Indice Introduzione p. 5 I difetti degli oratorii di Händel (Brown) 11 Il Messiah (Burney - Brown) 17 Testo originale (Burney) 49 Note 67 Appendice: Charles Burney, L’oratorio prima di Händel 77 Giuseppe Paolucci, Analisi di una fuga di Händel 89 Charles Jennens, Messiah (libretto) 105 Introduzione La via attraverso cui il Messiah di Händel (1741) diventò un classico della musica inglese ed europea non fu, almeno negli ambienti cólti, del tutto priva di ostacoli. Le due autorevoli voci qui raccolte, quelle dello scrittore e moralista John Brown (1715-1766) e del musicista e storico della musica Charles Burney (1726-1814), rappresentano nel primo caso le perplessità, se non le antipatie nutrite soprattutto da alcuni letterati inglesi coevi verso il compositore sassone naturalizzato, nel secondo la postuma consacrazione del suo oratorio più popolare e con essa la nascita di un mito nazionale, Händel rappresentante dello spirito britannico, tuttora vivo. La lettura comparata dei due opposti giudizi, con la precedenza data a quello più ‘musicologico’, si spera favorisca un ascolto attento e consapevole basato in parte sul chiedersi: «Perché questo brano, questo passaggio, non altri, hanno suscitato reazioni così diverse e perché a me piace, o non piace?» Saldare la prospettiva storica alla riflessione estetica è uno degli ovvi vantaggi che bisognerebbe sfruttare studiando la storia della critica musicale. Lunga e complessa sarebbe l’analisi del retroterra culturale, delle personali inclinazioni e della visione storica che hanno orientato le valutazioni dell’uno e dell’altro critico. Ad ogni modo, non si può dire che i loro scritti siano animati da cieca faziosità. Sebbene vi siano tracce di condizionamento subìto da Burney nella veste di cronista e commentatore ufficiale di una commemorazione, quella dedicata a Händel nel 1784, patrocinata da un entusiasta Giorgio III, l’immagine dell’autore del Messiah trasmessa in tale occasione, al netto della comprensibile enfasi agiografica, non si allontana molto da quella costruita nella General History of Music. Il Introduzione lettore potrà rendersene conto leggendo in Appendice le pagine dedicate da Burney alla storia dell’oratorio in cui i cori händeliani, ritenuti la massima espressione del genere, sono costantemente richiamati come punto d’arrivo di un processo di graduale perfezionamento. Se proprio si deve immaginare un diplomatico silenzio da parte di Burney in mezzo all’esaltazione dei cori del Messiah, questo riguardò le arie troppo lontane dal suo stile preferito, quello “moderno” dei napoletani, qualche accompagnamento strumentale (sempre nelle arie) troppo contorto e le interpretazioni musicali del testo troppo pittoriche, vecchio stile (ma il commento al n. 11 suona come un’imbarazzata risposta all’obiezione che la precisa imitazione di un’immagine fisica è lecita solo quando cattura il senso profondo di un’ampia parte del testo).1 Dal canto suo Brown, nonostante le continue e severe reprimende, non smette mai di dire che Händel è il più grande compositore del suo tempo, colpevole solo di dimenticare la sua grandezza per cedere alla superficialità, alla fretta e alle convenzioni imperanti. Il suo discorso s’inquadra in una visione filosofica, affine nelle premesse a quella di Rousseau, che porta a ritenere l’epoca moderna segnata dal divorzio insanabile tra poesia e musica. Perciò del libretto del Messiah, l’unico oratorio di Händel che evita l’impropria drammatizzazione delle sacre scritture, egli rivendica anzitutto il diritto di ricevere un’adeguata veste musicale; diritto che protestò per primo l’autore del libretto, Charles Jennens, la cui delusione per l’operato di Händel è documentata in alcune sue lettere. Avrebbe certamente infastidito Brown il continuo sfoggio di conoscenze tecniche da parte di Burney mirato ad affermare la naturale superiorità del critico musicista sul critico letterato e la sua serpeggiante pretesa (soprattutto nelle note e nella difesa dell’Amen finale) che di fronte a una musica eccellente a poco valgano disquisizioni di sapore filologico sul corretto rapporto tra parola e musica o, peggio, sul mancato 6 Introduzione rispetto della sillabazione e degli accenti. Si può immaginare, a tale proposito, il disappunto di uno dei possibili «semplici grammatici e filologi» sui quali Burney riversa il suo sarcasmo, Anselm Bayly, che con metodo affine a quello di Brown aveva criticato persino due arie del Messiah da questi molto apprezzate, He was despised and rejected of men e He shall feed his flock.2 Dunque, siamo in una certa misura autorizzati a vedere Brown come un ideale difensore di Jennens e un nascosto bersaglio di Burney. Che vi siano, però, sotterranee convergenze tra i due scrittori è un altro aspetto da cogliere nella lettura. Basti indicare il comune uso di categorie estetiche quali ‘pathos’, ‘contrasto’ e ‘sublime’. Nel saggio sulla critica musicale che apre l’ultimo volume della General History of Music Burney lamenta l’assenza in Inghilterra di una tradizione di critica e di analisi musicale. Tra i contributi stranieri da lui più apprezzati figura probabilmente l’Arte pratica di contrappunto di Giuseppe Paolucci, che sebbene abbia alle spalle l’antica prassi consistente nell’analizzare gli exempla solo in funzione della spiegazione di regole compositive, per ogni brano assume una visione d’insieme e utilizza, ben oltre la valutazione di conformità alle regole di scuola, categorie di giudizio prettamente estetiche. Sono riportate in Appendice (senza interventi sull’ortografia) le sue pagine dedicate a una fuga di Händel in cui, tra le altre cose, mette a fuoco in modo interessante il concetto di “equivoco” in musica. *** I testi raccolti in questo volume nascono dall’esperienza didattica maturata durante i corsi di Metodologia della critica musicale tenuti presso il Conservatorio di Musica «D. Cimarosa» di Avellino. A due studenti dei corsi, Júlia Coelho e Pie7 Introduzione tro Sgueglia, è stata assegnata la traduzione rispettivamente del primo testo di Burney e dei paragrafi 2-4 del secondo (si veda più avanti l’elenco delle fonti). Händel modificò la partitura del Messiah in diverse occasioni tanto che è impossibile stabilire quale sia la versione definitiva. L’edizione curata da Watkins Shaw (London, Novello, 1992) è stata scelta qui come riferimento per la divisione in numeri. Per un quadro complessivo delle varianti si veda la nota 4 alle pp. 71-72. A p. 39 si possono osservare i due diversissimi contesti londinesi in cui Brown e Burney ascoltarono il Messiah: il teatro del Covent Gardent nel 1763 (l’immagine si riferisce alla rappresentazione di un’opera di Thomas Augustine Arne) e l’abbazia di Westminster nel 1784. Massimo Di Sandro Note Si veda quanto affermato da Brown, sull’esempio di Dubos, qui a p. 14, punto n. 2. Cfr. anche William Hughes, Remarks upon Church Musick, Worcester, R. Lewis, 1763 (2a ed.), dove da un lato si ridicolizza l’imitazione della caduta e della risalita nel passo Thou didst open the Kingdom of Heaven del Te Deum di Purcell (p. 13), dall’altro si loda la «rappresentazione» dell’incedere processionale nell’esordio (Zadock the Priest) del Coronation Anthem di Händel (p. 38). Il testo di Hughes, apparso nel 1758, contiene un elogio degli stessi lavori händeliani esaminati da Brown: Messiah, Samson, Acis and Galatea e Alexander’s Feast. 2 Cfr. Anselm Bayly, A Practical Treatise on Singing and Playing, London, J. Ridley, 1771, pp. 71-72. Come Hughes, op. cit., Bayly mette a confronto autori sacri della tradizione britannica, soprattutto Purcell e Händel, incentrando il discorso sul testo del Te Deum. 1 8 Introduzione Fonti CHARLES BURNEY, An Account of the Musical Performances in Westminster Abbey and the Pantheon, May 26th, 27th, 29th and June the 3d and 5th, 1784. In Commemoration of Handel, London, T. Payne and Son - G. Robinson, 1785, parte II, pp. 74-90. Traduzione di Júlia Coelho. JOHN BROWN, An Examination of the Oratorios which have been performed this Season, at Covent-Garden Theatre, London, G. Kearsly - R. Davis - J. Walter, 1763, pp. 7-9 e 16-25. Il testo, apparso anonimo, è stato per lungo tempo attribuito a Robert Maddison. Cfr. Ilias Chrissochoidis, Reforming Handel: John Brown and The Cure of Saul (1763), «Journal of the Royal Musical Association», vol. 136 (2011), n. 2, pp. 207-245. Traduzione di Massimo Di Sandro. Appendice: CHARLES BURNEY, A General History of Music, 4 voll., London, Printed for the author, 1776-1789, vol. IV, cap. II (Rise and Progress of the Sacred Musical Drama, or Oratorio), pp. 105-122. Divisione in paragrafi del curatore. Esempi tratti dall’edizione a cura di Frank Mercer, New York, Harcourt, Brace and Company, 1935, vol. II. Traduzione di Massimo Di Sandro (1) e Pietro Sgueglia (2-4). GIUSEPPE PAOLUCCI, Arte pratica di contrappunto, 3 voll., Venezia, Antonio De Castro, 1765-1772, vol. II (1766), pp. 100-115. 9 I difetti degli oratorii di Händel (Brown) I difetti degli oratorii di Händel Il Dr. Brown afferma con grande candore che «Händel, essendo solo musicista, fu costretto a prendere qualche scrittore a servizio. Ora, essendo questa un’umiliazione a cui persone di talento non si sarebbero ridotte, fu costretto a ricorrere a ‘versificatori’ invece che a poeti. Il tal maniera il testo poetico fu il prodotto del salario e della compiacenza, quando doveva essere la spontanea emanazione del genio. Di conseguenza, la maggior parte dei poemi che egli ha musicato sono tali che avrebbero svilito o screditato qualsiaisi altra musica, fuorché la sua.»1 Purtroppo il carattere bonario dell’autore lo induce qui a un piccolo errore di valutazione. Ai tempi dell’introduzione dell’oratorio, il fatale bisogno a cui egli fa riferimento era evidentemente sentito. Ma quando i suoi caratteri si definirono, uomini di genio sarebbero stati lieti di veder musicate le loro composizioni poetiche da un così abile maestro ed egli non avrebbe dovuto ostacolare alcuno sforzo in tal senso pretendendo d’imporsi oltre il suo campo. Un solo aneddoto convincerà tutti che le opinioni dell’autore di questo scritto non sono né infondate né ingiuste. Una persona che scrisse oratorii per Mr. Händel una volta si prese la libertà di fargli notare, nella maniera più rispettosa, che la musica che aveva composto per alcuni suoi versi era palesemente contraria al loro significato. Invece di prendere questo amichevole suggerimento come si doveva nei confronti di chi, sebbene non un Pindaro, era se non altro miglior giudice di lui in fatto di poesia, egli considerò quest’osservazione come un’offesa alle proprie capacità ed esclamò con tutta la violenza dell’orgoglio ferito: «Cosa? Insegnate la musica a me? La musica va benissimo, al diavolo i vostri versi! Da qui – disse strimpellando il suo clavicembalo – vengono le mie idee. Andate e scrivete qualcosa per loro». Cosa aspettarsi, dunque, da questi cambiamenti [del testo] se non confusione e assurdità? Chi potrebbe sottoporsi a questo trattamento se non uno scrittore in stato di necessità il cui talento e il cui spirito sarebbero umiliati alla stessa maniera dalla cattiva sorte? Nemmeno la musica è priva di errori, anche quando non è influenzata dai difetti del testo poetico: 13 I difetti degli oratorii di Händel 1. 2. 3. 4. 5. 6. «Troppe colorature [musical division] su singole sillabe che oscurano il senso e il significato dell’aria [song]. «Particolari imitazioni di parole di secondaria importanza anziché l’appropriata espressione dei sentimenti dominanti, anche quando capita che tali parole e tali sentimenti siano le une contrarie agli altri. «Arie solistiche [solo song] spesso troppo lunghe, senza un intervento del coro che le animi e le sostenga. Soprattutto il da capo produce quasi sempre un cattivo effetto dal momento che tale insensata ripetizione rende la prima e principale parte dell’aria priva d’interesse».2 In questo discorso può rientrare anche il ritornello [conclusivo], il cui effetto è tanto inutile quanto dannoso perché indebolisce la forza prodotta dall’unione di voci e strumenti col passaggio ai soli strumenti. «Cori qualche volta troppo lunghi senza l’intervento di arie solistiche o duetti per il necessario riposo dell’orecchio, che facilmente si ribella a una così lunga e forzata sollecitazione. «Cori destinati – sebbene di rado – più a far mostra dell’arte del compositore nella costruzione di fughe e canoni che alla naturale espressione del contenuto del testo [subject]. «Cori in molti casi (e in alcuni casi anche le arie solistiche) non abbastanza improvvisi nell’intervenire, essendo generalmente preparati da una sinfonia strumentale di analogo carattere che, suscitando attese e presentimenti, ne sminuisce l’impressione e l’effetto».3 Forse la severità di quest’ultimo rilievo può essere attenuata un po’ se si tratta di facilitare l’esecutore quando è arduo trovare l’intonazione senza che una o due battute preparino la tonalità in cui deve cantare. A questi difetti attribuiti alla musica degli oratorii da Mr. Brown si possono aggiungere: 14 I difetti degli oratorii di Händel 7. La pressoché costante debolezza e banalità dei recitativi. 8. Il frequente fraintendimento che porta a musicare con un recitativo una parte [del testo] che dovrebbe essere un’aria e a musicare con un’aria una parte che dovrebbe essere un coro. 9. In generale, l’eccessiva somiglianza dei cori di uno stesso oratorio sotto il profilo dei soggetti e della condotta generale [conduct]. 10. L’aggiunta, nell’accompagnamento delle arie, di strumenti [obbligati] che per le loro caratteristiche sonore [tone] sviano dall’espressione e dall’effetto [del canto]. 11. La scarsa attenzione agli accenti delle parole che genera tra essi e la musica incongruenze disagevoli per i cantanti e sgradevoli per il pubblico. 12. Nei duetti l’espressione di passioni o sentimenti contrastanti per mezzo dello stesso tema [subject] musicale. 15 Il Messiah (Burney - Brown) Il Messiah PARTE I BURNEY [1] L’ouverture del Messiah, nonostante sia grave e solenne, mi è sempre parsa nelle esecuzioni troppo piatta e ordinaria rispetto alle altre ouvertures di Händel; al contrario, l’energia e la dignità conferite da questa meravigliosa orchestra ad ogni passo della melodia, così come all’armonia nel suo complesso, hanno prodotto effetti che rendono inutile qualsiasi descrizione.1 Le ouvertures di Händel svolgono generalmente la funzione di apertura della prima scena del dramma2 di cui fanno parte e potrebbero davvero esser considerate alla stregua delle prefazioni o delle introduzioni dei libri. Al fine, dunque, di evitare qualsiasi impressione di leggerezza in un’esecuzione di musica sacra come quella del Messiah, Händel ha molto opportunamente finito l’ouverture senz’aria [strumentale]. [2-3] Eppure la breve sinfonia [bb. 1-3] del recitativo accompagnato, o aria parlante, Comfort ye my people [Consolate, consolate il mio popolo] (Isaia 40:1), appare come qualcosa di non adatto allo stile di un oratorio, si direbbe la preparazione di un minuetto leggero, una gavotta o una giga, con cui di solito finiscono le ouvertures. Ma quanto splendidamente rimane deluso l’accorto giudizio dell’orecchio! Difatti, non sono a conoscenza di alcun movimento d’identico tipo, in qualsiasi altra lingua, che sia più gratificante e rasserenante di questo. Non esiste una singola nota, nella melodia principale come nell’accompagnamento, che sia banale, scontata o insignificante. Mr. [Samuel] Harrison, con la sua voce bella e intonata, ha reso giustizia a questo recitativo e all’aria successiva [Ev’ry valley shall be exalted] eseguendoli con decoro, somma purezza e verità d’intonazione.(I) 3 18 BROWN Il Messiah Dal momento che le nostre osservazioni sono state interamente confinate alla parte poetica dell’Occasional Oratorio,4 nel caso del Messiah esse saranno indirizzate principalmente verso la composizione musicale. Non si tratta di un testo drammatico; dunque il metodo adottato per scriverlo non è censurabile. Essendo un lavoro costruito su testi estrapolati, le piccole irregolarità riscontrabili nel loro collegamento e nel piano generale sono senz’altro scusabili. E siccome tutto è tratto espressamente dalle sacre scritture, è ovviamente preclusa qualsiasi critica di pochezza di sentimento o di errata scelta delle parole [diction]. L’autore del libretto [author] è criticabile solo nei casi in cui ha selezionato passaggi che sono fuori luogo o che non si prestano all’espressione musicale [musical expression], mentre il musicista è caduto in errore laddove la musica è [in sé] cattiva oppure non adeguata alle parole. Su questi due presupposti l’autore di questo scritto fonda il seguente esame del Messiah. [PARTE I] [2] L’inizio [bb. 1-4] del brano Comfot ye, comfort ye, my people [Consolate, consolate il mio popolo] ecc. è bello e il recitativo nobile ed emozionante: una notevole eccezione al generale difetto [n. 7]. Il secondo versetto, The voice of him that crieth in wilderness [Una voce grida nel deserto] ecc., è a tratti superiore ai normali recitativi di Händel ma non può essere in alcun modo paragonato al primo. [3] La prima aria [song], Every valley shall be exalted [Ogni valle sia colmata] ecc., è tanto acconcia quanto piacevole. Il tema [subject of the air] è appropriato alle parole e le incidentali imitazioni di exalted [colmata], made low [siano abbassati], the crooked straight [(il terreno) accidentato si trasformi in piano] e the rough places plain [quello scosceso 19