Supplemento al numero odierno de la Repubblica Sped. abb. postale art. 1 legge 46/04 del 27/02/2004 — Roma LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 Copyright © 2007 The New York Times Rina Castelnuovo per The New York Times Nel caos della guerra i bambini sono costretti a trovare un modo per sopravvivere. Mahmoud, 10 anni, è tra i tanti che rovistano nei rifiuti a Ad Deirat, in Cisgiordania. Nella culla del conflitto Piccoli palestinesi al lavoro per rivendere i rifiuti dei coloni Arabi contro arabi, il nuovo fronte del Darfur di JEFFREY GETTLEMAN di STEVEN ERLANGER NYALA, Sudan — Alcune tribù, accusate di massacrare civili nella regione del Darfur, hanno ora rivolto le armi l’una contro l’altra, scatenando una lotta dove muoiono centinaia di persone e costringendo altre tribù ad abbandonare i villaggi. I Terjem e i Mahria, due tribù arabe ben armate che, secondo alcuni funzionari delle Nazioni Unite, quando facevano parte delle famigerate milizie janjaweed si sono macchiate di stupri e saccheggi, nei mesi scorsi hanno iniziato a farsi la guerra, sparandosi dai pickup o dai cammelli nel sud del Darfur. Secondo le organizzazioni umanitarie e gli stessi combattenti, le due tribù ora assaltano i rispettivi villaggi e costringono i membri della tribù avversaria a fuggire in quegli stessi campi profughi che ancora ospitano alcune delle loro precedenti vittime. I funzionari dell’Onu dicono che ancora più a sud si sono intensificati anche gli scontri tra altre due tribù, quella degli Habanniya e dei Salamat. Nel Darfur, la violenza spesso ha assunto la forma di massacri compiuti dalle tribù arabe sostenute dal governo contro le tribù AD DEIRAT, Cisgiordania — Non appena i camion scaricano l’immondizia i bambini ci si avventano come mosche. Alcuni penzolano dai pistoni idraulici del pianale posteriore del camion, poi si lasciano cadere sulla montagna di rifiuti per afferrare un pezzo di metallo, una lattina schiacciata, la bottiglia di una bibita, una maglietta maleodorante. Uno scivola giù e per un momento scompare sotto i rifiuti, mentre il camion si sposta più avanti per rovesciare il suo carico. Riaffiora di nuovo, perde l’equilibrio su un mucchio di interiora di animali, si aggrappa a un fascio di fronde e arbusti potati nel giardino di qualcuno. Un altro trova una piccola bandiera israeliana di nylon e cerca di farla a pezzi con i denti. Uno dissotterra un ombrellino lilla, mostrandolo con orgoglio ai suoi segue a pagina IV Evelyn Hockstein per The New York Times La lotta tra milizie arabe ha spinto molte famiglie a rifugiarsi nei campi profughi, come questa che si trova nel Darfur meridionale. amici. I più scavano diligentemente alla ricerca di oggetti di metallo che mettono nei sacchi di nylon che si portano dietro. Più in là, su una collinetta di spazzatura alta circa tre metri, un bambino se ne sta seduto da solo. Ha trovato un pacchetto di cracker ancora confezionati, e li mangia lentamente, quasi meditando. I bimbi fanno parte di una estesa colonia di cercatori, circa 250 persone che rovistano nelle maleodoranti colline di spazzatura per sopravvivere insieme alle loro famiglie. La maggioranza non ha nemmeno sedici anni. Alcuni dormono qui durante la settimana, per incrementare al massimo le ore di ricerca di oggetti che potranno rivendere. Molti sono imparentati tra loro, appartengono a un ristretto numero di clan che ha una sorta segue a pagina IV La lunga ombra di Fidel Castro sui frigoriferi ‘made in Usa’ di SIMON ROMERO Fast food messo a nuovo McDonald’s sta aggiornando il suo design e i suoi piatti in Europa. ECONOMIA VI Giro di vite in Amazzonia Gli scienziati dicono che le leggi contro la biopirateria criminalizzano il loro lavoro. SCIENZA E TECNOLOGIA VII L’AVANA - Chiunque sia convinto che la guerra fredda si finita anni fa, non ha visto da vicino le cucine delle famiglie cubane. Un Fidel Castro sofferente, prima di sparire dalla vita pubblica, ha arruolato l’industria cinese per liberarsi di alcuni dei totem più indistruttibili dell’imperialismo americano: i frigoriferi Frigidaire, Kelvinator e Westinghouse degli anni ’50. Al centro di un progetto per migliorare l’efficienza energetica del Paese affamato di liquidità, il governo ha acquistato più di 300.000 frigoriferi cinesi per sostituire quelli americani eliminando quello che Castro chiama “i draghi che divorano la nostra elettricità”. La loro sconfitta però (e anche quella di qualche modello sovietico importato negli anni ’70) ha suscitato nell’isola dispiacere e ansia. In decenni di isolamento dall’economia americana e dalla prosperità del mondo, ai cubani è stato insegnato a essere orgogliosi della loro abilità di continuare a far funzionare quelle meraviglie meccaniche – tra cui - un grande successo a Cuba, che quest’anno girerà l’Europa. Gli artisti Alejandro ed Esteban Leyva hanno attaccato a un vecchio frigorifero della General Electric dipinanche le vecchie Cadillac e le to color verde militare delle Lada russe. medaglie, rinominandolo “Mi hanno portato via il “General Eléctrico”. mio señor per sostituirlo con Un altro artista, Alexis un tipino”, dice una cuoca di Leyva, ha aggiunto al suo 47 anni che vive nel quartiere frigo dei remi, ispirandosi alReparto Zamora ne L’Avana le barche improvvisate con occidentale. cui i cubani lasciano illegalDopo averci fatto accomente l’isola. Altri sono stati Jose Goitia modare in cucina, indica lo trasformati in automobili, snello frigorifero Haier cine- Una campagna per sostituire i frigoriferi americani con in grattacieli, in un cavallo se che ha sostituito l’ingom- nuovi modelli cinesi suscita nostalgia in alcuni cubani. di Troia o in una cella di pribrante Frigidaire rosa che la gione. famiglia ha avuto per 24 anni. Tuttavia a Cuba la necessiDice di chiamarsi Moraima Hernández, letta dell’elettricità. La preoccupazione tà spesso ha la meglio sul sentimentalima con un gesto fa capire che quello non dei cubani però è il costo di questi modelli smo. è il suo vero nome - solo così se la sente di cinesi: circa 200 dollari, cioè una piccola Presso i demolitori stanno arrivando parlare senza temere rappresaglie. Il suo fortuna in un paese dove il salario medio migliaia di frigoriferi da cui viene riciclavecchio frigorifero era così grande, dice mensile è di circa 15 dollari. to tutto il possibile. con nostalgia, che poteva contenere due Ispirandosi all’ingenuità necessaria “Dove sono finiti i vecchi frigoriferi?” per far funzionare così a lungo i frigori- si è chiesto Granma, il giornale del Parcosciotti di maiale. Nella campagne di promozione que- feri americani, l’anno scorso, un gruppo tito comunista in uno degli articoli sulla sto programma di scambio è presentato di artisti cubani ne ha trasformati 52 in campagna per l’efficienza energetica di come un’opportunità per dimostrare il altrettante opere d’arte, allestendo una Cuba. E l’articolo continuava: “A loro abproprio patriottismo riducendo la bol- mostra chiamata “Istruzioni per l’uso” biamo chiesto proprio tutto’’. Repubblica NewYork II LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 MONDO Un giudice indiano diventa un eroe per i nazionalisti giapponesi di NORIMITSU ONISHI TOKYO — Un giudice indiano, che a 40 anni dalla morte viene ricordato da un numero sempre inferiore di connazionali, continua a essere apprezzato in Giappone. Solo nelle ultime settimane, l’emittente di stato Nhk ha dedicato alla sua vita 55 minuti, e in un libro da 309 pagine uno studioso ha analizzato il suo pensiero e il suo impatto sul Giappone. Durante una recente visita in India, il premier Shinzo Abe ha reso omaggio al giudice con un discorso davanti al parlamento indiano di Nuova Delhi, e si è poi recato a Calcutta per incontrare il figlio ottantunenne. Due anni fa al santuario Yasukuni che commemora i caduti di guerra del Giappone ed è un luogo di pellegrinaggio per i nazionalisti giapponesi – è stato eretto un monumento al giudice che offre qualche indizio sulla sua identità: Radhabinod Pal, l’unico degli 11 giudici alleati che al Tribunale militare internazionale per l’Estermo oriente del secondo dopoguerra non emise un verdetto di colpevolezza nei confronti dei principali leader giapponesi. “Il giudice Pal continua ad essere rispettato da molti per il coraggio che esibì durante il Tribunale militare internazionale per l’Estermo Oriente”, ha detto Abe al parlamento indiano. Molti leader e pensatori giapponesi nazionalisti considerano da tempo il giudice Pal un eroe, e si rifanno al dissenso che manifestò in occasione del Tribunale di Tokyo per sostenere che la guerra scatenata in Asia dal Giappone non fu aggressiva ma di autodifesa e liberazione. Negli ultimi anni, mentre è cresciuto il potere di politici nazionalisti come Abe e il numero di professori universitari e giornalisti che sostengono una concezione revisionista della storia del Giappone, il giudice Pal è tornato a far parlare di se’. Durante la visita al parlamento e i venti minuti di incontro con Prasanta, il figlio del giudice, Abe, che in passato ha espresso dubbi sulla validità del Tribunale di Tokyo, ha evitato di aggiungere particolari sulle sue opinioni. Ma il vero significato dell’incontro non è passato inosservato ad alcuni giornali giapponesi, che hanno messo in guardia su come un simile gesto non avrebbe contribuito a migliorare la già modesta immagine del Giappone agli occhi dei paesi vicini. Alla fine del conflitto gli Alleati suddivisero i crimini dei giapponesi in categorie: i reati convenzionali di guerra – divisi nelle categorie B e C – furono affidati a tribunali locali in tutta l’Asia mentre 25 leader accusati di reati di categoria A per il loro coinvolgimento in guerre di aggressione e per aver commesso crimini contro la pace e l’umanità, furono processati a Tokyo da giudici di 11 paesi. Nonèchiaroilmotivopercuileautorità Nel santuario Yasukuni sorge un monumento dedicato al giudice indiano Radhabinod Pal, che votò per assolvere i leader giapponesi dai crimini di guerra. Ko Sasaki per The New York Times britanniche e americane scelsero il giudice Pal, già membro della Corte Suprema di Calcutta che nutriva forti simpatie verso la lotta anticoloniale in India. Da nazionalista asiatico, vedeva le cose in modo molto diverso dagli altri giudici. Nel suo processo di colonizzazione di alcune regioni dell’Asia il Giappone non aveva fatto altro che imitare le potenze occidentali, disse Pal e in un lungo documento di dissenso dichiarò che si trattava di un “impiego pretestuoso del procedimento giuridico in nome della soddisfazione di una sete di vendetta”. E pur riconoscendo le atrocità di guerra compiute dal Giappone – compreso il massacro di Nanchino – dichiarò che questi rientravano nelle categorie B e C. Dei 25 imputati giapponesi dichiarati colpevoli dagli altri giudici Pal scrisse: “Ritengo che ciascuno degli accusati debba essere ritenuto colpevole di ogni capo di accusa e assolto da ogni capo di accusa”. Il giudice definì i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki da parte degli Stati Uniti come le atrocità peggiori compiute durante la guerra, paragonabili ai crimini nazisti. Takeshi Nakajima, professore associato alla Scuola di amministrazione pubblica della Hokkaido University e autore del libro Giudice Pal, uscito a luglio, dice che i giapponesi critici nei confronti dei processi si basano solo su alcuni passaggi del suo documento di dissenso. “Pal fu molto duro con il Giappone, anche se si espresse con molta severità nei confronti degli Stati Uniti”, dice Nakajima. “Per lui tutte le potenze imperialiste appartenevano allo stessa banda. Aveva un atteggiamento coerente”. I politici del dopoguerra misero da parte le sottigliezze e invitarono diverse volte il giudice Pal in Giappone, ricoprendolo di onori. Tra i suoi sostenitori ci fu Nobusuke Kishi, che è stato premier alla fine degli anni ’50, già sospettato di essere un criminale di guerra di categoria A che però non venne mai incriminato. Kishi è il nonno di Abe ed è il suo modello politico. Per molti versi il giudice Pal sembrava condividere i sentimenti che molti indiani anticolonialisti nutrivano verso il Giappone. Come paese asiatico in grado di competere con le potenze occidentali il Giappone suscitava ammirazione - ma la sua colonizzazione dell’Asia era motivo di rammarico, dice Sugata Bose, storico dell’Asia meridionale ad Harvard. “Dal punto di vista del Sud e del Sud-est asiatico, l’immagine è complessa”. “Esiste un certo livello di gratitudine per l’aiuto offerto dai giapponesi. Al tempo stesso, sul Giappone gravavano anche pesanti sospetti’’. Remake della musica persiana per suonare canzoni di protesta di NAZILA FATHI Associated Press; Thomas Fuller/International Herald Tribune, sotto DIARIO DA BANGKOK Nella guerra dei nomignoli ‘Seven’ è out, ‘Ouan’ è in di THOMAS FULLER BANGKOK - A memoria d’uomo, in Thailandia i bambini hanno sempre avuto nomignoli scherzosi – tra i “classici” ricordiamo “Gamberetto”, “Ciccio” e “Granchio” - che si trascinano sino all’età adulta. Adesso però, con rammarico di alcuni puristi del soprannome, vengono assegnati loro strani soprannomi in inglese, come “Mafia” o “Seven” – nel senso di 7-Eleven, la catena di piccoli supermercati. Il diffondersi di nomi stranieri ris- Direttore responsabile: Ezio Mauro Vicedirettori: Mauro Bene, Gregorio Botta, Dario Cresto-Dina Massimo Giannini, Angelo Rinaldi Caporedattore centrale: Angelo Aquaro Caporedattore vicario: Fabio Bogo Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A. • Presidente onorario: Carlo Caracciolo Presidente: Carlo De Benedetti Consigliere delegato: Marco Benedetto Divisione la Repubblica via Cristoforo Colombo 90 - 00147 Roma Direttore generale: Carlo Ottino Responsabile trattamento dati (d. lgs. 30/6/2003 n. 196): Ezio Mauro Reg. Trib. di Roma n. 16064 del 13/10/1975 Tipografia: Rotocolor, v. C. Colombo 90 RM Stampa: Rotocolor, v. C. Cavallari 186/192 Roma; Sage, v. N. Sauro 15 - Paderno Dugnano MI ; Finegil Editoriale c/o Citem Soc. Coop. arl, v. G.F. Lucchini - Mantova Pubblicità: A. Manzoni & C., via Nervesa 21 - Milano - 02.57494801 • Supplemento a cura di:Paola Coppola, Francesco Malgaroli, Raffaella Menichini • Traduzioni: Emilia Benghi, Anna Bissanti, Antonella Cesarini, Fabio Galimberti, Guiomar Parada, Marzia Porta pecchia una società in rapida via di urbanizzazione che ha assorbito diverse influenze - tra cui quella di Hollywood, delle catene di fast food e del campionato di calcio inglese. La tendenza preoccupa Vira Rojpojchanarat, segretario permanente del ministero thailandese della Cultura. Vira, che per soprannome ha il relativamente banale ‘Ra’, sta per lanciarsi in una campagna per ripristinare i semplici – e spesso ingenui - nomignoli di una volta. “E’ importante perché è una questione di come usiamo la lingua thai”, dice Vira, che ha studiato architettura, nel suo ufficio ornato da maschere teatrali thailandesi e un piccolo altare buddista. “Siamo preoccupati dal fatto che la cultura thai possa scomparire”. Con l’aiuto di esperti linguisti dell’Istituto Reale - l’arbitro ufficiale della lingua thai - Vira pensa di creare entro la fine dell’anno una raccolta di migliaia di nomignoli all’antica, divisi in sane categorie: colori, animali e frutti. Il libriccino dovrebbe includere qualche popolare esempio, come “Yaay” (grande), “Ouan” (grasso) e “Dam” (nero) e verrà distribuito ai media e alle librerie e diffuso via Internet. “Non possiamo obbligare le persone”, dice Vira. “Hanno il diritto alle proprie idee. Ma pubblicando questo materiale possiamo offrire loro delle alternative”. Le intenzioni del ministero della Cultura non sono ancora state rese pubbliche, ma alcuni thailandesi, venuti a conoscenza della campagna a favore dei nomignoli, si sono mostrati scettici. “Non sono d’accordo, non è necessario”, ha detto Manthanee Akaracharanrya, imprenditrice edile di 29 anni. Manthanee, il cui soprannome è “Money”, dice che un nomignolo inglese è pratico perché può essere pronunciato Vira Rojpojchanarat che lavora al ministero della Cultura promuove per i bambini soprannomi thai invece di quelli occidentalizzati. più facilmente dagli stranieri - a differenza dei nomi thai, che sono tonali e possono comprendere suoni estranei a chi non parla la lingua. Il suo nome ha un significato, dice Manthanee: suo padre scelse “Money” perché lei è nata il 29 novembre, più o meno il periodo di paga. Suo fratello maggiore si chiama invece “Bonus” perché è nato durante il Capodanno cinese - quando alcune società distribuiscono paghe straordinarie. E suo fratello minore ha come soprannome “Bank”, tanto per restare in tema. Korakoad Wongsinchai, insegnante di inglese presso una scuola elementare di Bangkok, dice che oltre la metà dei suoi studenti ha nomi inglesi, e cita alcuni esempi: “Tomcruise”, “Elizabeth”, “Army”, “Kiwi”, “Charlie” e God. “Credo che molti genitori prendano i nomi dalla televisione o dalle riviste”, racconta l’insegnante. Da un punto di vista meramente pratico, dice Vira, avere un nome straniero come “Apple” o “Bank” sarà pure grazioso per un bambino, “ma quando diventi un vecchio sdentato non si addice più”. TEHERAN — Suona il sitar, un liuto tradizionale persiano, e insegna letteratura persiana classica e poesia. Ma le melodie che tira fuori dal suo strumento, la voce profonda e i versi esuberanti e al tempo stesso provocatori sul fatto di essere cresciuto in uno Stato islamico, hanno fatto di Mohsen Namjoo il personaggio più controverso e più coraggioso dell’attuale panorama musicale persiano. Alcuni lo considerano un genio, una sorta di Bob Dylan iraniano, e pensano che la sua musica rifletta con precisione le frustrazioni e le delusioni dei giovani iraniani. Quelli che lo criticano dicono che la sua musica mette in ridicolo la musica classica tradizionale persiana, perché la fonde con il jazz, il rock e il blues occidentali. Namjoo, 31 anni, è cantante, compositore, musicista ma, secondo i fan, è soprattutto un eccellente esecutore. “Volevo salvare la musica persiana”, chiarisce. “Non è una musica dei nostri tempi e non può appagare le generazioni più giovani. La musica persiana è molto vicina ad altri stili ed è possibile, con un po’ di accortezza, mescolarla ad altri stili”. La sua fusione di musica persiana e occidentale produce brani inaspettati che irritano i tradizionalisti ed entusiasmano i suoi sostenitori che sono soprattutto giovani artisti e intellettuali. Anche se la sua musica risulta senza dubbi persiana, tuttavia è priva di quella caratteristica melanconia che spesso pervade la musica classica. Tuttavia i fan dicono che sono i versi e le parole di Namjoo a rendere così apprezzabile la sua musica. Canta antiche poesie persiane, come quelle del poeta mistico Rumi del XIII secolo o del poeta Hafiz del XIV, piene di riferimenti all’amore. Con la sua eccellente padronanza della letteratura persiana è in grado di scrivere versi tutti suoi secondo parametri codificati, conferendo loro una molteplicità di significati. “La prima volta che ho ascoltato la sua musica sono rimasto sorpreso”, dice Mahsa Vahdat, un cantante di 33 anni. “La musica e le parole esprimono l’amara situazione della mia generazione e raffigurano la società nella quale viviamo”. In aperta sfida alla polizia culturale iraniana, Namjoo affronta argomenti contemporanei: “Noi possediamo un governo contrito” canta in una canzone che si intitola Neo-Kanti. “Possediamo una nazionale perdente”. Questi sono due riferimenti alle delusioni per il governo dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami e per le sconfitte della nazionale di calcio. “Possediamo, forse, il futuro” aggiunge poi, con una voce che è più rassegnata che piena di speranza. Atabak Elyassi, musicista e docente di musica alla facoltà di Musica dell’università delle Arti di Teheran, dice che ci sono espressioni di protesta e ironia nella musica di Namjoo. “La sua musica è molto iraniana”, spiega, “in quanto fa riferimento a questioni che riguardano le vite degli iraniani”. È difficile misurare la popolarità di Namjoo perché è cresciuto in un periodo di forti pressioni sulla musica iraniana. Non è ancora riuscito a esibirsi dal vivo in pubblico e non ha ricevuto la licenza necessaria a vendere i suoi cd. Tuttavia può suonare in privato, i suoi cd si trovano al mercato nero e le sue canzoni vengono trasmesse dalle emittenti radiofoniche. All’inizio di agosto il suo manager ha detto che già 1,6 milioni di persone avevano ascoltato la sua musica su YouTube. Namjoo subisce anche un altro genere di pressioni: la maggior parte dei musicisti classici è purista, definisce assurda la sua musica e la accusa di Newsha Tavoklian/Polaris per The New York Times ‘La musica persiana è molto vicina ad altri stili ed è possibile, con un po’ di accortezza mescolarla ad altri stili’. MOHSEN NAMJOO musicista iraniano aver inglobato le influenze occidentali. Se da un lato mettiamo la musica classica iraniana e dall’altro la musica occidentale, ha esemplificato Reza Ismailinia, che dirige una galleria d’arte a Teheran, “allora credo che la musica di Namjoo si collochi come una caricatura o una fantasia strampalata a metà strada”. Altri non sono d’accordo. “Credo che Namjoo sarà ricordato come un artista coraggioso, che ha saputo creare un’opportunità per qualcosa di nuovo, che trascende le barriere della tradizione”, dice Alireza Samiazar, ex direttore del museo di Arte contemporanea di Teheran. Per nulla abbattuto dalle critiche, Namjoo dice che il suo prossimo obiettivo è di studiare all’estero. “Voglio affrontare questa sfida e familiarizzare con la musica occidentale. Qui sono stato accettato fin troppo facilmente’’. Repubblica NewYork G L I O RO LO G I T U D O R S O N O D I S P O N I B I L I P R E S S O I R I V E N D I TO R I A U TO R I Z Z AT I RO LE X . CHRONOGRAPH M ov i m e n t o m e c c a n i c o a c a r i c a a u t o m a t i c a . Lunetta satinata con scala tachimetrica incisa. Vetro zaffiro, corona di carica a vite. Impermeabile fino a 150 m. Cassa in acciaio Ø 41 mm. Repubblica NewYork LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 IV MONDO Vacanze in terre devastate dalla guerra di KAREN ANGEL Associated Press Ora il turismo è un settore chiave dell’economia in posti conosciuti soprattutto come zone di conflitto, come Mostar, in Bosnia Erzegovina. Paesi un tempo lacerati dalla guerra civile stanno cercando di rilanciare il turismo, sperando di sostituire l’immagine delle violenze con quella di luoghi ospitali e viaggi di avventura. L’ultimo esempio in ordine di tempo è il Ruanda, un luogo che nella mente di molti è identificato con il genocidio del 1994. L’attrazione principale del piccolo Stato centrafricano restano i gorilla di montagna, resi famosi dal film Gorilla nella nebbia (1988), che raccontava la vita della primatologa Dian Fossey. Ora, però, grazie a una ritrovata stabilità, sotto il governo del primo presidente democraticamente eletto nella storia del Ruanda, esecutivo, uomini d’affari e imprenditoria locale stanno cercando di trasmettere il messaggio che il Paese non ha solo le grandi scimmie da offrire ai turisti. Una delle attrazioni principali è il lago Kivu, tra i più grandi di tutta l’Africa, circondato da montagne e vulcani. A febbraio, la Serena Hotels, una catena alberghiera di Nairobi, in Kenya, che possiede 19 alberghi nel continente, è sbarcata in Ruanda e ha comprato il Lake Kivu Serena Hotel e un altro albergo a Kigali, ribattezzato Kigali Serena Hotel. La Serena Hotels, che fa parte dell’Aga Khan Fund for Economic Development, una società che si occupa di lanciare iniziative imprenditoriali nei Paesi in via di sviluppo, ha in programma interventi di miglioramento per 9,5 milioni di dollari, in Ruanda. La società, dice il direttore generale, Mahmud Jan Mohamed, acquisterà altri alberghi. “Ci sono enormi potenzialità”, dice Dixon Ondieki, un keniano che dirige il Lake Kivu Serena Hotel. “Il governo sta facendo un enorme sforzo di marketing. Il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri dell’Africa. Può lasciare qui i suoi orecchini d’oro”, aggiunge indicando un tavolo Tra i rifiuti dei coloni le risorse per sopravvivere Reem Makhoul ha collaborato all’articolo. Oggi in Ruanda si possono vedere i gorilla nei luoghi del genocidio. avvenute in epoche più recenti, come la Bosnia Erzegovina e l’Irlanda del Nord, stanno puntando molto sul turismo, con risultati altalenanti. “Il turismo è diventato uno dei settori più importanti dell’economia”, dice Arna Ugljen, portavoce dell’Associazione turistica della Bosnia Erzegovina. “Il suo sviluppo ha un effetto estremamente positivo sull’economia nazionale e sulla società nell’insieme, in particolare sotto il profilo occupazionale”. Dopo la fine della guerra civile, durata tre anni, nel 1995, la Bosnia Erzegovina ha raddoppiato il numero di turisti, arrivando a una quota di circa 500.000 visitatori l’anno. I materiali promozionali mostrano una specie di paradiso del turista ma la realtà è abbastanza diversa, ci racconta David Candler, 46 anni, giornalista newyorchese che è stato per la prima volta in Bosnia Erzegovina a giugno, insieme alla sua fidanzata, una profuga bosniaca. “Le infrastrutture sono ancora piuttosto primitive”, dice Candler, “e il Paese fa fatica a rimettersi in piedi”. Nel frattempo il Ruanda ha adottato dei provvedimenti ambiziosi per incoraggiare il turismo dai Paesi vicini e favorire gli scambi commerciali. Il primo luglio, il governo di Kigali ha deciso l’ingresso nella Comunità dell’Africa orientale, un raggruppamento sovranazionale simile all’Unione Europea, che ha tra i progetti quello di introdurre una valuta unica e allentare i controlli di frontiera. La Serena Hotels ha citato l’ingresso del Ruanda nell’organizzazione come uno dei fattori che hanno influito sulla decisione di investire nel Paese. Senza dubbio l’industria turistica ruandese ha ancora molti problemi, come la carcassa di una mucca che nessuno sembrava aver fretta di rimuovere vista da un giornalista sulla riva del lago, a poca distanza dal Lake Kivu Serena Hotel. Inoltre, al di fuori dei quartieri centrali delle grandi città e dei rari resort turistici, trovare alberghi e ristoranti invitanti per un turista è difficile, e collegarsi a Internet praticamente impossibile. Nonostante questo nel 2006 il Ruanda è stato visitato da 37.000 turisti (con introiti per oltre 35 milioni di dollari) contro i neanche 2.000 di sei anni prima: ce lo racconta Rosette Chantal Rugamba, direttrice generale dell’Ufficio per il turismo e i parchi nazionali, un incarico che ricopre dal 2003. E da quell’anno non si hanno notizie di gorilla uccisi dai bracconieri. “Uno dei primi ordini del governo in carica è stato: ‘I gorilla non devono essere toccati’”, dice la Rugamba. Arabi contro arabi nel Darfur Rina Castelnuovo per The New York Times Alcuni oggetti recuperati nella discarica di Ad Deirat in Cisgiordania: un orologio, che Muhammad Ibrahim, a destra, controlla, e un paio di ali. cappellino da baseball, è il capo non ufficialmente riconosciuto della discarica. Guida un bulldozer e guadagna un misero salario municipale, ma insieme a tre parenti rovista nell’immondizia per recuperare oggetti e cercare di sfamare una famiglia di 25 persone. “E’ una vita molto difficile. Non chiamatemi capo. Qui cerchiamo di essere tutti amici. Cerchiamo di essere alla pari”. Muhammad al-Ammour, 42 anni, in passato lavorava in Israele come imbianchino e guadagnava dai 35 ai 50 dollari al giorno. Lavorando qui con i suoi due figli porta a casa una dozzina di dollari. “Se Trova scintille di speranza chi rovista nella spazzatura in cerca di fortuna. non lavoriamo, non sopravviviamo. E’ triste a dirsi ma la spazzatura ci tiene in vita. Il nostro futuro è nella spazzatura”. Quando gli si chiede se l’Autorità palestinese li aiuti, ride. “Nessuna autorità è mai venuta a controllare come stiamo. Non interessa a nessuno”, dice. “La nazione palestinese riceve aiuti umanitari di vario genere dall’estero ma noi non ne abbiamo mai visti”. Al pari ditutti gli uomini e i bambini della discarica — soltanto alcuni indossano i guanti — Ammour è ricoperto di cicatrici, specialmente sulle mani, sulle braccia e sulle gambe, provocate da oggetti appun- titi di metallo e vetri rotti. Per proteggersi dal sole molti indossano dei cappelli e usano dei fazzoletti per coprirsi la bocca contro le esalazioni e il fumo acre dei falò appiccati durante la notte per bruciare la spazzatura già passata al setaccio. Molti bambini sembrano malnutriti, ti fissano con gli occhi appannati e la faccia lurida. “Perfino chi mi sta vicino, i miei stessi parenti, mi scherniscono e deridono la mia famiglia”, dice Ammour. “Chiunque lavori qui è egli stesso spazzatura: è questo che pensano. Alcuni sono spie, collaboratori o ladri, e ciò nonostante considerano noi, lavoratori onesti, degli inferiori”. Ammour ha otto figli ed è conosciuto con il nome di Abu Fadi, il padre di Fadi, 19 anni, il più grande, uno dei tre gemelli. Fadi sta cercando di tornare al college. Lavora qui da quando era piccolo, racconta, con suo padre e i suoi due fratelli. Aveva iniziato a frequentare l’università, ma ha dovuto interromperla per mancanza di soldi. Adesso frequenta alcuni corsi serali all’Università aperta di Al Quds di Yatta con suo fratello Tamer. In questo piccolo mondo tutti sono fieri di loro. La casa di Ammour a Yatta è composta da due stanze e ospita una famiglia di dieci persone. La camera più grande ha il pavimento ricoperto di materassi, quella più piccola custodisce la proprietà di maggior valore di Fadi, un computer funzionante che ha assemblato unendo parti e componenti varie trovate nella discarica. Fadi, che si è ripulito, accende il pc per ascoltare della musica. Suo fratello di cinque anni improvvisa una break dance. Fadi e Tamer si uniscono. “Vedete?”, dice Fadi con un sorriso. “Dalla spazzatura vengono fuori cose belle”. non arabe. Ma questa nuova dimensione, che vede arabi combattere contro altri arabi, sembra essere un segnale dell’accresciuta complessità della crisi. “La frammentazione dei gruppi armati costituisce una delle nostre principali preoccupazioni”, dice Maurizio Giuliano, portavoce dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli interventi umanitari in Sudan. “Questo rende la situazione più complessa”. In Sudan, molti osservatori indipendenti ritengono che la fase attuale del conflitto non sia guidata dal governo. “Il governo ha smesso di armare le milizie janjaweed”, dice il colonnello James Oladipo, comandante dell’African Union a Nyala, nel Darfur meridionale. Il problema, aggiunge, ora sono i banditi e le fazioni. Banditi in tuta mimetica — ribelli? miliziani locali? janjaweed? — fermano regolarmente i camion e trascinano via i passeggeri, rapinando gli uomini e violentando le donne. La galassia degli eserciti ribelli — il Greater Sudan Liberation Movement, il Popular Forces Troops, il Sudan Democratic Group, per citarne solo alcuni — continua ad espandersi. Malgrado le trattative di pace, i ribelli, in maggioranza non arabi, adesso hanno cominciato a combattere tra di loro. Un episodio di lotta interna tra tribù arabe si è verificato la mattina del 31 luglio, vicino Sania Daleibah, nel Darfur meridionale. I capi Terjem raccontano che centinaia di membri della loro tribù si erano radunati per seppellire un importante sceicco quando, improvvisamente, sono stati circondati. Si trattava dei Mahria i quali, secondo i rapporti delle Nazioni Unite e secondo alcuni testimoni, hanno aperto il fuoco con armi pesanti, uccidendo più di 60 persone appartenenti alla tribù Terjem. “E’ stato un massacro”, dice Mohammed Yacob Ibrahim Abdelrahman, capo della tribù Terjem. “Un massacro compiuto per mano dei nostri fratelli”. La violenza che oppone arabi ad altri arabi è un ostacolo al lento processo di ripresa che è già iniziato in alcune aree del Darfur. Circa 2,2 milioni di persone si trovano nei campi profughi sebbene alcune abbiano già intrapreso i primi passi per andarsene. Ma poi è esplosa la faida tra Terjem e Mahria. I Mahria sono allevatori nomadi di cammelli e provengono dalla regione settentrionale del Darfur, uomini del deserto le cui milizie hanno aiutato il governo sudanese a pattugliare il lungo confine desertico con il Ciad. I Terjem sono contadini e allevatori di bestiame che vivono non lontano dalla tribù non araba dei Fur. I Mahria sapevano combattere. I Terjem sapevano dove vivevano i Fur. Secondo i funzionari dell’Onu e la testimonianza di alcuni sopravvissuti, le due tribù hanno massacrato molti Fur dividendosi poi le loro terre. Ma l’alleanza si è spezzata alla fine dello scorso anno. Juma Dagalow, uno sceicco Mahria, racconta di aver chiamato gli altri LIBIA CIAD segue dalla prima pagina segue dalla pagina pagina di vera e propria organizzazione, con un autista di bulldozer di 23 anni che fa da paciere per ricomporre i litigi, e un codice di comportamento, così che siano rispettati gli oggetti recuperati da ciascuno. Questo posto con il suo squallore è il simbolo dell’impatto dell’insediamento ebraico in Cisgiordania, e delle spaventose condizioni economiche dei territori palestinesi, dove circa un terzo degli abitanti è disoccupato. Molti degli adulti di questa discarica non riescono a trovare lavoro in Israele dal2000,dall’iniziodellasecondaIntifada, quando furono varate misure di sicurezza più rigide per prevenire gli attentati suicidi. Questa discarica è diventata un’ancora di salvezza per loro e per i bambini che contribuiscono a sostenere le famiglie povere della Cisgiordania. Le scene ricordano il Terzo Mondo, come la montagna di rifiuti di Manila, anche se questo posto è a due passi dal Paese con il reddito pro capite più alto del Medio Oriente. I bambini sono delusi per camion di spazzatura palestinese proveniente da Hebron. I veri tesori, raccontano, arrivano dagli insediamenti israeliani della Cisgiordania. È la spazzatura dei coloni a tenerli in vita e anche, stranamente, a farli divertire. Mahmoud Ibrahim, 10 anni, ha trovato un paio di ali d’angelo, che all’apparenza appartenevano a una maschera usata per una festa o al costume per un’esibizione di danza. Le indossa capovolte, ma è felice, e svolazza in giro per la discarica mentre gli altri applaudono. Suo fratello Muhammad, 11 anni, si pavoneggia indossando un abito di parecchie taglie più grandi, che forse era servito per un bar mitzvah. Se si togliesse il sudicio, qualsiasi madre ne andrebbe orgogliosa. Quando le cose vanno bene, lavorando qui dalle cinque di mattino al tramonto, i bambini riescono a mettere insieme circa 4,75 dollari. Muhammad Rabai, un giovane di 23 anni che indossa un paio di pantaloni mimetici che ha recuperato e uno sporco nell’atrio dell’hotel, “e stare sicura che li ritroverà. E poi, naturalmente, c’è la cultura, che è la migliore risorsa. Ognuno, qua, parla quattro o cinque lingue”. Il Ruanda si ispira, prevalentemente, al modello del Vietnam: oggi il Paese asiatico è percepito come una destinazione sicura e accogliente per i turisti, e i servizi, turismo incluso, rappresentano ormai circa il 40 per cento del prodotto interno lordo. Anche la Corea del Sud, la Cambogia e il Laos, altri Paesi asiatici devastati dalla guerra, decenni fa, sono diventati mete per i turisti e si impegnano seriamente a promuovere le proprie attrattive. Alla fine di luglio, il Laos ha ospitato una conferenza sull’ecoturismo per i Paesi della regione del Mekong. Alcuni Stati, associati a guerre civili EGITTO Km 160 DARFUR SETTENTRIONALE Khartoum Darfur SUDAN Kologi SUDAN CONGO El Fasher DARFUR OCCIDENTALE CIAD Nyala DARFUR MERIDIONALE The New York Times Il Darfur è dilaniato dalla violenza tra tribù arabe. sceicchi con un satellitare, e di aver radunato le truppe dopo che gli uomini della tribù Terjem avevano teso un agguato ai suoi. “Siamo andati a quel funerale per attaccarli, per chiudere i conti”, ha spiegato lo sceicco, aggiungendo che i suoi uomini sono ‘un po’ aggressivi’”. Il massacro di arabi compiuto da altri arabi sembra estendersi velocemente e senza controllo. “In questo posto non esiste né legge né ordine”, dice Annette Rehrl, portavoce dell’Alto Commissario Onu per i rifugiati. L’insicurezza ha spinto migliaia di Terjem nei campi profughi dove non sono liberi di muoversi. “Stiamo seduti qui, odiando noi stessi”, dice Mariam Mohammed, una donna esile come un fuscello, alla quale hanno ucciso il marito sotto gli occhi. “Guardatemi. Sono la metà di quella che ero una volta”. Repubblica NewYork LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 V MONDO ANALISI La politica estera di Bush? Sostenere leader deboli di DAVID E. SANGER WASHINGTON — Quanto gli obiettivi di politica estera di Bush siano alla mercè di alcuni tra i dirigenti politici più deboli del mondo è diventato evidente con la reazione della Casa Bianca agli eventi in Pakistan. Il governo statunitense si è detto soddisfatto per l’alleanza di convenienza tra un uomo forte, il generale Pervez Musharraf, e l’ex primo ministro in esilio, Benazir Bhutto, i cui mandati al governo, negli anni ’80 e ’90, sono considerati un misto di incompetenza, impotenza e presunta corruzione. Questo si spiega con la scommessa del governo americano sul fatto che la combinazione Musharraf-Bhutto, per quanto fragile, possa essere la soluzione migliore per evitare che un paese che possiede armi nucleari sprofondi in una spirale di violenza che, a sua volta, potrebbe segnare la fine delle ultime speranze di Bush di distruggere il santuario di Osama bin Laden. Il generale Musharraf è un esempio di leader debole. Il primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, ha permesso che fosse bloccato un processo che doveva sfociare in un compromesso per la condivisione del potere tra sciiti e sunniti. Il leader palestinese Mahmoud Abbas non è riuscito a tenere a freno Hamas, né a sconfiggere la corruzione nel suo partito da quando ha assunto il potere. Il presidente Hamid Karzai dell’Afghanistan, che quotidianamente cerca di imporsi sui signori della guerra, ora deve anche affrontare la ribellione dei taliban. La Casa Bianca si chiede come rafforzare questi leader deboli o portare avanti le sue strategie intorno a loro in un periodo in cui la vendita di armi, i programmi di aiuti e le foto accanto al presidente Usa fruttano sempre meno. Recentemente un alto funzionario ha raccontato che nelle riunioni “si sente ogni tanto porre la questione se non sia arrivato il momento di lasciarli perdere” questi leader. Ma poi, inevitabilmente, qualcuno dal fondo della sala chiede: “E poi?”. La ricerca di alternative è agonizzante e sui limiti della situazione irachena si è discusso recentemente per più di un’ora al Pentagono nella sala dove si riuniscono i capi di Stato maggiore. La discussione ha riguardato le possibilità che Bush ha di aggirare Maliki per premiare i sunniti della provincia di Anbar per la loro decisione di spostare la mira dalle truppe americane ad Al Qaeda. Il dibattito sta affrontando anche la questione di come incoraggiare elezioni anticipate che porterebbero incarichi di governo ai sunniti e di come spingere il governo centrale a finanziare più progetti nella regione. “In poco tempo il dibattito si è concentrato sui premi politici e economici che possiamo promuovere, invece di contare quante forze ci servono per tenere le cose sotto controllo”, dice un funzionario, che si chiede se gli Stati Uniti sarebbero ancora in Iraq se “questo stesso dibattito si fosse svolto quattro estati fa”. Questo punto - quanto si sia troppo avanti nel gioco - è un’altra delle preoccupazioni di Washington. Un problema non di poco conto è che i leader che Bush vuole incoraggiare sanno bene che il presidente non può fare promesse che durino 1 minuto oltre la mezzanotte del 20 gennaio 2009 e giorno dopo giorno vi adeguano le loro mosse. Maliki su questo punto ha parlato apertamente non molto tempo fa. Irritato dal crescendo di voci che a Washington sarebbero a favore di una sua rimozione – sia democratiche sia repubblicane - ha avvertito che l’Iraq ha “altri amici” che “ci appoggeranno nella nostra impresa”. E chiaramente si riferiva all’Iran. Reuters, prima fila in alto; Associated Press In senso orario da sinistra, Mahmoud Abbas, Nouri alMaliki, Hamid Karzai e Pervez Musharraf. Hazel Thompson per The New York Times In una moschea di Bradford, Idris Watts aiuta gli studenti ad applicare gli insegnamenti dell’Islam alla vita quotidiana. Corsi di educazione civica ispirati al Corano di JANE PERLEZ BRADFORD, Inghilterra — Nella moschea Jamia di Victor Street, Idris Watts - un insegnante convertito all’Islam – discute con una dozzina di adolescenti di un tema all’apparenza banale: perché avere un lavoro è meglio che essere disoccupati. “Il profeta ha detto che dovete imparare un mestiere”, dice Watts agli studenti. “Cosa pensate che volesse dire?”. “Avere un mestiere è una buona cosa, perché così puoi tramandarlo”, ha risposto Safraan Mahmood, 15 anni. “Se riesci a essere autosufficiente sei più felice”, ha suggerito Ossama Hussain, 14 anni. Il dialogo rappresenta una novità nelle moschee della Gran Bretagna: uno sforzo - finanziato dal governo - di insegnare educazione civica a studenti che potrebbero essere contagiati dall’estremismo islamico. Il governo britannico spera che queste lezioni, che si basano sul Corano e rispondono a domande sulla vita di tutti i giorni, sostituiranno quelle spesso noiose e alle volte impregnate di fondamentalismo che vengono impartite in molte moschee del Paese, che sottolineano l’apprendimento meccanico del Corano e vengono insegnate da imam nati in Pakistan, che parlano inglese male e hanno pochi contatti con la società britannica. Creato da un insegnante di Bradford, Sajid Hussain, di 34 anni, che ha studiato a Oxford, il nuovo programma viene insegnato durante l’ora di religione in questa città sempre più divisa tra bianchi e asiatici del sud. L’iniziativa di Bradford riceve sostegno e fondi dal governo laburista nell’ambito di una campagna che si vorrebbe estendere ad altre città per aiutare la maggioranza dei musulmani a integrar- La comunità delle spie investe nelle reti telematiche di SCOTT SHANE Le agenzie di intelligence statunitensi si ingegnano per cercare di risolvere i problemi di condivisione delle informazioni che ossessionano il mondo delle spie. Il meccanismo che hanno in mente è simile a quello dei software sociali e stanno adottando tecnologie web che milioni di giovani già padroneggiano senza problemi. A dicembre, secondo alcuni funzionari delle agenzie di intelligence, i vari enti del settore lanceranno A-Space, una variante top-secret di siti di socializzazione online come MySpace e Facebook. La A sta per “analista”, e se gli utenti di Facebook si scambiano foto, consigli per fare i compiti e pettegolezzi, gli analisti dei servizi avranno la possibilità di mettere a confronto le loro osservazioni su foto satellitari dei siti nucleari nordco- si meglio nella cultura britannica. In Gran Bretagna vivono circa due milioni di musulmani, la maggior parte originari del Pakistan o del Bangladesh. Da quando - nel luglio 2005 - quattro musulmani britannici hanno organizzato un attentato al sistema dei trasporti pubblici di Londra e altri due piani terroristici che si sospetta siano stati pianificati da musulmani britannici sono venuti alla luce l’anno scorso, le autorità britanniche si sono sforzate di trovare un modo per isolare gli estremisti – una minoranza - dalla maggioranza dei moderati. A luglio durante la sua prima confe- Per alcuni queste lezioni per musulmani sono una forma di discriminazione. renza stampa, il primo ministro Gordon Brown ha detto di voler dimostrare “l’importanza che attribuiamo alla nonviolenza” e “che attribuiamo alla dignità di ciascun individuo”, e di voler rendere poco allettante “il messaggio estremo di chi pratica la violenza ed è disposto a mutilare e uccidere cittadini sul suolo britannico”. Si calcola che il numero di ragazzi musulmani in età scolare che frequentano le lezioni di religione presso le moschee della Gran Bretagna siano circa 100.000., così l’impatto di questi insegnamenti potrebbe essere considerevole. Ma per quanto sostenuto dal governo il programma ha incontrato l’opposizione di qualche musulmano. Perché - ha chiesto Nuzhat Ali, che coordina le don- Topos Graphics reani, della guerriglia irachena e dei missili cinesi. A-Space andrà ad aggiungersi a Intellipedia, la Wikipedia delle spie, usata dagli agenti segreti delle 16 agenzie di intelligence statunitensi per condividere le conoscenze. Sedici mesi dopo la sua creazione la versione secretata di Intellipedia vanta 29.255 articoli, con una media, ogni giorno lavorativo, di 114 nuovi articoli e oltre 4.800 modifiche già postate. Un altro servizio online, la Library of National Intelligence, ospita i rapporti di ogni agenzia. E dietro alle barriere di sicurezza proliferano blog accessibili solo a altre spie. “Internet va più veloce di noi”, dice Mike Wertheimer dell’ufficio del direttore dell’intelligence nazionale, che sovrintende al lancio di A-Space. “Stiamo cercando di recuperare terreno”. Wertheimer ammette che alcuni dirigenti non incoraggiano i sottoposti ad aggiungere informazioni sull’enciclopedia telematica, per paura che l’agenzia si veda scippare il merito di queste informazioni. E per il mondo dei servizi, usare gli strumenti del Web significa fare una rivoluzione culturale. Ancora oggi le informazioni migliori sono indicate con la sigla Sci, che sta per Sensitive Compartmented Information (Informazioni sensibili compartimentate), e mettere sotto chiave i dati garantisce protezione contro le talpe e le fughe di notizie. Gli attacchi dell’11 settembre, però, hanno dimostrato che tenersi strette le informazioni può portare alla catastrofe. In un rapporto diffuso il mese scorso, l’ispettore generale della Cia descrive il mondo dei servizi come una famiglia disfunzionale, in cui l’Agenzia per la sicurezza nazionale rifiutava di rivelare alla Cia le intercettazioni di esponenti di al-Qaeda, e la Cia, a sua volta, teneva nascoste delle informazioni all’Fbi. Più di 50 agenti della Cia, dice il rapporto, nei primi mesi del 2000 lessero dei cablogrammi che riferivano di due aspiranti dirottatori, ma omisero di chiedere al dipartimento di Stato di inserirli in una lista di persone da tenere sotto osservazione. Ora ci sono fondate speranze che una comunità virtuale che metta in comunicazione i 100.000 dipendenti delle agenzie di intelligence possa riuscire ad automatizzare la condivisione delle informazioni tra agenti segreti. I veterani e gli esperti dell’intelligence applaudono alla nuova tecnologia ma avvertono che non si tratta di una panacea. ne iscritte alla Società islamica della Gran Bretagna di Bradford - le lezioni di educazione civica dovrebbero essere indirizzate solo ai bambini musulmani? “Una delle nostre maggiori preoccupazioni è: perché ancora la comunità musulmana?”, ha detto la signora Ali. “L’estremismo è un problema di tutte le comunità, specialmente nelle fila del Partito nazionale britannico” ha detto, riferendosi a un partito di estrema destra che ha espresso idee di supremazia razziale dei bianchi. “Anziché dire: ‘Venite musulmani, andate nel vostro angolino per seguire il vostro programma’, il problema del terrore e dell’estremismo deve essere affrontato a tutto campo”. Ma il punto è dimostrare agli studenti musulmani che la religione offre risposte a temi che affontano ogni giorno. “Capiscono che andare e commettere un attentato suicida è sbagliato”, ha detto Hussain. “Ma alcuni di loro si confondevano quando si facevano associazioni con la jihad. La jihad ha un contesto sacro, quindi ciò che prima era inaccettabile è divenuto accettabile. Abbiamo dovuto scavare a fondo per eliminare l’equivoco”. Poi c’è stato il problema degli abiti. Nel programma viene chiesto se sul posto di lavoro i musulmani britannici debbano cercare di adottare un abbigliamento islamico quando esistono norme che richiedono di indossare abiti formali. E che dire del hijab, con cui alcune donne islamiche si coprono i capelli, o del niqab, che copre il volto a eccezione degli occhi? “Alcuni studiosi dicono che non poter vedere la faccia della tua insegnante quando sei in classe non è una buona cosa”, dice Hussein. “Potremmo dire ai giovani che la nostra fede ci dice di non alienarci, e che esistono molte opinioni diverse”. Amy Zegart, professoressa associata di politiche pubbliche all’università della California e autrice di Spying Blind: The C.I.A., the F.B.I. and the Origins of 9/11 ha individuato 23 momenti in cui la Cia o l’Fbi avrebbero potuto fermare il complotto. Ritiene che sia praticamente “da escludere” che il web potesse cambiare qualcosa, perché il problema è stato che gli agenti non si sono resi conto dell’importanza delle informazioni in loro possesso. “Abbiamo troppa fiducia in quello che può fare la tecnologia “, dice la Zegart. “Il processo più importante è come le informazioni vengono elaborate nella testa delle persone”. A-Space includerà funzioni di posta elettronica e di chat, consentirà a tutti di modificare i documenti e permetterà agli analisti di digitare un nome e apprendere che sono riusciti a scoprire sullo stesso argomento le altre agenzie. I funzionari sottolineano che i computer sono programmati per segnalare gli utenti che scaricano dati o cercano informazioni su argomenti al di fuori della propria area di competenza. Secondo Wertheimer ci sono dei segnali incoraggianti. Quando scoppia una crisi, dice, e viene pubblicato un articolo su Intellipedia, “in poche ore le 16 le agenzie di intelligence danno il loro contributo”. Repubblica NewYork LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 VI EC O N O M I A E S O C I E TÀ Servire più Big Mac in Europa Le vendite dei McDonald’s europei hanno superato quelle degli Stati Uniti nei primi sei mesi dell’anno $4,0 miliardi 3,5 Ricavi di McDonald’s Primi 6 mesi del 2006 e del 2007 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 ’06 ’07 Stati Uniti Europa Asia/Pacifico, Medio Oriente e Africa Fonte: Relazione della società America Latina Canada The New York Times Sedie eleganti? Formaggi? Sì, è sempre McDonald’s di JULIA WERDIGIER LONDRA — Per fare una pausa durante un pomeriggio di shopping, Ita Clift ha scelto di fermarsi a prendere un cappuccino da McDonald’s. Anche se non è una cliente abituale dei fast-food, la signora Clift spiega di aver deciso per questo locale in Edgware Road perché “ha un’aria così carina e sofisticata”. Sofisticata? McDonald’s? Per offrire ai suoi clienti un’esperienza più rilassante in un’atmosfera elegante McDonald ha deciso di sostituire in molti ristoranti il vecchio arredamento in plastica gialla e bianca con nuove sedie verdi e tappezzerie in pelle scura. E’ l’ammodernamento più rilevante che la catena di fast-food ha realizzato in più di 20 anni. Con i suoi concessionari in franchising, McDonald’s sta progettando di spendere entro la fine dell’anno più di 600 milioni di euro per rimodernare 1.280 locali in Europa. I cambiamenti non sono solo di tipo estetico. La catena americana ha deciso di introdurre alimenti più salutari e prodotti che vanno incontro ai gusti locali, come il latte macchiato. Sperando di attrarre un maggior numero di giovani e di professionisti, che si aggiungano alla clientela abituale fatta soprattutto di ragazzini, l’azienda ha pensato di offrire anche alcuni extra, come l’uso di internet e gli iPod in affitto. Si direbbe che il cambiamento abbia avuto successo. Durante la prima metà dell’anno, il fatturato dei 6.400 locali in Europa è aumentato del 15 per cento, giungendo a 4,1 miliardi di dollari, contro l’aumento del 6 per cento registrato negli Stati Uniti, dove McDonald’s è presente con 13.800 ristoranti e dove il fatturato annuale è di 3,9 miliardi di dollari. “Alla McDonald’s stanno facendo un gran lavoro in Europa”, dice Larry Miller, analista della RBC Capital Steve Forrest per The New York Times McDonald’s sta rinnovando lo stile dei ristoranti europei, come questo a Londra. Markets. In Europa, che è il mercato più redditizio dopo quello statunitense, la catena oggi serve 10 milioni di clienti al giorno. La spinta a iniziare questo rinnovamento risale alla fine degli anni Novanta, quando in Europa si registrò un calo delle attività dovuto alla preoccupazione per il rischio obesità e all’insofferenza verso gli ambienti arredati in modo poco attraente e verso un personale spesso sgarbato. Ma le idee sui cambiamenti da operare sono frutto di Denis Hennequin, presidente di McDonald’s Europa, il primo non americano a occupare questo ruolo. Quando era a capo del settore francese della McDonald’s, alla fine degli anni Novanta, Hennequin iniziò a cercare il modo per attirare nei fast food un maggior numero di clienti in un paese che preferisce assaporare con calma un pasto tradizionale. “Ci rendemmo conto che per far funzionare McDonald’s Evita il mercato impazzito e nessuno si farà male OPINIONE I RICCHI NON SONO COSI’ ESPERTI Ben Stein è avvocato, scrittore, attore ed economista. Nel lontano 1994, quando i pc portatili iniziarono la metamorfosi che li ha trasformati da valigie di 7 chili ai laptop da due chili di oggi, iniziai a portare il mio alle riunioni della Microsoft. I miei colleghi facevano altrettanto. Che novità. Che comodità. Potevamo prendere DEAN appunti sulla tastieHACHAMOVITCH ra. Avevamo accesso immediato alle informazioni nei nostri computer senza doverci portare dietro pile di documenti, o correre in ufficio per prendere una cartella. Potevamo proiettare le nostre diapositive e illustrare i nuovi prodotti. Emozioni della tecnologia! Ma con l’intensificarsi della connettività e l’acquisizione di una maggiore disinvoltura in materia di tecnologia, abbiamo iniziato a dedicarci ad attività che con le riunioni avevano decisamente meno a che fare: se la conversazione si faceva noiosa leggevamo la nostra e-mail, davamo un’occhiata ai titoli dei giornali, ci collegavamo in silenzio al sito di Espn. Negli ultimi anni abbiamo persino iniziato a inviarci reciprocamente instant message durante le riunioni, come i bambini che a scuola sussurrano: “Ha davvero detto....?”, o “Ma si rende conto che....?”. E’ capitato che qualcuno divulgasse una battuta attraverso un instant message per vedere se riusciva a far ridere altre persone presenti nella stanza. Adesso però ha preso forma un nuovo galateo. Addirittura, il sito Microsoft. com elenca sette regole per disciplinare l’impiego dei laptop durante le riunioni, a cominciare da: “Assicuratevi che esista un buon motivo” e “Abbassate il volume delle suonerie”. Durante le riunioni, soprattutto quando vengono trattati argomenti delicati, lasciare il laptop chiuso è un comportamento rispettoso. D’altro canto, se durante una riunione OPINIONE TUTTO DIPENDE DALLE PARCELLE Nel 2005 e 2006 si è discusso a tutti i livelli se era necessario regolamentare gli hedge fund. Alla fine, la Securities and Exchange Commission ha concluso che poiché i loro investitori erano spesso persone molto ricche e presumibilmente molto esperte in materia, gli hedge fund alle sedie a “uovo” disegnate dall’architetto danese Arne Jacobsen. Un’azienda alimentare di Monaco sta studiando nuovi menù che possano incontrare i gusti dei clienti dei 41 Paesi europei, Russia compresa. In Gran Bretagna i McDonald’s hanno iniziato a proporre il porridge per colazione. In Portogallo è possibile ordinare una zuppa e in Francia un hamburger accompagnato da formaggio francese. “Vogliamo restare fedeli alle nostre origini e, allo stesso tempo, progredire”, spiega Hennequin. Questo significa che McDonald’s in Europa ha mantenuto il suo logo ma ha abbandonato il colore rosso. Il colore dominante in molti ristoranti della catena americana ora è un caldo bordeaux. I tetti rossi sono stati sostituiti da semplici facciate verde oliva. Una cosa però è rimasta la stessa: le patatine fritte e i cheeseburger restano le voci più richieste del menù. Ma pensi alla riunione oppure al tuo computer? Qui sono elencate alcune osservazioni preliminari sul recente sconvolgimento dei mercati finanziari: Gli hedge fund sono per buona parte una truffa. Si presume che un hedge fund metta al riparo dai movimenti di mercaBEN to con strumenti non STEIN vincolati. Possiamo dire che si suppone che scommettano che le azioni crolleranno quando il mercato crollerà e pertanto accumulano soldi per mettersi al riparo dalle perdite. Sono sicuro che alcuni lo stessero facendo di recente, ma da quanto ho visto molte erano semplicemente scommesse che le azioni sarebbero salite. Quando il mercato si è rivoltato bruscamente contro di loro, non soltanto hanno subito perdite, ma hanno dovuto vendere all’ultimo momento, rimettendoci. E’ semplicemente un giocare d’azzardo. Adesso ci rendiamo conto che non si tratta di prodezze negli investimenti. Tutto dipende, come ha ripetuto così tante volte il mio idolo Warren E. Buffett, da una cosa sola: “Fees, fees, fees!” (Parcelle, parcelle, parcelle). Gli hedge fund modello non sono un mezzo per fare meglio del mercato, ma uno strumento per far pagare quanto più possibile l’investitore. e per far apprezzare un Big Mac in un paese che ama lo slow-food dovevamo prestare più attenzione ai nostri locali e al modo di presentare i prodotti”, dice Hennequin. Aveva ragione. Dopo l’operazione di restyling il giro d’affari dei McDonald’s francesi è cresciuto in media del 4,5 per cento. I nuovi locali hanno avuto così tanto successo che due anni fa ad Hennequin è stato proposto di fare la stessa cosa per il resto dell’Europa. Lo stile dei nuovi ristoranti va dall’ “assolutamente semplice”, caratterizzato da un arredamento minimale e colori neutri, al “Qualité”, in cui abbondano grandi immagini di insalate e pomodori e scintillanti utensili da cucina in acciaio. “I nuovi ristoranti sono più confortevoli, meno affollati e le sedie ci piacciono molto”, dice Shane Bogela, 16 anni, intervistata in un McDonald’s di Londra, riferendosi ai locali rinnovati e Philip Anderson necessitavano soltanto di un minimo accenno di regolazione, diversamente, per esempio, dai mutual fund. Per chiunque conosca almeno un po’ i ricchi, l’idea che un ricco sia esperto è risibile. I ricchi in genere diventano ciò che sono in modi che non hanno nulla a che vedere con l’essere esperti negli investimenti. Alcuni dei massimi investitori di hedge fund sono i fondi pensionistici, i fondi dei sindacati e altri gruppi di impiegati. Sarebbero rimasti sbigottiti se fossero venuti a conoscenza di quali incredibili giochetti rischiosi i loro “2 e 20” — agenti che impongono loro tariffe pari al 2 per cento del valore totale dei loro asset e che si tengono il 20 per cento dei profitti — stavano facendo con i loro soldi. E’ difficile credere che un agente di polizia di Los Angeles avrebbe davvero voluto vincolare i soldi della sua pensione ai mutui subprime. Se gli hedge fund devono continuare a essere qualcosa che ha una sua importanza, è giunta l’ora che esibiscano trasparenza totale nei confronti dei loro investitori. In altre parole, abbiamo appena constatato che si rende necessaria una regolamentazione degli hegde fund. LA PAURA NON PUO’ MISTIFICARE I FATTI Il caos dei subprime è sempre stato inferiore a quello che i media hanno strombazzato. In una nazione del nostro calibro, in un mondo economico in fiamme per prosperità e liquidità, le perdite non sono state enormi, anche se i mezzi di informazione hanno cercato incessantemente di spaventarci. GLI INVESTIMENTI NON SONO TUTTO Se qualcosa sembra troppo bella per essere vera nel mondo del denaro, di solito lo è. I subprime dovevano essere dei junk bond, obbligazioni “carta straccia”, con un creditore di basso profilo e interessi alti, ma insolvenze abbastanza basse da consentire un profitto ai proprietari di obbligazioni. Di fatto, invece, enormi profitti sono stati fatti dagli enti erogatori, ma quando il tasso di insolvenza reale è stato reso noto, il denaro in regalo è svanito. I MERCATI SBAGLIANO SUL BREVE PERIODO Dopo tutto, i mercati sono in costante evoluzione, pertanto i prezzi precedenti devono essere stati un errore. Tendono ad avere ragione, ma nel breve periodo si possono verificare drastiche sopravvalutazioni e sottovalutazioni. Qualcosa del genere sta accadendo adesso con le azioni finanziarie, che sono a livelli che parrebbero far presagire una seconda Grande Depressione. Se questo non accadrà, fra dieci anni alcune persone molto brillanti che hanno comperato azioni finanziarie alla fine dell’estate 2007 potrebbero rallegrarsi di averlo fatto. Occorrerebbero marchiani errori di politica monetaria per giustificare i prezzi di queste azioni oggi. Dean Hachamovitch è il direttore generale di Internet Explorer per la Microsoft. Il testo si basa sui racconti fatti alla ex collega Julie Bick, quando lavorava alla Microsoft. in cui si affrontano tematiche diverse la conversazione si sposta su un argomento che non mi interessa, non ho problemi a controllare la mia posta. E’ meglio che farlo alle undici di sera. Poco tempo fa un mio collega stava proiettando sullo schermo della sala riunioni alcuni dati dal suo laptop. Era in piedi, davanti a tutti, quando sullo schermo si è aperto un “toast” — quella finestrella nell’angolo che annuncia che una persona della tua lista si è appena collegata — con un messaggio inviato da uno dei presenti che gli diceva che aveva la cerniera aperta. Si trattava di uno scherzo, fatto per ricordargli che durante le riunioni il laptop andrebbe tenuto in modalità “presentation”, il che, tra le altre cose, mette a tacere gli instant message. Durante le riunioni i laptop possono ri- Bill Gates non controlla la posta elettronica in riunione. Tu invece sì? sultare scoraggianti se i più anziani tra i presenti li controllano con frequenza o, peggio ancora, si mettono a scrivere per un certo tempo. Chi è incaricato della presentazione si domanderà quanto il suo discorso viene seguito. A questo proposito devo dire che i nostri dirigenti ci danno un buon esempio. Durante le riunioni Bill Gates o Steve Ballmer non rispondono alle e-mail: ascoltano e rispondono alle domande. Il modo più discreto per controllare email, instant message e internet durante una riunione è sui cellulari di ultima generazione. Gli smartphone, collegati a Internet, con versioni mobili dello stesso programma Office che avete sul computer, rendono più facile a chi è alla ricerca di informazioni l’invio di una e-mail veloce. Ma assicuratevi di tenere spenta la suoneria con La ragazza di Ipanema. Repubblica NewYork VII LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 SCIENZA E TECNOLOGIA Allenare la mente a controllare il dolore di JASON PONTIN Se le leggi del Brasile colpiscono chi fa ricerca di LARRY ROHTER RIO DE JANEIRO — Marc van Roosmalen è un primatologo di fama mondiale le cui ricerche in Amazzonia hanno portato alla scoperta di cinque specie di scimmie e di un nuovo primate. Ma proprio a causa del suo lavoro, recentemente van Roosmalen è stato condannato a quasi 16 anni di carcere e imprigionato a Manaus, in Brasile. I suoi avvocati sono riusciti a farlo uscire di prigione all’inizio di agosto e stanno preparando l’appello contro la condanna per bio-pirateria. Gli scienziati, qui e all’estero, considerano il suo caso l’esempio più lampante di quelle che definiscono le leggi e le politiche governative xenofobe, sempre più contrarie alla ricerca scientifica. “La ricerca deve essere stimolata, non criminalizzata”, dice Enio Candotti, fisico e presidente da quattro anni della Società brasiliana per il progresso della scienza, l’ente scientifico più importante del Paese. “Ci troviamo invece in una situazione dove alcuni burocrati in un eccesso di zelo considerano tutti colpevoli fino a prova contraria”. A un convegno di biologia a luglio in Messico, 287 scienziati di 30 Paesi hanno firmato una petizione che afferma che l’arresto di van Roosmalen è “indicativo di una tendenza repressiva da parte del governo brasiliano”. Il governo dice di non avere desideri di vendetta contro gli scienziati e di voler soltanto proteggere il patrimonio naturale e genetico. Il timore di episodi di bio-pirateria — genericamente, ogni prelevamento o trasporto non autorizzato di materiale genetico o di flora e fauna vivente — è radicato da tempo in Brasile. Quasi un secolo fa, per esempio, il boom del caucciù in Amazzonia finì dopo che Sir Henry Wickham, un botanico ed esploratore britannico, ne contrabbandò i semi (che presto dominarono il mercato internazionale) fuori dal Paese per spedirli nelle colonie di Ceylon e Malaya, ora Sri Lanka e Malaysia). Negli anni ’70, la casa farmaceutica Marc van Roosmalen, sopra, è stato condannato per biopirateria per il suo lavoro sulle scimmie dell’Amazzonia in virtù di una legge che gli scienziati ritengono troppo rigida. Lalo de Almeida per The New York Times; in alto a sinistra, Eraldo Peres/Associated Press Squibb usò il veleno del serpente brasiliano bothrops jararaca, un tipo di vipera, per lo sviluppo del captopril, un principio attivo efficace contro l’ipertensione e contro l’insufficienza cardiaca congestizia, senza pagare le royalties che i brasiliani ritenevano fossero loro dovute. Più recentemente, alcune tribù indigene hanno protestato perché alcuni campioni di sangue, prelevati in condizioni che ritengono non etiche, vengono impiegati in ricerche genetiche in varie parti del mondo. Per impedire queste pratiche il Brasile ha varato negli ultimi anni una legislazione che risponde al sentimento nazionale, ma che, secondo gli scienziati, parte dall’assunto che ogni ricercatore sia coinvolto nella la bio-pirateria. Per avviare delle ricerche bisogna avere l’autorizzazione di ben cinque agenzie governative. E anche se la legge prevede che la risposta non richieda più di 90 giorni, secondo i ricercatori talvolta bisogna attendere anche due anni. Questo ha determinato una situazione nella quale molti ricercatori spesso procedono presumendo che i permessi saranno concessi. Candotti stima che addirittura metà delle ricerche in corso in Brasile possano essere irregolari. “Se hanno potuto fermare van Roosmalen con accuse false, possono prendersela con ognuno di noi”, dice uno scienziato che lavora a Manaus che parla solo a condizione che non si faccia il suo nome. Gli stranieri non sono gli unici a lamentarsi. Anche gli scienziati brasiliani parlano dei problemi che incontrano per ottenere l’approvazione alle loro proposte di ricerca. Il Consiglio nazionale per lo sviluppo scientifico e tecnologico, la principale agenzia governativa che si occupa della ricerca scientifica, ha declinato l’invito a commentare il caso van Roosmalen o le proteste di altri studiosi. I legali di van Roosmalen, nato in Olanda ma naturalizzato cittadino brasiliano, dicono che il loro assistito è più che altro vittima di un sentimento xenofobo dettato dal timore della biopirateria. “Questo processo è stato condotto in modo totalmente irregolare e con accuse montate”, afferma Miguel Barrella, uno degli avvocati di van Roosmalen. “Non sono riusciti a provare le accuse di bio-pirateria e hanno inventato una serie di accuse false”. Nel corso degli ultimi vent’anni, van Roosmalen si è scontrato frequentemente con le autorità brasiliane. Anche i suoi più ardenti difensori dicono di quanto sia testardo, irascibile e per niente deferente nei confronti dell’autorità. Ciononostante, Wim Veen, un suo ex compagno di studi e uno dei fondatori di Help Marc van Roosmalen, un comitato in sua difesa che ha sede in Olanda, sostiene che queste pecche non hanno alcun peso se vengono messe a confronto con le ben più vaste questioni che sono in gioco. “Se c’è qualcuno in Brasile che sta difendendo l’Amazzonia, questo è Marc”, dice Veen, “ed è incredibile che sia proprio lui a essere la vittima di leggi concepite per combattere quelli che vogliono appropriarsi delle ricchezze della foresta pluviale per i propri benefici materiali”. Uno scienziato esorta la gente a fidarsi del proprio istinto di CLAUDIA DREIFUS Due anni fa, quando Malcom Gladwell pubblicò il suo bestseller Blink: The Power of Thinking Without Thinking, i lettori entrarono in contatto con le teorie di Gerd Gigerenzer, un ricercatore tedesco esperto di psicologia sociale. Gigerenzer, che dirige l’Istituto Max Planck per lo sviluppo umano, a Berlino, è famoso, nell’ambito delle scienze sociali, per i suoi rivoluzionari studi sulla natura del pensiero intuitivo. Prima della sua ricerca, questo argomento veniva spesso liquidato come superstizione. Gigerenzer, che ha 60 anni, è riuscito a mostrare il funzionamento di determinati aspetti dell’intuizione e di come questa possa essere usata con efficacia nella vita moderna. Adesso ha scritto Gut Feelings: The Intelligence of the Unconscious, che spera incontri lo stesso successo. “Ho apprezzato il libro di Gladwell”, ha detto Gigerenzer durante una visita a New York, a luglio. “Ha diffuso la conoscenza dell’argomento, comprese le mie ricerche, tra il grande pubblico”. D: Che cos’è una reazione istintiva? R: E’ un giudizio rapido, che si manifesta velocemente nella coscienza di un individuo. L’individuo non sa perché prova questa sensazione, ma è una sensazione abbastanza forte per spingerlo ad agire. Una reazione istintiva non è un calcolo, è qualcosa che non sai bene da dove venga. Le mie ricerche indicano che le reazioni istintive si basano su alcune semplici regole pratiche, quelle che gli psicologi Gerd Gigerenzer studia le reazioni “di pancia”. Oliver Hartung per The New York Times definiscono “euristiche”. Sfruttano determinate capacità del cervello che si sono formate con il tempo, l’esperienza e l’evoluzione. Le reazioni istintive spesso sono basate su semplici indizi che sono presenti nell’ambiente. Nella maggior parte delle situazioni, quando la gente usa l’istinto si affida a questi indizi e ignora altre informazioni non necessarie. D: Le reazioni istintive non godono di buona reputazione. Perché? R: Perché non sono giudicate razionali. Uno dei fondatori del vostro Paese, Benjamin Franklin, suggeriva a suo nipote di assumere l’approccio di un ragioniere, stilare un elenco dei pro e dei contro e decidere dopo aver soppesato ogni aspetto, quando si trattava di prendere decisioni importanti. Questo è il classico approccio razionale. D: E’ così che prendo le mie decisioni. È sbagliato? R: In certe situazioni, un approccio simi- le richiede un numero eccessivo di informazioni. E’ un processo lento. Affidarsi alle proprie reazioni istintive e seguire la regola pratica del “dai retta alla prima impressione e ignora tutto il resto” ti può consentire di ottenere risultati migliori di quelli a cui arriveresti con i calcoli complessi. D: In quali situazioni le reazioni istintive possono essere fuorvianti? esempio è quello che è successo dopo l’11 settembre: molti americani hanno smesso di prendere l’aereo, preferendo fare gli spostamenti in macchina. Ho dato un’occhiata ai dati, ed è uscito fuori che nei dodici mesi successivi agli attentati, le vittime di incidenti stradali R: Un sono cresciute di 1.500 unità. Gli americani hanno dato retta alle loro paure, e questo ha provocato un aumento dei morti sulle strade. Fatalità come queste si possono evitare facilmente, ma i governi non prendono molto sul serio la psicologia. La maggior parte delle ricerche sui metodi per combattere il terrorismo si concentrasu aspetti tecnologici e burocratici. Educare l’opinione pubblica su questa questione avrebbe potuto salvare delle vite umane. D: Alcuni detrattori sostengono che le reazioni istintive hanno poco di scientifico. Che risponde? R: Studiamo queste cose, cerchiamo di capire in quali casi l’intuizione può essere utile e quando non lo è . Nella stessa scienza l’intuizione riveste un ruolo insostituibile. Tutti i grandi ricercatori, almeno in parte, si affidano all’istinto. D: Si ritiene un individuo intuitivo o ra- zionale? R: Nel mio lavoro scientifico mi capita di avere delle intuizioni. Non sempre sono in grado di spiegare perché penso che un determinato metodo sia quello giusto, ma ho bisogno di crederci e di andare avanti. Sono in grado di sottoporre a verifica queste intuizioni, di scoprire su cosa si fondano. Nella mia vita privata, invece, mi affido all’istinto. Quando ho incontrato per la prima volta mia moglie, ad esempio, non mi sono messo a fare calcoli. E neanche lei. Se bastasse il pensiero, si dice talvolta. Ma Christopher deCharms, amministratore delegato della Omneuron, una nuova società di Menlo Park, California, ne è convinto. La società che ha fondato ha ideato tecnologie che insegnano ad allontanare il dolore con il pensiero e progetta di trattare in modo analogo la dipendenza, la depressione e altri disturbi neurologici e psicologici incurabili. La Omneuron è tra le nuove società che commercializzano una tecnologia di scansione cerebrale chiamata risonanza magnetica funzionale in tempo reale, o fMRI. Utilizzando gli scanner per misurare il flusso sanguigno nelle varie aree cerebrali questa tecnologia evidenzia l’attività cerebrale rivelando quali aree sono più attive nello svolgimento di compiti diversi. Pur risalendo ai primi anni ’90, la fMRI è stata finora utilizzata soprattutto negli ospedali per la diagnostica. La commercializzazione degli scanner cerebrali è uno sviluppo recente, stimolato dal perfezionamento della tecnologia. La Omneuron, fondata da deCharms nel 2001 e finanziata dall’Istituto nazionale di sanità, utilizza la fMRI per insegnare alle persone a usare la testa. Altri imprenditori lavorano sulle modalità di impiego della fMRI come macchina della verità, strumento per condurre ricerche di marketing o per aumentare la sicurezza e la precisione degli interventi neurochirurgici. Ecco come la Omneuron utilizza la fMRI nella terapia del dolore cronico: il paziente posizionato all’interno dello scanner, come in una bara, osserva una fiamma generata al computer che viene proiettata sullo schermo di occhiali da realtà virtuale. L’intensità della fiamma rispecchia l’attività neurale delle aree Lo scanner può essere utilizzato nella terapia contro la depressione. cerebrali coinvolte nella percezione del dolore. Utilizzando una serie di tecniche mentali — ad esempio immaginando che un’area dolente venga inondata di sostanze chimiche lenitive — la maggior parte dei pazienti riesce, con un po’ di concentrazione, a far crescere e decrescere la fiamma. Il paziente si sente meglio quando la fiamma si affievolisce. Apparentemente simile ad una tecnologia già esistente, il biofeedback encefalografico, che misura il feddback elettrico attraverso molteplici aree del cervello, il feedback fMRI misura l’emodinamica in determinate aree cerebrali. “Siamo convinti che il feedback fMRI in tempo reale sarà utilizzato per affinare strategie cognitive che intensificheranno l’attivazione delle regioni cerebrali”, dice deCharms. Con l’esercizio e la ripetizione, si augura, il paziente riuscirà a suscitare l’effetto desiderato senza ricorrere alla macchina. In uno studio del 2005 deCharms e Sean Mackey, vice direttore della divisione per la terapia del dolore alla Stanford University, dimostrarono che otto pazienti affetti da dolore avvertirono una riduzione del disagio pari al 64 per cento utilizzando la tecnologia Omneuron. La Omneuron sta inoltre studiando terapie per la dipendenza, la depressione e altre patologie psicologiche. Nel campo della dipendenza, dice deCharms, la società ha preso in considerazione “svariate dozzine di applicazioni”, inclusa la terapia dell’ictus e dell’epilessia. Lo scanner cerebrale potrebbe addirittura essere usato per migliorare le prestazioni atletiche. Medici ed esperti di abuso di sostanze stupefacenti sono entusiasti all’idea di curare la dipendenza utilizzando la fMRI. “Potremmo disporre di uno strumento per controllare la sensazione interiore di desiderio”, dice Nora D. Volkow, direttrice del National Institute on Drug Abuse, che ha contribuito a finanziare la ricerca della Omneuron sulla dipendenza. Jason Pontin è direttore ed editore di Technology Review, rivista e sito web di proprietà del Massachusetts Institute of Technology. VIII LUNEDÌ 10 SETTEMBRE 2007 ARTI E TENDENZE In un’opera il lamento di una schiava in fuga di MATTHEW GUREWITSCH Frank Masi/20th Century Fox Dopo 12 anni Bruce Willis, a sinistra, torna nei panni di John McClane in “Die Hard 4”. Ci sono sequel e sequel spazzatura Per me è tutta colpa di Aliens. Anche se 12 anni prima, nel 1974, Il Padrino parte seconda aveva dimostrato che un sequel poteva essere un successo di pubblico e di critica, fu l’entusiasmante incontro tra alieni e militari diretto da James Cameron, secondo atto dell’elegante incubo JEANNETTE CATSOULIS spaziale di Ridley Scott, a smuovere le acque. Aliens dimostrò che cambiando regista e con l’aggiunta di qualche sceneggiatore si può mutare l’atmosfera, la grammatica visiva e la sensibilità generale del film originale, compiacendo i critici e recuperando almeno quattro volte i costi di produzione. Anche se, da allora, pochi sequel hanno mantenuto la promessa, anche i peggiori ripagano normalmente le spese. Nell’incertezza del mondo di Hollywood equivale ad un successo e considerando che i costi del marketing spesso fanno concorrenza a quelli di produzione è facile capire perché gli studios restino fedeli a progetti che sono diventati un marchio. Così può anche darsi che Shrek Terzo si riveli deludente, ma se la delusione si traduce in un incasso al botteghino superiore a 300 milioni di dollari negli Stati Uniti, è garanzia che il nostro orco grassottello e la principessa Fiona ci regaleranno altre flatulenze nel prossimo futuro. Più difficile è spiegarsi perché il pubblico torni in sala. I fan che tollerano la ripetitività e la miseria ideologica della saga di Rush Hour, ora a tre episodi, testimoniano quanto possano la speranza e il bisogno di certezze quando la guerra in Iraq prosegue e le pensioni e i ghiacci polari vanno scomparendo. Forse è in risposta a questa sensazione che Hollywood ha sfornato quest’estate una quantità senza precedenti di sequel, nove in tutto, che per lo più hanno fruttato incassi soddisfacenti se non il plauso della critica. Ma soli tre film hanno avuto successo su entrambi OPINIONE La sfida è creare un eroe che cambia senza rinunciare alla sua indole. i fronti: The Bourne Ultimatum, Harry Potter e l’Ordine della fenice e Die Hard 4 - Vivere o morire. Pur non essendo capolavori artistici e neppure oggetto di plauso unanime tutti e tre sono film intelligenti, divertenti e, cosa più importante, astutamente in sintonia con le aspettative del loro pubblico. Mettendo in campo eroi riconoscibili con chiare debolezze (dall’amnesia, all’inesperienza, a una figlia in pericolo), tutti hanno portato avanti il loro discorso narrativo pur rimanendo fedeli alla personalità già definita dei protagonisti. Uscendo a dodici anni di distanza dall’ultima pellicola della serie, Die Hard 4 è arrivato nelle sale svantaggiato rispetto ai concorrenti. Ma facendo leva sui timori di guasti del sistema informatico e di un disastro finanziario tipici di una pubblico più anziano, ha unito almeno due generazioni nell’ansia da modernità e nella beatitudine da popcorn. Molto del merito va a Bruce Willis, che scolpisce l’irascibile personaggio di John McClane con rassegnata sopportazione. Quando un pericolo si profila all’orizzonte McClane trattiene il respiro, alza gli occhi al cielo e va al lavoro. Così quando uscirà la prossima puntata della saga di Die Hard noi saremo lì a rispondere all’appello, se non altro perché lui ha sempre risposto al nostro. Nell’autunno del 2002, il compositore Richard Danielpour lavorava all’Accademia americana di Berlino. Stava orchestrando il primo atto della sua prima opera, Margaret Garner, ma era ancora in attesa delle parole per le scene conclusive. Per intere settimane aveva inseguito telefonicamente a Princeton, in New Jersey, la sua librettista, la premio Nobel Toni Morrison, che gli aveva tranquillamente risposto: “Le cose belle richiedono tempo. Devi aspettare”. Finalmente, alla fine di ottobre, il fax aveva iniziato a sfornare pagine e pagine. Danielpour le ha messe insieme, se ne è andato in macchina fino allo splendido Hotel Adlon Kempinski, ha ordinato il pranzo e dopo aver iniziato la lettura si è ben presto ritrovato in lacrime. Di recente ha raccontato questo episodio a New York, dove erano in corso le prove per la prima locale di Margaret Garner, al New York City Opera, e ha aggiunto che poiché si era accorto che aveva smesso di mangiare, un cameriere gli si era accostato chiedendo: “Mi scusi, signore, c’è qualcosa che non va nel suo risotto?” Ai suoi tempi, Margaret Garner fu un caso clamoroso: era una schiava fuggita del Kentucky, che tagliò la gola a una figlia per non vederla di nuovo schiava. Se i cacciatori di schiavi non glielo avessero impedito, probabilmente avrebbe finito con l’uccidere anche gli altri figli e si sarebbe suicidata. Il suo fu il processo più lungo a una schiava della metà del XIX secolo di cui si abbia notizia. Il punto centrale del processo era stabilire se dovesse essere giudicata come un essere umano, in grado quindi di distinguere quello che è giusto da quello che è sbagliato, o come semplice proprietà, quindi come un oggetto. Nell’opera il tribunale deve decidere se il Nella scena d’apertura dell’opera “Margaret Garner” la protagonista (Denyce Graves, al centro) e le altre schiave sono all’asta. Nel suo libretto Toni Morrison, sotto, aspirava a una lingua “pienamente sentita”. John Grigaitis/Michigan Opera Theater suo crimine sia l’omicidio o il furto, visto che di fatto distrugge una proprietà. La storia di Garner, intessuta di realismomagico,sibasasull’apprezzatissimo romanzo di Morrison intitolato Beloved, nel quale i morti sono una presenza fisica al pari dei vivi. Per Morrison, tuttavia, il punto centrale dell’intera opera è il dibattimento legale. Il libretto è molto più aderente alla realtà storica di quanto non lo fosse il romanzo. Ma anche così la scrittrice si è presa le sue libertà. La vera Garner, per esempio, morì annegata, mentre nell’opera un’inesorabile logica drammatica la porta sulla forca. Toni Morrison non risparmia alla sua protagonista il castigo, ma le offre anche un’epifania lirica. Dopo aver finito di leggere quelle scene, Danielpour ha telefonato a Morrison e le ha detto: “Sono perfette, ben più di quello che avevo sperato”. La scrittrice ha risposto: “È il testo più difficile che abbia mai scritto”. Danielpour, 51 anni, non si è dedicato all’opera così tardi come potrebbe sembrare: “Per anni mi sono sentito una sorta di compositore lirico sotto mentite Ed Alcock per The New York Times spoglie”, dice. “Non riuscivo a scrivere neppure un pezzo strumentale senza avere segretamente in mente una scena drammatica tutta mia”. Il sodalizio con Morrison, 76 anni, risale al 1993, quando insieme collaborarono al ciclo di canzoni Sweet Talk per Jessye Norman. Non appena Morrison lanciò l’idea di pranzare insieme per parlare di un altro progetto, Danielpour accettò senza indugi. Entrambi, si scoprì in seguito, avevano in mente la storia di Margaret Garner. In unmessaggio di postaelettronicada Princeton, Morrison riprende a raccon- tare la storia: “Dopo averne parlato per mesi e mesi, ho ricevuto tramite Danielpour una sorta di ‘trattamento’ perfezionato. Leggendolo, l’ho trovato ‘scorretto’ in alcuni punti, tanto da volerlo correggere. Ho iniziato a riscriverlo, e alla fine ho scritto il libretto”. Danielpour voleva una lingua “a metà strada tra prosa e poesia”, ha detto, mentre lei invece era ossessionata dal desiderio di trovare una lingua che fosse “lirica, pienamente sentita e immaginata”. Puntava a un ibrido di opera europea e musical americano, imbevuto di rhythm and blues, gospel e spiritual con cui è cresciuto.“Quellanonèsemplicemusicache ascolto o mi piace”, dice. “Adoro quella musica. Sono cresciuto in Florida negli anni Sessanta: ero un bambino ebreo bianco profugo, un americano di prima generazione con i genitori nati in Iran, e ascoltavo tutte quelle cose con il filtro del Sud razzista”. Danielpour spiega che voleva che la parte cantata risultasse vicina alle tradizionioraliamericane,con“menovibrato, e un tono più diretto”. Lenoteprincipalisonocostellateditocchi digrazia,un modo concui Danielpour indica che devono essere eseguite sotto tono, come quando si canta un gospel. “L’annotazione è imperfetta”, dice. “Ma non volevo che Margaret paresse aver appena finito di cantare la Tosca. Volevo che dalla sua voce si capisse che hatrascorso l’interavitaacantare in una chiesa battista”. Il racconto della schiavitù è esplosivo di suo e, come osserva Morrison, ci sono molte interpretazioni possibili. “Alcune volevano che Margaret Garner contenesse tutto ciò che è possibile dire della schiavitù, ma non era realistico”, dice. “La nostra è una delle possibili interpretazioni. Una di cui andiamo fieri”. Portare il paesaggio dell’Islanda in un museo di DOROTHY SPEARS Olafur Eliasson è sospeso sopra una scala appoggiata a una cavità del ghiacciaio Vatnajokull, in Islanda. Il buco, profondo dai 180 ai 275 metri, somiglia a una cicatrice che si sta sciogliendo sulla superficie apparentemente impenetrabile del ghiacciaio. Nel giro di due giorni Eliasson e la sua squadra, che conta tra gli altri un geologo esperto di ghiacciai e un architetto di esterni, ne hanno scoperti 35, i più piccoli abbastanza larghi “da poterci entrare dentro”, ha detto Eliasson diversi giorni più tardi, una volta rientrato nel suo studio di Berlino. I più grandi erano di circa 1,8 metri tanto “da poter ingoiare un’utilitaria”. I buchi sono dovuti a un incremento delle acque durante il disgelo del ghiacciaio, che è il più grande d’Europa. Le fotografie appaiono tra oltre 20 installazioni su larga scala che usano luce, nebbia, acqua, specchi e altre prodezze ingengeristiche a bassa tecnologia in Take your time: Olafur Eliasson, la prima importante mostra-indagine dell’artista negli Stati Uniti inaugurata al Modern Art di San Francisco. Da oltre dieci anni Eliasson, 40 anni, esibisce nel mondo opere di grandi dimensioni che è difficile non amare o che quanto meno difficilmente lasciano indifferenti. Ricreando gli effetti sensoriali dei paesaggi islandesi in contesti artificiali, come i musei, trasmette il rapporto fisico e emotivo che lo lega a fenomeni naturali spettacolari. Arcobaleni che brillano tra goccioline d’acqua, stanze immerse in un unico, intensissimo colore, cascate al contrario e percorsi caleidoscopici sono alcune delle meraviglie per la vista, l’udito, l’olfatto e il tatto. “Certamente Olafur appartiene a questa generazione di artisti che trovano nelle mostre internazionali il loro sbocco migliore”, dice Madeleine Grynsztejn, curatrice del Modern Art di San Francisco e tra i principali organizzatori della mostra. Gli estimatori di Eliasson hanno affollato musei, anche se a volte lui è scettico nei confronti dell’attenzione che circonda il suo lavoro. Nell’inverno del 2003-2004 il suo Weather Project — un gigantesco sole finto, fatto con 200 lampadine gialle al sodio e qualche trucchetto, come l’impiego di specchi e nebbia — ha richiamato alla Tate Modern più di due milioni di visitatori. Ma Eliasson rifiutò la richiesta di prolungare la mostra. “L’attenzione dei media era molto lusinghiera”, ricorda seduto a un tavolo vicino a un imbarcadero che si Magnus Hjorleifsson; riquadro, Olafur Elijasson Olafur Eliasson si serve di luci, nebbia e immagini per evocare fenomeni naturali. Sopra sta fotografando un ghiacciaio che si sta riducendo in Islanda. “Beauty”, a sinistra, è un arcobaleno artificiale. esperienza artistica il progetto potesse trasformarsi in stupido intrattenimento”. Eliasson, nato a Copenhagen da genitori islandesi, aveva otto anni quando i suoi si separarono e suo padre, un artista, tornò in Islanda, dove il giovane Eliasson trascorse le estati e le vacanze. “Tutte le cose che dovevo fare erano danesi”, dice. “Tutte quelle che volevo fare erano in Islanda”. Nello studio di suo padre, racconta, si divertiva con la vernice. A 15 anni, in Danimarca, tenne la sua prima mostra personale in una piccola galleria alternativa. Nel 1993, quando iniziò a lavorare alle installazioni per cui oggi è conosciuto, era ancora studente e frequenTanya Bonakdar Gallery, New York tava l’Accademia d’arte reale a trova davanti al retro del suo studio Copenhagen. Come altri artisti della sua generadi Berlino, tra alberi spogli, erba e binari abbandonati. “Ma stava diven- zione, non lavora da solo. Dopo il suo tando brutale. C’era il rischio che da recente viaggio in Islanda il vecchio deposito di treni, che oggi è il suo studio, pullulava di gente. All’ombra delle travi, sotto le stampe che illustrano miriadi di progetti, erano al lavoro quasi una dozzina di architetti. Il viaggio fotografico è stato l’ultima tappa di una serie. “Tutto iniziò con delle foto scattate mentre passeggiavo o durante alcuni viaggi in campagna”, dice. Quando iniziai il ghiacciaio non sembrava che si stesse riducendo. “Dieci anni fa”, dice, “non era un grande problema”. Collocate in una griglia, le foto suggeriscono l’immagine di un muro su cui si aprono delle finestre. “Mi piace l’idea”, dice, “che ci si possa avvicinare a ciascuna finestra e ascoltare una storia diversa”. Ogni finestra racconta una storia, ma l’implicito, inquietante filo conduttore è soltanto uno: “Il ghiacciaio sta sparendo”, dice Günther Vogt, un architetto di esterni di Zurigo che ha accompagnato Eliasson nel suo recente viaggio. “E noi ne siamo responsabili”. Repubblica NewYork