Supplemento al numero
odierno de la Repubblica
Sped. abb. postale art. 1
legge 46/04 del 27/02/2004 — Roma
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
Copyright © 2007 The New York Times
Rina Castelnuovo per The New York Times
Nel caos della
guerra i bambini
sono costretti
a trovare un
modo per
sopravvivere.
Mahmoud, 10
anni, è tra i tanti
che rovistano
nei rifiuti a
Ad Deirat, in
Cisgiordania.
Nella culla del conflitto
Piccoli palestinesi al lavoro
per rivendere i rifiuti dei coloni
Arabi contro arabi,
il nuovo fronte del Darfur
di JEFFREY GETTLEMAN
di STEVEN ERLANGER
NYALA, Sudan — Alcune tribù, accusate di massacrare civili
nella regione del Darfur, hanno ora rivolto le armi l’una contro
l’altra, scatenando una lotta dove muoiono centinaia di persone e
costringendo altre tribù ad abbandonare i villaggi.
I Terjem e i Mahria, due tribù arabe ben armate che, secondo alcuni funzionari delle Nazioni Unite, quando facevano parte
delle famigerate milizie janjaweed si sono macchiate di stupri e
saccheggi, nei mesi scorsi hanno iniziato a farsi la guerra, sparandosi dai pickup o dai cammelli nel sud del Darfur.
Secondo le organizzazioni umanitarie e gli stessi combattenti,
le due tribù ora assaltano i rispettivi villaggi e costringono i membri della tribù avversaria a fuggire in quegli stessi campi profughi che ancora ospitano alcune delle loro precedenti vittime.
I funzionari dell’Onu dicono che ancora più a sud si sono intensificati anche gli scontri tra altre due tribù, quella degli Habanniya
e dei Salamat.
Nel Darfur, la violenza spesso ha assunto la forma di massacri
compiuti dalle tribù arabe sostenute dal governo contro le tribù
AD DEIRAT, Cisgiordania — Non appena i camion scaricano l’immondizia i
bambini ci si avventano come mosche.
Alcuni penzolano dai pistoni idraulici
del pianale posteriore del camion, poi si
lasciano cadere sulla montagna di rifiuti per afferrare un pezzo di metallo, una
lattina schiacciata, la bottiglia di una bibita, una maglietta maleodorante. Uno
scivola giù e per un momento scompare
sotto i rifiuti, mentre il camion si sposta
più avanti per rovesciare il suo carico.
Riaffiora di nuovo, perde l’equilibrio su
un mucchio di interiora di animali, si
aggrappa a un fascio di fronde e arbusti
potati nel giardino di qualcuno.
Un altro trova una piccola bandiera
israeliana di nylon e cerca di farla a pezzi
con i denti. Uno dissotterra un ombrellino lilla, mostrandolo con orgoglio ai suoi
segue a pagina IV
Evelyn Hockstein per The New York Times
La lotta tra milizie arabe ha spinto molte
famiglie a rifugiarsi nei campi profughi, come
questa che si trova nel Darfur meridionale.
amici. I più scavano diligentemente alla
ricerca di oggetti di metallo che mettono
nei sacchi di nylon che si portano dietro.
Più in là, su una collinetta di spazzatura
alta circa tre metri, un bambino se ne sta
seduto da solo. Ha trovato un pacchetto di
cracker ancora confezionati, e li mangia
lentamente, quasi meditando.
I bimbi fanno parte di una estesa colonia di cercatori, circa 250 persone che
rovistano nelle maleodoranti colline di
spazzatura per sopravvivere insieme alle loro famiglie. La maggioranza non ha
nemmeno sedici anni. Alcuni dormono
qui durante la settimana, per incrementare al massimo le ore di ricerca di oggetti che potranno rivendere. Molti sono
imparentati tra loro, appartengono a un
ristretto numero di clan che ha una sorta
segue a pagina IV
La lunga ombra di Fidel Castro
sui frigoriferi ‘made in Usa’
di SIMON ROMERO
Fast food messo a nuovo
McDonald’s sta aggiornando
il suo design e i suoi piatti in
Europa.
ECONOMIA
VI
Giro di vite
in Amazzonia
Gli scienziati
dicono che le
leggi contro
la biopirateria
criminalizzano il loro lavoro.
SCIENZA E TECNOLOGIA
VII
L’AVANA - Chiunque sia convinto che
la guerra fredda si finita anni fa, non ha
visto da vicino le cucine delle famiglie cubane. Un Fidel Castro sofferente, prima
di sparire dalla vita pubblica, ha arruolato l’industria cinese per liberarsi di alcuni
dei totem più indistruttibili dell’imperialismo americano: i frigoriferi Frigidaire,
Kelvinator e Westinghouse degli anni ’50.
Al centro di un progetto per migliorare
l’efficienza energetica del Paese affamato di liquidità, il governo ha acquistato più
di 300.000 frigoriferi cinesi per sostituire
quelli americani eliminando quello che
Castro chiama “i draghi che divorano la
nostra elettricità”. La loro sconfitta però
(e anche quella di qualche modello sovietico importato negli anni ’70) ha suscitato nell’isola dispiacere e ansia. In decenni
di isolamento dall’economia americana
e dalla prosperità del mondo, ai cubani è
stato insegnato a essere orgogliosi della
loro abilità di continuare a far funzionare quelle meraviglie meccaniche – tra cui
- un grande successo a Cuba,
che quest’anno girerà l’Europa.
Gli artisti Alejandro ed
Esteban Leyva hanno attaccato a un vecchio frigorifero
della General Electric dipinanche le vecchie Cadillac e le
to color verde militare delle
Lada russe.
medaglie, rinominandolo
“Mi hanno portato via il
“General Eléctrico”.
mio señor per sostituirlo con
Un altro artista, Alexis
un tipino”, dice una cuoca di
Leyva, ha aggiunto al suo
47 anni che vive nel quartiere
frigo dei remi, ispirandosi alReparto Zamora ne L’Avana
le barche improvvisate con
occidentale.
cui i cubani lasciano illegalDopo averci fatto accomente l’isola. Altri sono stati
Jose Goitia
modare in cucina, indica lo
trasformati in automobili,
snello frigorifero Haier cine- Una campagna per sostituire i frigoriferi americani con
in grattacieli, in un cavallo
se che ha sostituito l’ingom- nuovi modelli cinesi suscita nostalgia in alcuni cubani.
di Troia o in una cella di pribrante Frigidaire rosa che la
gione.
famiglia ha avuto per 24 anni.
Tuttavia a Cuba la necessiDice di chiamarsi Moraima Hernández, letta dell’elettricità. La preoccupazione tà spesso ha la meglio sul sentimentalima con un gesto fa capire che quello non dei cubani però è il costo di questi modelli smo.
è il suo vero nome - solo così se la sente di cinesi: circa 200 dollari, cioè una piccola
Presso i demolitori stanno arrivando
parlare senza temere rappresaglie. Il suo fortuna in un paese dove il salario medio migliaia di frigoriferi da cui viene riciclavecchio frigorifero era così grande, dice mensile è di circa 15 dollari.
to tutto il possibile.
con nostalgia, che poteva contenere due
Ispirandosi all’ingenuità necessaria
“Dove sono finiti i vecchi frigoriferi?”
per far funzionare così a lungo i frigori- si è chiesto Granma, il giornale del Parcosciotti di maiale.
Nella campagne di promozione que- feri americani, l’anno scorso, un gruppo tito comunista in uno degli articoli sulla
sto programma di scambio è presentato di artisti cubani ne ha trasformati 52 in campagna per l’efficienza energetica di
come un’opportunità per dimostrare il altrettante opere d’arte, allestendo una Cuba. E l’articolo continuava: “A loro abproprio patriottismo riducendo la bol- mostra chiamata “Istruzioni per l’uso” biamo chiesto proprio tutto’’.
Repubblica NewYork
II
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
MONDO
Un giudice indiano diventa un eroe per i nazionalisti giapponesi
di NORIMITSU ONISHI
TOKYO — Un giudice indiano, che a
40 anni dalla morte viene ricordato da
un numero sempre inferiore di connazionali, continua a essere apprezzato in
Giappone. Solo nelle ultime settimane,
l’emittente di stato Nhk ha dedicato alla
sua vita 55 minuti, e in un libro da 309
pagine uno studioso ha analizzato il suo
pensiero e il suo impatto sul Giappone.
Durante una recente visita in India, il
premier Shinzo Abe ha reso omaggio al
giudice con un discorso davanti al parlamento indiano di Nuova Delhi, e si è poi
recato a Calcutta per incontrare il figlio
ottantunenne.
Due anni fa al santuario Yasukuni che commemora i caduti di guerra del
Giappone ed è un luogo di pellegrinaggio per i nazionalisti giapponesi – è stato eretto un monumento al giudice che
offre qualche indizio sulla sua identità:
Radhabinod Pal, l’unico degli 11 giudici
alleati che al Tribunale militare internazionale per l’Estermo oriente del secondo dopoguerra non emise un verdetto di
colpevolezza nei confronti dei principali
leader giapponesi.
“Il giudice Pal continua ad essere rispettato da molti per il coraggio che esibì durante il Tribunale militare internazionale per l’Estermo Oriente”, ha detto
Abe al parlamento indiano.
Molti leader e pensatori giapponesi
nazionalisti considerano da tempo il
giudice Pal un eroe, e si rifanno al dissenso che manifestò in occasione del
Tribunale di Tokyo per sostenere che la
guerra scatenata in Asia dal Giappone
non fu aggressiva ma di autodifesa e liberazione.
Negli ultimi anni, mentre è cresciuto il
potere di politici nazionalisti come Abe
e il numero di professori universitari e
giornalisti che sostengono una concezione revisionista della storia del Giappone,
il giudice Pal è tornato a far parlare di
se’. Durante la visita al parlamento e i
venti minuti di incontro con Prasanta, il
figlio del giudice, Abe, che in passato ha
espresso dubbi sulla validità del Tribunale di Tokyo, ha evitato di aggiungere
particolari sulle sue opinioni. Ma il vero
significato dell’incontro non è passato
inosservato ad alcuni giornali giapponesi, che hanno messo in guardia su come
un simile gesto non avrebbe contribuito
a migliorare la già modesta immagine
del Giappone agli occhi dei paesi vicini.
Alla fine del conflitto gli Alleati suddivisero i crimini dei giapponesi in categorie: i reati convenzionali di guerra – divisi nelle categorie B e C – furono affidati
a tribunali locali in tutta l’Asia mentre
25 leader accusati di reati di categoria
A per il loro coinvolgimento in guerre di
aggressione e per aver commesso crimini contro la pace e l’umanità, furono processati a Tokyo da giudici di 11 paesi.
Nonèchiaroilmotivopercuileautorità
Nel santuario
Yasukuni sorge
un monumento
dedicato al
giudice indiano
Radhabinod
Pal, che votò
per assolvere
i leader
giapponesi
dai crimini di
guerra.
Ko Sasaki per The New York Times
britanniche e americane scelsero il giudice Pal, già membro della Corte Suprema di Calcutta che nutriva forti simpatie
verso la lotta anticoloniale in India. Da
nazionalista asiatico, vedeva le cose in
modo molto diverso dagli altri giudici.
Nel suo processo di colonizzazione di
alcune regioni dell’Asia il Giappone non
aveva fatto altro che imitare le potenze occidentali, disse Pal e in un lungo
documento di dissenso dichiarò che si
trattava di un “impiego pretestuoso del
procedimento giuridico in nome della
soddisfazione di una sete di vendetta”.
E pur riconoscendo le atrocità di guerra compiute dal Giappone – compreso
il massacro di Nanchino – dichiarò che
questi rientravano nelle categorie B e C.
Dei 25 imputati giapponesi dichiarati
colpevoli dagli altri giudici Pal scrisse:
“Ritengo che ciascuno degli accusati
debba essere ritenuto colpevole di ogni
capo di accusa e assolto da ogni capo di
accusa”.
Il giudice definì i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki da parte
degli Stati Uniti come le atrocità peggiori compiute durante la guerra, paragonabili ai crimini nazisti.
Takeshi Nakajima, professore associato alla Scuola di amministrazione
pubblica della Hokkaido University e autore del libro Giudice Pal, uscito a luglio,
dice che i giapponesi critici nei confronti
dei processi si basano solo su alcuni passaggi del suo documento di dissenso.
“Pal fu molto duro con il Giappone, anche se si espresse con molta severità nei
confronti degli Stati Uniti”, dice Nakajima. “Per lui tutte le potenze imperialiste
appartenevano allo stessa banda. Aveva
un atteggiamento coerente”.
I politici del dopoguerra misero da
parte le sottigliezze e invitarono diverse volte il giudice Pal in Giappone, ricoprendolo di onori.
Tra i suoi sostenitori ci fu Nobusuke
Kishi, che è stato premier alla fine degli
anni ’50, già sospettato di essere un criminale di guerra di categoria A che però
non venne mai incriminato.
Kishi è il nonno di Abe ed è il suo modello politico.
Per molti versi il giudice Pal sembrava condividere i sentimenti che molti
indiani anticolonialisti nutrivano verso
il Giappone.
Come paese asiatico in grado di competere con le potenze occidentali il Giappone suscitava ammirazione - ma la sua
colonizzazione dell’Asia era motivo di
rammarico, dice Sugata Bose, storico
dell’Asia meridionale ad Harvard. “Dal
punto di vista del Sud e del Sud-est asiatico, l’immagine è complessa”.
“Esiste un certo livello di gratitudine per l’aiuto offerto dai giapponesi. Al
tempo stesso, sul Giappone gravavano
anche pesanti sospetti’’.
Remake della musica persiana
per suonare canzoni di protesta
di NAZILA FATHI
Associated Press; Thomas Fuller/International Herald Tribune, sotto
DIARIO DA BANGKOK
Nella guerra dei nomignoli ‘Seven’ è out, ‘Ouan’ è in
di THOMAS FULLER
BANGKOK - A memoria d’uomo, in
Thailandia i bambini hanno sempre
avuto nomignoli scherzosi – tra i “classici” ricordiamo “Gamberetto”, “Ciccio”
e “Granchio” - che si trascinano sino all’età adulta.
Adesso però, con rammarico di alcuni
puristi del soprannome, vengono assegnati loro strani soprannomi in inglese,
come “Mafia” o “Seven” – nel senso di
7-Eleven, la catena di piccoli supermercati.
Il diffondersi di nomi stranieri ris-
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Supplemento a cura di:Paola Coppola,
Francesco Malgaroli, Raffaella Menichini
•
Traduzioni: Emilia Benghi, Anna Bissanti,
Antonella Cesarini, Fabio Galimberti,
Guiomar Parada, Marzia Porta
pecchia una società in rapida via di urbanizzazione che ha assorbito diverse
influenze - tra cui quella di Hollywood,
delle catene di fast food e del campionato
di calcio inglese.
La tendenza preoccupa Vira
Rojpojchanarat, segretario permanente
del ministero thailandese della Cultura.
Vira, che per soprannome ha il relativamente banale ‘Ra’, sta per lanciarsi in
una campagna per ripristinare i semplici – e spesso ingenui - nomignoli di una
volta.
“E’ importante perché è una questione di come usiamo la lingua thai”, dice
Vira, che ha studiato architettura, nel
suo ufficio ornato da maschere teatrali
thailandesi e un piccolo altare buddista.
“Siamo preoccupati dal fatto che la cultura thai possa scomparire”.
Con l’aiuto di esperti linguisti dell’Istituto Reale - l’arbitro ufficiale della lingua thai - Vira pensa di creare entro la
fine dell’anno una raccolta di migliaia di
nomignoli all’antica, divisi in sane categorie: colori, animali e frutti.
Il libriccino dovrebbe includere qualche popolare esempio, come “Yaay”
(grande), “Ouan” (grasso) e “Dam”
(nero) e verrà distribuito ai media e alle
librerie e diffuso via Internet.
“Non possiamo obbligare le persone”,
dice Vira. “Hanno il diritto alle proprie
idee. Ma pubblicando questo materiale
possiamo offrire loro delle alternative”.
Le intenzioni del ministero della Cultura non sono ancora state rese pubbliche, ma alcuni thailandesi, venuti a
conoscenza della campagna a favore
dei nomignoli, si sono mostrati scettici.
“Non sono d’accordo, non è necessario”,
ha detto Manthanee Akaracharanrya,
imprenditrice edile di 29 anni.
Manthanee, il cui soprannome è “Money”, dice che un nomignolo inglese è
pratico perché può essere pronunciato
Vira Rojpojchanarat che lavora
al ministero della Cultura promuove
per i bambini soprannomi thai
invece di quelli occidentalizzati.
più facilmente dagli stranieri - a differenza dei nomi thai, che sono tonali e
possono comprendere suoni estranei a
chi non parla la lingua.
Il suo nome ha un significato, dice
Manthanee: suo padre scelse “Money”
perché lei è nata il 29 novembre, più o
meno il periodo di paga.
Suo fratello maggiore si chiama invece “Bonus” perché è nato durante il Capodanno cinese - quando alcune società
distribuiscono paghe straordinarie.
E suo fratello minore ha come soprannome “Bank”, tanto per restare in
tema.
Korakoad Wongsinchai, insegnante
di inglese presso una scuola elementare di Bangkok, dice che oltre la metà
dei suoi studenti ha nomi inglesi, e cita
alcuni esempi: “Tomcruise”, “Elizabeth”, “Army”, “Kiwi”, “Charlie” e God.
“Credo che molti genitori prendano i nomi dalla televisione o dalle riviste”, racconta l’insegnante. Da un punto di vista
meramente pratico, dice Vira, avere un
nome straniero come “Apple” o “Bank”
sarà pure grazioso per un bambino, “ma
quando diventi un vecchio sdentato non
si addice più”.
TEHERAN — Suona il sitar, un liuto
tradizionale persiano, e insegna letteratura persiana classica e poesia.
Ma le melodie che tira fuori dal suo
strumento, la voce profonda e i versi
esuberanti e al tempo stesso provocatori sul fatto di essere cresciuto in uno
Stato islamico, hanno fatto di Mohsen
Namjoo il personaggio più controverso
e più coraggioso dell’attuale panorama
musicale persiano.
Alcuni lo considerano un genio, una
sorta di Bob Dylan iraniano, e pensano
che la sua musica rifletta con precisione le frustrazioni e le delusioni dei
giovani iraniani. Quelli che lo criticano dicono che la sua musica mette in
ridicolo la musica classica tradizionale
persiana, perché la fonde con il jazz, il
rock e il blues occidentali.
Namjoo, 31 anni, è cantante, compositore, musicista ma, secondo i fan,
è soprattutto un eccellente esecutore.
“Volevo salvare la musica persiana”,
chiarisce. “Non è una musica dei nostri
tempi e non può appagare le generazioni più giovani. La musica persiana è
molto vicina ad altri stili ed è possibile,
con un po’ di accortezza, mescolarla ad
altri stili”.
La sua fusione di musica persiana e
occidentale produce brani inaspettati
che irritano i tradizionalisti ed entusiasmano i suoi sostenitori che sono soprattutto giovani artisti e intellettuali.
Anche se la sua musica risulta senza
dubbi persiana, tuttavia è priva di quella caratteristica melanconia che spesso pervade la musica classica. Tuttavia
i fan dicono che sono i versi e le parole
di Namjoo a rendere così apprezzabile la sua musica. Canta antiche poesie
persiane, come quelle del poeta mistico
Rumi del XIII secolo o del poeta Hafiz
del XIV, piene di riferimenti all’amore.
Con la sua eccellente padronanza della
letteratura persiana è in grado di scrivere versi tutti suoi secondo parametri
codificati, conferendo loro una molteplicità di significati.
“La prima volta che ho ascoltato la
sua musica sono rimasto sorpreso”,
dice Mahsa Vahdat, un cantante di 33
anni. “La musica e le parole esprimono l’amara situazione della mia generazione e raffigurano la società nella
quale viviamo”.
In aperta sfida alla polizia culturale
iraniana, Namjoo affronta argomenti
contemporanei: “Noi possediamo un
governo contrito” canta in una canzone
che si intitola Neo-Kanti. “Possediamo
una nazionale perdente”. Questi sono
due riferimenti alle delusioni per il
governo dell’ex presidente riformista
Mohammad Khatami e per le sconfitte
della nazionale di calcio. “Possediamo,
forse, il futuro” aggiunge poi, con una
voce che è più rassegnata che piena di
speranza.
Atabak Elyassi, musicista e docente
di musica alla facoltà di Musica dell’università delle Arti di Teheran, dice
che ci sono espressioni di protesta e
ironia nella musica di Namjoo. “La sua
musica è molto iraniana”, spiega, “in
quanto fa riferimento a questioni che
riguardano le vite degli iraniani”.
È difficile misurare la popolarità di
Namjoo perché è cresciuto in un periodo di forti pressioni sulla musica iraniana. Non è ancora riuscito a esibirsi
dal vivo in pubblico e non ha ricevuto la
licenza necessaria a vendere i suoi cd.
Tuttavia può suonare in privato, i suoi
cd si trovano al mercato nero e le sue
canzoni vengono trasmesse dalle emittenti radiofoniche. All’inizio di agosto il
suo manager ha detto che già 1,6 milioni di persone avevano ascoltato la sua
musica su YouTube.
Namjoo subisce anche un altro genere di pressioni: la maggior parte dei
musicisti classici è purista, definisce
assurda la sua musica e la accusa di
Newsha Tavoklian/Polaris per The New York Times
‘La musica persiana è molto
vicina ad altri stili ed è possibile,
con un po’ di accortezza
mescolarla ad altri stili’.
MOHSEN NAMJOO
musicista iraniano
aver inglobato le influenze occidentali. Se da un lato mettiamo la musica
classica iraniana e dall’altro la musica occidentale, ha esemplificato Reza Ismailinia, che dirige una galleria
d’arte a Teheran, “allora credo che
la musica di Namjoo si collochi come
una caricatura o una fantasia strampalata a metà strada”. Altri non sono
d’accordo. “Credo che Namjoo sarà
ricordato come un artista coraggioso,
che ha saputo creare un’opportunità
per qualcosa di nuovo, che trascende le
barriere della tradizione”, dice Alireza Samiazar, ex direttore del museo di
Arte contemporanea di Teheran.
Per nulla abbattuto dalle critiche,
Namjoo dice che il suo prossimo obiettivo è di studiare all’estero. “Voglio affrontare questa sfida e familiarizzare
con la musica occidentale. Qui sono
stato accettato fin troppo facilmente’’.
Repubblica NewYork
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Repubblica NewYork
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
IV
MONDO
Vacanze in terre devastate dalla guerra
di KAREN ANGEL
Associated Press
Ora il turismo è un settore chiave dell’economia in posti conosciuti
soprattutto come zone di conflitto, come Mostar, in Bosnia Erzegovina.
Paesi un tempo lacerati dalla guerra
civile stanno cercando di rilanciare il turismo, sperando di sostituire l’immagine
delle violenze con quella di luoghi ospitali
e viaggi di avventura.
L’ultimo esempio in ordine di tempo è il
Ruanda, un luogo che nella mente di molti è identificato con il genocidio del 1994.
L’attrazione principale del piccolo Stato
centrafricano restano i gorilla di montagna, resi famosi dal film Gorilla nella
nebbia (1988), che raccontava la vita della primatologa Dian Fossey.
Ora, però, grazie a una ritrovata stabilità, sotto il governo del primo presidente democraticamente eletto nella storia
del Ruanda, esecutivo, uomini d’affari e
imprenditoria locale stanno cercando di
trasmettere il messaggio che il Paese
non ha solo le grandi scimmie da offrire
ai turisti.
Una delle attrazioni principali è il lago Kivu, tra i più grandi di tutta l’Africa,
circondato da montagne e vulcani. A febbraio, la Serena Hotels, una catena alberghiera di Nairobi, in Kenya, che possiede
19 alberghi nel continente, è sbarcata in
Ruanda e ha comprato il Lake Kivu Serena Hotel e un altro albergo a Kigali, ribattezzato Kigali Serena Hotel.
La Serena Hotels, che fa parte dell’Aga
Khan Fund for Economic Development,
una società che si occupa di lanciare iniziative imprenditoriali nei Paesi in via di
sviluppo, ha in programma interventi di
miglioramento per 9,5 milioni di dollari,
in Ruanda. La società, dice il direttore
generale, Mahmud Jan Mohamed, acquisterà altri alberghi.
“Ci sono enormi potenzialità”, dice
Dixon Ondieki, un keniano che dirige il
Lake Kivu Serena Hotel. “Il governo sta
facendo un enorme sforzo di marketing.
Il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri dell’Africa. Può lasciare qui i suoi orecchini d’oro”, aggiunge indicando un tavolo
Tra i rifiuti
dei coloni
le risorse per
sopravvivere
Reem Makhoul ha collaborato all’articolo.
Oggi in Ruanda si
possono vedere i gorilla
nei luoghi del genocidio.
avvenute in epoche più recenti, come la
Bosnia Erzegovina e l’Irlanda del Nord,
stanno puntando molto sul turismo, con
risultati altalenanti.
“Il turismo è diventato uno dei settori
più importanti dell’economia”, dice Arna Ugljen, portavoce dell’Associazione
turistica della Bosnia Erzegovina. “Il
suo sviluppo ha un effetto estremamente
positivo sull’economia nazionale e sulla
società nell’insieme, in particolare sotto
il profilo occupazionale”. Dopo la fine della guerra civile, durata tre anni, nel 1995,
la Bosnia Erzegovina ha raddoppiato il
numero di turisti, arrivando a una quota
di circa 500.000 visitatori l’anno.
I materiali promozionali mostrano una
specie di paradiso del turista ma la realtà
è abbastanza diversa, ci racconta David
Candler, 46 anni, giornalista newyorchese che è stato per la prima volta in Bosnia
Erzegovina a giugno, insieme alla sua
fidanzata, una profuga bosniaca. “Le infrastrutture sono ancora piuttosto primitive”, dice Candler, “e il Paese fa fatica a
rimettersi in piedi”.
Nel frattempo il Ruanda ha adottato
dei provvedimenti ambiziosi per incoraggiare il turismo dai Paesi vicini e
favorire gli scambi commerciali.
Il primo luglio, il governo di Kigali ha
deciso l’ingresso nella Comunità dell’Africa orientale, un raggruppamento
sovranazionale simile all’Unione Europea, che ha tra i progetti quello di introdurre una valuta unica e allentare i
controlli di frontiera.
La Serena Hotels ha citato l’ingresso
del Ruanda nell’organizzazione come
uno dei fattori che hanno influito sulla
decisione di investire nel Paese. Senza
dubbio l’industria turistica ruandese ha
ancora molti problemi, come la carcassa
di una mucca che nessuno sembrava aver
fretta di rimuovere vista da un giornalista sulla riva del lago, a poca distanza dal
Lake Kivu Serena Hotel.
Inoltre, al di fuori dei quartieri centrali
delle grandi città e dei rari resort turistici, trovare alberghi e ristoranti invitanti
per un turista è difficile, e collegarsi a Internet praticamente impossibile.
Nonostante questo nel 2006 il Ruanda
è stato visitato da 37.000 turisti (con introiti per oltre 35 milioni di dollari) contro i neanche 2.000 di sei anni prima: ce
lo racconta Rosette Chantal Rugamba,
direttrice generale dell’Ufficio per il turismo e i parchi nazionali, un incarico che
ricopre dal 2003. E da quell’anno non si
hanno notizie di gorilla uccisi dai bracconieri. “Uno dei primi ordini del governo in
carica è stato: ‘I gorilla non devono essere toccati’”, dice la Rugamba.
Arabi contro arabi nel Darfur
Rina Castelnuovo per The New York Times
Alcuni oggetti recuperati nella discarica di Ad Deirat in Cisgiordania: un
orologio, che Muhammad Ibrahim, a destra, controlla, e un paio di ali.
cappellino da baseball, è il capo non ufficialmente riconosciuto della discarica.
Guida un bulldozer e guadagna un misero salario municipale, ma insieme a tre
parenti rovista nell’immondizia per recuperare oggetti e cercare di sfamare una
famiglia di 25 persone. “E’ una vita molto
difficile. Non chiamatemi capo. Qui cerchiamo di essere tutti amici. Cerchiamo
di essere alla pari”.
Muhammad al-Ammour, 42 anni, in
passato lavorava in Israele come imbianchino e guadagnava dai 35 ai 50 dollari al
giorno. Lavorando qui con i suoi due figli
porta a casa una dozzina di dollari. “Se
Trova scintille di speranza
chi rovista nella spazzatura
in cerca di fortuna.
non lavoriamo, non sopravviviamo. E’
triste a dirsi ma la spazzatura ci tiene in
vita. Il nostro futuro è nella spazzatura”.
Quando gli si chiede se l’Autorità palestinese li aiuti, ride. “Nessuna autorità
è mai venuta a controllare come stiamo.
Non interessa a nessuno”, dice. “La nazione palestinese riceve aiuti umanitari
di vario genere dall’estero ma noi non ne
abbiamo mai visti”.
Al pari ditutti gli uomini e i bambini della discarica — soltanto alcuni indossano i
guanti — Ammour è ricoperto di cicatrici,
specialmente sulle mani, sulle braccia e
sulle gambe, provocate da oggetti appun-
titi di metallo e vetri rotti. Per proteggersi dal sole molti indossano dei cappelli e
usano dei fazzoletti per coprirsi la bocca
contro le esalazioni e il fumo acre dei falò
appiccati durante la notte per bruciare la
spazzatura già passata al setaccio. Molti
bambini sembrano malnutriti, ti fissano
con gli occhi appannati e la faccia lurida.
“Perfino chi mi sta vicino, i miei stessi parenti, mi scherniscono e deridono la
mia famiglia”, dice Ammour. “Chiunque
lavori qui è egli stesso spazzatura: è questo che pensano. Alcuni sono spie, collaboratori o ladri, e ciò nonostante considerano noi, lavoratori onesti, degli inferiori”.
Ammour ha otto figli ed è conosciuto
con il nome di Abu Fadi, il padre di Fadi,
19 anni, il più grande, uno dei tre gemelli.
Fadi sta cercando di tornare al college.
Lavora qui da quando era piccolo, racconta, con suo padre e i suoi due fratelli. Aveva iniziato a frequentare l’università, ma
ha dovuto interromperla per mancanza
di soldi. Adesso frequenta alcuni corsi
serali all’Università aperta di Al Quds di
Yatta con suo fratello Tamer. In questo
piccolo mondo tutti sono fieri di loro.
La casa di Ammour a Yatta è composta da due stanze e ospita una famiglia di
dieci persone. La camera più grande ha il
pavimento ricoperto di materassi, quella più piccola custodisce la proprietà di
maggior valore di Fadi, un computer funzionante che ha assemblato unendo parti
e componenti varie trovate nella discarica. Fadi, che si è ripulito, accende il pc
per ascoltare della musica. Suo fratello di
cinque anni improvvisa una break dance.
Fadi e Tamer si uniscono. “Vedete?”, dice Fadi con un sorriso. “Dalla spazzatura
vengono fuori cose belle”.
non arabe. Ma questa nuova dimensione, che vede arabi combattere contro
altri arabi, sembra essere un segnale
dell’accresciuta complessità della crisi.
“La frammentazione dei gruppi armati costituisce una delle nostre principali preoccupazioni”, dice Maurizio
Giuliano, portavoce dell’ufficio delle
Nazioni Unite per il coordinamento
degli interventi umanitari in Sudan.
“Questo rende la situazione più complessa”.
In Sudan, molti osservatori indipendenti ritengono che la fase attuale del
conflitto non sia guidata dal governo.
“Il governo ha smesso di armare le
milizie janjaweed”, dice il colonnello
James Oladipo, comandante dell’African Union a Nyala, nel Darfur meridionale. Il problema, aggiunge, ora sono i
banditi e le fazioni.
Banditi in tuta mimetica — ribelli?
miliziani locali? janjaweed? — fermano regolarmente i camion e trascinano
via i passeggeri, rapinando gli uomini e
violentando le donne. La galassia degli
eserciti ribelli — il Greater Sudan Liberation Movement, il Popular Forces
Troops, il Sudan Democratic Group,
per citarne solo alcuni — continua ad
espandersi. Malgrado le trattative di
pace, i ribelli, in maggioranza non arabi, adesso hanno cominciato a combattere tra di loro.
Un episodio di lotta interna tra tribù
arabe si è verificato la mattina del 31
luglio, vicino Sania Daleibah, nel Darfur meridionale. I capi Terjem raccontano che centinaia di membri della
loro tribù si erano radunati per seppellire un importante sceicco quando, improvvisamente, sono stati circondati.
Si trattava dei Mahria i quali, secondo
i rapporti delle Nazioni Unite e secondo alcuni testimoni, hanno aperto il
fuoco con armi pesanti, uccidendo più
di 60 persone appartenenti alla tribù
Terjem.
“E’ stato un massacro”, dice Mohammed Yacob Ibrahim Abdelrahman, capo della tribù Terjem. “Un massacro
compiuto per mano dei nostri fratelli”.
La violenza che oppone arabi ad altri
arabi è un ostacolo al lento processo di
ripresa che è già iniziato in alcune aree
del Darfur. Circa 2,2 milioni di persone
si trovano nei campi profughi sebbene
alcune abbiano già intrapreso i primi
passi per andarsene. Ma poi è esplosa
la faida tra Terjem e Mahria.
I Mahria sono allevatori nomadi di
cammelli e provengono dalla regione
settentrionale del Darfur, uomini del
deserto le cui milizie hanno aiutato
il governo sudanese a pattugliare il
lungo confine desertico con il Ciad. I
Terjem sono contadini e allevatori di
bestiame che vivono non lontano dalla
tribù non araba dei Fur. I Mahria sapevano combattere. I Terjem sapevano
dove vivevano i Fur.
Secondo i funzionari dell’Onu e la
testimonianza di alcuni sopravvissuti,
le due tribù hanno massacrato molti
Fur dividendosi poi le loro terre. Ma
l’alleanza si è spezzata alla fine dello
scorso anno.
Juma Dagalow, uno sceicco Mahria,
racconta di aver chiamato gli altri
LIBIA
CIAD
segue dalla prima pagina
segue dalla pagina pagina
di vera e propria organizzazione, con un
autista di bulldozer di 23 anni che fa da
paciere per ricomporre i litigi, e un codice
di comportamento, così che siano rispettati gli oggetti recuperati da ciascuno.
Questo posto con il suo squallore è il
simbolo dell’impatto dell’insediamento
ebraico in Cisgiordania, e delle spaventose condizioni economiche dei territori
palestinesi, dove circa un terzo degli abitanti è disoccupato.
Molti degli adulti di questa discarica
non riescono a trovare lavoro in Israele
dal2000,dall’iniziodellasecondaIntifada,
quando furono varate misure di sicurezza
più rigide per prevenire gli attentati suicidi. Questa discarica è diventata un’ancora di salvezza per loro e per i bambini
che contribuiscono a sostenere le famiglie
povere della Cisgiordania. Le scene ricordano il Terzo Mondo, come la montagna
di rifiuti di Manila, anche se questo posto
è a due passi dal Paese con il reddito pro
capite più alto del Medio Oriente.
I bambini sono delusi per camion di
spazzatura palestinese proveniente da
Hebron. I veri tesori, raccontano, arrivano dagli insediamenti israeliani della
Cisgiordania. È la spazzatura dei coloni
a tenerli in vita e anche, stranamente, a
farli divertire.
Mahmoud Ibrahim, 10 anni, ha trovato
un paio di ali d’angelo, che all’apparenza
appartenevano a una maschera usata per
una festa o al costume per un’esibizione di
danza. Le indossa capovolte, ma è felice,
e svolazza in giro per la discarica mentre
gli altri applaudono. Suo fratello Muhammad, 11 anni, si pavoneggia indossando
un abito di parecchie taglie più grandi,
che forse era servito per un bar mitzvah.
Se si togliesse il sudicio, qualsiasi madre
ne andrebbe orgogliosa.
Quando le cose vanno bene, lavorando
qui dalle cinque di mattino al tramonto, i
bambini riescono a mettere insieme circa 4,75 dollari.
Muhammad Rabai, un giovane di 23
anni che indossa un paio di pantaloni
mimetici che ha recuperato e uno sporco
nell’atrio dell’hotel, “e stare sicura che li
ritroverà. E poi, naturalmente, c’è la cultura, che è la migliore risorsa. Ognuno,
qua, parla quattro o cinque lingue”.
Il Ruanda si ispira, prevalentemente,
al modello del Vietnam: oggi il Paese
asiatico è percepito come una destinazione sicura e accogliente per i turisti, e
i servizi, turismo incluso, rappresentano
ormai circa il 40 per cento del prodotto
interno lordo. Anche la Corea del Sud, la
Cambogia e il Laos, altri Paesi asiatici
devastati dalla guerra, decenni fa, sono
diventati mete per i turisti e si impegnano
seriamente a promuovere le proprie attrattive. Alla fine di luglio, il Laos ha ospitato una conferenza sull’ecoturismo per i
Paesi della regione del Mekong.
Alcuni Stati, associati a guerre civili
EGITTO
Km
160
DARFUR
SETTENTRIONALE
Khartoum
Darfur
SUDAN
Kologi
SUDAN
CONGO
El Fasher
DARFUR
OCCIDENTALE
CIAD
Nyala
DARFUR
MERIDIONALE
The New York Times
Il Darfur è dilaniato
dalla violenza tra tribù arabe.
sceicchi con un satellitare, e di aver
radunato le truppe dopo che gli uomini della tribù Terjem avevano teso un
agguato ai suoi. “Siamo andati a quel
funerale per attaccarli, per chiudere i
conti”, ha spiegato lo sceicco, aggiungendo che i suoi uomini sono ‘un po’
aggressivi’”.
Il massacro di arabi compiuto da
altri arabi sembra estendersi velocemente e senza controllo. “In questo
posto non esiste né legge né ordine”, dice Annette Rehrl, portavoce dell’Alto
Commissario Onu per i rifugiati.
L’insicurezza ha spinto migliaia di
Terjem nei campi profughi dove non
sono liberi di muoversi. “Stiamo seduti
qui, odiando noi stessi”, dice Mariam
Mohammed, una donna esile come un
fuscello, alla quale hanno ucciso il marito sotto gli occhi. “Guardatemi. Sono
la metà di quella che ero una volta”.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
V
MONDO
ANALISI
La politica estera di Bush?
Sostenere leader deboli
di DAVID E. SANGER
WASHINGTON — Quanto gli obiettivi di politica estera di Bush siano alla
mercè di alcuni tra i dirigenti politici
più deboli del mondo è diventato evidente con la reazione della Casa Bianca agli eventi in Pakistan.
Il governo statunitense si è detto soddisfatto per l’alleanza di convenienza
tra un uomo forte, il generale Pervez
Musharraf, e l’ex primo ministro in
esilio, Benazir Bhutto, i cui mandati al
governo, negli anni ’80 e ’90, sono considerati un misto di incompetenza, impotenza e presunta corruzione. Questo si
spiega con la scommessa del governo
americano sul fatto che la combinazione Musharraf-Bhutto, per quanto fragile, possa essere la soluzione migliore
per evitare che un paese che possiede
armi nucleari sprofondi in una spirale
di violenza che, a sua volta, potrebbe
segnare la fine delle ultime speranze
di Bush di distruggere il santuario di
Osama bin Laden.
Il generale Musharraf è un esempio
di leader debole. Il primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, ha permesso
che fosse bloccato un processo che doveva sfociare in un compromesso per
la condivisione del potere tra sciiti e
sunniti. Il leader palestinese Mahmoud
Abbas non è riuscito a tenere a freno
Hamas, né a sconfiggere la corruzione
nel suo partito da quando ha assunto
il potere. Il presidente Hamid Karzai
dell’Afghanistan, che quotidianamente cerca di imporsi sui signori della
guerra, ora deve anche affrontare la
ribellione dei taliban.
La Casa Bianca si chiede come rafforzare questi leader deboli o portare
avanti le sue strategie intorno a loro in
un periodo in cui la vendita di armi, i
programmi di aiuti e le foto accanto al
presidente Usa fruttano sempre meno.
Recentemente un alto funzionario ha
raccontato che nelle riunioni “si sente
ogni tanto porre la questione se non sia
arrivato il momento di lasciarli perdere” questi leader. Ma poi, inevitabilmente, qualcuno dal fondo della sala
chiede: “E poi?”.
La ricerca di alternative è agonizzante e sui limiti della situazione irachena si è discusso recentemente per
più di un’ora al Pentagono nella sala
dove si riuniscono i capi di Stato maggiore. La discussione ha riguardato
le possibilità che Bush ha di aggirare
Maliki per premiare i sunniti della
provincia di Anbar per la loro decisione di spostare la mira dalle truppe
americane ad Al Qaeda. Il dibattito
sta affrontando anche la questione di
come incoraggiare elezioni anticipate
che porterebbero incarichi di governo
ai sunniti e di come spingere il governo
centrale a finanziare più progetti nella
regione.
“In poco tempo il dibattito si è concentrato sui premi politici e economici
che possiamo promuovere, invece di
contare quante forze ci servono per
tenere le cose sotto controllo”, dice un
funzionario, che si chiede se gli Stati Uniti sarebbero ancora in Iraq se
“questo stesso dibattito si fosse svolto
quattro estati fa”.
Questo punto - quanto si sia troppo
avanti nel gioco - è un’altra delle preoccupazioni di Washington.
Un problema non di poco conto è che
i leader che Bush vuole incoraggiare
sanno bene che il presidente non può
fare promesse che durino 1 minuto oltre la mezzanotte del 20 gennaio 2009 e
giorno dopo giorno vi adeguano le loro
mosse.
Maliki su questo punto ha parlato apertamente non molto tempo fa.
Irritato dal crescendo di voci che a
Washington sarebbero a favore di una
sua rimozione – sia democratiche sia
repubblicane - ha avvertito che l’Iraq
ha “altri amici” che “ci appoggeranno
nella nostra impresa”. E chiaramente
si riferiva all’Iran.
Reuters, prima fila in alto; Associated Press
In senso orario da sinistra, Mahmoud Abbas, Nouri alMaliki, Hamid Karzai e Pervez Musharraf.
Hazel Thompson per The New York Times
In una moschea di Bradford, Idris Watts aiuta gli studenti ad applicare gli insegnamenti dell’Islam alla vita quotidiana.
Corsi di educazione civica ispirati al Corano
di JANE PERLEZ
BRADFORD, Inghilterra — Nella moschea Jamia di Victor Street, Idris Watts - un insegnante convertito all’Islam
– discute con una dozzina di adolescenti
di un tema all’apparenza banale: perché avere un lavoro è meglio che essere
disoccupati.
“Il profeta ha detto che dovete imparare un mestiere”, dice Watts agli studenti. “Cosa pensate che volesse dire?”.
“Avere un mestiere è una buona cosa,
perché così puoi tramandarlo”, ha risposto Safraan Mahmood, 15 anni. “Se
riesci a essere autosufficiente sei più
felice”, ha suggerito Ossama Hussain,
14 anni.
Il dialogo rappresenta una novità nelle moschee della Gran Bretagna: uno
sforzo - finanziato dal governo - di insegnare educazione civica a studenti che
potrebbero essere contagiati dall’estremismo islamico.
Il governo britannico spera che queste lezioni, che si basano sul Corano e rispondono a domande sulla vita di tutti i
giorni, sostituiranno quelle spesso noiose e alle volte impregnate di fondamentalismo che vengono impartite in molte
moschee del Paese, che sottolineano
l’apprendimento meccanico del Corano e vengono insegnate da imam nati
in Pakistan, che parlano inglese male e
hanno pochi contatti con la società britannica.
Creato da un insegnante di Bradford,
Sajid Hussain, di 34 anni, che ha studiato
a Oxford, il nuovo programma viene insegnato durante l’ora di religione in questa città sempre più divisa tra bianchi e
asiatici del sud.
L’iniziativa di Bradford riceve sostegno e fondi dal governo laburista nell’ambito di una campagna che si vorrebbe estendere ad altre città per aiutare la
maggioranza dei musulmani a integrar-
La comunità
delle spie
investe nelle reti
telematiche
di SCOTT SHANE
Le agenzie di intelligence statunitensi
si ingegnano per cercare di risolvere i
problemi di condivisione delle informazioni che ossessionano il mondo delle
spie. Il meccanismo che hanno in mente è simile a quello dei software sociali
e stanno adottando tecnologie web che
milioni di giovani già padroneggiano
senza problemi.
A dicembre, secondo alcuni funzionari delle agenzie di intelligence, i vari
enti del settore lanceranno A-Space, una
variante top-secret di siti di socializzazione online come MySpace e Facebook.
La A sta per “analista”, e se gli utenti di
Facebook si scambiano foto, consigli per
fare i compiti e pettegolezzi, gli analisti
dei servizi avranno la possibilità di mettere a confronto le loro osservazioni su
foto satellitari dei siti nucleari nordco-
si meglio nella cultura britannica.
In Gran Bretagna vivono circa due
milioni di musulmani, la maggior parte
originari del Pakistan o del Bangladesh. Da quando - nel luglio 2005 - quattro
musulmani britannici hanno organizzato un attentato al sistema dei trasporti
pubblici di Londra e altri due piani terroristici che si sospetta siano stati pianificati da musulmani britannici sono
venuti alla luce l’anno scorso, le autorità
britanniche si sono sforzate di trovare
un modo per isolare gli estremisti – una
minoranza - dalla maggioranza dei moderati.
A luglio durante la sua prima confe-
Per alcuni queste lezioni
per musulmani sono una
forma di discriminazione.
renza stampa, il primo ministro Gordon Brown ha detto di voler dimostrare “l’importanza che attribuiamo alla
nonviolenza” e “che attribuiamo alla
dignità di ciascun individuo”, e di voler
rendere poco allettante “il messaggio
estremo di chi pratica la violenza ed è
disposto a mutilare e uccidere cittadini
sul suolo britannico”.
Si calcola che il numero di ragazzi
musulmani in età scolare che frequentano le lezioni di religione presso le moschee della Gran Bretagna siano circa
100.000., così l’impatto di questi insegnamenti potrebbe essere considerevole.
Ma per quanto sostenuto dal governo
il programma ha incontrato l’opposizione di qualche musulmano. Perché - ha
chiesto Nuzhat Ali, che coordina le don-
Topos Graphics
reani, della guerriglia irachena e dei
missili cinesi.
A-Space andrà ad aggiungersi a Intellipedia, la Wikipedia delle spie, usata
dagli agenti segreti delle 16 agenzie di
intelligence statunitensi per condividere le conoscenze. Sedici mesi dopo la
sua creazione la versione secretata di
Intellipedia vanta 29.255 articoli, con
una media, ogni giorno lavorativo, di
114 nuovi articoli e oltre 4.800 modifiche
già postate. Un altro servizio online, la
Library of National Intelligence, ospita
i rapporti di ogni agenzia. E dietro alle
barriere di sicurezza proliferano blog
accessibili solo a altre spie.
“Internet va più veloce di noi”, dice
Mike Wertheimer dell’ufficio del direttore dell’intelligence nazionale, che sovrintende al lancio di A-Space. “Stiamo
cercando di recuperare terreno”.
Wertheimer ammette che alcuni dirigenti non incoraggiano i sottoposti ad
aggiungere informazioni sull’enciclopedia telematica, per paura che l’agenzia
si veda scippare il merito di queste informazioni.
E per il mondo dei servizi, usare gli
strumenti del Web significa fare una
rivoluzione culturale. Ancora oggi le
informazioni migliori sono indicate con
la sigla Sci, che sta per Sensitive Compartmented Information (Informazioni
sensibili compartimentate), e mettere
sotto chiave i dati garantisce protezione
contro le talpe e le fughe di notizie.
Gli attacchi dell’11 settembre, però,
hanno dimostrato che tenersi strette le
informazioni può portare alla catastrofe. In un rapporto diffuso il mese scorso,
l’ispettore generale della Cia descrive
il mondo dei servizi come una famiglia
disfunzionale, in cui l’Agenzia per la sicurezza nazionale rifiutava di rivelare
alla Cia le intercettazioni di esponenti
di al-Qaeda, e la Cia, a sua volta, teneva
nascoste delle informazioni all’Fbi. Più
di 50 agenti della Cia, dice il rapporto,
nei primi mesi del 2000 lessero dei cablogrammi che riferivano di due aspiranti
dirottatori, ma omisero di chiedere al
dipartimento di Stato di inserirli in una
lista di persone da tenere sotto osservazione.
Ora ci sono fondate speranze che
una comunità virtuale che metta in comunicazione i 100.000 dipendenti delle
agenzie di intelligence possa riuscire ad
automatizzare la condivisione delle informazioni tra agenti segreti.
I veterani e gli esperti dell’intelligence
applaudono alla nuova tecnologia ma avvertono che non si tratta di una panacea.
ne iscritte alla Società islamica della
Gran Bretagna di Bradford - le lezioni
di educazione civica dovrebbero essere
indirizzate solo ai bambini musulmani? “Una delle nostre maggiori preoccupazioni è: perché ancora la comunità
musulmana?”, ha detto la signora Ali.
“L’estremismo è un problema di tutte
le comunità, specialmente nelle fila del
Partito nazionale britannico” ha detto,
riferendosi a un partito di estrema destra che ha espresso idee di supremazia
razziale dei bianchi. “Anziché dire: ‘Venite musulmani, andate nel vostro angolino per seguire il vostro programma’, il
problema del terrore e dell’estremismo
deve essere affrontato a tutto campo”.
Ma il punto è dimostrare agli studenti
musulmani che la religione offre risposte a temi che affontano ogni giorno.
“Capiscono che andare e commettere
un attentato suicida è sbagliato”, ha detto Hussain. “Ma alcuni di loro si confondevano quando si facevano associazioni con la jihad. La jihad ha un contesto
sacro, quindi ciò che prima era inaccettabile è divenuto accettabile. Abbiamo
dovuto scavare a fondo per eliminare
l’equivoco”.
Poi c’è stato il problema degli abiti.
Nel programma viene chiesto se sul
posto di lavoro i musulmani britannici
debbano cercare di adottare un abbigliamento islamico quando esistono
norme che richiedono di indossare
abiti formali. E che dire del hijab, con
cui alcune donne islamiche si coprono i
capelli, o del niqab, che copre il volto a
eccezione degli occhi?
“Alcuni studiosi dicono che non poter
vedere la faccia della tua insegnante
quando sei in classe non è una buona
cosa”, dice Hussein. “Potremmo dire ai
giovani che la nostra fede ci dice di non
alienarci, e che esistono molte opinioni
diverse”.
Amy Zegart, professoressa associata di
politiche pubbliche all’università della
California e autrice di Spying Blind: The
C.I.A., the F.B.I. and the Origins of 9/11
ha individuato 23 momenti in cui la Cia o
l’Fbi avrebbero potuto fermare il complotto. Ritiene che sia praticamente “da
escludere” che il web potesse cambiare
qualcosa, perché il problema è stato che
gli agenti non si sono resi conto dell’importanza delle informazioni in loro possesso. “Abbiamo troppa fiducia in quello
che può fare la tecnologia “, dice la Zegart. “Il processo più importante è come
le informazioni vengono elaborate nella
testa delle persone”.
A-Space includerà funzioni di posta
elettronica e di chat, consentirà a tutti
di modificare i documenti e permetterà agli analisti di digitare un nome e
apprendere che sono riusciti a scoprire
sullo stesso argomento le altre agenzie.
I funzionari sottolineano che i computer
sono programmati per segnalare gli
utenti che scaricano dati o cercano informazioni su argomenti al di fuori della
propria area di competenza.
Secondo Wertheimer ci sono dei segnali incoraggianti. Quando scoppia
una crisi, dice, e viene pubblicato un
articolo su Intellipedia, “in poche ore le
16 le agenzie di intelligence danno il loro
contributo”.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
VI
EC O N O M I A E S O C I E TÀ
Servire più Big Mac in Europa
Le vendite dei McDonald’s europei hanno superato
quelle degli Stati Uniti nei primi sei mesi dell’anno
$4,0 miliardi
3,5
Ricavi di
McDonald’s
Primi 6 mesi
del 2006 e del 2007
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
’06 ’07
Stati
Uniti
Europa
Asia/Pacifico,
Medio Oriente
e Africa
Fonte: Relazione della società
America
Latina
Canada
The New York Times
Sedie eleganti? Formaggi?
Sì, è sempre McDonald’s
di JULIA WERDIGIER
LONDRA — Per fare una pausa durante un pomeriggio di shopping, Ita
Clift ha scelto di fermarsi a prendere un
cappuccino da McDonald’s. Anche se
non è una cliente abituale dei fast-food,
la signora Clift spiega di aver deciso per
questo locale in Edgware Road perché
“ha un’aria così carina e sofisticata”.
Sofisticata? McDonald’s?
Per offrire ai suoi clienti un’esperienza più rilassante in un’atmosfera elegante McDonald ha deciso di sostituire in
molti ristoranti il vecchio arredamento
in plastica gialla e bianca con nuove sedie verdi e tappezzerie in pelle scura. E’
l’ammodernamento più rilevante che la
catena di fast-food ha realizzato in più
di 20 anni. Con i suoi concessionari in
franchising, McDonald’s sta progettando di spendere entro la fine dell’anno più
di 600 milioni di euro per rimodernare
1.280 locali in Europa.
I cambiamenti non sono solo di tipo
estetico. La catena americana ha deciso
di introdurre alimenti più salutari e prodotti che vanno incontro ai gusti locali,
come il latte macchiato. Sperando di
attrarre un maggior numero di giovani
e di professionisti, che si aggiungano alla clientela abituale fatta soprattutto di
ragazzini, l’azienda ha pensato di offrire
anche alcuni extra, come l’uso di internet e gli iPod in affitto.
Si direbbe che il cambiamento abbia
avuto successo. Durante la prima metà
dell’anno, il fatturato dei 6.400 locali in
Europa è aumentato del 15 per cento,
giungendo a 4,1 miliardi di dollari, contro l’aumento del 6 per cento registrato
negli Stati Uniti, dove McDonald’s è presente con 13.800 ristoranti e dove il fatturato annuale è di 3,9 miliardi di dollari.
“Alla McDonald’s stanno facendo
un gran lavoro in Europa”, dice Larry Miller, analista della RBC Capital
Steve Forrest per The New York Times
McDonald’s sta rinnovando lo stile dei ristoranti europei, come questo a Londra.
Markets.
In Europa, che è il mercato più redditizio dopo quello statunitense, la catena
oggi serve 10 milioni di clienti al giorno.
La spinta a iniziare questo rinnovamento risale alla fine degli anni Novanta, quando in Europa si registrò un calo
delle attività dovuto alla preoccupazione
per il rischio obesità e all’insofferenza
verso gli ambienti arredati in modo poco attraente e verso un personale spesso
sgarbato. Ma le idee sui cambiamenti
da operare sono frutto di Denis Hennequin, presidente di McDonald’s Europa,
il primo non americano a occupare questo ruolo. Quando era a capo del settore
francese della McDonald’s, alla fine
degli anni Novanta, Hennequin iniziò a
cercare il modo per attirare nei fast food
un maggior numero di clienti in un paese
che preferisce assaporare con calma un
pasto tradizionale. “Ci rendemmo conto che per far funzionare McDonald’s
Evita il mercato
impazzito
e nessuno
si farà male
OPINIONE
I RICCHI NON SONO COSI’ ESPERTI
Ben Stein è avvocato, scrittore, attore
ed economista.
Nel lontano 1994, quando i pc portatili iniziarono la metamorfosi che li ha
trasformati da valigie di 7 chili ai laptop
da due chili di oggi, iniziai a portare il
mio alle riunioni della Microsoft. I miei
colleghi facevano
altrettanto. Che novità. Che comodità.
Potevamo prendere
DEAN
appunti sulla tastieHACHAMOVITCH
ra. Avevamo accesso immediato alle
informazioni nei nostri computer senza
doverci portare dietro pile di documenti,
o correre in ufficio per prendere una
cartella. Potevamo proiettare le nostre
diapositive e illustrare i nuovi prodotti.
Emozioni della tecnologia!
Ma con l’intensificarsi della connettività e l’acquisizione di una maggiore
disinvoltura in materia di tecnologia,
abbiamo iniziato a dedicarci ad attività
che con le riunioni avevano decisamente
meno a che fare: se la conversazione
si faceva noiosa leggevamo la nostra
e-mail, davamo un’occhiata ai titoli dei
giornali, ci collegavamo in silenzio al
sito di Espn.
Negli ultimi anni abbiamo persino
iniziato a inviarci reciprocamente instant message durante le riunioni, come
i bambini che a scuola sussurrano: “Ha
davvero detto....?”, o “Ma si rende conto
che....?”. E’ capitato che qualcuno divulgasse una battuta attraverso un instant
message per vedere se riusciva a far ridere altre persone presenti nella stanza.
Adesso però ha preso forma un nuovo
galateo. Addirittura, il sito Microsoft.
com elenca sette regole per disciplinare
l’impiego dei laptop durante le riunioni, a
cominciare da: “Assicuratevi che esista
un buon motivo” e “Abbassate il volume
delle suonerie”. Durante le riunioni, soprattutto quando vengono trattati argomenti delicati, lasciare il laptop chiuso è
un comportamento rispettoso.
D’altro canto, se durante una riunione
OPINIONE
TUTTO DIPENDE DALLE PARCELLE
Nel 2005 e 2006 si è discusso a tutti i livelli se era necessario regolamentare
gli hedge fund.
Alla fine, la Securities and Exchange Commission ha concluso che poiché
i loro investitori erano spesso persone
molto ricche e presumibilmente molto esperte in materia, gli hedge fund
alle sedie a “uovo” disegnate dall’architetto danese Arne Jacobsen.
Un’azienda alimentare di Monaco
sta studiando nuovi menù che possano
incontrare i gusti dei clienti dei 41 Paesi
europei, Russia compresa.
In Gran Bretagna i McDonald’s hanno
iniziato a proporre il porridge per colazione. In Portogallo è possibile ordinare
una zuppa e in Francia un hamburger
accompagnato da formaggio francese.
“Vogliamo restare fedeli alle nostre
origini e, allo stesso tempo, progredire”,
spiega Hennequin. Questo significa che
McDonald’s in Europa ha mantenuto il
suo logo ma ha abbandonato il colore rosso. Il colore dominante in molti ristoranti della catena americana ora è un caldo
bordeaux. I tetti rossi sono stati sostituiti
da semplici facciate verde oliva.
Una cosa però è rimasta la stessa: le
patatine fritte e i cheeseburger restano
le voci più richieste del menù.
Ma pensi alla riunione
oppure al tuo computer?
Qui sono elencate alcune osservazioni preliminari sul recente sconvolgimento dei mercati finanziari:
Gli hedge fund sono per buona parte
una truffa. Si presume che un hedge fund
metta al riparo dai
movimenti di mercaBEN
to con strumenti non
STEIN
vincolati. Possiamo
dire che si suppone
che scommettano che le azioni crolleranno quando il mercato crollerà e
pertanto accumulano soldi per mettersi al riparo dalle perdite.
Sono sicuro che alcuni lo stessero facendo di recente, ma da quanto
ho visto molte erano semplicemente
scommesse che le azioni sarebbero
salite. Quando il mercato si è rivoltato
bruscamente contro di loro, non soltanto hanno subito perdite, ma hanno
dovuto vendere all’ultimo momento,
rimettendoci. E’ semplicemente un
giocare d’azzardo. Adesso ci rendiamo conto che non si tratta di prodezze
negli investimenti.
Tutto dipende, come ha ripetuto così tante volte il mio idolo Warren E.
Buffett, da una cosa sola: “Fees, fees,
fees!” (Parcelle, parcelle, parcelle).
Gli hedge fund modello non sono un
mezzo per fare meglio del mercato, ma
uno strumento per far pagare quanto
più possibile l’investitore.
e per far apprezzare un Big Mac in un
paese che ama lo slow-food dovevamo
prestare più attenzione ai nostri locali
e al modo di presentare i prodotti”, dice
Hennequin.
Aveva ragione. Dopo l’operazione di
restyling il giro d’affari dei McDonald’s
francesi è cresciuto in media del 4,5 per
cento. I nuovi locali hanno avuto così
tanto successo che due anni fa ad Hennequin è stato proposto di fare la stessa
cosa per il resto dell’Europa.
Lo stile dei nuovi ristoranti va dall’
“assolutamente semplice”, caratterizzato da un arredamento minimale e
colori neutri, al “Qualité”, in cui abbondano grandi immagini di insalate e pomodori e scintillanti utensili da cucina
in acciaio. “I nuovi ristoranti sono più
confortevoli, meno affollati e le sedie ci
piacciono molto”, dice Shane Bogela, 16
anni, intervistata in un McDonald’s di
Londra, riferendosi ai locali rinnovati e
Philip Anderson
necessitavano soltanto di un minimo
accenno di regolazione, diversamente,
per esempio, dai mutual fund.
Per chiunque conosca almeno un po’
i ricchi, l’idea che un ricco sia esperto è
risibile. I ricchi in genere diventano ciò
che sono in modi che non hanno nulla a
che vedere con l’essere esperti negli
investimenti.
Alcuni dei massimi investitori di
hedge fund sono i fondi pensionistici, i
fondi dei sindacati e altri gruppi di impiegati. Sarebbero rimasti sbigottiti
se fossero venuti a conoscenza di quali
incredibili giochetti rischiosi i loro “2 e
20” — agenti che impongono loro tariffe pari al 2 per cento del valore totale
dei loro asset e che si tengono il 20 per
cento dei profitti — stavano facendo
con i loro soldi.
E’ difficile credere che un agente di
polizia di Los Angeles avrebbe davvero voluto vincolare i soldi della sua
pensione ai mutui subprime.
Se gli hedge fund devono continuare
a essere qualcosa che ha una sua importanza, è giunta l’ora che esibiscano
trasparenza totale nei confronti dei
loro investitori. In altre parole, abbiamo appena constatato che si rende necessaria una regolamentazione degli
hegde fund.
LA PAURA NON PUO’ MISTIFICARE
I FATTI Il caos dei subprime è sempre
stato inferiore a quello che i media
hanno strombazzato. In una nazione
del nostro calibro, in un mondo economico in fiamme per prosperità e
liquidità, le perdite non sono state
enormi, anche se i mezzi di informazione hanno cercato incessantemente
di spaventarci.
GLI INVESTIMENTI NON SONO TUTTO
Se qualcosa sembra troppo bella per
essere vera nel mondo del denaro, di
solito lo è.
I subprime dovevano essere dei junk
bond, obbligazioni “carta straccia”,
con un creditore di basso profilo e interessi alti, ma insolvenze abbastanza
basse da consentire un profitto ai proprietari di obbligazioni.
Di fatto, invece, enormi profitti sono stati fatti dagli enti erogatori, ma
quando il tasso di insolvenza reale è
stato reso noto, il denaro in regalo è
svanito.
I MERCATI SBAGLIANO SUL BREVE
PERIODO Dopo tutto, i mercati sono in
costante evoluzione, pertanto i prezzi
precedenti devono essere stati un errore. Tendono ad avere ragione, ma
nel breve periodo si possono verificare
drastiche sopravvalutazioni e sottovalutazioni.
Qualcosa del genere sta accadendo
adesso con le azioni finanziarie, che
sono a livelli che parrebbero far presagire una seconda Grande Depressione.
Se questo non accadrà, fra dieci anni alcune persone molto brillanti che
hanno comperato azioni finanziarie
alla fine dell’estate 2007 potrebbero
rallegrarsi di averlo fatto.
Occorrerebbero marchiani errori
di politica monetaria per giustificare
i prezzi di queste azioni oggi.
Dean Hachamovitch è il direttore
generale di Internet Explorer per la
Microsoft. Il testo si basa sui racconti
fatti alla ex collega Julie Bick, quando
lavorava alla Microsoft.
in cui si affrontano tematiche diverse la
conversazione si sposta su un argomento
che non mi interessa, non ho problemi a
controllare la mia posta. E’ meglio che
farlo alle undici di sera.
Poco tempo fa un mio collega stava
proiettando sullo schermo della sala
riunioni alcuni dati dal suo laptop. Era
in piedi, davanti a tutti, quando sullo
schermo si è aperto un “toast” — quella
finestrella nell’angolo che annuncia che
una persona della tua lista si è appena
collegata — con un messaggio inviato da
uno dei presenti che gli diceva che aveva
la cerniera aperta. Si trattava di uno
scherzo, fatto per ricordargli che durante le riunioni il laptop andrebbe tenuto
in modalità “presentation”, il che, tra
le altre cose, mette a tacere gli instant
message.
Durante le riunioni i laptop possono ri-
Bill Gates non controlla
la posta elettronica in
riunione. Tu invece sì?
sultare scoraggianti se i più anziani tra
i presenti li controllano con frequenza o,
peggio ancora, si mettono a scrivere per
un certo tempo. Chi è incaricato della
presentazione si domanderà quanto il
suo discorso viene seguito.
A questo proposito devo dire che i nostri dirigenti ci danno un buon esempio.
Durante le riunioni Bill Gates o Steve
Ballmer non rispondono alle e-mail:
ascoltano e rispondono alle domande.
Il modo più discreto per controllare email, instant message e internet durante
una riunione è sui cellulari di ultima
generazione.
Gli smartphone, collegati a Internet,
con versioni mobili dello stesso programma Office che avete sul computer,
rendono più facile a chi è alla ricerca di
informazioni l’invio di una e-mail veloce.
Ma assicuratevi di tenere spenta la suoneria con La ragazza di Ipanema.
Repubblica NewYork
VII
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
SCIENZA E TECNOLOGIA
Allenare
la mente
a controllare
il dolore
di JASON PONTIN
Se le leggi del Brasile
colpiscono chi fa ricerca
di LARRY ROHTER
RIO DE JANEIRO — Marc van Roosmalen è un primatologo di fama mondiale le cui ricerche in Amazzonia hanno portato alla scoperta di cinque specie
di scimmie e di un nuovo primate.
Ma proprio a causa del suo lavoro,
recentemente van Roosmalen è stato
condannato a quasi 16 anni di carcere e
imprigionato a Manaus, in Brasile.
I suoi avvocati sono riusciti a farlo
uscire di prigione all’inizio di agosto e
stanno preparando l’appello contro la
condanna per bio-pirateria.
Gli scienziati, qui e all’estero, considerano il suo caso l’esempio più lampante
di quelle che definiscono le leggi e le politiche governative xenofobe, sempre
più contrarie alla ricerca scientifica.
“La ricerca deve essere stimolata,
non criminalizzata”, dice Enio Candotti, fisico e presidente da quattro anni
della Società brasiliana per il progresso
della scienza, l’ente scientifico più importante del Paese. “Ci troviamo invece
in una situazione dove alcuni burocrati
in un eccesso di zelo considerano tutti
colpevoli fino a prova contraria”.
A un convegno di biologia a luglio in
Messico, 287 scienziati di 30 Paesi hanno firmato una petizione che afferma
che l’arresto di van Roosmalen è “indicativo di una tendenza repressiva da
parte del governo brasiliano”.
Il governo dice di non avere desideri di vendetta contro gli scienziati e di
voler soltanto proteggere il patrimonio
naturale e genetico.
Il timore di episodi di bio-pirateria
— genericamente, ogni prelevamento o
trasporto non autorizzato di materiale
genetico o di flora e fauna vivente — è
radicato da tempo in Brasile.
Quasi un secolo fa, per esempio, il
boom del caucciù in Amazzonia finì dopo che Sir Henry Wickham, un botanico
ed esploratore britannico, ne contrabbandò i semi (che presto dominarono il
mercato internazionale) fuori dal Paese per spedirli nelle colonie di Ceylon e
Malaya, ora Sri Lanka e Malaysia).
Negli anni ’70, la casa farmaceutica
Marc van
Roosmalen, sopra,
è stato condannato
per biopirateria
per il suo lavoro
sulle scimmie
dell’Amazzonia in
virtù di una legge
che gli scienziati
ritengono troppo
rigida.
Lalo de Almeida per The New York Times; in alto a sinistra, Eraldo Peres/Associated Press
Squibb usò il veleno del serpente brasiliano bothrops jararaca, un tipo di vipera, per lo sviluppo del captopril, un principio attivo efficace contro l’ipertensione e contro l’insufficienza cardiaca
congestizia, senza pagare le royalties
che i brasiliani ritenevano fossero loro
dovute.
Più recentemente, alcune tribù indigene hanno protestato perché alcuni
campioni di sangue, prelevati in condizioni che ritengono non etiche, vengono
impiegati in ricerche genetiche in varie
parti del mondo.
Per impedire queste pratiche il Brasile ha varato negli ultimi anni una legislazione che risponde al sentimento nazionale, ma che, secondo gli scienziati,
parte dall’assunto che ogni ricercatore
sia coinvolto nella la bio-pirateria.
Per avviare delle ricerche bisogna
avere l’autorizzazione di ben cinque
agenzie governative.
E anche se la legge prevede che la
risposta non richieda più di 90 giorni,
secondo i ricercatori talvolta bisogna
attendere anche due anni.
Questo ha determinato una situazione nella quale molti ricercatori spesso
procedono presumendo che i permessi
saranno concessi.
Candotti stima che addirittura metà
delle ricerche in corso in Brasile possano essere irregolari.
“Se hanno potuto fermare van Roosmalen con accuse false, possono prendersela con ognuno di noi”, dice uno
scienziato che lavora a Manaus che
parla solo a condizione che non si faccia
il suo nome. Gli stranieri non sono gli
unici a lamentarsi.
Anche gli scienziati brasiliani parlano dei problemi che incontrano per ottenere l’approvazione alle loro proposte
di ricerca.
Il Consiglio nazionale per lo sviluppo
scientifico e tecnologico, la principale
agenzia governativa che si occupa della
ricerca scientifica, ha declinato l’invito
a commentare il caso van Roosmalen o
le proteste di altri studiosi.
I legali di van Roosmalen, nato in
Olanda ma naturalizzato cittadino
brasiliano, dicono che il loro assistito è
più che altro vittima di un sentimento
xenofobo dettato dal timore della biopirateria.
“Questo processo è stato condotto in
modo totalmente irregolare e con accuse montate”, afferma Miguel Barrella,
uno degli avvocati di van Roosmalen.
“Non sono riusciti a provare le accuse
di bio-pirateria e hanno inventato una
serie di accuse false”.
Nel corso degli ultimi vent’anni, van
Roosmalen si è scontrato frequentemente con le autorità brasiliane. Anche i suoi più ardenti difensori dicono
di quanto sia testardo, irascibile e per
niente deferente nei confronti dell’autorità.
Ciononostante, Wim Veen, un suo ex
compagno di studi e uno dei fondatori di
Help Marc van Roosmalen, un comitato
in sua difesa che ha sede in Olanda, sostiene che queste pecche non hanno alcun peso se vengono messe a confronto
con le ben più vaste questioni che sono
in gioco.
“Se c’è qualcuno in Brasile che sta difendendo l’Amazzonia, questo è Marc”,
dice Veen, “ed è incredibile che sia
proprio lui a essere la vittima di leggi
concepite per combattere quelli che vogliono appropriarsi delle ricchezze della foresta pluviale per i propri benefici
materiali”.
Uno scienziato esorta la gente a fidarsi del proprio istinto
di CLAUDIA DREIFUS
Due anni fa, quando Malcom Gladwell pubblicò il suo bestseller Blink: The
Power of Thinking Without Thinking, i
lettori entrarono in contatto con le teorie
di Gerd Gigerenzer, un ricercatore tedesco esperto di psicologia sociale.
Gigerenzer, che dirige l’Istituto Max
Planck per lo sviluppo umano, a Berlino,
è famoso, nell’ambito delle scienze sociali, per i suoi rivoluzionari studi sulla
natura del pensiero intuitivo. Prima della sua ricerca, questo argomento veniva
spesso liquidato come superstizione.
Gigerenzer, che ha 60 anni, è riuscito a
mostrare il funzionamento di determinati aspetti dell’intuizione e di come
questa possa essere usata con efficacia
nella vita moderna. Adesso ha scritto
Gut Feelings: The Intelligence of the
Unconscious, che spera incontri lo stesso
successo. “Ho apprezzato il libro di Gladwell”, ha detto Gigerenzer durante una
visita a New York, a luglio. “Ha diffuso la
conoscenza dell’argomento, comprese le
mie ricerche, tra il grande pubblico”.
D: Che cos’è una reazione istintiva?
R: E’ un giudizio rapido, che si manifesta
velocemente nella coscienza di un individuo. L’individuo non sa perché prova
questa sensazione, ma è una sensazione
abbastanza forte per spingerlo ad agire.
Una reazione istintiva non è un calcolo, è
qualcosa che non sai bene da dove venga.
Le mie ricerche indicano che le reazioni istintive si basano su alcune semplici
regole pratiche, quelle che gli psicologi
Gerd Gigerenzer
studia le
reazioni “di
pancia”.
Oliver Hartung per The New York Times
definiscono “euristiche”. Sfruttano determinate capacità del cervello che si
sono formate con il tempo, l’esperienza e
l’evoluzione. Le reazioni istintive spesso
sono basate su semplici indizi che sono
presenti nell’ambiente. Nella maggior
parte delle situazioni, quando la gente
usa l’istinto si affida a questi indizi e ignora altre informazioni non necessarie.
D: Le
reazioni istintive non godono di
buona reputazione. Perché?
R: Perché non sono giudicate razionali. Uno dei fondatori del vostro Paese,
Benjamin Franklin, suggeriva a suo
nipote di assumere l’approccio di un ragioniere, stilare un elenco dei pro e dei
contro e decidere dopo aver soppesato
ogni aspetto, quando si trattava di prendere decisioni importanti. Questo è il
classico approccio razionale.
D: E’ così che prendo le mie decisioni. È
sbagliato?
R: In certe situazioni, un approccio simi-
le richiede un numero eccessivo di informazioni. E’ un processo lento. Affidarsi
alle proprie reazioni istintive e seguire
la regola pratica del “dai retta alla prima impressione e ignora tutto il resto”
ti può consentire di ottenere risultati
migliori di quelli a cui arriveresti con i
calcoli complessi.
D: In quali situazioni le reazioni istintive
possono essere fuorvianti?
esempio è quello che è successo
dopo l’11 settembre: molti americani
hanno smesso di prendere l’aereo, preferendo fare gli spostamenti in macchina.
Ho dato un’occhiata ai dati, ed è uscito
fuori che nei dodici mesi successivi agli
attentati, le vittime di incidenti stradali
R: Un
sono cresciute di 1.500 unità. Gli americani hanno dato retta alle loro paure,
e questo ha provocato un aumento dei
morti sulle strade. Fatalità come queste
si possono evitare facilmente, ma i governi non prendono molto sul serio la psicologia. La maggior parte delle ricerche
sui metodi per combattere il terrorismo
si concentrasu aspetti tecnologici e burocratici. Educare l’opinione pubblica su
questa questione avrebbe potuto salvare
delle vite umane.
D: Alcuni detrattori sostengono che le
reazioni istintive hanno poco di scientifico. Che risponde?
R: Studiamo queste cose, cerchiamo di
capire in quali casi l’intuizione può essere utile e quando non lo è . Nella stessa scienza l’intuizione riveste un ruolo
insostituibile. Tutti i grandi ricercatori,
almeno in parte, si affidano all’istinto.
D: Si ritiene un individuo intuitivo o ra-
zionale?
R: Nel mio lavoro scientifico mi capita di
avere delle intuizioni. Non sempre sono
in grado di spiegare perché penso che un
determinato metodo sia quello giusto,
ma ho bisogno di crederci e di andare
avanti. Sono in grado di sottoporre a
verifica queste intuizioni, di scoprire su
cosa si fondano.
Nella mia vita privata, invece, mi affido all’istinto. Quando ho incontrato per
la prima volta mia moglie, ad esempio,
non mi sono messo a fare calcoli. E neanche lei.
Se bastasse il pensiero, si dice talvolta. Ma Christopher deCharms, amministratore delegato della Omneuron, una
nuova società di Menlo Park, California,
ne è convinto.
La società che ha fondato ha ideato
tecnologie che insegnano ad allontanare il dolore con il pensiero e progetta di
trattare in modo analogo la dipendenza,
la depressione e altri disturbi neurologici e psicologici incurabili.
La Omneuron è tra le nuove società
che commercializzano una tecnologia di
scansione cerebrale chiamata risonanza magnetica funzionale in tempo reale, o fMRI. Utilizzando gli scanner per
misurare il flusso sanguigno nelle varie
aree cerebrali questa tecnologia evidenzia l’attività cerebrale rivelando quali
aree sono più attive nello svolgimento di
compiti diversi.
Pur risalendo ai primi anni ’90, la
fMRI è stata finora utilizzata soprattutto negli ospedali per la diagnostica. La
commercializzazione degli scanner cerebrali è uno sviluppo recente, stimolato dal perfezionamento della tecnologia.
La Omneuron, fondata da deCharms nel
2001 e finanziata dall’Istituto nazionale
di sanità, utilizza la fMRI per insegnare alle persone a usare la testa. Altri
imprenditori lavorano sulle modalità
di impiego della fMRI come macchina
della verità, strumento per condurre ricerche di marketing o per aumentare la
sicurezza e la precisione degli interventi
neurochirurgici.
Ecco come la Omneuron utilizza la
fMRI nella terapia del dolore cronico:
il paziente posizionato all’interno dello
scanner, come in una bara, osserva una
fiamma generata al computer che viene
proiettata sullo schermo di occhiali da
realtà virtuale. L’intensità della fiamma
rispecchia l’attività neurale delle aree
Lo scanner può essere
utilizzato nella terapia
contro la depressione.
cerebrali coinvolte nella percezione del
dolore.
Utilizzando una serie di tecniche mentali — ad esempio immaginando che
un’area dolente venga inondata di sostanze chimiche lenitive — la maggior
parte dei pazienti riesce, con un po’ di
concentrazione, a far crescere e decrescere la fiamma. Il paziente si sente meglio quando la fiamma si affievolisce.
Apparentemente simile ad una tecnologia già esistente, il biofeedback encefalografico, che misura il feddback elettrico
attraverso molteplici aree del cervello,
il feedback fMRI misura l’emodinamica
in determinate aree cerebrali.
“Siamo convinti che il feedback fMRI
in tempo reale sarà utilizzato per affinare strategie cognitive che intensificheranno l’attivazione delle regioni cerebrali”, dice deCharms. Con l’esercizio
e la ripetizione, si augura, il paziente
riuscirà a suscitare l’effetto desiderato
senza ricorrere alla macchina.
In uno studio del 2005 deCharms e Sean
Mackey, vice direttore della divisione per
la terapia del dolore alla Stanford University, dimostrarono che otto pazienti affetti da dolore avvertirono una riduzione del
disagio pari al 64 per cento utilizzando la
tecnologia Omneuron.
La Omneuron sta inoltre studiando terapie per la dipendenza, la depressione e
altre patologie psicologiche. Nel campo
della dipendenza, dice deCharms, la società ha preso in considerazione “svariate
dozzine di applicazioni”, inclusa la terapia
dell’ictus e dell’epilessia. Lo scanner cerebrale potrebbe addirittura essere usato
per migliorare le prestazioni atletiche.
Medici ed esperti di abuso di sostanze
stupefacenti sono entusiasti all’idea di curare la dipendenza utilizzando la fMRI.
“Potremmo disporre di uno strumento
per controllare la sensazione interiore di
desiderio”, dice Nora D. Volkow, direttrice del National Institute on Drug Abuse,
che ha contribuito a finanziare la ricerca
della Omneuron sulla dipendenza.
Jason Pontin è direttore ed editore di
Technology Review, rivista e sito web di
proprietà del Massachusetts Institute
of Technology.
VIII
LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007
ARTI E TENDENZE
In un’opera il lamento di una schiava in fuga
di MATTHEW GUREWITSCH
Frank Masi/20th Century Fox
Dopo 12 anni Bruce Willis, a
sinistra, torna nei panni di John
McClane in “Die Hard 4”.
Ci sono sequel
e sequel
spazzatura
Per me è tutta colpa di Aliens. Anche
se 12 anni prima, nel 1974, Il Padrino
parte seconda aveva dimostrato che
un sequel poteva essere un successo di
pubblico e di critica, fu l’entusiasmante
incontro tra alieni e
militari diretto da James Cameron, secondo
atto dell’elegante incubo
JEANNETTE
CATSOULIS
spaziale di Ridley Scott,
a smuovere le acque.
Aliens dimostrò che cambiando regista
e con l’aggiunta di qualche sceneggiatore si può mutare l’atmosfera, la grammatica visiva e la sensibilità generale
del film originale, compiacendo i critici
e recuperando almeno quattro volte i
costi di produzione.
Anche se, da allora, pochi sequel hanno mantenuto la promessa, anche i peggiori ripagano normalmente le spese.
Nell’incertezza del mondo di Hollywood
equivale ad un successo e considerando
che i costi del marketing spesso fanno
concorrenza a quelli di produzione è facile capire perché gli studios restino fedeli
a progetti che sono diventati un marchio.
Così può anche darsi che Shrek Terzo
si riveli deludente, ma se la delusione
si traduce in un incasso al botteghino
superiore a 300 milioni di dollari negli
Stati Uniti, è garanzia che il nostro orco
grassottello e la principessa Fiona ci regaleranno altre flatulenze nel prossimo
futuro.
Più difficile è spiegarsi perché il pubblico torni in sala. I fan che tollerano la
ripetitività e la miseria ideologica della
saga di Rush Hour, ora a tre episodi, testimoniano quanto possano la speranza
e il bisogno di certezze quando la guerra
in Iraq prosegue e le pensioni e i ghiacci
polari vanno scomparendo.
Forse è in risposta a questa sensazione che Hollywood ha sfornato quest’estate una quantità senza precedenti
di sequel, nove in tutto, che per lo più
hanno fruttato incassi soddisfacenti se
non il plauso della critica. Ma soli tre
film hanno avuto successo su entrambi
OPINIONE
La sfida è creare un eroe
che cambia senza
rinunciare alla sua indole.
i fronti: The Bourne Ultimatum, Harry
Potter e l’Ordine della fenice e Die Hard
4 - Vivere o morire. Pur non essendo
capolavori artistici e neppure oggetto
di plauso unanime tutti e tre sono film
intelligenti, divertenti e, cosa più importante, astutamente in sintonia con le
aspettative del loro pubblico.
Mettendo in campo eroi riconoscibili
con chiare debolezze (dall’amnesia,
all’inesperienza, a una figlia in pericolo), tutti hanno portato avanti il loro
discorso narrativo pur rimanendo
fedeli alla personalità già definita dei
protagonisti.
Uscendo a dodici anni di distanza dall’ultima pellicola della serie, Die Hard
4 è arrivato nelle sale svantaggiato
rispetto ai concorrenti.
Ma facendo leva sui timori di guasti
del sistema informatico e di un disastro
finanziario tipici di una pubblico più anziano, ha unito almeno due generazioni
nell’ansia da modernità e nella beatitudine da popcorn.
Molto del merito va a Bruce Willis,
che scolpisce l’irascibile personaggio di
John McClane con rassegnata sopportazione. Quando un pericolo si profila
all’orizzonte McClane trattiene il respiro, alza gli occhi al cielo e va al lavoro.
Così quando uscirà la prossima puntata
della saga di Die Hard noi saremo lì a
rispondere all’appello, se non altro perché lui ha sempre risposto al nostro.
Nell’autunno del 2002, il compositore
Richard Danielpour lavorava all’Accademia americana di Berlino. Stava orchestrando il primo atto della sua prima
opera, Margaret Garner, ma era ancora
in attesa delle parole per le scene conclusive. Per intere settimane aveva inseguito telefonicamente a Princeton, in New
Jersey, la sua librettista, la premio Nobel
Toni Morrison, che gli aveva tranquillamente risposto: “Le cose belle richiedono tempo. Devi aspettare”.
Finalmente, alla fine di ottobre, il fax
aveva iniziato a sfornare pagine e pagine. Danielpour le ha messe insieme, se ne
è andato in macchina fino allo splendido
Hotel Adlon Kempinski, ha ordinato il
pranzo e dopo aver iniziato la lettura si è
ben presto ritrovato in lacrime. Di recente ha raccontato questo episodio a New
York, dove erano in corso le prove per
la prima locale di Margaret Garner, al
New York City Opera, e ha aggiunto che
poiché si era accorto che aveva smesso di
mangiare, un cameriere gli si era accostato chiedendo: “Mi scusi, signore, c’è
qualcosa che non va nel suo risotto?”
Ai suoi tempi, Margaret Garner fu un
caso clamoroso: era una schiava fuggita
del Kentucky, che tagliò la gola a una figlia per non vederla di nuovo schiava. Se
i cacciatori di schiavi non glielo avessero
impedito, probabilmente avrebbe finito
con l’uccidere anche gli altri figli e si sarebbe suicidata.
Il suo fu il processo più lungo a una
schiava della metà del XIX secolo di cui
si abbia notizia. Il punto centrale del processo era stabilire se dovesse essere giudicata come un essere umano, in grado
quindi di distinguere quello che è giusto
da quello che è sbagliato, o come semplice proprietà, quindi come un oggetto.
Nell’opera il tribunale deve decidere se il
Nella scena
d’apertura
dell’opera
“Margaret Garner”
la protagonista
(Denyce Graves,
al centro) e le
altre schiave
sono all’asta. Nel
suo libretto Toni
Morrison, sotto,
aspirava a una
lingua “pienamente
sentita”.
John Grigaitis/Michigan Opera Theater
suo crimine sia l’omicidio o il furto, visto
che di fatto distrugge una proprietà.
La storia di Garner, intessuta di realismomagico,sibasasull’apprezzatissimo
romanzo di Morrison intitolato Beloved,
nel quale i morti sono una presenza fisica
al pari dei vivi. Per Morrison, tuttavia,
il punto centrale dell’intera opera è il dibattimento legale. Il libretto è molto più
aderente alla realtà storica di quanto
non lo fosse il romanzo. Ma anche così la
scrittrice si è presa le sue libertà.
La vera Garner, per esempio, morì
annegata, mentre nell’opera un’inesorabile logica drammatica la porta sulla
forca. Toni Morrison non risparmia alla
sua protagonista il castigo, ma le offre
anche un’epifania lirica. Dopo aver finito di leggere quelle scene, Danielpour ha
telefonato a Morrison e le ha detto: “Sono
perfette, ben più di quello che avevo sperato”. La scrittrice ha risposto: “È il testo più difficile che abbia mai scritto”.
Danielpour, 51 anni, non si è dedicato
all’opera così tardi come potrebbe sembrare: “Per anni mi sono sentito una
sorta di compositore lirico sotto mentite
Ed Alcock per The New York Times
spoglie”, dice. “Non riuscivo a scrivere
neppure un pezzo strumentale senza
avere segretamente in mente una scena
drammatica tutta mia”.
Il sodalizio con Morrison, 76 anni, risale al 1993, quando insieme collaborarono
al ciclo di canzoni Sweet Talk per Jessye
Norman.
Non appena Morrison lanciò l’idea di
pranzare insieme per parlare di un altro progetto, Danielpour accettò senza
indugi. Entrambi, si scoprì in seguito,
avevano in mente la storia di Margaret
Garner.
In unmessaggio di postaelettronicada
Princeton, Morrison riprende a raccon-
tare la storia: “Dopo averne parlato per
mesi e mesi, ho ricevuto tramite Danielpour una sorta di ‘trattamento’ perfezionato. Leggendolo, l’ho trovato ‘scorretto’
in alcuni punti, tanto da volerlo correggere. Ho iniziato a riscriverlo, e alla fine ho
scritto il libretto”.
Danielpour voleva una lingua “a metà
strada tra prosa e poesia”, ha detto, mentre lei invece era ossessionata dal desiderio di trovare una lingua che fosse “lirica, pienamente sentita e immaginata”.
Puntava a un ibrido di opera europea e
musical americano, imbevuto di rhythm
and blues, gospel e spiritual con cui è cresciuto.“Quellanonèsemplicemusicache
ascolto o mi piace”, dice. “Adoro quella
musica. Sono cresciuto in Florida negli
anni Sessanta: ero un bambino ebreo
bianco profugo, un americano di prima
generazione con i genitori nati in Iran, e
ascoltavo tutte quelle cose con il filtro del
Sud razzista”.
Danielpour spiega che voleva che la
parte cantata risultasse vicina alle tradizionioraliamericane,con“menovibrato,
e un tono più diretto”.
Lenoteprincipalisonocostellateditocchi digrazia,un modo concui Danielpour
indica che devono essere eseguite sotto
tono, come quando si canta un gospel.
“L’annotazione è imperfetta”, dice.
“Ma non volevo che Margaret paresse
aver appena finito di cantare la Tosca.
Volevo che dalla sua voce si capisse che
hatrascorso l’interavitaacantare in una
chiesa battista”.
Il racconto della schiavitù è esplosivo
di suo e, come osserva Morrison, ci sono
molte interpretazioni possibili.
“Alcune volevano che Margaret Garner contenesse tutto ciò che è possibile dire della schiavitù, ma non era realistico”,
dice. “La nostra è una delle possibili interpretazioni. Una di cui andiamo fieri”.
Portare il paesaggio dell’Islanda in un museo
di DOROTHY SPEARS
Olafur Eliasson è sospeso sopra
una scala appoggiata a una cavità del
ghiacciaio Vatnajokull, in Islanda. Il
buco, profondo dai 180 ai 275 metri,
somiglia a una cicatrice che si sta
sciogliendo sulla superficie apparentemente impenetrabile del ghiacciaio.
Nel giro di due giorni Eliasson e la sua
squadra, che conta tra gli altri un geologo esperto di ghiacciai e un architetto di esterni, ne hanno scoperti 35, i più
piccoli abbastanza larghi “da poterci
entrare dentro”, ha detto Eliasson diversi giorni più tardi, una volta rientrato nel suo studio di Berlino. I più
grandi erano di circa 1,8 metri tanto
“da poter ingoiare un’utilitaria”.
I buchi sono dovuti a un incremento
delle acque durante il disgelo del ghiacciaio, che è il più grande d’Europa. Le
fotografie appaiono tra oltre 20 installazioni su larga scala che usano luce,
nebbia, acqua, specchi e altre prodezze ingengeristiche a bassa tecnologia
in Take your time: Olafur Eliasson, la
prima importante mostra-indagine
dell’artista negli Stati Uniti inaugurata al Modern Art di San Francisco.
Da oltre dieci anni Eliasson, 40 anni, esibisce nel mondo opere di grandi
dimensioni che è difficile non amare o
che quanto meno difficilmente lasciano indifferenti. Ricreando gli effetti
sensoriali dei paesaggi islandesi in
contesti artificiali, come i musei, trasmette il rapporto fisico e emotivo che
lo lega a fenomeni naturali spettacolari.
Arcobaleni che brillano tra goccioline d’acqua, stanze immerse in un
unico, intensissimo colore, cascate al
contrario e percorsi caleidoscopici sono alcune delle meraviglie per la vista,
l’udito, l’olfatto e il tatto.
“Certamente Olafur appartiene a
questa generazione di artisti che trovano nelle mostre internazionali il
loro sbocco migliore”, dice Madeleine
Grynsztejn, curatrice del Modern Art
di San Francisco e tra i principali organizzatori della mostra.
Gli estimatori di Eliasson hanno
affollato musei, anche se a volte lui è
scettico nei confronti dell’attenzione
che circonda il suo lavoro.
Nell’inverno del 2003-2004 il suo
Weather Project — un gigantesco sole
finto, fatto con 200 lampadine gialle al
sodio e qualche trucchetto, come l’impiego di specchi e nebbia — ha richiamato alla Tate Modern più di due milioni di visitatori. Ma Eliasson rifiutò
la richiesta di prolungare la mostra.
“L’attenzione dei media era molto
lusinghiera”, ricorda seduto a un tavolo vicino a un imbarcadero che si
Magnus Hjorleifsson; riquadro, Olafur Elijasson
Olafur Eliasson si serve di luci, nebbia e immagini per evocare
fenomeni naturali. Sopra sta fotografando un ghiacciaio che si sta
riducendo in Islanda. “Beauty”, a sinistra, è un arcobaleno artificiale.
esperienza artistica il progetto
potesse trasformarsi in stupido
intrattenimento”.
Eliasson, nato a Copenhagen
da genitori islandesi, aveva otto
anni quando i suoi si separarono
e suo padre, un artista, tornò in
Islanda, dove il giovane Eliasson trascorse le estati e le vacanze. “Tutte le cose che dovevo
fare erano danesi”, dice. “Tutte
quelle che volevo fare erano in
Islanda”.
Nello studio di suo padre, racconta, si divertiva con la vernice. A 15 anni, in Danimarca,
tenne la sua prima mostra personale in una piccola galleria
alternativa. Nel 1993, quando
iniziò a lavorare alle installazioni per cui oggi è conosciuto,
era ancora studente e frequenTanya Bonakdar Gallery, New York
tava l’Accademia d’arte reale a
trova davanti al retro del suo studio Copenhagen.
Come altri artisti della sua generadi Berlino, tra alberi spogli, erba e
binari abbandonati. “Ma stava diven- zione, non lavora da solo. Dopo il suo
tando brutale. C’era il rischio che da recente viaggio in Islanda il vecchio
deposito di treni, che oggi è il suo studio, pullulava di gente. All’ombra delle
travi, sotto le stampe che illustrano
miriadi di progetti, erano al lavoro
quasi una dozzina di architetti. Il viaggio fotografico è stato l’ultima tappa di
una serie.
“Tutto iniziò con delle foto scattate
mentre passeggiavo o durante alcuni
viaggi in campagna”, dice. Quando iniziai il ghiacciaio non sembrava che si
stesse riducendo. “Dieci anni fa”, dice,
“non era un grande problema”.
Collocate in una griglia, le foto suggeriscono l’immagine di un muro su
cui si aprono delle finestre. “Mi piace
l’idea”, dice, “che ci si possa avvicinare a ciascuna finestra e ascoltare una
storia diversa”.
Ogni finestra racconta una storia,
ma l’implicito, inquietante filo conduttore è soltanto uno: “Il ghiacciaio
sta sparendo”, dice Günther Vogt, un
architetto di esterni di Zurigo che ha
accompagnato Eliasson nel suo recente viaggio. “E noi ne siamo responsabili”.
Repubblica NewYork
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