e conseguente bisogno di strumenti
di sostegno
174
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
gati il riconoscimento e la valorizzazione del ruolo formativo dell’impresa che si affianca e
si integra con i sistemi istituzionali di formazione e istruzione. Questo punto vede coinvolti in prima persona i rappresentanti di imprese e lavoratori ai vari livelli e alcune buone
pratiche già in esercizio in Italia dimostrano la possibilità effettiva di stabilire interventi di
questo tipo che tengano insieme, senza peraltro confonderle, esigenze di natura organizzativa con benefici diretti per l’individuo.
Il secondo problema, quello della condivisione di codici e linguaggi, potrebbe apparire
il più semplice da affrontare ma ha invece una sua complessità scivolosa testimoniata dal
lungo e a tratti intestricabile dibattito sul tema degli standard delle competenze nel nostro
paese così come in sede comunitaria. È innegabile che la forma stessa in cui le competenze sono espresse ha una fortissima attinenza con il contesto specifico di riferimento, che
per un’azienda è il suo concreto ambiente organizzativo e operativo mentre per un sistema
paese è un’astratta, simbolica rappresentazione di forme e valori collettivi del lavoro e dei
saperi. Emerge inoltre in più punti dell’analisi appena illustrata il problema della confusione tra le descrizioni dei sistemi di competenze e quelle presenti nei contratti collettivi di
lavoro. In Europa, sul versante dei sistemi di qualificazione, vista l’impossibilità di trovare
un dizionario comune, si è scelta la strada della trasparenza e della referenziazione reciproca di dizionari e linguaggi differenti (EFQ)8. In Italia invece si osservano segnali di convergenza spontanea tra codici e linguaggi propri delle imprese (e in questa analisi ve n’è
testimonianza), sistemi formativi e sistemi lavoro, ma tuttavia si è ancora lontani da un dizionario comune che consentirebbe il grandissimo vantaggio di poter trascrivere su un Libretto Formativo in una forma consensuale informazioni leggibili e riconoscibili da una
molteplicità di attori, compresa magari la stessa impresa dove quegli apprendimenti sono
stati maturati pur nella loro sostanza contestuale.
Il terzo problema, ovvero quello di rendere economicamente e socialmente convenienti pratiche sinergiche di valorizzazione dei saperi di impresa con strumenti di trasparenza
per gli individui, è il piano sul quale si gioca una vera e propria sfida, soprattutto date le
critiche contingenze attuali entro le quali il fabbisogno di servizi di supporto all’occupabilità delle persone e alla competitività delle imprese è accompagnato da una decisa scarsità di risorse. In più punti dell’indagine appena illustrata le imprese segnalano la criticità di
un eccessivo peso di questi interventi sia sui costi sia sull’operatività del personale e quindi sulla produttività. Da questo punto di vista si può dire che il processo di applicazione del
Libretto è concepito in modo snello e flessibile in modo da assicurare la qualità del risultato ma da evitare un’eccessiva onerosità; queste qualità andrebbero forse meglio testate in
oggettive condizioni di scarsità di tempo e risorse per verificare se i risultati si mantengono accettabili.
In conclusione di questo primo stadio di approfondimento, si può riaffermare che il Libretto Formativo del Cittadino rappresenta oggi uno strumento ricco di potenzialità in quanto
elemento nazionale e istituzionale coerente con le indicazioni della Commissione europea
8 ISFOL, Verso l’European Qualification Framework. Il dibattito comunitario su trasparenza, mobilità e riconoscimento delle qualifiche e delle
competenze, Roma, 2009 (I libri del Fondo Sociale
Europeo).
Osservatorio Isfol n. 2/2011
175
riguardanti la trasparenza e la leggibilità delle competenze, «comunque acquisite». Sulla
falsariga di questo strumento la Commissione europea sta peraltro consultando i paesi
proprio in queste settimane su una proposta di European Skill Passport, proposta del tutto
analoga come impostazione al Libretto. I possibili vantaggi per l’impresa nel meccanismo
di utilizzo del Libretto potrebbero essere diversi ma in gran parte legati alla presenza di
specifiche condizioni di sistema tra le quali prioritariamente la connessione dello strumento a sistemi istituzionali di riferimento per la registrazione ed eventualmente la validazione e certificazione delle informazioni contenute nel Libretto e particolarmente delle competenze. Si può dunque affermare che la questione di disporre di riferimenti comuni e condivisi, anche per il mondo delle imprese, sulle competenze da trascrivere, validare, certificare si pone decisamente al centro di una comune riflessione sui margini di miglioramento dell’attuale dispositivo.
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degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio relative ai principi comuni europei concernenti l’individuazione e la convalida dell’apprendimento non formale ed informale, Bruxelles, 18/05/2004 (9175/04 EDUC 101 SOC 220).
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176
Il Libretto Formativo nei contesti aziendali
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Legge n. 30 del febbraio 2003, Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del
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parti sociali, 17 febbraio 2010.
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Winterton J. et alii, Typologies of Knowledge, Skills and Competences: Clarification of the
Concept and Prototype, Publications Office, Luxembourg, 2006.
Per citare questo articolo: Elisabetta Perulli, Il Libretto Formativo nei contesti aziendali,
«Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 157-177.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
177
L’identità dell’impresa
sociale
Le istanze dei destinatari
nel mandato sussidiario
di Cristiana Ranieri
Riassunto: la rappresentazione del fenomeno di imprenditorialità sociale nel sistema di
welfare è colma di interessi e di differenti comprensioni, si confronta fortemente con un
sistema di interventi in evoluzione dal punto di vista delle identità, delle competenze, con
profili di svantaggio non più definibili solo con le tradizionali categorie di gruppi target di
tipo settoriale. Dalle ricerche realizzate nel corso di un decennio di attività istituzionale
cofinanziata dal FSE (ISFOL - Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali), unitamente a
confronti con altri ambiti di conoscenza, è possibile circoscrivere elementi (di efficacia e di
criticità) di diretta pertinenza con l’implementazione e la promozione di strategie e indirizzi nazionali ed europei a livello decentrato per contrastare l’esclusione sociale di fasce deboli di popolazione. L’osservazione di campo, nelle aree del paese, ha consegnato alla riflessione teorico-applicativa alcune dimensioni particolarmente sensibili: l’attività negoziale tra PA e Terzo Settore contiene in sé snodi di congiunzione da mettere a fuoco in entrambi i sistemi. Appare, inoltre, opportuno che le conoscenze specializzate e sedimentate
nel corso degli anni si prestino a una formulazione sistemica all’interno di «gruppi eterogenei di attori». Un punto focale è rappresentato da un elemento di innovatività derivante
dall’utilizzo delle clausole sociali nel sistema degli appalti (Direttive europee 17 e 18 del
2004, trasfuse nel Codice degli Appalti 163/06) e introdotto non omogeneamente nel territorio nazionale. Si rileva che a fronte dell’apertura a nuove economie di mercato (riservato in deroga di concorrenza) vi siano elementi squisitamente tecnici che insistono nell’ordine della qualità. La tesi presentata intende sostenere che tale qualità attesa rappresenti
anche la tenuta del principio di sussidiarietà dei soggetti non profit nella governance delle politiche.
Parole chiave: Non profit; Profili di svantaggio; Sussidiarietà; Welfare
Osservatorio Isfol n. 2/2011
179
Identità, identificazione e matrici (e forma mentis)
Che lo spazio del territorio condensi funzioni e ruoli che concorrono alla soddisfazione dei
bisogni a livello locale e al benessere della comunità può rappresentare un dato di partenza. In esso, in questo spazio, diversi sono i soggetti chiamati a collaborare, con una responsabilità più o meno formalizzata. Nell’accezione di sussidiarietà è espresso un richiamo all’agire sia da fonti legislative di regolazione che da principi sistemico-operativi.
La rappresentazione e la composizione della domanda di (azioni per la realizzazione di)
inclusione e coesione sociale si impregnano di evoluzioni socio-culturali, operative e politiche rispetto alle quali la centralità dell’approccio alla persona non è sempre posto a piena comprensione delle scelte di governance complessiva, nell’identità e nella collocazione
giuridica del sistema sussidiario delle responsabilità. Il profilo argomentativo attinge temi
dalla ratio degli articolati normativi e dalle policy di sostegno alle progettualità dell’economia sociale contestualmente alla scesa in campo dei profili sistemico-operativi, toccando aspetti che riguardano in modo generale le strategie messe in atto per il potenziamento delle opportunità di accesso a percorsi inclusivi di fasce di popolazione «svantaggiata».
Nella relazione tra le competenze normative delle istituzioni e il sottofondo di molti fenomeni sociali si confrontano posizioni teoriche e forma dei fenomeni, complessità e conoscenze da tradurre e collocare tanto nelle pratiche politiche quanto in quelle operative,
oltreché nel proprio lessico disciplinare e professionale. Vale la pena di entrare in tali concezioni per identificare una mappa concettuale, per praticare riflessione (Ranieri, 2009).
Questo alla luce di complessi sistemi valoriali che esitano ad affermarsi tra le connessioni
territoriali, che sembrano rappresentare ancora elementi di relativa indeterminatezza.
Sorprendente è l’ampia gamma di interlocutori che intervengono nell’ambito dei dibattiti sulla materia del Terzo Settore, sulla sua evoluzione quantitativa e imprenditoriale, dove
sempre più spesso emergono visualizzazioni non conseguenti, proprietà valoriali (di tali organizzazioni) e contemporaneamente i problemi circa la sottocapitalizzazione e la finanza;
vengono espresse e discusse diffidenze per un modello di organizzazione imprenditoriale
con scopi sociali in organizzazioni il cui impianto originario rappresenta per gli operatori un
forte legame con l’idea solidaristica intrapresa alla base, e un timore diffuso verso le formalizzazioni amministrative che comporterebbe l’imprenditorializzazione, per l’accentuata attenzione ai risultati economici ritenuti non compatibili con gli obiettivi della loro struttura.
La forte diversificazione di tali approcci necessita di maggiori informazioni, più trasparenza, studi e approfondimenti, in supporto anche alle realtà di minori dimensioni. Servirebbe osservare le asimmetrie comunicative in termini di atteggiamenti, di linguaggio (di
forma mentis) degli approcci stessi, per una loro possibile traduzione e risonanza di senso
in differenti registri di realtà (come ad esempio l’astrazione giuridica o la voce diretta dei
destinatari, persone).
L’intento analitico di questo contributo è allora quello di posizionarsi in una zona di incomprensione, e dimostrare che la permanenza della natura dell’imprenditorialità sociale è
data nel rapporto costante tra transizioni di welfare ed evoluzioni della domanda. E che
questo rapporto possa costituire un codice di riferimento tanto per i soggetti istituzionali
che per quelli del non profit che intendono verificare aspetti di mercato per potenziare
l’accesso a opportunità inclusive.
180
L’identità dell’impresa sociale
Attorno a questa trama, ci sarebbero da raccogliere anche non poche riflessioni per rinnovare la lettura della vita sociale contemporanea e la vicenda della modernità: un dato di
base è che uno sforzo che accompagna questa «vicenda» è quello di costruire un equilibrio
tra autonomia individuale, coesione sociale, identità collettiva ed efficienza sistemica.
Se «uno degli elementi cruciali del tempo in cui viviamo è la crisi della transazione tra
istituzioni e individui» e un rischio è quello che funzioni regolative siano svuotate di riferimenti etico-valoriali, ricomporre la vita individuale con quella collettiva è rappresentato da
taluni come ricerca dell’autenticità (Ferrara, 1999), quale enucleazione del principio sociale
in relazione con la concreta dinamica dei contesti intersoggettivi. Tra la sfera soggettiva e il
versante della regolazione istituzionale, inoltre, va colto il nesso tra l’idea di società civile e
quella di partecipazione, come cura del bene comune, che raggiunge un grado di differenziazione in rapporto alla forma organizzata. Questo nesso ha alla base la concezione di persona
capace di azione. Secondo approcci sociologici ed economici è qui, nella sua diversa emanazione/costellazione, che vanno collocate le organizzazioni non profit: «organizzazioni che
non si distinguono tanto per il settore di attività che svolgono, quanto piuttosto per la loro
configurazione giuridico-organizzativa, che permette di mantenere una natura ibrida, da un
lato inserita dentro la logica di una sfera istituzionalizzata e dall’altro radicata nei mondi sociali intersoggettivi per concorrere alla costruzione di nuovi equilibri» (Magatti, 2005). Sarebbe un errore dare per scontate le condizioni che possono rendere attuale una tale possibilità.
Questa premessa non intende ragionare sullo studio dei principi, quanto su passaggi di
merito – sull’applicazione del sistema di conoscenze – che portano ancora oggi a interrogarsi sulle funzioni e sulla natura delle organizzazioni non profit e anche se il loro «status
giuridico» ne esaudisca appieno il riconoscimento strategico e, quindi, di propulsione continua di innovazione.
Nel corso degli anni, le attenzioni e gli interessi principali che si sono sviluppati circa i
modelli organizzativi e gestionali delle organizzazioni di Terzo Settore sono stati volti a legittimare lo sviluppo di un settore non profit di tipo produttivo che preserva la propria peculiarità nel concorrere a un disegno di riforma del sistema di welfare basato sulla centralità dei bisogni individuali e collettivi di benessere e tutela sociale.
Nelle caratteristiche che connotano la genesi propria delle imprese sociali, va considerato che dalle prime esperienze messe su da un gruppo di persone che si associavano con
l’idea di «cambiare le cose» a partire da una cultura dei diritti1, fino alla forte crescita che
ha contraddistinto il fenomeno nell’ultimo decennio in termini di organizzazioni, di dimensioni organizzative, di impegno, vari sono gli aspetti che sono cambiati. I soggetti partecipanti si sono confrontati: qualcuno valorizzando la traduzione imprenditoriale dell’idea,
qualcun altro l’aspetto politico, associativo e culturale, altri cercando con fatica di coniugarli entrambi, sia all’interno dell’organizzazione che nelle relazioni con l’esterno. Data la
natura di origine «dal basso»2 delle organizzazioni di economia sociale, non sorprende che
1
Si pensi concretamente, ad esempio, alla
scesa in campo di associazionismo di volontariato,
di familiari e utenti e di cooperative sociali negli
anni di deospedalizzazione psichiatrica (cosiddetta riforma Basaglia).
2
Nel confronto con i modelli teorici, si è ritenuto di indagare nella storia costitutiva delle organizzazioni di economia sociale chi ne siano stati i promotori e fondatori per approfondire la natura delle scelte associative e per comprendere le
Osservatorio Isfol n. 2/2011
181
a fronte di concetti esplicitati riferiti fondamentalmente a dimensioni gestionali-organizzative (e amministrative), ovvero ad attività sociali gestite con criteri imprenditoriali di efficacia ed efficienza definiti, sia possibile riscontrare la presenza di indicatori in senso imprenditoriale la cui applicazione sia ancora limitata e non del tutto consapevole in termini
operativi e costanti. E seppure grande impulso è dato dalla qualificazione e professionalizzazione del lavoro sociale (sia nei ruoli manageriali che nella produzione di servizi) e nonostante la sostenuta produzione normativa e regolatoria3, si sia di fronte a una galassia non
ancora pienamente rappresentata in termini «misurabili».
In definitiva, l’approccio analitico verifica nel suo insieme elementi di riscontro sulla
questione delle identità e delle sue matrici nel campo di osservazione che tocca sia i temi
legati alla natura e al funzionamento delle imprese sociali4 che quelli connessi alle politiche regolative e promozionali.
Come dati di scenario, ricerche istituzionali cofinanziate con FSE, realizzate nel corso di
questi ultimi dieci anni5, permettono un ragionamento sulla relazione tra sviluppo del fenomeno di imprenditorialità sociale, identificazione giuridica e concorso all’implementazione di innovazione nell’ambito delle strategie di inclusione sociale di soggetti a rischio di
esclusione. In tali lavori, la conoscenza del fenomeno era volta ad accompagnare transizioni di sistema di welfare (tra essi l’integrazione tra politiche sociali e del lavoro nell’ambito
della riforma del sistema integrato dei servizi e delle prestazioni sociali, di cui alla legge
quadro 328/2000).
Al fine di osservare i comportamenti del Terzo Settore, nelle evoluzioni imprenditoriali
del fenomeno quantitativo, si sono svolte due analisi di ricostruzione di esso nel nostro paese, utilizzando importanti riferimenti definitori: nella prima, variabili proxy degli indicatori
economici e sociali proposti dal modello teorico europeo per l’economia sociale (rete EMES)6
motivazioni che hanno portato alla creazione di
un’impresa sociale. Dall’indagine campionaria
condotta (ISFOL 2001-2003) risulta che quasi il
70% delle organizzazioni sia sorto per iniziativa di
un singolo o per iniziativa di un gruppo di cittadini; cfr. De Rita, Ranieri (2004).
3 Negli altri paesi europei, dal punto di vista
della diversificazione delle forme di definizione,
non vi sono analoghe esperienze. Per approfondire
cfr. Giorio (2005).
4 È opportuno specificare che con tale termine
non ci si riferisce in senso stretto alla Disciplina
dell’Impresa sociale (155/2006). È inoltre utile
considerare nel complesso che vi sono – a fronte
di rimandi testualmente collegati a leggi dedicate
come ad esempio cooperazione sociale (l. n. 381/
1991) e associazionismo di promozione sociale (l.
n. 383/2000), o organizzazioni di volontariato (l.
n. 266/1991), o associazioni culturali (per atto costitutivo e approvazione riconosciuta o non riconosciuta) e ancora genericamente organizzazioni
182
L’identità dell’impresa sociale
non lucrative (ONLUS) – altri termini la cui terminologia riferita è quella di economia sociale, o Terzo
Settore, o non profit, o forme di solidarietà organizzata, o economia civile. Nel distinguo vi è semplicemente da porre attenzione ai sistemi di codifica e decodifica nel loro utilizzo.
5 Attività condotte nell’ambito dell’Area Politiche sociali e pari opportunità ISFOL.
6 Sommariamente i criteri economici sono
rappresentati da continuità dell’attività di produzione, grado di autonomia, presenza di rischio economico, ricorso a forza lavoro remunerata; quelli
sociali da realizzazione di benefici per la comunità,
promozione di un gruppo di cittadini, governo non
basato sulla proprietà di capitale, partecipazione
allargata; cfr. Giorio, Ranieri, Scialdone (2004). Un
primo lavoro di campionamento è stato realizzato
in collaborazione con ISTAT e ISSAN, e si è condotto
su dati censuari ISTAT per stimare il numero di soggetti non profit che, a prescindere dalla forma giuridica, soddisfacessero i criteri stabiliti dal net-
e nella seconda7 – condotta negli anni del percorso attuativo del d.lgs. n. 118/2005 – invece, di indicatori desunti dagli articolati stessi del disegno di legge sulla nuova legge per
l’identificazione giuridica di impresa sociale (ora l. n. 155/2006): oltre a quelli relativi alla
natura democratica e partecipativa che coinvolge lavoratori e utenti stessi e alla redazione / all’uso di bilanci sociali (rispettivamente artt. 12 e 14, e art. 10), quello riferito ai nuovi bacini di sviluppo, a settori di attività «innovativi» (poi art. 2)8. Le evidenze empiriche
sottolineano profili così caratterizzati: composizione multistakeholder, complessificazione
di gestione e di strategie operative, specializzazione e diversificazione di settori di attività,
ottica di rete, professionalizzazione e incentivi motivazionali del lavoro sociale svolto. Si
segnala in entrambe le configurazioni, risultanti con tali caratteristiche, uno specifico insieme differenziato di organizzazioni: si conferma una predominanza «elettiva» della cooperazione sociale9, sempre più diffusa e consolidata (anche se il suo sviluppo sembra concentrarsi soprattutto all’interno di settori come i servizi socio-assistenziali); la composizione rileva anche fondazioni, associazioni che hanno intrapreso, in maniera più o meno consapevole, una traiettoria evolutiva in senso imprenditoriale; in quest’ultimo caso vi sono
sia forme associazionistiche relativamente recenti, le APS, che di volontariato organizzato.
Contestualmente, la spinta di innovazione apportata dalla programmazione di fondi
comunitari ha aperto le riflessioni su evidenze di criticità e punti qualificanti legati all’individuazione di azioni di governance delle politiche per il sostegno di progettualità di imprenditorialità sociale. Ad esempio l’utilizzo convergente di fondi FSE e FESR (della programmazione Ob. 1 di passata programmazione) era pensato nella coniugazione di tale fenomeno tanto con lo sviluppo locale che con l’inserimento socio-lavorativo di fasce svantaggiate, o ancora con la realizzazione di servizi di welfare. Il monitoraggio condotto sui bandi
emessi ha anche previsto un confronto in vivo con gli attori istituzionali di programmazione e i rappresentanti del Terzo Settore, sulle problematiche connesse alla «presa» di summenzionate strategie, per rendere maggiormente incisive le policy territoriali10. Nel complesso, c’è da segnalare tra le principali criticità emerse il gap conoscitivo che interviene
nella corretta rappresentazione del fenomeno nel sistema di governance delle PA. Si tratta
di un’indicazione rilevante, anche per coloro che sono chiamati a definire e implementare
politiche di sviluppo per il settore. Se è vero infatti che l’approccio «orizzontale» su base
locale rappresenta ancora una strada diffusa, questa non è comunque esclusiva, ma può
work di ricerca EMES per definire l’economia sociale. Tale definizione, quindi di carattere teorico, ha
portato a osservare un universo di imprese sociali
(negli anni precendenti a una sua specifica definizione legislativa) in tutte le principali forme giuridiche (associazioni comprese, sia riconosciute che
non riconosciute).
7 L’analisi su campione e le elaborazioni sono
state realizzate sulla base dati di ISTAT, Unioncamere e CGM, integrati in parte dai dati provenienti
da elaborazioni dell’Istituto di Ricerca Sociale
(IRS), 2005-2006.
8 Settori di attività entro i quali devono opera-
re le organizzazioni che intendono avvalersi della
«designazione giuridica» di impresa sociale.
9 Attraverso la mappatura è stata calcolata
una percentuale di circa il 70% di organizzazioni
rappresentate dalle cooperative sociali. I valori diminuiscono mano mano che si scende verso il
Centro e il Sud Italia dove, però, l’incidenza di imprese sociali nei «nuovi» settori è maggiore rispetto alle regioni del Nord.
10 Cfr. Ranieri (2006). Il contributo esteso e
l’analisi completa del lavoro di monitoraggio sono
stati esposti anche in occasione del Congresso AIV,
Catania, 2005.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
183
prevedere al suo fianco anche modalità di intervento che privilegiano metodologie più di
tipo «verticale», basate sull’intervento – più o meno strutturato e determinante – di attori
istituzionali (pubblici e privati). Alla base, vi è comunque un intento promozionale – da
corrispondere con competenze specifiche circa la conoscenza del valore del contributo di
tali soggetti e di un conseguente bisogno di una sua messa in campo. L’attività istituzionale concorre dunque, nel senso della filosofia e della natura degli interventi, alla promozione e diffusione di sapere, più ampiamente da considerare nello scenario della realizzazione di un welfare della sussidiarietà (delle responsabilità svolte in virtù della collaborazione
con altri soggetti, sia di tipo «orizzontale» che «verticale»).
Specularmente alla questione legata alla rappresentazione del fenomeno da parte delle PA, ve n’è un’altra: una questione relativa al fatto che nel Terzo Settore vi sia una diversa percezione dei contenuti presenti nelle norme. Anche di questo aspetto va considerato
l’effetto sullo sviluppo e sulla sostenibilità di beni e servizi di welfare, e su un possibile depotenziamento della loro «produzione».
Nel caso della legge n. 155/2006 (nuova disciplina sull’impresa sociale), ad esempio, le
informazioni raccolte a carattere qualitativo sottolineavano la scarsa diffusione di approfondimenti sulla materia normativa, con conseguente difficoltà nel riuscire a comprendere
pienamente le scelte alle quali le organizzazioni sono chiamate rispetto all’adozione della
qualifica di impresa sociale. Le riflessioni che escludevano l’adesione alla normativa venivano, tra l’altro, non solo sulla base di analisi dei vantaggi o svantaggi ottenuti, quanto sulla
corretta pertinenza del carattere identificativo della propria visione e quindi della percezione rispetto alle strategie organizzative preposte e al prodotto/servizio realizzato, in particolare al vincolo di redazione del bilancio sociale. Appare necessario sottolineare che emergeva una specifica considerazione sulla diversa percezione del termine «sociale» rispetto all’accezione del legislatore: laddove il principio solidaristico appare essere principalmente
sostenuto dal vincolo alla non distribuzione e destinazione degli utili conseguiti dall’impresa, tale concetto sembrerebbe essere ancora ricollegato a quello esclusivo di una solidarietà sviluppata in ambito socio-assistenziale che porta con sé un’accezione settoriale, di
comparto, piuttosto che di funzione. Di quest’ultimo aspetto, nell’indicazione dei «settori di
utilità sociale» innovativi (art. 2, l. n. 155/2006), e tenuta la corrispondenza della finalità di
«interesse generale» in qualsiasi attività, se ne attribuisce al tempo stesso ulteriore continuità nella mission «verso categorie di soggetti svantaggiati» precisando una loro presenza
(anch’essa vincolante per lo sviluppo di attività) con percentuali di soglia al 70%. L’identificazione giuridica pone, quindi, estrema rilevanza all’elemento di presa in carico.
La stessa normativa regionale è chiamata a disciplinare le modalità di iscrizione e gestione dell’Albo secondo questi parametri: le cooperative sociali, ad esempio, devono possedere vari requisiti individuati dalla legge n. 381, tra i quali, relativamente alla presenza
di persone svantaggiate (art. 4, comma 2), esse devono costituire almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della
cooperativa stessa. Si apre quindi un primo confronto tra questa ratio e i processi di accreditamento del Terzo Settore (genericamente ONLUS) con le PA per partecipare all’erogazione
di prestazione di utilità pubblica.
Dati quantitativi su tali «percentuali» mostrano che nelle cooperative di inserimento lavorativo la percentuale di soggetti svantaggiati presenti nel 2005, rispetto al totale dei la184
L’identità dell’impresa sociale
voratori, si attestava a livello nazionale al 55,5%, che è ben al di sopra del limite minimo
(30%) stabilito dalla legge n. 381 del 1991 (ISTAT, 2008)11. Rispetto al 2003, gli utenti delle
cooperative di inserimento lavorativo sono aumentati complessivamente del 27,8%, con
un tasso di crescita più che triplo di quello calcolato sul numero di cooperative di tipo B
(pari all’8,3%). Un numero così elevato di utenti è giustificato sia dalla capacità di questa
forma di impresa di rispondere con tempestività alla domanda, spesso complessa e difficilmente interpretabile, di soggetti in situazioni di disagio, sia dalla flessibilità dell’offerta,
che copre anche la domanda di utenti non necessariamente mossi da specifiche necessità
di tipo assistenziale. L’ampliamento quantitativo dell’utenza raggiunta ha un equivalente
nell’accrescimento della presenza di organizzazioni non profit nei bacini di sviluppo? E
quindi, la traiettoria imprenditoriale – oltreché un dato organizzativo-gestionale – rappresenta una strategia di risposta direttamente collegata alla domanda proveniente dal mondo dello svantaggio? Va aggiunto che la legge sulla cooperazione sociale, e in ciò vi è una
sua fondamentale importanza, ha per la prima volta codificato la situazione di svantaggio
in relazione all’accesso di opportunità lavorative.
Non va dimenticato che gli interventi e le funzioni riconoscono il lavoro e l’attività lavorativa (in senso lato) come veicoli e strumenti di promozione e di inclusione sociale, in
quanto produttori di relazioni che implicano processi di riconoscimento e di legittimazione reciproci12.
Volendo focalizzare la progettualità di vita delle imprese sociali (secondo più ampie accezioni di scenario), l’opzione argomentativa verte sul fatto che vi siano elementi che, proprio per il loro carattere «basilare», sono in grado di influenzare, spesso in modo significativo, lo sviluppo futuro dell’organizzazione anche in senso imprenditoriale, riconducendo
quest’ultimo termine in modo basilare alle modalità di composizione e strutturazione di
quell’attore in grado di stabilire gli obiettivi dell’iniziativa e, su questa base, di ricercare e
combinare le risorse necessarie per realizzarli.
I problemi di «pertinenza» della collocazione settoriale, tradizionalmente socio-assistenziale, possono chiarirsi, in tal senso risolversi, unitamente al richiamo a misure di occupabilità13 che annoverano l’operato a vocazione sociale delle organizzazioni nel mercato del lavoro: nella specificità di mandato, non tanto ottemperare alla ricerca del «posto di
11 Riguardo ai valori assoluti: nel 2005 nelle
cooperative sociali di tipo B erano presenti circa
34.483 persone svantaggiate, di cui 30.141 nelle
cooperative di tipo B e 4.342 nelle cooperative a
oggetto misto. Per quanto riguarda anche le cooperative sociali di tipo A, esse hanno offerto servizi socio-sanitari ed educativi a più di 3,3 milioni di
utenti, in crescita del 37,4% rispetto al 2003. Nonostante il limitato numero di cooperative a oggetto misto, nel corso del 2005 le cooperative a
oggetto misto hanno offerto servizi di tipo A a circa 91.000 persone. Si osserva anche che, a livello
nazionale, il numero medio di utenti per cooperativa è pari a 760, mentre il numero di utenti per
unità di personale è 16. Sarebbe questa un’impor-
tante relazione da approfondire. Infine, si segnala
che per la rilevazione del settore di attività delle
cooperative sociali di tipo A e per quelle di tipo B
sono state previste le classi dell’International
classification of nonprofit organizations (ICNPO).
12 Da esperienze emblematiche derivanti, ad
esempio, dalla transizione operata ex l. n. 180/
1978, sia nei paradigmi territoriali che nella realizzazione di diritti di cittadinanza, queste visualizzazioni di principio rappresentano ad oggi una
formula parimenti di operatività che di indirizzo di
policy più estese.
13 A titolo indicativo, ci si riferisce agli Atti di
indirizzo e di programmazione comunitaria.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
185
lavoro» quanto intervenire per la generazione dello stesso, e, quindi, in senso ampio «continuare» ad agire per produrre welfare.
Il confronto che nasce dallo sforzo dialettico tra imprenditori sociali e pubblica amministrazione (per rispondere alle esigenze del settore), spesso giuridico, a volte sembra piuttosto stretto in un formalismo che viene a prendere il posto del giudizio di merito e orienta, in senso assistenziale, gli interessi verso lo «sfruttamento» dei servizi14. La questione
che si accentua sull’identità giuridica, parallela agli studi sull’evoluzione del fenomeno del
Terzo Settore, sembra condizionare una definizione statica con implicazioni per lo più dirette sull’accessibilità a bacini finanziari, e non accompagnare piuttosto una riflessione se
vi sia, de facto, una transizione più ampia, nel suo complesso, del fenomeno della solidarietà organizzata verso nuove forme di welfare (sì centrato sull’analisi di vincoli e di opportunità, ma comunque sulle strade percorribili dell’innovazione). Il rischio paventato è
quello di un permanere di tracciato di sviluppo delle imprese sociali solo all’interno di «nicchie» più o meno protette che impedirebbero una crescita piena del fenomeno, mantenendolo in una posizione di sostanziale residualità. È pur vero che lo specifico dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati presuppone una certa fragilità del fenomeno imprenditoriale produttivo e che, quindi, necessita di essere accompagnato e in qualche misura
«protetto» anche guardando ai settori di intervento. Il riferimento all’«utilità sociale» declinato in attività per definire il nuovo soggetto imprenditoriale porta però con sé proiezioni
sulla validità di prospettive di inclusione «attiva» in un’ottica di bacini di sviluppo.
Per continuare a cogliere elementi messi in luce dalle esperienze territoriali e al tempo
stesso dalla dinamica evolutiva di queste organizzazioni, un’ulteriore prospettiva di analisi emerge nel confronto con altre definizioni che riguardano l’utilizzo delle clausole sociali per la destinazione di riserve di mercato («ordinario») agli interventi di inclusione sociooccupazionale (il contesto degli istituti deriva dalle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE)15.
Le radici di tali istituti richiamano un’altra coniugazione: quella tra etica ed economia
(Navez, 2003)16. Realizzare tale confluenza ed entrare in un «altro mercato» rappresenta
un elemento di consistente interesse anche per quanto riguarda le politiche di sviluppo del
settore. «Fare impresa in un altro modo» è ciò che per il Parlamento europeo letteralmente
caratterizza la forza propulsiva dell’economia sociale, e che motiva la necessità di una piena difesa degli interessi di queste organizzazioni e di una loro valorizzazione17. In termini
generali, bisognerebbe che le politiche pubbliche valorizzassero l’effetto leva rappresentato dalla sollecitazione che proviene dall’ambito comunitario e, sinteticamente delineate,
14
Aspetto critico portato in un intervento da
Gian Luigi Bettoli, presidente di Legacoopsociali
FVG, al convegno «Inclusione sociale e lavorativa in
salute mentale», AIRSam, Frascati, 8 aprile 2011.
Nell’intervento anche il richiamo al tema delle
clausole sociali nel sistema degli appalti ex Direttive europee, più avanti trattate.
15 Direttive del 31 marzo 2004 relative al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli enti e degli appalti pubblici di lavori, di for-
186
L’identità dell’impresa sociale
niture e di servizi (cfr. più precisamente l’art. 28).
16 Per approfondire il collegamento richiamato, si segnala che vi è un’importante filone di analisi che ricollega l’introduzione degli istituti di
clausole sociali nel sistema degli appalti (ex Direttive) ai principi «etici» sviluppati in seno alla produzione di indirizzi e modelli di regolazione del
mercato e dell’economia europea.
17 Il riferimento è alla risoluzione approvata
dal Parlamento europeo del 2009.
alcune raccomandazioni chiamano in causa rispettivamente ruoli e responsabilità dei decisori pubblici, delle organizzazioni non profit, del mondo della ricerca.
Campo: tra il fare e l’essere, le strade percorribili
e il saggio della vision
Le realtà e le potenzialità legate alla produzione di servizi (e quindi di mercato) mostrano
il permanere degli interventi delle organizzazioni in campo socio-assistenziale, ma anche
lo sviluppo di progettualità culturali, progettualità per servizi all’impresa legati alla qualità, di strutture di accoglienza, di turismo sociale, fino a iniziative diverse dedicate alla sperimentazione e diffusione delle fonti energetiche alternative.
Si espone, ora, un caso di non poca attualità: un ambito di indagine trattato negli ultimi due anni, afferisce a fonti conoscitive sul tema delle «clausole sociali nel sistema degli
appalti» quale innovazione di derivazione europea per potenziare l’accesso a percorsi di inserimento socio-lavorativo di soggetti svantaggiati. Secondo le fonti che si sono registrate
in Italia nel processo di recepimento attuativo degli indirizzi comunitari in materia di
«clausole sociali nel sistema degli appalti», le amministrazioni pubbliche possono, in qualità di stazioni appaltanti, facilitare il perseguimento di obiettivi di carattere sociale definendo nelle procedure collegate alla fornitura di lavori e servizi clausole che valgano come
riserva per operatori attivi sul fronte dell’inserimento di categorie svantaggiate18. Tale innovazione è in particolare contemplata nel d.lgs. n. 163/2006, richiamato come Codice degli Appalti19, all’art. 52. Da quanto evidenziato dalle esperienze che hanno contemplato
questo articolo (e quello n. 69), considerazione specifica è posta ai soggetti dell’imprenditorialità sociale. Le responsabilità pubbliche qui possono integrarsi con un’esaltazione delle competenze sedimentate in ambito non profit, e questa integrazione necessita di chiari
programmi di esercizio degli strumenti giuridici idonei a rendere le imprese sociali partecipi dell’esercizio di funzioni pubbliche, di produrre per gli interessi della collettività: è qui
un intreccio virtuoso tra coniugazione di aspetti sociali e imprenditoriali del Terzo Settore,
disciplina normativa e sistema delle clausole sociali, bacini di sviluppo del «mercato sociale». È interessante che la portata di tali direttive viaggi insieme alla necessità di riformulare spazi a soggetti esposti a rischio di esclusione dando luogo a livello nazionale a una riconfigurazione dei lineamenti di svantaggio. Semplificando, vi è quella che riguarda profili categoriali riconducibili principalmente alla condizione di «disabilità»20. Un’altra indica
una tendenza a introdurre, nel considerare lo svantaggio, il concetto di «vulnerabilità sociale» rimandando all’opportunità di una diffusa politica di prevenzione del disagio e delle
18 L’innesto tra gli istituti studiati e i profili di
intervento istituzionale è sempre più presente in
dibattiti e studi di settore. Tra questi: Scialdone
(2009).
19 Codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE.
20 Da comprendere anche alla luce di nuovi
modelli di lettura, quale l’ICF (Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della
disabilità), OMS, che ne influenzano le risposte di
intervento.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
187
«patologie sociali» (cfr. art. 2 del Regolamento per gli aiuti di Stato in favore dell’occupazione CE 800/2008) e linee di contenimento dello scivolamento nell’esclusione sociale.
Va anticipato che l’ampliamento della nozione di svantaggio è avvenuto attraverso
l’emanazione di norme (nazionali e comunitarie) che non si occupano specificamente di
cooperazione sociale, né più in generale di contratti con la pubblica amministrazione diretti a favorire finalità di carattere sociale, bensì norme che hanno altro oggetto e altre finalità. Il riferimento al Regolamento CE 800/2008 ricade in questo specifico nella pertinenza di quella dei contratti pubblici e delle «fattispecie» che ne consentono una finalizzazione sociale (clausole sociali) 21. Un interrogativo fondamentale riguarda il fatto se queste
nuove e più ampie definizioni di svantaggio abbiano rilevanza generale, applicabile a tutti
i casi in ordine ai quali una norma giuridica faccia riferimento. Ivi compresi gli indirizzi per
la governance delle politiche contro l’esclusione sociale e la disciplina delle convenzioni
tra PA e Terzo Settore.
Dove attuate a livello locale dalle PA (ASL, Comuni, Province), emergono informazioni interessanti che esaltano le potenzialità di quanto immaginato dal legislatore in termini di
incremento delle potenzialità di accesso al mercato del lavoro ed estensione delle condizioni di deroga a sostegno di progettualità di inclusione attiva. L’analisi dei Bandi mostra
che in ogni caso i criteri di selezione delle proposte progettuali vertono su una declinazione di qualità che fondamentalmente riguarda l’identificazione e il numero dei soggetti
svantaggiati, la sostenibilità degli inserimenti, le risorse professionali e di rete.
Come considerazione vi è quella che comunque centrale, ancora, sia la questione dei
destinatari da identificare, da raggiungere. Quali sono le categorie di svantaggiati per il
nostro ordinamento? Nelle terminologie definitorie si riflette una duplice tendenza: una
intensiva e una estensiva. Le proposizioni contenute nelle declaratorie normative e regolatorie delle tipologie di svantaggio22 che ne determinano la finalizzazione degli interventi
(con riflessi sulla condizionalità) possono ricollegarsi parimenti a quanto considerato dalla
l. n. 68/1999 «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», dall’art. 14 d.lgs. n. 276 del 200323
per favorire attraverso convenzioni l’inserimento lavorativo dei disabili e dei lavoratori
svantaggiati (quindi non soltanto i disabili, ma anche coloro che hanno, comunque, bisogno di un aiuto per tornare sul mercato del lavoro, come evidenziato alla lettera k dell’art.
2), e dall’art. 4 della legge n. 381/1991, dall’art. 2 della n. 155/2006, dal Regolamento per
gli aiuti di Stato in favore dell’occupazione CE n. 2204/200224, e ancora dalla legge quadro
di riforma dell’assistenza, n. 328/2000, nell’articolo 22. Nel particolare del Regolamento CE,
e suo utilizzo, l’allargamento delle tipologie di svantaggio procede secondo una logica che
riguarda l’oggetto di quelle norme (il diritto al lavoro), ma che amplia l’ottica di contenimento delle «patologie sociali» mettendo in relazione sistema del lavoro, welfare e sistema
degli appalti pubblici. Esso, infatti, è richiamato nell’utilizzo degli istituti delle clausole sociali, già evidenziati, dell’articolo 52 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice degli Appal-
21
L’analisi tecnico-normativa è stata realizzata in collaborazione con Mauro Salvatore, MIPA.
22 Della panoramica fornita, sarebbe importante leggere tutte le fasce di popolazione menzionate dagli articoli riportati.
188
L’identità dell’impresa sociale
23
Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14
febbraio 2003, n. 30.
24 Ora Regolamento CE 800/2008.
ti). Da una parte, quindi, il profilo dei soggetti destinatari esige una codificazione di condizioni strutturate di svantaggio (la disabilità) e di condizioni transitorie (che in tal senso
vanno accompagnate: nel caso delle dipendenze ad esempio, o di disoccupazione di lunga
durata), dall’altra la questione che si rappresenta con forza è di carattere interpretativo, e
tale carattere deve esternarsi attraverso i poteri di governance delle PA25.
In merito all’attuazione delle disposizioni normative, rispetto a «condizioni particolari
di esecuzione del contratto prescritte nel bando o nell’invito» citate nell’articolo 69 del Codice, è importante a livello di governance regionale e locale sperimentare modalità di affidamento di servizi autenticamente basate sul principio di sussidiarietà orizzontale che valorizzino la capacità di cogliere nuovi bisogni e di innovare le proposte. Dai casi studiati26,
richiamo esplicito è alle norme sulla cooperazione sociale e sull’impresa sociale, e anche, e
unitamente, ai profili di svantaggio che debbano essere considerati. Ad essi collegate, le
opportunità di nuovi bacini di sviluppo, restando da chiarire la natura di un modello richiamato, quello di «laboratorio protetto» e di «programmi di lavoro protetti» (citati testualmente nell’articolo del Codice), del quale non vi è un atto definitorio, salvo che, comunque,
secondo gli indirizzi operativi dell’Autorità di vigilanza sui contratti e sugli appalti pubblici27, se ne riporta in questione la soglia percentuale di destinatari degli interventi, il 50%.
In definitiva, avendo a disposizione queste attenzioni, qual è l’ambito di applicazione delle nuove forme di svantaggio? Con quali strumenti, quindi, si deve e si può ritenere tutelabile lo svantaggio? Esso è circoscritto solo ai confini oggettivi delle norme che lo hanno introdotto? Oppure si tratta di un’innovazione di portata generale, per cui ogni qual volta
che una norma parla di svantaggiati (a qualsivoglia fine questa norma sia indirizzata) si
può interpretarla in termini ampi, ricomprendendovi anche le nuove forme di svantaggio
introdotte dalla regolamentazione comunitaria?
A livello regionale, il caso del Veneto che, con la l.r. n. 23 del 2006 recante «norme per
la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale», ha introdotto (o piuttosto riformulato) la normativa di dettaglio28 di livello regionale sulla cooperazione sociale. A proposito della cooperazione di tipo B, a fianco all’elencazione dei soggetti svantaggiati ripresa
dall’elenco originario della legge n. 381 del 1991, ha annesso anche una nuova tassonomia, che ha definito «soggetti deboli», il quale rinvio ha fatto coincidere le categorie di lavoratori svantaggiati di cui al regolamento comunitario. I progetti di inserimento lavorati25
Bartoli, Ranieri (2009).
L’attuazione a livello decentrato di detti dispositivi nel 2008 era limitata a pochi ma significativi casi (Provincia di Torino, Regione Veneto,
Regione Friuli-Venezia Giulia); ora è anche presente nella legge sulla cooperazione sociale della
Calabria, recentemente all’attenzione di provvedimenti nel Comune di Milano, di Roma, e della Regione Umbria (legge sul sistema dei servizi e interventi sociali). Nei tre casi regionali si tratta di introduzione degli istituti nelle leggi di nuova generazione sulla cooperazione sociale. Le altre realtà
locali, in senso lato, in provvedimenti di giunta
26
sulla relazione tra PA e Terzo Settore per la realizzazione di servizi e per profili di utenza.
27 Determinazione 2/2008; ora ve n’è un’altra
in corso di formulazione. Riguardo alla questione
dei laboratori e dei programmi di lavoro protetto
vi sono possibili chiarificazioni «semantiche» anche cercando ulteriori riferimenti comunitari: cfr.
intervento ISFOL, di C. Ranieri, al IV Forum Risk management in sanità, Arezzo, 2009.
28 L’art. 9 della legge n. 381 del 1991 demanda alle Regioni l’adozione con legge regionale delle norme d’attuazione della disciplina statale sulla
cooperazione sociale.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
189
vo generati con la legge n. 381/1991 possono realizzarsi anche laddove si tratti delle «nuove» categorie di svantaggio, e cioè quelle che trovano definizione (attraverso il rinvio della
norma regionale) nel Regolamento CE. E, ancora, guardando alla prassi che emerge sul territorio si possono trovare esempi molto rilevanti di interpretazione estensiva degli effetti
delle nuove definizioni di disagio sociale. Un altro caso di estremo rilievo è costituito dalla
delibera di giunta n. 60 del 2010 del Comune di Roma, avente ad oggetto «Le Linee guida
per l’affidamento degli appalti di servizi e forniture agli organismi della cooperazione sociale di inserimento lavorativo». Questa delibera all’art. 2 comma 3 stabilisce che la giunta
comunale ogni anno determina con apposito provvedimento le «ulteriori categorie» (ulteriori a quelle della legge n. 381) di soggetti svantaggiati provenienti dall’art. 2 lett. f e g del
reg. CE 2204/2002 (ora 800/2008). Posizione analoga a quella assunta dal Comune di Roma è stata assunta da un’altra importante amministrazione comunale come Torino29.
A esemplificazione del gioco svolto nella dimensione locale vi è un altro profilo osservato, che rimanda ai processi di pianificazione sociale di zona: in Umbria l.r. n. 26/2009,
Disciplina per la realizzazione del Sistema Integrato di Interventi e Servizi Sociali, nell’art.
33 (Affidamento e inserimento lavorativo di persone svantaggiate) distribuisce ai Piani sociali di zona la previsione di quanto in materia in conformità agli articoli 2 e 69 del d.lgs.
n. 163/2006. E va considerato che tale pianificazione rappresenta uno strumento di programmazione locale (ex art. 19 della 328/2000) che presuppone processi di concertazione
territoriale. Di coinvolgimento, quindi, dei soggetti di sussidiarietà fin dall’analisi stessa
della domanda. Se il rischio prima paventato era quello di fare assistenzialismo, il valore è
conseguentemente da attendere anche sulla stabilità dell’interconnessione tra politiche
sociali, sanitarie, formative e del lavoro attuate da soggetti pubblici, privati e del privato
sociale all’interno delle più complessive politiche di inclusione.
Costruire un lavoro tra soggetti del territorio diviene indispensabile per una maggiore efficacia nell’uso delle opportunità e degli strumenti a disposizione per il raggiungimento del
successo e della qualità degli interventi. Come accento nella lettura dei casi presentati, si
vuole riscontrare che nel rapporto tra domanda ed evoluzioni di welfare si vede confermare
il Terzo Settore come soggetto competente, in virtù di professionalità specifiche e trasversali incardinate con funzioni (sociali). Tra esse, lo svolgere un’attività che perdura nell’ottica
evolutiva è un elemento che connota fortemente la dimensione organizzativa che, per la
molteplicità delle sue funzioni e dei suoi contenuti, si interfaccia con più settori, anche a un
livello che chiede un’apertura al «mercato sociale» di altri comparti. L’elemento cardine è
rappresentato dal lavoro di rete. L’ottica di rete delle organizzazioni di Terzo Settore evidenzia, inoltre, la multidimensionalità della sua natura sussidiaria: osservabile nelle caratteristiche di «consistenza, composizione e sistematicità» nel lavoro di rete, di «rilevanza nei sistemi formali e informali» dei rapporti, sia nella gestione e attuazione di interventi che in sede
di coprogettazione e programmazione dei servizi territoriali (De Rita et alii, 2004)30. La rea-
29
Delibera del Consiglio comunale n. 307 del
2005.
30 Sembra opportuno aggiungere in nota che
dati rilevati possono evidenziare una diversa «consapevolezza» circa l’impegno a collaborare con al-
190
L’identità dell’impresa sociale
tri soggetti sul territorio, e quindi un comportamento da intendersi più come «spontaneamente
intrinseco all’azione» che organizzato attraverso
una «logica operativa programmata».
lizzazione concreta quindi dell’integrazione delle politiche richiama in tal senso la coniugazione imprenditoriale e sociale del Terzo Settore non solo come soggetto, ma anche quale
vettore di processi di sussidiarietà operativa, e che attiva la confluenza di differenti economie, pur scontando inevitabili problemi di coordinamento tra i diversi soggetti coinvolti. Il
problema che potrebbe sorgere, anche in questo caso, sarebbe da considerare nella responsabilità dell’approccio sistemico, nella messa in pratica di una filosofia dell’intervento.
E per arrivare a concludere: qual è, dunque, la cultura economica dell’imprenditorialità sociale che è per sua natura «sociale» e «di mercato»? Una considerazione complessiva si ricollega al tema della sussidiarietà quale rinnovato contributo proveniente dal welfare nel
perseguimento della coesione sociale: da qui deriva anche il ragionamento / l’inferenza di
«contenere» elementi di concorrenza entro parametri di qualità e del valore sociale prodotto, da ricollocare nell’analisi degli impatti inclusivi derivanti dalle policy; valore da tenere
in considerazione per rafforzare tanto gli aspetti opzionali che la sostenibilità delle strategie messe in campo (parimenti politiche e operative). Ad essa collegata, la confluenza di
tecnicalità giuridiche e amministrative con opzioni di merito per definire da parte istituzionale la corretta gestione della concorrenza (elemento richiamato tra l’altro specificatamente nel testo della direttiva) e delle riserve di mercato (che è a tutt’oggi ancora aperta).
È qui che il dibattito sull’efficacia della scelta di settori di attività come criterio definitorio
vede confrontarsi un approccio «pragmatico/incrementale» volto a sostenere un percorso
di sviluppo, a partire dal campo e dal contenuto dei beni prodotti, con forte accento alla
relazione (in essi contenuta) con il mondo dello svantaggio. La sussidiarietà, intesa sia come azione di governance delle politiche a livello locale che come strategia sistemico-operativa, mostra come sia paradigmatico l’effetto combinato di interessi afferenti a diverse
disposizioni normative rispetto alla realizzazione di interventi a favore di fasce di vulnerabilità: interessi «tradizionalmente» concepiti in una logica di comparto. Ne consegue che
l’apertura ad altri mercati porta con sé nuove formule di relazione. Andrebbe osservato in
quale modo si strutturano i sistemi di relazioni rispetto a settori di attività e alle aree di intervento, e come essi si differenziano.
C’è, infine, un riscontro sul problema di evitare la settorializzazione e il frazionamento
della nozione di svantaggiato e anche, rispetto alle nuove forme di svantaggio e alla materia dell’impresa sociale, sembra lecito considerare che trasporre sic et simpliciter la rilevanza delle nuove forme di disagio lavorativo di cui al reg. n. 800 (nella loro interezza) darebbe luogo, forse, a un eccessivo ampliamento della nozione di svantaggio (nel campo
delle clausole sociali). E non è pensabile tutelare situazioni ove non è così chiaro quale sia
il disagio sociale da rimuovere, o al contrario non tenere priorità verso gruppi di popolazione con «disagio conclamato».
In generale, rispetto agli attori economici e sociali del territorio, il fatto di far convergere funzioni di interesse pubblico e risposte a bisogni diffusi nella comunità locale con interventi sociali rivolti a categorie svantaggiate e marginali – utilizzando lo spazio fisico
della comunità – costituisce anche l’occasione per promuovere l’incontro tra gruppi sociali differenti e come luogo della contaminazione possibile tra forme diverse di organizzazioni e linguaggi differenti. «Leggere» in modo efficace i bisogni e le esigenze specifiche di un
soggetto, di un determinato contesto economico-sociale, e quindi svolgere un’attività inOsservatorio Isfol n. 2/2011
191
novativa di connessione, rappresenta ancora, da un altro punto di vista, un’attività «sostitutiva» / a integrazione dell’azione di altri soggetti (pubblici e privati), oppure è la pragmaticità di una diversa (e condivisa) cultura dell’impegno pubblico che realizza i principi di
cittadinanza attiva (e sociale)?
Per concludere
Fermo restando che, in particolare nel caso presentato, ci sono aspetti di competenze non
sovrapponibili ed estremamente diversificate (specializzate), rimane aperta la questione di
come superare talune asimmetrie comunicative che non permettono uno svolgimento di
senso tra differenti codici di realtà.
Il riassumere qui una riflessione sul tema dello «svantaggio» (e di una messa a punto di
politiche di intervento) nasce sostanzialmente dal considerare che quando ci si confronta
nell’attualità con i problemi connessi ai nuovi rischi sociali, alla nuova configurazione dello svantaggio che rispecchia implicazioni di fragilità e vulnerabilità, parte un potente richiamo alla realtà dei fatti. Nelle cifre della debolezza va considerato che, nelle nostre
odierne società, lo svantaggio, i nuovi fenomeni di povertà, oltre a essere conseguenza di
una scarsità di risorse, sono condizionati da una scarsità di opportunità adeguate, non
commisurate nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento (l’indicatore
è anche nel rapporto qualitativo domanda/risposta). È questo anche un segno eloquente
della presenza dei «rischi di esclusione»: chi vi cade difficilmente riesce a uscirne, e accade
così che è tagliato fuori da percorsi di progettualità di vita e di cittadinanza.
L’esposizione al rischio di esclusione, la condizione di fragilità, «parla» di esigenze comuni e di contigue necessità sociali: dunque il tema inclusione/esclusione lascia intravedere altri piani di leva, recupera ed esplicita orientamenti di valore in relazione ai meccanismi di funzionamento della società. Non sono più soltanto determinate ed evidenti condizioni «strutturali» o «transitorie» ma anche di precarietà esistenziale e sociale che producono disagio e marginalità, complessità di concause, spesso sfuggenti nelle reciproche influenze. Più che di «fattori» (intesi come elementi enucleabili e catalogabili) sarebbe di
conseguenza opportuno parlare di situazioni, poiché più idoneo a comprendere perché in
presenza di identici «fattori» possa o meno verificarsi un processo di marginalità. La lettura delle situazioni è da intendersi in modo dinamico e non statico, poiché le situazioni
evolvono o si modificano: possono infatti «precipitare» o «risolversi» come si usa dire anche
nel linguaggio corrente. Il vero nodo è allora riflettere sulle possibilità che possono direzionare le situazioni.
L’esclusione sociale può, inoltre, generare una catena di reazioni che evidenziano la
complessa compenetrazione di piani di vita e l’impoverimento della coesione sociale e del
senso di comunità.
Il tessuto di comunità è sostenibilità dello spazio pubblico in quanto attiva contemporaneamente una responsabilità individuale e una collettiva, e per percepirsi parte integrante
della socialità il destinatario deve essere riconosciuto quale Persona, soggetto di diritti. Il
problema è intercettare la sua alleanza alla partecipazione oltreché la sua attesa di risposte.
Nelle evoluzioni dei soggetti organizzati di solidarietà sociale, di fatto vi è un elemen192
L’identità dell’impresa sociale
to caratterizzante l’operatività e la presenza degli stessi nei territori: la tensione alla costruzione di connessioni e alla prossimità (dinamica) con la domanda dei destinatari degli
interventi31. In questo quadro si possono rileggere anche alcune considerazioni finali rispetto alla volontà espressa sul coinvolgimento dei propri stakeholders, e tra essi i «propri»
destinatari32. Nella spinta degli operatori dell’economia sociale a riconoscere i vantaggi di
dialogare con i portatori di interesse, e per questo sperimentare modalità sempre nuove e
diverse, l’orientamento «sociale» dell’iniziativa non è dunque antitetico alla dimensione
imprenditoriale, ma anzi ne costituisce un asset strategico di fondamentale rilevanza, in
quanto consente di accedere e riformulare capitali e risorse, superando problemi connessi
alla vision e alla tipologia dei beni e della loro rappresentazione in altri comparti.
Nell’accogliere profili afferenti a varie discipline – nonché a contesti di analisi e di relazioni – quanto esposto ha tentato di ripercorrere, in alcune dinamiche, la transizione del fenomeno che riguarda il core fondamentale: il destinatario, oggetto di complementarità tra
il contenuto della mission di imprenditorialità sociale e i perimetri dei temi evocati. Destinatario e al tempo stesso Persona. Difficilmente computabile dal solo approccio delle discipline quantitative ed economiche, permanenza della mission sociale e sfida identitaria si
prestano ancora – nei quotidiani operativi dell’eterogenea fenomenologia della solidarietà –
a una rinnovata affermazione dei paradigmi di prossimità al bisogno e alla comunità.
I sistemi di decodifica della domanda e le evoluzioni delle declaratorie e delle categorizzazioni di «svantaggio» rappresentano i dati complessi della sintesi proposta, partendo
dal fondamentale assunto di welfare della tutela e della promozione dei diritti.
Un sensibile passo è quello di spostare il fuoco dell’attenzione ai beni e servizi che si intende porre a disposizione del portatore di bisogni e all’effettiva capacità nella loro fruizione di accrescere le possibilità per coloro ai quali esse sono rivolte. Nel concreto, questo
comporta che deve essere la domanda a orientare i servizi e non l’offerta dei servizi che
obbliga la domanda ad adattarsi ad essi: quando si arriva a questo grado di consapevolezza si è anche prossimi a comprendere perché il nuovo welfare non può non porre al centro
la soggettività della risposta che il mondo del Terzo Settore dà al principio di vulnerabilità,
che si deve nutrire costantemente del confronto con i bisogni della gente. È questo che implica che la valutazione non possa prescindere dalla capacità di innovare i servizi: di democratizzare il welfare, di diffondere la cultura della gratuità, di favorire l’accumulazione
del capitale sociale e di produrre beni relazionali33. È questa la risposta che il Terzo Settore dà alla vulnerabilità: «è dal riconoscimento della vulnerabilità come cifra della condizione umana che discende l’accettazione della dipendenza reciproca e dunque nella ‘simmetria dei bisogni’, e anche il legame sociale dall’accoglimento che è più robusto di quello
che nasce dal ‘contratto’. Questo il guadagno specifico che le organizzazioni della società
31
Impostazione di partenza della relazione
presentata su lavori dell’Area politiche sociali e
pari opportunità dell’ISFOL al colloquio scientifico
sull’impresa sociale, Facoltà di Economia Federico
Caffè, Irisnetwork, Roma, 21-22 maggio 2010.
32 Per un approfondimento di modalità realizzate nelle imprese sociali cfr. Scialdone (2008).
33 Riferimento specifico a tale attenzione è di-
chiarato dalla Agenzia per le ONLUS. Quale novità
da monitorare è il Bilancio di missione - bilancio
di esercizio: strumento indispensabile per rendere
conto del «valore» delle ONP, valore la cui misurazione presenta difficoltà intrinseche non potendo
avvenire tramite i normali criteri cui si ricorre per
la stima del valore degli altri settori produttivi.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
193
civile danno alla progettazione del nuovo welfare»34. Tale guadagno attraversa tutto il sistema di valori e supera la disgiunzione tra codice dell’efficienza – che basterebbe a regolare i rapporti entro la sfera dell’economico – e codice della solidarietà – che presiederebbe invece ai rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale. Allora: il valore della «produzione» nello svolgere un lavoro di comunità va colto anche nel mettere a contatto il cittadino con le reti di sostegno, formali e informali, che può trovare intorno a sé sul territorio,
e nel promuovere e sostenere tutte quelle reti di reciprocità e solidarietà che spontaneamente si realizzano appunto in una comunità. Nello svolgere questa funzione va colta una
permanenza, una natura costante, fondamentale del non profit, una consapevolezza di
transizioni da accompagnare nel vivo del territorio.
Le attenzioni di sintesi toccano, non separandosi, fondamentalmente tre fattori in
campo circa l’evoluzione del fenomeno:
• la funzione di advocacy e di lobbying riguardo alle istanze esercitate: l’esplicita o implicita influenza e permeabilità alla domanda proveniente dal mondo dello «svantaggio»;
• la consapevolezza storica e generazionale della partecipazione organizzata della società civile, unitamente alla cultura e alla rappresentazione dell’azione pubblica: i paradigmi stessi, quindi, sottesi ai rimandi testuali di «finalità di interesse generale» e «utilità sociale» innestati in quelli del lavoro di comunità. Ad esse correlati opportuni distinguo tra ruoli «sussidiati», «delegati» invece di «sussidiari» che richiamano al capo 1
della legge di riforma dell’assistenza n. 328/2000 negli artt. 1, 3 e 5: principi della realizzazione del Sistema integrato degli interventi e delle prestazioni sociali;
• l’analisi dell’identità delle strutture organizzative nella relazione con il territorio e l’impatto inclusivo delle azioni: il valore aggiunto sociale della produzione di servizi e prestazioni.
Si delineano così le linee di azione attraverso cui le organizzazioni della società civile privilegiano il coinvolgimento diretto, la relazione interpersonale, il radicamento nel contesto
socio-territoriale concreto della comunità (Amerio, 1997, p. 231). Nella matrice delle combinazioni di veridicità e coerenza tra mission, vision e continuità e qualità della produzione di servizi per l’approccio ai mercati, tali fattori danno la misura della tenuta dello sviluppo del fenomeno nella chiarezza dell’apporto reso alla soddisfazione di istanze inclusive. A questo livello si segnala rispetto alla diversificazione dell’utenza un fondamentale
elemento di «valore aggiunto» legato al perdurare di una natura collettiva della presa in
carico. È necessario che nel lavoro interpretativo-pianificatorio diventi fondamentale la
considerazione che vi siano caratteristiche distintive nell’individuazione degli obiettivi finali. Qui la vision, riflettere e collocarsi rispetto alla lettura della domanda sino alla soddisfazione del bisogno.
Riguardo a questo possono essere verificate azioni di mainstreaming nei processi di accountability e di rendicontazione sociale. Un impegno (anche intellettuale) di coloro che
34 Tale modello di lettura è sviluppato da Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per le ONLUS. Nel particolare dell’approccio all’economia ci-
194
L’identità dell’impresa sociale
vile di mercato cfr. anche un recente intervento di
Zamagni (2011).
sono preposti è quello di non divaricare la forbice tra aspetti di governo e aspetti operativi e, in definitiva, poter leggere dalla domanda, e nel senso del bisogno, indicazioni utili.
Il passaggio dalla lotta all’esclusione alla promozione dell’inclusione ha da rappresentare, infine, un ulteriore elemento importante, quello culturale.
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Per citare questo articolo: Cristiana Ranieri, L’identità dell’impresa sociale, «Osservatorio
Isfol», I (2011), n. 2, pp. 179-196.
196
L’identità dell’impresa sociale
TECHE
s.f. dal gr. THEKE, lat. -theca
Astuccio, custodia per riporvi oggetti rari e preziosi
(LUI, vol. XXII)
Parole chiave
Flexicurity
A policy strategy that attempts to enhance flexibility
of labour markets, work organisation and labour relations while enhancing employment and social security.
ETT
- European Training Thesaurus
La flexicurity è una strategia di politica economica che cerca di conciliare, in maniera sincronica e deliberata, le richieste di flessibilità provenienti dal lato delle imprese con
un’elevata protezione dei lavoratori, da realizzarsi attraverso un rafforzamento dell’apparato degli ammortizzatori sociali e la realizzazione di politiche attive che supportino le
transizioni nel mercato del lavoro. Secondo questa definizione, flessibilità e sicurezza sono considerate complementari: questo implica un passaggio dal concetto di job security (sicurezza sullo specifico posto di lavoro) al concetto di
employment security (stabilità dell’occupazione durante la
vita attiva). Il dibattito comunitario sulla flexicurity è largamente ispirato all’esperienza e alle recenti performance macroeconomiche della Danimarca, primo paese a realizzare
un esteso modello che coniughi flessibilità contrattuale e
sicurezza e riqualificazione dei lavoratori. Tuttavia, un modello unico di flexicurity non è proponibile perché l’equilibrio tra flessibilità e sicurezza è il risultato di un lavoro di
negoziazione tra le varie parti sociali e, naturalmente, dipende fortemente dal contesto culturale, sociale ed economico del paese. Nello specifico, sono suggeriti quattro possibili sentieri che gli Stati membri, a seconda del loro punto
Osservatorio Isfol n. 2/2011
199
di partenza, potrebbero intraprendere come prioritari per
accrescere il grado di flexicurity: 1) contrastare la segmentazione delle forme contrattuali; 2) accrescere gli elementi
di flexicurity interni all’impresa; 3) ridurre i divari di skills e
competenze della forza lavoro; 4) accrescere le opportunità
per i lavoratori occupati nel settore informale e per chi riceve indennità di disoccupazione. Per monitorare lo stato di
attuazione da parte dei singoli Stati, la Commissione, a partire dal 2008, utilizza i Piani di Riforma Nazionali, dove devono essere riportate le singole specifiche strategie di flexicurity e i progressi raggiunti rispetto ad esse. Accanto a
questa forma di monitoraggio formale la Commissione ha
lanciato la Mission for flexicurity con la quale sono stati avviati degli incontri informali in Francia, Svezia, Finlandia,
Polonia e Spagna. Il lavoro svolto dalla Mission ha reso ancora più evidente la complessità del binomio flessibilitàsicurezza e come questo possa prendere forma nell’ambito
delle politiche del lavoro. L’esportabilità del modello di flexicurity è legata alle caratteristiche del mercato del lavoro
e, più in generale, dell’intero sistema economico-sociale di
un paese. La ripartizione delle competenze in tema del mercato del lavoro tra i diversi livelli di governo nell’ambito del
sistema italiano pone pertanto la necessità di analizzare, da
un lato, il contributo dello Stato e, dall’altro, quello delle
Regioni e delle Province autonome al conseguimento della
strategia di flexicurity definita a livello comunitario. In Italia, si registra una situazione in cui le tipologie contrattuali
flessibili, quali i lavoratori parasubordinati (collaboratori
coordinati continuativi o a progetto), i lavoratori autonomi
ad essi assimilabili, e altre forme contrattuali a termine, si
sono dilatate nell’ultimo decennio. Inoltre, accanto alla presenza di politiche passive (ammortizzatori sociali) particolarmente rigide e restrittive, si registra negli ultimi anni un
significativo aumento della segmentazione fra lavoratori a
tempo indeterminato e temporanei, con un basso livello di
transizione tra lo status di lavoratore temporaneo e/o atipico e quello di lavoratore a tempo indeterminato. L’utilizzo di
contratti flessibili, anche se per un verso ha portato a un
aumento dell’occupazione complessiva, dall’altro ha messo
in evidenza un allungamento del periodo di transizione da
impieghi precari a impieghi stabili, rendendo il contratto a
tempo indeterminato un vero e proprio miraggio. La governance delle politiche del lavoro in Italia attribuisce un ruolo fondamentale alle Regioni nella programmazione e at200
Parole chiave
tuazione delle politiche attive del lavoro e di formazione. Il
modello italiano prevede in sostanza una regolamentazione
su contratti di lavoro e ammortizzatori sociali (salvo interventi in deroga) decisa a livello nazionale; politiche attive
del lavoro e politiche di formazione attribuite invece a Regioni e Province. La programmazione di adeguate politiche
attive, da far corrispondere alle politiche passive, richiede la
sinergia di attori e competenze, ma anche di risorse che i
diversi attori, a livello nazionale e locale, possono rendere
disponibili, con particolare riferimento alle risorse dei POR
destinate all’adattabilità dei lavoratori, allo sviluppo di politiche e servizi per l’anticipazione dei cambiamenti, all’aumento dell’efficienza, dell’efficacia, della qualità, dell’inclusività delle istituzioni del mercato del lavoro e allo sviluppo
dei servizi per il lavoro. Un’efficace combinazione delle politiche attive e passive del lavoro e l’applicazione di un modello di flexicurity passano necessariamente attraverso la
programmazione regionale. Appare chiaro che non esiste un
unico modello di flexicurity a cui le politiche regionali devono conformarsi, ma che gli interventi di policy debbano essere modulati in accordo alle diverse condizioni di contesto
dei mercati del lavoro regionali. In sostanza, sembra si possa affermare che in Italia l’applicazione della flexicurity presuppone un vero e proprio cambiamento culturale, passando
da una filosofia di pensiero basata sulla sicurezza del posto
di lavoro (job protection) a un’altra maggiormente incentrata sul concetto di sicurezza dell’occupabilità (employment
protection), da realizzarsi mediante una compensazione della minore sicurezza e continuità della carriera lavorativa con
migliori opportunità lavorative e maggiore sicurezza sociale
per tutti i lavoratori a tempo determinato e precari.
Paola Furfaro
Immigrazione
A process by which non-nationals move into a country for the purpose of settlement.
OIM
- Glossary on migration
L’OIM (International Organization for Migration) definisce il
fenomeno migratorio come connaturato alla stessa esistenOsservatorio Isfol n. 2/2011
201
za umana, ricomprendendovi in senso generale qualsiasi
spostamento della popolazione, indipendentemente dalla
portata e dalle cause. Da sempre le persone si spostano attraversando confini internazionali o anche all’interno del
proprio territorio nazionale. Le dinamiche possono essere
individuali o collettive: legate a condizioni di vita civile rese
insostenibili oppure connesse a eventi catastrofici a carattere naturale o provocati dall’uomo. I movimenti migratori
si svolgono, qualsiasi sia la causa che li genera, in un contesto di crescente globalizzazione e sono determinati in larga
misura dalla ricerca di condizioni di vita migliori: dal punto
di vista economico/reddituale, attraverso la possibilità di ingresso nel mercato del lavoro del paese di destinazione, ma
anche in termini qualitativi legati a elementi di sicurezza
sociale, garanzia di libertà democratiche, accesso all’istruzione, alla sanità e agli altri servizi pubblici essenziali. Il termine «immigrazione», nello specifico, connota il fenomeno
migratorio attraverso le implicazioni che lo stesso determina dal punto di vista del paese di «accoglienza» e che possono ricondursi globalmente alla questione dell’integrazione
sul duplice fronte economico-lavorativo e socio-culturale.
Gli immigrati, infatti, sono in larga parte persone che entrano in un paese diverso da quello di origine per costruirsi una
nuova vita e stabilirvisi in molti casi per sempre. Ne deriva
la necessità che questo inserimento avvenga senza conflitti
con le società «ospitanti», ponendo le basi – a livello culturale così come giuridico-normativo – per la costruzione di
una graduale reciprocità di diritti e doveri. Le regole di accoglienza, i diritti di cittadinanza, i modelli di integrazione
nei confronti degli immigrati sono per lo più definiti su base nazionale. Conseguentemente, risulta difficile trattare
della questione senza misurarsi con la sfera degli atteggiamenti sociali che emergono nei diversi paesi e che, determinando condizioni di maggiore o minore apertura del tessuto
sociale all’accoglienza degli immigrati, condizionano inevitabilmente le scelte dei governi nazionali. A partire dagli
anni Ottanta è possibile osservare un processo di «convergenza» tra le politiche in materia di immigrazione nei vari
Stati dell’Europa occidentale, secondo due tendenze principali: da un lato, limitazioni restrittive a nuovi arrivi, secondo caratteristiche comuni quali programmazione dei flussi,
regole e procedure per l’ingresso, incoraggiamento al rientro volontario nei paesi di origine; dall’altro, un orientamento più liberale sulle leggi per la naturalizzazione degli
202
Parole chiave
immigrati di lunga permanenza o di seconda generazione,
sulla concessione di status di residenza semipermanenti,
sulla concessione dei diritti di partecipazione politica e sociale, compreso il diritto di voto nelle elezioni amministrative. Attualmente, l’opinione prevalente a livello UE si fonda
sulla consapevolezza che la migrazione internazionale costituisce un’opportunità importante per la crescita e lo sviluppo dell’Unione che ha bisogno della forza lavoro dei migranti. Tuttavia, vi è la necessità di gestire la migrazione in
maniera tale da tener conto delle capacità di accoglienza
dell’Europa sul piano del mercato del lavoro, degli alloggi,
dei servizi sanitari, scolastici e sociali, proteggendo i migranti dal rischio di sfruttamento da parte di reti criminali.
A tale scopo, i paesi UE stanno lavorando ormai da oltre vent’anni per armonizzare le proprie politiche di immigrazione
e di asilo. Notevoli progressi sono stati fatti nell’ambito dei
programmi di Tampere (1999-2004) e dell’Aia (2004-2009),
che hanno posto la questione migratoria in termini di priorità a livello comunitario. A questi, nel 2005, ha fatto seguito l’adozione da parte del Consiglio europeo di un approccio
integrato alla questione, equilibrato, globale e coerente, in
grado di ottimizzare il governo del fenomeno migratorio,
ponendo in essere – in cooperazione con i paesi terzi – efficaci misure di contrasto all’immigrazione clandestina. Più
recentemente, il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo
(2008) ha rafforzato la base per le politiche comuni in materia di immigrazione e di asilo: in uno spirito di reciproca
responsabilità e solidarietà tra i paesi dell’UE e di partenariato con altri paesi del mondo, il documento dà nuovo impulso al costante sviluppo di una politica comune sull’immigrazione e l’asilo, che tenga conto sia degli interessi collettivi dell’Unione che delle specifiche esigenze dei suoi Stati
membri. La convergenza su tali impegni è stata da ultimo
ribadita nel contesto più ampio del Programma di Stoccolma (2010), documento di riferimento per i prossimi anni per
tutti gli aspetti riguardanti l’area libertà, sicurezza e giustizia, dalla promozione dei diritti fondamentali alla politica
europea sulla giustizia civile e penale. In uno specifico capitolo sull’immigrazione e sul diritto d’asilo dal titolo «Un’Europa all’insegna della responsabilità, della solidarietà e del
partenariato in materia di migrazione e asilo», ferma restando la necessità di contrastare l’immigrazione clandestina anche attraverso un controllo mirato delle frontiere, il
Consiglio sottolinea l’opportunità di sviluppo che l’Unione
Osservatorio Isfol n. 2/2011
203
deve ricercare attraverso un’immigrazione regolare, sostenibile e ben governata. In tale ottica, l’integrazione effettiva di cittadini di paesi terzi soggiornanti legalmente resta la
chiave per massimizzare i benefici dell’immigrazione. La
cooperazione europea può contribuire a politiche di integrazione più efficaci negli Stati membri fornendo incentivi e
sostegno all’azione da essi svolta. Analoghi diritti, responsabilità e possibilità per tutti costituiscono un obiettivo al
centro della cooperazione europea per l’integrazione, tenendo conto della necessità di un equilibrio tra diritti e doveri dei migranti. In linea con gli orientamenti UE, l’Italia –
che nell’ultimo decennio ha sperimentato uno dei tassi
maggiori di incremento della popolazione straniera, che ha
raggiunto 5 milioni di presenze, pari all’8% della popolazione – si è recentemente (2010) dotata di un documento strategico, il Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e
incontro che riassume la strategia del governo, adottata alla luce del Libro Bianco sul futuro del modello sociale
(2009), al fine di promuovere un efficace percorso di integrazione degli immigrati, nel rispetto delle prerogative e
delle competenze dei diversi attori istituzionali coinvolti,
nonché delle procedure previste dalla legislazione vigente. Il
Piano si accompagna all’Accordo di integrazione, principale
strumento operativo previsto nel cosiddetto Pacchetto sicurezza. La sfida è sicuramente quella di costruire un sistema
di inclusione, ma anche di supporto al rientro in patria,
composto di aiuti diretti allo sviluppo dei paesi di origine, di
regolamentazione delle politiche di ingresso e di integrazione sul territorio. In considerazione delle diverse fattispecie
di immigrazione, infatti, è indispensabile combattere la
clandestinità e passare da un’immigrazione subita a una
programmata, ponendo le basi per un autentico incontro
fondato sulla conoscenza, il riconoscimento e il rispetto reciproco delle identità culturali in gioco.
Monia De Angelis
204
Parole chiave
Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro
Insieme di norme, regole ed azioni finalizzate alla tutela dei lavoratori, alla prevenzione e all’abbattimento dei rischi e dei pericoli sui luoghi di lavoro.
Colombo Conti, esperto ISFOL sulla sicurezza
Nell’Unione europea la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro rappresentano argomenti tra i più importanti, strettamente collegati all’occupazione e alle politiche sociali. Fin
dalla sua istituzione, la Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio (CECA), fondata nel 1957, ha adottato iniziative
di questo tipo, come, ad esempio, l’art. 137 del Trattato CE
con il quale la Comunità si impegnava a promuovere il miglioramento delle condizioni presenti negli ambienti di lavoro. In questa prima fase, le politiche in materia sono concentrate sulla prevalenza delle finalità economiche della
Comunità, quindi la dimensione sociale, relativa alla tutela
della sicurezza nei luoghi di lavoro, ha un’ampiezza limitata.
Invero, le politiche e i relativi poteri d’intervento nel settore
della prevenzione sono affidati esclusivamente all’azione e
alla collaborazione degli Stati membri. Per questo motivo,
nello stesso anno, è stato istituito e regolamentato un Comitato permanente per le condizioni di sicurezza e salute
nelle miniere di carbone, la cui competenza è stata ampliata con successivi provvedimenti legislativi a tutte le industrie estrattive. A partire dagli anni Settanta, sono stati costituiti il Comitato consultivo per la sicurezza, l’igiene e la
tutela della salute sul posto di lavoro e la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro,
con il preciso compito di assistere la Commissione nella preparazione e attuazione di azioni di settore. Dal 1978 cominciano a essere predisposti specifici piani d’azione all’interno
dei quali si è concretizzato un corpus normativo comunitario, fondamentale per lo sviluppo delle legislazioni nazionali in materia di prevenzione. Con il primo programma di
azione quinquennale (1978-1982) veniva sottolineata l’esigenza di stabilire regole per la protezione contro le sostanze pericolose. Ancora, il Consiglio ha approvato nel 1980 la
direttiva quadro 1107 sulla protezione dei lavoratori contro i
rischi derivanti dall’esposizione da agenti chimici, fisici e
biologici e una serie di provvedimenti concomitanti su questioni specifiche. Il rinnovato interesse del legislatore comuOsservatorio Isfol n. 2/2011
205
nitario in materia è confluito nell’Atto unico europeo del
1986, il quale ha segnato una svolta nella politica comunitaria anche nel settore della sicurezza sui luoghi di lavoro.
All’articolo 138 vengono introdotti tre obiettivi fondamentali: migliorare le condizioni di salute e di sicurezza sul luogo di lavoro per i lavoratori; armonizzare le condizioni dell’ambiente di lavoro per tutti i lavoratori, in qualsiasi Stato
membro lavorino; lottare contro il «dumping sociale» con
l’attuazione del mercato unico. In altri termini impedire che
per ricercare vantaggi concorrenziali le imprese spostino le
loro attività verso le regioni con un livello di protezione inferiore. Le successive direttive, adottate ai sensi dell’articolo
138, stabiliscono requisiti minimi in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Se il livello di protezione previsto in uno Stato membro è inferiore rispetto ai requisiti minimi delle direttive, questo è tenuto a innalzarlo. Le disposizioni adottate non impediscono ad alcuno Stato membro di
mantenere o introdurre misure più rigorose. L’Atto unico europeo ha anche introdotto l’articolo 95 che si prefigge di
sopprimere tutti gli ostacoli agli scambi nel mercato interno. Detto articolo è pertinente anche per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, e i suoi corollari applicativi intendono garantire che vengano immessi sul mercato prodotti
sicuri compresi macchinari e dispositivi di protezione individuale per uso professionale. Il successivo programma d’azione approvato dalla Commissione e adottato dal Consiglio
nel dicembre 1987 si concentrava su alcuni settori prioritari quali il miglioramento dei dispositivi di sicurezza ed ergonomici, una migliore protezione della salute, la promozione
di una politica per la formazione e l’informazione con iniziative specifiche a favore delle piccole e medie imprese. Il
1989 è segnato dall’emanazione di una fondamentale norma per l’economia della materia, la Direttiva quadro 89/
391/CEE, che mira a garantire un elevato livello di protezione
dei lavoratori, da raggiungere sia attraverso misure preventive di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali, sia promuovendo la formazione dei lavoratori
e dei loro rappresentanti. La direttiva ha costituito la base
per tutta una serie di provvedimenti incentrati su un’ampia
gamma di questioni, dalle attrezzature di lavoro, all’esposizione ad agenti cancerogeni, alla tutela delle lavoratrici gestanti e dei lavoratori esposti al rischio di atmosfere esplosive. Gli anni Novanta hanno visto accrescere l’importanza
del settore salute e sicurezza all’interno delle politiche co206
Parole chiave
munitarie. Il 1992 è l’Anno europeo dedicato alla sicurezza,
all’igiene e alla salute nei luoghi di lavoro. Nel 1994 è stata
istituita l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul
luogo di lavoro, col preciso compito di fornire agli organi
comunitari e agli Stati membri informazioni tecniche, scientifiche ed economiche da utilizzare nel campo della salute e
sicurezza. Il quarto programma comunitario è datato 1995;
in esso si esamina la possibilità di migliorare l’attuazione
delle disposizioni comunitarie, consolidare e rivedere le disposizioni in vigore, presentare nuove proposte a tutela di
settori di lavoro ad alto rischio o per particolari categorie di
lavoratori. Nello stesso periodo è stato approvato un programma di misure «non legislative» denominate SAFE (Safety
Action for Europe), allo scopo di fornire appoggio a progetti
di carattere pratico finalizzati a migliorare le condizioni di
lavoro specie nelle piccole imprese. Nell’ultimo decennio
l’adozione e l’applicazione di un sempre più vasto corpus
normativo comunitario ha permesso di migliorare le condizioni degli Stati membri, e di compiere notevoli progressi
per quanto riguarda la riduzione degli infortuni e delle patologie connesse all’attività lavorativa. Nell’ambito della
Strategia di Lisbona (2000) gli Stati membri hanno riconosciuto che la garanzia della qualità e della produttività sul
luogo di lavoro può contribuire in maniera determinante alla promozione della crescita economica e dell’occupazione.
A tale proposito, la Commissione nella definizione delle sfide riguardanti il periodo 2002-2006 ha preso in considerazione una serie di fattori quali: i cambiamenti del mondo del
lavoro; la diversificazione delle forme di occupazione; la
modifica dei rischi. Gli stessi per realizzare il piano strategico passavano attraverso specifici step come il miglioramento dell’applicazione del diritto esistente, l’applicazione di un
approccio globale che combinasse strumenti giuridici e partenariati, il conferimento di una dimensione internazionale
al tema della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, articolando gli interventi della Commissione con gli organismi
internazionali, quali Organizzazione Mondiale della Sanità e
Organizzazione Internazionale del Lavoro, per definire e attuare strategie globali volte a combattere il lavoro infantile
e gli effetti delle dipendenze dall’alcol e da sostanze psicotrope, che incidono sulla tutela della salute e della sicurezza
nel lavoro. Si rammenta, altresì, la strategia 2007-2012 che
ha tra i suoi obiettivi primari quello di ridurre ulteriormente
gli infortuni sul lavoro nei paesi UE. Per raggiungere tali traOsservatorio Isfol n. 2/2011
207
guardi, la strategia esennale ha proposto la realizzazione di
una serie di interventi, quali: la creazione di un contesto lavorativo moderno ed efficace; favorire lo sviluppo di strategie nazionali adatte alla situazione specifica di ciascuno
Stato membro, a seconda delle sue condizioni economicosociali; regolare i flussi migratori; far fronte ai mutamenti
demografici per rispondere alle esigenze di una popolazione
attiva che invecchia.
Giovanni Bartoli e Ruben Di Stefano
208
Parole chiave
Rassegna
Alessandrini Giuditta (a cura di)
Formare al management della diversità: nuove competenze e
apprendimenti nell’impresa
Guerini e Associati, Milano, 2010 (Biblioteca del personale,
24), 222 pp.
Gestione delle risorse umane; Integrazione; Organizzazione
del lavoro
Le situazioni di lavoro contemporanee sono caratterizzate da
fenomeni socio-economici correlati alla globalizzazione, come la «multietnicità» quale fenomeno connesso alle dinamiche migratorie e all’integrazione di soggetti stranieri nelle
aziende. I contributi presenti nel volume esplorano i modi
attraverso i quali il dialogo interculturale diventa fondamentale per mantenere la competitività delle imprese e condizioni di benessere organizzativo e di equità nel rispetto dell’alterità. Le strategie di accoglienza verso la diversità, infatti, possono rappresentare per l’impresa un significativo valore anche nell’ottica del raggiungimento del bene comune.
Bonizzoni Paola
Madri lontane, madri ritrovate: spazi e tempi delle migrazioni
femminili
«Animazione sociale», 62 (2011), n. 2, pp. 132-142
Donne; Migrazioni; Politiche sociali
Il fenomeno delle donne che migrano per lavoro mette a
dura prova le relazioni con la famiglia di origine, specie con
i figli. Attraverso le parole delle protagoniste di alcune storie di migrazione al femminile, l’articolo mostra come la
maternità a distanza sia un evento tutto da apprendere.
Inoltre molto spesso i percorsi di ricongiungimento mal si
Osservatorio Isfol n. 2/2011
209
conciliano con l’imprevedibilità e le emergenze della vita
familiare transnazionale, oltre a richiedere sacrifici di cui gli
stessi migranti non sono consapevoli.
Borioni Paolo
I modelli nordici: genesi, concetti, sfide
«Economia & lavoro», 44 (2010), n. 3, pp. 49-86
Flexicurity; Politiche dell’occupazione; Welfare state
L’articolo presenta i sistemi di welfare nordici nella loro capacità diacronica di determinare politiche economiche e del
lavoro orientate alla produttività e alla piena occupazione.
Tale compromesso, però, viene, tramite la ricostruzione storica, definito come una serie di prassi in cui il presupposto
determinante è la diversità di interessi fortemente organizzata, non già, come spesso superficialmente ritenuto, l’inclinazione consensuale dei nordici. Sulla scorta di ciò vengono poi corretti alcuni dispositivi concettuali, aggiornandoli alla luce di quella che è la migliore e più recente ricerca in storia sociale ed economica in questo campo. Infine,
l’assenza di consenso antropologico viene corroborata con
una panoramica su come e quanto le riforme intraprese negli ultimi anni in Svezia e Danimarca siano orientate a mutare proprio i presupposti di un equilibrio fra autonomia degli interessi, forza della loro rappresentanza, welfare e compromesso economico-sociale.
Carparelli Antonia, Berti Katia
Europa 2020: le politiche contro la povertà e l’esclusione nella
strategia europea per il prossimo decennio
«La rivista delle politiche sociali», 2010, n. 4, pp. 53-74
Esclusione sociale; Politica comunitaria dell’occupazione; Povertà
La nuova strategia dell’Unione europea, Europa 2020, propone una risposta integrata e innovativa alle sfide economiche e sociali che la crisi economica ha evidenziato o aggravato. Proposta e adottata nel pieno dell’Anno europeo
contro la povertà e l’esclusione sociale, Europa 2020 pone
la riduzione della povertà e dell’esclusione come una delle
priorità dell’Unione e definisce un obiettivo quantitativo da
raggiungere prima della scadenza del decennio. Per sostenere e dare credibilità a questo impegno, la Commissione
europea ha proposto un’iniziativa faro, la Piattaforma europea contro la povertà e l’esclusione sociale, che avrà tra i
suoi compiti quello di far leva sull’innovazione sociale per
trovare risposte adeguate a rischi sociali vecchi e nuovi.
210
Rassegna
Cedefop
The Benefits of Vocational Education and Training
Publications Office of the European Union, Luxembourg 2011
(Research paper, 10), 32 pp.
Politiche della formazione; Valutazione delle politiche
Rispondendo alla necessità di supportare le politiche VET, sia
a livello decisionale che di intervento, con solidi risultati di
ricerca in grado di mettere in evidenza i benefici legati a diverse alternative di apprendimento, il Cedefop ha raccolto e
analizzato, grazie al contributo dei propri Partner ReferNet,
i dati della ricerca europea sui «benefit» legati all’IFP, al fine
di realizzare una prima mappatura della ricerca in quest’ambito. Questa pubblicazione, nello specifico, presenta i risultati delle ricerche condotte nel periodo 2005-2009 in Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Italia,
Cipro, Lituania, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia, Finlandia, Svezia, Regno Unito, Norvegia, Islanda. Vengono considerati sia i «benefit» di tipo economico che quelli a carattere sociale, con
approfondimento, ove possibile, delle relazioni tra i due tipi.
Commissione europea
Strategy for Equality between Women and Men: 2010-2015
Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2011,
13 pp.
Donne; Lavoro femminile; Pari opportunità; Politiche comunitarie
Nonostante i considerevoli progressi registrati negli ultimi
decenni in termini di parità di genere, sono ancora molti i
gap da colmare. La presenza delle donne nel mercato del lavoro risulta ancora concentrata nei settori meno remunerati ed è ancora bassa nei posti decisionali. La strategia della
Commissione europea per la parità di genere delinea un
programma in quest’ambito per il periodo 2010-2015, fissando tra le priorità l’eguale diritto delle donne all’indipendenza economica, alle opportunità del mercato del lavoro e
all’accesso ai ruoli decisionali. Il documento, inoltre, sottolinea la necessità di promuovere la dignità femminile e di
combattere la violenza sulle donne. La Strategia delinea gli
sforzi UE per integrare la parità di genere anche nelle azioni
dirette all’esterno, quali le politiche dell’allargamento e dello sviluppo. Infine, prende in considerazione questioni di ordine trasversale, quali i ruoli di genere, il quadro legislativo
e gli strumenti per la promozione dell’uguaglianza.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
211
Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea (a cura di)
Condizione occupazionale dei laureati: 13. indagine 2010:
marzo 2011
Istruzione universitaria; Occupazione giovanile; Placement
L’indagine AlmaLaurea relativa al 2010 ha coinvolto migliaia
di laureati del 2009 (oltre 113.000 di primo livello; 48.500
biennali specialistici; oltre 13.000 a ciclo unico, ovvero i
laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza) intervistati a un anno dal conseguimento del titolo. Per
la prima volta vengono indagati 30.355 laureati biennali
specialistici a distanza di tre anni dal titolo e i laureati del
2005, intervistati dopo cinque anni (pre-riforma). L’intera
documentazione, disaggregata per ateneo, facoltà, fino all’articolazione per corso di laurea, è disponibile su <www.
almalaurea.it/universita/occupazione>.
Fondazione Silvano Andolfi (a cura di)
Le seconde generazioni e il problema dell’identità culturale:
conflitto culturale o generazionale?
CNEL, Roma, 2011, 108 pp.
Immigrati; Integrazione sociale
I ragazzi immigrati «di seconda generazione» rappresentano
una realtà emergente: nati o vissuti in Italia per gran parte
della propria vita, vengono tuttavia percepiti come stranieri
nel tessuto sociale. L’integrazione pensata per i loro genitori, forse, non è necessariamente la più adeguata per loro e
può essere utile ripensare a un inserimento di questi giovani tentando nuove strade. Sulla base dei risultati di un questionario somministrato a due gruppi campione – l’uno di
adolescenti nati da genitori italiani, l’altro di adolescenti «di
seconda generazione» – la ricerca tenta di verificare se la
seconda generazione debba affrontare il processo di svincolo e di costruzione di un’identità autonoma secondo caratteristiche analoghe a quelle dei coetanei nati da genitori
italiani, oppure se debba incontrare difficoltà diverse, generate dalla contemporanea appartenenza a due culture.
International Labour Organization
A Skilled Workforce for Strong, Sustainable and Balanced
Growth: a G20 Training Strategy
ILO, Geneva, 2010, 48 pp.
Cooperazione internazionale; Crescita economica; Politiche
dell’occupazione; Sviluppo delle risorse umane
Dotare la forza lavoro delle competenze richieste per i lavori di oggi e quelli di domani è una questione strategica nel
212
Rassegna
contesto delle prospettive di sviluppo e crescita di tutti i
paesi del G20, i cui leader si sono impegnati a rafforzare le
strategie della formazione per far fronte alle sfide di una
crescita forte, sostenibile ed equilibrata in ciascun paese e
globalmente. A tal fine, essi hanno chiesto all’ILO di sviluppare, in partnership con altre organizzazioni, NGO e parti sociali, una strategia della formazione che, accanto alle indicazioni di ordine strategico, indicasse anche una serie di
misure a livello operativo. Il presente rapporto riflette lo
sforzo di definizione di tale strategia; esso si compone di tre
parti focalizzate, rispettivamente, sulle ragioni che rendono
necessaria una strategia sulle competenze, sul quadro concettuale che sottende una tale strategia, e su una serie di
raccomandazioni per una sua efficace realizzazione.
International Labour Organization
Germany: A Job-centred Approach
ILO, Geneva, 2011 (Studies on Growth with Equity), 116 pp.
Crescita economica; Mercato del lavoro; Occupazione
A seguito della crisi, la Germania ha registrato una delle sue
peggiori flessioni in termini di produttività. Nonostante ciò,
l’occupazione ne ha risentito solo marginalmente. Lo studio
mostra come tale risultato sia il frutto di una strategia mirata costruita attorno al lavoro. Esso, inoltre, pone in evidenza le questioni che più di altre necessitano di intervento
al fine di consolidare la ripresa economica. In particolare, i
risultati più significativi, sia in campo economico che sociale, sono attesi dalle azioni volte ad accrescere l’attrattività
del mercato del lavoro.
International Monetary Fund, International Labour Organization
The Challenges of Growth, Employment and Social Cohesion:
Joint ILO-IMF Conference in Cooperation with the Office of the
Prime Minister of Norway
ILO, Geneva, 2011, 112 pp.
Coesione sociale; Crescita economica; Occupazione
La crisi finanziaria globale e la conseguente recessione hanno avuto conseguenze devastanti sull’occupazione e in termini di povertà. Le stime dell’ILO parlano di 34 milioni di disoccupati al mondo, come conseguenza della crisi. Il contrasto alla disoccupazione e la conquista di un «lavoro decente»
per tutti sono da considerarsi priorità nel contesto delle misure per il superamento della recessione economica globale.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
213
ISMU, CENSIS, IPRS (a cura di)
Immigrazione e lavoro: percorsi lavorativi, centri per l’impiego,
politiche attive
Fondazione ISMU, Milano, 2010 (Quaderni ISMU, 1), 300 pp.
Immigrazione; Mobilità professionale; Servizi per l’impiego
L’indagine mira a operare una ricostruzione quali-quantitativa dei percorsi lavorativi degli stranieri nel nostro paese, al
fine di delinearne una vera e propria tipologia. L’indagine
PER.LA (Percorsi lavorativi dei cittadini stranieri) ha quindi inteso esplorare il complesso dei fenomeni riguardanti l’ingresso e la permanenza nel mondo del lavoro degli stranieri, concentrandosi su numerosi aspetti: le caratteristiche
degli occupati e dei disoccupati, gli episodi di mobilità, ovvero i passaggi da un’attività lavorativa a un’altra o da una
condizione contrattuale a un’altra, l’accesso (o meno) ai
Centri per l’Impiego, l’utilizzo di corsi di formazione.
Lauro Carlo, Ragazzi Elena
Sussidiarietà e istruzione tecnico-professionale in Italia: note
metodologiche per la ricerca
CERIS-CNR, Torino, 2010 (Working paper, 6), 33 pp.
Formazione professionale integrata; Istruzione tecnica; Sussidiarietà
Il focus è come applicare il principio di sussidiarietà e le implicazioni derivanti dal livello di applicazione dello stesso
nel settore educativo, in particolare sul versante dell’istruzione e formazione tecnica che si offre come terreno ideale
per due sfide poste dai recenti processi di riforme: l’integrazione dei diversi percorsi che uno studente può seguire per
conseguire un diploma tecnico (ovvero scuole professionali
e corsi di formazione) e quella della lotta alla dispersione e
all’abbandono scolastico, sfruttando la lezione proveniente
dalle migliori pratiche realizzate in quest’ambito.
The Lisbon Council
An Action Plan for Europe 2020: Strategic Advice for the Postcrisis World
The Lisbon Council, Bruxelles, 2011 (Lisbon Council Policy
Brief, 2), 32 pp.
Crisi economica; Politiche comunitarie
Raccolta di contributi di esperti, professionisti e innovatori
che hanno introdotto un tangibile cambiamento nei rispettivi campi disciplinari e di attività. I temi sono volutamente
di ampio respiro, riflettendo la natura interdisciplinare della
214
Rassegna
Strategia Europa 2020. La prefazione a cura di Wim Kok, ex
primo ministro dei Paesi Bassi e autore del Rapporto Kok
sulla revisione di medio termine della Strategia di Lisbona,
prepara il terreno per gli articoli che seguono, contestualizzando la crisi attuale in una dimensione globale e riflettendo su alcune delle lezioni chiave apprese in oltre un decennio di esperienza con la Strategia di Lisbona.
Lucidi Federico, Raitano Michele
Disparità territoriali e governance delle politiche del lavoro in
Italia: quale spazio per la flexicurity?
«Economia & lavoro», 44 (2010), n. 3, pp. 125-149
Ammortizzatori sociali; Flexicurity; Regioni
La riflessione sull’applicabilità dei principi della flexicurity
nel contesto del mercato del lavoro italiano è caratterizzata
da un modello regionale di gestione delle politiche attive
del lavoro e delle attività di formazione professionale, a cui
si contrappone la regolamentazione a livello nazionale delle forme contrattuali e degli ammortizzatori sociali (salvo i
recenti interventi in deroga). Si propone una chiave di lettura sul ruolo delle regioni in questa prospettiva, alla luce delle marcate disparità territoriali presenti in Italia, ricostruendo un quadro di contesto aggiornato rispetto ai principali
indicatori e presentando un modello di classificazione delle
regioni italiane rispetto alle diverse strategie di policy attuate nel recente passato.
Martiradonna Angela
Frontiere e confini: questioni aperte sull’immigrazione in Italia
e in Puglia
Stilo, Bari, 2010 (Scaffale multiculturale), 96 pp.
Immigrazione; Integrazione; Intercultura
Dietro numeri e statistiche, i problemi reali dei popoli migranti e le risposte che il sistema paese può dare, cercando
di superare l’inadeguatezza delle soluzioni finora tentate
che hanno visto prevalere due tendenze. L’una vede nell’immigrazione un’emergenza da affrontare con misure più o
meno restrittive, l’altra si fonda su un approccio di assistenzialismo a tempo indeterminato. L’immigrazione è l’anello
debole di una società che, di fronte allo «straniero», si sente
messa in discussione e stenta a trovare soluzioni adeguate.
La proposta che viene portata avanti nel volume è quella di
far leva su una cittadinanza attiva che reagisca, operi e si
impegni per la formazione di un’autentica società interculOsservatorio Isfol n. 2/2011
215
turale, fondata sul riconoscimento dei diritti delle persone e
di tutte le culture in un clima di reciproco rispetto delle
identità culturali in gioco.
Meo Antonella
Lavoratori immigrati a Torino: fattori di vulnerabilità e processi di impoverimento
«La rivista delle politiche sociali», 2010, n. 4, pp. 259-282
Condizioni di lavoro; Immigrati; Integrazione sociale
L’indagine analizza l’impatto della congiuntura economica
sulle condizioni di vita e di lavoro degli stranieri, rilevando
come a Torino l’attuale crisi economica stia compromettendo quel processo di integrazione sociale che molti stranieri,
da tempo nel nostro paese, avevano avviato nell’ultimo decennio, facendosi raggiungere dai familiari, acquistando casa, perseguendo obiettivi di insediamento stabile. Il quadro
che traspare è contrassegnato da forti criticità: un generale
peggioramento delle condizioni di lavoro, casi diffusi di perdita dell’occupazione e di ripiegamento sul lavoro nero, serie difficoltà a reperire opportunità di impiego, diminuzione
delle tutele lavorative.
Merlini Fabio, Bonoli Lorenzo (a cura di)
Per una cultura della formazione al lavoro: studi e analisi sulla
crisi dell’identità professionale
Carocci, Roma, 2010 (Biblioteca di testi e studi, 581), 238 pp.
Domanda e offerta di lavoro; Fabbisogni formativi
Da alcuni anni, ormai, ci troviamo di fronte a trasformazioni che ridisegnano lo spazio del mondo del lavoro e della
formazione: precarizzazione dei rapporti lavorativi, destrutturazione dei percorsi professionali e formativi, identificazione problematica con l’attività professionale sono alcuni
degli effetti più rilevanti di un’evoluzione che interpella come mai prima d’ora i quadri e le istituzioni di riferimento
tradizionali. Un punto fermo, tuttavia, sembra essere quello
del ruolo assegnato alla formazione per permettere agli individui di rispondere alle nuove richieste del mondo del lavoro. Ma di quale formazione si tratta? Il volume affronta la
questione attraverso una riflessione teorica sulle ragioni di
questa evoluzione e attraverso un’analisi sulle sue conseguenze in un settore professionale particolare, quello sanitario. I due percorsi permetteranno di riaffermare l’importanza di una formazione capace, al contempo, di accogliere
e di orientare le esigenze del mercato del lavoro.
216
Rassegna
OECD Directorate for Science, Technology and Industry (STI),
Centre for Educational Research and Innovation (CERI)
Workforce Skills and Innovation: An Overview of Major Themes in the Literature, by Phillip Toner
OECD, Paris, 2011, 73 pp.
Competenze; Capitale umano; Organizzazione del lavoro
Questo documento fornisce un resoconto dei principali approcci, dibattiti e testimonianze in letteratura sul ruolo delle
skills per le professioni coinvolte in tipi specifici di attività
che risentono particolarmente dell’innovazione tecnologica.
Organisation for Economic Co-operation and Development
International Migration Outlook 2010
OECD, Paris, 2010, 358 pp.
Immigrazione; Mercato del lavoro;
Il Rapporto annuale dell’OCSE analizza gli sviluppi in materia
di flussi migratori e i principali cambiamenti introdotti nelle politiche migratorie nei paesi dell’OCSE, inerenti le nuove
leggi che governano l’entrata e il soggiorno degli immigrati,
nonché l’accesso degli stessi al mercato del lavoro, l’assunzione selettiva degli immigrati in base alle esigenze del
mercato del lavoro e ai sistemi a punti, e le misure volte ad
agevolare l’integrazione degli immigrati. È descritto inoltre
l’impatto dell’immigrazione sui cambiamenti nella popolazione in età lavorativa degli ultimi decenni, nonché il ruolo
dei flussi migratori nell’espansione della popolazione in età
lavorativa nel corso del prossimo decennio.
Paolucci Giorgio
Immigrazione: problema o risorsa? La sfida della convivenza
nel segno dell’identità arricchita
Viverein, Roma, 2010 (Le chiavi, 5), 95 pp.
Immigrazione; Integrazione; Intercultura
Sono più di cinque milioni gli stranieri che vivono stabilmente in Italia. Superando le immagini stereotipate e spesso strumentali fornite dai media e i pregiudizi generati dall’intolleranza o, all’opposto, dal buonismo, questo libro propone una fotografia ravvicinata di un fenomeno irreversibile e pervasivo, che deve essere governato in maniera realistica e lungimirante e vuole offrire alcune piste di lavoro
per costruire una nuova convivenza nel segno di un’identità
forte e aperta.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
217
Polverari Laura, Vitale Rossella
Riflessioni sulla riforma della politica di coesione per il periodo
2014-2020: stato del dibattito e prospettive per l’Italia
«Rivista giuridica del Mezzogiorno: trimestrale della Svimez:
associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno»,
24 (2010), n. 4, pp. 1211-1252
Coesione sociale; Politiche comunitarie
L’articolo ripercorre le tappe che hanno portato alla Quinta
relazione sulla coesione, pubblicata dalla Commissione europea, identificandone le proposte principali e le prime reazioni che stanno animando il dibattito sulla riforma della
politica di coesione UE per il periodo 2014-2020 e le loro
implicazioni per l’Italia.
Rauner Felix, Smith Erica
Rediscovering Apprenticeship: Research Findings of the International Network on Innovative Apprenticeship (INAP)
Springer, Berlin, 2010 (Technical and Vocational Education
and Training: Issues, Concerns and Prospects, vol. 11), 175 pp.
Apprendistato; Formazione professionale; Formazione sul luogo di lavoro
Il volume riunisce i contributi di alcuni tra i principali ricercatori nel settore e con la sua visione d’insieme di un certo
numero di progetti nazionali offre un colpo d’occhio sulle
pratiche attuali e sulle questioni interdisciplinari legate all’apprendistato. Le esperienze e gli insegnamenti tratti dalle
pratiche in atto, nei paesi europei così come in Australia e
negli Stati Uniti, offrono interessanti e documentati spunti
di riflessione per i policy makers e per gli studenti.
Regione Umbria. Agenzia Umbria Ricerche
Primo rapporto sull’immigrazione in Umbria
Agenzia Umbria Ricerche, Perugia, 2010 (AUR Rapporti), 270 pp.
Immigrazione; Integrazione; Intercultura
Dal primo rapporto sull’immigrazione in Umbria esce l’immagine di una regione oggettivamente multietnica. I quasi
90.000 immigrati regolari presenti nel territorio regionale
fanno sì che l’incidenza dei migranti si appresti a oltrepassare la soglia del 10% della popolazione, soglia mai raggiunta in alcuna regione italiana, che l’Umbria potrebbe superare per prima. Si stima, inoltre, un’ulteriore crescita nei
prossimi anni per raggiungere, nel 2014, il 15%. Si tratta di
un dato quantitativamente rilevante segno di una stabilizzazione delle migrazioni in Umbria: quella che fino a un de218
Rassegna
cennio fa era una terra di passaggio per flussi migratori diretti verso il Settentrione diviene più recentemente una meta frequente per stabilirsi e lavorare. La regione mostra un
elevato grado di integrazione, più sul versante sociale che
su quello lavorativo, e una capacità di andare ben oltre la
semplice accoglienza. La popolazione umbra ormai da tempo, quasi un trentennio, cresce pressoché esclusivamente
per il saldo migratorio, sebbene ai modesti flussi di un tempo si siano sostituiti i trend di intensa crescita della componente relativa agli immigrati di questi ultimi anni. La legge
regionale umbra sull’immigrazione risale al 1990, agli inizi
di questo processo. In vent’anni di applicazione della l.r. n.
18/1990 sono stati realizzati ben 1.621 progetti particolarmente radicati e capillari nei territori e nelle comunità locali, con un protagonismo diffuso di associazioni, cooperative,
scuole e municipalità. Interi comparti economici nella regione si reggono ormai prevalentemente sul lavoro delle
maestranze migranti: l’edilizia, così presente in Umbria, insieme all’agricoltura e al lavoro di cura nelle case dei nostri
anziani, non potrebbero continuare a svilupparsi se private
dell’apporto degli immigrati e delle immigrate.
Rete Europea Migrazioni (a cura di)
Mercato occupazionale e immigrazione: terzo rapporto EMN
Italia
Eidos, Roma, 2010, 124 pp.
Immigrazione; Mercato del lavoro; Statistiche
Il rapporto intende approfondire il tema dell’immigrazione
quale possibile risposta alle esigenze del mercato del lavoro
italiano. Con tale finalità, lo studio mette a disposizione e
commenta le statistiche delle più importanti banche dati,
presenta e analizza le normative nazionali che regolano
l’inserimento lavorativo degli immigrati, mostra quale possa
essere il futuro secondo le previsioni fatte e, infine, si sofferma sulle implicazioni che ne derivano a livello decisionale, limitandosi non solo alle istanze interne bensì allargandosi alla cooperazione con i paesi dai quali provengono gli
immigrati. Le conclusioni mostrano come lo scenario italiano, caratterizzato da un andamento non soddisfacente tanto dell’economia che della demografia, non possa fare a
meno di una quota aggiuntiva di forza lavoro proveniente
dall’estero, il che impone di confrontarsi con irrisolte problematiche di accoglienza e integrazione.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
219
Vanheule Dick (a cura di)
The Implementation of Article 80 TFEU: on the principle of solidarity and fair sharing of responsibility, including its financial
implications, between the Member States in the field of border
checks, asylum and immigration
European Parliament, Bruxelles, 2011, 126 pp.
Cooperazione economica; Immigrazione; Politiche comunitarie; Solidarietà
Lo studio analizza l’ambito e le implicazioni dell’articolo 80
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che fa
riferimento al principio di solidarietà in materia di controlli
alle frontiere, asilo e immigrazione. Vengono prese in considerazione fonti primarie e secondarie del diritto comunitario allo scopo di definire le implicazioni dell’articolo 80 in
termini di adempimenti e giurisdizione. Nell’ambito dello
studio, inoltre, vengono presentati e discussi i risultati di un
questionario somministrato a funzionari pubblici senior UE
riguardo all’ambito di applicazione e alla possibile modalità
di attuazione dell’articolo in questione. Nelle conclusioni
vengono illustrate alcune soluzioni pratiche per l’implementazione di nuovi meccanismi di solidarietà nel campo delle
politiche UE su immigrazione e asilo.
Zanfroni Elena (a cura di)
Educazione degli adulti e realtà professionale
EDUCatt, Milano, 2010, 118 pp.
Educazione degli adulti; Lifelong learning; Orientamento professionale
Il volume pubblica le relazioni tenute dalle professoresse
Theodora Papatheodorou e Gabriella Gilli nell’ambito del
seminario di studi «Apprendere lungo tutto l’arco della vita:
il profilo dell’adulto e i risultati di una ricerca inglese sull’apprendimento dei giovani universitari», tenutosi nel maggio 2008. Inoltre presenta i risultati di una ricerca svolta tra
i laureati dei primi quattro anni accademici del corso di
laurea specialistica in «Educazione e orientamento degli
adulti e sviluppo dei sistemi formativi», attivato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, al fine di dare un riscontro operativo in merito all’effettiva risposta del mondo
del lavoro all’inserimento dei laureati di tale innovativo
percorso di studi.
220
Rassegna
Recensioni
Nuovi giovani, nuova formazione?
Anna Maria Senatore
BIBB,
Neue Jugend, neue Ausbildung? Beiträge aus der Jugend- und Bildungsforschung / Bundesinstitut für Berufsbildung. Elisabeth M. Krekel, Tilly Lex, Bertelsmann, Bielefeld,
2011 (Schriftenreihe des Bundesinstituts für Berufsbildung
Bonn Berichte zur beruflichen Bildung), 284 pp.
Il BIBB, l’Istituto federale tedesco che svolge un ruolo di indirizzo politico e di ricerca nel campo dell’istruzione e formazione professionale, ha recentemente pubblicato una raccolta di contributi che esplora il delicato terreno della transizione dalla scuola alla formazione professionale e si interroga intorno al quesito sintetizzato dal titolo: «Nuovi giovani,
nuova formazione?». Il volume riprende il tema dell’omonimo convegno organizzato nel 2009 a Bonn dallo stesso BIBB
e dal Deutschen Jugendinstitut, ma diversifica la platea degli
autori: accanto ai relatori del convegno, sono infatti presenti altri specialisti del settore che hanno manifestato interesse per il tema prescelto; inoltre, tutti gli studi presentati sono stati selezionati in base a un processo di peer review. Il
tema della transizione è oggetto di un dibattito molto vivo in
Germania, che il presente volume affronta adottando un approccio interdisciplinare, in cui sono coniugate ricerca sociale e ricerca in campo educativo. La questione centrale su cui
gli autori si confrontano, se cioè i giovani che escono dalla
scuola dell’obbligo siano adeguatamente preparati per entrare nel mondo della formazione professionale (all’interno
del sistema duale o di un altro percorso formativo), viene in-
Osservatorio Isfol n. 2/2011
221
fatti analizzata in tutte le sue implicazioni, sullo sfondo del
mutato contesto economico-sociale, della crescita demografica, della crescente mancanza di figure qualificate. In
Germania, il sistema duale della formazione professionale1
svolge una funzione centrale ai fini del processo d’integrazione dei giovani, ma tale funzione si scontra sempre più
frequentemente con difficoltà legate ai mutamenti intervenuti a livello socio-economico negli ultimi anni. Le diverse
angolature sotto cui gli autori affrontano l’argomento, che
vanno dall’analisi degli effetti dei mutamenti socio-economici sui processi di sviluppo adolescenziale, all’adeguatezza
delle competenze fornite dalla scuola, alla qualità della formazione professionale in alternanza, trovano riscontro nelle
tre sezioni tematiche in cui sono raggruppati i contributi. La
prima sezione, dal titolo molto significativo, «Essere giovani
oggi, meglio o diverso? Quanto sono preparati i giovani alle
nuove sfide?», affronta temi squisitamente sociologici, quali
il passaggio dalla prolungata fase adolescenziale alla vita
adulta, l’atteggiamento dei giovani verso il futuro, il ricorso
all’alcol per affrontare il passaggio all’età adulta, le relazioni
interculturali, il livello di orientamento fornito dalla scuola
rispetto alla futura scelta del percorso formativo da intraprendere. La seconda sezione tematica, «Opportunità e rischi
nel passaggio dalla scuola alla formazione professionale. Come riescono i giovani ad accedere alla formazione?», affronta invece più direttamente il tema centrale del volume, interrogandosi sui fattori che possono favorire la transizione, e
amplia il panorama dell’indagine con due contributi che
guardano il primo ai risultati di un’indagine condotta in
Svizzera, il secondo ai dispositivi messi in atto dagli Stati
membri per supportare la transizione. La terza, infine, sposta
l’obiettivo sul versante dell’impresa. «La qualità della formazione aziendale e il suo prezzo: come valutano i giovani in
formazione e le aziende l’attuale prassi formativa?» è la domanda con cui si conclude il volume, analizzando la questione della qualità sotto due punti di vista, quello delle aziende
e quello dei giovani in formazione. Sul primo versante emerge come spesso le aziende interpretino il concetto di qualità
correlandolo soprattutto a propri interessi e priorità; sul versante dei giovani, si evidenzia come le loro aspettative ri1 Sistema tedesco della formazione in alternanza, nel quale confluisce la maggior parte dei giovani (circa i due terzi secondo i dati
Eurydice) che accedono alla formazione professionale.
222
Recensioni
spetto alla qualità della formazione aziendale siano pressoché univoche, ma diverse sono le valutazioni da loro espresse sulla realtà della formazione in impresa. Per la varietà degli argomenti trattati e per l’elevato contenuto specialistico
dei contributi, il volume rappresenta uno strumento utile, in
Germania, per orientare la riflessione dei vari attori coinvolti a livello decisionale nel processo della transizione, ma offre spunti interessanti a una più vasta platea europea in virtù dell’approccio interdisciplinare adottato.
Qualifiche: politiche e pratiche in Europa
Alessandra Pedone
Cedefop, Changing Qualifications. A Review of Qualifications Politics and Practices, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2010, 263 pp.
Le qualifiche ricoprono oggi molteplici funzioni in correlazione ai mutamenti sociali. Si passa da strumento per il riconoscimento dello status personale, sociale e professionale a funzione di filtro per l’accesso all’istruzione, la formazione e il mercato del lavoro. Lo studio del Cedefop, attraverso l’esame di una vasta serie di fonti documentali, inclusa una disamina dei risultati delle sue ricerche sull’argomento, esamina il ruolo e le funzioni delle qualifiche in Europa, analizzando in maniera più approfondita i casi di cinque paesi (Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Regno
Unito) e più sinteticamente i progressi e i mutamenti degli
approcci al tema negli altri paesi. Le qualifiche rappresentano uno strumento per misurare l’apprendimento, fondamentale in quanto i benefici sono visibili principalmente attraverso il riconoscimento di un valore formale accreditato
dalle autorità competenti, dal settore aziendale o dagli erogatori di formazione e istruzione. Lo studio si basa su una
serie di prospettive: evidenza empirica a livello nazionale,
regionale e del settore produttivo, impatto delle qualifiche
su istruzione, economia, lavoro, comunità e individui, analisi del sistema di finanziamento, gestione e monitoraggio,
sviluppo di strumenti analitici, comparazione delle politiche
europee. Il nucleo centrale dello studio Changing Qualifications è costituito dal capitolo 5 relativo all’analisi dei cambiamenti delle qualifiche e dei sistemi di qualifiche: evoluzioni del concetto, meccanismi del cambiamento nei sistemi
Osservatorio Isfol n. 2/2011
223
delle qualifiche, finalità e funzioni, processi di qualificazione, ruolo dei sistemi di qualificazione in termini di lifelong
learning. Gli sviluppi dei sistemi delle qualifiche negli ultimi
dieci anni sono stati significativi grazie all’impulso dell’Unione europea verso la trasparenza. Il Cedefop, considerando le implicazioni delle tendenze attuali in tema di modelli e uso del concetto di qualifica, che diventa sempre più
importante derivando il suo status da un complesso mix di
processi sociali, politici, economici e tecnici, delinea quattro
possibili scenari contrastanti per lo sviluppo nei prossimi
dieci anni e indica le basi di una riforma strategica. Interessanti risultano i tre esempi pratici, basati su paesi e situazioni ipotetici, realizzati per fornire indicazioni ai policy
makers su possibili riforme nel settore, considerando interventi e relative politiche. Il contributo del Cedefop per il futuro delle qualifiche risulta ancora più evidente combinandolo con lo studio OECD sui sistemi di qualificazione collegati con il lifelong learning, offrendo un chiaro metodo per
identificare le questioni chiave nel processo di riforma e i
meccanismi che lo sostengano.
La dimensione sociale di Europa 2020
Sofia Demetrula Rosati
Eric Marlier and David Natali, with Rudi Van Dam, Europe
2020 - Towards a More Social EU?, Peter Lang, Bruxelles,
2010, 280 pp.
Il volume nasce da una richiesta della presidenza belga (luglio-dicembre 2010), come contributo accademico indipendente al fine di poter sviluppare una «piattaforma» di analisi, in riferimento alla Strategia Europa 2020, con la speranza che le analisi presentate nel volume possano fornire un
concreto supporto su come utilizzare le «nuove opportunità» fornite dall’agenda Europa 2020 ai policy makers, ai ricercatori, agli altri soggetti interessati a contribuire alla costruzione di un’Europa «maggiormente» sociale. Nata in un
contesto di profonda recessione economica, Europa 2020
punta su uno sviluppo sostenibile e inclusivo, capace di favorire alti livelli di occupabilità, produttività e inclusione
sociale. Uno dei risultati più importanti presentati dal volume è proprio quello di evidenziare, tra gli effetti dell’attuale
crisi economica e finanziaria, l’importanza del ruolo svolto
224
Recensioni
dalla politica sociale, in generale, e dai sistemi di protezione
sociale nello specifico, in quanto aventi funzione di «stabilizzatore» economico. Di contro, l’ampia analisi effettuata
sul trascorso decennio di Strategia di Lisbona mette in luce
come i livelli di povertà, disuguaglianza ed esclusione sociale, ancor prima dell’intervento della crisi, fossero rimasti
ostinatamente alti. Anche se il Metodo di coordinamento
aperto ha favorito la crescente importanza delle politiche
sociali, sia a livello nazionale che comunitario, attraverso
analisi approfondite, scambi di esperienze, conoscenze, expertise, quello che maggiormente si contesta al trascorso
decennio della Strategia di Lisbona è che le politiche sociali sono rimaste un patchwork non coordinato con scarsa integrazione tra le politiche di protezione sociale, quelle di inclusione, di formazione, di salute e di giustizia. L’analisi critica del passato decennio non deve scoraggiare, ma anzi
porta a una visione in cui la Strategia Europa 2020 beneficerà delle esperienze fatte, fornendo una significativa opportunità per procedere verso un modello sociale più forte,
capace di far interagire gli obiettivi economici, quelli occupazionali e quelli sociali. Oltre a ciò si ricorda che Europa
2020 trova un terreno favorevole preparato dal nuovo Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, il
quale con la Horizontal Social Clause fornisce una base legale per tenere in maggior considerazione quelli che sono
gli obiettivi sociali, affinché possano essere utilizzati come
strumento di mainstream anche in altre aree politiche rilevanti. Con il nuovo Trattato, inoltre, è aumentata la possibilità di una migliore protezione, rafforzamento e modernizzazione dei sistemi nazionali di protezione sociale e dei servizi cosiddetti non economici. Il Trattato fornisce, anche, la
giustificazione per interventi comunitari su uno spazio più
ampio di quello strettamente sociale, quale quello di un livello di educazione e formazione più alto, una migliore protezione della salute del singolo e la riduzione delle ineguaglianze. Accanto a ciò permane ancora alto il rischio che il
maggior coordinamento in materia di protezione ed esclusione sociale possa essere messo in secondo piano dalle
considerazioni economiche. In particolare se dovesse persistere l’attuale crisi economica e finanziaria le misure di austerity potrebbero velocemente restringere il terreno per difendere le richieste di maggiori diritti sul piano sociale.
Inoltre, non è ancora chiaro come le nuove disposizioni di
governance previste da Europa 2020 si potranno collegare
Osservatorio Isfol n. 2/2011
225
alle più ampie capacità di coordinamento, di cooperazione e
di monitoraggio, adottate attraverso il Metodo di coordinamento aperto, già ampiamente in uso. Infine, si percepisce il
rischio che i nuovi obiettivi di politiche sociali siano compresi solo parzialmente e in maniera incompleta nei Programmi di riforma nazionale (PNR), e che in futuro il monitoraggio delle politiche di protezione e inclusione sociale possa essere solo marginalmente focalizzato sui target di inclusione sociale.
226
Recensioni
Novità Isfol
Baronio G., Gualtieri V., Linfante G., «In mezzo al guado», la
condizione giovanile tra scuola e lavoro, Intervento al IX Convegno internazionale in ricordo di Marco Biagi. Europa 2020:
prospettive comparate e azione transnazionale, Modena, 1719 marzo 2011. ISFOL OA: <http://hdl.handle.net/10448/127>
Giovani; Alternanza formazione-lavoro; Disoccupazione giovanile
Bastianelli M., La domanda di competenze nelle imprese manifatturiere italiane, Intervento a Progetto OAC Apprendimento Organizzazione Competenze, Roma, 4 marzo 2011. ISFOL OA:
<http://hdl.handle.net/10448/134>
Imprese; Apprendimento organizzativo
Bergamante F., La morfologia della partecipazione femminile
al mercato del lavoro nei paesi europei, Intervento al IX Convegno internazionale in ricordo di Marco Biagi. Europa 2020:
prospettive comparate e azione transnazionale, Modena, 1719 marzo 2011. ISFOL OA: <http://hdl.handle.net/10448/128>
Occupazione femminile; Maternità; Lavoro femminile
Bergamante F. (a cura di), Occupazione e maternità: modelli
territoriali e forme di compatibilità, ISFOL, Roma, 2011 (I libri
del FSE, 148)
Conciliazione vita-lavoro; Maternità, Occupazione femminile
Bonacci M., Il sistema ECVET: gli elementi chiave. ECVET: key features, Intervento a Competency and Learning Outcomes Recognitions, Napoli, 30 marzo 2011. ISFOL OA: <http://hdl.handle.
net/10448/157>
Apprendimento permanente
Osservatorio Isfol n. 2/2011
227
Bulgarelli A., A more attractive and relevant vocational education and training: what matters?, Intervento a Agora Conference - A bridge to the future: European vocational education and training policy 2002-10, Session 2, Round table: a
more attractive and relevant vocational education and training: what matters?, Bruxelles, 17 marzo 2011. ISFOL OA:
<http://hdl.handle.net/10448/125>
Politiche della formazione
Bulgarelli A., Le dinamiche professionali, Intervento a 2010 Rapporto sull’occupazione in provincia di Trento, Trento Sala Don Guetti, 24 gennaio 2011. ISFOL OA: <http://hdl.handle.
net/10448/121>.
Analisi del fabbisogno
XXV
Curtarelli M., Gualtieri V., Educational mismatch e qualità del
lavoro: un quadro d’insieme e alcune specificità del caso italiano, Intervento al IX Convegno internazionale in ricordo di
Marco Biagi. Europa 2020: prospettive comparate e azione
transnazionale, Modena, 17-19 marzo 2011. ISFOL OA: <http://
hdl.handle.net/10448/126>
Istruzione secondaria; Istruzione terziaria; Istruzione universitaria
D’Agostino S. (a cura di), La ricerca dell’integrazione fra università e imprese: l’esperienza sperimentale dell’apprendistato
alto: I. La valutazione dell’esperienza sperimentale: II. L’analisi
dei casi, ISFOL, Roma, 2010 (I libri del FSE, 147)
Alta formazione; Apprendistato; Sperimentazione
Di Battista G., Palomba, L., Vergani A. (a cura di), Valutare la
qualità dell’offerta formativa territoriale: un quadro di riferimento, ISFOL, Roma, 2010 (I libri del FSE, 144)
Qualità della formazione; Sperimentazione; Valutazione del
percorso formativo
Lion C., Lupo V., Stocco P., L’avanzamento del FSE 2007-13 in
Italia alla luce di Europa 2020, Intervento al IX Convegno internazionale in ricordo di Marco Biagi. Europa 2020: prospettive comparate e azione transnazionale, Modena, 17-19 marzo 2011. ISFOL OA: <http://hdl.handle.net/10448/140>
Politiche comunitarie; Valutazione delle politiche
228
Novità Isfol
Pistagni R. (a cura di), Perché non lavori? I risultati di una indagine ISFOL sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro, ISFOL, Roma, 2010 (I libri del FSE, 145)
Donne; Lavoro femminile; Mercato del lavoro
Rapporto nazionale di ricerca Refernet 2009: i temi chiave dell’istruzione e formazione professionale in Italia = Refernet national research report 2009: the key issues of vocational education and training in Italy, ISFOL, Roma, 2010 (Strumenti per, 5)
Lifelong learning; Mobilità professionale; Occupazione giovanile
Roma F., Le competenze agite dai lavoratori dell’industria e dei
servizi privati in Italia, Intervento a Progetto OAC: Apprendimento, Organizzazione, Competenze, Roma, 4 marzo 2011.
ISFOL OA: <http://hdl.handle.net/10448/132>
Apprendimento organizzativo
Santanicchia M., Presentazione del Progetto COLOR: COLOR project overview, Intervento a Competency and Learning Outcomes Recognitions, Napoli, 30 marzo 2011. ISFOL OA: <http://
hdl.handle.net/10448/159>.
Apprendimento informale
Severati P., How to make impact evaluation feasible and
cheap, Intervento a What’s new and what works in the EU Cohesion policy 2007-2013: discoveries and lessons for 20142020, Vilnius, 3 marzo 2011. ISFOL OA: <http://hdl.handle.net/
10448/124>.
Valutazione delle politiche; Politiche comunitarie
Osservatorio Isfol n. 2/2011
229
ENGLISH
ABSTRACTS
Michele Tiraboschi, Problemi e prospettive dell’apprendistato, «Osservatorio Isfol», I
(2011), n. 2, pp. 15-31
The need and the meaning of a new reform in apprenticeship arise from considering that
even today, in Italy, this tool keeps on being under and badly utilised: on the one hand, only
one of three types of contracts provided by the Biagi law, namely, the professionalising apprenticeship, is fully operational, while the one aimed at accomplishing the right-and-duty
in education and training, as well as the so-called higher apprenticeship are struggling to
take off. On the other hand, apprenticeship is mainly designed and used as a simple employment contract, where the training aspects appear to be entirely optional and secondary to the working relationship. Over the last fifteen years the Italian legislator has been
trying to emphasize the importance of education and training in apprenticeship; nevertheless, it keeps on being intended as a tool to recruit young workforce at low cost, also considering the generous economic incentives and regulatory measures provided by law.
Sebastiano Fadda, Lavoro in somministrazione e flexicurity, «Osservatorio Isfol», I
(2011), n. 2, pp. 33-46
Within «Europe 2020» strategy, flexicurity is strongly recommended to Member States;
whatever form it’s going to take in our institutional context, flexicurity has to deal with
the complexity of the labor market, considering the action of a multitude of actors (who
have to coordinate and integrate each other) and a variety of policies (which, too, must be
complementary and support each other). This article focuses on the opportunities opened
in such a context for the Employment Agencies, taking into account seven strategic functions for flexicurity: the matching; the outplacement; the combined security; the job search;
the accumulation of human capital; the regularisation of undeclared work; a comprehensive system of social safety nets. The contribution, furthermore, provides an overview showing possible relations between the Employment Agencies and other bodies and institutions
dealing with labor policies in relation to the same functions. Such a scenario calls for the
set up of proper operational tools, as well as adequate institutional arrangements; as a result, the article ends highlighting some fundamental pre-requisites for this to happen.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
231
Francesco Carchedi, Immigrazione e formazione professionale, «Osservatorio Isfol», I
(2011), n. 2, pp. 47-63
The participation of immigrant workers to the productive system – and then their inclusion
in the labour market – is a combined result: 1) of previous competences, acquired in the
native country (studies accomplished, jobs done and professional skills gained, etc.); 2) of
competences resulting from processes of «auto-etero» construction of a professional identity (once they start living in Italy), as a result of the productive sector – or related to the
attraction that this sector plays as source of a correspondent demand – chosen for searching a job; 3) of the features required in order to be able to do a job, and of the changes/
adjustments put in action by those interested in preparing themselves to satisfy such features and be able to enter the productive system. Finally, but not secondarily, it must be
considered the role played by the law context provided for regulating the presences of immigrants and the effects inducted not only within the labour market but in immigrants’
life as a whole, in terms of welcoming / socio-economic inclusion.
Giovanna Giuliano, Simona Tenaglia, Simona Testana, L’integrazione socio-economica
degli immigrati, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 67-85
The analysis proposed in this paper, concerning the relationship between migration flows
and social status, aims to gain knowledge on the effects of regional laws on immigrant population, focusing on tools and channels available for immigrants to access local services
as a way to foster integration processes. The study provides an overview of the previous annual surveys on the integration of immigrants into our country and on their access to social
and health services, as well as to employment and training, considering the local level as
the main dimension where the integration of the immigrant population has to be achieved.
The paper, in addition, shows the main statistics on the number of immigrants in the Italian
regions (level of education, employment status, etc.), and presents the results of an empirical survey conducted in four Italian regions (Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna
and Abruzzo), both trough a description of the access to the local services covered by the
survey, and through a review of econometric models of immigrants’ social integration.
Francesca Bergamante, La modulazione dei tempi di lavoro, «Osservatorio Isfol», I
(2011), n. 2, pp. 87-104
In many contexts, in line with what happens within the EU, the importance of the mechanisms of work-life balance in promoting female employment and activity is commonly reaffirmed. A concept increasingly emerging relies on the idea that «reconciliation» should
be considered and developed starting from the belief that the balance between work and
life times is not a female prerogative. In this context a positive role is played by the theme
of the reorganization of working hours and working time. This contribution firstly aims to
analyze the diffusion of forms of flexible working time in European countries. Secondly, it
deals with some aspects of hourly flexibility, part-time and teleworking in Italy, analyzing
the issue from the double aspect of the labour demand and supply.
232
English abstracts
Emiliano Mandrone, La mobilità sociale, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 105121
«Social mobility» identifies the transition from an initial collocation (origin) to a final collocation (destination) compared to a specific dimension – social, economic, cultural – and
in terms of time. A certain dynamic can be registered in open systems where levels achieved by the first generations tend to be maintained (conservative trend), but this fact does
not prevent the second generations to move towards better conditions (renewing trend).
The contribution highlights the causal inter-generational relations, as well as pathways
towards better and worse conditions, trying to identify some of the reason standing under
the choice of a path, both individually and collectively. The issue is of public interest, because the determination of resources – also and above all human – is one of the primary
and basic functions of the state.
Andrea Ricci, Rendimenti del capitale umano e lavoro, «Osservatorio Isfol», I (2011), n.
2, pp. 123-137
This paper attempts to develop a systematic analysis of the returns of human capital in the
broader context of the structural dynamics of the Italian labor market, using microeconomic data on businesses and workers. It then examines the link between the structural dynamics of the labor market, the wage returns of the education and the evolution of the
quality of job demand, with reference to individual data on wages and employment; on the
other hand, what’s happening «inside» the enterprises, focusing on the returns of human
capital in terms of productive performance. The evolution of the labor market and of the
Italian productive system in recent years is not capable of enhancing investment in human
capital of individuals and businesses.
Domenico Barricelli, Davide Premutico, Pierluigi Richini, Le competenze dei titolari di
microimprese, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp. 139-155
Which are the specific aspects that feature learning of enterprise owners, those distinctive
elements of their paths of professional upgrading and skills development? And which are
the best policies and tools to support the development of learning for these peculiar category of self-employed? Around these issues ISFOL has structured over the years its numerous studies and research with the aim to give evidence to practices and tools for developing and supporting the continuing training of businesses and workers. Considering this scenario and given the centrality of actions and policies firstly addressed to recover (through
training programs aimed at increasing workers’ adaptability) the gap in knowledge and innovation existing in territorial systems characterized by micro and small enterprises, between December 2010 and January 2011 a survey was started to identify specific policies,
models and tools to support skills development of the owners of microenterprises located
in the Regions under Ob. Convergence (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria and Sicily);
this paper provides an anticipation of findings in such a survey.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
233
Elisabetta Perulli, Il Libretto Formativo nei contesti aziendali, «Osservatorio Isfol», I
(2011), n. 2, pp. 157-177
The valorization and recognition of competences (however and wherever acquired) is a
major matter entailing a several-year debate and the strategies of the institutions, both at
national and EU level. Nevertheless, a problem still is in finding tools and methodologies to
give real value to all that is learned in non-formal and informal contexts, especially when
work-related, bringing it into a circuit of social readability and acknowledgement as an
essential component of the human capital. The paper reports the results of a study conducted in 2010 with the aim of assessing ex-ante feasibility for the adoption of the «Citizen Booklet» which is intended as a tool for transparency and enhancement of skills developed in business contexts. In particular, the survey identifies and analyzes 19 case studies
relating to companies which have adopted tools and methodologies for managing and developing their human resources based on skills identification, evaluation and enhancement. The final gain was the construction of a SWOT analysis revealing several key issues for
a possible use of transparency tools able to dialogue with the public ones and thus obtain
the active involvement of the business community in order to create a wider area of learning which includes traditional learning contexts, as well as organizational and social ones.
Cristiana Ranieri, L’identità dell’impresa sociale, «Osservatorio Isfol», I (2011), n. 2, pp.
179-196
The representation of the phenomenon of social entrepreneurship in the welfare system
entails several interests and different points of view; it deals with a system evolving in
terms of identity, and skills, with profiles of disadvantage no longer recognizable under the
traditional categories of sector-based target groups. Looking at the studies carried out
over a decade of institutional activities co-financed by the ESF (ISFOL - Ministry of Labour
and Social Policy), but also approaching other areas of knowledge, several elements (of effectiveness and weaknesses) can be highlighted in direct relevance to the implementation
and promotion, at a local level, of national and European strategies and guidelines addressed to counter the social exclusion of vulnerable groups of population. The observation on
the field, in areas of the country, has highlighted some dimensions as particularly sensitive:
the business negotiation between PA and third sector shows some points of conjunction to
be perfected on both systems; furthermore, knowledge and expertise gained over the years
require to be transferred systematically into «heterogeneous groups of actors». A focal
point is represented by an element of innovation resulting from the use of social clauses in
the procurement system (European Directives 17 and 18 of 2004, transposed in the Procurement Code 163/06), not uniformly introduced over the country. It can be noted that,
though facing the opening toward new market economies (reserved in derogation of competition), some purely technical elements appear to be relevant by the side of quality. The
thesis presented asserts that such an expected quality confirms that the subsidiarity of the
non-profit actors is a key principle in the governance of these policies.
234
English abstracts
AUTRICI
E AUTORI
Domenico Barricelli
Sociologo del lavoro, ricercatore ISFOL presso l’area Politiche e offerte per la formazione
continua, esperto di politiche e interventi nei sistemi territoriali di PMI.
Francesca Bergamante
Ricercatrice ISFOL per l’area Analisi e valutazione delle politiche per l’occupazione. Dottore
di ricerca in Sistemi sociali, organizzazione e analisi delle politiche pubbliche, collabora
con la cattedra di Sociologia industriale e post-industriale della Facoltà di Scienze della
Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma. Ha prodotto numerosi studi e analisi
sui temi dell’occupazione e della partecipazione femminile al mercato del lavoro nel contesto nazionale ed europeo, anche in relazione ai sistemi di welfare.
Francesco Carchedi
Francesco Carchedi è responsabile del settore ricerca del Consorzio PARSEC, studioso di flussi migratori e processi di integrazione sociale, formativa ed economica, nonché dei gruppi
di origine immigrata soggetti a forme di esclusione sociale. Ha pubblicato saggi e volumi
su diversi aspetti relativi alla questione migratoria.
Sebastiano Fadda
È professore ordinario di Economia politica presso la Facoltà di Economia dell’Università
Roma Tre, dove svolge i corsi di Economia e politica del lavoro e di Economia della crescita e del capitale umano. È presidente del Corso di Laurea Magistrale in Mercato del lavoro,
relazioni industriali e sistemi di welfare presso la stessa Facoltà. È attualmente coordinatore della Research Area Labour Economics della EAEPE (European Association for Evolutionary Political Economy). I suoi contributi di ricerca e la sua attività di consulenza riguardano principalmente l’economia del lavoro, l’economia dello sviluppo, l’economia industriale
e l’economia istituzionale.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
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Giovanna Giuliano
Tecnologo ISFOL nell’area Politiche sociali e pari opportunità. Laureata in scienze statistiche
e attuariali presso l’Università La Sapienza di Roma, negli ultimi anni ha lavorato sui temi
dell’esclusione sociale e sullo sviluppo di indicatori multidimensionali di povertà.
Emiliano Mandrone
Ricercatore ISFOL, responsabile della Rilevazione Nazionale ISFOL-PLUS. Economista, ha tra i
suoi principali ambiti di interesse le dinamiche dell’occupazione, lo studio dei rapporti di
lavoro non standard e la definizione di nuovi indicatori sociodemografici. Particolare attenzione pone alle problematiche economiche relative alle questioni giovanile, femminile e
intergenerazionale. Ha insegnato all’Università di Torino, La Sapienza di Roma e a Urbino.
È docente, dal 2010, di Economia del lavoro al Master sulla Sicurezza del lavoro di Roma
Tre.
Elisabetta Perulli
È psicologa esperta di apprendimento per lo sviluppo di individui, gruppi e organizzazioni e
opera da diversi anni nel campo della formazione e orientamento. Dal 1996 è ricercatrice
in ISFOL dove si occupa di apprendimento, riconoscimento e certificazione delle competenze con attività di ricerca anche internazionale e di assistenza tecnica alle istituzioni pubbliche.
Davide Premutico
Ricercatore ISFOL presso l’area Politiche e offerte per la formazione continua. Si occupa delle politiche pubbliche di supporto alla formazione continua per le imprese e per i lavoratori, attraverso l’analisi delle policy e l’individuazione di nuovi modelli e strategie di intervento. Le esperienze pregresse fanno riferimento al marketing, alla ricerca sociale, alla formazione e all’analisi organizzativa, all’innovazione delle metodologie di formazione.
Cristiana Ranieri
Viene dalla formazione in Psicologia clinica e di comunità. Dopo gli studi all’Università La
Sapienza di Roma (1992-1993) ha realizzato approfondimenti dell’approccio etnopsicologico all’analisi dei sistemi di credenze del corpo, della malattia e dei sistemi di risposta organizzati ad essa (in Italia con il CNR, e in Maghreb con il Ministero degli Affari Esteri). Ha
lavorato come operatrice e come ricercatrice nel processo di riforma l. n. 180/1976 e l. n.
328/2000 (nel pubblico e nel privato sociale). Da dieci anni è ricercatrice ISFOL nell’ambito
dell’area Politiche sociali e pari opportunità, occupandosi di temi quali l’esclusione sociale,
l’immigrazione, il Terzo Settore, il lavoro sociale.
Andrea Ricci
Ha conseguito il dottorato di ricerca in Teoria economica presso l’Università degli Studi di
Roma Tor Vergata. Attualmente è ricercatore presso l’area Analisi e valutazione delle politiche per l’occupazione dell’ISFOL. I suoi interessi di ricerca riguardano l’analisi del mercato
del lavoro, dell’istruzione e della crescita economica.
236
Autrici e autori
Pierluigi Richini
Ricercatore ISFOL presso l’area Politiche e offerte per la formazione continua. Si occupa di
modelli di management delle imprese e dello sviluppo di politiche di promozione della formazione delle figure che assolvono funzioni chiave nei processi di innovazione tecnologica e dell’organizzazione del lavoro nelle imprese. Le esperienze pregresse fanno riferimento ai campi della formazione manageriale, dell’analisi organizzativa e dell’innovazione delle metodologie di formazione.
Simona Tenaglia
Ricercatrice ISFOL nell’area Politiche sociali e pari opportunità. Laureata in Economia e
commercio presso l’Università Tor Vergata di Roma, dove ha conseguito il dottorato in Teoria economica e istituzioni, negli ultimi anni ha svolto attività di ricerca sui temi della povertà ed esclusione sociale, indicatori di benessere e qualità della vita, microcredito.
Simona Testana
Ricercatrice ISFOL nell’area Politiche sociali e pari opportunità. Laureata in Sociologia presso l’Università La Sapienza di Roma e specializzata in Scienze organizzative presso la
Scuola di Specializzazione S3 Studium, ha esperienza di ricerca in metodologie previsionali. Negli ultimi anni ha svolto attività di ricerca sui temi dell’esclusione sociale, immigrazione, microcredito e Terzo Settore.
Michele Tiraboschi
Professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio
Emilia e visiting professor dell’Università Pantheon-Assas (Paris II), della Universidad Nacional de Tres de Febrero (Buenos Aires) e della Middlesex University Business School (Londra). È direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati «Marco Biagi» e presidente di
ADAPT – Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle
relazioni industriali. Dal maggio 2008 è consulente del Ministro del Lavoro e delle Politiche
sociali per le questioni attinenti alle politiche del lavoro, alle politiche comunitarie e alla
riforma del mercato del lavoro e, dal novembre 2008, è consulente del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per le questioni attinenti al precariato nella scuola e
nell’università. Dal novembre 2010 è membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’ISFOL.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
237
Per collaborare
alla rivista
Chi volesse contribuire con articoli, approfondimenti o recensioni sui temi trattati nell’«Osservatorio Isfol» può inviare i testi per posta elettronica all’indirizzo: [email protected].
Ogni articolo sottoposto per la pubblicazione verrà valutato dal Comitato scientifico e
dalla Redazione, che hanno facoltà di accettare o respingere la proposta.
Gli articoli devono essere originali e, pertanto, non possono essere già stati pubblicati,
integralmente o in parte, su altre riviste italiane e straniere o essere contemporaneamente
proposti ad altre riviste per la pubblicazione.
Ogni autore che intende sottoporre un articolo alla rivista è invitato a tener conto di alcune indicazioni generali:
• il testo originale va consegnato in file formato .doc o .rtf;
• il foglio dovrà essere impostato con i seguenti parametri: formato A4, 3.800 battute
(spazi inclusi);
• la lunghezza del saggio dovrà essere di 8/15 cartelle, comprese tabelle e figure;
• il saggio dovrà avere un titolo, eventualmente un sottotitolo, e può essere articolato in
paragrafi non numerati (da evitare ulteriori sotto-livelli);
• tabelle e figure devono riportare sempre il numero (ad esempio Tabella 1, Tabella 2
ecc.; Figura 1, Figura 2 ecc.), il titolo e la fonte. In nessun caso vanno utilizzati i colori
(solo b/n, o scala di grigi);
• le note vanno inserite a pie’ di pagina;
• i richiami bibliografici devono inseriti nel testo (Autore, data). A ogni richiamo deve
corrispondere la fonte completa in bibliografia, inserita a fine saggio.
Inoltre, l’articolo va corredato con:
• un riassunto di circa 1.300 battute, preferibilmente anche in lingua inglese;
• indicazione di 3 parole chiave;
• una breve nota biografica dell’autore/autori (300-500 battute);
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Per collaborare alla rivista
• le figure (compresi i grafici) oltre a essere inserite nel testo devono essere fornite separatamente in formato excel, un elemento per foglio, con numerazione corrispondente a
quanto indicato nel saggio;
• le tabelle, oltre a essere inserite nel testo in formato word, devono essere fornite separatamente, con numerazione corrispondente a quanto indicato nel saggio.
L’autore è inoltre invitato ad applicare le norme redazionali della rivista disponibili su
www.isfol.it.
Osservatorio Isfol n. 2/2011
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Es.Cover.ISFOL.n.2_Es.Cover.ISFOL.n.2 10/06/11 13:42 Pagina 1
Contributi di
Domenico Barricelli
Francesca Bergamante
Francesco Carchedi
Sebastiano Fadda
Giovanna Giuliano
Emiliano Mandrone
Elisabetta Perulli
Davide Premutico
Cristiana Ranieri
Andrea Ricci
Pierluigi Richini
Simona Tenaglia
Simona Testana
Michele Tiraboschi
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ANNO I, N. 2/2011
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Osservatorio Isfol, I (giugno 2001)