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provvedere allo stanziamento di altri 28 milioni e si è data facoltà al Governo di obbligare
le Società ad anticipare i capitali necessari per
l’acquisto di materiali in aumento di dotazione, il che importerà un altro onere di oltre
120 milioni.
Riepilogando: fallì completamente il progetto Magliani di far fronte alle spese ferroviarie
mediante emissioni di obbligazioni ammortizzabili in 90 anni. Le costruzioni ferroviarie,
che nei primi bilanci erano messe in conto di
movimento di capitali, dopo formarono una
voce a sé. Ora, nel conto patrimoniale dello
Stato, la spesa, sostenuta dal Governo per la
costruzione delle ferrovie formanti le grandi
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reti, figura per L. 4.645.770.000, ma nell’attivo il valore, che esse rappresentano, è valutato
solo a un miliardo e 200 milioni.
Di - 3.445.700.000 lire quindi è diminuita la
ricchezza nazionale.
Quali i rimedi possibili? Senza nutrire troppe illusioni per l’avvenire, qualcosa in meglio
si può realmente fare.
Prima però, istruiamoci con l’esperienza dei
popoli più ricchi, e vediamo quali risultati abbiano ottenuto essi dai loro sistemi. Dopo, il
problema ci apparirà così chiaro, che le conclusioni verranno quasi a imporsi. s
Luigi Einaudi e Attilio Cabiati
EINAUDI E LA CRITICA ■ 1901 FASCICOLO 15 PAGINA 230
POLITICA FERROVIARIA NELL’AVVENIRE
Luigi Einaudi e Attilio Cabiati
P
ercorrendo i volumi dell’Inchiesta industriale del 1872,
quelli dell’Inchiesta doganale
del 1886, gli Atti stampati della Commissione
doganale del 1892; leggendo gli studi recenti
che Associazioni industriali e Camere di commercio vanno facendo sulle condizioni delle industrie nostre, troviamo costantemente ripetuto
un grido di biasimo contro la eccezionale altezza dei prezzi di trasporto delle nostre Ferrovie. Queste da una parte, Società di navigazione dall’altra, sembrano quasi riunite in Sindacato per creare tariffe, che hanno forma proibitiva. E qui un industriale dimostra come una
tonnellata di ferro trasportata da Manchester a
Palermo costi meno che non condotta ivi da
Milano; là si avverte come il carbone, giunto
sul luogo di destinazione, per causa del nolo e
della ferrovia, costi tre a cinque volte il prezzo
originario; come questo impedisca agli industriali di valersi dei carboni a minor prezzo, ma
più lontani, e di creare quella rapida trasformazione dei motori idraulici in motori a vapore,
che pur sarebbe richiesta da tante tecniche necessità di perfezionamento. Ed è sempre l’altezza delle tariffe di trasporto, che le industrie
concordi portano avanti come uno degli elementi del maggior costo di produzione dei prodotti nazionali, base di tutte le richieste di una
protezione doganale. Che se poi dai reclami
dell’industria passiamo a controllare coi fatti,
vediamo il lento e faticoso accrescersi del traffico delle merci, raggruppato del resto solo intorno a pochi centri principali d’industria, e
l’aumento ancora più misero nel numero dei
viaggiatori (…) Condizione di cose questa tanto più grave, in quanto l’incremènto delle industrie nazionali spinge sempre più il commercio
ad avvalersi dei mezzi di trasporto per intensificare gli scambi interni e spingere i nostri prodotti sempre più lontano dai ristretti cerchi della
nostra esportazione, verso i paesi più remoti.
Occorre quindi cambiar strada. Il primo problema che ci si presenta è questo: concederemo di nuovo le Ferrovie all’esercizio privato,
o lo Stato, liquidando tutto il passato, riprenderà nelle sue mani i mezzi di trasporto così
come si trovano, salvo cercare di far più e meglio per l’avvenire?
Giova riassumere le principali ragioni teoriche pro e contro i due sistemi.
Esercizio governativo. La strada ferrata costituisce, per la sua importanza, a cui è collegata tutta la vita del paese, un vero servizio
pubblico. Come tale, rappresenta una delle funzioni dello Stato moderno, tutore degli interessi
della universalità. Inoltre, la strada ferrata è,
per la sua peculiare natura tecnica, un monopolio. In tal modo, coloro che la esercitano,
possono padroneggiare il pubblico e i commerci, giovare o nuocere a determinate industrie,
o centri di produzione, o centri di consumo, direttamente col mezzo delle tariffe. Indirettamente anche la creazione di potenti Compagnie, che dispongono di forti mezzi finanziari
e di migliaia di uomini, crea quasi tanti Stati
nello Stato, con manifesto pericolo dei diritti
sovrani di questo. Invece lo Stato, esercitando
direttamente il grande monopolio dei trasporti
ferroviarii, si ispira all’interesse di tutto il paese: promuove il traffico, avendo in vista non
solo il benessere presente, ma i bisogni futuri,
nel mentre l’amministrazione ferroviaria, resa
più semplice, con un’unica Direzione centrale
e vigilata dai poteri di controllo, non è certo più
costosa di quella delle Società private. La ferrovia ha anche somma importanza strategica.
Ora, affidata allo Stato, l’amministrazione viene organizzata in modo da rispondere adeguatamente alle esigenze militari, sì in tempo di
pace che in tempo di guerra. Infine, non è da
temersi grave danno politico da questa nuova
azione dello Stato e dal gran numero di nuovi
impiegati governativi. Uno Stato libero e nazionale non può prendere in sospetto il Governo e i suoi rappresentanti. Da noi è il paese che
governa sé stesso, e d’altra parte, quando pure
si verificassero in piccola misura i danni temuti
di una crescente estensione delle funzioni dello
Stato, è facile il provvedere.
Esercizio privato. Dal fatto che le Strade ferrate hanno un’importanza grandissima, non
consegue logicamente che l’esercizio di esse
costituisca una funzione dello Stato. La questione va posta nel modo più concreto e va risoluta considerando imparzialmente la vera
natura dell’esercizio delle Strade ferrate, i frutti dell’esperienza e le reali presenti condizioni
dello Stato italiano.
Chi esercita la Strada ha, sotto un certo
aspetto, prerogative di monopolio, derivanti in
parte dalla natura di questo commercio, in parte dalle leggi. Però è da osservare che una certa concorrenza esiste sempre, diretta e indiretta. Diretta, quella compiuta dalle strade ordinarie, dai tramways che sempre più si estendono e dalle vie di acqua. Indiretta, pel fatto
che uno spostamento nei mercati. Uno dei motivi per cui si invoca l’esercizio diretto dello
Stato, è che il monopolio ferroviario può produrre i suoi effetti dannosi specialmente sulle
tariffe, che formano uno dei lati fondamentali
dell’industria dei trasporti.
Molti ritengono che lo Stato, divenendo
esercente, scemerebbe le tariffe fino al punto
di rimborsarsi delle sole spese vive di esercizio, prescindendo dagli interessi e dalle quote
di ammortamento del capitale d’impianto.
Questa singolare speranza però è smentita assolutamente dai fatti. Così nel Belgio, come
nella Germania, i Governi, spinti da necessità
finanziarie, mantengono le tariffe a tale altezza, da farle partecipare al doppio carattere di
prezzo e di imposta (...)
E se questa forma di imposta può giustificarsi, come vedemmo altrove, in Germania,
non altrettanto può dirsi nel paese nostro, dove
le imposte sono già eccezionalmente elevate,
imperfette e sperequate (…)
Costruisca però ed eserciti il Governo, oppure il privato, sarà sempre necessario che
l’erario pubblico sopporti questo onere, che è
la conseguenza inevitabile dell’avere costruito
la Strada sotto l’impulso di una dichiarazione
di pubblica utilità.
Nuovi treni, nuovi comodi, maggiore velocità, sono altre ragioni, per cui da taluni si chiede l’esercizio governativo. Tutte queste domande in sé sono giuste; ma non giustificano
l’intervento diretto dello Stato, anzi ne costituiscono uno dei maggiori pericoli. Finché la
ferrovia è esercitata dalle Società private, queste si mostrano poco corrive a concedere treni
diretti e grandi comodità su quelle linee dove
il traffico ha una minima importanza. Quando
invece l’industria fosse esercitata dallo Stato,
la confusione dell’amministrazione ferroviaria
con l’azienda generale, da una parte, l’azione
più diretta che sul Governo in tale materia potrebbero esercitare i rappresentanti degli interessi locali, dall’altra, renderebbero più facile
l’esecuzione e il mantenimento in grande di
quelle linee finanziariamente disastrose (…)
E’ necessario che l’amministrazione di una
Ferrovia sia ordinata in forma industriale, e
che il personale abbia attitudine, intelligenza,
spirito industriale, vada soggetto a forte responsabilità individuale, possa essere promosso, premiato, punito o licenziato, secondo i
meriti di ognuno. Ora, quanto ai contratti,
l’amministrazione pubblica, complicata, lenta
e continuamente sindacata, legata inoltre dal
regolamento e dalla legge di contabilità di cui
abbiamo visto tutti i difetti, appare precisamente la più inetta all’uopo (…)
Inoltre, è indispensabile per lo Stato italiano
sottrarsi alla necessità di emettere consolidato
per le spese in conto capitale ed evitare, per le
spese di miglioramento e di completamento
delle Strade, ulteriori emissioni di rendita.
Crediamo di aver portato sufficienti motivi
di ordine finanziario, amministrativo, e morale, per cui l’esercizio ferroviario da parte dello
Stato in Italia si presenta come prematuro. I
difetti riscontrati agevolano assai la via a una
ricostruzione sintetica.
1° E intanto, per generale consenso di quanti
si sono occupati della materia, comprese le
stesse Società, quel principio, così nemico di
ogni perfezionamento, che è la partecipazione
dello Stato al prodotto lordo, va assolutamente
abbandonato.
Le Società Neerlandesi corrispondono allo
Stato un canone, da aumentarsi di una somma
fissa per ogni chilometro di nuova linea che
venga aggiunta a quelle già esercitate da esse,
più una eventuale quota di utili netti. Così lo
Stato nei Paesi Bassi non partecipa più agli aumenti di prodotto lordo, che rimangono alle
Società: queste però hanno a loro carico l’interesse delle spese capitali per miglioramenti
e ampliamenti (…)
Ora il sistema della partecipazione dello
Stato agli utili netti, nel nostro caso, sarebbe o
illusorio o deleterio. Illusorio, qualora lo Stato
si accontentasse di partecipare agli utili nella
misura dei bilanci ad esso presentati dalle Società. Deleterio invece, nel caso più probabile
che lo Stato volesse seguire, con occhio interessato e fiscale, passo passo l’andamento annuale di questi utili...
2° In conformità alle Convenzioni olandesi,
si dovrebbe stabilire che tutte le spese, , debbano sostenersi dalle Società. Nel sistema ora
indicato le Società provvederebbero a quelle
spese nel modo che meglio loro sembrasse opportuno, non eccedendo, s’intende, i limiti di
spesa determinati dallo Stato.
3° Vedemmo anche le continue difficoltà a
cui dà luogo la ripartizione fra le due parti contraenti delle spese ordinarie d’esercizio e di
quelle per gli aumenti e migliorie del materiale
e degli impianti, causa lo stretto nesso logico
che intercede fra di esse. Queste spese dovrebbero pure affidarsi alle Società, contro compenso da calcolarsi nella determinazione del
canone.
4° Rispetto alle nuove costruzioni, sarebbe
opportuno che prevalesse il concetto, già ammesso nelle Convenzioni vigenti, di preventivarne le spese d’accordo con le Società esercenti, e di affidarne completamente l’esecuzione ad esse, riserbandosi lo Stato, qualora sorgessero contestazioni posteriori sulle spese già
preventivate, il diritto di continuare direttamente la costruzione. In tal modo verrebbe eliminato quel sistema scandaloso dei pubblici
appalti, di cui rilevammo altrove i disastro, tenendosi anche presente che l’unica linea italiana, il cui costo non abbia superato il preventivato, fu la Roma-Solmona, costruita appunto
direttamente dal Governo. ….
5° Il problema delle tariffe ferroviarie dovrà,
colle nuove Convenzioni, riprendersi in istudio. Il sistema del canone fisso permette appunto, assicurando lo Stato circa alle sue entrate, di compiere un ardito tentativo per abbassare in modo notevole le tariffe, come è
stato fatto con fortuna da tutte le nazioni civili.
E’ nostra ferma convinzione, fondata sullo sviluppo industriale che l’Italia ha assunto in
questi ultimi anni, che una economia nei prezzi
di trasporto darebbe un tale slancio al movimento commerciale da compensare ad usura
le Società del minore introito unitario.
Il piano avvenire è quindi relativamente semplice. Non eccessive trasformazioni, ma prudente riordinamento di quanto si fece nel passato. Maggiore libertà d’azione e correlativa
responsabilità alle Società esercenti, economia
e onestà maggiori da parte dello Stato. Bisogna persuadersi che qualunque sistema di trasporti non è mai assolutamente cattivo: quello
che lo rende tale è il cattivo andamento degli
affari generali. La Ferrovia, per dirla con termini edonistici, è un bene complementare: e
la sua utilità dipende da quella dei beni diretti.
E dallo sviluppo dell’industria che dobbiamo
aspettarci il rifiorimento di quella dei trasporti.
In tutto il nostro studio abbiamo di proposito
evitato di complicare la questione, introducendovi un lato spinoso: quello dei rapporti fra le
Società esercenti e il personale ferroviario.
Per essi occorrerebbe uno studio speciale: ci
sia concesso dire poche parole.
Se la politica ferroviaria è stata avventata e
dissipatrice in parte, l’atteggiamento delle Società e dello Stato verso il personale ferroviario fu ed è dolosamente iniquo….
I rapporti fra Società e impiegati si riassumono in pochi termini: imprevidenza e mancanza ai patti. L’atteggiamento dello Stato è il
solito: poliziesco. E valga il vero. Già al secolo
CRITICAsociale ■ 21
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decimottavo, Giacomo Bernouilli, in quel calcolo delle probabilità ch’egli chiamava “nodosum et jucundum”, gettava le basi della scienza
delle assicurazioni. Nel 1885 in Italia non si
sapevano ancora creare le Casse pensioni dei
ferrovieri. La storia degli errori tecnici di tale
Istituto sarebbe un documento di onta. Non
passò anno da allora, che relatori di bilancio
non rilevassero il deficit a getto continuo lasciato da dette Casse, non passò anno che - lo
stato non gettasse in esse milioni, che le Società non dovessero aumentarvi le loro quote,
rivalendosi, al solito, con economie ed angherie di ogni sorta sul personale….
Non vi è paese civile, anche dei più liberisti,
dove lo Stato non sia intervenuto, per motivi
di umanità da una parte, di sicurezza del pubblico dall’altra, a regolare in modo tassativo
l’orario di lavoro dei ferrovieri: la stessa Inghilterra, con atti del 1900, dà precise e severe
disposizioni in materia. Noi ammettiamo la libertà di lavoro, ma ad un patto: che essa valga
per ambo le parti contraenti.
È più che mai necessario che il Governo, re-
spingendo le subdole insinuazioni delle Società ferroviarie e dei loro azionisti interessati, intervenga nelle nuove Convenzioni con la massima energia, per regolare in modo rapido e
definitivo la situazione di quei centomila individui, che in Italia mettono in opera i mezzi di
comunicazione e trasporto(…): un organico
ben determinato; un regolamento che minutamente esponga i modi e le cautele per l’avanzamento, il collocamento a riposo, le punizioni
e i trasferimenti; un riordinamento definitivo
delle Casse pensioni; una Commissione arbitrale indipendente, per ricevere i reclami individuali o collettivi dei ferrovieri contro la Società e contro lo Stato, con decisione esecutiva
e inappellabile.
Solo quando le nostre classi dirigenti si saranno convinte, di buon accordo o con la forza,
che il progresso odierno dell’industria capitalista non è e non può essere fondato sull’asservimento e sull’esaurimento dei lavoratori, sarà
avvenuto in Italia quel passo decisivo verso la
civiltà e il benessere generale, che nei paesi più
avanzati è oramai un fatto compiuto. s
EINAUDI E LA CRITICA ■ 1903 FASCICOLO 2 PAGINA 23
IL SISTEMA DOGANALE E L’AGRICOLTURA
Luigi Einaudi e Attilio Cabiati
P
remessa - L’Italia, senza essere oggidì affatto l’“alma parens frugum” dell’antichità,
gode però, per certi prodotti agricoli, i benefizi, immutabili per lunghi secoli, del clima e
del sole. E’ evidente quindi che per tali prodotti si trova nelle favorevoli condizioni di
smercio facile, buono e a buon mercato.
Qui adunque il problema della politica doganale muta e si rovescia. Non si tratta più di
difendere le nostre merci dalla invasione delle
merci forastiere, ma bensì di aprire ad esse il
maggior numero possibile di sbocchi. Se si eccettua il grano o, in generale, i cereali, per gli
altri frutti del suolo, olio, vino, agrumi, è nostro sommo interesse che l’estero non ponga
forti dazi alla loro entrata. Il che non si ottiene
se non con tutto un delicato sistema di compensazioni di contratti, piegando su voci per
le quali le altre nazioni abbiano lo stesso interesse di esportare.
Dividiamo dunque quest’argomento in due
parti: nella prima comprendiamo il vino e gli
agrumi, prodotti ottenuti senza concorrenza
estera e di cui siamo interessati alla esportazione; nella seconda diremo del grano, che per
converso è prodotto in pessima condizione di
concorrenza e di cui si fa pagare al consumatore italiano buona parte delle spese di produzione, superiori a quelle dei paesi concorrenti.
L’aggruppamento di queste tre grandi categorie di prodotti: vino, agrumi, grano, non è
senza ragione, perché le sorti dell’agricoltura
italiana sono collegate strettamente ad esse.
Come vedremo rapidamente, la crisi dei terreni vitiferi è collegata al dazio sul grano e la trasformazione della coltura da cereali a frutta,
legumi e ortaggi tornerebbe di immenso beneficio a tutta l’economia nazionale e specialmente alle classi lavoratrici.
Segue una dettagliata analisi della produzione e dei mercati del vino, agrumi e prodotti
ortifrtutticoli e la seguente conclusione:
Dalle statistiche del movimento commerciale, due fatti sono notevoli: il costante aumento
nelle esportazioni, e lo spostamento avvenuto
negli ultimi anni nelle sue direzioni.
Quanto agli agrumi, il mercato dell’America
settentrionale, che era per noi il primo, assorbendo da solo quasi la metà delle nostre esportazioni, si sta ora chiudendo per noi, causa la
tariffa Dingley de l 1897, che ebbe anche per
gli agrumi un carattere quasi proibitivo. Occorre a questo proposito tener presente che in
questo anno si è manifestato in quella Repubblica una forte corrente, che va imponendosi,
contraria a questo protezionismo assoluto, e
favorevole alla politica dei trattati. Come disse
il Mac Kinley nell’ultimo suo discorso economico, non sono delle teorie che occorrono all’
America del Nord, sono dei mercati.
In ogni modo, la diminuzione, di circa 500
mila quintali, è in gran parte compensata da
maggiori esportazioni per altri paesi, che tendono sempre più a divenire potenti mercati di
consumo dei nostri prodotti. E’ a capo l’Inghilterra, che importa ora per circa 400 mila quintali di agrumi; segue l’Austria, che, da 196 mila quintali nel 1886, passa a 534 mila nel 1900;
poi la Germania con aumento continuo, da 47
mila quintali nel 1887, a 196 mila nel 1900. E.
notisi che, per taluni paesi, le nostre statistiche
segnano cifre di esportazione di gran lunga
minori di quelle segnate per l’importazione
dall’Italia dalle dogane straniere. Ad esempio,
nel 1897 la nostra dogana segna come esportati in Germania 156.611 quintali di agrumi, e
la dogana tedesca ne nota come ricevuti dall’Italia 359 mila!
La Russia pure tende sempre più a divenire
un buon mercato per le nostre frutta.
In alcuni paesi noi siamo quasi gli unici
esportatori: così in Austria e, si può dire, in
Germania. In altri invece, si fa sentire assai viva la concorrenza spagnuola. Essa ci supera di
gran lunga in Inghilterra, specialmente per gli
aranci. La media esportazione della Spagna
ammonta ivi a 8 milioni di quintali. Così pure
essa ci supera nel Belgio e in Svizzera. In Inghilterra dipende dal nostro commercio il
prendere il primato.
Anche per i legumi e ortaggi, sì freschi che
preparati, la nostra esportazione è in continuo
incremento. Siamo incontestati padroni del
mercato austriaco; seguono poi la Germania e
la Svizzera; sopratutto conviene tener gli occhi
rivolti sull’Inghilterra, dove l’esportazione è
salita, da quintali 356 nel 1886, a quintali 5090
nel 1892, por giungere con aumento non mai
interrotto a quintali 49.108 nel 1900!
Il perfezionamento, ottenuto nella coltura
degli ortaggi e nella preparazione, ci incoraggiano a sempre meglio sperare nell’avvenire.
Da quanto si è detto, appare che il nostro
commercio di frutta, agrumi e erbaggi è in
continuo incremento. Giova pertanto con gelosa cura aiutarlo facendo in modo che in futuro non crescano le difficoltà doganali, perché
un inasprimento di tariffe favorirebbe a tutto
nostro scapito la Spagna, il Portogallo, la Turchia e la Grecia. Fortunatamente, le due nazioni che inaspriscono i dazi su queste materie sono sinora solo la Germania e la Svizzera, le
quali non sono certo le maggiori importatrici
né di frutta secche, né di frutta, legumi e ortaggi preparati. La Germania invece appare fra
le prime nella importazione di frutta fresche e
di agrumi: ma non crediamo che con essa sarà
malagevole l’intenderci, facendo concessioni
specialmente sulle industrie metallurgiche,
all’aiuto delle quali la Germania è particolarmente interessata in questo momento.
Una volta assicurati su questo punto vitale,
sarà opportuno che i nostri produttori, in vista
del continuo aumento della esportazione e di
quello non meno notevole del consumo dei
mercati interni, continuino nella feconda opera
intrapresa, specie in Sicilia e nell’Italia meridionale, di estendere la coltura di questi prodotti. E ciò può farsi solo a spese della cerealicoltura. E’ questo il sistema migliore per ridurre al silenzio i sostenitori del dazio sul grano, per spezzare i latifondi del Mezzogiorno
favorendone la quotizzazione spontanea, e sopratutto per migliorare le sorti dei contadini.
Difatti, da un calcolo diligentemente stabilito
dal prof. Bordiga, reputato insegnante della
Scuola superiore d’agricoltura di Portici e avversario al dazio sul grano, risulta che, mentre
la coltura estensiva granaria non esige l’opera
che di 12 a 14 agricoltori adulti per ettaro, e
quella continua a base di granturco e frumento
ne vuole dai 25 ai 30, le colture erboree e ortensi ne vogliono le seguenti:
Vigneto frutteto intensivo del Napoletano:
90-100;
Vigneto frutteto alla pugliese: 40-50;
Oliveto coltivato intensificamente: 60-70;
Agrumeto palermitano: 200-240;
Coltura ortense irrigata molto intensiva:
200-250.
Non riposerebbe forse su queste semplici cifre il problema di redenzione delle nostre plebi
agricole del Mezzogiorno?
IL DAZIO SUL GRANO
C
ome abbiamo detto trattando del vino e degli agrumi, tutto il nostro sistema di coltura del
suolo e tutto il nostro sistema doganale in materia di agricoltura si aggirano su un unico pernio, il dazio sul grano. Abolite questo e tutto
il falso échafaudage faticosamente e dolorosamente rizzato sulle spalle dei consumatori e
dei lavoratori precipita, e l’economia agraria
riprende il suo corso normale, che coincide
con gli interessi della collettività.
E dunque il dazio sul grano il gran nemico,
che è andato prendendo sempre nuove forze
sull’ignavia dei più, i quali non misurarono le
conseguenze dirette e indirette, che esso doveva portare alla economia nazionale.
Prima di entrare a considerarlo noi suoi rapporti speciali con l’Italia, è forse opportuno
aver riguardo ai principi generali con cui i sostenitori di questo dazio ne giustificano la presenza. Principi generali, poiché ora tutti gli
agrari di Francia, di Germania e d’Austria lo
portano sugli scudi e combattono accanitamente per esso, forse perché sentono che, vinta questa battaglia, logicamente e socialmente
mostruosa, non vi è più’ barriera a cui forza
umana possa arrestarli nella concezione del loro sogno vano e pericoloso: che ogni nazione
basti a sé stessa, direttamente, uccidendo lo
scambio, per le sue sussistenze.
Né è solo l’interesse economico di classe a
spingere gli agrari alla riscossa. Per chi, anche
avversando il materialismo storico, guardi bene addentro a questa nuovissima lotta, che non
è che agli inizi, appare a luce meridiana che
per forza di cose dietro agli agrari stanno tutti
gli amici di un ritorno a una vita politica feudale, tutti coloro che sentono come sullo sviluppo industriale si impernii il risveglio della
causa della libertà e dell’avanzamento delle
classi operaie, e come sul rifiorimento di una
proprietà fondiaria non industrializzata, ma
vecchio sistema, riposi la più salda ancora pel
mantenimento dello status quo.
Questo movimento di reazione, ignoto naturalmente agli stessi propugnatori, si rivela in
tutta la sua maestosa imponenza appunto nella
nazione industrialmente più evoluta del Continente, nella Germania, dove il partito agrario
è diretto dai feudatari militari della Prussia. E
ciò mentre in Inghilterra, nella liberalissima
Inghilterra, l’imperialismo e il militarismo si
accompagnano appunto al risorgere delle preoccupazioni per l’agricoltura inglese decaduta
e divenuta tale, solo perché essa non produce
tanto frumento da mantenere i suoi figli in caso di guerra, senza dipendere dallo straniero!
Tanta concordanza di indizi non deve sfuggire a quanti serbano calda nel cuore la fiamma
della libertà economica e politica e, siccome
fortunatamente si è ancora in tempo per discutere, esaminiamo ad uno ad uno i motivi di convenienza e dì giustizia su cui poggiano in Europa i sostenitori del dazio sui cereali, per mantenere una agricoltura, che non si regge più. E
poi, ne faremo le applicazioni all’Italia nostra.
Le ragioni degli agrari. - 1° Il dazio sul
grano aiuta a mantenere una certa fissità nel
prezzo, perché mercé sua si stabilisce un certo
prezzo medio all’interno, indipendente dalle
oscillazioni di valore dei grani esteri.
Invece è proprio il contrario che deve ritenersi esatto. Questo perché, come dimostrano
le statistiche, le oscillazioni nei prezzi diminuiscono di intensità e sono meno avvertite
quanto più è esteso il campo di scambi. Quindi, ad esempio, se una nazione è un mercato
aperto, uno scarso raccolto in tutto il mondo
non porta che un’oscillazione poco sensibile
nei prezzi dei grani; questa invece cresce di intensità quanto più alta è la barriera fra mercato
nazionale e mercato mondiale. Inversamente,
se si tratta di un ribasso di prezzi, questo ribasso si acuisce nei paesi dove esiste un dazio
d’entrata, e si acuisce in proporzione dell’altezza del dazio, in causa degli impedimenti
che esso frappone al libero commerciare dei
prodotti (vedine la lucida dimostrazione nell’aureo libretto del prof. Dietzel: “Kornzoll
und Socialreform” Berlino, 1901).
Numerosi esempi suffragano questa dimostrazione. Del resto tale verità è tanto sentita
dagli agrari d’Italia, che lo scorso anno l’on.
Maggiorino-Ferraris presentava un disegno di
legge per un dazio sui cereali a scala mobile,
tale da assicurare agli agricoltori dell’interno il
prezzo rimuneratore di L. 25 al quintale. Tale
progetto per cui, naturalmente, quando, per una
generale carestia, il prezzo del grano nel mondo aumentava, si abbassava proporzionalmente
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