Il narratario, nella moderna
critica letteraria indica il
lettore, non quello reale, che
ha letto o che leggerà, ma
l’implicito, quello cui si
rivolge l’autore.
Come scriveva Manzoni nel
primo capitolo del suo
capolavoro: “Pensino i miei
venticinque lettori ch e
impressione dovesse fare
sull’animo del poveretto,
quello che s’è raccontato”.
il
narratario
laboratorio di testi: racconti analisi rapsodie epopee
giornale in foglio con editoria elettronica da tavolo direttore responsabile Fabio Trazza
www.ilnarratario.info - Premio Nazionale “Verba Volant” 1999 con patrocinio Ministero Pubblica Istruzione - [email protected]
anno nono
numero nove
Da Coquelicot Mafille,
corrispondente
de il narratario, a tutti i miei
venticinque lettori nota per
il suo reportage “Una città
nel vento”(viii, 20, 30/11/02),
giovedì
15 maggio 2003
redazione organizzazione fotocomposizione e stampa in proprio
Periodico Quindicinale - Aut. Tribunale Milano 34/95 28.1.1995 - tel/fax 02/6123586 - via Arbe 29 - 20125 Milano
GUERRA
STRANIERA.
MALE
DOLCE.
GUERRA PREVENTIVA E SICUREZZA INTERNA IN RWANDA: LE LOGICHE POLITICHE DI PAUL KAGAME SULLE CENERI DEL GENOCIDIO RWANDESE
Preziose e forse scontate sono apparse le parole pronunciate con dolore
dal Papa Giovanni Paolo II e dal segretario generale delle Nazioni
Unite Kofi Annan mentre la corazzata anglo-americana produceva
imperterrita i suoi danni collaterali per liberare l’Iraq. “La guerra
irachena” dissero in sintesi “ci porterà a disastri umani incalcolabili”.
Per poi ammonire: “Nel mondo imperversano altre guerre e paesi
disastrati che non dobbiamo dimenticare”. C’è l’imbarazzo della scelta.
Quella che si svolge dal ’98 nella Repubblica Democratica del Congo
è una delle tante. E che il Rwanda, coinvolto in questa guerra, possa
suscitare un interesse particolare in questi tempi di occupazione
unilaterale mediatica, ce ne vuole. Senonché, i gettonatissimi concetti
di guerra preventiva e sicurezza interna non sono una prerogativa di
Bush. In tempi poco sospetti (ufficialmente tre anni prima dell’11
settembre), l’attuale presidente della Repubblica rwandese Paul
Kagame fece di questi concetti i pilastri irremovibili della sua politica
nazionale e regionale. Di certo, i fattori che hanno indotto Bush ad
intervenire in Iraq e Kagame in territorio congolese non sono di primo
acchito relazionabili.
C on saggezza, Daniele Scaglione ex presidente di Amnesty
International e autore del recentissimo Rwanda: cronache di un
massacro evitabile sottolinea l’indecenza con la quale un funzionario
occidentale ha tentato di paragonare in termini numerici le vittime del
World Trade Center con quelle del genocidio rwandese (se i conti non
ingannano, è come se dal 6 aprile al 19 luglio 1994 le Twin Towers
fossero crollate tre volte al giorno per 104 mattinate di fila). Ma con
tutte le dovute precauzioni, ciò che in qualche maniera accomuna Bush
e Kagame sta nel loro modo d’interpretare le paure collettive dei propri
connazionali all’indomani di eventi traumatizzanti.
Non solo. Entrambi sono sotto torchio mediatico e diplomatico.
L’accusa minore: aver provocato una guerra senza il consenso onusiano
e dietro la quale si nascondono con fatica interessi precisi che nulla
hanno a che fare con una minaccia reale. Tutto questo, quando
all’orizzonte si profilano elezioni politiche e il rischio, come già
paventato da Amnesty international nel caso di Bush, di vedersi
comparire per danni colleterali (o crimini di guerra, fate voi) nel più
felice e ragionevole complesso architettonico del XXI secolo: il
Tribunale internazionale dell’Aia.
Siamo al 25 gennaio 2003, a Zurigo, Renaissance Hotel. Al termine
di una giornata convulsa, Nicholas Shalita, direttore dell’informazione
dell’ufficio di presidenza rwandese, si avvicina e mi avvisa con tono
confidenziale: “Il presidente è pronto”. Dalla hall di questo albergo
lussuoso della periferia zurighese, abbandono una cena gargantuesca
offerta da uno dei paesi più poveri del mondo, per avviarmi ad
intervistare Paul Kagame, uno dei leader africani incontrastati di
un’intera regione senza pace (senza se e senza ma), ubicata nel cuore
dell’Africa sub-sahariana e “terremotata” dal genocidio rwandese del
1994: l’Africa dei Grandi Laghi.
Il passaggio in Svizzera di Kagame non era proprio frutto del caso. In
una Congress Halle del Rennaissance Hotel stracolma ha ribadito ad
una platea euforica di oltre 400 persone della Diaspora rwandese giunti
a Zurigo da mezza Europa le ragioni per le quali partecipò pochi giorni
prima al Forum economico di Davos. Ricordare ai potenti del mondo
l’anno cruciale che il Rwanda stava per affrontare. “A nove anni del
genocidio”, ha avvertito, “le sorti del nostro paese dipendono in parte
dall’appoggio politico ed economico della Comunità internazionale”.
Nei fatti, entro il 2003, referendum costituzionale ed elezioni legislative
e presidenziali dovrebbero chiudere definitivamente i conti con un
periodo di transizione iniziato nel ’94 (cioè all’indomani dello sterminio
di almeno 800.000 rwandesi Tutsi e Hutu moderati). Uniche certezze:
chi assumerà il potere, dovrà proseguire la ricostruzione di un tessuto
sociale, economico e politico ancora lacerato dal genocidio, e
raccogliere il fardello di un intervento armato in Congo dagli effetti
devastanti.
Il dubbio: se quell’uomo sarà Paul Kagame?
Sul suo conto, si è detto di tutto e il contrario di tutto.
C’è chi lo ha paragonato a Giulio Cesare per il modo con cui pose fine
ad un genocidio svoltosi a porte chiuse sul piano mediatico; per aver
liberato il paese da dittature razziste rwandesi pro-Hutu. C’è chi lo ha
soprannominato Afandi peace (cioè il comandante che ha portato la
pace). A Zurigo, Yolande Mukagasana, una Primo Levi dei
sopravvissuti rwandesi, mi confida come tanti altri il rispetto “per un
capo di Stato che in tutti questi anni difficili ha saputo garantire la
sicurezza ai quattro angoli di un paese ormai aperto a tutti”. Agli
antipodi delle venerazioni per un uomo agli occhi dei più molto
riservato, si moltiplicano i rapporti piuttosto severi dei più importanti
organismi internazionali per la difesa dei diritti umani. Sono anni ormai
che Reporters Sans Frontières lo considera un vero e proprio predatore
della libertà di stampa, affiancandolo a illustri personaggi quali
Saddam Hussein. A loro volta, Amnesty International e Human Rights
Watch non cessano di preoccuparsi per un paese asfissiato da una
gestione quasi totalitaristica della res pubblica.
“Ma ci vuole molto di più per spaventarlo” sussura Yolande. Ad
avvalorare il giudizio della Signora Mukagasana, basterebbe dare
un’occhiata al curriculum vitae di Kagame. Un percorso tutto in salita
il suo che inizia nel 1960. Non compie 5 anni quando i suoi genitori,
commercianti benestanti, vengono cacciati da un regime politico che
per i prossimi 30 anni si sarebbe fatto il promotore della rivoluzione
sociale (ed etnicizzante) pro-Hutu di cui l’esclusione dei Rwandesi
Tutsi ne fu la più diretta conseguenza. Dalla sua città natale di Gitarama
scopre l’inferno dei campi profughi ugandesi. Ma un’educazione
rigidissima gli spiana la strada degli studi. Nel ’79, l’università è alle
porte, ma le discriminazioni anti-rwandesi del regime di Amin Dada
sono sempre dietro l’angolo. È la svolta. Ai libri, preferirà sfogare le
sue umiliazioni con le armi. Inizia una carriera militare folgorante sotto
l’ala del ribelle Museveni (attuale presidente dell’Uganda con cui è in
guerra aperta dal ’98 su territorio congolese). Insieme, prendono il
potere e lui diventa il numero due dei servizi segreti ugandesi. “È lì”,
insiste un incondizionato sostenitore di Kagame presente a Zurigo,
“che si è forgiato l’uomo intransigente con se stesso e con gli altri che
molti temono”. Di fatto, alcuni soldati sottoposti al suo comando furono
fucilati per indisciplina. Da cui, il suo primo soprannome: Ponzio
Pilato. Troppo scomodo per Museveni che lo invita a risolvere un
problema rimasto per troppo tempo in sospeso: il ritorno dei profughi
rwandesi nel loro paese.
Da quel momento si aprono nuovi orizzonti che lo conducono ad
assumere nel 1990 la guida del Fronte Patriottico Rwandese (FPR,
attualmente al potere in Rwanda), un gruppo armato composto da
esiliati rwandesi Tutsi e Hutu con base in Uganda. Quattro anni dopo,
occupa il Rwanda per fermare genocidiari in piena attività di sterminio
“sotto lo sguardo totalmente passivo della Comunità internazionale,
ONU in testa, e la complicità della Francia in questo bagno di sangue”
(parole sue). Da lì, deve affrontare la gestione di un paese da ricostruire
da cima a fondo. Impresa quasi impossibile che lo vede inzialmente al
comando della vice-presidenza e del ministero della difesa di un
Governo di unità nazionale.
Sono i primi assaggi del potere civile, sempre subalterno a quello
militare, che lo incorona nell’aprile 2000 Presidente della Repubblica
rwandese. Intanto, infuoca i Grandi Laghi africani invadendo il Congo.
La causa: dare la caccia ai genocidiari in fuga, che fino al 2000
infiltrano le frontiere rwando-congolesi per destabilizzare il paese. La
minaccia sembra reale. Già, perché Congo e Rwanda non sono separati
da oceani e deserti, ma da frontiere-colabrodo. Rapidamente, la caccia
si trasforma in una guerra stabile che lo stesso Kagame definì —siamo
nel ’98— preventiva. È ciò che pervade le menti dei rwandesi, ne
costituisce il motivo pricipale: garantire la sicurezza assoluta del paese
perché mai più si ripeta un genocidio.
Siamo tutti rwandesi Tutsi o Hutu moderati, verrebbe da dire (o più
semplicemente rwandesi come preferiscono affermare qui a Zurigo).
Ma non tutti la pensano in questi termini. Non più. La società civile
congolese nutre ormai da anni un sentimento razzista anti-rwandese e
anti-Tutsi. Eppure, i congolesi avevano accolto con fervore nel ’96
l’entrata del ribelle congolese Kabila e delle truppe rwandesi a
Kinshasa. A tutti, il neopresidente Kabila prometteva l’inizio di un’era
migliore. Per Kagame, la faccenda si riassumeva nell’appoggiare un
delinquente (Kabila) a scapito di un moribondo dittatore (Mobutu),
colpevole di coprire sul proprio territorio i génocidaires.
Per molti, la minaccia dei genocidiari paventata da Kagame si è
liquefatta di fronte agli interessi ben più concreti che suscitavano le
straordinarie ricchezze minerarie del territorio congolese. Come il
petrolio iracheno per gli americani, coltano, uranio, stagno, oro,
diamanti e petrolio congolesi hanno fatto gola a tutti. E non solo ai
rwandesi. Dal ’98, quattro altri paesi (Angola, Mozambico, Zimbabwe,
Uganda), multinazionali di ogni latitudine (belghe, inglesi, statunitensi
e sudafricane in testa) e milizie locali di ogni bordo si sono spartiti le
straordinarie ricchezze naturali e minerarie dell’ex-Zaire provocando
non pochi danni collaterali. Che in termini pratici significa, secondo
il Rapporto consegnato a Kofi Annan dal Gruppo di esperti sullo
sfruttamento illegale delle risorse naturali nel Congo (16 ottobre 2002),
stupri, formazione di bambini-soldati, estorsioni e saccheggi quotidiani,
milioni di sfollati e, dulcis in fundo, almeno 3,5 milioni di morti tra
agosto ’98 (inizio della guerra) e settembre 2002.
« Una guerra straniera », scriveva Montaigne, « è un male ben
più dolce che una guerra civile ». Nel caso rwandese, quella congolese
è di logoramento lucrativo e poco redditizia sul piano politico. “È un
po’ come l’11 settembre con il probabile attacco in Iraq. Genocidio
rwandese e guerra in Congo sono strettamente legati” prova a spiegare
Chantal Muragwabugabo, una signora rwandese dai modi affabili, che
da Milano non ha esitato un istante a raggiungere Zurigo.
“Con la sua politica aggressiva” sottolinea con aria un pò rassegnata,
“Bush si sta giocando la memoria dell’11 settembre. È un pò la stessa
cosa per Kagame con la guerra in Congo. Oggi la memoria del
genocidio è rimessa in discussione e si parla già di doppio genocidio.
Sarò cinica, ma il bonus morale del genocidio si sta riducendo a vista
d’occhio, isolandoci a livello internazionale”.
Ma, ancora fragile di fronte ai 30 anni di esilio che il regime prohutuista le ha fatto subire, la signora Muragwabugabo non ha nessun
dubbio su chi debba rimarginare le ferite di una società rwandese ancora
ossessionata dai fantasmi etnici: “Io sostengo Kagame” assicura
disinvolta. “E questo malgrado i suoi errori, perché voi in Occidente”
conclude velenosa nei confronti di chi ha chiuso gli occhi di fronte ai
massacri del ’94,”non avete la più pallida idea di cosa significhi
risollevarsi da un genocidio in un paese povero”.
Di certo, per risollevare il Rwanda, non sono bastati i dollari iniettati
dalla Comunità internazionale. Così Kigali ha creato una rete elitaria,
quasi istituzionalizzata, protesa ad annettere ampi lembi territoriali
del Congo Orientale e alla cima della quale gongola il capo di Stato
maggiore dell’APR, James Kabarebe, numero due del regime e figliol
prodigo di Kagame (il quale –en passant– è pur sempre il capo supremo
delle Forze Armate rwandesi). Questo, per lo meno, è la convinzione
del Gruppo di esperti, che, tra le sue innumerevoli prove d’accusa
contro Kigali, precisa: “le operazioni della rete élitaria nell’est della
Repubblica democratica del Congo sono gestite centralmente
dall’Ufficio Congo dell’Apr (con base a Kigali, ndr), il quale assicura
il legame tra le attività commerciali e militari dell’APR”. Un ufficio
che procura nel ’99 l’80% di un budget militare nazionale pari a 400
milioni di $ (cioè il 20% del Prodotto Nazionale Lordo).
Anche per questo genere di accuse, ho voluto incontrare a quattr’occhi
Kagame. A Zurigo, rimango persuaso d’incontrare un uomo freddo,
se non glaciale, arrogante e riservato al contempo. Insomma, così come
lo hanno dipinto numerosi giornalisti occidentali, l’identikit del leader
militare africano in carenza di buon costume diplomatico. In realtà,
scopro un uomo calmo e sereno, più divertito che ironico, alternante
risposte evasive e decise puntualizzazioni, senza mai far trapelare
riceviamo un’inedita
intervista a Paul Kagame
di Joshua Massarenti,
studente di Storia
all’Università degli Studi
di Milano.
incertezze. Eppure, c’è poco da stare tranquillo per i nemici di statura
internazionale che ha accumulato negli ultimi anni.
Per primo, il presidente congolese Kabila Junior, insieme al quale la
Comunità internazionale ha imposto nel luglio 2002 un accordo di
pace —i cosiddetti Accordi di Pretoria— che da un lato prevedeva il
rimpatrio in Rwanda degli interahamwe e delle ex-FAR (Forze armate
rwandesi), entrambi coinvolti nel genocidio e utilizzati da Kabila per
destabilizzare il Rwanda. “Ragion per cui”, sostiene il presidente
rwandese, “siamo stati presenti in RDC”. Da parte sua Kigali si era
impegnato a ritirare tutte le sue truppe dal territorio congolese entro
45 giorni dalla firma degli accordi.
Gli ricordo che il segretario generale dell’ONU denuncia nel suo 12°
rapporto sulla RDC –(in data 18 ottobre 2002)– che, dei 23.760 soldati
rimpatriati dall’Armata rwandese, quasi 3000 mancavano all’appello,
secondo la Missione di Osservazione delle Nazioni Unite in RDC
(MONUC). Peggio, il rapporto sostiene che la MONUC ha raccolto
“informazioni non confermate secondo le quali l’Armata Patriottica
rwandese sarebbe penetrata all’interno del territorio della RDC prima
dell’inizio del rimpatrio lasciando importanti quantità di armi oltre
che una parte del suo personale all’RCD-Goma”, suo principale alleato
in Congo.
Alla richiesta di “spiegazioni ufficiali” sul rapporto, Kagame ribatte
sicuro: “tutte le nostre truppe si sono ritirate dal Congo”. Per poi
contrattaccare. “Piuttosto, il disarmo e il rimpatrio delle ex Far/
Interahamwe sono lungi dall’essersi completati”. Una frecciata
indirizzata non solo a Kinshasa, ma anche ai supervisori dell’accordo,
cioè la MONUC e il Sudafrica. Sebbene riconosca ai sudafricani “un
contributo molto più concreto per risolvere i conflitti della regione”,
entrambi “dovrebbero compiere sforzi maggiori nel collaborare con il
governo congolese affinché gli impegni di Kinshasa vengano
integralmente rispettati”. Ma, a fine gennaio, sui circa 15.000 presunti
genocidiari, molti dei quali riciclati nelle Forze Democratiche di
Liberazione del Rwanda, solo un migliaio sono rimpatriati. E poco
più a fine aprile. Per Kagame, la cosa più grave è che “al di fuori del
Rwanda, continuano a ricevere l’appoggio di vari gruppi e governi
che hanno interessi a sfruttarli”. Implicito il riferimento al governo
congolese, all’Uganda e ai loro bracci armati ribelli. Kinshasa, giunta
il 1° aprile scorso a domare faticosissimi accordi per la nascita di un
governo nazionale di transizione, aveva assicurato l’espulsione dal
Congo dei leaders delle FDLR. Una promessa mai mantenuta e a cui
fa riscontro, secondo Kagame, “la continua permanenza dei genocidiari,
specialmente a Bunia, Beni [parte orientale, ndr] e altre città
dell’entroterra congolese”. Una realtà tutt’ora molto problematica,
visto che il presidente Kabila non ha mai ritirato le sue truppe dal
Congo orientale, così come previsto dagli accordi di pace.
Con l’Uganda, non va certo meglio.
Oro, diamanti e petrolio hanno avuto ragione su 20 anni di amicizie
tra Museveni e Kagame. Ma se c’è proprio da bisticciare, be’ allora
meglio farlo fuori casa. E sempre tramite terzi. Raggiungono l’apice
di questa stima reciproca nel ’99 a Kisangani in una guerra sanguinosa
in cui prevale l’RDC-Goma, fedele a Kigali. I diamanti sono ormai
sotto controllo rwandese. Da allora, a Kampala non ci si dà più pace.
La storia più recente sposta il conflitto nell’Ituri, sempre nel Congo
orientale, alla frontiera con l’Uganda. Da lì, Museveni avrebbe deciso
di far pressione sul Rwanda. E la minaccia secondo Kagame è molto
concreta: “sappiamo che gli ugandesi vogliono continuare a crearci
problemi, mandando in Congo popolazioni dei campi profughi
ugandesi per destabilizzare il nostro paese”. Ma i nemici non si fermano
qui. Più giù, nel Sud-Kivu, le milizie Mai-Mai si sono alleate nel 2002
con i Banyamulenge [Tutsi originari del Rwanda, in rottura con
l’RCD-Goma, quindi con Kigali], per opporsi a quello che giudicano
ormai forze occupazionali. Con l’appoggio di Kabila hanno oggi il
controllo delle campagne lasciando le città ad un RCD-Goma in
difficoltà su tutti i fronti dal ritiro “ufficiale” delle truppe rwandesi.
Eppure Kagame assicura con disinvoltura che “le forze dell’RCDGoma sono in grado di contenere tutti questi gruppi armati”. Fino a
voler chiudere frettolosamente la faccenda congolese: “tutta questa
instabilità concerne ovviamente il Rwanda, ma non nell’immediato”.
Che, per i non addetti di questo risiko africano, significa:
“per ora non interverremo militarmente, ma a Kinshasa e Kampala
devono stare buoni”.
Intanto, ad aprile, la situazione è nettamente peggiorata.
Di giornalisti embedded, nemmeno l’ombra mentre lo scontro diretto
nell’Ituri tra Uganda e Rwanda è una questione di settimane. Una
MONUC impotente si è già messa a contare i morti: un migliaio di
civili della comunità Hema, fedele agli ugandesi, sono stati giustiziati
il 3 aprile scorso a Drodro (80 km a nord di Bunia, capoluogo dell’Ituri)
da rappresentanti della comunità Lendu, sostenuta da Kigali tramite il
gruppo ribelle dell’UPC, Union des Patriotes Congolais.
“Un’operazione teleguidata dal Rwanda per seminare il terrore”,
avrebbe detto un rappresentante Hema. E le accuse incrociate tra
Uganda e RDC, da una parte, e Rwanda, dall’altra, sono di nuovo
all’ordine del giorno.
Ma sulle possibili ripercussioni della crisi congolese in materia di
politica interna rwandese, Kagame non ha mai nutrito il minimo dubbio:
“Non vedo nulla che possa deviarci dal programma politico che ci
siamo prefissati. Nemmeno il Congo”.
Per la verità, qualche effetto, la guerra congolese lo ha già prodotto.
A nove anni dal genocidio, il periodo di transizione in Rwanda doveva
chiudersi in marzo con un referendum costituzionale, seguito entro
luglio dalle elezioni presidenziali e legislative. Kagame giustifica invece
il rinvio del referendum a maggio, invocando “il tempo necessario per
concludere gli ultimi passi della fase preparatoria del referendum” e
le elezioni generali entro la fine dell’anno, per colpa “dei mesi di cui i
partiti necessitano per potersi organizzare”. Presentato così, la
Comunità internazionale non avrebbe nulla da ridire ad un presidente
il
narratario
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giovedì 15 maggio 2003
laboratorio di testi: racconti analisi rapsodie epopee
che dal 1994 professa un multipartismo reintrodotto nonostante
“quanto sia capitato nel nostro paese” e che, nel suo discorso rivolto
alla diaspora, ammette: “non tutte le cose in Rwanda vanno per il
verso giusto, ma ognuno è libero di tornare nel suo paese e dire ciò
che pensa”. Ad un solo patto ammonisce Kagame:
“Chiunque può sentirsi Hutu o Tutsi. Ma con la politica, questi
sentimenti non hanno nulla a che fare”.
Con lo scopo di impedire qualsiasi competizione politica fondata sulla
mobilitazione etnica, l’FPR, capeggiato da Kagame, ha imposto dal
’94 una gestione consensuale del potere.
Nella pratica, la Costituzione transitoria “vieta ai politici e ai partiti
d’intraprendere ogni azione tesa a dividere il paese o a servire i propri
interessi a scapito della riconcilizazione del popolo rwandese”.
Di sicuro, sintetizza il prezioso rapporto dell’International Crisis
Group —ICG, novembre 2002—, “la situazione post–genocidio è
davvero eccezionale”, ma ciò non giustifica il fatto che “la stampa, il
movimento associativo e i partiti di opposizione vengano ammutoliti,
distrutti o cooptati”.
A Zurigo, alcuni sostenitori si oppongono a tali asserzioni,
sottolineando che ben 8 partiti politici sono presenti nel governo e alle
camere. Nulla da ridire nella forma. Ma la sostanza scoperchia angosce
che hanno maturato uno sbandamento autoritario del regime. I dati
dell’ICG parlano chiaro:
—11 prefetti su 12 sono affiliati all’FPR;
—7 servizi di sicurezza su 9 appartengono all’FPR;
—13 ambasciatori su 15 provengono dai ranghi del partito di Kagame,
così come il Procuratore Generale, i capi della Corte di cassazione e
della Corte Costituzionale ne sono membri, al pari di 8 direttori di
banca –sulle 9 disseminate nel paese– e 25 dirigenti delle 29 più
importanti imprese parastatali rwandesi.
Nel migliore dei casi, agli oppositori sono rimaste le briciole o l’esilio.
Ormai sono un quarantina quelli sparsi per il mondo. Monarchici,
combattenti delle Fdlr di Kinshasa, oppositori Hutu moderati e, più di
recente, leaders di associazioni di difesa dei sopravissuti del genocidio
e membri dell’FPR in fuga da Kigali. Tutti spinti verso un’alleanza
disperata quanto surreale. Tra questi oppositori, Faustin
Twagiramungu, defenestrato da Kagame nel ’95, allorquando era
ministro dell’interno. Da allora vive in Belgio, dove ha annunciato la
sua candidatura per le presidenziali. A Zurigo sono stati parecchi ad
intuirlo. Quanto a Kagame, ha le idee molto chiare in proposito:
“Twagiramungu”, asserisce con parole di circostanza “è un rwandese
ed è libero di concorrere a queste elezioni”. Non appena gli evoco che
il suo ex alleato non hai mai rinnegato l’ideologia pro-Hutu della
Rivoluzione sociale, il suo discorso si fa più affilato:
—“Ci saranno in queste elezioni delle linee guida tese ad evitare i
pericoli che abbiamo affrontato nel passato. Se qualcuno andrà contro
queste regole, allora sarà squalificato. Per quanto riguarda
Twagiramungu”–conclude– “le idee cha ha avanzato in passato sono
ancora oggi valide. Non credo che una persona possa cambiare di punto
in bianco”—.
L’ammonimento alle idee che dividono i rwandesi fra Hutu e Tutsi è
scontato. Anche per chi, come Twagiramungu, ha sempre riconosciuto
il genocidio, ribadendo in una recente intervista rilasciata a Nigrizia
che “nel mio partito [l’MDR, ndr] difendo un’ideologia che non ha
niente a che vedere con il razzismo”.
In realtà, Kagame non può essere impensierito da un Twagiramungu
ormai sconnesso dall’elettorato rwandese e la cui candidatura è stata
sconfessata dai sei partiti politici che hanno formato nell’ottobre scorso
la Concertazione permanente dell’opposizone democratica
rwandese (Cpodr), l’ultima ciurma di esiliati alla deriva. Fin troppo
facile per lui ironizzare sulla propria candidatura (data per scontata a
Kigali come a Zurigo), “che dipenderà da una combinazione tra la
decisione del mio partito e la mia coscienza”. Ma una coscienza non
del tutto serena dovrebbe suscitargli il caso di Pasteur Bizimungu,
l’ex presidente della Repubblica (1994-2000), ormai ridotto al silenzio
carcerario dall’aprile 2002. Sulle richieste di una sua immediata
scarcerazione invocate da Amnesty International o l’ICG, Kagame si
mostra impassibile: “È lui stesso ad aver deciso quello che è,
compiendo scelte che lo hanno condotto in prigione”. Tra le poche
denunciate da Kagame, “quella di aver sfruttato i sentimenti etnici”.
Ma se è vero, spiega il rapporto dell’ICG, che “dietro i suoi discorsi
pubblici, l’ex presidente denuncia in privato con molta demagogia
l’esclusione degli Hutu dal potere”, è anche vero che “il vero problema
si situa sul piano della competizione elettorale”.
In tal caso, una sola scelta è stata davvero fatale a Bizimungu: la
creazione di un nuovo soggetto politico nel maggio 2001, “per le
elezioni presidenziali” sottolinea Kagame, “allorquando sapeva di
essere in un periodo di transizione, durante il quale a nessuno era
permesso di creare un partito politico. Ha infranto la legge”.
Il giudizio non va preso sotto gamba perché cruciale sul piano tecnico-
giuridico. Di fatti, Kagame fa un riferimento implicito al periodo di
transizione che si dovrebbe chiudere con il referendum e la nascita di
una nuova Costituzione. Fin lì nessuna campagna elettorale è
autorizzata. Il paese “è ancora a rischio di divisioni” sostiene il regime,
riferendosi in realtà alle fratture etniche e regionali che pesano ancora
sulla coscienza dei rwandesi.
Facendo quattro conti, i partiti avranno pochi mesi a disposizione per
conquistare un elettorato rurale —ossia il 90% degli elettori— da
sempre indifferente alle contese politiche che riguardano le élites
urbane. Il tempo concesso ai partiti somiglia quasi a una provocazione,
se penso a come l’incontro con la diaspora si apparenti in realtà ad
una vera propria kermesse elettorale dell’FPR. Addirittura la
competizione tra i partiti assumerebbe le proporzioni di una farsa, se
le rivelazioni di una coppia svizzero-rwandese di Zurigo, fresca di
ritorno dal Rwanda, si rivelassero fondate:
“Non c’è una città, una collina”, spiega divertito Claudio, “dove l’FPR
non abbia organizzato comizi elettorali. E’ presente ovunque, al
cospetto degli altri partiti, assolutamente assenti”.
In realtà, se tutto appare scontato, i malumori e i rischi sono sempre
dietro l’angolo. Non tutti apprezzano la fine di Bizimungu. Alcuni
rwandesi Tutsi avrebbero addirittura votato per lui, smentendo in parte
il voto etnico automatico. Ma la sentenza di Bizimungu è già stata
scritta da Kagame: “il suo futuro dipenderà solo da lui”. In altre parole:
la rinuncia ad ambizioni politiche che avrebbero potuto soffiare
parecchi voti all’FPR e mettere a rischio il trionfo elettorale di un
Kagame in lotta su altri fronti. In primis, quelli giudiziari interni. Di
fatti, non si sono ancora placate le angoscie dei sopravissuti in seguito
al decreto presidenziale che dal 1 gennaio 2003 ha concesso libertà
provvisoria ad oltre 30.000 detenuti sospettati di reati minori durante
il genocidio. “Lo si è fatto perché era la cosa giusta da fare” si giustifica
n
Kagame, impiegando la forma impersonale allorquando la decisione è
stata di sua intera responsabilità. “Non potevamo proprio tenere in
carcere persone con una pena di anni inferiori a quelli già passati in
cella. In molti casi c’è gente che ha trascorso 7 anni in carcere,
allorquando la pena ne prevedeva 5. Non potevano rimanere in prigione
un minuto in più. E’ una questione di logica!”.
Forse una questione elettorale.
Per conquistarsi gli elettori Hutu, visto che a Kagame, delle reazioni
positive della comunità internazionale su questa questione, non gliene
“importa un bel niente!”.
Meno logiche appaiono a Carla Del Ponte le difficoltà continue che
incontra con Kigali per inchiodare i soldati dell’FPR sospettati di
crimini di guerra nel genocidio.
In questo caso Kagame si sbarazza facilmente di ogni orpello
diplomatico: “Non vedo le basi su cui Carla Del Ponte sta agendo.
Penso che debba fare una distinzione tra i perpretatori del genocidio e
coloro che hanno fermato il genocidio. Piuttosto” —prosegue quasi
irritato— “parliamo del contesto in cui ha lavorato il TPIR ad Arusha
rispetto al Rwanda. Il TPIR non ha nessuna scusa! Hanno speso
centinaia di milioni di dollari e hanno fatto poco o niente!”.
Difficile dargli torto, quando il TPIR procede al ritmo vertiginoso di
O,7 condanne all’anno. Dei 73 incarcerati o ricercati dal Tribunale, di
fatti solo 7 sono stati condannati. Troppo poco per un Kagame pronto
comunque a ribadire che “se fossimo in possesso d’informazioni su
casi sospetti dell’FPR, sarebbe il nostro governo a punirli”.
Ma c’è chi mira molto più in alto della Del Ponte.
Chi, come il giudice antiterrorista francese Bruguières, deve ancora
consegnare un dossier spinosissimo che coinvolgerebbe Kagame in
prima persona nell’attentato perpretato contro l’ex presidente rwandese
Habyarimana alla vigiglia del genocidio. Ma lui, ovviamente, ha sempre
negato. Come probabimente si opporrà alla richiesta mossa dal
presidente congolese Kabila alla Comunità internazionale e tesa a
giudicare l’amministrazione Kagame per crimini di guerra su territorio
congolese.
E forse, più di ogni altra cosa, sarà la giustizia a segnare il destino di
Kagame. Molti, tra coloro che vogliono la sua testa, lo sognano. Come
sono in molti ad augurarsi la stessa sorte per G. W. Bush. E, per una
strana coincidenza, Washington è stata l’ultima meta occidentale
raggiunta da Kagame all’estero. Era il 4 marzo 2003, la vigilia di un
primo attacco preventivo in Iraq, e dell’ennesimo in Congo orientale.
Con un Consiglio di sicurezza impotente. Entrambi hanno firmato un
accordo che prevede l’immunità reciproca per i militari e i cittadini
dei due paesi in caso di procedimenti penali davanti alla Corte penale
internazionale. E, sempre da Washington, Kagame ha colto al volo
l’opportunità di avvalorare la guerra all’Iraq.
A modo suo: “Gli stati” —ha assicurato— “si vedono talvolta costretti
ad intraprendere azioni militari senza il sostegno dell’ONU. Se
abbiamo perso un milione di persone durante il genocidio, è perché il
Consiglio di sicurezza ha fallito con il Rwanda”.
A ciascuno i suoi traumi. L’11 settembre per gli americani. Il genocidio
del ’94 per i rwandesi. Con tutte le insicurezze e le minacce che ne
conseguono. A Zurigo, ne erano tutti convinti. Kagame più di ogni
altro.
(Intervista inedita a Paul Kagame di Joshua Massarenti)
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2003 giovedì quindici maggio
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«Mi si è gelato il sangue...
nelle vene sentendo Gad Lerner in televisione constatare: “In effetti, il crocifisso è il simbolo di un perdente”. In effetti un accidente: dipende dalla posta
che è in gioco. I simboli vincenti quali
sarebbero?» Così scriveva indignata in
un articolo Patrizia Valduga su La Repubblica (10.5.03, Milano I). Ma non s’indigni ora che è ascesa agli allori della Scala, con il debutto di Vita, di cui ha scritto
il libretto derivandolo da Margaret Edison e facendo apparire tra endecasillabi,
ottonari e settenari i suoi amori, Donne e
Pascoli. Ha 50 anni, l’età giusta per capire perché La Repubblica le spezzi l’articolo e perché Lerner sia noto soprattutto
per la gran devozione al vincente Sofri.
Ai miei venticinque lettori dirò che chi si
è indignata non è né una Dama di S. Vincenzo né una Suora del Preziosissimo
Sangue, ma la poetessa di questi versi:
[Sa sedurre la carne la parola]
Sa sedurre la carne la parola
prepara il gesto, produce destini...
E martirio è il verso,
è emergenza di sangue che cola
e s’aggruma ai confini /
del suo inverso sessuato, controverso.
[Sa sedurre la carne la parola]
Sa anche farsi carne la parola,
per i nostri piaceri ultraterreni...
Ti onorerò, Gesù, con atti osceni...
(Venga il destino e mi prenda alla gola...
e lo spirito spiri).
(Patrizia Valduga
da Medicamenta, 1982)
Esemplare unico in edizione elettronica
conforme all’edizione cartacea
della tiratura della presente edizione:
in seicento copie
distintamente contrassegnate
e raggruppate in quattro serie
Bachianas
Brasileiras
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... ho sospeso il narratario
non sapevo né chi né che cosa
mi avrebbe regalato la vita
potrei sospendere
ora e per sempre
di raccontare non so cosa
e non so a chi
—il narratario - lettore implicito—
per raccontare cosa so
e a chi so quanto devo
a chi per primo ha scelto
di essere il mio lettore esplicito:
mi legge l’anima.
A B C D
serie « », « », « », « »
di centocinquanta esemplari
La copia cartacea viene distribuita
in edizione filatelica dal «Laboratorio Altiero Spinelli»
giornale in foglio con editoria elettronica da tavolo
20125 Milano via Arbe 29 tel./fax 02/6123586
direttore responsabile Fabio Trazza
[email protected]
...
...
...
...solo un frammento di musica...
...quasi un frammento di bacio...
La voce alta della Bachiana
si libra dolce e intensa
sulle corde basse e profonde
dei violoncelli,
le sfiora, le bacia, le anima,
ne trasforma il pianto in lamento,
lo innalza all’estasi.
Vola nell’alto
della più alta aquila
ridiscendendone
in pioggia di baci.
Da voce a canto d’amore
e, su corde vibranti,
un sogno d’alcova.
...presto ricomporremo i frammenti...
...presto ricomporremo i sogni...
...presto rimarrà solo...
...l’essere musica...
...della parola...
...presto...
...piovano i baci...
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[ per:
Heitor Villa-Lobos,
Bachianas Brasileiras No. 5
(1938/1945)
per Soprano e otto Violoncelli]
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15 maggio 2003 - il narratario