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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda
adolescente.
Gli adulti alla prova
Atti delle giornate di studio
a Borgo Valsugana,
26 e 27 marzo 2004
EDIZIONI
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
ASSESSORATO
ALLE POLITICHE PER LA SALUTE
Trento 2005
Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
© copyright Giunta della Provincia Autonoma di Trento. 2005
Collana
infosanità
numero 42
Assessorato alle Politiche per la Salute
Servizio Innovazione e formazione per la salute
Via Gilli,4 - 38100 Trento
tel. 0461/494037, fax 0461/494073
e-mail: [email protected]
www.trentinosalute.net
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Atti delle giornate di studio a Borgo Valsugana, 26 e 27 marzo 2004
Coordinamento editoriale:
Vittorio Curzel
Impaginazione:
Attilio Pedenzini
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Il convegno di Borgo Valsugana “La domanda adolescente. Gli adulti alla
prova”, focalizza la nostra attenzione sulla necessità di costruire politiche
che partano dai bisogni, dalle domande, ponendo il tema dell’adolescenza
non in termini di patologia o in termini semplicemente problematici, poiché
naturale e transitorio è il carico di difficoltà e di disagi che la caratterizza.
Credo che sia bene affrontare un tema così importante per i futuri cit
tadini da questa visuale, che costituisce nello stesso tempo un elemento di
discontinuità rispetto a un’impostazione del passato e un punto qualificante
del convegno.
Il secondo aspetto che vorrei sottolineare è che anche le istituzioni
locali, in questo caso il Comune di Borgo Valsugana e il Comprensorio della
Bassa Valsugana e del Tesino, si propongono, assieme all‘Amministrazione
provinciale e agli altri soggetti del territorio, come soggetti attivi nella costru
zione di politiche per la salute e il benessere del cittadino. In questo modo
viene nobilitato il ruolo delle autorità locali, che cercano di dare risposte che
non siano semplicemente l’adozione di modelli calati dall’alto e che non si
limitano a rivendicazioni di carattere localistico, ma si pongono responsabil
mente il problema dello stato di salute dei propri cittadini nella sua accezione
più ampia. Anche in questo caso siamo di fronte a un approccio diverso: non
si chiedono piani o interventi preconfezionati, ma li si fa nascere dal basso,
insieme, grazie al confronto con i giovani e con gli esperti.
In questo senso ci stiamo impegnando anche come Amministrazione
Provinciale. È di questi giorni l’approvazione della legge che vuole far par
tecipare attivamente le professioni sanitarie all’elaborazione delle politiche
per la salute. Allo stesso modo vogliamo favorire il coinvolgimento delle
comunità locali, prevedendo strumenti adeguati per far emergere il loro ruolo
di portatrici di progetti capaci di rispondere alla domanda di salute. In questa
direzione va anche la delegificazione del Piano sanitario facendo sì, tra l’altro,
che questo strumento smetta la veste non più attuale di “Piano della sanità”
per trasformarsi in un piano di autentica promozione della salute.
Per queste ragioni va un forte apprezzamento all’Amministrazione
comunale di Borgo Valsugana e al Comprensorio della Bassa Valsugana
e del Tesino, organizzatori del convegno. Al plauso va unito l’auspicio che
questa particolare attenzione nei confronti dei cittadini diventi una sfida da
raccogliere per tutte le nostre comunità locali.
Dott. Remo Andreolli
Assessore provinciale
alle Politiche per la salute
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È molto bello vedere che in questo Trentino, pur piccolo, ci sono molte
iniziative di grande interesse, di grande importanza. Negli incontri che ho
avuto in questi mesi con gli amministratori delle varie zone del Trentino ho
riscontrato che uno dei temi più sentiti e ricorrenti, è proprio la questione
giovanile, talvolta presentata come una questione problematica, altre volte
come il desiderio e la volontà di coinvolgere i giovani, di poter stare con
loro, di poter offrire loro delle opportunità e costruire insieme a loro delle
risposte. Ho sentito amministratori preoccupati, positivamente preoccupati,
anche per la loro responsabilità nei confronti delle nuove generazioni e quindi
vorrei esprimere, anche a nome della Giunta Provinciale, l’apprezzamento
per questa iniziativa e l’apprezzamento anche per tutti coloro che a questa
iniziativa hanno aderito.
Come ha detto il Sindaco di Borgo Valsugana, questo incontro costi
tuisce un’opportunità per fare insieme il punto della situazione dopo tre anni
dall’inizio dell’esperienza dei C.I.C., un momento di verifica e l’occasione
per ritrovare entusiasmo e rinnovare le motivazioni per ulteriori iniziative.
In tutto questo la Provincia cerca di fare la sua parte, anzitutto sostenendo
chi sul territorio queste problematiche le sente, le vive e cerca di affrontarle
con creatività, individuando le risposte migliori.
Spero che quanto emergerà da questo convegno possa diventare utile
materiale di lavoro per il futuro.
Dott.ssa Marta Dalmaso
Assessore provinciale
alle Politiche sociali
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Indice
Premessa ................................................................................................11
Prima sessione.
Cosa chiedono gli adolescenti?
Graziella Fava Vizziello. Holden 2000. adolescenze oggi....................... 21
Cesare Bertassi. Chiedimi se sono felice ................................................ 31
Gemma Pompei. La domanda dell’adolescente e la domanda del genitore ....................................................................... 36
Carlo Buzzi. Un’indagine sui giovani in Trentino ..................................... 40
Marcel Rufo. Prendimi se sei capace! ..................................................... 47
Contributi degli operatori e stakeholders locali........................................ 51
Interventi dei ragazzi che frequentano il Centro di aggregazione giovanile “Totem” di Borgo Valsugana ............ 54
Seconda sessione.
Che cosa possiamo dare agli adolescenti?
Marcel Rufo. Carpe Diem. L’attimo fuggente .......................................... 59
Riccardo Grassi. Politiche sui giovani, per i giovani o con i giovani? ...... 63
Alberto Pacher. Ballando con uno sconosciuto ....................................... 68
Claudio Stedile. Una scuola a misura di adolescente ............................. 72
Contributi degli operatori e stakeholders locali........................................ 78
Laura Froner. Conclusioni ....................................................................... 94
I relatori ................................................................................................... 97
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Premessa
Ritengo che sia innanzitutto un mio preciso compito motivare la scelta del
tema di questo convegno. Le ragioni che già dal 2001 hanno dato origine
all’idea di realizzare un importante momento di confronto tra cultura gio
vanile e cultura adulta, con un occhio particolare all’adolescenza, sono
essenzialmente tre.
La prima è di ordine generale e si richiama all’estrema delicatezza che
sempre ha caratterizzato il rapporto tra le generazioni. È sufficiente osservare
la realtà di tutti i giorni (in particolare per chi è genitore o insegnante o per
quanti sono a contatto dei giovani per vari motivi), oppure prendere visione
dei numerosi rapporti sul tema (è doveroso citare l’indagine coordinata da
Carlo Buzzi sulla condizione giovanile in Trentino), per legittimare la scelta
delle tematiche che saranno trattate nel convegno e l’attenzione particolare
data al ruolo degli adulti nell’accompagnare le giovani generazioni nel com
plesso passaggio dalla adolescenza alla condizione adulta. Complessità
fortemente accentuata da un insieme di circostanze che hanno certamente
complicato il nostro stesso sistema di convivenza. Pensiamo solo alla perdita
del senso del futuro dovuta ad una società che ha molto accumulato in termini
materiali ma che appare molto indebolita sul piano dei valori e dei modelli di
riferimento. Pensiamo a quanto sia rilevante l’incertezza del quadro interna
zionale, soprattutto per quel che riguarda le minacce al bene prezioso della
pace. Pensiamo ai grandi interrogativi che si stanno addensando intorno al
nostro equilibrio ambientale, anche dal punto di vista della qualità e della
vivibilità del nostro habitat territoriale. Pensiamo alla crisi fiscale dello stato
e alle nubi che si addensano sulla previdenza e più in generale sul nostro
“welfare state”. Pensiamo al consumismo che spesso riduce a merce anche
i nostri sentimenti più profondi. Pensiamo ancora agli effetti che la società
dell’informazione, internet in primo luogo, ha sui rapporti interpersonali e
sul nostro stesso significato di comunità. Pensiamo infine a cosa vuol dire
la sfida multietnica, sia per i problemi di convivenza che per gli effetti sulle
nostre antiche abitudini e sicurezze.
Ed è proprio in questa fase storica, così minacciosa, così precaria, così
complessa nei suoi termini di riferimento, così rapida nelle sue trasformazioni
che andiamo a collocare un nodo di per sé già delicato: quello che avvicenda
le generazioni. Quindi un problema nel problema, che merita di essere stu
diato e approfondito con grande cura e attenzione. A questo proposito faccio
mie le parole di Antonio De Lillo che, nella premessa della ricerca IARD che
ho poc’anzi citato, sottolinea come la ricerca sulla condizione giovanile non
sia mai fine a se stessa, ma debba rappresentare uno strumento, calibrato
e rigoroso, da mettere nelle mani di chi, nelle varie istituzioni politiche ed
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educative, vede nei giovani i protagonisti della crescita sociale. Ed è proprio
questo lo spirito che deve permeare questo convegno e la scelta di porre le
caratteristiche, i problemi, le speranze del rapporto tra adolescenti e adulti
all’attenzione di tutta la cittadinanza, ma in particolare, dei genitori, degli
insegnanti, degli operatori sociali e sanitari e di chiunque si rapporti con la
difficile responsabilità di educare e di accompagnare le giovani generazio
ni. Giovani che abbiamo voluto invitare al convegno proprio perché siano
parte attiva e non solo destinatari di un percorso che può essere portato a
termine solo se sostenuto da una forte ed ampia condivisione da parte di
tutti gli interessati.
Il confronto che si svilupperà in questa sede e l’input che gli esperti da
ranno ai partecipanti al convegno serviranno anche agli operatori del nostro
territorio. Territorio comprensoriale che presenta una certa accentuazione
di alcuni disagi della realtà giovanile. Senza voler dare ai dati significati al
larmistici, mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione alcune situazioni
di cui è necessario tenere conto.
Innanzitutto, la scolarità della Bassa Valsugana e del Tesino sembra
risentire di qualche debolezza in più rispetto alla media provinciale. Secondo
i dati riportati nel quinto rapporto sul sistema scolastico provinciale (sono dati
del 2001) il tasso di scolarità superiore è più basso della media provinciale
(anche se conteggiamo la formazione professionale), mentre la percentuale
di alunni che hanno abbandonato il sistema formativo è sensibilmente più
accentuata. Anche se i dati non sono recentissimi (anno 2000) secondo un
rapporto dell’Agenzia del Lavoro, il numero di giovani sotto i 25 anni iscritti
alle liste di collocamento risulta superiore alla media provinciale. Senza
enfatizzare questi dati ritengo comunque che la condizione giovanile del
nostro comprensorio, sia per i livelli di scolarità che nell’accesso al lavoro,
presenti qualche aspetto di maggiore difficoltà rispetto alla media provin
ciale e questo suggerisce qualche approfondimento, legato non solo alle
condizioni economiche ma anche agli aspetti più propriamente motivazionali
e relazionali.
Questa giornata fornirà anche elementi utili per valutare alcune iniziative
messe in atto a favore della popolazione giovanile. Il comune di Borgo Valsuga
na, il Comprensorio C3 e gli istituti scolastici locali hanno dato vita, negli ultimi
anni, a sperimentazioni significative e ad interventi per i giovani. Mi riferisco in
particolare all’avvio dei CIC – centri di informazione e consulenza psicologica
per studenti e famiglie – e allo Spazio Giovani, struttura permanente di servizio
e luogo di aggregazione. Interventi, questi, che si aggiungono ad altre iniziative
nel settore socio-assistenziale e nel settore dell’infanzia, che si richiamano
esplicitamente ai contenuti della legge 285, e alle politiche per la famiglia.
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Vorrei accennare brevemente al progetto dei Centri di Informazione
e Consulenza, mentre lascerei all’Assessore Comprensoriale il compito di
parlare dello Spazio Giovani. Nel 2001 l’amministrazione comunale di Borgo
ha ritenuto, in collaborazione con gli Istituti scolastici del territorio, di rinfor
zare l’incisività delle politiche giovanili, con la realizzazione di un progetto
CIC integrato. Il progetto è stato in più tempi sottoscritto da tutte le scuole
del comune: l’Istituto Degasperi, l’Istituto Comprensivo di scuola elementare
e media, e l’Istituto di Formazione Professionale, ed è stato inteso come
sperimentazione triennale, dal 2001 al 2004. La valutazione dell’efficacia
dell’attività svolta dal CIC ci consentirà di decidere sul proseguimento
e sugli eventuali "aggiustamenti" del servizio. Ricordo che il CIC è per il
giovane uno spazio di ascolto e uno sportello di consulenza psicologica,
mentre per i genitori e gli insegnanti assolve prevalentemente al compito
di consulenza. Nello specifico, il dott. Damianis ha curato e cura il servizio
rivolto ai giovani e la dott.ssa Caumo quello per i genitori e gli insegnanti.
Nel corso del 2003 quest’ultimo servizio è stato esteso anche a genitori e
insegnanti in età prescolare.
Le esperienze dei CIC e dello Spazio Giovani sono, a mio avviso, un
esempio di collaborazione tra vari comparti che si è rivelato particolarmente
utile per dare risposte alle difficoltà degli adolescenti - soprattutto in campo
scolastico e relazionale - e per sostenere l’azione formativa di famiglia e
scuola. Ma vorrei citare anche l’offerta, a mio avviso significativa, che il Co
mune di Borgo ha rivolto in questi ultimi tre anni ai genitori. Si è trattato di un
vero e proprio percorso di formazione che ha toccato "nodi" significativi del
ruolo genitoriale e del rapporto educativo. Sottolineo la risposta consistente
da parte dei genitori, indicatore forse di un mutato rapporto tra istituzioni e
comunità, ma anche di un bisogno di sostegno. Bisogno che non va ignorato,
al quale occorre dare risposte efficaci, che non possono che derivare da
una collaborazione sempre più stretta tra le istituzioni, dove ciascuna, con
le proprie competenze e specificità, "gioca la sua parte".
Il convegno vuole essere un contributo in tal senso, promovendo un
momento di confronto pubblico sullo stato dell’arte delle politiche per i giovani
in un contesto allargato. Abbiamo dunque invitato esperti, operatori, ammi
nistratori a presentarci le loro esperienze, le loro sintesi, le loro riflessioni,
dalle quali ci proponiamo di ricavare un duplice valore: una risposta a una
domanda sul significato del fare politiche per i giovani e con i giovani oggi e
un orientamento programmatico che possa rafforzare, guidare e differenziare
l’evoluzione delle politiche in atto.
Abbiamo semplificato il nostro approccio proponendo una distinzione
fra domanda e offerta. Il versante della domanda è volto a mettere in luce la
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richiesta anche inespressa, il bisogno anche latente, l’intenzione di esercitare
diritti e di accedere ai servizi e alle prestazioni che, nel loro insieme, possono
sostenere il protagonismo dei giovani. Il versante dell’offerta è invece dedi
cato alla verifica della tenuta e dell’appropriatezza delle politiche pubbliche
e al ruolo delle istituzioni, del terzo settore, del libero associazionismo.
È proprio dall’incrocio fra queste due dimensioni che sarà possibile
ricavare risposte precise, originali, commisurate alle specificità locali, al
l’unicità delle persone alle quali è rivolto il nostro impegno, alla irriducibile
peculiarità del loro progetto di vita.
Il mio augurio è che questa nostra iniziativa possa produrre gli esiti
sperati e che ci siano altri momenti come questo per definire sempre più e
sempre meglio le caratteristiche del rapporto tra giovani e adulti, in modo
che l’azione educativa di tutti noi risulti più coerente ed efficace e si tradu
ca, perciò, in benessere per la nostra comunità. Quindi un atteggiamento
dinamico, capace di rispondere al ritmo accelerato delle trasformazioni
sociali e che investe sulla consapevolezza, sulla cultura, sul dialogo e sulla
reciproca collaborazione.
Dott.ssa Laura Froner
Sindaca del Comune
di Borgo Valsugana
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Il futuro, dei nostri giovani ci sta molto a cuore, sia come persone adulte
che come amministratori investiti delle scelte sociali che li riguardano. Il
mio auspicio, che è lo stesso della Giunta comprensoriale, è che queste
due giornate di studio siano feconde e possano contribuire a chiarire quali
sono i bisogni degli adolescenti di oggi e quali priorità dobbiamo considerare
nell’organizzare le nostre risposte in termini di servizi sociali e di presa in
carico della loro qualità di vita.
Sono convinto che i servizi sociali erogati del nostro comprensorio
abbiano raggiunto un buon livello di qualità e rispondano alla maggior parte
dei bisogni rilevati. A tale riguardo, nello spazio riservato agli operatori im
pegnati nel sociale, e in particolare dall’intervento del dottor Pierino Anesin,
coordinatore del Centro aperto minori e responsabile di tutte le attività rivolte
ai giovani e ai ragazzi, avrete modo di conoscere nel dettaglio i servizi at
tualmente erogati sul territorio.
Le istituzioni costruiscono un sistema di regole che devono valere per
tutti, ma sono scritte da adulti per il bisogno degli adulti, mentre la realtà
giovanile porta talvolta con sé un carico di idealismo e di protesta che con
fligge con il mondo costruito dai grandi. È facile, allora, parlare di "devianza
giovanile" e di "disagio", confinando nell’ambito delle patologie quelle che
sono normali manifestazioni di esuberanza e di creatività.
La società che abbiamo costruito è sempre più complessa e richiede
prestazioni sempre più elevate e competenze sempre più specialistiche,
tanto nel mondo del lavoro quanto nella quotidianità. Questa complessità
costituisce la causa principale degli stati di disagio che colpiscono i giovani,
bersagliati da modelli di vita e di comportamento dettati da una molteplicità
di fonti spesso in contraddizione tra loro. Non dobbiamo ingigantire i pro
blemi, ma dobbiamo ammettere che l’adolescenza è stata a lungo la zona
grigia dell’interesse istituzionale e oggi ci accorgiamo di essere in ritardo di
ascolto e di attenzione nei confronti di una fascia di età alla quale abbiamo
chiesto e chiediamo molto senza approfondire i veri bisogni.
Che cosa offrire agli adolescenti e come farlo? Cerchiamo una risposta
con umiltà e serenità senza facili esagerazioni e ricette miracolose; senza,
soprattutto, creare percorsi obbligati e sgraditi, imponendo ancora una
volta scelte e ritmi di vita. Da parte del Comprensorio, che qui rappresento,
c'è la massima disponibilità a raccogliere ogni stimolo utile a rinnovare la
risposta dei servizi ai bisogni dei giovani all’interno di una comunità attenta
ai bisogni di tutti.
Mario Del Sorbo
Assessore alle Politiche sociali
Comprensorio della Bassa Valsugana e del Tesino
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Gli interventi precedenti hanno focalizzato le finalità fondamentali di questa
iniziativa: da un lato il tentativo di coniugare una funzione programmatica di
ampio respiro che deve avere l’ente locale provinciale, regionale, nazionale;
dall’altro il compito delle istituzioni locali di avere il polso della situazione
e, conseguentemente, di riuscire a trovare formule per una lettura più
adeguata di bisogni, che spesso sono estremamente locali e in quanto tali
estremamente specifici.
Si è accennato alla specificità della situazione della Valsugana orien
tale e a un’idea positiva di adolescenza, vista come momento dello sviluppo
e risorsa importante. Certamente questa fase della vita rappresenta anche
una sfida, ma si tratta di una sfida che può far crescere il mondo adulto,
non metterlo in crisi. Vorremmo vedere ragazzi con i motorini, magari un
po’ chiassosi, magari con i capelli pitturati, a volte accettando, perché ci
sembra inevitabile, che vadano in luoghi a loro cari che noi non riusciamo
più a capire perché siamo un po’ troppo lontani dalle nostre adolescenze;
altre volte desiderando invitare i ragazzi nei nostri luoghi, quelli che ci sono
più cari, perché ci rassicurino sul fatto che non siamo neanche tanto distanti
dalle loro adolescenze. Non sempre tutto ciò è facile e deve essere affrontato
in un’ottica di complementarietà e di integrazione.
Il problema – dove per "problema" non si intende qualcosa di pato
logico – è così ampio e articolato che possiamo avere dalla nostra visione
particolare la possibilità di coglierne solo un frammento.Tuttavia, partendo
da diversi approcci, di tipo sociale, sanitario, educativo, possiamo capire
meglio. Partecipano a questo convegno, in veste di relatori e fra il pubblico,
soggetti di varia esperienza professionale: ci sono insegnanti, dirigenti sco
lastici, rappresentanti dei mondi della sanità e delle attività sociali; ci sono
genitori interessati a capire se gli esperti possono dire qualcosa di utile
anche per l’adolescenza quotidiana, non per quella con la "A" maiuscola
da scrivere sui libri.
Certamente viviamo in un periodo complesso, in cui a cinque anni ci si
muove a cavallo fra mouse e pannolini e a cinquanta ci si pone il problema
di fare un lifting un po’ al proprio corpo e un po’ al proprio spirito. Viviamo in
un periodo in cui a settant'anni si è anziani ma non ancora vecchi perché in
questa società non si può mai diventare vecchi e a trent’anni si è già adulti,
ma di fatto non indipendenti e non autonomi. La nostra è un'epoca in cui
bisogna coniugare nuovi vocabolari, ad esempio per mettere insieme sino
nimi inediti e ai quali non eravamo abituati. Per quanto riguarda i giovani,
e per limitarci ancora a qualche esempio, "flessibilità" è diventato sinonimo
di "precarietà"; "verità" di "Gabibbo"; "autorealizzazione" di "velina–Bobo
Vieri", "rispetto delle regole" di "ingenuità", "stupidità", "scarsa capacità
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imprenditoriale". È probabile che un giovane alle prese con questi nuovi e
rinnovati dizionari abbia alcune difficoltà a districarsi, come ci spiegheranno
meglio i relatori del convegno.
L’adolescenza è il momento tipico in cui va particolarmente in crisi
il rapporto fra bisogno, domanda e risposta. Prima la domanda la poneva
qualcuno per qualcun altro: nel caso del bambino c'è chi riesce, o pensa
di riuscirci e comunque lo fa, a decodificare, a semplificare, a indirizzare la
domanda. L'adulto la domanda la fa per sé. Nell’adolescenza c’è una frat
tura perché la domanda non sempre arriva in modo lineare e non accetta
di essere né codificata né semplificata né interpretata da altri. Di questa
domanda noi dobbiamo evidentemente farci carico e questo è il tema della
prima sessione del convegno.
Una delle domande che mi vengono rivolte più spesso è: "Ma io sono
adolescente?". Qualcuno sottende: "Ma lo sono già?". Poi ci sono quelli che
mi chiedono: "Ma lo sono ancora?", e mi tocca dirgli di sì anche se hanno
trent'anni e hanno finito l’università.
Anche la domanda che gli adolescenti pongono è diversa nella misu
ra in cui si esprime come domanda non diretta. A tre anni un bambino può
porre delle domande attraverso un mal di pancia, un’insonnia; a otto la pone
attraverso una certa svogliatezza a scuola, con un calo del rendimento; a
dodici, tredici anni con l'essere contrario a ogni cosa che gli si dice; a diciot
to, vent'anni anni inizia il problema di uno che ritorna a casa alle cinque di
mattina sull’auto del papà: un tipo di domanda, di risposta, di proposta un
po’ più difficile da gestire.
Sul tema della domanda, io aprirei gli interventi del convegno con le
ultime parole che ci dice il giovane Holden di Salinger, che è stato ed è un
contributo ormai paradigmatico sull’adolescenza. Il romanzo finisce con
queste parole: "Non raccontate mai niente a nessuno, se lo fate finisce che
sentite la mancanza di tutto".
Dott. Giuseppe Disnan
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Prima sessione
Cosa chiedono
gli adolescenti?
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Graziella Fava Vizziello
Holden 2000: adolescenze oggi
Quotidianamente troviamo su tutti i giornali e sentiamo in televisione le do
mande degli adolescenti. Ho avuto modo di risentirle nella mia funzione di
neuropsichiatra in questi ultimi due anni, dopo essermi occupata per dieci
anni soltanto di adolescenti adottati e di adolescenti prematuri, che hanno
problematiche particolari, ma non costituiscono una popolazione clinica.
Quando mi sono occupata nuovamente della popolazione clinica ho
avuto la sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa di diverso, che non
capivo. Sentivo di avere bisogno di un altro linguaggio, che non conoscevo,
e di trovarmi di fronte a una tipologia di genitori che dieci anni prima non
esisteva.
Il fatto più significativo che ho trovato, andando a cercare sui libri
gli aspetti unificanti delle problematiche adolescenziali, è noto a molti:
Michael Jackson, il noto cantante, nel suo cambiamento di colore della
pelle non è un antesignano, bensì un contemporaneo dei nuovi processi
di iniziazione che avvengono nelle bidonville. Questi non riguardano più
prove di forza dei ragazzi, com'erano in precedenza, bensì il cambiamen
to di colore della propria pelle. Grandi gruppi di ragazzi passano mesi a
sottoporre la pelle alle misture più strane, a base di sostanze corrosive,
o cercando di impadronirsi di cortisonici e altro per riuscire a cambiarne
il colore, come se il requisito forse più importante per fare parte della so
cietà globalizzata sia diventare tutti in qualche modo simili o, perlomeno,
adeguarsi al nostro colore.
Ho sempre portato a modello la situazione di Borgo Valsugana, che
conosco da anni, dicendo: "Lì sì fanno delle cose buone; lì sì c’è un aspetto
di creatività importante; lì sì c’è lo spazio giovani, lo spazio arte, lo spazio
musica, lo spazio multimediale, lo spazio consultazione". A Borgo Valsu
gana c’è di tutto, ma evidentemente tutti questi servizi, compresi gli spazi
per i genitori, vengono utilizzati da una parte dei giovani e da una parte
dei genitori. Altri giovani e altri genitori rimangono fuori: esattamente come
succede, per esempio, agli adolescenti adottati. Fra quelli che abbiamo
seguito, a 15 anni dall’adozione il 70% va benissimo, mentre un 30% meno
e non sappiamo perché.
Un altro aspetto ricordato dal Sindaco è la bassa scolarità, e dunque
una maggiore difficoltà nella ricerca di lavoro. Questi sono i principali fattori
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
di rischio per il suicidio, che in questa fascia d’età rappresenta il secondo
motivo di morte dopo gli incidenti.
Che cosa è cambiato, a distanza di dieci anni dalla mia precedente
esperienza? Ho trovato un'estrema tolleranza dei giovani rispetto agli adul
ti, rispetto ai genitori; una tolleranza che arriva a una specie di disprezzo:
"Quello che tu mi dici è così insignificante per me che posso fare a meno
di tenerne conto, in compenso io ho bisogno che tu sia con me". Prova ne
è che noi riceviamo solo adolescenti in seconda o terza istanza; arrivano al
nostro servizio dopo una trafila di cinque, dieci anni in servizi vari, e i genitori
dicono subito: "Guardi che di sicuro non verrà". Io dico: "Benissimo. Allora,
per piacere, venite voi, li accompagnate e poi dite loro che continuerete a
venire comunque". A partire dal secondo incontro i ragazzi ci sono, i ragazzi
restano. I genitori possono o meno parlare con noi a seconda delle situazioni,
però i ragazzi restano.
Lo scambio verbale tra loro è praticamente nullo. Quando organizziamo
questi incontri con l'obiettivo di ottenere uno scambio verbale ci troviamo di
fronte a qualcosa di molto simile al disprezzo: come i ragazzi disprezzano i
genitori, allo stesso modo i genitori disprezzano i ragazzi. Nelle situazioni più
gravi il non dicibile diventa l’affetto, lo stare vicino emotivamente, mentre ciò
che diventa dicibile è quello che io non posso tollerare, non posso approva
re. Questi rappresentano i ragazzi speciali, quella fascia che normalmente
sfugge ai programmi del Comune. Loro non partecipano al gruppo di arte
o ai gruppi creativi. Questi ragazzi però hanno un gruppo di riferimento
all'interno del quale ci sono consumi molto particolari.
Il secondo aspetto che mi colpisce oggi è appunto la questione dei
consumi, cioè che cosa consumano i ragazzi. Prendiamo ad esempio le
scarpe. Perché i ragazzi hanno questa follia della scarpa? Perché è un
oggetto che serve a esplorare il mondo, e per esplorare il mondo dobbiamo
avere delle qualità particolari che ci mettano in sintonia con il gruppo degli
altri giovani. Quindi, se costa meno di 150 euro un paio di scarpe non va
mica bene, e nello stesso tempo deve avere qualcosa che ci distingua da
gli altri. Ecco allora un secondo elemento interessante. Attraverso questo
consumo l’adolescente gioca l’aspetto "identità": la mia identità attraverso
la scarpa come appartenente al gruppo e non appartenente alla madre; la
mia identità come diverso dal resto del gruppo perché io ho delle scarpe
che sono del tutto particolari. E comunque la scarpa riguarda la funzione
di esplorare il mondo. Ai nostri ragazzi piace moltissimo vagare nelle città,
perlomeno penso che anche qui piaccia molto il vagare in branco da una
parte e dall’altra.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Un altro esempio: i giubbotti. Ho avuto dei disastri perché un ragazzo
è stato provocato per via di un giubbotto da un altro ragazzo, proprio come
se fosse stato picchiato. Il giubbotto come una pelle, un punto di raccordo
tra il corpo del ragazzo e il suo rispecchiamento in una situazione in cui lui
si vede in un determinato modo che gli è concesso dai genitori. Credo che
i genitori di adolescenti o di ex adolescenti si ricordino perfettamente le
difficoltà che ci sono nelle scelte dei giubbotti. Si esige che ci sia il genitore
per pagare e possibilmente una madre competente per decidere se un capo
vale più di quell’altro e se il tessuto va bene. Poi l’ultima scelta deve farla il
ragazzo perché è la scelta del rispecchiamento. Quindi di nuovo un’identità:
la mia identità di gruppo prima, poi la mia identità personale.
Un altro oggetto che gli adolescenti vogliono sempre consumare è
il telefonino, centro di discussione continua con i genitori. Sappiamo tutti
che ormai i telefonini non servono neanche più per fare gli SMS: basta fare
lo squillo. È lo squillo che tiene i ragazzi legati l’uno all’altro. Per contro la
telefonata dei genitori alle due di notte, quando sono fuori in discoteca o
altrove, rompe le scatole e non si può tollerare. E dunque i telefonini vengo
no ritirati come massima punizione quando i genitori hanno paura di come
il ragazzo si collega con il mondo. Ma perché i genitori hanno paura? Mi
viene in mente la situazione di una deliziosa quindicenne adottata: brava
ragazza a scuola, figlia di una persona che lavora con me, una donna di
una dolcezza eccezionale, molto intelligente, molto brava nell’organizzare
il suo lavoro, che a un certo punto arriva assolutamente distrutta: "Non
possiamo più andare avanti con questa situazione! Spende quantità di soldi
incredibili. Le abbiamo ritirato il telefonino e dal momento in cui lo abbiamo
fatto la ragazza non è più lei, ci sta aggredendo, ha cominciato ad essere
completamente bugiarda e noi non sappiamo più quale punto di riferimento
avere". Da lì che è partita una riflessione che è durata sei mesi, finché non
siamo riusciti a sbloccare la situazione con la ragazza. In effetti lei era diven
tata orrendamente bugiarda. In più tentava le prime fughe: altro fatto molto
allarmante. Io ero preoccupata di quello che poteva succedere, i genitori
non ne parliamo. Che cosa in effetti era successo? Attraverso il telefonino
lei aveva incontrato una persona, un ragazzo sconosciuto, e con lui aveva
iniziato una relazione con SMS. Se n’era innamorata, come avviene non di
rado attraverso queste nuove modalità virtuali di relazioni. Ma che cosa c’è
in una realtà virtuale? Qualcosa di assolutamente diverso da tutto quello che
noi abbiamo conosciuto fino a oggi. Non è né una fantasia né una realtà:
è qualcosa che sta in mezzo tra le due, che ha caratteristiche peculiari e
che sta modificando tutto il sistema di pensiero dei nostri bambini e quindi
dei nostri adolescenti. In effetti questa famiglia, molto vecchio stile, dopo
quattro mesi di punizione, su mia insistenza e per paura che succedesse
qualcosa di peggio, restituisce alla ragazza il telefonino dicendo: "A una sola
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condizione, però, che tu dica a questo ragazzo di venire a parlare con noi.
Tu non lo puoi vedere se non viene a parlare con noi". Il ragazzo è di una
città vicina. Va a parlare con i genitori, si presenta, dice che ha delle serie
intenzioni e che appena entrambi saranno diplomati si sposeranno.
La cosa a me sembra quasi incredibile. Nessun quindicenne di oggi
fa una cosa di questo genere. Però questo passaggio si produce attraverso
il virtuale, dove due ragazzi si incontrano, fanno discorsi di questo genere
e cominciano una relazione. Il ragazzo va in casa di lei i sabati pomeriggio,
una roba da Ottocento, tutti sono contenti e le cose vanno avanti in un certo
modo.
Che differenza passa tra reale e virtuale in quella che, secondo me,
era una fantasia dei genitori (che questo ragazzo andasse a casa e avvias
se una relazione da Ottocento con la figlia)? Eppure è la situazione che
succede. Quando creiamo delle fantasie, quando abbiamo delle idee, delle
rappresentazioni strane su qualsiasi cosa, quando facciamo dei sogni ad
occhi aperti, quando ci mettiamo a dormire per sognare veramente, noi ci
spogliamo e ci allontaniamo dalle cose. Invece quando vogliamo entrare
nel virtuale, dobbiamo prima di tutto saper fare funzionare il telefonino, op
pure una chatline. All'interno delle chat abbiamo un percorso complesso di
ricerca del partner, perché è vero che si sceglie il partner che si vuole, ma
è altrettanto vero che questa ricerca prevede una selezione di persone. In
più non sappiamo chi c’è dall’altra parte ed è qui che cambia totalmente
la modalità di rapporto con l’altro, fondato solo sulle parole che vengono
scritte; cosa del tutto diversa da come uno ci accarezza, ci guarda o ci
prende la mano.
Questo è ciò che stanno vivendo i nostri ragazzi che nelle chatline
passano un sacco di tempo perché affidano alle chat tutta una serie di de
sideri che noi non riconosciamo a loro la possibilità di avere (per esempio il
desiderio di avere delle strane situazioni erotiche, della droga, dei rapporti
ad alto livello di tipo filosofico con qualcuno che li riconosca come capaci di
fare un discorso ad alto livello filosofico). Ho lavorato con adolescenti che
studiano per restare nelle chatline e avere determinati rapporti. Per cui tutto
il nostro terrore delle chatline è dovuto al fatto che stiamo perdendo il senso
della realtà. Una volta venuto meno il tempo, perché il tempo scompare, noi
possiamo immediatamente collegarci con qualsiasi persona in qualsiasi altro
momento. E poi lo spazio: invece di stare a 50 chilometri da Padova questo
ragazzo avrebbe potuto vivere in Australia. Qui abbiamo un altro scoglio
con gli adolescenti della nuova globalizzazione: non solo il colore della pelle
è un fattore che diventa relativo; non solo i consumi hanno peculiarità che
dobbiamo considerare; anche il sottile limite tra realtà e fantasia, tra verità
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
e falso va messo in conto, perché a un certo punto i valori si ribaltano com
pletamente. E quando pretendiamo di voler fare entrare i nostri valori, per
esempio, in terapia (ma io credo ancora di più nella scuola) e di mettere i
nostri valori al centro di quella che è l’evoluzione dei ragazzi di oggi, stiamo
facendo qualcosa di estremamente pericoloso. In effetti i nostri ragazzi, molto
spesso, in questa età, non hanno un grande interesse verso la scuola. La
scuola è un ammennicolo attraverso il quale bisogna passare; è una strada
obbligata che bisogna fare perché sennò papà e mamma non sono più attenti
a noi. Quello che invece conta di più è ciò che gli adolescenti riescono a
fare ritrovando nel nuovo gruppo qualche elemento che noi non riusciamo
neppure a capire: ritrovare, per esempio, un aspetto emozionale che molto
spesso manca in casa. In casa i ragazzi mettono spesso in atto una serie
di accorgimenti perché non ci sia spazio all’emozione. Poi possono pestare
o ammazzare i genitori, possono farsi pestare o ammazzare. Sappiamo be
nissimo come oggi l’aggressività intrafamiliare abbia la percentuale più alta
nelle situazioni denunciate come aggressive, però tutto ciò non è emozione,
non è il trasmettersi le emozioni.
Quando i ragazzi particolarmente complessi e difficili di cui sto parlando
arrivano in trattamento non c’è possibilità di far loro esprimere delle emozioni
se noi li manteniamo nella nostra modalità verbale di espressione. Abbia
mo allora bisogno di ricorrere a qualcos’altro per riuscire ad agganciarli. Ci
sono ragazzi con i quali ho lavorato per due, tre mesi cercando di arrivare
all’emozione. Loro erano perfetti nella loro logica, più o meno adeguata,
più o meno perversa di raccontarmi le cose, di raccontare le relazioni con i
genitori. Quando li vedevamo con i genitori menavano il can per l’aia come
volevano, in tutti i modi, però per arrivare alle emozioni è bastata una cosa
molto particolare: per esempio che una giovane psicologa che stava facendo
tirocinio da noi fosse un’appassionata di musica e avesse fatto una tesi sui
generi musicali amati dagli adolescenti e su cosa la musica significasse per
loro. Un giorno io le ho detto: "Senti, ci sono alcuni ragazzi che io non riesco
a capire, non riesco ad arrivare alle loro emozioni, ti dispiace riguardare la
cartella e vedere se puoi recuperare qualcosa a livello musicale da fargli
sentire e riuscire ad agganciarli?". La psicologa ha fatto un bel lavoro: ha
cercato nelle cartelle (che ormai erano voluminose) tutte le frasi che pote
vano richiamarsi alle emozioni. Poi, essendo una profonda conoscitrice di
quasi tutti i generi musicali, è andata a chiedere ai ragazzi quale fosse il loro
genere preferito (per inciso, i generi preferiti corrispondono a delle tipologie
molto precise) e ha trovato alcune canzoni che parlassero di quanto i ragazzi
avevano detto in modo così logico, perfetto, funzionale. Allora sono venute
fuori le emozioni: quando abbiamo cominciato a lavorare insieme su delle
canzoni, quindi su un altro mezzo di comunicazione, perché il mezzo "parola"
ci serve poco. I nostri ragazzi oggi non vogliono sentire delle lezioni, vogliono
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
vedere delle cose sugli schermi, vogliono avere i riassunti fatti sugli schermi,
sennò non riescono a pensare. Raramente vengono a chiedere delle cose o
pensano a quello che è stato detto. Poi basta fargli vedere il piccolo filmato
di una situazione clinica e saltano fuori con qualcosa di personalissimo ed
emotivamente molto carico.
Allora, che cosa domandano oggi questi adolescenti? Domandano,
per esempio, di cambiare il tipo di comunicazione che noi utilizziamo con
loro. Finché continuiamo con le modalità tradizionali, la scuola, per esempio,
continuerà ad avere una mortalità piuttosto alta. E tra i tossicodipendenti noi
incontriamo sempre, almeno, il 40-50% di ragazzi che ha avuto una mortalità
scolastica entro la seconda media. Ancora, i tossicodipendenti li troviamo
anche fra i ragazzi che poi passano attraverso il Tribunale e hanno tutte
le problematiche collegate al Tribunale. Ciò implica che probabilmente noi
non siamo capaci di insegnare in maniera diversa. Da docente sto cercando
da anni di cambiare metodo d'insegnamento e di insegnare attraverso gli
schemi e i filmini, ma non basta. Quest’anno credo di avere avuto uno dei
primi momenti in cui ho risentito i ragazzi di nuovo presenti, non solo là a
copiare, a scrivere quello che io dicevo senza guardarmi mai negli occhi
perché dovevano essere sicuri di avere tutto, di aver tesaurizzato tutto per
l’esame (perché questa è un'altra caratteristica dei nuovi adolescenti: te
saurizzare tutto). Quest’anno ho detto loro: "Signori, facciamo il contrario:
questi sono i libri, sta a voi vedere come li spieghereste ai vostri compagni".
Abbiamo completato un quarto del programma, però quest'anno sono tutti
interessatissimi e hanno trovato delle cose bellissime da portare e proiet
tare. Questo cambia la struttura dell’insegnamento, diventa un’altra cosa,
presuppone che noi riconosciamo di aver bisogno di loro perché altrimenti
non li possiamo più raggiungere.
L’altro aspetto che mi ha colpito molto è stato quello del cambiamento,
delle paure dei ragazzi. I ragazzi hanno paure profondamente diverse da
quelle che avevano prima. Adesso ci sono ricerche sufficienti sulle paure e
oggi la prima è la guerra. Noi parliamo tanto della guerra ma poi facciamo
finta che non ci sia, addirittura ufficialmente noi non siamo in guerra. I ragazzi
stanno vivendo questa paura molto più di noi, mettendola fra i primi feno
meni da temere. Il fallimento scolastico è in fondo alla classifica delle paure.
La seconda paura è la solitudine, dove per "solitudine" si intende spesso
qualcosa di simile alla noia, cioè una ripetitività, ed è su questo problema
che credo si basino la maggior parte delle autocure che la maggioranza dei
nostri ragazzi "normali" si sta facendo. Credo che non possiamo chiudere
gli occhi sul fatto che la maggioranza dei ragazzi oggi sta utilizzando erba, i
tranquillanti della mamma e del papà, o altro, e che quindi si sta difendendo
da sola contro questa solitudine. È la situazione che spaventa di più ed è per
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
questo che cercano il branco, cercano di recuperare la situazione corale del
gruppo e spesso, non avendo a disposizione gli spazi dove trovarsi con quel
branco (questa forse è l’unica proposta che io ho sul piano non del rapporto
diretto, ma su un piano più politico di apertura alle giovani generazioni),
l’unica possibilità resta la disco, dove si va a finire in una situazione di semi
trans, quindi dove escono tanti aspetti interni che normalmente vengono
tenuti sotto controllo e dove molte fra le grandi violenze intrafamiliari e fra i
grandi incidenti di macchina vengono programmati.
Continuo a percepire fra i ragazzi l'esigenza dello spazio libero. È
verissimo che avere a disposizione degli spazi dove si può creare, dove si
può giocare è importantissimo, ma è altrettanto importante avere a disposi
zione degli spazi dove ci si può semplicemente incontrare, da riempire con
la propria creatività.
Nella mia adolescenza gli spazi c’erano. A Milano erano state distrutte
delle case dalla guerra e avevamo ricavato gli spazi dove ci trovavamo e
ballavamo, per esempio, e facevamo un po’ di tutto. Oggi questi spazi sono
venuti meno. L’altra sera un papà sui cinquant’anni mi diceva: "Ma, scusi,
perché noi andavamo a prendere lo spriz, ne prendevamo uno e ci sembrava
già di aver fatto qualcosa? E mio figlio deve regolarmente tornare a casa
e dire: ‘mi sono fatto quattro spriz’?". Allora io vado a controllare cosa vuol
dire "quattro spriz", e vuol dire essersi fatto un Manhattan, un Martini, cioè
alcolici pesanti. Ci sono un sacco di spazi per i ragazzi dove la situazione
alcolica pesante entra a far parte dell'offerta. Quindi si tratta di un altro aspetto
importante: dove ritrovarsi con il branco e con il branco che diventa individuo
attraverso consumi particolari. C’è un altro tipo di consumi: l’accessorio che
mi differenzia dagli altri. Le ragazze sono particolarmente brave in questo:
hanno tutta una serie di accessori, ma anche i ragazzi stanno diventando
bravissimi. Per esempio, quante volte dicono, mentre sembra che i proble
mi gravi siano altri: "Guardi, la vede questa roba qua, questi bottoni qua?
Mi hanno chiesto tutti dove li ho trovati!". Io, per differenziarmi dagli altri, a
questo punto ho bisogno di bottoni che siano diversi anche se della stessa
marca. Quindi una volta di più il consumo assume un peso fondamentale
e credo che nel gioco familiare sia diventato così rilevante perché il resto
della famiglia ci chiede come mai ci sono situazioni del genere, come mai
possono scatenarsi lotte infernali in famiglia proprio per questo, perché ci
possono essere delle violenze in famiglia collegate a questi aspetti: "Mi
manca, ho bisogno di avere un motorino; ho bisogno di avere una giacca
con i bottoni di un certo tipo".
Un altro aspetto che ho trovato molto cambiato dopo questi dieci anni
è il C.I.C.: i C.I.C. che funzionavano come zone in cui i ragazzi andavano
a parlare. Io credo che quindici anni fa fosse difficile pensare che i ragazzi
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andassero a parlare all’interno della loro scuola con qualcuno che era lì nella
scuola. Era difficile pensarlo perché c’era un aspetto di opposizione che
comunque faceva da barriera a questo tipo di spazio dove si poteva parlare.
In questi anni la situazione si è completamente ribaltata: chi in fondo accetta
il gioco scolastico, accetta anche di poter far parte di quella situazione, di
poter andare da qualcuno a farsi aiutare per problemi specifici e tentare delle
strade, dei compromessi che quindici anni fa non appartenevano all’adole
scente. Sappiamo bene che questi adolescenti sono scarsamente autonomi,
come sappiamo che prima di andare a portare le pizze per avere un po’ di
soldi ci pensano per anni e poi non ci vanno. Dall’altra parte, invece, sono
abbastanza maturi da cercare delle strade alternative per riuscire a passare
attraverso queste forche caudine rappresentate da una scuola che per loro
vuol dire quasi nulla.
A proposito di scuola, una curiosità: i ragazzi con i quali abbiamo uti
lizzato le canzoni per entrare in contatto di emozioni avevano tutti dal due
al tre in inglese, ma tutti conoscevano le canzoni in inglese a memoria e ne
sapevano la traduzione. In altre parole quello che noi stiamo insegnando a
scuola non ha niente a che vedere con quello che i ragazzi stanno imparan
do per conto loro, per le strade che stanno percorrendo, e sono veramente
combinazioni fortunatissime quando il professore riesce in qualche modo a
coinvolgerli in una determinata situazione. Certamente non grazie ai nostri
programmi, dove la varietà delle stimolazioni non permette a una classe di
essere interessata all’Ariosto (era veramente difficile interessarsi all’Ariosto
quando eravamo ragazzi noi, figuriamoci oggi che basta aprire Internet per
trovare cose infinitamente più interessanti).
Un altro punto riguarda la violenza: intrafamiliare e scolastica. Co
minciano a essere disponibili ricerche molto interessanti sul bullismo che
registriamo nelle nostre scuole e che è variabile da regione a regione e
secondo la profondità delle inchieste che vengono fatte. Se noi facciamo
un’ inchiesta sul bullismo oggi e poi parliamo in una classe di cosa sia il
bullismo, la prepotenza degli uni sugli altri, improvvisamente e solo a que
sto punto i ragazzi si accorgono di cosa sia la prepotenza. È il discorso
del mobbing: nato nel momento in cui si è incominciato a parlarne. Però le
prepotenze del mobbing sono sempre esistite; idem per quanto riguarda il
bullismo. Il bullismo esiste da sempre, solo che oggi ha preso spesso forme
particolarmente crudeli e sottili, al contrario di una volta, quando si trattava
di un gioco di forza molto preciso tra due ragazzi, in un gruppetto di ragaz
zi, tra due partiti avversi. Oggi il bullismo utilizza molto i mezzi del virtuale
e può portare i ragazzi a trovarsi in situazioni estremamente perverse. È
strano che dopo una ricerca dove si è parlato di bullismo e dove sono stati
fatti dei gruppi con i ragazzi per vedere le situazioni che si erano create,
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
la caratteristica del gruppo sociale era che c’erano da una parte ragazzi
che tenevano per la vittima e una parte dei ragazzi che tenevano per chi
commetteva il sopruso. Nel cambiare, nel fare questi gruppi con le classi, la
cosa si è ribaltata in modo strano perché i ragazzi si sono indirizzati contro
i docenti. In altri termini, parlando di quello che era successo e fermandosi
a riflettere, quelli che prima parteggiavano per l’uno o per l’altro dicevano:
"In fondo sono gli adulti che non hanno saputo proteggerci in questa situa
zione". Credo che questa sia una considerazione importante e valida anche
a livello familiare. Ho lavorato per un po’ con i figli che avevano mandato
i genitori in pronto soccorso dopo averli picchiati: sono molto più frequenti
di quanto immaginiamo. I genitori pestati provano una vergogna tremenda
per quello che è accaduto; le madri di psicotici violentate non lo diranno
mai a nessuno, quindi può essere solo per una strana combinazione che
uno viene a sapere di queste cose. In tutti questi episodi, che ho potuto
seguire a lungo, c’è sempre stato prima un discorso di violenza, magari su
altri piani, all’interno della famiglia: violenze di tipo verbale e violenze di tipo
regolistico, normativo.
L’aspetto normativo in certe famiglie è veramente un’ossessione.
Troviamo situazioni che appaiono assolutamente incomprensibili, poi ci
rendiamo conto che invece è tutto un discorso interattivo, che è cominciato
in un determinato modo e che ha trovato lì un suo sbocco naturale. Questo
non ci spiega Erika, che è stata riconosciuta sana di mente e che ha un
padre che continua ad andarla a trovare, ma forse ci spiega tutta una serie
di cose strane sulle quali dovremmo ragionare. Noi vogliamo che questo
mondo funzioni bene secondo regole più o meno generali, in una situazione
in cui ogni giorno apriamo i giornali, almeno io apro i giornali, e mi chiedo
chi è diventato matto, io o quelli che stanno facendo determinate scelte. Il
giorno dopo poi cambia di nuovo la situazione. Allora forse il punto è che
dove ci sono regole che diventano molto rigide si apre la possibilità che
qualcuno a un certo punto non sostenga più la pressione, che proprio i
ragazzi, che sono i più sensibili e che hanno più possibilità di capire cosa
sta succedendo nel mondo, a loro, nella famiglia, scoppino con situazioni
veramente incredibili. L’ultima è dell’altro ieri, con un ragazzo appartenente
a una delle famiglie più regolate che conosco, un quindicenne bravissimo
a scuola, che sa tante lingue, suona, fa di tutto. Ebbene questo ragazzo va
a trovare un cuginetto di cinque anni in un altro paese, è ospite di questa
famiglia, e violenta il cuginetto. Questi fatti lasciano esterrefatti, soprattutto
i genitori, ma cosa rappresentano?
Gli aspetti dell'ossessività, della perfezione di questa famiglia, della
impossibilità di uscire in qualche altro modo da questa situazione, ci spiegano
che la pressione era arrivata a un livello tale per cui un ragazzino di questo
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
genere, che a posteriori afferma di essere stato in una situazione di confusio
ne, agisce come si agisce con il virtuale, e teniamo presente che attraverso il
virtuale diventa ancora più facile realizzare qualcosa in conseguenza di una
pressione che non può più essere contenuta. Non vorrei che la domanda dei
ragazzi venisse interpretata con "noi non abbiamo più regole". Io credo che le
regole siano necessarie, assolutamente necessarie, e che se noi non gliele
diamo i ragazzi ce le chiedono, si sentono rassicurati quando noi aiutiamo
la famiglia a crearsi delle regole. Però c’è un ragionamento da fare su quali
siano le regole minime e quali le aperture che comunque abbiamo bisogno
di dare perché ci siano abbastanza strade, abbastanza spazi per limitare
la necessità di ricorso alla violenza. Insieme al ricorso alla violenza c’è un
altro aspetto da considerare, che vorrei introdurre con un esempio.
Ripenso a uno degli adottati che ho seguito: un bellissimo ragazzo,
giocatore di basket in una squadra nazionale, molto intelligente, variante nei
voti a scuola tra il 10 e lo 0, bocciato per questioni di condotta, con piccoli furti
d’uso, furti veri, botte con coetanei eccetera. A un certo punto abbiamo deciso
che l’unica soluzione poteva essere cercare di dargli un contenitore che fosse
diverso da quello della famiglia, che non ce la faceva assolutamente più a
tenerlo in quel momento. Il ragazzo va in collegio, in un buon collegio che
si occupa molto bene dei ragazzi. Dopo venti giorni il giovane dice che vuol
tornare a casa. In precedenza era lui che voleva andare in collegio perché la
famiglia non gli andava più bene, poi dice che vuol tornare a casa. La famiglia
non va a riprenderlo subito. Allora lui si inventa di essere stato violentato dal
vicesindaco. A questo punto la famiglia va a riprenderlo prima che scoppi lo
scandalo, evitano di denunciare questa persona, e aggiungo per fortuna. A
questo punto il ragazzo chiede di andare in una scuola privata e comincia
a frequentarne i corsi. Tutto si placa: dopo aver fatto tutto questo inferno il
giovane si placa e inizia a studiare (si tratta di una scuola privata a bassa
richiesta agli studenti). Ricomincia a giocare a basket e viene inserito in una
squadra: non è più la nazionale ma una squadretta locale e lui ricomincia
a giocare bene. Dunque c’è questo aspetto che noi dobbiamo considerare:
qual è il range, lo spazio in cui i ragazzi sono in grado di gestirsi. Spesso a
partire da queste spinte al successo che noi trasmettiamo agli adolescenti
e da queste richieste noi creiamo situazioni ingestibili che poi danno spazio
ad azioni che ci lasciano del tutto sprovveduti.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Cesare Bertassi
Chiedimi se sono felice!
Il titolo "Chiedimi se sono felice" non è opera mia: mi è stato assegnato
telefonicamente e non so a chi attribuirne la paternità. Quando me l’hanno
proposto la domanda me la sono fatta da solo. Dunque mi sono chiesto se
sono felice e la risposta che mi sono dato è che, effettivamente, sono più
felice adesso che ho cinquantasei anni di quando ne avevo sedici.
Il punto di vista che mi si chiedeva era quello della scuola e io rap
presento un caso patologico: sono entrato nella scuola a sei anni, come
penso tutti i presenti, solo che, non avendo ancora trovato l’uscita, dopo
cinquant’anni mi ritrovo ancora a scuola.
Sono partito da una riflessione sulla scuola e sui ragazzi che ho se
guito nell’arco di più di trent’anni. In un intervento precedente si accennava
al fatto che i genitori di oggi sono diversi da quelli di dieci anni fa. Bene, io
ho avuto molti colleghi, e ne ho tuttora, che non si sono ancora accorti che
i ragazzi di adesso non sono gli stessi di dieci anni fa, e potrei aggiungere
che non sono neanche quelli che c’erano venti e trent’anni fa, ma questa è
un'ovvietà, come affermare che non ci sono più le mezze stagioni.
Partiamo da un'analisi generale sulla scuola di oggi. Dal quadro che mi
sono fatto la scuola è la stessa che avevamo ieri e l’altro ieri: è una scuola
finalizzata essenzialmente alla trasmissione e alla valutazione di conoscen
ze. Una scuola che può dare il voto in greco per chi ha studiato bene l’aoristo
o dare l’insufficienza in latino a chi non è riuscito a tradurre Tacito. È una
scuola francamente un po’ ferma. Rispetto a queste realtà sclerotizzate ce
ne sono molte altre più dinamiche, che magari sfuggono all’osservazione
perché sono parte di scuole considerate di serie B o di serie C.
In questo processo educativo, in cui la trasmissione orale dei saperi
si concretizza nella pratica quotidiana con la lezione frontale, succede che
si valutino solo le conoscenze e si perdano di vista altri aspetti. Per il clas
sico ragazzo secchione, quello che c’era una volta, lo studioso, il processo
apparentemente può generare soddisfazione, anche se poi dietro queste
maschere si celano molti stati di disagio, ma può anche creare frustrazione
in chi ha un tipo di intelligenza diversa. Ormai quelli che hanno letto qual
che libro sanno che l’intelligenza non è un monolite: ci sono molti tipi di
intelligenza.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Si parla spesso di feedback, cioè riuscire a capire se dall’altra parte
c’è un interesse, c’è una risposta, se ci sono delle domande implicite che
nessuno fa, ma che sono latenti: ecco, tutto questo nella scuola spesso
sfugge. La professoressa Fava ha fatto degli accenni interessanti anche alla
didattica. Lei diceva: "Io cambio didattica e vedo che c’è un interesse diver
so". Bene, una decina di anni fa ho seguito in Inghilterra alcune lezioni in un
college dove avevo portato alcuni ragazzi. Lì c’era un insegnante olandese
che insegnava storia inglese in inglese: già questa è una situazione che da
noi sarebbe piuttosto insolita se non impossibile. Lui organizzava le lezioni
dando una scaletta di argomenti, una bibliografia di libri reperibili all’interno
della biblioteca dell’istituto, e i ragazzi avevano un tempo assegnato (poteva
essere una settimana, due o tre) per fare un determinato tipo di percorso
che poi veniva discusso in classe e valutato. Non so se qui succeda, nelle
scuole in cui sono stato io non è mai successo, ma si potrebbe provare.
A parte la didattica, che può essere più o meno elastica, finché la
scuola si accontenta di fare lezioni frontali, di esigere attenzione e ascolto,
senza ascoltare mai, sarà difficile fare molti passi avanti.
È stato anche detto che non ci sono più i genitori di una volta. Abbia
mo una scuola che va avanti con la testa girata all’indietro, nel senso che
sento sempre più spesso discorsi del tipo: "Non ci sono più i ragazzi di dieci
anni fa, erano classi tutte diverse". La realtà si muove molto in fretta. La
scuola, anche se propone continuamente corsi di aggiornamento, spesso
va molto più lenta. Ci sono persone che partecipano volenterosamente ai
corsi di aggiornamento, poi tornano in classe e continuano con la didattica
di prima perché dicono: "Ormai ho già gli appunti, non posso mica cambiar
li". Ci sono anche quelli che fanno lezione con i lucidi del 1965. In quarta
ginnasio avevo un’insegnante che faceva lezione sui "Promessi sposi" e
aveva gli appunti del 1932. Eravamo a trent’anni di distanza. Evidentemente
pensava che sui “Promessi sposi” si fosse già scritto tutto e quindi non ci
fosse bisogno di aggiungere nulla. Tuttavia la forma della comunicazione
orale ha una sua pregnanza, per esempio una serie di “slides” PowerPoint
potrebbe essere molto efficace, in certe situazioni, per destare l’interesse
dei ragazzi. Quindi, a mio parere, questa scuola che ogni tanto dice che
non ci sono più i ragazzi e le classi di una volta, lascia il tempo che trova e
non può andare avanti per molto.
La domanda che era all’origine della relazione, "Chiedimi se sono felice",
è la domanda implicita che ci viene da tutte le facce più o meno interessate dei
ragazzi che ci troviamo di fronte nelle classi. Sono loro a porci questa domanda e
vogliono vedere se noi riusciamo, sotto la nostra pelle, per così dire, da elefante,
a capire i segnali che ci lanciano, se siamo sensibili nei loro confronti.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Quanti di noi riescono a capire questa domanda? Di fronte a quello
che percepiamo come problema di solito diciamo: "Bene, c’è questo ragaz
zo che ha dei problemi, lo mando al C.I.C.". La professoressa Fava ci dice
che "adesso la gente al C.I.C. ci va. Io mi ricordo quando, dieci o quindici
anni fa, certi ragazzi dicevano: 'Ma io non sono mica matto! Ma mi man
date dallo psicologo? Io sto bene, non ho mica problemi!'". Così gli unici
ad andare al C.I.C. erano i ragazzi di quinta che, preparandosi all’esame
di maturità, cominciavano a non dormire la notte. Verso i mesi di marzo e
aprile cominciavano ad avere gli incubi e allora andavano dallo psicologo.
Adesso mi sembra che la pratica sia molto più diffusa e che questo sia un
segnale positivo, a meno che – e qui faccio sempre la parte dell’avvocato
del diavolo - non sia un modo anche questo per dire: "Dunque, questo qui ha
dei problemi, va dallo psicologo, così io delego e mi sono lavato le mani".
Comunque la domanda non viene solo dai ragazzi cosiddetti "pro
blematici": è implicita anche nei ragazzi cosiddetti "normali", quelli che
apparentemente non hanno problemi, suonano il pianoforte, sono di ottima
famiglia, e poi violentano il cugino. Magari non succede ovunque, però esi
stono i cosiddetti "normali" che in fondo hanno più problemi degli altri. Non
voglio indicare soluzioni perché non spetta a me, ci sarà qualcun altro che
lo farà molto meglio, tuttavia un segnale, una percezione diversa comincia
a emergere nel fatto che la scuola, in questi ultimi anni, sta cominciando
a ragionare sull’opportunità di valutare non tanto le conoscenze quanto le
competenze. Anche qui ci sono molte chiavi d'interpretazione. Una di queste
è molto pratica ed è correlata al fatto, se ne parlava già molti anni fa ma gli
anni a volte passano quasi invano, che i titoli di studio non avranno più un
valore legale. Quindi chi si è diplomato geometra in Italia dovrà andare in
Germania a dire cosa sa fare e dimostrare che competenze ha, anche perché
in Germania sanno cos’è un architetto o un ingegnere, ma il geometra non
sanno chi sia. Dunque bisognerà certificare quello che uno sa fare, cioè le
sue competenze. Fra le competenze non rientrano solo quelle professionali
ma anche altre di tipo trasversale: le competenze del cittadino, le competenze
sociali. Ecco, per rilevare queste competenze è evidente che l’insegnante di
greco, di latino o di italiano non può limitarsi a dare il voto sulla traduzione o
sulla efficacia di un commento critico: dovrà valutare anche altri fattori come
gli atteggiamenti, i modi di porsi. Il saper lavorare in gruppo, per esempio,
oggi è una richiesta non solo delle aziende ma di tutte le persone normali
che, non potendo vivere da sole sull’isola deserta, devono lavorare con gli
altri. Quindi, se i ragazzi maturano un livello di socialità e di collaborazione
possono rendersi utili. Se invece sono dei tipi alla Fantozzi, da relegare in
un sottoscala, non sono socialmente utili. Questo passaggio alla valutazione
delle competenze costringerà molti docenti, magari bravissimi insegnanti, a
porsi delle domande e magari "a cambiare gli occhiali", quindi a vedere la
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
realtà in un modo un diverso, cioè: "Non ho davanti solo il ragazzino che ha
imparato bene i logaritmi, ma la persona che si è costruita un percorso più
decente e ha maturato determinati comportamenti". Ciò probabilmente farà
cambiare un po’ la situazione, quindi è possibile che riusciremo a costruire
delle persone meglio strutturate.
Adesso si parla di mandare tutti a scuola fino a diciotto anni. Ricordo
ancora le polemiche attorno alla nascita della scuola media unica. Quando
nacquero la scuola media unica e la scolarizzazione di massa addirittura
mancavano gli insegnanti e c’erano studenti universitari che insegnavano:
prendevano di tutto e io ero fra questi. Cosa dissero gli insegnanti, quelli
che a me allora sembravano vecchi perché avevano già trentacinque o qua
rant'anni? Dissero: "Beh, adesso praticamente qui arriva di tutto, quindi si è
abbassato il livello e le cose andranno sempre peggio". Secondo qualcuno
le cose sono andate sempre peggiorando, il che probabilmente non è vero,
però questi giudizi sono legati a una concezione statica di ciò che è la scuola,
che deve avere valori monolitici immutabili. È vero: l’aoristo è ancora quello
e quindi bisogna studiarlo, i logaritmi e la trigonometria anche, però forse
bisognerà cambiare i modi di insegnamento e di apprendimento. Se adesso
mandiamo tutti a scuola fino a diciotto anni, la reazione epidermica di quanti
non hanno ancora fatto una riflessione su questo sarà: "Benissimo, allora
abbasseremo ancora i livelli perché dobbiamo portarli tutti fino a diciotto anni,
dobbiamo accontentarci di risultati sempre più scadenti". Invece secondo me
la ricetta è un’altra: bisognerà attrezzarsi per fare in modo che anche i meno
motivati siano sempre più coinvolti nel fare questo percorso. Quindi studiamo
strategie diverse. Se la comunicazione orale o tradizionale non funziona ricor
riamo ad altre modalità. Una volta c’erano i filmini: "Se fate i bravi vi faccio
vedere il filmino"; poi hanno messo le aule di informatica: "Se fate i bravi vi
portiamo al computer". In seguito, naturalmente, in alcune scuole il computer
è diventato indispensabile. Vent’anni fa, quando negli istituti professionali
si faceva stenografia e dattilografia, nessuno aveva pensato al computer.
Ho avuto colleghe che si sono rifiutate di imparare la videoscrittura: "No, io
faccio steno e dattilo". Dopo qualche anno, se non volevano perdere il posto,
anche loro hanno dovuto imparare la videoscrittura. Ciò significa che non
tutto rimane immutabile come la "Divina commedia", i "Promessi sposi" e gli
appunti del 1932 della mia professoressa: c’è modo di cambiare. Dunque
dobbiamo adottare strategie adeguate per fare in modo che anche i ragazzi
che oggi sono a rischio dispersione trovino la loro motivazione all’interno di
un percorso. Di questi ragazzi non dobbiamo fare l’enciclopedia britannica;
dobbiamo fare persone che possano entrare nel mondo, nella società, con
una consapevolezza, quindi potendo dire: "Io mi sono scelto un percorso,
mi hanno aiutato a crescere e tanto mi basta". Se dopo uno vuole imparare
altre cose le imparerà, perché quando mi oppongono certe obiezioni io
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
dico: "Ma, scusate, il diploma non è che un pezzo di carta" e mi auguro che
venga svalutato e buttato nel cestino. Un ragioniere diplomato nel 1947,
ammesso che sia ancora in attività, è sicuramente diverso dal ragioniere
che si è laureato trent’anni dopo, ma anche chi si è diplomato nel 1977, se
si è fermato a quel livello è già fuori mercato, perché oggi un ragazzo che
segue il percorso di ragioneria fa sicuramente cose diverse rispetto a quelle
che si facevano trent’anni fa, e così in tantissimi altri campi.
Non ho ricette da dare, ma mi sento di sostenere che dobbiamo tro
vare strategie efficaci per fare in modo che questi ragazzi non siano valutati
solo dal punto di vista delle nozioni che hanno appreso, ma anche per aver
seguito un percorso che li ha fatti diventare maturi: risultato sempre più dif
ficile da ottenere se si perseguono le vie tradizionali.
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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Gemma Pompei
La domanda dell'adolescente
e la domanda del genitore
In questo intervento mi occuperò di quella porzione di adolescenti e ge
nitori nei confronti della quale si può dire che le due domande hanno una
stretta relazione e trovano la loro fisionomia in una lunga storia di reciproco
accomodamento e influenzamento tra i processi di autoregolazione e rego
lazione interattiva avviati sin dalla nascita. Quindi considererò la domanda
dell’adolescente e la domanda del genitore sempre in correlazione tra loro,
come se fossero sempre reciprocamente influenzate, anche quando ciò non
è stato esplicitato verbalmente.
Ho l’impressione che le domande dell’adolescente e del genitore
insistano principalmente su due fronti: quello del pre-venire e quello (se
mi consentite un neologismo un po’ brutto) del post-venire, a cui attribuire
anche i significati di un rimedio e di una prevenzione secondaria. Queste
due domande, che appunto si pongono sul "prevenire" e sul "post-venire",
sembra che vogliano essere tempestive nella formulazione e nell’ascolto.
Sembra cioè che siano concepite come spazi di emergenza, come periodi
critici o aree prossimali di sviluppo. Sono domande spesso vissute come
educazione al benessere. Per tornare al titolo dell’intervento precedente,
"Chiedimi se sono felice", le domande dei genitori e degli adolescenti pos
sono essere collocate in un’area di educazione al benessere.
Fatta questa premessa, le prime domande a cui mi voglio riferire
rientrano fra quelle "inespressamente esistenti". Si tratta di domande che
ci sono ma non sono espresse perché nel porle c'è il rischio di sentirsi
isolati. Alcune di queste hanno a che fare con i diversi eventi traumatici,
intenzionali e non intenzionali, di cui sono vittime o testimoni gli adolescen
ti, i loro familiari, i loro compagni: incidenti, omicidi, tragedie a cui capita
di assistere, malattie gravi a insorgenza nell’adolescenza o nella famiglia.
Gli eventi che provocano tutte queste difficoltà conducono direttamente a
una domanda: perché sono accaduti? Questa è una domanda che ci viene
posta sia dall’adolescente sia dai suoi genitori. C'è la necessità di trovare
risposte convincenti: semplificare la risposta è mortificare la domanda nel
senso reale di ucciderla, farla morire. C’è un comprensibile bisogno iniziale
di diniego traumatico: si fa come se l'evento non fosse accaduto, come se
fosse già inglobato, come se fosse già sistemato. C’è un iniziale bisogno
di ristabilire il controllo sugli eventi a prescindere dal dramma accaduto,
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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
perché la paura fa temere l’attrazione per il vuoto. Il problema è: chi trova
per primo il coraggio di riprendere la parola e di lottare contro la tendenza
al silenzio, per prendersi uno spazio, per dire quello che c’è da dire senza
idealizzare chi si è trovato in una determinata situazione, per trovare un
luogo di condivisione, per l’elaborazione collettiva degli eventi drammatici,
per trovare un tempo per ricordare e cercare di capire? Tuttavia questo è
l’aspetto meno presente nelle offerte per gli adolescenti. Ciò che non tro
viamo spesso offerto agli adolescenti è lo spazio per elaborare gli eventi
critici, intenzionali o non intenzionali, in cui incorrono singolarmente, come
gruppo o come famiglia. Accade anche nelle scuole, ogni tanto, che qual
che ragazzo muoia per un incidente o per un suicidio. I compagni vivono
drammaticamente questo evento, ma chi prende in mano il loro dolore, la
loro paura, la loro sofferenza?
Dalla domanda "perché è accaduto?", se viene raccolta, possono sca
turire molte riflessioni che insidiano le certezze dei comportamenti, mettono
in crisi i valori, abbattono le convinzioni e questo può far paura. Ma dovrebbe
farci ancora più paura non accettare la domanda, non formularla, non parlare
delle cose di cui si preferisce tacere. In questi casi noi in genere offriamo un
segreto al dolore, ma questo aspetto segreto è un aspetto iatrogeno.
Per fortuna in adolescenza il segreto ha anche un’altra faccia, più vi
tale: la reciproca regolazione delle domande dell’adolescente e del genitore
è sul bisogno di diventare segreti. Attraverso la segretazione si assumono
i propri vizi, le proprie virtù e la responsabilità di essi. Ma questo segreto
non è ciò di cui non si parla, è ciò di cui si può non parlare, che è diverso
dal trovarsi improvvisamente scoperti di fronte a un evento non atteso per
ché manca la comunicazione. Il "segreto" di cui parlo io è lì dove c’è una
comunicazione e si può scegliere di non parlare perché ci si può assumere
la responsabilità, ci si vuole assumere la responsabilità di quello che si sta
facendo. L’autonomia passa attraverso la gestione del segreto (non il segreto
del dolore, che come abbiamo visto è abbandono e isolamento).
Un’espressione non più disponibile a un uso decente, secondo me, è
la proposizione dell’efficacia e dell’efficienza dell’agire come un modo per
prevenire, post-venire e blindare il proprio operato. Per fortuna mi sem
bra, se non è una mia illusione, che gli adolescenti in genere non abbiano
questa bandiera. Mi sostiene in questa convinzione anche l'osservazione
di Jean Piaget, che era un meticoloso geniale e aveva osservato come gli
adolescenti, a proposito dell’attuale, si perdono in considerazioni inattuali
e quindi, per cercare se stessi e la propria realizzazione, vagabondano,
anche a livello cognitivo, anche confondendosi un po’, verso l’invenzione
di sé, la conquista del segreto e l’affondo nell’intimità. Mi sembra che la
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
domanda degli adolescenti e dei genitori sia nell’area della negoziazione e
dei confini del segreto, dei confini dell’autonomia e dei confini dell’intimità.
La caratteristica della richiesta è l’urgenza: per questo si sono inventate
risposte a metafore e allegorie specifiche: si parla infatti di "porte aperte"
come a sottolineare che non c’è bisogno di attendere e di bussare; si parla
di "rifornimento in volo", come a dire che i ragazzi non devono sostare ma
possono rifornirsi continuando la loro corsa. Comunque si chiamino, sono
spazi in cui l’adolescente non chiede di fare l’inventario dei suoi sintomi,
una specie di autopsia psicologica. I sintomi lo banalizzano in uno stan
dard e annientano l’originalità della sua vicenda personale, lo fanno sentire
quasi vagamente irreale; altre volte, invece, i sintomi non sono riconosciuti
come tali perché sono come neoidentità autogenerate. Alcuni adolescenti
si identificano in essi. La capacità di esprimersi in un sintomo ha una sua
forza interpretativa: strappa dalla morte, dal senso di vuoto ed è anche un
tentativo di cambiamento. Il punto è: come utilizzare la capacità di essere
coinvolto in un cambiamento da parte dell’adolescente e dei suoi genitori?
La consultazione è un momento di sospensione per aprirsi a nuove ipotesi
di significato: quello che si sta vivendo. E l’incontro, il momento di consu
lenza, di dialogo, è una possibilità di riorganizzazione di rappresentazioni
psichiche riattualizzate e dunque rese vitali, mobili e disponibili in quel
particolare momento.
Vorrei sottolineare che quando dico "rappresentazioni" non intendo
immagini, ma modelli di aspettativa su cui si attiva la riflessione non a scopi
puramente contemplativi, anche se pure la contemplazione può essere un
modo di agire. Quindi la consultazione è un progetto di reinvestimento delle
proprie risorse, una relazione di interesse verso una situazione originale,
magari poco efficiente ed efficace, che ha bisogno di trovare altri sbocchi
e ha diritto a restare in parte misteriosa, non scoperta e sospesa su alcuni
tratti o isole, se vogliamo dire così, di intimità. I problemi che i ragazzi e i
genitori presentano sono effetti, condensazioni di spazi di vita, di tempo, di
economie in movimento. Noi lavoriamo sui valichi di confine tra la psiche e
la realtà. Uno di questi valichi è il corpo. Il corpo è il luogo privilegiato delle
manifestazioni: può diventare il luogo della necessità della dipendenza, il
luogo in cui sono uniti figli e genitori, il luogo della vita e della morte. Alcuni
dicono – per ricordarlo -: "Non ho chiesto di nascere, posso dunque morire".
Non voglio parlare dei disturbi del comportamento alimentare, dell’ossessio
ne della palestra, dei sintomi. Rimango in un discorso più generale perché
questo ci porta a vedere i comportamenti come condensazioni di spazi di
vita, di tempi di vita familiare, e ci permette di rimanere in un ambito che è
sempre disponibile a mostrare la propria normalità e la propria normopatia,
la propria oscillazione verso l’alienazione.
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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Un altro aspetto che potrebbe assumere un significato sintomatologico
ma, in realtà, a volte assume il significato di uno spazio quasi surreale, è
la frequenza con cui ci parlano degli attacchi di panico: anche l’attacco di
panico è un valico di confine fra il corpo, la psiche, la realtà. Quando vengo
no da soli i genitori portano sensi di colpa, ferite narcisistiche per quel che
vivono come un fallimento personale. La loro domanda in realtà è: "Entro
quali limiti, entro quali frontiere possiamo agire?". Invece gli adolescenti
che vengono da soli, cioè quelli mandati da se stessi, hanno deciso loro di
chiedere aiuto; hanno già riflettuto e accettato il fatto che da soli non ce la
fanno. Nel momento in cui arrivano sono disponibili a guardarsi anche con
gli occhi di un altro.
Sostenere adolescenti e genitori non è aiutarli a minimizzare, ma
aiutarli a confrontarsi con le motivazioni, con i pericoli che corrono, con
la serietà dei loro propositi, con la confusione dei loro sentimenti e anche
con l’esame di realtà. In questa area, pertanto, mi sembra che la domanda
degli adolescenti e la domanda dei genitori riguardi il cambio della guardia
tra le generazioni.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Carlo Buzzi
Un'indagine sui giovani in Trentino
Presento brevemente i risultati di una ricerca che abbiamo condotto recen
temente sui giovani trentini. È una ricerca commissionata all’Istituto IARD
dalla Provincia Autonoma di Trento ed è interessante perché costituisce una
prima analisi complessiva sui giovani del Trentino.
In questa provincia sono state realizzate molte ricerche di carattere
locale, ma questa è la prima a tutto campo, che prende in considerazione un
campione rappresentativo dell’intera provincia. Un altro motivo di interesse
è dato dal fatto che questa ricerca è stata svolta dall’Istituto IARD di Milano:
un istituto che ogni quattro anni compie un’analoga ricognizione nazionale
sulla questione giovanile italiana. Ciò ha reso possibile confrontare i giovani
trentini con i giovani italiani. In questo modo le informazioni, i fenomeni messi
in evidenza all’interno di questa ricerca, tengono conto delle risultanze di
analoghi studi a livello nazionale. Il terzo elemento di interesse è che que
sto lavoro non affronta un argomento specifico, ma ha un po’ l’ambizione di
tracciare il profilo complessivo del giovane trentino.
Sono state affrontate le problematiche scolastiche, quelle relative al mer
cato del lavoro, i problemi nei rapporti con i genitori e della transizione al ruolo
adulto. Concentrare l’attenzione nella fascia d’età dai 15 ai 29 anni aveva infatti
anche lo scopo di capire come un giovane si avvicina all’acquisizione di ruoli
adulti e come avviene questo passaggio. Poi abbiamo affrontato altri elementi di
interesse: l’associazionismo (quindi la vita associazionistica dei giovani), i valori
(in che cosa credono), gli ideali. E ancora: il tempo libero (gli stili di vita al di fuori
delle istituzioni); la percezione del sé (quindi il sé nell’identità giovanile come si
esprime); la salute e il rischio. Quest’ultimo aspetto, particolarmente importante,
ci interessava per capire come i giovani concepiscono la propria salute e quali
sono i livelli di rischio che sono disposti ad accettare. Poi abbiamo affrontato
l’elemento della trasgressione: quindi il rapporto dei giovani e della loro morale
con la morale sociale. Confrontando i due piani volevamo vedere se e come
i giovani trasgrediscono le regole degli adulti. Infine ci siamo concentrati sul
contesto Trentino e quindi sul rapporto tra i giovani e il territorio. Come potete
intuire si tratta di una ricerca molto vasta ed è difficile darne conto diffusamente
in questa sede. Tuttavia mi sono posto l’obiettivo di delineare alcuni elementi
che possano essere utili nello spirito di questo convegno e che riguardano la
domanda dell’adolescente. Non vi dirò che cosa chiedono i giovani, ma cercherò
di illustrare per sommi capi quanto di veramente significativo esce da questa
ricerca e può aiutare noi adulti a capire cosa chiedono i giovani.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
In primo luogo va detto che i risultati della ricerca sono positivi. Noi
sociologi abbiamo una visione un po’ diversa rispetto agli psicologi: non sia
mo in contatto con la sofferenza specifica, magari di pochi giovani e tuttavia
significativa. Abbiamo svolto un’analisi a tutto campo e il risultato comples
sivo è soddisfacente: in fondo i giovani del Trentino non vivono male, sono
abbastanza soddisfatti, orientati alle relazioni sociali, creativi. Certo, i loro
sistemi di significato si sono differenziati rispetto a quelli adulti, sono molto
più diversi i giovani di oggi nei confronti degli adulti di quanto non lo fossero
i giovani di un tempo. Diciamo che le generazioni si sono divaricate, ma ciò
non vuol dire che i giovani di oggi vivano male o siano portatori di partico
lari disagi, anzi: io sono persuaso che molte volte il disagio sia nell’adulto
che non riesce a confrontarsi, a capire il giovane, più che nel ragazzo. Il
giovane molte volte non vive la sua condizione come disagio; la vive forse
un po’ leggermente, certo, i rapporti relazionali, anche con la famiglia, non
sono poi così tragici. Ne è prova il fatto che, mediamente, il conflitto che
caratterizzava le famiglie negli anni Settanta, oggi è molto diminuito.
Attraverso le ricerche nazionali lo IARD è in grado di osservare le
trasformazioni all’interno della cultura giovanile e nella condizione giovani
le e un elemento che emerge è proprio la diminuzione della conflittualità.
Negli anni Ottanta, periodo in cui hanno avuto inizio le ricerche IARD, la
conflittualità tra genitori e figli era molto più sostenuta rispetto ad adesso, il
che non vuol dire che oggi non ci siano problemi. Vediamoli, ma partendo
da una consapevolezza che è d’obbligo: noi viviamo in una società carat
terizzata da ritmi rapidissimi di trasformazione e quindi è chiaro che oggi
l’individuo, giovane o adulto, ha maggiore difficoltà a rapportarsi ai problemi
che sorgono perché sempre più sono problemi nuovi. Un tempo la società
cambiava, ma con ritmi molto più lenti e le persone, giovani e adulti, potevano
più facilmente individuare i problemi e magari risolverli: oggi, nel momento
in cui nasce un problema e si tenta di risolverlo, subito ne emerge un altro
che complica la situazione.
Detto ciò vorrei entrare negli aspetti della criticità perché anche se i
risultati complessivi sono positivi, all’interno dei dati si possono individuare
alcuni elementi critici che ci parlano di disagio, quindi di forme di malesse
re all’interno della popolazione giovanile, come peraltro esistono forme di
malessere all’interno della popolazione adulta. È importante, però, capire
qual è il tipo di disagio che caratterizza la popolazione giovanile trentina. È
necessario a questo punto fare un distinguo: da una parte esiste un disa
gio tradizionale, quello che conosciamo tutti e magari non siamo riusciti a
risolvere. Si tratta di quelle forme di disagio che ci parlano di marginalità,
di fatica del giovane a integrarsi all’interno di quelle che sono le attese del
mondo adulto, prima tra tutti, per esempio, la scuola. Nella nostra ricerca
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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
– che è una ricerca rappresentativa – emerge che un giovane trentino ogni
tre ha nella sua esperienza scolastica l’esperienza di una bocciatura. È una
percentuale elevata. Essere bocciato non è un elemento che rafforza l’auto
stima di un individuo, è un fallimento. Circa il 13-14% ha abbandonato gli studi
senza avere un titolo di studio post-obbligo, quindi senza avere un diploma
o comunque un attestato professionale. Quindi con un capitale culturale o
professionale molto basso, molto scarso, questa è una dispersione netta.
Questi elementi sono significativi, dobbiamo tenerli presenti, sono i
problemi di sempre e sono problemi che apparentemente ci sorprende che
siano così ampi in un territorio come quello Trentino che, tutto sommato, a
livello di servizi, a livello di attenzione nei confronti della popolazione, non
si può pensare sia in fondo alla graduatoria. È una provincia ricca, una
provincia piena di risorse il Trentino, eppure questi problemi, ancora tradi
zionali, permangono e, tra l’altro, rischiano di aggravarsi in un futuro con
l’irruzione di un fenomeno esterno, sempre più presente nel nostro contesto
territoriale, che è l’immigrazione, quindi con alcune problematiche tipiche
della marginalità che si ripresentano portate dai nuovi immigrati.
Al di là di questo mi sembra che se andiamo a leggere questi fe
nomeni notiamo che questi vecchi disagi hanno vecchie spiegazioni, ad
esempio la dispersione scolastica è ancora collegata in maniera netta alla
disuguaglianza sociale. Chi ha la fortuna di nascere in una famiglia con dei
genitori istruiti, magari benestanti, ha una probabilità molto alta di acquisire
dei titoli di studio superiori; mentre per chi ha la sfortuna di provenire da
una famiglia con capitale culturale scarso, è molto elevata la probabilità di
uscire precocemente dal circuito formativo.
Ecco alcuni numeri: avere dei genitori scarsamente istruiti equivale
ad una probabilità del 35%, cioè una su tre, di abbandonare gli studi dopo
l’obbligo senza acquisire nessun altro titolo. Uno su tre. Se andiamo a ve
dere, invece, le famiglie con un capitale culturale medio elevato, dove cioè i
genitori hanno almeno il diploma, la percentuale dei figli che non raggiunge
un titolo di studio dopo l’obbligo, è solo del 2%. Quindi da una parte il 2%
e da un’altra parte il 35%: queste sono le disuguaglianze, che persistono.
L’istituzione, cioè la scuola, nonostante gli sforzi e l’attenzione dedicati alla
soluzione questo problema, non riesce evidentemente a colmare questo
gap iniziale determinato dalla famiglia di origine.
Ma la ricerca ci dà qualcosa di più, ci parla anche dei nuovi disagi
che sono quelli più difficili da capire, sono quelli che non conosciamo, che
ci mettono in crisi quando li incontriamo perché non abbiamo strumenti per
affrontarli. Un esempio tra i tanti: mi viene in mente di come i giovani vivono la
loro salute, un concetto fondamentale, perché il benessere passa attraverso
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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
il mantenimento della buona salute. La scuola e tutto il sociale sono molto
impegnati nel trasmettere, con campagne di prevenzione o, meglio, con
campagne di promozione, il concetto di salute, affinché i giovani evitino certi
rischi, adottino dei comportamenti salutari piuttosto che dei comportamenti
pericolosi. Noi adulti siamo preoccupatissimi di questo e allora siamo andati
a cercare di capire come i giovani concepiscono la salute, cosa pensano
sia la loro salute.
Abbiamo trovato sostanzialmente due grandi orientamenti, opposti: da
una parte ci sono giovani che hanno un orientamento di carattere internalisti
co. Che cosa vuol dire "internalistico"? Vuol dire che pensano che la salute
dipenda dall’azione dell’individuo, quindi sia un fatto interno. La salute è in
relazione con il mio comportamento, se io faccio certe cose potrò godere
di buona salute, se ne faccio altre posso incorrere in rischi che possono
minare la mia buona salute. Di fronte ad un giovane del genere noi adulti
siamo contentissimi perché riusciamo a trasmettere le nostre informazioni.
L’ottica è: lo informiamo, il giovane capisce e si comporterà di conseguenza.
Alcuni giovani sono così.
Però ce ne sono anche altri. In questi altri l’orientamento prevalente
non è di carattere internalistico, ma è di carattere esternalistico, cioè la sa
lute non dipende da ciò che faccio, ma dipende da agenti esterni che io non
controllo. Emerge quindi un orientamento fatalistico. Se è destino che mi
debba succedere qualcosa, mi succederà, è inutile essere prudenti. Essere
convinti che la propria salute non è legata ai tuoi comportamenti ma a fattori
esterni, per noi adulti è spiazzante, perché qualsiasi nostro messaggio non
riuscirà ad essere accettato da questo giovane.
Ecco, questi sono i veri problemi che dobbiamo affrontare, dobbiamo
trovare nuove forme di comunicazione, dobbiamo riuscire ad entrare in
contatto con i giovani, ma non con la nostra mentalità da adulti, ma cer
cando di capire qual è la loro mentalità in modo da veicolare dei concetti,
dei messaggi che loro possano accettare. Penso che il risultato di questa
ricerca sia sostanzialmente questo.
Vi dico un altro elemento che rompe uno stereotipo. A livello di tra
sgressione, abbiamo individuato degli indicatori sincretici e complessivi: uno
di questi indicatori è la contiguità alle droghe, alla cultura delle droghe. In
una ricerca come questa non si chiede a un giovane se fuma gli spinelli o se
s’impasticca, però gli facciamo una serie di domande più o meno indirette,
se ha contatto con altri amici che lo fanno e cose del genere; all’interno di
questo contesto riusciamo a ricavare un indicatore, che ormai è abbastanza
tarato, sulla contiguità alla cultura della droga, alle droghe leggere soprattut
to, in questo caso. Ebbene, noi adulti abbiamo sempre messo in relazione
l’uso della droga con fattori di marginalità: le famiglie meno attrezzate pro
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Provincia Autonoma di Trento - Infosanità n. 42
La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
ducono figli che sono più a rischio e cose del genere. Nella ricerca abbiamo
messo in relazione l’istruzione dei genitori o la classe sociale dei genitori
con il coinvolgimento nella cultura della droga dei figli e abbiamo visto che
il rapporto è direttamente proporzionale, cioè la cultura della droga aumen
ta con l’aumentare del benessere in famiglia, con l’aumentare del capitale
culturale della famiglia, in maniera incredibile! Pensate che nelle famiglie
più semplici, con genitori poco istruiti, che non hanno, magari, raggiunto
neppure l’obbligo scolastico, il coinvolgimento dei figli nella cultura della
droga è pari al 13%, ma si eleva al 41% tra i figli dei laureati. Anche questo
è un indicatore che spiazza alcuni stereotipi. Allora dobbiamo uscire dalle
nostre convinzioni di adulti, che pensano ai giovani riflettendo su come noi
eravamo giovani - eravamo una cosa completamente diversa dai giovani
di oggi – e cercare, invece, di capire come siano i giovani oggi.
La cosa che mi sembra più significativa è forse cercare di capire
come sono cambiati i modelli socializzativi all’interno della famiglia, perché
effettivamente uno degli aspetti che si è trasformato maggiormente in questi
ultimi anni sono i modelli di relazione tra genitori e figli. All’interno di questi
modelli di relazione possiamo forse rintracciare le problematiche che noi
adulti abbiamo nei confronti dei nostri figli e probabilmente anche vicever
sa.
Concludo con l’individuazione di quelle che sono le nuove tendenze
che possiamo rintracciare all’interno della cultura giovanile e che ci vengono
sia dalla ricerca trentina che da tutte le ricerche IARD degli ultimi anni. Quali
sono le caratteristiche del giovane di oggi? La prima caratteristica è quella
della concezione del tempo, del rapporto del giovane individuo con il tempo.
In una società che si trasforma così rapidamente le dimensioni del tempo si
sono ridotte: il passato ha perso in maniera progressiva di significato. Che
cosa vuol dire "il passato"? Vuol dire esser capaci di valorizzare la propria
esperienza, ma in una società che cambia rapidamente ciò che è passato,
è passato e viene destituito d’importanza perché viene incalzato da un
qualcosa d’altro che ti succede, in continuazione. L’altro discorso è il futuro,
è il futuro che diventa sempre più incerto, più difficile da programmare: in
una società che cambia così rapidamente avere la capacità di costruirsi
un percorso futuro è un’operazione veramente complessa e difficile. Se il
passato è privo d’importanza e il futuro è incerto, il giovane si rifugia nel
presente. Allora i nostri giovani sono presentisti, pragmatici, flessibili, siamo
noi, gli adulti, che vogliamo che i giovani abbiano queste grandi capacità di
adattamento in una società che cambia, quindi i giovani sono un prodotto
sociale, non è colpa loro se sono così, anzi, sono il prodotto dei nostri pro
cessi socializzativi. È evidente che una persona che viva nel presente e che
non abbia capacità di prefigurare dei percorsi futuri, è una persona che ha
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
poi alcune difficoltà e alcuni disagi. I giovani esternalisti della loro salute, nel
loro concetto di salute, sono giovani che non concepiscono il futuro perché
valorizzare la propria salute vuol dire avere un’idea del futuro, perché la
salute è un investimento per il futuro: io devo rinunciare a dei piaceri oggi
perché in un futuro avrò dei vantaggi. Io non fumo un pacchetto di sigarette
oggi, che è piacevolissimo, perché in un futuro mi potranno venire delle cose
negative. Ma se io non ho l’idea del futuro, è chiaro che sono esternalista,
vivo nel presente ed accetto il rischio. Quindi questa è la prima tendenza.
La seconda tendenza riguarda i valori. I giovani hanno valori, ne
hanno tantissimi, ma che cosa è cambiato rispetto al passato? I valori dei
giovani di oggi non sono più collegati all’interno di un sistema organico: i
valori diventano relativi. Allora i giovani hanno tanti valori, ma non valgono
sempre questi valori, valgono a seconda dell’ambito esperenziale in cui in
quel momento contingente il giovane vive. Il giovane vive in famiglia, ha
negoziato con la famiglia le norme, i comportamenti e, forse, anche un po’ di
valori; poi esce dalla famiglia e va con gli amici il sabato sera, questi valori, i
suoi modelli sono completamente diversi. Questo succedeva probabilmente
anche in passato, ma un tempo il giovane capiva la contraddizione, capiva
di andare contro le attese dell’adulto. Oggi il giovane vive la pluralità nelle
sfere etiche e dei valori senza vivere il senso della trasgressione. Il giovane
che fuma uno spinello o si impasticca in discoteca non lo fa mica perché
vuole trasgredire, per lui quella non è trasgressione, è normalità, è normalità
all’interno di quell’ambito esperenziale. Un giovane non penserebbe mai di
impasticcarsi in casa perché in casa lui accetta un altro tipo di modello di
riferimento ad altri valori che applica. Quindi la relativalizzazione dei valori,
senza sentirne la contraddizione.
Terzo aspetto: l’accettabilità del rischio. Tutti gli indicatori di rischio
sono schizzati in alto dagli anni Novanta in avanti. I giovani trentini non si
ubriacano o fanno uso di droghe di più degli altri giovani, però vi è un rischio
che qui è molto più accentuato ed è la sottovalutazione dei pericoli della
guida in stato di ebbrezza; il rapporto tra i giovani trentini e i giovani italiani
in questo caso punisce fortemente la popolazione locale. Se proprio esiste
un grosso problema in rapporto al territorio nazionale è la sottovalutazione
del rischio sulla strada dopo aver bevuto alcolici.
Infine l’ultima tendenza fa riferimento alle scelte fondamentali per un
giovane e per la costruzione della vita di un giovane. Ecco, queste scelte
diventano sempre più difficili. E qui richiamo ancora il problema del futuro
mondo incerto, di una società che si trasforma rapidamente. Fare delle
scelte diventa difficile, per cui i giovani cominciano a evitare di fare delle
scelte di carattere definitivo. La scelta definitiva è un qualcosa che viene
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
mal sopportata, è un qualcosa di doloroso. Allora ci si rifugia in scelte re
versibili. Uno dei miti che attualmente caratterizza i giovani di oggi è fare un
qualcosa e se va male tornare indietro. Se devo scegliere, scelgo proprio
quando non ne posso più, quando devo assolutamente scegliere. Abbiamo
fatto l’anno scorso, come università di Trento, una ricerca sui diplomati, sui
giovani che oggi frequentano il primo anno di università. Abbiamo fatto una
ricerca longitudinale, cioè abbiamo cercato di capire qual era il processo
decisionale che portava il giovane a fare le proprie scelte dopo il diploma.
Allora abbiamo intervistato questi giovani trentini per tre volte e ci siamo
accorti che molti giovani trentini fanno le loro scelte all’ultimo momento. La
scelta dopo il diploma è una scelta importante, scegliere per esempio di
andare a lavorare o di andare a studiare è una cosa fondamentale; scegliere
un tipo di facoltà rispetto a un altro tipo di facoltà, è una cosa che dà una
grossa ipoteca sulla vita futura di una persona. Ebbene, molti giovani scel
gono negli ultimi 15 giorni prima della chiusura dell’iscrizione all’università.
I loro ragionamenti sono pragmatici: "Faccio una cosa per volta, prima mi
preparo l’esame, poi faccio l’esame, poi dopo sono stanco vado in vacanza,
poi ritorno e finalmente comincio a fare la mia scelta. Se va male, pazien
za, l’anno prossimo cambierò facoltà". Questo è un po’ il meccanismo, che
comporta forti rischi. Ancora una volta viene messa in gioco la capacità di
un giovane di avere gli strumenti per vivere in una società così complessa
e così complicata: i giovani che hanno strumenti perché hanno una famiglia
che è in grado, tutto sommato, di fornire strumenti, saranno dei giovani che
avranno in futuro molte più opportunità dei giovani di un tempo, perché
questa società dà molte più opportunità, però un giovane che non ha questa
fortuna rischia il disagio, la sofferenza, l’ansia. È una società che incalza,
che ti chiede adeguatezza, ti chiede capacità di prestazione. I giovani che
non sono supportati e che non hanno strumenti sono molto più a rischio
di disagio mentale, per esempio, quindi il lavoro degli psicologi aumenterà
sicuramente in un futuro. Questi sono, però, problemi che non riguardano
tanto i giovani quanto l’evoluzione della nostra società.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Marcel Rufo
Prendimi se sei capace!
Parlerò delle ospedalizzazioni, e in particolare in questo caso del tema
dell’infanzia: "prendimi, catturami". Da alcuni anni ho la fortuna e la pos
sibilità di svolgere la mia attività in una clinica di Marsiglia che si occupa
di ospedalizzazione di adolescenti: quindi vi parlerò sia della clinica sia
dell'ospedalizzazione in generale.
Una prima sorpresa ci viene riservata dai ragazzi quando diciamo
loro "vorrei ospedalizzarti": non dicono mai di no. Avendo seguito delle
anoressiche non in ambiente ospedaliero io pensavo che ciò sarebbe stato
impossibile. I genitori sono molto cambiati, come abbiamo già sentito nelle
altre relazioni, e sono passati da genitori che capiscono a genitori che edu
cano. Potremmo essere portati a credere che essere genitori per un giorno
equivalga a essere genitori per sempre, ma il mestiere di genitore è molto
variabile: non siamo genitori di un bebè allo stesso modo in cui siamo ge
nitori di un adolescente. Uno degli errori dei servizi sanitari è sempre stato
quello di credere che la separazione del figlio dai genitori potesse essere
utile perché il processo dell’adolescenza è anche un processo di separazio
ne dai genitori, un’evoluzione, un percorso che avviene ricordandosi anche
del proprio passato e di come si è stati figli assieme ai genitori. Quindi una
malattia, un qualsiasi incidente, un cancro, un’anoressia, si trasformano
di fatto in rotture di questo processo, per cui il genitore, a un certo punto,
si trova in una situazione confusionale di attaccamento: si attacca al figlio
rompendo questo naturale passaggio verso la separazione.
Ora voglio fare una grande scommessa. In francese c’è un gioco di
parole che suona più o meno come "facciamo una pari a Paris", una scom
messa a Parigi. Sarei in grado di dirigere un reparto di psichiatria a Parigi, io
che sono di Marsiglia, con l’idea di mischiare tutte le malattie e rispettare in
questo modo lo statuto psicosociale di adolescente piuttosto che la specificità
della malattia? Ricordatevi di quando voi eravate adolescenti e avevate degli
amici ammalati: non facevate diagnosi perché gli adolescenti sono obbligati
al corporativismo, cioè ad aderire a un gruppo per staccarsi dalla famiglia.
Allo stesso tempo si allontanano dalla famiglia, si riavvicinano, e quando
la famiglia si avvicina riprendono distanza. Uno psichiatra che si occupa di
adolescenti deve assumere queste ipotesi per poter curare i ragazzi. Ciò è
difficile perché l’adolescente ci esamina mentre lo esaminiamo e continua a
cercare in noi dei difetti, delle falle per potere, allo stesso tempo, esprimere
le proprie. La ragazza anoressica, per esempio, nel corso del primo incontro
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
cercherà di sentire che non la ospedalizzeremo: cercherà dei piccoli segni
della testa e altri comportamenti di questo genere, piccoli segni di alleanza:
di fatto un’alleanza adolescente all’interno della seduta. Dunque si pongono
tre problemi: come ospedalizzarli, cosa facciamo quando sono ospedalizzati
e poi come sbarazzarci di loro.
In primo luogo essi non vogliono rispondere, cercano di non rispondere
e di allontanare i genitori, che un’ora dopo non se ne sono ancora andati
e sono sempre presenti. Quando li ricoveriamo diventiamo responsabili
della loro ospedalizzazione e loro ci chiedono: "La rivedrò? Quante volte la
rivedrò? Siccome ha detto che ci sarà un’evoluzione, che tipo di evoluzio
ne sarà?". In una prospettiva kleiniana, da Melanie Klein, bisogna vedere i
ragazzi quasi tutti i giorni altrimenti si verifica una rottura del contratto che
essi vivrebbero come una manipolazione.
Abbiamo sentito parlare in un intervento precedente della presenti
ficazione: essi vivono nel presente ma, allo stesso tempo, hanno bisogno
di utilizzare il loro passato per tuffarsi verso il futuro ed è qui che servono
altri metodi rispetto a quelli convenzionali. Dobbiamo utilizzare la musica,
la danza, la moda, l’arte, la scuola e i gruppi: tutte cose che non esistono in
un ospedale, non fosse altro che per problemi legati ai finanziamenti.
In Francia, ad esempio, c’è un solo ospedale universitario dove è
presente un direttore culturale e ci sono invece direttori sanitari che si
occupano di cultura in tutti gli ospedali, ma non fanno niente. L’idea è: chi
deve intervenire? Prendiamo l’esempio del cognitivo: abbiamo cercato di far
intervenire degli allievi particolarmente brillanti, che hanno avuto successo
in concorsi scolastici molto difficili, per aiutare i ragazzi ospedalizzati nelle
loro difficoltà; quindi non professori ma allievi particolarmente brillanti. Al
l'inizio è stato particolarmente difficile selezionare allievi brillanti e che non
fossero anch’essi patologici.
C'è poi la questione delle proibizioni: è permesso proibire e ciò ha posto
dei problemi relativi alle psicoterapie. Per quanto riguarda questo aspetto
siamo stati sostenuti dai genitori, che hanno apprezzato molto il fatto che
noi fossimo in difficoltà. Ad esempio i nonni sono venuti ad aiutarci per i
disturbi alimentari perché sentivano molto la mancanza, e ne soffrivano, del
pasto di famiglia. allo stesso tempo le nonne hanno adorato il McDonald’s
e l’hamburger. L'aspetto più divertente ha riguardato l’informatica: i nonni
giocavano di nascosto con i videogiochi, senza farsi vedere, perché con i
giochi si guadagnano delle vite e questo fra i settantenni ha riscosso un
certo successo.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Una delle iniziative più efficaci è stata dedicata al teatro, attuata in tre
tempi. La prima prova è stata una lezione di Lettere, cioè parlare dell’opera
teatrale agli adolescenti ospedalizzati. Il secondo passaggio è stato l'uscita
a teatro, proprio a Marsiglia. Ma il momento più importante è stato il ter
zo, quando gli attori sono venuti nel Centro Psichiatrico. Gli adolescenti
ospedalizzati hanno invitato i loro amici e assieme si è discusso su quello
che si è visto: così, parlando di quello che c’è fuori, la vita entra all’interno
dell'ospedale. C’è un attore famoso in Francia, Fabris Luchini, che ha detto:
"Come faccio a essere ricoverato qui?" anche se non era malato. Questo
ribilanciare, questo smuovere il gioco psichico protegge anche lo psichiatra
dall’essere inghiottito.
Prendiamo ad esempio la fobia scolare, che è un’epidemia in Francia
a causa dell’importanza che i genitori attribuiscono alla scuola: sette ado
lescenti su dieci ritornano a scuola dopo essere stati ospedalizzati senza
essere bocciati. Gli altri tre vengono bocciati a causa di problemi psicologici
anche più gravi. Ma quando questi ragazzi tornano alla scuola media dicono:
"Non è servito a niente che io non ci sia andato" e a noi dicono anche: "È
colpa vostra perché siete stati voi a dire che io non ci dovevo più andare",
perché molto rapidamente gli si era detto: "Non ci vai più, vai all’ospedale".
È una condotta molto più utile e intelligente di dire che la depressione della
madre, per esempio, ha implicato la fobia scolare. Sfido qualsiasi genitore,
madre o padre, a non essere depresso se suo figlio non va più a scuola. Ho
visto anche psichiatri molto fragili nei confronti dei figli perché, appunto, sono
molto più vulnerabili quando il problema li tocca personalmente di quando
esercitano la loro professione.
Penso che questo "prendere" non debba essere autoritario, ma piut
tosto come nei giochi dei bambini, quando li si prende in modo che possano
scappare, allontanarsi. Se diciamo a un bambino: "Ti ho preso!", quello che
conta è la sua risata quando riesce a scappare e non la presa in sé. Chi
prende un bambino solo per prenderlo gioca male, e noi, come psichiatri,
non sappiamo mai come "prendere" bene.
Penso che questa apertura dell’ospedale alla città, al teatro, alla musi
ca, sia un modo per considerare il tempo dell’adolescenza. Possono esserci
anche negli adolescenti episodi psicotici senza che ci sia una psicosi, una
struttura psicotica: fenomeno molto differente rispetto agli adulti. Quando
un adulto entra all’interno di una traiettoria problematica è molto più difficile
che ne esca, ma l’onere della psichiatria è anche quello di non essere trop
po predittiva, o meglio, di non predire con troppa certezza. È nel dire: "non
so cosa succederà" che siamo protetti dalla nostra depressione. Ecco un
esempio molto tragico per aiutarci a capire. Quando dobbiamo affrontare
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
un’interruzione terapeutica di gravidanza in seguito a una violenza, abbiamo
deciso che la persona che se ne occupa non deve riferire la cosa ad altri
per proteggere l’adolescente. L’interruzione di gravidanza diventa così un
segreto a due tra chi si occupa dell’adolescente e l’adolescente stesso. Con
questo metodo abbiamo visto che le ospedalizzazioni duravano meno e che
c’era un rischio di recidiva inferiore. La verità, in questo caso, è considerata
come una medicina. In Francia, ad esempio per una anoressia, chi compie
un tentativo suicidio dice sempre: "Sono vittima di un abuso" ma non lo dice
troppo presto in modo pubblico. Direi che siamo di fronte alla "confessione
patologica".
I bambini sono dei ricercatori di segreti di famiglia, ma quando avete
trovato un segreto siete della famiglia e non lo dite a nessuno perché un
segreto che viene svelato non è più un segreto. Qui c'è tutta la difficoltà di
lavorare in un’equipe, anche con dei ponti e dei punti di non comunicazione
all’interno dell’equipe stessa. Sono sempre colpito da quelle equipe che
si dicono tutto e che entrano in questa modalità di comunicazione che è
utile, forse, per l’equipe, ma meno per il paziente. Molto tempo fa ho visto
una bambina che non parlava. Quando lei aveva 15 anni ho ricevuto una
telefonata: "Buongiorno, sono Sofia, mi riconosce? Sono Sofia che non
parlava". Io ho esistato un po’ perché comunque avevo fatto cinque anni di
terapia senza che mi dicesse una parola e lei mi dice che suo fratello e suo
padre giocavano a non parlare con lei a cena la sera, e io non lo sapevo.
In questo esempio si vede che noi molte volte facciamo diagnosi perché
non sappiamo, ma anche perché le persone non dicono. Cercherò il più
possibile, in questo Centro che seguirò a Parigi, di lavorare caso per caso
cercando di essere meno nosografico e più clinico, in modo che ciascuna
storia sia una storia da raccontare.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Coordina Giuseppe Disnan
Contributi degli operatori e stakeholders locali
(I° intervento del pubblico)
Io lavoro nel settore della formazione in ambito milanese, lombardo e
nazionale. Gli interventi dei relatori hanno affrontato a fondo i temi dell'in
segnamento, della scuola, del lavoro dei docenti. Credo, per quella che è
stata la mia esperienza, che sia importante riuscire a lavorare all’interno
della scuola, nello spazio specifico della didattica, trovando modalità per
rendere protagonisti gli studenti e le studentesse. Apro una piccola paren
tesi sull’attenzione di genere: forse si dovrebbe, all’interno di questo ambito
dell’adolescenza, che in qualche modo oggi è stata trattata come "neutra",
recuperare una certa attenzione verso una specificità di genere che secondo
me va valorizzata. Chiusa parentesi. Dunque, si è detto, rendere protagonisti
gli studenti e le studentesse, non in un modo demagogico e non a livello di
slogan. È possibile, fino a che punto e come, restando nel proprio ruolo di
insegnanti, fare dell’aula un setting di ricerca e di significato? Secondo me
sì ed è possibile praticamente cominciando a lavorare, perché quello che si
fa lì, in quello spazio, abbia la possibilità di essere interpretato come ricerca
di significato dai ragazzi e dalle ragazze. Credo che la ricerca di significato
comprenda queste domande: in che storia formativa sono? Che cosa mi
viene richiesto? Che cosa capisco io di quello che mi viene dato o di quello
che mi trovo a fare? Quindi si tratta di una sorta di didattica meta–cogni
tiva, per usare uno slogan didattico-tecnico. In fondo che cosa interessa
veramente ai soggetti e soprattutto ai soggetti giovani in formazione? Che
ci si occupi di loro, sentirsi in primo piano (il protagonismo è sentire che
si sta lavorando per loro, che gli si forniscono strumenti per smontare e
rimontare la propria storia formativa). Creiamo un bricolage formativo nella
scuola, cioè non produciamo o, demagogicamente, accerchiamo i saperi,
ma lavoriamo dentro questi dando agli studenti la possibilità di montare e
di rimontare, quindi di interpretare. Ci sono sperimentazioni e ricerche sui
modi di affrontare un discorso molto interno alla scuola che praticamente è
borderline tra la psicologia e la didattica pur restando scolastico, quindi in un
ambito specifico, che si affianchi ad altri, non li sostituisca. Ma in quel "qui
e ora" dell’insegnante c’è una responsabilità specifica: dare la possibilità di
ricostruire, di storicizzare, di interpretare quello che viene fatto, vedersi in
azione accanto agli altri, dove gli altri non sono più il branco ma diventano il
gruppo che lavora con me, perché insieme stiamo cercando un significato.
Tutto ciò è possibile attraverso pratiche didattiche non meccanicistiche ma
da costruire e non da improvvisare, quindi da ricercare. E qui si apre un
grosso discorso sulla formazione degli insegnanti.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
(Rita Colucci - psicologa dell'Azienda Provinciale per i servizi sanitari)
Vorrei spezzare una piccola lancia in favore degli adolescenti. Io che lavoro
da trent’anni nella Valsugana posso dire che non c’è stata, a mio parere,
una generazione di adolescenti con genitori così difficili come l’attuale.
Cioè, i ragazzi hanno in buona percentuale genitori abbastanza “sballati”.
Conosco e lavoro con moltissimi adolescenti maturi, responsabili, e un po’
depressi perché il papà “si fa le canne” e la mamma è tutto il giorno al bar
con i “video-poker” o le “chat”. Questi sono ragazzi che si confrontano con
difficoltà nuove, le genitorialità attuali che nel momento sociale che stiamo
vivendo sono piuttosto instabili, per cui tanto di cappello all'alta percentuale
di maturità che dimostrano.
(III° intervento del pubblico)
Mi collego all’intervento di Rita Colucci per dire che effettivamente ci sono
genitori che rubano anche il tempo dell’adolescenza ai figli. Non se ne vo
gliono andare da uno spazio che è quello dei figli. Il problema del trattare con
i genitori è in realtà molto complesso: ci sono quelli menzionati da Colucci e
ci sono quelli che, invece, non si scollano di dosso dai figli e hanno paura di
essere inghiottiti dalla separazione. In effetti da noi manca un servizio per i
genitori. Abbiamo immaginato un luogo per i ragazzi perché possano veni
re direttamente senza impegnativa e senza pagamento del ticket, ma uno
spazio espressamente dedicato ai genitori degli adolescenti non l’abbiamo
immaginato così come non abbiamo immaginato uno spazio per elaborare
i problemi, gli eventi critici e traumatici, con gli adolescenti e i loro genitori.
Per sintetizzare al massimo, credo che ancora manchi, a livello generale,
uno spazio dedicato agli adolescenti anche nella sanità: un luogo che non
sia quello dove vanno i genitori o quello dove vanno i bambini. Abbiamo i
pediatri, gli internisti, ma non abbiamo né un posto né personale perfetta
mente mirato e adeguato alle richieste degli adolescenti.
(Graziella Fava Vizziello)
Credo che questo porti alla situazione che è anche di oggi, dove tutti abbiamo
parlato degli adolescenti come di persone che non possono avere bambini,
che non prevedono di avere bambini. Abbiamo lasciato fuori un aspetto che
a me sembra molto importante e che sta cambiando l’Italia. Abbiamo ado
lescenti che non pensano ad avere figli (dove per "adolescenti" mi riferisco
alla definizione di Buzzi: "adolescenti fino a 29 anni") e tutto ciò influisce
violentemente sulla organizzazione della personalità perché i ragazzi non
hanno più la spinta all’autonomia. Quindi c'è il problema dei genitori che
ci deludono, con cui è spesso difficile trovare un contatto, una relazione,
è difficile metterli insieme con i figli, anche perché i figli, quando le cose
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vanno veramente male, preferiscono che noi non apriamo il discorso, che
i genitori se ne vadano per conto loro e desiderano essere lasciati in pace
piuttosto che aprire il discorso. Questo, però, porta all’eliminazione di tutta
una parte fondamentale della personalità, che è quella del futuro genitore
e quindi della genitorialità come un elemento che rende autonoma la per
sona e ci ritroviamo oggi con i ragazzi di trent’anni che, come è stato detto
a ripetizione, è molto difficile far uscire di casa.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Interventi dei ragazzi che frequentano
il Centro di aggregazione giovanile
“Totem” di Borgo Valsugana
(Marco)
Io mi sono occupato del progetto “Murales” proposto dallo Spazio Giovani
di Borgo. Siamo partiti un anno fa, quando sono stato contattato dagli ope
ratori di TOTEM che mi hanno chiesto se fossi stato disponibile a mettere a
disposizione le mie capacità per insegnare ai giovani di Borgo a dipingere e
proporre loro una nuova esperienza. Abbiamo cominciato con un pannello
che abbiamo sistemato all’interno dello Spazio Giovani (al riparo dalle brutte
figure) e i ragazzi hanno risposto abbastanza bene, in numero variabile nelle
diverse giornate di lavoro. Nel complesso circa trenta persone hanno preso
parte alla realizzazione della nostra “prova generale”. Visto che l’esperienza
ha funzionato, abbiamo deciso di riprenderla quest’anno. Grazie al Comune,
che ci ha concesso alcuni spazi nel sottopassaggio della nuova stazione
ferroviaria “Borgo Est”, abbiamo deciso di realizzare altri tre pannelli deco
rativi per dare ai ragazzi la possibilità di affrontare il giudizio del “pubblico”
uscendo dall’ambiente protetto dello Spazio Giovani. Il soggetto è stato
deciso dai ragazzi insieme con gli operatori e rappresenta un po’ il paese
e il mondo giovanile. Dopo abbiamo fatto delle prove, dei disegni. Al lavoro
hanno partecipato diversi ragazzi, anche quest’anno in numero variabile nelle
diverse giornate. Un aspetto significativo è che siano stati soprattutto ragazzi
extracomunitari a lavorare con noi, ragazzini giovani. Abbiamo provato a
coinvolgere anche i pochi ragazzi italiani che vengono allo spazio giovani,
però questi non hanno aderito perché si vergognavano un po’. Dicevano:
“Ma no, questi sono lavori da bambini…”. Preferivano giocare con la playstation o fare altre cose così. Comunque i ragazzi che hanno lavorato con
me erano entusiasti e si sono divertiti. Hanno fatto anche un po’ di casino
però si sono divertiti. Abbiamo cominciato a settembre e a gennaio–febbraio
abbiamo esposto i pannelli e abbiamo fatto un’inaugurazione. C’è stato
anche un articolo sul giornale ed eravamo tutti molto soddisfatti. Anche i
ragazzi, quando mi incontrano per strada, sono gentili, mi salutano, insomma
ricordano un’esperienza che è stata positiva per tutti. Purtroppo è passata
soltanto una settimana e i pannelli sono stati imbrattati. Qualche giovane di
Borgo o della zona si è divertito con una bomboletta a imbrattare le nostre
opere. Ora stiamo riparando i danni e speriamo bene. Comunque il Comu
ne ci ha promesso altri spazi e le Ferrovie dello Stato ci hanno detto che
c’è tutto il resto del sottopassaggio da decorare, che è anche abbastanza
ampio. Lo faremo se ci sarà tempo e la partecipazione dei giovani. Per me
questa è stata un’esperienza molto positiva perché mi ha dato la possibilità
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
di insegnare quello che ho imparato a scuola, trasmetterlo a dei giovani
che magari sceglieranno altre scuole ma che almeno hanno potuto vivere
un’esperienza di “artisti”. Io dai ragazzi ho imparato l’entusiasmo: loro si
sono divertiti davvero a fare i pannelli, mentre io, dopo 5 anni che disegno e
frequento l’Istituto d’Arte, avevo un po’ perduto l’emozione degli inizi. Anche
adesso, alla fine dell’esperienza con lo Spazio Giovani, ci sono dei ragazzini
che mi dicono: “Dai, dai, si dipinge?”. Questi sono i motivi per cui bisognerà
ricominciare il prossimo anno. Penso che la disponibilità di spazi nuovi e
non solo il sottopassaggio alla stazione ferroviaria, sarebbe molto positiva
per i giovani, anche perché il fatto che qualcuno abbia imbrattato i nostri
pannelli vuol dire che c’è un bisogno di esprimersi. Con ciò non non voglio
dire che i ragazzi possono andare a scrivere ovunque con le bombolette,
ma che.mettendo loro a disposizione degli spazi forse riusciremo anche a
evitare le scritte vandaliche sui muri del paese.
(Simone)
Io ho 22 anni e suono in un gruppo. Rappresento in questa occasione tutti
i gruppi della zona. Suoniamo già da tempo e la maggior parte di noi ha
avuto l’occasione di incontrarsi allo Spazio Giovani. Qui abbiamo trovato
un luogo dove confrontarci con quanti condividono la nostra passione per
la musica, che molti associano soltanto all’idea di “rumore”. Magari quello
che facciamo è anche “rumore”, ma ci mettiamo dell’impegno cercando di
farlo nel migliore dei modi. Così è stato bello poter “rumorare” tutti assie
me allo Spazio Giovani e trovare anche un canale di collegamento con le
istituzioni. Quindi abbiamo messo insieme le nostre idee, i nostri progetti, i
nostri sogni, e il primo di questi e poter avere tutti quanti a disposizione un
posto dove suonare. Noi ce l’abbiamo, però ci sono tanti gruppi che non
si formano nemmeno perché non hanno un posto dove suonare o magari
gli strumenti e i soldi per farlo. Tramite lo Spazio Giovani siamo riusciti ad
avere un contatto con il Comune che ci ha procurato una sala prove che
attualmente è vuota perché in costruzione. Speriamo che un giorno possa
essere riempita di cose, ma soprattutto di persone che si divertono assieme
e fanno qualcosa di costruttivo.
(Chiara)
Io ho partecipato al progetto “Teatro” che è nato nel 2002. Durante il primo
anno abbiamo fatto solo laboratorio corporeo e abbiamo assimilato alcune re
gole essenziali del teatro. Quest’anno, invece, abbiamo messo in scena uno
spettacolo. All’inizio il lavoro non era partito con il piede giusto: mancavano
ragazzi e anche un buon clima di lavoro. Il teatro richiede molto impegno ed
entusiasmo: due elementi che mancavano e che però abbiamo raggiunto
con il tempo. Con il passare dei mesi, infatti, si è formato un bel gruppo che
lavora bene, si diverte e si impegna molto in quello che fa. L’esperienza
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
del teatro è stata molto interessante grazie anche all’intervento dell’esperto
Flavio Demattè che ci ha insegnato i “fondamentali”, ci ha dato consigli e ci
ha aiutati nella preparazione dello spettacolo. Il progetto “Teatro” è stata per
noi un’opportunità molto importante anche perché è stata completamente
gratuita. Personalmente, se non avessi avuto questa opportunità e avessi
voluto frequentare un corso di teatro, avrei dovuto affrontare spese notevoli,
in quanto i corsi hanno prezzi elevati. Molte volte i ragazzi della mia età non
riescono a soddisfare le loro necessità e i loro desideri in quanto non hanno
la possibilità economica per farlo. Un esempio: sento parlare ragazzi che
vorrebbero frequentare corsi di ballo o altri corsi, ma purtroppo rinunciano
a causa delle spese troppo elevate e anche perché queste iniziative hanno
sede lontano da qui e bisogna mettere in conto anche i costi del viaggio.
(Sara)
Anch’io ho frequentato lo stesso corso teatrale di cui ha parlato Chiara. Per
sonalmente mi sono trovata molto bene, ho potuto collaborare con gli altri
ragazzi della mia età e sviluppare la capacità di dimostrare chi sei e cosa
sai fare. Non voglio aggiungere altro, solo chiedere più luoghi e occasioni
per svolgere queste attività e invitare gli altri giovani che non hanno niente
da fare a unirsi a noi per realizzare qualcosa tutti insieme.
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Seconda sessione
Che cosa possiamo
dare agli adolescenti?
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Marcel Rufo
Carpe Diem. L'attimo fuggente
Vorrei iniziare rivolgendovi un invito a visitare il centro che sarà sarà aperto
a Parigi in ottobre. C’è bisogno che qualcuno di voi venga per vedere e per
lavorare insieme in queste strutture per adolescenti che in Francia saranno
più di cento nei tre anni che verranno.
Per quanto riguarda il centro di Parigi credo che la prima condizione
importante sia che questo luogo si apra alla città. Al piano terra c'è un'entrata
con delle vetrate che danno sulla città, sul boulevard de Port Royal. Si tratta
di un luogo disponibile per esposizioni e forum. Sono le scuole medie e i licei
parigini a proporre i temi delle discussioni e delle altre iniziative con gli ado
lescenti ospedalizzati e la tematica è quella delle condotte a rischio. Quindi
sono gli adolescenti che intervistano gli specialisti e non il contrario.
Sotto l'entrata c’è uno spazio di consultazione aperto sul giardino. Qui
c'è una "Equipe Santé" composta da psicologi, psichiatri e assistenti sociali
che appartengono alla città di Parigi e non solo all’ospedale. C’è un bar con
esposizioni temporanee di fumetti, disegni, murales, rassegne di film e spazi
di confidenzialità dove l'adolescente, se lo desidera, può parlare con un adul
to. L’idea è che gli adolescenti possano trovare un primo spazio di legame
e di confronto per entrare in contatto con uno spazio terapeutico, evitando
che la loro situazione possa aggravarsi per via di un ingresso forzato.
Si pongono due possibilità: un adolescente può venire da solo per una
consultazione, ma a volte, quando la situazione è particolarmente grave, i
genitori devono essere rimessi in circuito perché si possa creare un’alleanza
anche con loro. A volte c’è quindi una confidenzialità totale con l’adolescen
te, che può venire per alcune volte e poi non tornare più. Quando invece
la situazione è particolarmente grave e si richiede una presa in carico, un
intervento terapeutico o un’ospedalizzazione, richiediamo obbligatoriamente
l’intervento dei genitori. Nelle consultazioni sono invitati anche i migliori amici,
i fratelli e le sorelle. Può capitare che, talvolta, per un adolescente venga
a parlare il migliore amico senza che l’interessato sia presente e possiamo
immaginare che a volte ciò possa essere sufficiente: possiamo dire di aver
trattato degli adolescenti senza averli mai visti.
Al primo piano c’è un’unità di ospedalizzazione di venti monolocali
con stanze, docce, eccetera, ma anche spazi intermedi (soggiorni) dove gli
adolescenti possono ricevere gli amici e i genitori senza che questi entrino
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
nella stanza dove sono ospedalizzati. Il design di questo luogo è stato curato
ascoltando la domanda degli adolescenti, che hanno richiesto, tra le altre
cose, computer portatili e docce dove si può stare seduti e magari sognare
mentre ci si lava. Questo luogo di ospedalizzazione è un’unità in cui gli
adolescenti non sono razzisti rispetto alle patologie degli altri. Ci possono
essere, ad esempio, adolescenti che hanno avuto diversi incidenti in moto
cicletta, che sono andati al pronto soccorso molte volte per via di condotte
a rischio, un cancro stabilizzato, una anoressia, un tentativo di suicidio, un
inizio di disturbo della personalità: tutte queste cose unite insieme. Per la
consultazione, rispetto a questi venti monolocali, disponiamo di 13 assistenti
medici, altrettanti psicologi e 50 tra infermieri ed educatori.
L’ultimo piano è senz’altro il più interessante di tutta la struttura:
l’insieme della superficie è di seimila metri quadri, che è molto per la città
di Parigi, ed è riservata a quelle che chiamiamo "cure culturali". C'è la me
diateca con tre sale, e in mezzo gli adolescenti hanno chiesto un acquario
che abbiamo costruito.
Gli insegnanti saranno di due tipi: quattro o cinque a tempo pieno
(professori di educazione fisica, musica, disegno, francese e filosofia), gli
altri a convenzione, provenienti dalle scuole medie e dai licei dei dintorni (il
più possibile quelli da cui provengono anche i ragazzi ospedalizzati). Costi
tuiranno un gruppo che abbiamo chiamato "la scuola all’ospedale". Abbiamo
stipulato due convenzioni con altrettante scuole, un istituto politecnico e
una scuola superiore, per poter avere studenti particolarmente brillanti che
verranno a fare delle lezioni. Queste scuole hanno costituito due gruppi di
ragazzi che da ottobre lavoreranno nel progetto.
Al piano terra ci saranno anche degli uffici con spazi per diverse
associazioni, per gli avvocati che danno consulenze giuridiche agli ado
lescenti, l’equivalente del vostro "Telefono Azzurro". Organizzativamente,
per le associazioni è previsto un calendario con delle prenotazioni, perché
possano partecipare alle attività che non riguardano l'ospedalizzazione.
Abbiamo anche stipulato una convenzione con un Servizio di una città a
nord di Parigi che mette a disposizione educatori che possano andare a
domicilio per un’assistenza agli adolescenti. Abbiamo, ovviamente, legami
con gli ospedali psichiatrici e le unità per i giovani.
Ci sono due progetti di cui già ci occupiamo. Il primo impegna educatori
e operatori della sanità che vanno nelle case dei bambini abbandonati per
prevenire i problemi che potrebbero condurli alla psichiatria. Sembra infatti
che ci sia quasi una doppia punizione per questi bambini: la prima è di tro
varsi in una struttura per abbandonati, quindi di essere stati abbandonati; la
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
seconda è di sviluppare un problema per questo, quasi una punizione per
il fatto di essere stati abbandonati.
Ci siamo resi conto che gli adolescenti sono i più rifiutati al pronto
soccorso. Il rifiuto arriva nel momento in cui essi già vivono un rifiuto all’in
terno della propria vita. C’è già un servizio di consultazione in un ospedale
parigino, dove vengono ricevuti gli adolescenti inviati dalle famiglie per essere
ospedalizzati. Ciò che ho potuto appurare, però, è che i parigini hanno le
stesse patologie dei marsigliesi, ma non posseggo ancora la rete attivata
a Marsiglia. Ne consegue che, soprattutto di fronte a casi particolari, mi
trovo in una situazione più intima con l’adolescente e non posso inviarlo ad
altri servizi. Mi ritrovo in pratica nella situazione di trent’anni fa a Marsiglia,
quando, nelle prime consultazioni con un adolescente, ero veramente a tu
per tu con lui. Ciò ha a che fare con una specie di meccanismo consolidato
che può generarsi in un servizio che funziona bene da molto tempo. Ma la
questione di fondo riguarda la necessità di riservare una grande attenzione
alla domanda dell’adolescente: il fatto di inviarlo altrove viene vissuto come
"mi manda via". Di fatto adesso non spiego più all’adolescente perché lo
mando via, mentre una volta era convinto che lui dovesse conoscerne le
ragioni.
Il titolo del mio intervento ("Carpe Diem") ha a che fare con l’adole
scenza e con l'idea di rottura del tempo presente. Quando il tempo riappare
all’adolescente è perché questi non sta bene. C’è un tempo immediato che
protegge i ragazzi rispetto a una scommessa sull’avvenire. Ad esempio:
quando un ragazzo va a casa del migliore amico, ci torna per non lasciarlo.
Questo è un comportamento tipico dell'adolescenza e non degli adulti, che
altrimenti sarebbero considerati molto strani. Quando il tempo riappare,
la malattia impone all’adolescente un tempo reale che sostituisce quello
immaginario. Nell’adolescente con cancro, per esempio, c’è una rottura
rispetto alla scolarità e agli amici, e ciò ci fa pensare anche a quello che
ha scritto René Spitz sui bambini ospedalizzati che vivono una rottura del
contatto. Un'associazione francese, la "Lega contro il Cancro", ha proposto
di realizzare unità scolastiche dedicate agli adolescenti malati, in pediatria
o altrove.
L’adolescente ci pone il problema del tempo perché la specificità del
l’ospedalizzazione si differenzia rispetto ad altri tempi della nostra vita. Anche
una donna anziana che entra in ospedale ha bisogno di essere ospedalizzata
insieme al suo gatto perché non può abbandonarlo. Allo stesso modo anche
gli adolescenti, nella loro specificità, ci fanno pensare: ospedalizzazione del
soggetto o ospedalizzazione dell’organo?
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Allora l'idea è quella di riguadagnare del tempo durante la malattia:
quindi nell’unità di ospedalizzazione ci sarà una radio dove gli adolescenti
potranno fare delle trasmissioni, ci sarà il teatro, la danza, tutta una serie di
attività per riguadagnare il tempo, per riorganizzare il tempo della malattia. Di
fatto può sembrare che queste siano cure molto costose, ma la scommessa
è che ci sia una corrispondente diminuzione del bisogno di cure psicologiche
e mediche perché un adolescente che disegna, che ha riguadagnato uno
spazio anche per la propria creatività e per il proprio piacere, ha meno bi
sogno di cure psicologiche.
Un ragazzo in sedia a rotelle che ho in cura a Marsiglia per una mia
stenia mi ha chiesto recentemente: "Hai dimenticato gli handicappati?". Mi
ha detto in sostanza: "Non posso venire in questa unità soltanto se sono
su una sedia a rotelle o c'è chi mi tiene in piedi". In precedenza non avevo
mai pensato, ad esempio, che al bancone di un bar un handicappato non è
mai in piedi. Con alcuni donatori abbiamo acquistato un ausilio per tenerlo
in piedi e adesso, quando l’educatore viene a casa, lui gli offre il caffè e
prende lo zucchero dal cassetto più alto. Nel momento in cui porgeva lo
zucchero il ragazzo si sentiva meno handicappato. Ecco perché avremo
due stanze anche per gli handicappati, studiate in loro funzione, mentre
prima avremmo pensato solo a realizzare dei corridoi o delle pedane per il
passaggio delle sedie a rotelle.
Adesso mi interessa molto lavorare con un pediatra, un medico interno
e un endocrinologo che opereranno in seguito nell’unità degli adolescenti.
Una questione, ad esempio, che riguarda l’endocrinologo, è quando bisogna
ospedalizzare un ragazzo con il diabete. In altre parole è necessario capire
se questa persona accetta e vive bene il suo diabete oppure utilizza la sua
malattia per stare male e in questo caso come è possibile aiutarla a livello
psicologico. Ci saranno delle consultazioni in cui saremo presenti tutti e due:
lui parlerà del diabete, io della malattia. Lunedì ho ricevuto una telefonata
in cui questo medico mi ha parlato di un caso esterno che sta vedendo a
Parigi. Ciò significa che c’è un legame che si sta consolidando: ciascuno
si interessa a quello che dice l’altro. Per quanto lo riguarda, pur essendo
medico, lui si sta interessando alla rappresentazione che il paziente offre
della malattia. Possiamo dunque pensare che i futuri studenti di medicina
saranno maggiormente interessati anche a questi aspetti.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Riccardo Grassi
Politiche sui giovani, per i giovani
o con i giovani?
Il mio intervento vuole essere una riflessione su quale sia oggi il ruolo dei
giovani rispetto alle politiche pubbliche. Vorrei distinguere fra quelle che sono
le politiche "sui" giovani, "per" i giovani, "con" i giovani e le politiche "dei" gio
vani. Questo è un argomento particolarmente sentito perché è un problema
fondamentalmente di cittadinanza democratica e di partecipazione.
È un dato di fatto che al giorno d’oggi non solo il sistema politico, ma
anche quello economico e dei consumi, tende a una “indianizzazione” dei
giovani. Nel senso che spesso costruiamo spazi, strutture, luoghi, tempi,
consumi giovanili separandoli radicalmente da quelli che sono i consumi,
gli spazi, i luoghi della partecipazione adulta, come se i giovani fossero una
razza in via di estinzione che ha bisogno di interventi particolari, di riserve,
come se loro fossero soggetti non ancora capaci di essere adulti e quindi
ci sia sempre la necessità di qualcuno che li governi.
Ciò è particolarmente evidente nella dimensione associativa: l’asso
ciazionismo giovanile è essenzialmente un associazionismo di fruizione,
ovvero un associazionismo di consumo. Sono rarissimi i casi in cui, all’inter
no dell’associazionismo, i giovani hanno la capacità di incidere sulle scelte
dell’organizzazione e di partecipare attivamente al suo governo.
È un problema particolarmente vivo, tanto che a livello nazionale si ri
flette molto sull’invecchiamento progressivo delle associazioni di volontariato:
molte di queste sono nate negli anni Ottanta e oggi, a 25 anni di distanza,
hanno la stessa dirigenza di allora, con qualche anno in più sulle spalle.
C’è un grosso problema anche per quel che riguarda la partecipazione
politica dei giovani. La partecipazione attiva riguarda una percentuale intorno
al 3%, peraltro collocata in maniera molto precisa all’interno di movimenti
che hanno strutture giovanili, sia di destra che di sinistra. Naturalmente si
tratta di un’indicazione spuria, perché in realtà l’interesse generale verso
la politica da parte dei giovani sta crescendo; ma sta crescendo in forme
completamente diverse dalla tipica appartenenza partitica. Pensate a quello
che è stato il fenomeno delle bandiere della pace, esposte tanto dagli adulti
quanto dai giovani; pensate all’attenzione manifestata verso i problemi del
pianeta, lo sfruttamento delle risorse, la povertà dei Paesi del Terzo Mondo.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
La capacità di attenzione verso il globale è molto più alta nei giovani che
negli adulti, però prende forme che hanno strutture completamente nuove
e anzi, appena questi interessi vengono un po’ ingabbiati nelle strutture
tradizionali, puntualmente i giovani spariscono.
Ecco il problema delle politiche giovanili: sono i giovani che non hanno
interesse a partecipare al governo della cosa pubblica o è la struttura che
abbiamo intorno che emargina i giovani e non è in grado di ascoltarli? Io
credo che coesistano entrambi questi fattori. La comunità adulta emargina
il giovane riducendolo a consumatore. I giovani hanno un loro ruolo ricono
sciuto dalla comunità adulta, in quanto consumatori di beni, e contempo
raneamente vengono percepiti molto spesso dalle politiche come portatori
di problemi. Chi fa marketing ha scoperto che i preadolescenti hanno una
grande capacità di influenzare le spese di acquisto dei genitori, per cui,
quando viene pubblicizzata un’automobile, la si fa piacere al bambino:
questa è una palese manipolazione dei giovani.
Quando si parla di una politica bisogna distinguere tra chi la decide,
chi la realizza e chi ne è il destinatario.
Quando parliamo di politiche "sui" giovani, intendiamo quelle politiche
pensate e gestite dagli adulti che hanno come destinatari i giovani, i quali
però non partecipano per nulla al processo. Sono generalmente le politiche
che riguardano il disagio: l’adulto vede che esiste un disagio, si spaventa, si
organizza, realizza dei modelli di intervento, li applica, ma raramente li valuta.
È un procedimento che oggi sta scomparendo, ma che ha caratterizzato per
lungo tempo le politiche giovanili anche nel nostro Paese. In questo tipo di
processo i giovani sono passivi, nel senso che sono i destinatari di interventi
pensati e gestiti da altri e che vengono semplicemente caricati sulle loro
spalle: per questo parliamo di politiche "sui" giovani.
Poi ci sono le politiche "per" i giovani, che hanno l’obiettivo fonda
mentale di promuovere alcuni aspetti tipici dell’età giovanile. Per esempio,
nell’ambiente della scuola gli interventi sono tipicamente "per" i giovani,
destinati non a considerare i giovani come problema ma a fornire una serie
di risorse utili per la loro crescita. Però, anche in questo caso, molto spesso
la scelta e il percorso sono pensati dagli adulti, i giovani vi hanno un ruolo
solo parzialmente attivo e restano destinatari con poche reali possibilità
d’intervento.
Una terza tipologia sono le politiche "con" i giovani. Queste partono
da un punto di vista radicalmente diverso: il giovane non è, o non è solo un
problema, non è un contenitore vuoto da riempire in qualche modo, ma è
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
una persona che ha delle capacità, delle opportunità e che, come tale, può
giocare un ruolo attivo nella definizione delle politiche. In altre parole: non
è un utente, non è un problema, ma è un soggetto. Quindi la prospettiva
delle politiche cambia completamente, perché anche nella definizione delle
scelte i giovani e gli adulti, insieme nei rispettivi ruoli, possono dialogare
per definire cosa fare. Il "come fare le cose" non è scelto a priori, pianificato
a tavolino e affidato a esperti esterni che producono in maniera del tutto
indipendente un progetto, ma è realizzato insieme a quelli che saranno i
destinatari dell’intervento. A questo punto il destinatario finale non è più solo
il giovane, ma diventa la comunità. In questi anni il Comprensorio di Borgo
sta portando avanti un progetto che risponde esattamente a questi criteri.
Un quarto tipo è rappresentato dalle politiche "dei" giovani, tipiche di
alcune associazioni giovanili, in cui chi opera le scelte, quelli che le attuano
e i destinatari sono i giovani. Ma anche in questo tipo di politiche si opera
una frammentazione tra le generazioni: in questo caso non sono i giovani
che vengono esclusi, ma sono i giovani che escludono gli adulti.
Queste ovviamente sono tipologie un po’ schematiche in quanto non
esistono, o sono comunque molto rari i casi in cui una politica risponde
esclusivamente a uno solo di questi modelli. Però si tratta di un modello
di riferimento che ci può essere utile per ragionare sul ruolo delle politiche
giovanili a livello provinciale, a livello locale e anche a livello nazionale.
Personalmente, ritengo che il modello più opportuno sia quello delle
politiche "con" i giovani, che è anche il modello delle politiche "con i cittadi
ni". Non dobbiamo considerare i giovani degli extraterrestri assolutamente
diversi dal resto della società: hanno delle specificità, esattamente come
tutte le altre categorie di cittadini.
Questo è un percorso che, soprattutto a livello locale, ha un attore
fondamentale: la comunità quale soggetto che sceglie, realizza e valuta i
propri interventi.
Pensando in maniera specifica ai giovani che cosa significa tutto que
sto? Vuol dire che una politica per i giovani è mirata a favorire il processo
di socializzazione, di crescita, di costruzione dell’identità, che sono poi i
compiti evolutivi fondamentali che deve affrontare un adolescente. Vuol dire
favorire questo processo e rimuovere gli ostacoli che possono impedire l'as
solvimento di questi compiti. Vuol dire uscire un po’ dall’ottica delle politiche
per i giovani viste come politiche per il disagio e passare a politiche per i
giovani viste come politiche per la crescita e per lo sviluppo. Vuol dire anche,
quando si fa un intervento, avere coscienza di quanti attori intervengono nel
processo di costruzione dell’identità di un giovane (un processo complesso,
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
perché gli stimoli che arrivano sono contraddittori e perché mancano dei
veri punti di riferimento quali erano un tempo, per esempio, la religione o i
valori politici, e ciò vuol dire collocare il giovane all’interno di un processo di
crescita in cui ci sono le istituzioni politiche, la scuola, la famiglia, il gruppo
dei pari, i mass-media.
Qual è, quindi, il ruolo degli adulti nei confronti dei giovani? Che cosa
chiedono i ragazzi alla "comunità adulta"?
Innanzitutto una cosa apparentemente molto semplice: essere ascoltati
senza essere giudicati. Non è semplice, in realtà, perché molto spesso i nostri
processi comunicativi sono processi giudicanti. Se consideriamo il giovane
come colui che non è più un bambino (e quindi non dobbiamo manifestargli
l’affettuosità destinata ai bambini), ma non è ancora un adulto (quindi non
posso parlargli come un pari), il livello di dialogo è immediatamente asim
metrico e diventa giudicante.
I giovani richiedono poi un chiaro patto educativo: ciò significa chia
rezza dei ruoli nel rapporto con gli adulti. Tempo fa si diceva che i genitori
dovevano essere amici dei figli: una prospettiva educativa che faceva perdere
ai figli sia gli amici sia i genitori. Oggi, per citare un libro molto di moda, si
è riscoperto che i "No aiutano a crescere". Quando si parla ai ragazzi della
scuola la richiesta che manifestano non è di avere insegnanti "che ti fanno
fare quello che hai voglia", ma di avere insegnanti competenti, stimolanti,
"che ti sanno far innamorare della materia che stanno insegnando".
Il terzo elemento di richiesta è l’accompagnamento: adulti che siano
in grado di accompagnare, cioè di camminare insieme, non come si fa con
i bambini che si devono prendere per mano e si devono portare perché
non sanno dove andare, ma neanche abbandonare al proprio destino: vuol
dire invece che ti passo accanto, se vuoi posso aiutarti, ma anche tu puoi
aiutare me.
Il quarto elemento (l’ultimo che elenco, ma forse il più importante) è la
richiesta di ricevere fiducia e di avere il diritto di sbagliare. La società contem
poranea non ammette più l’errore sia dei giovani sia degli adulti: l’immagine
che viene data è che chi sbaglia è un incapace. Ma l’adolescenza è l’età in
cui si deve sbagliare, si deve avere il diritto di sbagliare perché sbagliare
è un percorso di crescita. E allora ecco che la fiducia, malgrado l’errore,
diventa l’elemento chiave per la realizzazione di una reale cittadinanza da
parte dei giovani.
Mi premeva anche raccontare un paio di esperienze positive, una
in particolare, che è quella che viene fatta in questo comprensorio e che
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
vede protagonisti i ragazzi dell'Istituto Degasperi e dell’ENAIP. In tre anni
di attività il progetto ha prodotto una serie di interventi di grande interesse
che hanno coinvolto i ragazzi come coprotagonisti del processo di scelta, di
costruzione, di realizzazione delle proposte destinate ai loro pari. In tutto ciò
la comunità adulta non si è tenuta fuori, ma è entrata nel processo con ruoli
ben chiari: io, Comprensorio, sono in grado di dare le risorse economiche,
partecipo seguendo il percorso, ascoltando quello che succede, valutando
e cercando di vedere le positività (tanto che speriamo di poter andare avanti
anche nei prossimi anni); tu, scuola, dai una serie di opportunità, di spazi, di
tempi, di crediti; voi, operatori, date la vostra esperienza, la vostra capacità;
noi giovani diamo il nostro tempo, la nostra inventiva, la nostra capacità di
comunicazione e i nostri telefonini. Questo è un progetto di politica giovanile
fatta in comune, partecipata.
Un’altra esperienza interessante si sta realizzando a Rovereto. Per la
costruzione di uno spazio giovani, la classe di una scuola, attraverso una
supervisione di carattere più metodologico, sta andando in giro a intervistare
i propri pari e ad ascoltare da loro che cosa ci si aspetta. Proprio da questo
confronto nascerà in seguito lo spazio giovani.
Qual è la conclusione? Pensare alle politiche giovanili oggi deve
portarci a pensare ai giovani come dei soggetti, quindi a riconoscere citta
dinanza ai giovani, ma deve anche portare le istituzioni a non aver paura di
giocare il proprio ruolo. Chiarezza dei ruoli, chiarezza delle responsabilità,
coerenza in quello che si fa: queste sono le richieste dei giovani che chie
dono di essere ammessi alla società da adolescenti, con le caratteristiche
che contraddistinguono la loro età.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Alberto Pacher
Ballando con uno sconosciuto
Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo seminario mi sono chiesto
cosa poteva venire a dire un sindaco in un contesto del genere: di fatto la
cosa che conoscono meglio i sindaci è la città.
Quindi, prima di parlare delle iniziative che si stanno facendo a Trento,
volevo fare due considerazioni sulla città, perché è mia convinzione che
qualsiasi intervento che rientri nelle politiche rivolte alle persone, non soltanto
riferito ai giovani, non possa prescindere dalla contestualizzazione, cioè dal
luogo in cui questo intervento viene fatto. Non mi riferisco tanto al luogo
geografico, cioè Trento invece che Borgo Valsugana, Marsiglia o Parigi, che
pure hanno un rilievo importante. Mi piace spesso citare un passaggio dalle
"Città invisibili" di Italo Calvino, che è un grandissimo libro per chi vuol capire
che cosa sono le città: "Perché tu di una città non godi le 7 o le 77 meraviglie,
ma la risposta che dà a una tua domanda". Quindi il contesto urbano, la città,
si pone come un altro interagente, diventa un luogo geografico, di vita, di
relazioni, ma anche un luogo mentale, cioè diventa un contesto relazionale
nel quale vengono situati scenari e dinamiche interiori personali.
Io sono convinto che non sia la stessa cosa vivere un proprio percorso
di vita, soprattutto nella fase di formazione dell’identità e degli assetti fonda
mentali interiori, nell’uno o nell’altro contesto. La città è vissuta in maniera
diversa da ciascuno di noi: vediamo frequentemente che della stessa città,
dello stesso luogo, dello stesso contesto si possono trovare vissuti e opinioni
assolutamente diversi. Parlando con i giovani si ha una fotografia della città;
parlando con gli adulti inseriti nel mercato del lavoro si ha un’altra fotografia
della città; parlando con le donne dedite alle attività di tipo domestico e fami
liare si ha un’altra immagine ancora, e lo stesso parlando con gli anziani. La
città è la stessa ma quello che cambia è il modo di interpretarla, di viverla,
quasi come se ciascuno di noi proiettasse sulla città qualcosa di sé: i nostri
scenari interiori, i nostri modi di essere e di vivere. Questa sorta di proiezione
verso l'esterno è un processo bidirezionale: anche la città proietta qualcosa
dentro di noi. Mi viene in mente un passaggio di James Hillman, un analista
americano che parlando dei suoi pazienti dice: "Perché noi incontriamo il
nostro lavoro – di psicoterapeuti – con la gente della città e la città è nell’anima dei nostri pazienti". Ciò significa, ancora una volta, che la città, da
aggregato di forme urbanistiche e architettoniche, di processi funzionali,
diventa qualcosa di più, che entra dentro, che in qualche modo aiuta a mo
dellare o diventa una componente anche della propria immagine.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
La città diventa anche il luogo dove, a fianco della consueta evoluzio
ne della dinamica tra domande e risposte, dell’articolazione dei bisogni in
domande e delle risposte che a queste domande vengono date, entrano in
gioco anche le dimensioni più impalpabili dei desideri, delle emozioni, delle
aspettative, che pure giocano un ruolo importante.
La stessa storia delle città è fatta anche di una successione di emo
zioni. Non a caso tutte le città hanno al proprio interno i luoghi del sacro, i
luoghi della memoria (dai monumenti ai caduti alle targhe commemorative).
Ogni città ha bisogno di marcare la propria storia, di marcare i momenti
delle emozioni forti, i momenti fondanti della propria vicenda. Non si tratta
soltanto di un oggettivo susseguirsi di eventi: è anche un concatenarsi di
emozioni e di memorie. Questo è l’insieme della struttura della città: quindi
c’è una sorta di identità collettiva che incide anche sulle nostre identità. Già
negli anni Cinquanta, parlando a Stoccolma in occasione di un convegno
sul rischio nucleare, allora molto forte, l’allora Sindaco di Firenze, Giorgio
La Pira, ebbe a dire: "Guardate bene che le città non sono solo dei cumuli
occasionali di pietre, sono misteriose abitazioni di uomini e, ancor più, mi
steriose abitazioni di Dio", intendendo che nelle città c’è veramente qualcosa
in più, che è proprio questo pathos, questa dimensione collettiva dove si
situano le nostre dimensioni individuali, i nostri processi di individuazione,
di ricerca e relazionali.
Credo non sia un caso se proprio dall’interno delle città nascono gli
eventi più distruttivi. Una volta i barbari e i pericoli per la città venivano sem
pre da fuori le mura; oggi, spesso i pericoli per la città, i barbari, vengono
dall’interno, sono quella parte di noi che non trova una risposta alle proprie
domande, i ragazzi delle “banlieues” parigine che vanno verso il centro
nei fine settimana vandalizzando i propri percorsi perché probabilmente
quei percorsi, quel contesto, non danno risposte, non riescono a diventare
un luogo dove loro possano situarsi. I ragazzi non lo capiscono e quindi
distruggono in maniera depersonalizzata quello che hanno intorno. È un
meccanismo che si ritrova, con intensità diverse, anche nei nostri contesti,
meno destrutturati socialmente, urbanisticamente e civilmente rispetto a
certe periferie delle grandi metropoli. Succede che ci sono degli atti, degli
agiti sull’oggetto urbano che vanno a colpire molto spesso proprio gli aspetti
della città che in qualche modo hanno a che fare con la mancanza di questa
risposta. Ci sono, per esempio, alcuni luoghi della città che anche in questi
momenti particolarmente dinamici non vengono toccati o che vengono in
qualche modo sempre rispettati perché probabilmente incarnano, anche nei
contesti più destrutturati, significati che toccano le persone.
Mi riferisco, per citare un esempio che ci riguarda, agli spazi che ab
biamo dedicato ai ragazzi per la manutenzione del motorino (e abbiamo
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
raccomandato alla Polizia Municipale di stare un po’ alla larga da questi
contesti perché credo possano insegnare anche qualcos’altro).
Questo progetto ci piaceva perché c’è una parte dei ragazzi della nostra
città, al pari di tanti altri posti, che magari sfugge alle offerte più strutturate
in termini culturali e d’impegno, ma che su una cosa del genere, relativa al
motorino, possono essere attirati. Il fatto di avere a disposizione coetanei
che danno delle dritte, che insegnano a lavorare un po' con il motorino, per
un ragazzino è un'esperienza molto importante.
Questi spazi sono officine che ci vengono date in disponibilità dai
titolari alcune volte in settimana. Si tratta di vere officine, e questo ci sta
permettendo di contattare alcuni ragazzi che altrimenti non riusciremmo a
raggiungere, anche perché ogni tanto passa di lì qualcuno a cui, sotto la
tuta da meccanico, batte un cuore sociale e che quindi riesce a cogliere le
situazioni difficili.
In buona sostanza si è pensato di provare a creare spazi dove le
diverse grammatiche parlate e pensate dai ragazzi potessero trovare
un’abitazione, una residenza. Sicuramente a fianco di queste situazioni ci
sono tutte le altre cose che si fanno ordinariamente: i progetti specifici, i
centri "gioca–studiamo", i centri per l’animazione in alcuni quartieri; poi c’è
tutta la parte assistenziale, quella legata a chi manifesta una necessità di
aiuto in maniera forte, leggibile.
L’orientamento che si sta seguendo in città, dunque, è proprio quello
di puntare sempre di più su un tipo di proposte a bassa soglia di accesso,
che chiedono poco in cambio se non il voler fare qualcosa, nella convinzione
che ciò possa avere un ritorno importante anche per la città intesa come
comunità cittadina. In tal modo, contrariamente a quello che spesso si vede
soprattutto sui media, la connotazione problematica è po’ meno forte, anche
perché credo che oggi ci siano dei segnali molto importanti che vengono
dal mondo giovanile.
Quando vedo centinaia di ragazzi, "quelli delle bandiere della pace",
che passano sulle strade, magari inveendo ogni tanto contro il Comune, a
me sembra veramente un bel segnale di speranza, perché quando diciamo
che "i giovani sono fuori e si disinteressano di politica" ciò non corrisponde
sempre al vero. Forse sarebbe più giusto dire che i giovani si disinteressa
no della nostra politica, perché noi siamo abituati a pensare che la politica
sia nelle istituzioni e nei luoghi delle istituzioni. Credo infatti che i giovani
s’interessino di politica, intesa però nel proprio contesto: ci sono i ragazzi
che hanno la maglietta di “Emergency” perché sentono di potere e di dover
condividere qualcosa con chi vive in contesti più sfortunati del nostro. Ci sono
i ragazzi con le bandiere arcobaleno, quelli che fanno i gruppi musicali, che
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
propongono qualcosa per la propria città: giovani che cercano in qualche
modo di interpretare la propria vita, sono una presenza reale all’interno della
città alla quale stanno dando molto.
Quello che emerge con una certa forza e con sicurezza dall’esperien
za che noi stiamo facendo, ancorché sia un’esperienza aperta a qualsiasi
smentita, come inevitabilmente sono le politiche in generale e soprattutto
quelle rivolte ai ragazzi, è proprio il fatto che, se si riesce a cogliere una certa
"sintonia fine", se si riesce a parlare la stessa lingua, si riescono a ricevere
informazioni, contributi e stimoli che sono realmente un segnale politico di
speranza molto forte per le nostre città.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Claudio Stedile
Una scuola a misura di adolescente
Ho l’impressione che i giovani e la scuola stiano andando per strade diverse:
ciò non è del tutto un male, ma mi sembra che la distanza stia diventando
eccessiva. Il mio vuole essere un contributo per riavvicinare questi due
mondi.
Partirei con una definizione molto ampia: una scuola a misura di
adolescente è una scuola capace di entrare in sintonia con la crescita dal
ragazzo; con la crescita in tutte le sue dimensioni e non solo con la crescita
cognitiva: è quindi una scuola capace di far crescere in ciascuno la propria
dignità personale. La nostra scuola non si mette in sintonia con i ragazzi,
non mette al centro la relazione, mentre la scuola a misura di adolescente
è basata sulla cura costante della relazione. Ciò vuol dire che io dovrei
riuscire a coniugare accoglienza, apprendimento ed emozioni. Spesso a
scuola, quando ragioniamo di queste cose, abbiamo a che fare con questa
scissione: la scuola che accoglie non fa apprendere; la scuola che emoziona
troppo è pericolosa. Una volta una mamma venne preoccupata a chiedermi
come mai sua figlia veniva volentieri a scuola; pensava che ci fosse qual
cosa che non andava, un po’ di spaccio per esempio, ed era convinta che
a scuola bisognasse soffrire.
Per uscire dalle definizioni, che sono sempre facilmente condivisibili,
vorrei soffermarmi su alcune questioni. La scuola qualche nodo da scogliere
sicuramente ce l’ha e quindi qualche riflessione deve essere fatta. La prima,
già affrontata in questo convegno, è che la richiesta dei giovani è di oriz
zonti di senso. I giovani chiedono di essere messi in condizione di avere
riferimenti forti nella propria esistenza. Dentro la scuola ciò significa una
proposta formativa dove il rapporto fra ciò che faccio, le fatiche che m’impone
la scuola, e l’utilizzo di quello che ne ricavo sia evidente; in altri termini che
ci sia un legame stretto fra ciò che faccio e ciò che utilizzo poi nella realtà.
La richiesta d’orizzonti per la scuola significa quindi "datti una mossa", in
modo tale che sia un luogo dove uno apprende e si dota del sapere vitale.
Il sapere vitale è orientante esistenzialmente dal “subito”, quindi nei tempi
della crescita, dell’adolescenza, che è un’età straordinaria da tutti i punti di
vista. Allora non sta più in piedi l’affermazione che abbiamo sentito ormai
troppe volte: "Sta qui e impara che poi da grande…". Oggi la richiesta è una
proposta formativa orientante da subito, utile perché si possa comprendere
la realtà ed entrarci dentro. Sappiamo che spesso i ragazzi imparano più
a stare a scuola che a stare nel mondo e quindi il sapere vitale si contrap
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
pone a un sapere inerte. Il sapere inerte giace nella memoria e sta lì fermo,
in un libro e non viene utilizzato, non entra nel sistema di competenze del
ragazzo.
Per fissare bene il concetto di sapere vitale, che è un nodo importante
per la scuola, vi cito dieci righe di Giuseppe Bagni, preside di un Istituto
professionale IPSIA di Stato, tratte dal n. 21 della rivista “Rocca” del 2000.
Dice questo preside: "Ricordo quando mio figlio, qualche anno fa, mi chiese
di aiutarlo a spostare l’armadio della sua camera perché doveva prendere
le misure della stanza per ritagliare la pianta su un cartoncino. Gli spiegai
che non c’era bisogno di spostare i mobili e che, invece, bastava misurare
una linea retta parallela alla parete. Nacque allora il problema che quella
linea immaginaria fosse parallela al muro. Fa riflettere come un semplice,
comunissimo ostacolo, un armadio dal peso proibito, abbia trasformato
quella consegna, apparentemente solo pratica, in un approccio a concetti
matematici nemmeno tanto banali, come quelli di retta e parallelismo. Della
matematica e del professore cosa potrà arrivare agli allievi se egli non ha
la consapevolezza che le astrazioni della sua disciplina affondano le radici
nella vita di tutti i giorni di qualunque bambino e che è da queste radici che
si può e si deve partire?".
Una definizione di sapere vitale è che si tratta di "quel sapere che vive
già nel comportamento dei ragazzi": vive in quanto i ragazzi sono cittadini,
quindi sono chiamati a tutta una serie di atti di responsabilità. Però c’è un
passaggio in più da fare, non solo per la scuola: il compito di ricercare il
sapere che vive, che quindi per definizione provoca trasformazione, e il
sapere si può rendere vitale facendolo incontrare con i mondi e i contesti
vitali. Questo è un secondo passaggio che la scuola deve fare. È in questi
incontri con i mondi vitali che il sapere ha l’occasione per dimostrare tutta
la sua capacità di trasformare il mondo, ma anche la vita, la crescita del
ragazzo.
Vi cito uno scritto di Vittorio Cogliati Dezza, che è il Responsabile
nazionale di Scuola – Ambiente ed è stato a suo tempo uno dei "saggi" di
Berlinguer. "Come può la scuola contribuire a costruire la capacità di stare e
di sentirsi nel presente, sviluppando quelle qualità dinamiche indispensabili
a saper agire in situazioni complesse? Probabilmente dedicando spazi e
tempo alla ricerca sul campo, al lavoro, a partire da problemi veri e presenti
che offrono molteplici soluzioni. Per recuperare il senso di appartenenza
– in questo periodo si parla molto di cittadinanza - non basta conoscere
l’ambiente in cui viviamo, non basta acquisire basilari norme di convivenza
civile, probabilmente occorre rivalutare la funzione educativa dell’azione:
recuperare un fontanile, pulire una panchina, curare il verde della propria
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
scuola vuol dire conoscere e insieme sporcarsi le mani per trovare cosa c’è in
quella parte del territorio, per acquisire una nuova responsabilità nei confronti
degli altri e del bene collettivo, per sentirsi cittadini attivi del proprio paese,
capaci di intervenire, influenzare, trasformare le cose intorno a noi".
Sto proponendo un’idea di scuola che produce, dunque non solo che
riproduce cultura e la trasmette, ma che è anche capace di produrre cultura
in proprio. Laddove si produce cultura si hanno destinatari reali, si lavora su
bisogni reali per dare risposte a bisogni reali, e in tal modo, alla fine, si hanno
prodotti socialmente riconoscibili. Questo è un curricolo che evidentemente
non parte dal programma. Se la riflessione su questo curricolo, che è per
compiti di realtà e per progetti, si sposta sui ragazzi, noi ritroviamo alcune
idee forti sulla crescita e che riguardano la responsabilità.
Una scuola che si muove sull’esterno, che produce, che mette in gioco
prodotti di un certo tipo, è una scuola che fa esercitare la responsabilità e
le capacità socialmente riconoscibili, valutabili; è una scuola del protago
nismo, che mette in sintonia con l’identità. È la scuola della progettualità e
quindi genera pensiero progettuale ed è la scuola della contrattualità. A mio
parere anche questo è un nodo. Grassi diceva che i ragazzi "hanno bisogno
di adulti che facciano gli adulti".
A scuola i ragazzi hanno bisogno di muoversi in un contesto di con
tratto formativo. Le scuole sono piene di contratti, nel senso che ci sono
tanti tabelloni con le regole della classe. Quello è il contratto che viene fatto,
poi rimane lì e la sua gestione è un'altra cosa. Io credo che il contratto non
sia implicito, ma che debba essere esplicito, quindi chiaro, avere un grado
elevato di formalizzazione e anche di ritualizzazione, nel senso che credo
sia opportuno che "fare il contratto" diventi un rito anche con certi elementi
di solennità. In ogni caso il contratto non è un atto formale ma stabilisce
nel profondo lo stile della relazione: dentro il contratto c’è la pari dignità dei
contraenti, il rispetto delle regole, la disponibilità continua al negoziato.
Possiamo condensare un contratto formativo in due parole che sono
accoglienza e normatività: due assi forti in una relazione educativa forte. Ho
volutamente usato l’aggettivo "forte" perché "accompagna e sostiene".
I ragazzi chiedono ascolto ed è altrettanto vero che la scuola ama
ascoltarsi. Invito gli insegnanti qui presenti a calcolare il rapporto che c'è fra
il tempo in cui l'alunno è costretto ad ascoltarci e il tempo che dedichiamo
all’ascolto dei ragazzi. Io credo che su questo indicatore sia necessario
fare qualche riflessione, ma non del tipo: "ascolto e sono democratico".
Se la scuola è il luogo dove io costruisco significati e orizzonti miei, non li
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
costruisco sentendo solo l’altro: devo far entrare in relazione i suoi con i
miei significati e solo allora costruisco qualcosa.
Un altro nodo riguarda il rapporto fra scuola e memoria. È stato
ricordato come il ragazzo abbia difficoltà a costruirsi una propria storia,
a costruire memoria di sé, e personalmente credo che questo sia tipico
dell’adolescenza. Ecco che allora la scuola deve essere il luogo che aiuta a
costruire la memoria personale, a fare la storia della propria persona perché
possa essere letta e utilizzata.
C'è poi la gestione educativa dell’errore. Grassi diceva che "l’errore
appartiene al mondo adolescenziale": io direi che l’errore appartiene anche
all’apprendimento, e infatti quando si apprende si sbaglia. Noi adulti diciamo
sempre che chi fa sbaglia. Pare che questa sia un’affermazione di buon
senso, quindi è un evento che dobbiamo mettere nel conto di chi apprende.
Noi non dobbiamo perdonare, dobbiamo uscire dal concetto di errore come
colpa: una scuola che fa star bene gli adolescenti è una scuola che scinde
l’errore da chi lo fa, che scinde l’errore dalla colpa. In questo modo l'errore
diventa l’indicatore di un percorso da rivedere. Se tutti fossimo convinti di
ciò, credo che i ragazzi sarebbero più felici e che toglieremmo una parte di
lavoro agli psicologi perché l’autostima aumenterebbe.
Dietro queste affermazioni ci sono esperienze pesanti, perché se
sono continuamente minacciato di colpa o di vergogna evidentemente
sfuggo all’apprendimento e preferisco non mettermi in gioco. Si tratta di
quei ragazzini che spesso incrociano le braccia e dicono "non mi piace",
che in altre parole significa: "Ho paura di ricevere per l’ennesima volta una
svalutazione". Allora, in mezzo a tante riforme per la giustizia, quella di
depenalizzare l’errore avrebbe un voto trasversale.
Un'altra questione importante nella scuola, così pare almeno,
è il curricolo latente. C’è il curricolo insegnato, quello che si svolge
quotidianamente, laddove gli insegnanti insegnano in senso letterale, e poi
c’è un curricolo che parla ai ragazzi attraverso il comportamento degli adulti,
ed è un curricolo efficacissimo, che riguarda non solo la scuola ma tutti noi
nel momento in cui entriamo in relazione con i ragazzi. Mi pare di poter dire
che non sempre ci rendiamo conto di come il nostro comportamento mandi
dei messaggi e di come questi messaggi spesso siano contraddittori. "Ti
raccomando la puntualità", è solito ripetere l’insegnante, ma consegna i
temi dopo tre mesi. Questi sono messaggi che non solo non fanno crescere,
ma hanno altre conseguenze. Di certo posso asserire che il curricolo latente
dell’insegnante si deposita giorno dopo giorno e viene privilegiato rispetto a
quello che poi l’adulto dice. Il mondo adulto che si interroga sui modi coerenti
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
di stare con i ragazzi, non solo come singoli ma anche come gruppo, deve
ragionare su questo, però c’è da dire che la qualità della vita a scuola, sia
in termini relazionali sia della qualità fisica, non può essere lasciata allo
spontaneismo. Deve esistere un ambito di progetto e di riflessione, quello
del curricolo non insegnato, e deve esistere, a mio parere, anche un ambito
che in termini di responsabilità venga affidato ai ragazzi. Credo che se
diciamo che il protagonismo è essere impegnati in qualche responsabilità
dentro la scuola, scopriremo che ci sono tantissime cose da affidare alla
gestione dei ragazzi, che in questo modo diventano soggetti attivi, propositivi,
responsabili della qualità.
Tutti questi ragionamenti, che evidentemente andrebbero approfon
diti, costituiscono "riforme a costo zero", in altri termini non necessitano di
strutture: si tratta in pratica di un modo diverso di stare con i ragazzi. Credo
che chi è fuori dal mondo della scuola potrebbe dire: "Ma perché non le
facciamo?". Ebbene, io credo che la risposta sia complessa, però vorrei
dare un piccolo contributo, anche se consapevolmente parziale. Credo che
la scuola sia "prigioniera del programma". Non voglio dare colpe a nes
suno, ma è chiaro che chi sta dentro la scuola è diventato prigioniero del
programma. La scuola vive con un po’ di fastidio, di fatica, di insicurezza
tutto quello che non ha uno statuto, delle regole, che non è codificato in un
libro. Quando proponiamo un curricolo di altro tipo voi capite che saltano
le sicurezze di un individuo, ma d'altro canto noi sappiamo che proprio qui
comincia la divaricazione fra i ragazzi e la scuola.
L’insegnante dice: "Ma no, guarda che le discipline sono motivanti,
orientanti e producono apprendimento". Questo è un assioma che la scuola
ha dentro di sé ed è difficile scalfirlo.
A supporto di questa tesi concludo con due annotazioni che non sono
mie: una è del pedagogista Roberto Maragliano, che a suo tempo fece
parte, assieme ad altri studiosi, della Commissione dei Saggi; l’altra è di
Lucio Guasti, un pedagogista di Modena che adesso fa il consulente per la
scuola trentina.
Roberto Maragliano dice: "Occorre prepararsi e preparare la scuola
ad elaborare il lutto del programma. Si tratta di aiutare la scuola a prendere
coscienza del fatto che le discipline sono una delle forme della riproduzione
sociale del sapere, ma non l’unica. Possono e debbono mantenere la loro
importanza, a patto che nella loro configurazione sia previsto uno spazio da
dedicare al loro inquadramento concettuale e quindi storico, a patto cioè che
si lavori ad intrecciarne i rapporti con altre forme, anche quelle più mondane
di riproduzione del sapere. A patto insomma che si trovi il coraggio di uscire
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
da una visione puramente accademica, il più delle volte autoreferenziale,
delle cosiddette materie".
Lucio Basti aggiunge: "È difficile poter determinare a priori che un
gruppo di discipline dato rappresenta, di per sé, la risposta ai problemi dei
giovani: è preferibile pensare che sulle principali espressioni degli orienta
menti giovanili, anche considerando le pressioni sociali, si possa costruire
una specifica modellizzazione delle risposte culturali. La scuola diventa
un luogo d’esperienza, di approfondimento e di studio di problemi che si
ritengono significativi per i soggetti che li affrontano. Non è luogo dove è
dato un curriculum, ma è il luogo dove si costruisce un curriculum come
percorso di vita: occorre far uscire la scuola dalla simulazione e considerarla
un luogo vitale".
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Coordina Laura Froner
Contributi degli operatori e stakeholders locali
(Ivana Di Camillo)
Ieri e oggi sono stati molti gli spunti di riflessione che andrebbero approfon
diti. Claudio Stedile fa alcune considerazioni sulla scuola, sul fare scuola. Il
giovane resta nella scuola in media 32 o 36 ore settimanali, quindi la scuola
non può che essere chiamata in causa, visto che è così tanto il tempo tra
scorso a scuola.
Mi sento di dire che sono molti gli adulti e le istituzioni che considerano
i giovani una risorsa, però è innegabile che ci sono dei fenomeni e degli
aspetti che evidenziano una complessità, a volte una problematicità, su cui
dobbiamo riflettere.
Nelle due giornate è emerso con forza che la scuola deve lavorare
tenendo conto che ci sono almeno tre tipi di intelligenze, quindi non c’è solo
l’intelligenza cosiddetta "razionale", quella che viene applicata di più nella
scuola, nella trasmissione e rielaborazione dei saperi.
Credo che la scuola solleciti poco le altre intelligenze, cioè quella "crea
tiva" e quella "pratica", più evidenti proprio negli adolescenti o, se le esercita
- sono volutamente critica – lo fa soprattutto in momenti diversi rispetto alla
quotidianità della scuola. C’è una richiesta di formazione che deve andare
in tal senso, con gli insegnanti e sugli insegnanti, perché facciano un uso
delle proprie materie diverso dalla sola trasmissione del sapere.
Esistono delle buone pratiche nella scuola. Io insegnavo geografia
economica e vi assicuro che è una materia che apre grandi orizzonti, però
posso anche dire che mi sono confrontata ancora con insegnanti della mia
materia e mi sentivo a disagio, "un’anomalia" per il modo in cui consideravo
questa disciplina. Prendiamo la storia e chiediamoci, per esempio, perché
è così odiata dai ragazzi. Forse perché dobbiamo cercare di trasmetterla
anche con modalità di tipo diverso.
Il lavoro grosso che la scuola deve fare secondo me è questo: c’è
necessità di modalità diverse per entrare nel pensiero degli adolescenti. I
ragazzi di oggi non sono quelli di altri tempi e non possiamo ricorrere alle
stesse modalità del passato: questo è un cambiamento indispensabile.
Ma c’è un’altra cosa che la scuola, secondo me, non fa: socializzare
le nuove pratiche. Sono tanti gli insegnanti che lavorano bene nella scuola,
che hanno rapporti produttivi con i ragazzi, rapporti che pongono al centro la
"persona" e non solo la "persona-studente". Purtroppo, invece, c’è l’abitudine
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
a chiudersi nel proprio orticello, a difenderlo perché l’abbiamo prodotto noi
e non c’è lo scambio di queste esperienze positive.
Permettetemi di tornare al rapporto tra scuola e famiglia. Assieme ad
altri esperti e su sollecitazione dell’Amministrazione comunale sono ormai tre
anni che è stato realizzato a Borgo un percorso con i genitori. La dottoressa
Caumo, che lavora con i genitori e con i docenti, riportava il fatto che la scuola
si lamenta - lo dico sintetizzando brutalmente - "dell’invasione di campo da
parte delle famiglie" mentre, dall’altra parte, la famiglia sostiene la necessità
di un rapporto forte con la scuola e dice: "Io ho bisogno di aiuto, la scuola mi
esclude". Allora, permettetemi di fare una riflessione proprio su questo punto.
Mi pare che il rapporto scuola–famiglia sia un rapporto complesso, "un’attra
zione fatale", se non altro perché i destinatari dell’azione della scuola e della
famiglia sono gli stessi, ma anche perché sia la scuola che la famiglia hanno
una funzione educativa. Quindi il loro compito è quello di cercare di sostenere
e promuovere la crescita dell’individuo in modo che la persona stia bene con
se stessa e con gli altri. Va anche detto che questa è una relazione fatta anche
di grossa conflittualità, di presa di distanza da cui scaturiscono le accuse di
invasione di campo, i sensi di colpa, le azioni di contrasto. Porto un esempio
concreto: l’udienza è il classico momento d’incontro dei due mondi; ebbene, di
solito che cosa succede? Il genitore chiede: "Come va mio figlio?". Se l’alunno
va bene il confronto si risolve in pochissimi minuti e si dilata direi quasi per
appagare il genitore da una parte e il docente dall’altra, come se dietro questa
persona non ci fosse la necessità, anche se il risultato è positivo per quanto
riguarda l’apprendimento, di scambiarsi informazioni sulla persona.
Quando l’alunno va male allora il tempo dei colloqui si allunga e la
comunicazione reciproca avviene, però è quasi sempre legata all’apprendi
mento, allo studio. L’insegnante dice: "Studia poco" e individua una causa
del rendimento scolastico. Per il genitore un tipo di risposta può essere: "Ma
come? È sempre lì che studia, come fa ad avere risultati come questi?". Quindi
s’inquadra un problema che evidentemente non può che essere indagato dalle
due componenti. Oppure il genitore può dire: "È vero, non studia, ha ragione;
io glielo dico sempre però il risultato è questo".
Di fronte a questo esempio, che penso tutti abbiamo vissuto sulla nostra
pelle, anche gli insegnanti nel ruolo di genitori, mi verrebbe da dire che scuola
e famiglia si parlano soprattutto in un momento di emergenza. Dal momento
che convergono sul soggetto della loro azione, cioè il destinatario del loro agire,
della loro funzione, della loro azione, che è il giovane, forse sarebbe meglio che
questi due mondi si sforzassero di parlarsi prima, e penso che in questo modo
qualche effetto negativo potrebbero essere evitato. Chi sono gli adolescenti è
importante che lo sappia sia la scuola sia la famiglia. Con questo non sto dicendo
che la scuola non lo sa, ma forse ci si potrebbe confrontare sui due ambiti di
conoscenza degli adolescenti, da due punti di osservazione differenti.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Prima il Sindaco Pacher parlava di come la città viene vissuta non solo
da fasce di età diverse ma anche da categorie diverse. Qui si tratta di due
comparti differenti, ma sarebbe importante, in questo confronto, individuare
anche i nodi che devono essere condivisi. Per esempio, i genitori continuano
a porre l’interrogativo sulle regole: "Le regole ci vogliono o non ci vogliono?
Vanno fatte osservare? E se non le osservano che comportamenti dobbiamo
assumere noi genitori?" Questo è un problema che ha sia il docente sia il
genitore e allora credo che una proposta concreta dovrebbe riguardare la
ricerca del confronto tra questi due mondi.
È difficile trovare le modalità che vadano bene per questo. Vorrei
suggerire di fare tutti un passo indietro: la scuola non si arroghi il diritto di
essere quasi la sola "depositaria della verità" e dall'altra parte la famiglia
accetti di mettersi in gioco. Facciamo tutti un passo indietro, azzeriamo le
esperienze precedenti, partiamo con la voglia di metterci in gioco: al centro
ci sono i nostri ragazzi, persone che crescono.
È stato detto più volte che bisogna ascoltare i giovani. Certo che vanno
ascoltati. Direi che agli adulti e alle istituzioni spetta soprattutto il compito
di creare le condizioni in cui i giovani possano starsene in pace da soli, ma
possano anche sperimentare dei "momenti di confronto". Per me confronto
vuol dire situazione di reciprocità. Grassi ha fatto un passaggio sulla "neces
sità di ascoltarli ma non giudicarli". Questo è un nodo che credo andrebbe
approfondito, perché per me confronto vuol dire anche esprimersi, quindi
dare una valutazione. Forse Grassi voleva dire che nel momento in cui mi
confronto con il giovane mi riparo con un giudizio, ma questo è un altro di
scorso: questa è una modalità del confronto. Così come il giovane potrebbe,
dovrebbe dire a un genitore (magari con modalità che non siano sempre
quella dell’aggressione): "Così tu non mi capisci, mi inibisci, mi escludi",
credo che anche l’adulto possa dire al giovane quello che pensa di ciò che
sta venendo fuori, con modalità, ripeto, che non siano stroncanti.
"L’errore è l’indicatore di un percorso da rivedere", diceva Claudio
Stedile. Anche nel rapporto educativo familiare e in quello più ampio ci pos
sono essere segnali di un procedere che va rivisto. In tal senso io intendo
il giudizio, ma non lo escludo, piuttosto, se lo intendo come reciprocità, gli
do una collocazione più corretta.
Un'ultima considerazione riguarda il rapporto con le istituzioni. Anche
con loro c’è una distanza da colmare, allo stesso modo in cui la scuola deve
colmare la distanza non solo con i genitori ma anche con i giovani. Perso
nalmente ritengo che la relazione sia sicuramente alla base di un corretto
rapporto tra i diversi soggetti. C’è stato un lungo riflettere su quello che è il
cosiddetto clima relazionale, anche tra noi adulti. Forse se noi migliorassimo
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
questo clima relazionale starebbero meglio i ragazzi ma staremmo meglio
anche noi: non dimentichiamo che, tutto sommato, le sofferenze le abbiamo
anche noi.
Dicevo delle istituzioni: bisogna ridurre la distanza con il mondo
scolastico, ma anche con quello familiare. Sosteniamo a promuoviamo i
momenti e i luoghi dove i giovani possano confrontarsi, ma dove possano
esprimere anche quello che hanno dentro e riuscire a tradurre in domanda
esplicita i loro bisogni.
Mi aggancio con le politiche per i giovani, politiche con i giovani. Cre
do sarebbe facile fare in modo che i giovani risultino protagonisti e capaci
anche di proporre e di chiedere se questi fossero abituati a vedere risposte
da parte della scuola, della famiglia, delle istituzioni, che consentano loro
di essere protagonisti.
Volevo aggiungere, scendendo nello specifico della Valsugana, che
i percorsi attivati sono importanti, e mi riferisco ad esempio ai laboratori. È
importantissimo abituare a utilizzare la creatività, offrire occasioni di scoperta
di modalità espressive diverse da quelle della parola e della musica. Credo
che sarebbe opportuno, se fosse possibile, riunire tutte queste esperienze
intorno a un tavolo, trovarsi con un atteggiamento propositivo, con la com
ponente giovanile che faccia la parte del leone dicendoci anche come ha
vissuto le varie esperienze.
L’ultimo passaggio riguarda le emozioni. Qualcuno lo ha detto in
precedenza: bisogna educare alle emozioni, educare alle difficoltà. Credo
che nel mondo della scuola spesso non ci si ponga questo obiettivo, ma
succede anche nella famiglia, e non sto parlando di emozioni e di difficoltà
dei giovani, ma soprattutto degli adulti.
(Federico Artuso - Unione Ciclistica GS 2000, Bolzano)
Noi siamo una società di ciclismo che da anni si è preoccupata di seguire l’adole
scente tenendo conto non soltanto dell’aspetto sportivo ma dell’aspetto formativo
che dovrebbe avere lo sport. Il ciclismo, come tutti sappiamo, è uno sport che è
stato massacrato dagli effetti del “doping”. È inutile dire che non c’è: è la realtà
di questo sport. Si arriva al doping perché il ragazzo che comincia a fare sport,
soprattutto uno sport di questo genere, viene spinto ad avere risultati. Alla base
manca la solidità e la forza del ragazzo per andare avanti. Noi abbiamo creato un
connubio con una società sportiva di Borgo, il Veloce Club, perché condividiamo
lo stesso obiettivo, ovvero dare forza ed equilibrio al ragazzo, indipendentemente
dal fatto se farà agonismo o meno, perché noi lavoriamo con ragazzi dai 17 ai
18 anni. Non possiamo garantire a questi giovani che saranno dei professionisti,
saremmo dei grandi bugiardi a farlo, però possiamo dare loro gli strumenti per
fare sport, per crescere e per avere una base per essere degli individui.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Secondo me il ciclismo si avvicina molto alla vita perché nel ciclismo
si è da soli in bicicletta a pedalare, si lavora in un contesto di gruppo, perché
ci sono altre persone con le quali si corre, e c’è una squadra con la quale
condividere una fatica e un risultato. La vita, bene o male, è molto simile:
siamo da soli, abbiamo bisogno di altre persone, lavoriamo con altre per
sone e dobbiamo relazionarci con loro, però siamo soli. La filosofia della
nostra squadra, nel nostro sport, è atipica e quasi nessuno l’adotta perché
tutti pensano di portare questi ragazzi a diventare dei campioni, di far loro
vivere due anni ad altissimo livello, senza preoccuparsi di quello che suc
cederà dopo. Noi invece abbiamo adottato una filosofia per cui cerchiamo
di insegnare al ragazzo altre cose oltre alla tecnica: seguiamo alcuni corsi
per l’alimentazione, seguiamo alimentazioni particolari come la "zona", che
è una nuova modalità alimentare, e cerchiamo di far fare al ragazzo un
percorso che lo porti a essere consapevole.
Volevo soffermarmi soltanto su due punti: il primo, di cui si è già parlato,
è "il diritto a sbagliare" che ha l’atleta e il ragazzo in genere. In realtà noi
non lo definiamo diritto a sbagliare, ma "una capacità di scegliere in base
all’esperienza che si ha", perché qualificare qualche cosa come un errore
vuol dire partire, dal punto di vista mentale, con una negatività. Il ragazzo è
una persona che ha bisogno di fare delle scelte e va indirizzato, dobbiamo
insegnargli a scegliere, e deve avere la capacità di scegliere in libertà qual
siasi cosa, assumendosene poi la responsabilità. Soltanto attraverso una
modalità di questo tipo si può andare avanti e si può crescere.
A livello sportivo questo vuol dire riuscire, qualche volta, a interpretare
una gara, a sacrificarsi per un compagno o qualsiasi altra cosa, però l’impor
tante è insegnare al ragazzo a scegliere, e la scelta implica un’assunzione
di responsabilità, che è sempre e comunque un momento di crescita.
L’altro aspetto su cui vorrei esprimermi è: "ascoltare senza giudica
re". In realtà è giusto ascoltare, però un interlocutore che non esprime la
propria opinione non è un interlocutore attento. Se mio figlio mi parla e io
non gli dico la mia opinione, vuol dire che me la tengo dentro, quindi non
ho uno scambio con lui, oppure significa che non m’interessa quello che
sta dicendo. Quello che noi pensiamo, o l’idea che noi ci siamo fatti su una
determinata questione, dobbiamo dirlo al ragazzo, in modo tale da dargli la
consapevolezza di quello che è e di prendere atto che ci possono essere
persone che non condividono la sua opinione: ciò non vuol dire che venga
sminuita la sua capacità o la sua individualità.
I due punti su cui ci muoviamo sono proprio la capacità di scegliere e
la capacità di ascoltare gli altri, senza per questo sminuire la consapevolezza
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
di se stessi. Questo, ne siamo convinti, ci porterà con il tempo a eliminare gli
effetti del doping, che in realtà non è altro che una fuga, una scorciatoia per
raggiungere dei risultati. Quando un atleta non è consapevole di se stesso,
quando un atleta ha paura di essere giudicato o di essere additato perché
ha sbagliato qualche cosa, cercherà sempre e comunque una scappatoia,
che nel nostro sport purtroppo è il doping.
Siamo convinti che lo sport debba dare degli strumenti all’atleta e al
l’individuo per diventare consapevole, per avere la forza per stare nei propri
piedi e la capacità di assumersi le responsabilità. Questo diventa importan
tissimo proprio per l’adolescente, perché è in questa fase che acquista forza
nei suoi piedi, nelle sue spalle e acquista consapevolezza di ciò che vuol
fare, indipendentemente dalle scelte, dagli errori e dai risultati.
(Aldo Gabbi - Dirigente dell'Istituto Comprensivo Strigno e Tesino)
Volevo proporre sinteticamente quattro riflessioni su altrettanti aspetti. Parto
da quattro emergenze, quattro criticità che vedo nella scuola: l’uguaglianza,
la dispersione, la cittadinanza e il disagio. Vorrei proporli sotto forma di termini
contrapposti, perché nella visione che sto maturando personalmente, ma
anche attraverso letture attuali, è soltanto con un approccio di tipo sistemico,
cioè vedendo la realtà come complessa, e utilizzando termini contrapposti
che si possono risolvere i problemi.
Uguaglianza: siamo di fronte a una riforma che coinvolge la scuola per
l’infanzia, la scuola elementare e la scuola media. C’è un discorso nuovo di
personalizzazione che tende a valorizzare le caratteristiche personali, quindi
valorizzazione delle diversità; viene completamente omesso l’aiuto a ridurre
la differenza costituzionalmente definitiva. Si parla perciò di personalizzazio
ne ma non si parla più di individualizzazione. I due termini contrapposti sono
uguaglianza e diversità: la scuola autonoma deve perseguire l’indicazione
della personalizzazione del percorso, ma deve assolutamente ricostruire,
ricreare, riprendere in mano il discorso dell’individualizzazione dei percorsi,
perché solo così possiamo dare un seguito al discorso delle pari opportu
nità. È il discorso che faceva Buzzi ieri: ci sono differenze di opportunità,
che partono dal livello socio familiare, socio culturale della famiglia, che
dobbiamo affrontare con la scuola. Quindi uguaglianza fra differenziazione
e percorsi di personalizzazione.
Dispersione: il punto critico è il passaggio dalla scuola media alla scuo
la superiore. Nella riforma abbiamo un profilo in uscita molto definito, con
degli obiettivi trasversali condivisibili molto interessanti, ma la scuola media
continua, in maniera molto nevrotica, a lavorare non tanto per un profilo in
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uscita condivisibile, ma per un profilo atteso, atteso dalle famiglie, atteso dalla
scuola superiore, perché riforme delle scuole di base ne abbiamo avute tante,
riforme della scuola superiore nessuna. Quindi si vive in una contraddizione
incredibile (parlo della scuola media). In particolare le due parole che si con
trappongono sono il valore della continuità e il valore della discontinuità. Il
valore della discontinuità è grande. Il ragazzo ha diritto a trovare un ambiente
nuovo, culturale, sociale e di relazione, ma nello stesso tempo noi dobbiamo
garantire la continuità, rappresentata dagli obiettivi trasversali, dalla condivi
sione fra le scuole di alcuni obiettivi che sono irrinunciabili.
Terzo punto critico è la cittadinanza, e le parole che si contrappongo
no sono dentro o fuori. La scuola dentro è quella delle materie, il fuori è la
realtà. Una scuola dentro ha un senso se le materie diventano discipline, in
senso epistemologico, una scuola con una sua specificità. La scuola fuori è
la scuola delle competenze e della realtà, quindi il problema grosso, per noi
che adesso abbiamo scuole autonome, è pensare a un curricolo effettivo,
che non sia altro che l’utilizzo delle discipline per dare un significato alla
relazione "sé – mondo". Concordo con Stedile, che ha sostenuto la necessità
che a scuola vengano realizzate attività che contengano situazioni di vita,
reali, altrimenti questa contrapposizione "dentro – fuori" rimane un taglio
netto e la scuola sarebbe separata dalla società.
La quarta emergenza è il disagio. Le due parole che si contrappongono
sono il discreto e l’integrato. Qui c’è il discorso della rete interistituzionale
(penso a famiglia, scuole e servizi). Il discreto è la famiglia che si arrangia, o
al limite viene a contatto con la scuola o con i servizi. L’integrato è l’ideale, se
me lo concedete, dove la scuola, i servizi e la famiglia lavorano insieme per
rispondere al disagio. Qui però abbiamo problemi di risorse molto seri, quindi
la mia è anche una denuncia: mancano risorse non tanto nella scuola e nella
famiglia, ma per quello che riguarda i servizi. Ci sono due tipi di mancanze:
uno riguarda spesso e volentieri le risorse umane. Mi riferisco al servizio di
neuropsichiatria e psicologia, tanto per fare un esempio, dove le carenze sono
macroscopiche. L’altra è proprio una carenza organizzativa. Veniva presentato
ieri a un incontro in Sovrintendenza un viaggio che si farà a Parigi per spie
gare le modalità che hanno i francesi di affrontare i problemi. Ho visto che di
fronte ad alcuni problemi scattano procedure organizzative molto precise, che
diventano istituzionali, quindi si può parlare di rete interistituzionale: è diffusa
in Francia, da noi sarebbe una novità. Noi qui ci "arrangiamo" con tantissima
buona volontà per mettere insieme la famiglia, i servizi, la scuola, ma si tratta
delle unità discrete messe insieme, non è una modalità di agire integrata.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
(Gianfranco Schrafl - Dirigente del Centro Formazione Professionale
ENAIP di Borgo)
Completo l’informazione che aveva dato prima il Sindaco Pacher. L’iniziativa
con i motorini la segue il collega di Trento, dell’ENAIP di Man, perché la
scuola ha il corso per autoriparatori, quindi partecipano le officine, quelle
vere non quelle nei garages. A Borgo abbiamo il corso idraulici, anche questo
è unico in Provincia, e ci stiamo pensando, ma risulta un po’ difficile capire
come fare ad appassionare i ragazzi ai rubinetti, ai motorini è più facile!
L’insegnante che io vedo lavorare ogni giorno con i miei allievi è
l’insegnante che oggi ha nel DNA la valutazione, che è quella cosa con cui
di solito si evidenzia quello che manca, tant’è che spesso i ragazzi vengono
e mi chiedono: "Direttore con quanti 5 mi promuovi in seconda?". Quindi,
piuttosto che sottolineare, descrivere e parlare di quello che c’è, partiamo
da quello che manca, poi prendiamo in esame quello che c’è.
Nello strumento ufficiale di comunicazione, la pagella, gli spazi per
scrivere sono quelli della valutazione, numerica o descrittiva delle discipline.
Gli spazi per dire altro non ci sono. Un tentativo ci sarebbe, a dire la verità.
Mi riferisco al libretto formativo, che è uno strumento strano perché intanto
possiamo scrivere cose che nella pagella non ci sono, che riguardano la
persona, non l’allievo, la persona che è dentro le nostre aule. Poi in quel
libretto ci scriviamo soltanto le cose che ci sono, non quelle che mancano,
quindi è evidente che è esattamente il contrario della pagella e di difficile
adozione e interpretazione. Tuttavia esiste, quindi utilizzarlo potrebbe essere
l’occasione per cominciare a modificare magari anche dell’altro.
Si parlava di trasmettere. Il nostro trasmettitore dovremmo portarlo a
revisionare perché il ricevitore, che poi è quello che hanno i nostri allievi, è
sintonizzato su lunghezze d’onda diverse dalle nostre. C’è però un problema,
almeno per noi, per quanto riguarda il trasmettitore che usiamo a Borgo: officine
per aggiustarlo non ne ho ancora trovate; spero di riuscirci nelle "Pagine Gialle"
che ho avuto in questi due giorni.
Il tema di oggi è: "Che cosa possiamo dare agli adolescenti?". Ecco, il
tentativo che proviamo a fare a Borgo con i nostri ragazzi, che passano 32 ore
a scuola fra mattina e pomeriggio, in una settimana corta e quindi densa, è una
risposta sicuramente tradizionale ai ragazzi e alle ragazze.
Facciamo qualche tentativo, per esempio, utilizzando luoghi di apprendi
mento non tradizionali, o almeno nuovi per i ragazzi, cioè le officine. Ai ragazzi
viene chiesto di utilizzare una delle intelligenze di cui nel precedente percorso
scolastico nessuno si era interessato perché non c’era il posto nel quale metterla
in evidenza. Qualche volta succede che lì il ragazzo scopra di essere bravo,
che gli venga riconosciuta una competenza. Allora scopre che forse si potrebbe
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
anche provare a diventare bravi nelle materie che sono al piano di sopra, per
ché nella nostra scuola le aule sono sopra e le officine sotto: nel transito in giù
e in su ogni alunno lascia le cose di un ambito per andare nell’altro. Quando
riusciamo miracolosamente a recuperarle il ragazzo diventa quella persona in
gamba che anche noi, qualche volta, ci dimentichiamo di vedere.
(Insegnante di scuola media)
Pur riconoscendo che molte sono le componenti attente e sensibili agli obiet
tivi e alle modalità proposti in queste due giornate per fare della scuola un
vero momento formativo, adeguato, forte, condiviso ed efficace, ci vuole il
lavoro di tutti perché qualche cosa parta, altrimenti è sufficiente il disinteresse
o il boicottaggio di pochi per condurre alla demotivazione, alle contraddizioni
e sempre più spesso al fallimento.
A ciò si aggiungono, quest’anno in modo particolare, i problemi
economici che frenano i progetti. Come si può vincere la demotivazione e
il fuggi fuggi degli educatori, siano essi insegnanti o genitori?
(Riccardo Grassi)
Mi sembra una domanda estremamente difficile, però credo che abbia a
che fare con quello che anche Pacher definiva il "genius loci". Comunque
l’adolescente, il giovane trentino, ha delle specificità che sono frutto
dell’interazione fra la cultura e la storia che viene trasmessa e le risorse
presenti sul territorio, con combinazioni che sono diverse e che permet
tono, ad esempio, di differenziarlo su molte scelte. Penso in particolare alle
scelte familiari e di uscita dalla famiglia rispetto al giovane veneto, che ha
una condizione economica e strutturale molto simile.
(Angela Fadda - Consultorio di Borgo Valsugana)
Il Consultorio esiste da due anni grazie anche a una volontà politica molto
forte che ha voluto la sua nascita. Insieme con l’Amministrazione di Borgo
continuiamo ad andare avanti e a condividere i nostri pensieri, sia in termini
di progettualità che di promozione di questo servizio. I dati ci confortano, la
popolazione, forse anche per una collocazione felice, ci ha visto, ci viene
a cercare e forse quella dei giovani è l’area che meno siamo riusciti a rag
giungere. In questo senso nel prossimo periodo ci muoveremo per un’attività
di informazione e di promozione del servizio.
Noi siamo un’equipe composta da un ginecologo, un’ostetrica,
un’assistente sanitaria, un’assistente sociale e una psicologa. Il nostro è
un lavoro di equipe, nel senso che rispondiamo alla persona, accogliamo la
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
persona su una domanda, che può essere sanitaria, sociale o già da subito
psicologica. Accogliamo la persona e la reindirizziamo ad altri professionisti
laddove sentiamo che c’è necessità di risposte di altro tipo.
Una delle aree tematiche di intervento è l’adolescenza, che comprende
l’informazione relativa allo sviluppo psicofisico, tutto quanto riguarda la
sessualità, fino ad arrivare al disagio di natura sociale, personale, relazionale,
familiare. In questo senso c’è l’idea già nel legislatore di uno spazio che
il consultorio lascia per gli adolescenti. Il nostro lavoro è caratterizzato
dall’interdisciplinarietà, ma anche dalla forte integrazione con il territorio,
per cui diventa molto importante il contatto con i medici di base e con gli
altri servizi, che siano sociali, sanitari, psicologici e psichiatrici.
Le domande che gli adolescenti ci portano sono legate alla loro
crescita. Chiedono informazioni e di poter avere dei colloqui per parlare
della loro crescita e del loro sviluppo. L’utenza è prevalentemente femminile.
Le ragazze arrivano all’inizio magari accompagnate da un genitore, poi
vengono da sole per fare una richiesta che ha a che fare con l’approccio
alla sessualità, con la contraccezione, ma anche per un disagio più sociale
o psicologico.
Il mio lavoro con gli adolescenti si può definire consulenziale: un lavo
ro di messa a fuoco di un problema in un dato momento dell’adolescenza.
Come arrivano gli adolescenti a una richiesta di questo genere? A volte sono
accompagnati dal genitore, a volte sono i genitori che vanno avanti, trovano
la strada e poi dicono al ragazzo come fare per arrivare. Quindi, contempora
neamente alla domanda del ragazzo è sempre presente anche la domanda
del genitore, anche se devo dire che è sempre maggiore il rispetto da parte
dei genitori nei confronti di questo spazio: fanno sapere che hanno bisogno
anche loro, ma contemporaneamente lasciano che il ragazzo occupi quello
spazio, senza invaderlo. Per cui a volte è il ragazzo stesso a riconoscere
che in quel momento il disagio non è solo suo ma anche dei genitori. Quin
di, se vogliamo cogliere la domanda del ragazzo e anche la domanda del
genitore, dobbiamo parlare insieme per cercare una risposta.
Se non sono i genitori ad accompagnare o a spingere il ragazzo da
noi, possono essere i fratelli o le sorelle, oppure anche gli amici. Ho visto
arrivare dei ragazzi accompagnati dai loro amici e questo ci dà anche idea,
a volte, del livello di gravità del problema.
In questo periodo, a partire dall’anno scorso, è stato attivato un proget
to d’intervento sul disagio giovanile voluto dalla Provincia di Trento e attuato
dall’Azienda Sanitaria in collaborazione con i servizi psicologico, psichiatrico
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
e neuropsichiatrico infantile. Si tratta di un progetto che intende cercare le
modalità per rendere più facile l’accesso dei giovani alla consulenza con lo
psicologo e dare la risposta che sia il più possibile a misura di ragazzo.
Il progetto ha un termine e ha anche l’obiettivo di valutare se il modello
proposto raccoglie l’adesione dei ragazzi. Questi interventi si rivolgono ai
ragazzi dai 14 ai 24 anni che si autoriferiscono, cioè che autonomamente
chiedono una consulenza, ed è caratterizzato da un numero limitato di col
loqui che hanno l’obiettivo di mettere a fuoco con il ragazzo la natura del
problema, il nodo critico di quel momento.
Solitamente i ragazzi arrivano quando si rendono conto che non ce
la fanno da soli, che da soli non sono riusciti ad affrontare quel problema. A
volte l’idea è proprio quella di aiutare nel momento in cui c’è un intoppo nel
percorso di crescita, di dare quel minimo aiuto necessario ai ragazzi perché
questo intoppo sia superato e perché sia ripreso lo sviluppo. Si parla quindi
di pochi colloqui, e questo, secondo la letteratura di settore, tranquillizza
molto e rende più attivi i ragazzi, nel senso che c’è la consapevolezza di un
tempo definito per fare un lavoro insieme.
La sintomatologia può essere la più diversa, ma non è sulla sintoma
tologia che ci si ferma, quanto sulla condivisione. Se devo definire ciò che
sento nel lavoro con i ragazzi, direi che si tratta di fare un pezzo di strada
insieme, condividere un momento della loro vita. Spesso loro sentono che
venire a parlare con una persona estranea, con un adulto che non fa parte
della loro cerchia, li tutela, anche perché vivono dei sensi di colpa nei con
fronti dei loro genitori.
La sensazione è quella di fare un cammino insieme, di accompagnare,
a volte quasi di essere un testimone, perché in realtà i ragazzi fanno un loro
percorso, noi siamo solo al loro fianco. Il raccontarsi, a volte, dà come la
sensazione che serva loro per potersi guardare, riconoscere, fare un po’ di
ordine nella confusione che stanno vivendo.
Mi viene in mente la situazione di una ragazza di 18 anni che arriva
molto confusa, triste, depressa. Le sembrava di non poter concludere niente,
di essere un po’ impedita in tutte le sue attività. Questo stato di cose va
avanti da circa un anno e peggiora, per cui lei è sempre più preoccupata. Il
momento in cui lei riesce a piangere in modo forse più profondo e sofferto,
ma meno confuso, è quando insieme possiamo dire quanto abbia motivo di
essere triste per il fatto di non poter essere più spensierata e leggera come
fino a un anno prima era riuscita a fare, come nell’infanzia. Lei parla proprio
della sua infanzia, che aveva cercato in tutti i modi di prolungare il più pos
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
sibile, non vedendo i problemi e le difficoltà della famiglia. Era sicuramente
una difesa. Era in grado di riconoscere che si trattava di una difesa.
Tutto questo aveva funzionato fino a quando la sorella maggiore non si
era ammalata. Lei si era sentita molto colpevole perché non se ne era accorta
prima e aveva continuato a vivere in quel suo mondo di spensieratezza. Allora
abbiamo potuto parlare di questo senso di colpa, ma per me è stato soprat
tutto un momento cruciale quello in cui abbiamo parlato della sua tristezza, del
riconoscere che era una tristezza che aveva un senso, un’importanza, e poi
poter guardare anche ai vantaggi.
(Pierino Anesin)
Il mio intervento vuole esplicitare quale sia lo stato dell’arte dei Servizi
socio-educativi attualmente offerti ai giovani che vivono nel Comprensorio
della Bassa Valsugana e del Tesino, così come vengono quotidianamente
erogati da parte del settore socio-assistenziale diretto dalla dottoressa
Renza Armellini.
Non voglio ripercorrere tutta la storia, ormai decennale, del Centro
Aperto Minori di Borgo, che si chiama "Sosta Vietata" a significare anche
che in adolescenza le fasi di sviluppo o i disagi espressi vano presi in
carico solo per i tempi strettamente necessari a evolvere positivamente.
Questo servizio diurno è uno dei pochi in provincia di Trento a essere
gestito direttamente da un ente pubblico, all’interno dei dispositivi istituiti
ai sensi della vigente Legge 14/91. Questa peculiarità pone il Centro
Aperto Minori in una condizione di vincoli e di risorse che consente di la
vorare con modalità forse diverse da altre associazioni o cooperative del
privato sociale, impegnate in progetti sociali con i giovani. Il Centro opera
a stretto contatto con il settore socio-assistenziale comprensoriale, dal
quale funzionalmente dipende e con il quale sinergicamente lavora. At
tento ai bisogni del territorio, partecipe ai radicali mutamenti generazionali
che investono l’inserimento a livello sociale, consapevole delle proprie
competenze professionali e capace di accettare la sfida di sperimentarsi
in nuovi e accattivanti progetti educativi, il servizio sociale è riuscito, anche
attraverso le risorse umane del Centro Aperto, fortemente sostenuto da
un mandato istituzionale che gli è proprio ma che va comunque sempre
contestualmente rimotivato, a riformulare le proprie proposte educative at
tuando una forte azione centripeta e portando le proprie offerte sempre più
dentro le piccole comunità del territorio, consentendo così a molti ragazzi
che non gravitano su Borgo di trovare, sotto casa, un punto di riferimento
valido e una possibile risposta alle tante domande di cui abbiamo sentito
in queste due giornate essere portatori.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Ogni giorno otto educatori, che ho il piacere di coordinare e che vedo
qui puntualmente presenti a testimoniare la loro costante motivazione a inter
pretare con tenacia il difficile e faticoso ruolo educativo, si mettono in gioco,
integrandosi, con le proprie specifiche competenze, con il servizio sociale
e si prendono cura degli utenti che aderiscono alle diverse proposte messe
in campo nell’area della prevenzione e della promozione del benessere dei
minori, del sostegno alla qualità della vita e delle relazioni, intese come la
migliore arma per fronteggiare e arginare le possibili forme di disagio o di
difficoltà a costruire un proprio progetto di vita.
Forti di un rapporto ormai consolidato con le agenzie scolastiche e
formative del territorio, che hanno ritenuto di avvalersi delle nostre risorse,
abbiamo sperimentato una proposta socio-educativa che abbiamo chiamato
"Pomeriggio insieme", che consiste nell’offrire, in ambito scolastico, ma fuori
dall’orario curricolare, l’opportunità a un gruppo di alunni di trascorrere uno
o due pomeriggi insieme agli educatori del Centro Aperto, anziché a casa
da soli, davanti al televisore o a giocare alla Play Station.
Diverse decine di ragazzi hanno aderito a questi progetti, apprezzati e
sostenuti dalla sensibilità di alcuni dirigenti scolastici che ne hanno richiesto
il potenziamento, in quanto colgono nell’iniziativa una concreta possibilità di
implementare quelle sinergie collaborative e quelle risorse del territorio che
la recente autonomia scolastica e la flessibilità organizzativa permettono
loro, per garantire a ogni alunno la piena crescita personale, in sintonia con
i valori della comunità di appartenenza.
A questo proposito devo anche dire che il settore socio-assistenziale
ha messo in atto, per il secondo anno, un progetto, intitolato "Ad ognuno il
proprio spazio", che in collaborazione con gli istituti scolastici lavora sulla
prevenzione del bullismo all’interno delle scuole.
Tutelati da speciali convenzioni stipulate dal settore socio-assistenziale
con gli enti coinvolti, abbiamo anche iniziato ad aderire alla richiesta fattaci
dal Comune di Borgo, che nell’estate ci ha chiesto di collaborare nella
gestione dello Spazio giovani, che è un centro di aggregazione giovanile
nato da un precedente Punto Informa Giovani che ora si chiama Totem, forte
di una presenza giornaliera di una cinquantina di ragazzi che lo frequentano
durante la pausa pranzo, nelle ore pomeridiane e talvolta serali.
La presenza costante di due operatori nonché la regia e il coordinamento
di chi vi parla, ha permesso la strutturazione di riferimenti certi e affidabili
per molti giovani che frequentano il servizio con assiduità e attaccamento
emotivo, trovando in esso sia le proposte dei vari laboratori, di cui ieri
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
abbiamo sentito una testimonianza diretta, sia un setting che supporta le
loro intermittenze e latitanze in un costante clima di accoglienza e reciproco
rispetto, senza invasioni di campo, ma in un contesto di regole chiare di
convivenza sociale.
Nell’ultimo anno abbiamo avuto una forte richiesta da parte di ben tre
amministrazioni comunali del Comprensorio per attivare dei centri di ag
gregazione giovanile nelle loro comunità. Con uno sforzo organizzativo non
indifferente, ma ripagato dai risultati, siamo riusciti a realizzarli a Tezze, nel
Comune di Grigno, e a Torcegno, e stiamo ora per concretizzare la prossima
apertura nel paese di Bieno. In tutti questi centri garantiamo due aperture
settimanali e ci stiamo adoperando per un sempre più attivo coinvolgimento
delle realtà associative locali del volontariato, per aiutare i giovani a diventare
protagonisti creativi e responsabili nella gestione del loro tempo libero e
delle risorse che la comunità esprime a ogni livello.
Nella fatica quotidiana siamo consapevoli dell’importanza del nostro
lavoro e ci sostiene la certezza che ci vuole tempo per creare relazioni
e storie importanti, ma anche che è vitale la capacità di stare bene ogni
giorno insieme ai ragazzi che incontriamo, per trasmettere loro il piacere
dell’avventura umana nel mondo.
(Paolo Damianis - C.I.C. dell'istituto Degasperi di Borgo Valsugana)
Lavoro presso il CIC dell’Istituto Degasperi, allo sportello d’ascolto psico
logico, ma anche nella scuola media di Borgo, nella scuola media di Strigno
e presso l’ENAIP di Borgo.
Questo servizio ha la caratteristica di non essere, per definizione, un
servizio clinico. Si avvicina di più a un servizio di psicologia della salute e
del benessere, cioè alla promozione del benessere. Certo, sappiamo an
che identificare situazioni di disagio particolare, che richiedono un invio a
strutture specializzate o ulteriori approfondimenti, ma in linea di massima
ci proponiamo ai giovani come uno spazio dentro il quale poter esprimere,
in una maniera abbastanza aperta, progettualità positive e non soltanto le
situazioni di difficoltà. Abbiamo una media di 500 accessi all’anno.
Vorrei fare a braccio una sintesi delle problematiche giovanili che
emergono all’interno di questo servizio. Ho visto spesso una dialettica fra due
ambiti opposti: da un lato un bisogno dei giovani nel campo dell’esplorazione
intesa in senso ampio, esplorazione di situazioni, di emozioni, di nuovi tipi di
relazione, di contatti con gli altri, di contesti di tipo culturale, e dall’altro una
tendenza alla semplificazione. Esplorazione e semplificazione in qualche
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
modo sono sempre presenti, in una misura o nell’altra, nei problemi e nelle
situazioni che vengono portate. A volte c’è la difficoltà a vivere il presente,
legata molto spesso a semplificazioni radicali, a delle etichettature, per cui
la realtà è vista come abbastanza immutabile, limitata. Queste etichettature
condizionano i comportamenti e gli stati d’animo e molto spesso possono
diventare una fonte di disagio.
Il compito di uno psicologo all’interno di questo servizio non è, a mio
avviso, quello di fornire delle mappe, cioè di dare dei percorsi preconfezionati
su come orientarsi all’interno di queste realtà. Sarebbe bello, e questa è una
proposta che faccio, trovare dei modi e insegnare ai giovani a fabbricarsi delle
mappe, cioè a fabbricare delle modalità per orientarsi nella vita che tengano
conto della complessità, quindi che insegnino anche il piacere di esplorare
nuovi sistemi di entrare in rapporto con la realtà, di vedere le cose da più lati,
da più punti di vista, per rompere un po’ gli aspetti dell’etichettatura e delle
imitazioni molto banali. Per esempio, quando si chiede a un adolescente
di descrivere una persona dirà quattro parole: "Simpatico, antipatico, intel
ligente, carino". Ciò significa che spesso anche la visione che l’adolescente
ha dell’altro, della persona, è limitata ed etichettata.
L’analisi psicologica del modo di essere dell’altro è qualche cosa di
estremamente difficile per un adolescente. Orientarsi nelle relazioni con gli
altri significa anche riuscire a vedere segnali di comunicazione, verbali e
non verbali, che permettono poi di avere relazioni migliori con gli altri, senza
troppi sbandamenti che magari costano momenti di tristezza e di depres
sione che a volte insegnano, ma a volte creano disarmonie nello sviluppo
evolutivo.
Uno dei temi che vorrei proporre è vedere come gli adulti possono
aiutare i giovani a disegnare mappe o modelli di rappresentazione della
realtà senza proporre schemi prefissati: aiutare semplicemente i ragazzi a
costruire delle mappe. Ciò potrebbe avvenire riflettendo sulle nostre mappe,
sul nostro modo di costruire una visione della realtà e magari condividere
le nostre difficoltà, che ci sono costate sofferenze, che sono state un per
corso spesso molto difficile durante la crescita, con le scelte e le non scelte
che hanno caratterizzato la nostra vita: il nostro percorso ha prodotto una
nostra rappresentazione del mondo. Capire come ciò sia avvenuto, come a
un certo punto ci siamo fatti una certa rappresentazione della realtà e con
dividere questi processi di costruzione, di orientamenti di base, può servire
nella scelta di una scuola piuttosto che nel campo relazionale, nei campi
legati al divertimento, come aiuto alla realtà, come la possibilità di creare
una condivisione tra adulti e adolescenti.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Questo lavoro è molto difficile perché è difficoltosa anche la condivisione
fra le strutture. Il lavoro di rete, che timidamente stiamo cercando di portare
avanti con varie collaborazioni, con il consultorio, con altre strutture come Spazio
Aperto e Spazio Giovani, ha come obiettivo quello di cercare di avvicinarsi, però
spesso le strutture sono come i vicini di casa che si rivolgono a noi quando
hanno bisogno del sale e poi magari basta. Il problema è riuscire a superare le
differenze d’impostazione tra le diverse strutture e le istituzioni che operano nel
campo giovanile. Questo, per ora, si sta realizzando con la buona volontà e con
l’apertura di alcune persone che operano nei diversi servizi, che hanno creato
gli spiragli per poter iniziare. Speriamo che tutto ciò possa essere promosso
maggiormente a livello di istituzioni, quelle più grandi, che possono condizionare
i diversi servizi, in modo da arrivare a una maggiore integrazione.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Laura Froner
Conclusioni
I giovani non sono un problema; il problema è relazionarsi con i giovani, cioè
il confronto fra le generazioni. Questo aspetto è affiorato in tanti interventi, a
volte si è data l’impressione di considerare i ragazzi solo dal punto di vista
del problema del disagio quando, in realtà, i nodi riguardano le relazioni tra
adolescenti e genitori, adolescenti e scuola, adolescenti e spazi di vita e di
ritrovo, adolescenti e risorse.
A volte possono essere più attori ad avere problemi di funzionamento,
oppure l’incontro fra loro si realizza in una forma disfunzionale, quindi si
crea un conflitto, un disagio.
È stato molto importante affrontare il rapporto fra generazioni da di
verse angolature, usufruendo anche dell'esperienza dei diversi relatori di
queste due giornate.
La professoressa Fava, per esempio, che dice che la comunicazione
deve trovare forme nuove, canali aggiornati, deve favorire esperienze di rete
partecipate da parte dell’adolescente, tenendo conto del cambiamento dei
parametri di tempo e di spazio.
Il Dirigente del Centro di Formazione Professionale Bertassi ci ha par
lato della scuola che deve cercare di modificare il modo di porsi, attivando
verso i giovani nuove forme di partecipazione e favorendo un’esperienza
di apprendimento attivo.
La domanda dei giovani è legata al loro continuo cambiamento, che
richiama il docente a cambiamenti altrettanto veloci e radicali. Devono cam
biare anche i criteri di valutazione, dobbiamo valutare competenze e atteg
giamenti e non solo prestazioni e conoscenze. L’ascolto e l’attenzione del
docente devono rivolgersi quindi alla domanda globale dell’adolescente.
La dottoressa Pompei, Dirigente dell’Unità operativa di psicologia
dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento, ci ha parlato della do
manda più soggettiva, individuale. Attenzione a non mortificare mai la domanda
dell’adolescente, qualunque essa sia, ma anche alla possibilità di mantenere
un segreto, nel senso di poter decidere di non parlare di cose di cui comunque
è sempre possibile parlare. Attenzione anche alla domanda del genitore, che
deve fare i conti con la negoziazione dell’autonomia, dei confini e dell’intimità.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Il sociologo Buzzi si è occupato in particolare di un’indagine sui giovani
in Trentino, alla quale ha collaborato, fra gli altri, anche il dottor Grassi. I
cambiamenti sono molto legati a una concezione nuova del tempo, con un
passato continuamente annullato da un continuo cambiamento e un futuro
incerto. I valori sono relativi e non collegati a un sistema di riferimento or
ganico. I livelli di rischio accettabile si alzano sempre di più, le scelte sono
sempre più difficili e vengono effettuate all’ultimo momento. Spesso i giovani,
ma anche i meno giovani (abbiamo parlato con Buzzi di adolescenza che
va dai 15 ai 29 anni) fanno le loro scelte più importanti all’ultimo momento.
Nel complesso c’è un quadro positivo del mondo adolescenziale trentino,
con una crisi più specifica nel settore scolastico.
Poi abbiamo avuto il piacere di sentire il dottor Rufo, che ci ha portato
anche l’offerta di una struttura specialistica, un ospedale per adolescenti che
deve essere attento ai bisogni e a domande che per tanto tempo sono state
estranee al mondo adulto. L’integrazione di più punti di vista, la capacità
di ascoltare i bisogni che abitualmente non si considerano legittimi o perti
nenti, la creatività sono essenziali per sintonizzarsi con il mondo giovanile
e nascono da una capacità di ascolto e di coinvolgimento.
L’intervento del dottor Grassi, che collabora all’interno dello IAR con il
dottor Buzzi, ci ha ricordato che la chiave di una politica giovanile adeguata
consiste nel suo essere realizzata "con" e non solo "su" o "per" i giovani. Pro
gettare politiche giovanili richiede un metodo che faccia pensare, partecipare
e proporre i destinatari dell’iniziativa, che devono esserne anche i gestori.
Le esperienze fatte in Trentino con la "Peer Education" aprono
prospettive di risposta/proposta possibile, dove anche i giovani coinvolti
hanno offerto un contributo di analisi positivo. Lo abbiamo sentito anche
negli interventi di oggi.
Ricordo anche gli interventi di ieri dei ragazzi, anche di quelli che
lavorano con il Totem, lo spazio giovani. Con poche parole ci hanno detto
molto, facendoci capire molto bene il loro punto di vista.
Poi ricordo l’intervento del Sindaco di Trento Alberto Pacher sulla ne
cessità di conoscere la città per programmare interventi mirati. Il contesto è
un luogo mentale che partecipa alle relazioni, è un luogo simbolico.
È importante aver ascoltato i diversi punti di vista di psicologi, psicopa
tologi, dirigenti scolastici, sociologi, amministratori pubblici, giovani, operatori
che lavorano con i ragazzi. Manca un po’ la componente genitoriale, anche
se ci è stata portata da Marina Caumo, che ci ha illustrato l’attività del CIC,
lo sportello per insegnanti e genitori.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
Sento l’esigenza di non lasciare che quanto emerso sia estemporaneo,
cioè che occasioni come questo convegno rimangano fini a sé stesse. Mi
piacerebbe proporre per questo appuntamento una cadenza biennale o
triennale, e nel frattempo prevedere alcune occasioni di approfondimento
su temi specifici.
Mi faccio promotrice di un rapporto più frequente con le istituzioni,
soprattutto per quel che riguarda Comune, Comprensorio e Istituti scolastici,
e spero che l’invito venga raccolto anche dai miei interlocutori.
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La domanda adolescente. Gli adulti alla prova
I relatori
Cesare Bertassi
Centro di Formazione Professionale Canossa di Trento
Carlo Buzzi
Università degli Studi di Trento / Istituto I.A.R.D. Franco Brambilla
Giuseppe Disnan
Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento
Graziella Fava Vizziello
Università degli Studi di Padova / A.E.P.E.A. Associazione Europea
dell’infanzia e dell’adolescenza
Laura Froner
Sindaca del Comune di Borgo Valsugana
Riccardo Grassi
Istituto I.A.R.D. Franco Brambilla
Alberto Pacher
Sindaco del Comune di Trento
Gemma Pompei
Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento
Marcel Rufo
“Espace Arthur” - Hôpital de la Timone, Marsiglia
Claudio Stedile
Dipartimento Istruzione e Politiche Giovanili
della Provincia Autonoma di Trento
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