Comunità per minori
Da:
•Saglietti Marzia, 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma
•Bastianoni P., Taurino A., Le comunità per minori, 2009, Carocci, Roma
1
• Introduzione
–
–
–
Tipologie di strutture
Requisiti per le comunità
Nuove emergenze per le comunità
• Organizzazione delle comunità
–
–
–
–
–
–
–
Comunità di pratica
Preoccupazioni
Fragilità
La leaderschip
Il volontario e/o il nuovo educatore
Documenti
Gli spazi
• Rapporto con le famiglie
• Interazioni nelle comunità
• Comunità come Ambiente Terapeutico Globale
2
introduzione
Tipologie di strutture
• In base alla normativa attuale si distinguono le
seguenti strutture:
a. comunità educativa
b. comunità di pronta accoglienza
c. comunità familiare
d. comunità alloggio
3
introduzione
Tipologie di strutture
• Comunità educative
– L’azione educativa è svolta da un gruppo di operatori
professionali (sono dei lavoratori); accetta, mediamente sul
territorio nazionale, intorno a 10 ospiti.
• Comunità di pronta accoglienza
– Accolgono minori in situazioni di emergenza, senza un piano
preventivo di accoglienza; permanenza breve (30/40 giorni) per
il tempo necessario a trovare una sistemazione più idonea;
accolgono in genere i MSNA (Minori Stranieri Non
Accompagnati): minorenne non di cittadinanza italiana, che si
trova sul territorio italiano e che non ha presentato domanda di
cittadinanza, senza un adulto che lo assisti o lo rappresenti
(genitori o altri) e che siano legalmente responsabili in base alle
leggi italiane.
4
introduzione
Tipologie di strutture
• Comunità di tipo familiare (o case famiglia)
– Strutture nelle quali l’attività educativa è svolta da due o più
adulti che vivono con i minori presenti, eventualmente
insieme ai propri figli, e che ne assumono la funzione
genitoriale; gli adulti sono, in genere, un uomo ed una donna;
possono essere aiutati, internamente alla struttura, da
professionisti retribuiti.
• Comunità alloggio
– Strutture che accolgono piccoli gruppi di neomaggiorenni, che
sono sostenuti verso un itinerario di autonomia attraverso
azioni educative che non hanno statutariamente un carattere di
continuità.
5
introduzione
Requisiti per le comunità
• A volte si stabiliscono dei criteri però poi non
ci sono strumenti per valutarli; ad esempio
spesso si ritiene indice essenziale una adeguata
formazione degli operatori, però rimane aperto
il problema di riuscire a valutarla.
• Ci sono comunque dei requisiti minimi, a
livello nazionale, che le comunità debbono
rispettare (D.M: 21/05/2001, n. 308):
6
introduzione
Requisiti per le comunità
• Ubicazione in luoghi abitati facilmente raggiungibili con l’uso
di mezzi pubblici, comunque tale da permettere la
partecipazione degli utenti alla vita sociale del territorio e
facilitare le visite agli ospiti delle strutture;
• dotazione di spazi destinati ad attività collettive e di
socializzazione distinti dagli spazi destinati alle camere da
letto, organizzati in modo da garantire l’autonomia
individuale, la fruibilità e la privacy;
• presenza di figure professionali sociali e sanitarie qualificate,
in relazione alle caratteristiche e ai bisogni dell’utenza
ospitata;
• presenza di un coordinatore responsabile della struttura;
7
introduzione
Requisiti per le comunità
• adozione di un registro degli ospiti;
• predisposizione per gli stessi di un progetto educativo
individuale; il progetto deve indicare: gli obiettivi da
raggiungere, i contenuti e le modalità dell’intervento,
il piano delle verifiche;
• organizzazione delle attività nel rispetto dei normali
ritmi di vita degli ospiti (una comunità non è una
istituzione totale);
• adozione, da parte del soggetto gestore, di una Carta
dei servizi sociali (progetto educativo generale), per
indicare alla collettività il servizio che offre.
8
introduzione
Nuove emergenze per le comunità
• Ritorno in comunità di soggetti provenienti da adozioni o affidi
falliti (stimato intorno al 30% dei soggetti attualmente in comunità);
diventano soggetti rifiutati due volte: dalla famiglia di origine e da
quella affidataria/adottiva; per loro lavoro educativo particolarmente
impegnativo;
• presenza di minori stranieri che ha spinto gli educatori a riformularsi
sugli aspetti educativi e anche su quelli di accettazione
interculturale;
• crescente numero di neomaggiorenni fuori famiglia e questo fa
interrogare sull’opportunità di esaurire gli interventi con il
raggiungimento della maggiore età;
• il tasso crescente di accoglienze madre-bambino richiede nuove
competenze educative (ad es. la maternità).
9
organizzazione delle comunità
Comunità di pratica
• “Le comunità (in genere) per minorenni sono sistemi
sociali organizzati dove le conoscenze, le competenze e le
pratiche sono distribuite fra le persone e le cose nel
tempo e nello spazio”*.
• Tali comunità sono assimilabili alle comunità di pratica
(Wenger E. (1998), Communities of practice. Learning, Meaning and Identity, Cambridge University Press, Cambridge.)
che sono caratterizzate da:
– un’impresa comune: situazione lavorativa, tema, obiettivo, …,
che accomuna i membri che partecipano;
– un impegno comune: che stimola alla condivisione di idee ed
alle interazioni;
– un repertorio condiviso di azioni, linguaggi, pratiche, strumenti
(ideali e materiali).
10
*Saglietti M.,Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012
organizzazione delle comunità
Comunità di pratica
• Le comunità di pratica si formano, evolvono, muoiono e,
per essere tali e non semplicemente dei ‘gruppi’, si
organizzano intorno ad un obiettivo comune (impresa
comune); si cementano attraverso continue negoziazioni di
significato, realizzate dagli stessi membri e facilitate dalla
comune volontà di stare insieme, di conoscersi e di vivere
l’esperienza in modo significativo (impegno comune).
• Sono gruppi sociali che mirano alla collaborazione e alla
condivisione attraverso repertorio condiviso di azioni,
linguaggi, pratiche, strumenti.
11
organizzazione delle comunità
Comunità di pratica
• In definitiva una comunità per minori ha un
obiettivo comune, l’educabilità dei minori, che
realizza attraverso un impegno comune degli
operatori, utilizzando degli “attrezzi” condivisi
(idealità educative, strategie educative,
strumenti, …).
12
organizzazione delle comunità
Preoccupazioni[1]
• Dire che le comunità per minori sono dei sistemi sociali
organizzati non deve destare preoccupazioni;
• Infatti non si parla di istituzioni nel senso di istituzioni totali;
Goffman caratterizza le istituzioni totali nel seguente modo:
– “Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono sotto lo stesso
luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle
attività giornaliere si svolge a stretto contatto con un enorme
gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte
obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle
attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un
ritmo prestabilito, […] appositamente designato al fine di
adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione” (Gofmann E., 1961,
Asylums,.….., Doubleday, New York, pag. 35-36, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci,
pag. 49)
13
organizzazione delle comunità
Preoccupazioni[]
• Non si parla nemmeno di aziende orientate ad
attività economiche dedite agli affari; questo
tentativo spesso sottende la volontà di
delegittimare l’azione educativa messa in atto
dalle comunità;
• inconsapevole delegittimazione del proprio lavoro
di educatore a causa di una visione personalistica
del fatto educativo che riconduce tutto ad una
relazione affettiva personale ed esclusiva con il
minore.
14
organizzazione delle comunità
Fragilità[1]
Le comunità, comunque, rischiano delle fragilità:
• Se non bene organizzata, la distribuzione del
lavoro, può divenire inadeguata: alti carichi di
lavoro, tempi di lavoro e di vita a volte
inconciliabili, orari lunghi, scarsa mobilità.
• Alto tasso di turn over degli operatori: costo per la
comunità (nuova formazione, perdita di
competenze, frantumazione del gruppo di lavoro),
si genera anche una ricaduta non positiva sulla
riuscita dell’intervento educativo.
15
organizzazione delle comunità
Fragilità[2]
• Rischio di sviluppare la sindrome del burn out: “Il burn out […]
è un processo stressogeno, spesso legato alle persone che si
occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica,
etc. Questi sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro
personale e quello della persona aiutata. Se non opportunamente
trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento
processo di ‘logoramento’ o ‘decadenza’ psicofisica dovuta alla
mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo
stress accumulato. Letteralmente burn out significa proprio
‘bruciare fuori’. Dunque è qualcosa d’interiore che esplode
all’esterno e si manifesta. Il burn out è spesso legato alle
difficoltà di realizzare una comunità di pratica in quanto non è
ben chiaro quale sia l’impresa comune e quale l’impegno
comune”
16
http://www.ipasvi.laspezia.net/pubblicazioni/newsletter/burnout.pdf
organizzazione delle comunità
Fragilità[]
• Scarsità di documentazione organizzativa prodotta:
non si rende visibile e accessibile il proprio lavoro,
così ne risente l’inserimento dei novizi. Un novizio
che si avvia ad imparare un mestiere, una professione,
una pratica è in una posizione di partecipazione
periferica, ma la sua posizione diviene sempre più
centrale quanto più l'esperienza e la partecipazione gli
consentono di sviluppare abilità e conoscenze, cioè
competenza.
17
partecipazione periferica legittimata (Wenger),
organizzazione delle comunità
La leadership[1]
• Spesso si rimuove la presa di coscienza dell’importanza
di una leadership; spesso si pensa che la leadership possa
essere ricondotta ad una operazione che tacitamente
sceglie il leader secondo carisma o fascinazione e tenendo
conto di appartenenza ad identiche fedi ideali;
• altre volte, si ricorre ad una esagerazione della prevalenza
di coordinamento sociale, esageratamente basato su
rapporti amicali e di sostegno reciproco, sul collante di
una identica fede ideale che è espressa dal leader;
• Invece …..
18
organizzazione delle comunità
La leadership[2]
• esercitare la funzione di coordinamento significa
tenere le redini di ciò che succede all’interno e
avviare, coltivare rapporti con il mondo esterno
(sociale, politico, economico);
• occorrono flessibilità, saper creare un gruppo
affiatato, alimentare l’affiatamento, saper vivere
nel tessuto sociale a contatto con le rete che può
garantire la sopravvivenza, saper operare sul
piano educativo per comprendere le esigenze dei
minori.
19
organizzazione delle comunità
La leadership[3]
Il coordinamento impone:
• la gestione delle risorse umane (assunzioni,
ferie, turnazione, dimissioni del personale, chi
fa cosa, i sistemi di avanzamento della carriera
e di premio, …)
• il sostenere l’organizzazione a livello sociopolitico-economico;
• la gestione della cura e dell’azione educativa.
20
organizzazione delle comunità
La leadership[]
• Il coordinatore (leader) è tutt’altro che una
figura basata sullo spontaneismo e non può
essere delegata ad assemblee familistiche, ma
deve racchiudere in sé consapevolezza,
sicurezza, capacità manageriali e conoscenza
dei processi educativi*; il tutto con una
flessibilità cognitiva ed operativa che permetta
di gestire i complessi sistemi di interazione
interna ed esterna.
21
* in collaborazione con specifiche figure
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[1]
• La figura del volontario da inserire nella comunità
offre interessanti spunti di riflessione con l’aiuto
di riferimenti alle comunità di pratica e, in
particolare, alla partecipazione periferica
legittimata (Wenger). Questa analisi può essere
riferita anche alla figura di un educatore che,
inesperto, entra nella comunità (in questo caso si
pensa ad un educatore inesperto nei servizi nelle
comunità e non a un nuovo educatore ‘trasferito’,
che avrebbe solamente da conoscere le abitudini
della nuova ma conosce i ferri del mestiere).
22
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[2]
• “la partecipazione periferica legittimata
postula che un novizio, ovvero un
volontario o un nuovo educatore, occupi
inizialmente una posizione periferica
rispetto alle attività della comunità (siano
esse pratiche, materiali o discorsive) perché
immerso in un processo di apprendimento i
cui esiti non possono dirsi certamente
scontati”
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 60)
23
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[3]
• Ovvio che occorre prestare la massima attenzione
all’inserimento di nuove persone nella vita sociale
e lavorativa della comunità e per un buono
sviluppo competenziale del nuovo ma, e
soprattutto, per l’equilibrio dell’intera comunità;
• occorre, quindi, individuare quali possano essere i
luoghi da frequentare inizialmente, le attività da
svolgere e può essere utile o necessario prevedere
degli opportuni passi formativi iniziali.
24
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[]
• Al nuovo vanno garantiti tempi per capire
l’orizzonte educativo, il linguaggio, le pratiche, le
modalità di interazione, il modo di interpretare il
mondo interno; in definitiva deve poter capire
quale sia lo stile dello “stare dentro” quella
comunità.
• “Al volontario [o nuovo educatore], vanno
concessi […] spazi pensati che possano tollerare il
suo graduale apprendimento organizzativo, fatto
di prove, errori, ripartenze, piccole conquiste,
acquisizioni, innovazioni.”
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci,
2012, pag. 65)
25
organizzazione delle comunità
Documenti
• Strumenti, previsti dalla
normativa, nella comunità sono:
–il progetto educativo generale delle
comunità;
–il progetto educativo personalizzato;
–il diario di bordo.
26
organizzazione delle comunità
Progetto educativo generale[1]
Nel progetto educativo generale vengono generalmente esplicitate le
modalità, riferite a tutta la comunità:
• di sostegno psico-socio-educativo del minore in collaborazione con la
rete dei servizi territoriali per minori, finalizzato all’inserimento
scolastico, sociale e lavorativo;
• di cura della salute del minore (prevenzione, visite periodiche presso
il medico curante);
• di gestione di particolari momenti di crisi del minore derivati da
difficoltà di adattamento o da situazioni pregresse e/o contingenti;
• di predisposizione della scheda di ingresso del minore;
• di predisposizione della cartella del minore, contenente tutta la
documentazione psicosocio-educativa, giudiziaria e sanitaria del
minore;
27
organizzazione delle comunità
Progetto educativo generale[2]
• di predisposizione del progetto educativo personalizzato del
minore;
• di strutturazione e compilazione del diario di bordo dove si
registrerà giornalmente l’attività svolta dai minori ed in
particolare ogni evento significativo ai singoli percorsi di
sostegno e recupero;
• organizzative e realizzative di attività sportive, ricreative,
artistiche e formative, e di incentivazione della partecipazione del
minore a queste;
• di partecipazione a progetti e laboratori, sul territorio, di
orientamento verso l’acquisizione di competenze professionali
per un eventuale avviamento al lavoro;
• di sostegno alla genitorialità, rivolto alle famiglie dei minori
28
ospitati;
organizzazione delle comunità
Progetto educativo generale[]
• di sostegno educativo finalizzato a guidare l’eventuale rientro
del minore in famiglia e nel proprio contesto di appartenenza
nell’imminenza delle dimissioni;
• di sostegno al minore dimesso, attraverso un servizio di
interventi domiciliari;
• di predisposizione di quant'altro occorra per assicurare il
regolare funzionamento della struttura e per le necessità degli
utenti;
vengono anche presentati:
– lo sviluppo della giornata tipo nella comunità e
– la struttura della comunità
un esempio (è possibile rintracciare altri progetti educativi in
rete).
29
organizzazione delle comunità
Progetto educativo personalizzato[1]
• Per ogni accoglienza va creato, aggiornato e condiviso un
PEP contenente obiettivi, modalità di intervento educativo e
anche metodi di verifica (legge 149/2001, D.M. 308/2001,
art. 5).
• Informazioni contenute in un PEP:
1. dati anagrafici,
2. obiettivi del progetto, motivazioni dell’intervento, durata;
3. modalità di attuazione;
4. data e motivazione dell’inserimento nella struttura;
5. composizione familiare;
6. situazione sanitaria;
7. situazione scolastica/lavorativa.
30
organizzazione delle comunità
Progetto educativo personalizzato[]
• Viene compilato dopo un periodo di osservazione;
• ha una struttura dinamica; può essere modificato nel tempo in base
all’evoluzione del minore, ma anche in base a revisioni/sistemazioni
teoriche degli operatori; ciò che si scrive nel PEP è strettamente
connesso con la visione professionale degli operatori; in genere si
scrive a più mani (anche quando viene scritto da un solo operatore,
riflette necessariamente la storia di percorsi sociali che si è tradotta in
teorie); inoltre diventa uno strumento per il gruppo;
• è un atto professionale che si realizza nella relazione fra educatori e
minore;
• un PEP diventa uno strumento indispensabile per ciascun nuovo
operatore: attraverso esso entra in contatto con la comunità, con i suoi
trascorsi di teorie e repertori educativi, con le pratiche professionali
degli altri educatori; nel suo percorso dalla periferia verso il centro il
nuovo potrà significativamente giovarsi del PEP.
31
organizzazione delle comunità
Domande da porsi
1.
2.
3.
4.
Quali contenuti sono rilevanti per il PEP?
Che finalità ha all’interno delle mie pratiche quotidiane?
Quali obiettivi?
Chi lo scrive? Attraverso quali fasi? Con quali tempi? Dopo quanto tempo
dall’inserimento del minore?
5. Quali destinatari? È possibile un coinvolgimento del minore e della sua
famiglia?
6. Il PEP rappresenta un documento di sola interazione interna o una risorsa
per la rete (scuola, assistenti sociali, ..)?
7. Quali e quanti aggiornamenti? Ogni quanto tempo? Per quali ragioni?
8. Come e in quale misura condivido il PEI con i miei colleghi? In quali
occasioni/momenti dedicati? Come lo aggiorniamo insieme?
9. Come sono inseriti elementi per la valutazione del cambiamento del
minore?
10. Quali azioni educative e organizzative apporto per ogni PEP e come
strutturo il lavoro mio e dei miei colleghi?
32
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 70-71)
organizzazione delle comunità
Diario di bordo
• Diario dove si registrerà giornalmente l’attività
svolta dai minori ed in particolare ogni evento
significativo ai singoli percorsi di sostegno e
recupero;
• gli operatori vi verbalizzano quotidianamente i
fatti accaduti nell’arco della giornata, significativi
rispetto al percorso del minore;
• possiamo definirlo come il passaggio di consegne
(in riferimento ai minori) tra i membri
dell’equipe.
33
organizzazione delle comunità
Agenda degli educatori
• Esiste, in genere, nelle comunità ed
• è uno strumento organizzativo; in esso
vengono annotati gli impegni e le
comunicazioni fra i soggetti della comunità;
• contiene, in genere, messaggi:
– rivolti ad altri educatori;
– rivolti al generico lettore dell’agenda.
34
organizzazione delle comunità
Gli spazi[1]
• Le norme nazionali stabiliscono, in riferimento alla
strutturazione degli spazi, solamente che le strutture debbono
essere facilmente raggiungibili e debbono prevedere spazi di
socializzazione distinti dalle camere;
• comunque le diverse associazioni di comunità hanno stabilito
una serie di norme così riassumibili:
– spazi distinti per équipe educativa, comunità e ragazzi;
– locale adeguato come cucina;
– limite massimo di posti letto per stanza;
– un locale comune accessibile a tutti;
– disponibilità di bagni accessibili ai disabili,
– attrezzature accessibili ai disabili.
35
organizzazione delle comunità
Gli spazi[2]
• In definitiva, si possono distinguere spazi:
– privati per i minori,
– comuni, accessibili sia singolarmente che in gruppo,
– per educatori (sia privati che di lavoro).
• se non esiste uno spazio per le riunioni degli
educatori, queste dove si tengono? Nella cucina o
nella stanza da letto dell’educatore/trice?
• Se l’educatore deve rispondere ad una telefonata
su un minore, dove si rifugia in bagno o nella
stanza di una collega (se ad esempio l’educatore
non ‘risiede’ nella comunità)?
36
organizzazione delle comunità
Gli spazi[]
• La mancanza di un luogo privato riservato al
gruppo di lavoro, rivela una mancanza di senso
della natura organizzativa della comunità.
Sembrerebbe che tutto debba essere ricondotto
ad azioni singole, isolate, a responsabilità
educativa personale.
• Occorrerebbe rifuggire dalla logica del
panopticon, dove tutto è controllabile.
37
organizzazione delle comunità
Domande da porsi
• Nella struttura dove lavoro, gli spazi sono pensati e organizzati
adeguatamente?
• Quali sono e come sono strutturati gli spazi privati per gli
educatori?
• Quali sono e come sono strutturati gli spazi privati dei ragazzi?
• Come sono strutturati gli spazi comuni e quali attività sono
sviluppabili (giochi, cene con ospiti, compiti insieme, …)?
• Quali opzioni per migliorarli nel loro utilizzo pratico?
• Quali innovazioni si possono apportare (nella strumentazione,
nelle decorazioni, nelle proposte di nuove attività) si possono
apportare?
38
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• Esistono, agli estremi, due modelli teorici che
esplicitano il rapporto con la famiglia: quello
coevolutivo e quello sostitutivo
39
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
modello coevolutivo
• In questo modello l’azione educativa ha una dimensione
maggiormente sistemica in quanto include anche il
contesto familiare; questo viene coinvolto fin dall’inizio e
i contatti proseguono durante l’intervento, producono
riprogettazioni in itinere.
• L’operatore è consapevole che qualunque suo intervento è
familiare, a partire da tutte le attività di cura dentro alla
comunità, per proseguire e concludersi con gli interventi
che tendono a far riacquistare ai genitori la loro funzione
di genitorialità che ha come fine il ritorno del minore
nella sua famiglia di origine, ora ‘rivista’ e ‘aggiornata’.
40
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
modello coevolutivo
• In questa prospettiva si sostiene che “qualunque intervento
attuato da un servizio, anche se a favore di una singola
persona, oltre a produrre effetti su di essa avrà implicazioni
sui suoi legami significativi, assumendo così il significato di
evento in grado di influenzare inevitabilmente il nucleo
familiare nel suo complesso.
• Per evitare che la propria azione risulti inefficace, se non
addirittura dannosa […] l’operatore deve essere
consapevole che non è nella relazione diadica con l’utente,
bensì all’interno di un più ampio sistema di relazioni, di cui
egli è parte costitutiva, che si costruisce il significato
dell’intervento” (Fruggeri L., 1997, Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psio-sociali, Carocci,
Roma, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag 130)
41
comunità e famiglia
Per
impostare
una azione
coevolutiva
42
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pagg. 130, 131
comunità e famiglia
Per impostare una azione coevolutiva
43
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pagg. 130, 131
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• Operando in questo modo la famiglia diviene
la protagonista del processo di intervento sul
minore; ciò comporta che anche essa diventi
soggetto da rieducare.
44
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
modello sostitutivo
• In questo caso la famiglia è considerata inadeguata e dannosa; l’educatore
“riconosce la significatività delle relazioni familiari per l’utente e
l’influenza che esse esercitano su di lui, ma non considera la famiglia una
risorsa per potenziare gli interventi promossi dagli operatori. Nel modello
della sostituzione, la famiglia diventa infatti un soggetto da contrastare:
l’operatore concepisce infatti il proprio intervento come alternativo o
correttivo rispetto a ogni possibile influenza esercitata dalla famiglia
dell’utente. […] [Solo l’ambiente dell’operatore è ritenuto] adeguato a
fornirgli le risorse di cui abbisogna; la richiesta più o meno esplicita che
viene fatta alla famiglia è quella di astenersi dal prendere iniziative,
permettendo così all’operatore di condurre in porto l’intervento progettato.
[…] Nel modello della sostituzione, la valutazione di inadeguatezza della
famiglia costituisce una sanzione senza possibilità di appello” (Fruggeri L., 1997,
Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psio-sociali, Carocci, Roma, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case
famiglia, Carocci, Roma, pag. 128)
45
comunità e famiglia
Domande per capire il
modello
46
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 129
Attenzione
• quelli presentati sono modelli che
rappresentano i due estremi e servono per
indicare entro quali poli si possono sviluppare
gli interventi; hanno un valore didattico.
• Nella realtà, una volta concepito e stilato il
PEP, il percorso si articolerà in modo dinamico
e sicuramente più variegato con momenti che
ricadranno nel continuo fra i due estremi.
47
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
• Secondo la normativa italiana una comunità
per minori deve mettere in campo
“organizzazioni e rapporti interpersonali
analoghi a quelli di una famiglia” (L.
149/2001, art. 2);
• è facilmente intuibile che si mettono in campo
diverse modalità con le quali impostare questi
rapporti.
48
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
• Agli estremi (ancora!), è possibile individuare due
filoni teorici di analisi:
– modello direttivo (centripeto);
– modello aperto.
• Nel primo caso si fa riferimento ad un sistema rigido
nel quale le interazioni e le azioni educative sono
guidate da un adulto, nel secondo caso si fa riferimento
ad un sistema non rigido nel quale vige una modalità di
interazione alla pari, maggiormente discorsiva, che
riconosce i diversi ruoli presenti nel sistema, che
riconosce ruoli di supporto educativo fra pari (minori).
49
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello direttivo
• Facendo riferimento alle interazioni discorsive, il modello ha le
seguenti caratteristiche:
– la modalità degli interventi è da uno a molti;
– l’adulto è al centro dell’interazione, la gestisce, è lui che
comunica ed è a lui che preferibilmente vengono inviati i
messaggi;
– il linguaggio utilizzato non è libero, è fortemente orientato ad
essere interpretato dai membri della comunità ed ha finalità
chiarificatrici (unilaterali); l’adulto usa un linguaggio per
“bambini”;
– le regole di comunicazione sono rigide e imposte: non ci si
sovrappone, è l’educatore che dà la parola; sono poco
accettate e sostenute le conversazioni fra pari (vengono fatte
cadere).
50
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello direttivo
• Sono sistemi che ricordano, pur se in maniera mitigata,
le istituzioni totali: le regole sembrano essere presenti
in tutti i contesti; anche gli atti linguistici tendono a
enunciare regole (“no, non si fa”, “fai questo”, ….);
• tutto sembra teso ad una logica panoptistica, di
controllo.
• Le regole tendono a proteggere il minore, ma anche
l’adulto (di fronte a possibili azioni dei minori che
possano far preoccupare o che possano generare
inconvenienti); tendono ad impedire qualcosa ma non a
rendere il minore capace di evitare nuovamente lo
stesso pericolo.
51
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello direttivo
• Sembra che il mandato sia quello di confezionare un prodotto pronto
per l’uso (forzando l’analisi: forse si prediligono forme future di
affido o di adozione?); si vuole “creare” un individuo rispettoso, non
problematico e non problematizzante, che “senta” l’autorità, che
sappia inserirsi in situazioni che, si crede, richiedano bambini
educati, rispettosi, ubbidienti? (!!)
• Si lavora per nuove appartenenze, non per ricongiungimenti?
• Il modello formativo di riferimento è la trasmissione di
informazioni, dall’adulto esperto al minore.
• Sembra che si modelli il minore affinché sia in grado di entrare
in nuovi incastri; non si tende a ‘formare’ un individuo capace
di gestire se stesso.
52
interazioni in comunità
Domande
Modello direttivo
• Nel nostro servizio sono presenti spesso momenti di interazione con i
bambini nei quali gli operatori utilizzano unicamente un registro
strumentale (“passami l’olio”, “finisci di mangiare”, “fai i compiti”)?
• Come vengono gestite discorsivamente le regole con i ragazzi?
• Come vengono gestite le trasgressioni delle regole da parte dei ragazzi?
• Quanto spesso e in quali situazioni emergono interazioni tipiche delle
situazioni scolastiche, con l’adulto che valuta e il bambino che deve fornire
la ‘risposta giusta’?
• Quali sono i contesti di discussione più attivi in comunità: a due, fra pari,
…?
• Tali contesti prevedono un adulto che gestisce il flusso discorsivo (dà turni
di parola, assegna ruoli discorsivi, …)?
53
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 162
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello aperto
• Esiste una logica non rigida di gestire i rapporti, che predilige aperte
interazioni del gruppo di adulti e ragazzi; in riferimento ad interazioni
discorsive si possono individuare le seguenti caratteristiche:
– il parlato è socievole (amichevole) e socializzante;
– l’adulto non dirige sempre la conversazione e la sua posizione non è
sempre al centro, ma anche periferica; quando è al centro è solo per
coordinare;
– la discussione avviene in modo flessibile: da uno a molti, da molti a
molti, da uno a uno, …, in base alle esigenze che emergono;
– le discussioni possono avvenire in contemporanea, in modo
integrato o sviluppate in completa indipendenza.
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Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 163
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello aperto
• Nella quotidianità, l’educatore non fornisce soluzioni,
ma aiuta a trovarle;
• il nascere di un problema, rappresenta l’occasione per
discuterne: non occorre dare risposte che risolvano e
che veicolano la regola sottesa e la impongono;
occorre argomentare fino a giungere a quella regola,
però attraverso una sua costruzione (ri-costruzione);
• una trasgressione, va discussa, analizzata alla luce
delle conseguenze per far acquisire ai minori
strumenti di autonomia rispetto a situazioni analoghe.
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interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello aperto
• Un minore in una comunità è spesso un individuo che
non è riuscito a costruire strumenti di regolazione nella
sua vita quotidiana, allora occorre ricostruirli; il
modello aperto predica uno sviluppo del minore basato
sull’esplorazione, sulla responsabilizzazione, sul
rinforzo continuo di sé nei termini di azioni e di
argomentazione e se tutto ciò non è stato realizzato
nella sua vita precedente, allora occorre prevedere
possibilità di ri-esplorazione, di ri-responsabilizzazione,
di ri-rinforzo nel periodo di vita nella comunità.
56
interazioni in comunità
Domande
modello aperto
• Nel nostro servizio è presente e in che misura il registro
discorsivo del “parlare per parlare”?
• Si parla spesso di cosa succede nel mondo? In quali situazioni?
Chi sollecita tali discorsi?
• Si sviluppano scene interattive nelle quali i minori
costruiscono strategie argomentative finalizzate?
• Quanto spesso i minori parlano fra di loro?
• Complessivamente, quanto lavorano gli adulti per costruire la
discussione di gruppo?
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Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 170
Attenzione
• quelli presentati sono modelli che rappresentano i due
estremi e servono per indicare entro quali poli si
possono sviluppare gli interventi; hanno un valore
didattico.
• Nella realtà ci sono momenti nei quali prevale l’uno ed
altri nei quali emerge l’altro ed esistono momenti che
sono sintesi dei due poli;
• occorrerebbe assumere un atteggiamento flessibile che
possa permettere di praticare azioni che siano il più
possibile a favore di una crescita (ri-crescita) armoniosa
del minore in comunità; che non procurino, cioè,
ulteriori disagi.
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Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
“l’intervento di comunità
residenziale richiede riparazione
del passato e promozione del
futuro.”
59
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 35, 36 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
•
•
•
•
La comunità si può configurare come Ambiente Terapeutico Globale (ATG):
“l’idea di Ambiente Terapeutico Globale […] chiarisce che in una comunità per
minori ciò che svolge funzione terapeutica è la vita quotidiana da intendersi
come luogo ‘pensato’ nella sua globalità per realizzare l’intervento riparativo e
terapeutico stesso.
In questo senso, ciò che appare come particolarmente interessante e incisivo,
soprattutto in relazione alla tipologia dei problemi presentati dai bambini e
dagli adolescenti deprivati e maltrattati, è il rifiuto della separazione fra un
‘setting’ a parte deputato all’intervento psicoterapeutico (ad es., l’ora
settimanale nello studio dello psicoterapeuta) e la vita di ogni giorno all’interno
della struttura residenziale.
Il modello proposto […], infatti, tende a realizzare una forte compenetrazione
fra l’interpretazione teorica del[l’eventuale] disturbo manifesto e la costruzione
della quotidianità, enfatizzando come tutta l’organizzazione del quotidiano
nella struttura residenziale deve essere considerata come parte integrante
dell’intervento riabilitativo e terapeutico”
60
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 56 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• Una cornice interpretativa teorica del modello ATG può
essere considerata la teoria interattiva-costruzionista dello
sviluppo che predica che ciascuno costruisce la propria
conoscenza e lo fa attraverso la negoziazione con gli altri;
• altri che possono essere adulti che mettono in atto azioni di
supporto (scaffolding) per aiutare coloro (studenti, minori)
che non sarebbero in grado, da soli, di svolgere compiti,
superare difficoltà e acquisire conoscenze e competenze.
• Inizialmente la funzione di scaffolding è delegata agli
adulti, successivamente diventa metodo permanente di
interazione quotidiana con gli altri, nei contesti familiari,
nella scuola, nei gruppi di pari.
61
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 57 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• Attraverso questo processo l’individuo acquisisce un insieme di
significati della realtà che lo circonda, che gli forniscono identità e
stabilità. In un minore deprivato e maltrattato queste acquisizioni
non sono avvenute o non sono avvenute completamente e/o non
sono avvenute liberamente e attraverso negoziazione costruttiva, ma
per costrizione e sottomissione.
• Occorre allora recuperarle, riorganizzarle, per ritrovare fiducia in se
stessi, spontaneità, capacità di interagire, in definitiva occorre
recuperare la propria identità.
• Allora occorre regredire per ricostruirsi. “la regressione rappresenta
la speranza dell’individuo che certi aspetti dell’ambiente che in
origine fallirono possano essere rivissuti e che questa volta
l’ambiente riesca, invece di fallire, nella sua funzione di favorire la
tendenza naturale dell’individuo a svilupparsi e a maturare”
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Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 59 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• “proprio su questi presupposti si fonda pertanto
l’organizzazione delle comunità residenziali per minori, ossia
impostare la struttura (dagli spazi fisici fino alle attività
quotidiane) come parte integrante dell’intervento terapeutico,
con l’obiettivo specifico di riparare i precoci fallimenti
ambientali. Attraverso il concetto di ambiente terapeutico si
focalizza l’attenzione […] sulla regolamentazione della vita
quotidiana […].
• Nell’ambiente terapeutico tutti i momenti della giornata hanno
rilevanza terapeutica, laddove siano presenti situazioni
interattive e relazionali gestite da adulti, che devono accedere,
con il loro stesso operato quotidiano, alla dimensione della
significatività per il minore in comunità.”
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Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 59 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• In questa complessa operazione di ricostruzione il
minore ha necessità di imbattersi in contesti
stabili che presentano regolarità e protezione (le
routine) e di essere accompagnato da partner con i
quali intessere relazioni che facciano capire i
sentimenti e i comportamenti degli altri e il
funzionamento delle regole sociali e che lo
aiutino ad acquisire competenze in questi ambiti;
queste conquiste possano dare soddisfazione
nell’averle acquisite.
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Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 58 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Deprivare
• Treccani: il fatto di privare o più propriam.
d’essere privato di qualche cosa, e spec. di
cosa necessaria o a cui si avrebbe diritto: la d.
della soddisfazione dei bisogni essenziali. In
partic., in psicologia, la carenza di condizioni
oggettive e soggettive favorevoli allo sviluppo
psichico del bambino, e il complesso degli
effetti che ne derivano.
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