DANNO E RESPONSABILITA’•ANNO XI SOMMARIO OPINIONI LE CRITICITÀ DEL NUOVO DANNO AMBIENTALE: IL CONFUSO APPROCCIO DEL “CODICE DELL’AMBIENTE” di Luca Prati 1049 LA FORMAZIONE DEL CONSULENTE TECNICO di Enzo Ronchi 1056 GIURISPRUDENZA Itinerari della giurisprudenza DANNO PER IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO a cura di Alberto Venturelli 1061 QUANTUM DEL DANNO PATRIMONIALE E LIQUIDAZIONE EQUITATIVA a cura di Marco Bona 1073 Legittimità LA RESPONSABILITÀ PER IL DANNO DA AUTOLESIONE Cassazione civile, sez. III, 18 novembre 2005, n. 24456 1081 1083 1084 commento di Valentina V. Cuocci commento di Teresa Perna ANIMALI SELVATICI E RESPONSABILITÀ ALLO STATO BRADO Cassazione civile, sez. III, 25 novembre 2005, n. 24895 1091 1093 commento di Roberto Foffa LA DILIGENZA PROFESSIONALE DEL NOTAIO: OBBLIGHI DI VISURA E INFORMAZIONE Cassazione civile, sez. III, 11 gennaio 2006, n. 264 1099 1107 commento di Gianluca Guerreschi INTERMEDIAZIONE MOBILIARE E APPARENZA DEL DIRITTO Cassazione civ., sez. I, 7 aprile 2006, n. 8229 1112 1116 commento di Luca Frumento IL LITISCONSORZIO NELL’AZIONE DIRETTA VERSO L’ASSICURAZIONE R.C.A. Cassazione civile, sez. un., 5 maggio 2006, n. 10311 1123 1129 commento di Giuseppe Finocchiaro Merito TUTELA ANTITRUST DEL CONSUMATORE FINALE Corte d’Appello di Napoli, sez. I, 9 febbraio 2006, n. 374 1133 1134 commento di Stefano Bastianon LA RESPONSABILITA’ DELL’ENTE PREVIDENZIALE PER DANNO ESISTENZIALE Tribunale di Lecce 18 aprile 2006 commento di Giuseppe Cassano 1140 1142 Osservatorio di legittimità a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito 1145 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1047 DANNO E RESPONSABILITA’•ANNO XI Osservatorio sulla giustizia amministrativa a cura di Gina Gioia 1149 INTERVENTI L’INAIL E LA TUTELA PREVIDENZIALE DEL DANNO DA MOBBING di Guglielmo Corsalini 1153 INDICI INDICE DEGLI AUTORI 1157 INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI 1157 INDICE ANALITICO 1157 Danno e responsabilità Problemi di responsabilità civile e assicurazioni RIVISTA MENSILE DI GIURISPRUDENZA E DOTTRINA EDITRICE Wolters Kluwer Italia s.r.l. 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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 AMMINISTRAZIONE Per informazioni su gestione abbonamenti, numeri arretrati, cambi d’indirizzo, ecc. scrivere o telefonare a: IPSOA Servizio Clienti Casella postale 12055 - 20120 Milano telefono (02) 824761 - telefax (02) 82476.799 MODALITA’ DI PAGAMENTO Versare l’importo sul C/C/P n. 583203 intestato a WKI s.r.l. Gestione Incassi Strada 1, Palazzo F6, Milanofiori oppure Inviare assegno bancario/circolare non trasferibile intestato a Wolters Kluwer Italia s.r.l. 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Un corretto approccio logico-giuridico avrebbe dovuto prevedere una preliminare definizione del bene protetto (l’Ambiente), ed una descrizione del danno giuridicamente rilevante coerente ed univoca. La nuova disciplina, invece, si presenta priva di chiarezza già sotto tali aspetti, oltre che in relazione a questioni fondamentali quali i criteri di imputazione della responsabilità da danno ambientale. In questa sede ci si soffermerà quindi su alcuni dei punti nodali che rendono problematica la collocazione della nuova fattispecie all’interno del sistema di responsabilità civile. Introduzione Il legislatore del 1942, con i pochi e stringati articoli che vanno dal 2043 al 2059 del codice civile, ha saputo costruire un articolato, e relativamente efficace, sistema di responsabilità civile, flessibile quanto bastava per poter disciplinare pressoché tutti gli accadimenti della vita umana produttivi di danni extracontrattuali. Il suo epigono del 2006, con l’ormai noto d.lgs. n. 152/2006 (il c.d. “codice dell’ambiente”), ha invece avuto bisogno di 18 articoli (e svariati allegati) per disciplinare il nuovo “danno ambientale”, la cui disciplina era precedentemente contenuta nell’art. 18 della legge n. 349/1986. Certo il legislatore del periodo bellico era stato aiutato dal bagaglio di diritto vivente formatosi nei secoli trascorsi dalle prime elaborazioni dei giureconsulti romani in tema di illecito aquiliano; non osiamo pensare cosa avrebbe potuto fare, con un simile lasso di tempo a disposizione, il legislatore del “codice dell’ambiente”, visto ciò che ha saputo mettere insieme nel breve spazio di tempo trascorso dalla legge delega n. 308/2004 all’aprile del 2006. In tale finestra temporale è riuscito, infatti, a trasformare la speciale fattispecie di danno ambientale contenuta all’abrogato art. 18 in un autentico guazzabuglio di definizioni, concetti e principi spesso tra loro del tutto antitetici, dai quali è oggettivamente impossibile non solo ricavare una disciplina unitaria e sistematica della materia, ma addirittura comprendere con certezza la natura del bene oggetto di tutela ed il tipo di responsabilità disegnato dalle nuove previsioni. Ci si limiterà in questa sede a scorrere alcuni dei punti nodali che rendono a dir poco problematica la collocazione della nuova, astrusa fattispecie di illecito scaturen- te dal d.lgs. n. 152/2006 all’interno del sistema di responsabilità civile. Le diverse definizioni di danno ambientale: il danno “comunitario” e quello “nazionale” Un corretto approccio logico-giuridico avrebbe dovuto prevedere una preliminare definizione del bene protetto (l’ambiente) e quindi descrivere il danno giuridicamente rilevante al medesimo bene. Il d.lgs. n. 152/2006 si presenta invece già privo di chiarezza su tali fondamentali questioni. Ed infatti, ai sensi dell’art. 300, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006, il danno ambientale viene definito come “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”. Il predetto articolo precisa poi al comma 2 che “ai sensi della Direttiva 2004/35/CE” costituisce danno ambientale il “deterioramento, in confronto alle condizioni originarie”, provocato: a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19 settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione; DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1049 OPINIONI•DANNI NON PATRIMONIALI b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7, di tale direttiva; c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali; d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente. L’art. 300 riprende pedissequamente la definizione della direttiva europea, senza fare alcuno sforzo di adattamento della norma comunitaria all’ordinamento nazionale. Ne discende una impostazione “riduttiva” del c.d. danno ambientale (1), che in particolare dovrebbe coprire essenzialmente il danno alle specie ed agli habitat protetti, il danno ecologico, chimico e quantitativo alle acque ed il danno da contaminazione del terreno che rechi pregiudizio alla salute umana, secondo la concezione “materialistica” di danno presente nella direttiva (già di per sé criticabile sotto molti aspetti). Ciò che viene soprattutto in rilievo è quindi un danno consistente nella “alterazione fisico - chimica” di una determinata risorsa naturale, “misurabile in termini di effetti negativi sullo stato della stessa”, a cui si accompagna, come logico corollario, la “frammentazione” del danno in ipotesi distinte, ed aventi presupposti parzialmente diversi, a seconda della componente ambientale (o della “risorsa naturale”) interessata: specie ed habitat protetti, acque e terreno. Alla tutela “frazionata di alcune componenti del bene ambiente” descritta nell’art. 300, commi 1 e 2, segue però la formulazione in termini generali dell’illecito ambientale contenuta all’art. 311, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, in base al quale “chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”. La totale mancanza di coordinamento tra l’art. 300 e l’art. 311, comma 2, è evidente (2). Mentre il primo limita la definizione di danno ambientale a quanto contemplato dalla direttiva europea, indicando in modo (probabilmente troppo) puntuale e tassativo ciò che costituisce oggetto di “deterioramento significativo e misurabile di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, l’art. 311, comma 2, riproduce in larga misura la più ampia ed onnicomprensiva fattispecie già contenuta nell’art. 18 dell’abrogata legge n. 349/1986, 1050 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 che dà rilievo a qualsiasi alterazione, deterioramento o distruzione in tutto o in parte dell’ambiente. Accanto alla definizione di matrice “comunitaria” di danno all’ambiente (deterioramento significativo e misurabile di una specifica componente ambientale) continua quindi a sussistere una fattispecie di danno analoga a quella dell’abrogato art. 18, che contempla una diversa e più ampia figura di illecito, in cui oggetto di tutela pare essere l’ambiente inteso come bene unitario e distinto dalla sue singole componenti. Mette conto ricordare come proprio sulla base dell’abrogato art. 18 la giurisprudenza (3) (sulla scia di due pronunce della Corte costituzionale del 1987 (4)) si fosse orientata nel senso di riconoscere l’unitarietà e l’autonomia del bene ambiente, in quanto “bene immateriale ma giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà” specificando che per “ambiente in senso giuridico va considerato un insieme che, pur comprendendo vari beni o valori, quali la flora, la fauna, il suolo, l’acqua ecc., si distingue ontologicamente da questi poiché si identifica in una realtà priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento (5)”. A fronte della duplicità della definizione legale contenuta nel d.lgs. n. 152/2006, ci si deve chiedere se può ritenersi sopravvivere gran parte dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sviluppatasi nel vigore dell’art. 18, relativamente alla concezione unitaria del bene ambiente. O d’ora in poi dovrà prevalere la più riduttiva definizione comunitaria ed il relativo approccio frazionato alla tutela ambientale? A parere di scrive, pur nella pessima formulazione della normativa, la nozione unitaria di danno all’ambiente deve ritenersi ancora attuale; nonostante l’art. 300 del d.lgs. n. 152/2006 definisca ciò che “ai sensi della Direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale”, il dato letterale dell’art. 311, comma 2, ha un significato precettivo indiNote: (1) Si pensi solo al danno al terreno, rispetto al quale viene in rilievo solo quella contaminazione che cagioni "un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana e derivi da un introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo". L’evento di danno (o di pericolo concreto) è riferito quindi non all’ambiente ed alle risorse naturali, ma alla tutela della salute umana. Cfr. anche F. Giampietro, La direttiva 2004/35/CE sul danno ambientale e l’esperienza italiana, in Ambiente, n. 9/2004. (2) Sulle complesse problematiche relative alla molteplicità di definizioni di “ambiente” come oggetto di tutela, si veda F. Giampietro, La nozione di ambiente e di illecito ambientale, in Ambiente e sviluppo, n. 5/2006, p. 464. (3) Cfr. Cass. 25 gennaio 1989, n. 440, in Giust. civ., 1989, 552 (4) Si fa riferimento alle sentenze 210/1987 e 641/1987, rispettivamente in Foro it., 1988, I, 333 e 641. (5) Cfr. sentenza Cass. 9 aprile 1992, n. 4362, in Mass. giust. civ., 1992, 588; in argomento si veda: B. Pozzo, Danno ambientale, in Riv. dir. civ., 1997, II, 778 ss. OPINIONI•DANNI NON PATRIMONIALI scutibile. Del resto, tale soluzione è l’unica compatibile con la più volte affermata natura costituzionale del bene ambiente. Basti qui ricordare come l’art. 9 della Costituzione, proteggendo il paesaggio, abbia rappresentato un aggancio normativo per reprimere le violazioni ambientali che si realizzano mediante attività modificatrici dell’assetto del territorio, mentre nell’ambito l’art. 32 sono state inquadrate le violazioni che determinano un danno alla salute della persona a seguito della compromissione dell’ambiente (6). Parte della dottrina tende poi ad individuare una direttiva utilizzabile in materia ambientale anche nell’art. 44, nella parte in cui prescrive alla legge di compiere una serie di attività “al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali” (7). Infine, anche gli articoli 41 e 42 Cost., là dove pongono dei limiti all’iniziativa economica e alla proprietà privata, sono stati ritenuti esprimere anche finalità ambientali (8). Del resto, la giurisprudenza della Cassazione non ha esitato ad individuare nel dettato costituzionale la fonte stessa delle norme sul danno ambientale; la sentenza n. 5650/1996 (9) ha così affermato che “la configurabilità dell’ambiente come bene giuridico, non trova la sua fonte genetica nella citata legge del 1986 (che si occupa piuttosto della ripartizione della tutela tra Stato, enti territoriali ed associazioni protezionistiche) ma direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli articoli 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale” (10). Pertanto, una volta ammessa la portata costituzionale del bene ambiente (e quindi la necessità di apprestare allo stesso una tutela adeguata ad un bene di tale rango), una definizione restrittiva e frammentata quale quella dell’art. 300 non può prevalere sulla più ampia definizione dell’art. 311, comma 2, tramite la quale viene così data sostanziale continuità allo ius receptum formatosi nel vigore dell’abrogato art. 18. Se la giurisprudenza, come è probabile, si indirizzerà nel senso di valorizzare il comma 2 dell’art. 311 d.lgs. n. 152/2006 rispetto all’art. 300, commi 1 e 2, del medesimo decreto, non è difficile prevedere che la nozione di “danno ambientale” ai sensi della direttiva comunitaria finirà per assumere un ruolo del tutto marginale. Forse non c’è da dispiacersene troppo: tuttavia, la definizione dell’art. 300 esiste e si contrappone inevitabilmente a quella omnicomprensiva ereditata dall’abrogato art. 18; l’interferenza tra due norme così palesemente antitetiche avrebbe preteso un coordinamento che il legislatore del “codice dell’ambiente” ha del tutto ignorato, al punto di aver lasciato nell’ambiguità proprio l’oggetto della tutela a cui ha dedicato l’intera parte sesta del d.lgs. n. 152/2006. L’ambiente tra bene collettivo e bene individuale L’ambiguità di ciò che costituisce oggetto di tutela, peraltro, non si ferma ai punti sopra citati. Infatti il legislatore, all’art. 311, comma 1, individua chiaramente il titolare delle azioni di risarcimento del danno nello Stato, attribuendo la legittimazione ad agire solo ed esclusivamente al Ministro dell’Ambiente, con il patrocinio obbligatorio ed organico dell’Avvocatura dello Stato. Tuttavia, all’art. 309 viene tra l’altro previsto che “le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale …. possono presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, depositandole presso le Prefetture - Uffici territoriali del Governo, denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente”; ai sensi del successivo art. 310, “I soggetti di cui all’articolo 309, comma 1, sono legittimati ad agire … per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale”. Il combinato disposto dei predetti articoli si riflette sulla qualificazione del danno all’ambiente e sulla natura giuridica del bene tutelato. Mentre da un lato si stabilisce il principio generale della titolarità esclusiva in capo allo Stato della pretesa risarcitoria in materia di danno ambientale, assumendo così che esso agisca a tutela della collettività facendo valere un diritto superindividuale a tutela di un bene collettivo, dall’altro si ammette che anche tutte “le persone fisiche o giuridiche”, oltre che gli enti espressione della collettività locale, possano essere “colpite dal danno ambientale” in senso stretto e quindi agire “per il risarcimento del danno subito” a seguito del deterioramento delle risorse naturali. I privati sono pertanto legittimati ad agire per il ristoro del danno all’ambiente così come definito dal d.lgs. n. 152/2006, e non solo per la tutela dei diritti soggettivi eventualmente lesi dal medesimo fatto produttivo di danno ambientale. Con ciò si torna però a trasporre il danno ambientale sul Note: (6) S. Patti, Valori costituzionali e tutela dell’ambiente, cit., 117. (7) Tra essi: L. Francario, Le destinazioni della proprietà a tutela del paesaggio, Napoli, 1986, 29 ss.; M. Libertini, La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali del diritto all’ambiente, in Rivista critica del diritto privato, 1987, 560. (8) B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2001, 17 ss. (9) In Danno e resp., 1996, 693, con nota di V. Colonna. (10) Anche la successiva sentenza della Corte di cassazione, sez. III civile, 3 febbraio 1998, n. 1087, ha confermato che “Nel nostro ordinamento giuridico la protezione dell’ambiente, anche prima della legge n. 349/86, la Costituzione e la norma generale dell’art. 2043 apprestavano all’ambiente una tutela organica e piena” . A seguito della riforma costituzionale attuata con la legge 18 ottobre 2001 n. 3, è stato poi introdotto il concetto di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” nell’ambito del Titolo V, sebbene soltanto attraverso una norma di ripartizione di competenze; cfr. in merito R. Chieppa, L’ambiente nel nuovo ordinamento costituzionale, in Urbanistica e appalti, 2002, n. 11, 1249. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1051 OPINIONI•DANNI NON PATRIMONIALI piano dei diritti soggettivi astrattamente tutelabili individualmente, in contrapposizione alla concezione dell’ambiente quale bene collettivo e superindividuale. Per conseguenza, sebbene sia chiaro, nel nuovo regime, che i privati non possono agire contro i diretti responsabili di illeciti ambientali, mai essi potrebbero invece ricorrere in via giurisdizionale per ottenere il risarcimento del “danno all’ambiente”, patito a causa dell’inerzia del Ministero dell’Ambiente, nei confronti di quest’ultimo, in relazione a “qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale”. La confusione è evidente, tanto più se si considera come all’art. 313, comma 7, venga poi previsto che “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”. Il legislatore, al comma 7 dell’art. 313, parla correttamente del danno a singoli beni lesi dal fatto produttivo di danno ambientale, come tali distinti da quest’ultimo ed oggetto di tutela in base alle norme ordinarie (11), anche se poi limita inspiegabilmente l’ambito di tali diritti tutelabili in via ordinaria alla salute ed alla proprietà. La lunga elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, con cui è stata faticosamente affermato come la lesione dell’ambiente in senso giuridico, considerato come insieme che, pur comprendendo vari beni materiali, si distingue da questi, debba essere distinta dalla sue singole componenti, rischia di essere in gran parte vanificata dalla commistione di concetti diversi operata nell’articolato sopra richiamato, articolato nel quale certamente vi è stato un uso disinvolto di una terminologia che invece è, per sua natura, estremamente delicata. L’imputazione della responsabilità da danno ambientale Un altro punto di criticità conseguente alla pessima tecnica normativa della parte sesta del d.lgs. n. 152/2006 è costituito dal criterio di imputazione della responsabilità (per colpa, per c.d. “colpa presunta”, od oggettiva) da danno ambientale. Anche qui, le norme che vengono in rilievo in proposito sono diverse e tra loro disomogenee. L’art. 305 dispone che, “quando si è verificato un danno ambientale”, oltre azioni di prevenzione, l’operatore (12) ha inoltre l’obbligo di adottare immediatamente “le necessarie misure di ripristino di cui all’articolo 306”. La norma prosegue precisando che, “se l’operatore non adempie a tali obblighi”o “se non è tenuto a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente decreto”, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio ha facoltà di adottare egli stesso tali misure, approvando la nota delle spese, con diritto di rivalsa esercitabile verso chi abbia “causato o comunque concorso a causare le spese stesse”, se venga individuato entro il termine di cinque anni dall’effettuato pagamento. Letta isolatamente, la disposizione sembrerebbe diretta a 1052 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 istituire un regime di responsabilità oggettiva, basata cioè sul solo nesso di causalità tra azione od omissione ed evento: l’obbligo di ripristino sorge, infatti, “quando si verifica un danno ambientale”, ed il Ministro ha un diritto di rivalsa per le spese sostenute avverso chi lo abbia “causato o comunque concorso a causare”. Tuttavia, lo stesso art. 305 prevede il caso in cui l’operatore “non è tenuto a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente decreto”; si impone quindi una lettura sistematica dell’articolato, lettura che riporta invece a criteri di imputazione certamente diversi dal mero nesso causale. In proposito l’art. 311, comma 2, di cui si è già parlato, depone certamente nel senso del mantenimento di una responsabilità per colpa. In base ad esso, integra gli estremi della fattispecie la realizzazione di un fatto illecito di natura dolosa o colposa, in forma attiva od omissiva, in violazione di legge, di regolamento o di provvedimento amministrativo, oppure commesso con negligenza, imperizia, imprudenza (pare del tutto formale e pleonastico il richiamo alle “norme tecniche”, posto che il mancato rispetto delle stesse integra già l’imperizia). L’art. 18 della legge n. 349/1986, come noto, descriveva la condotta del soggetto agente come quella che si estrinseca in atti dolosi o colposi commessi “in violazione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che compromettano l’ambiente”; con ciò il legislatore aveva ancorato la colpa rilevante per la causazione di un danno ambientale alla colpa specifica per violazione di legge. Nella formulazione dell’art. 311, comma 2, il profilo della responsabilità viene invece allargato anche alla colpa generica, non ancorata cioè alla sola violazione di una norma o di un provvedimento espressamente posti a protezione dell’ambiente. Con ciò l’illecito viene definitivamente modellato sull’art. 2043 del codice civile; scompare pertanto l’affermata “tipicità” del danno ambientale regolato dalla legge n. 349/1986 (13), in conNote: (11) Cfr. Cass. 25 gennaio 1989, n. 440, in Giust. civ., 1989, 552: “se lo Stato accentra in sé, nella veste di massimo ente esponenziale della collettività nazionale, la titolarità del ristoro del danno all’ambiente, ciò non priva certamente altri soggetti della legittimazione diretta e rivolgersi al giudice per la tutela di altri diritti, patrimoniali o personali, compromessi dal degrado ambientale: come, ad esempio, in caso di distruzione, in dipendenza della stessa condotta illecita che abbia compromesso l’ambiente, di beni appartenenti al demanio ed al patrimonio di enti territoriali, o di cespiti o di attività di soggetti privati, oppure in caso di lesione del diritto alla salute, quale diritto soggettivo individuale”. Cfr. anche Cass. 1° settembre 1995, n. 9211, in Foro it., Rep. 1995, voce Ambiente (tutela dell’), n. 95, e Cass., sezione III civile, 3 febbraio 1998, n. 1087, in Foro it., 1998, I, 1142. (12) Per «operatore» s’intende qualsiasi persona, fisica o giuridica, pubblica o privata, che esercita o controlla un’attività professionale avente rilevanza ambientale oppure chi comunque eserciti potere decisionale sugli aspetti tecnici e finanziari di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell’autorizzazione a svolgere detta attività. (13) Per la tipicità della fattispecie, cfr. Feola, Analisi della disciplina ex art. 18 l. 349/86 in materia di danno ambientale ed evoluzioni giurisprudenziali, in Resp. civ., 1996, 1078. La tipicità della responsabilità da danno ambientale rispetto alla più generale figura dell’illecito aquiliano ex art. 2043 era (segue) OPINIONI•DANNI NON PATRIMONIALI trapposizione alla riconosciuta “atipicità” dell’illecito aquiliano, ed anche il danno ambientale diventa illecito “atipico”, realizzabile quindi con qualsiasi condotta dolosa o colposa. Un’indicazione ancora diversa si rinviene poi all’art. 308, ove viene precisato, al comma 4, che non sono a carico dell’operatore i costi delle azioni di ripristino adottate se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l’esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee; il comma 5 prevede poi che l’operatore non è tenuto a sostenere i costi “delle azioni di cui al comma 5” (sic!), “qualora dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l’intervento preventivo a tutela dell’ambiente è stato causato da un’emissione o un evento espressamente consentiti”, o da un’emissione o un’attività o in qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un’attività “che l’operatore dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale” secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del fatto. Tali disposizioni sembrerebbero comportare una responsabilità con inversione dell’onere delle prova gravante sul danneggiante, sul tipo della colpa presunta (sul modello dell’art. 2050 c.c.) (14). In ogni caso, oltre il chiaro dettato letterale dell’art. 311, depongono con certezza per un regime di responsabilità per colpa, analogo al modello tradizionale dell’art. 2043 c.c. anche i seguenti elementi: l’art. 316, nel descrivere le azioni con cui l’interessato può reagire avverso l’ordinanza che impone il ripristino, si riferisce al “trasgressore”, con ciò individuando al di fuori di ogni dubbio un soggetto che con la propria azione abbia violato una norma di condotta; l’art. 314 prevede che l’ordinanza di diffida al ripristino ambientale deve contenere anche l’indicazione specifica del fatto, commissivo o omissivo, contestato, nonché degli elementi di fatto ritenuti rilevanti per l’individuazione e la quantificazione del danno e delle fonti di prova per l’identificazione dei trasgressori; l’onere della prova resta quindi in capo all’amministrazione che agisce per il risarcimento del danno. Del resto, nel nostro sistema giuridico, la responsabilità oggettiva rappresenta sempre una eccezione. Mentre la norma dell’art. 2043 c.c., esprimendo il normale modello di atipicità dei fatti illeciti basato sul dolo o sulla colpa contiene una regola generale (15), le norme degli artt. 2047 e ss., fondate su criteri che talora prescindono da un accertamento di colpevolezza, individuano una serie di settori (fra cui le attività cd. pericolose e la responsabilità per cose in custodia) in cui si delineano previsioni speciali di responsabilità. Se, quindi, la regola generale pone quale fondamento della responsabilità l’accertamento di una qualche forma di colpevolezza, le ipotesi che intendono prescinderne devono caratterizzarsi per la presenza nella fattispecie normativa di un elemento ulteriore, oggettivamente in- dividuabile, che consenta di superare la regola generale; la scomparsa della causazione “anche accidentale” dalla nuova formulazione della norma non consente più di individuare un tale elemento specializzante. Tali considerazioni valgono poi anche per il d.lgs. n. 152/2006, nella parte in cui ha disciplinato ex novo il regime della bonifica dei siti contaminati, e che costituisce un importante sottosistema della responsabilità da danno all’ambiente. In precedenza l’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, che assoggettava all’obbligo di bonifica “chiunque, anche in maniera accidentale, cagioni il superamento ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione ambientale” dei suoli, delle acque superficiali e sotterranee, in relazione alla particolare destinazione d’uso dei siti. Trattandosi di una responsabilità di natura oggettiva, l’unico accertamento che doveva essere compiuto per affermare la responsabilità dell’inquinatore nel vigore del d.lgs. n. 22/1997 era quindi quello relativo al nesso causale tra la condotta dell’autore dell’inquinamento e l’evento (il superamento o il pericolo di superamento dei limiti di accettabilità). L’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006 prevede invece ora che l’interessato, “al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento” deve mettere in opera entro ventiquattro ore le necessarie misure di prevenzione, dandone immediata comunicazione ai sensi e secondo le modalità previste dall’art. 304. La scomparsa dell’inciso relativo all’accidentalità dell’evento fa adesso propendere decisamente per una responsabilità per colpa. Infine, è da segnalare come l’art. 313, comma 3, abbia previsto una responsabilità per colpa (forse al limite del Note: (segue nota 13) evidenziata dal fatto che non qualsiasi fatto doloso o colposo dannoso per l’ambiente poteva legittimare l’azione di risarcimento, ma solo quei fatti commessi in violazione di norme di legge o provvedimenti adottati in base alla legge (Cfr. P. Dell’Anno, Manuale di diritto ambientale, Padova, 1998, 151 e ss.). (14) La natura della responsabilità ex art. 2050 resta discussa, tuttavia parte della dottrina è ancora ferma nell’individuare nelle fattispecie di cui all’art. 2050 c.c. una ipotesi di responsabilità per colpa presunta, ritenendo che l’esistenza di una presunzione atta ad invertire l’onere della prova ponga in evidenza l’atteggiamento di diligente cautela preventiva che si pretende da parte dell’esercente l’attività pericolosa, e specificando che, se si fosse trattato di responsabilità obiettiva, la legge non avrebbe conferito al danneggiante la possibilità di dimostrare l’assenza di colpa ma si sarebbe limitata a prendere in considerazione il principio della mera imputatio facti (cfr. ex multis Giannini, Pogliani, La responsabilità da illecito civile, Milano, 1996, 135 e ss., che richiama l’opinione di Bonvicini, La responsabilità per i danni nel diritto delle obbligazioni, Milano, 1963, I, 192). Vedi anche Alpa-Bessone, in Trattato Rescigno, 14, Torino, 1982, 332. (15) Cfr. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, pag. 164 e ss., e Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 1 e ss., il quale sceglie il "rischio" come criterio di imputazione della responsabilità nei regimi speciali previsti dal Codice civile, Si veda anche De Cupis, Franzoni, Fatti illeciti, in Comm. del codice civile, a cura di ScialojaBranca, Zanichelli, Bologna, 1993, 401 e ss. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1053 OPINIONI•DANNI NON PATRIMONIALI dolo) anche per l’obbligato solidale al risarcimento del danno all’ambiente. Esso prevede che, “con riguardo al risarcimento del danno in forma specifica, l’ordinanza è emessa nei confronti del responsabile del fatto dannoso nonché, in solido, del soggetto nel cui effettivo interesse il comportamento fonte del danno è stato tenuto o che ne abbia obiettivamente tratto vantaggio sottraendosi, secondo l’accertamento istruttorio intervenuto, all’onere economico necessario per apprestare, in via preventiva, le opere, le attrezzature, le cautele e tenere i comportamenti previsti come obbligatori dalle norme applicabili”. Lungi dal prevedere una responsabilità del tipo di quella prevista per i padroni e committenti ex art. 2049 c.c., (per cui è sufficiente un collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da questi espletate, senza che sia richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando sufficiente l’esistenza di un rapporto di “occasionalità necessaria”, anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo agli ordini ricevuti), l’obbligato solidale (in quanto soggetto che ha tratto vantaggio dalla condotta dannosa) per essere tale, in tema di danno ambientale, deve essersi sottratto in via preventiva all’onere di apprestare le necessarie cautele, e tale sottrazione deve risultare espressamente dall’attività istruttoria. Niente di più lontano da un approccio di strict liability, oltre che una ennesima deroga a principi già consolidati nei principi generali. 1054 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 In conclusione, tra i molti (troppi) difetti della nuova disciplina del danno ambientale (tra cui quelli inerenti alla giurisdizione, che esulano da questa trattazione (16), la totale mancanza di coordinamento tra le stesse norme del d.lgs. n. 152/2006, e tra queste e i principi generali, sembra costituire una sorta di peccato originale da cui il legislatore ambientale, ancora una volta, non ha saputo emendarsi. Nota: (16) Basti dire che l’art 316 prevede che l’ordinanza ministeriale che impone il risarcimento del danno possa essere impugnata entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione avanti il T.a.r., in sede di giurisdizione esclusiva, competente in relazione al luogo nel quale si è prodotto il danno ambientale. Nel caso in questione, trattandosi di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo è investito anche del potere di decidere dei diritti soggettivi sottesi alla controversia. Tuttavia, è noto che in base ai principi generali il termine di 60 giorni per la proposizione del gravame opera solo con riferimento agli interessi legittimi, mentre per i diritti vale l’ordinario termine di prescrizione. La legittimità costituzionale della giurisdizione esclusiva nella suddetta materia appare comunque assai discutibile, specie dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale del 6 luglio 2004, n. 204, con cui la Corte ha stabilito che l’art. 103 Cost. “non consenta al legislatore di devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo interi “blocchi di materie” di rilevante interesse pubblico”, ma solamente materie "particolari", “nelle quali la pubblica amministrazione agisce comunque prevalentemente in via autoritativa”, e cioè materie nelle quali la tutela nei confronti della p.a. può investire "anche" diritti soggettivi, ma deve riguardare comunque in modo preminente interessi legittimi. Nel caso del danno ambientale si versa essenzialmente nell’ambito di rapporti patrimoniali, che sono tendenzialmente estranei alla materia dell’interesse legittimo. OPINIONI•RESPONSABILITA’ MEDICA Codice di deontologia medica La formazione del consulente tecnico di ENZO RONCHI* L’autore, dopo avere ricordato il significato e valore dell’attività medico-legale (come richiamato anche nel codice di deontologia medica), evidenzia quanto debba essere ritenuta irrinunciabile la formazione del perito o consulente tecnico, nel rispetto dei principi del rigore della prova: segnatamente per quanto concerne la valutazione del nesso causale secondo le regole di giudizio indicate dalla Suprema Corte. Attività medico-legale viene esplicata da ogni medico quando ricorra alle sue conoscenze scientifiche non con finalità diagnostico-terapeutica ma per contribuire ad una corretta applicazione delle norme che regolano la vita dell’uomo nella società. La redazione di un certificato o di una cartella clinica, ad esempio, non ha il solo fine terapeutico e spesso, anzi, ha un importante significato medico-legale. L’attività medico-legale in tal senso, pertanto, è frequentemente nelle mani non dello specialista in scienze forensi ma del medico in generale, del clinico, che non sempre ne ha piena consapevolezza. Un richiamo, al riguardo, proviene dallo stesso codice di deontologia medica che, all’art. 64, così recita: “Nell’espletamento dei compiti e delle funzioni di natura medico-legale, il medico deve essere consapevole delle gravi implicazioni penali, civili, amministrative e assicurative che tali compiti e funzioni possono comportare e deve procedere, sul piano tecnico, in modo da soddisfare le esigenze giuridiche attinenti il caso in esame nel rispetto della verità scientifica, dei diritti della persona e delle norme del presente Codice di Deontologia Medica …”. La storia recente, peraltro, insegna che il medico (soprattutto nella gestione ospedaliera) è entrato in contatto con le problematiche medico-legali molto più che in passato e anzi talora ne è stato violentemente investito: quotidianamente deve confrontarsi con disposizioni di legge più o meno recenti (un tempo inesistenti o in stato di “sommersione”) che regolano diritti/doveri del cittadino; e quotidianamente deve pensare a difendere sé stesso oltre che la salute del paziente. Per il clinico, dunque, la medicina legale non è più un libro, un manuale da chiudere per sempre e accantonare appena conseguita la laurea: è, invece, materia coinvolgente suo malgrado; materia viva in continua evoluzione come la società dell’uomo. Ogni settore delle scienze medico-biologiche registra crescenti, inarrestabili progressi ed è pertanto inevitabile che le competenze siano sempre più specialistiche e super-specialistiche. Ma se le progressioni delle scienze biologiche sono impressionanti nondimeno lo sono i cambiamenti intro- 1056 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 dotti dal Legislatore per quanto di rilievo in ambito medico-legale. Un confronto tra il vecchio e il nuovo potrà convincere chiunque di quanto sia ben impegnativo l’aggiornamento per il medico-legale che, in ogni caso, auspicabilmente dovrebbe “avere un occhio” anche per le recenti e più rilevanti acquisizioni negli altri campi delle scienze biologiche. È agevole comprendere, pertanto, che difficilmente lo stesso “specializzato” potrà cimentarsi con pari, elevata competenza in ogni ambito valutativo medico-legale; ed è altrettanto agevole dare un più preciso significato a quanto disposto dal sovra-richiamato art. 64 del codice di deontologia medica il quale deve rappresentare un monito, per ogni medico non specialista, ad astenersi ovvero accettare con cautela impegni professionali peritali. La formazione medico-legale del clinico è oggigiorno irrinunciabile e va orientata verso i grandi temi della medicina ospedaliera e generale: i doveri giuridici e deontologici; la nuova cultura del consenso informato in opposizione a quella paternalistica; la cultura della comunicazione medico-paziente e della prevenzione del “rischio”; la cultura della responsabilità professionale in sede penale e civile; la cultura della cartella clinica e delle certificazioni. La formazione medico-legale dello specialista è tutto questo ma altro ancora: prima e dopo. Dopo, in ragione delle esigenze di più ampie conoscenze che devono spaziare, per quanto possibile, negli altri, numerosi ambiti medico-legali. Ma prima ancora perché le fondamenta dell’edificio medico-legale devono saldamente poggiare sulla cultura del “rigore nelle prove” che si esprime attraverso motivazioni scientifiche ponderate. E questa, ad avviso del sottoscritto, deve essere la base formativa di chi voglia dedicarsi all’attività di perito e di consulente (incaricato dall’Ufficio o da una parte). Quella del rigore nelle prove è una cultura essenziale che si acquisisce da dottrina e giurisprudenza e che si perfeNota: * Professore Ordinario, Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Università di Milano. OPINIONI•RESPONSABILITA’ MEDICA ziona sul “campo”. Diviene una abitudine, una forma mentis che porta a rifiutare, per principio, conclusioni non supportate da soddisfacenti motivazioni, nella consapevolezza che il contributo peritale è spesso decisivo, nella dinamica processuale, per attribuire o escludere responsabilità, per avvalorare o negare diritti. Il rigore in termini, appartiene più al razionale giuridico che clinico, come ricordato dallo Stella (1) che così scrive riprendendo una metafora del Murri: “Il medico non può aspettare il meriggio, deve fare la diagnosi al malato che ha davanti a sé; il Giudice penale deve invece aspettare il meriggio, per vedere se le sue ipotesi risultano controllate in fatto; e se, venuto il meriggio, l’ipotesi risulterà ancora non controllata, per la mancata dimostrazione della concretizzazione della legge scientifica pertinente, l’imputato dovrà essere prosciolto: il nesso causale non è stato dimostrato”. Perito o consulente medico-legale devono adeguarsi alla metodologia processuale nelle motivazioni, così che sia “servito” un prodotto utile al Giudice e alle parti. È soprattutto nei principi della causalità che deve insistere la formazione del perito e consulente medico-legale. “Sopra i concetti di causa, concausa e occasione”, scrissero autorevolmente nostri maestri, come il Cazzaniga nel lontano 1919, rivendicando l’autonomia del concetto di causa in medicina legale, identificato, in “ciò che modifica”, ovvero nella “capacità modificatrice come idoneità ad apportare variazioni quantitative o qualitative”. Una concezione del tutto originale che portò l’Autore stesso alla presentazione di una a tutti nota “criteriologia” quale metodo di valutazione del nesso causale, in cui è pregiudiziale il criterio di adeguatezza lesiva che ha portato ad elaborazioni come il concetto di “occasione” che risulta in aperto contrasto con il principio della condizione necessaria e da cui sono derivate sentenze ritenute ingiuste in ultima analisi (2). Come bene evidenziato dallo Stella (3) “il giudice penale si attende che il medico-legale esprima delle conclusioni coerenti col punto di vista del diritto penale, non con altri punti di vista, e quindi accerti, sulla base della scienza se, senza la condotta umana, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato”. Subordinando il giudizio tecnico sul valore causale di una condizione antecedente,alla verifica della sua adeguatezza a produrre un effetto, il perito o consulente rischia di fermarsi ad una valutazione della sola causalità in generale, mentre il giudice necessita di un contributo medico-legale per la soluzione del caso di specie e che rappresenti prova particolaristica. Si comprende, pertanto, perché gli attuali insegnamenti del diritto (attraverso dottrina e giurisprudenza) identificano la causa in una condizione antecedente necessaria, il cui valore, nel caso specifico, è filtrato dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura ed ulteriormente controllato da verifica contro-fattuale: verifiche di valore necessarie ad evitare assurde applicazioni processuali del principio condizionalistico. Da notare, poi, che “limitandosi” alla verifica dell’adeguatezza, il perito o consulente tende a condizionare oltre misura la decisione del giudice o addirittura a sostituirvisi. I richiami a rifuggire dalla tentazione di “facili” valutazioni di adeguatezza, non sembrano inutili anche nei tempi nostri, ove soltanto si presti attenzione a quanto indicato nell’art. 138 del Decreto Legislativo 7 Settembre 2005 n. 209 (nuovo Codice delle Assicurazioni) che, in ordine a criteri applicativi della tabella per danni psichici, così recita: “La verifica del nesso causale deve … passare attraverso la rigorosa applicazione della criteriologia medico-legale, atteso che molti dei sintomi appartenenti alle categorie morbose sopra richiamate possono essere di natura idiopatica e potranno considerarsi di natura post-traumatica soltanto previo accurato vaglio della loro coerenza quali-quantitativa e della loro proporzionalità rispetto alla comprovata valenza psico-traumatica dell’evento lesivo”. Al riguardo, in uno sforzo di corretta interpretazione, è auspicabile da un lato che il criterio dell’adeguatezza sia qui da intendere come eventuale correttivo al metodo condizionalistico che di per sé solo potrebbe rilevarsi insufficiente al contenimento di ingiustificate amplificazioni risarcitorie; e d’altro lato che lo stesso criterio dell’adeguatezza non sia inteso come pregiudiziale assoluta nella valutazione. Ma verso la “adeguatezza” è ormai pronunciata una sentenza di condanna senza appello, come recentemente ricordato dal Barni (4). Ora la formazione del perito o consulente medico-legale in ordine ai principi della causalità deve insistere sul significato e valore peritale delle leggi di copertura di tipo statistico. L’esperienza quotidiana insegna che, non raramente, in ambito peritale non se ne è fatto un uso corretto, o meglio se ne è fatto un uso che rivela una non piena consapevolezza dei condizionamenti e delle distorsioni che il dato tecnico-statistico può portare nelle aule di giustizia: e ciò nella valutazione della colpa, prima ancora che del nesso causale. Così nel caso di infezione nosocomiale verso la quale sia motivata l’assenza di colpevoli errori del personale di assistenza e della struttura sanitaria, in ragione di incidenza statistica (ad esempio 0,5%) che proverebbe la possiNote: (1) F. Stella, Giustizia e Modernità, 2001, 294. (2) In una lite, caratterizzata da inteso carico emozionale e strattonamenti un grave coronaropatico venne a morte contestualmente. Una perizia medico-legale stabilì che l’azione posta in essere dall’imputato non costituiva causa del decesso ma semplice “occasione”. Il Giudice di I° grado pronunciò una sentenza di assoluzione ma il Giudice di Appello condannò l’imputato per omicidio preterintenzionale, ritenendo “bizzarra” ed estranea al diritto la teoria dell’occasione. La Suprema Corte confermò la condanna. (3) F. Stella, loc. cit sub. I, 193. (4) M. Barni, Recensione a “F. Stella, Il Giudice corpuscolariano: la cultura delle prove, 2005; in Riv. it. med. leg., XXXVIII, 2006, 249. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1057 OPINIONI•RESPONSABILITA’ MEDICA bilità della complicanza medesima anche nel rispetto di doverose regole di asepsi. Ma la corretta argomentazione medico-legale dovrebbe procedere oltre. Al giudice si dovrebbe correttamente rappresentare che le percentuali desunte dalla letteratura sono composte da commistione di casi determinati sia da fatalità sia da colpa medica; e che gli stessi dati della letteratura che vengono trasferiti nel contesto peritale derivano tuttavia da esperienze maturate, per solito, in altri nosocomi (anche d’oltreoceano): si riferiscono, cioè, ad una casistica generale e non esprimono certo l’incidenza di infezioni intra-operatorie di quella casa di cura chiamata in causa, che può non avere reso pubblici i suoi dati, i quali, a loro volta, potrebbero essere indicativi di più elevata incidenza di infezioni, proprio per “malpratica”. In altre parole, quanto a valore delle prove, altra cosa è la casistica generale ed altra è quella particolare. Tale parzialità di informazioni tecnico-peritali al giudicante, non meno raramente ricorre nella valutazione del nesso causale, soprattutto per colpa omissiva, dove le leggi di copertura di tipo statistico svolgono un ruolo importante, spesso decisivo. Al riguardo, nell’attuale momento storico la sentenza n. 30328/2002 delle Sezioni Unite Penali della Corte Suprema di Cassazione (commentata da molti autori) costituisce un importante riferimento, quanto a regole di giudizio, che devono valere anche per il perito o consulente medico-legale. La nota sentenza stabilisce alcuni punti fermi: Ove, in giudizio, si pretendesse una spiegazione causale “secondo criteri di utopistica certezza assoluta, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di bene primari”. “Non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 1, cioè alla certezza … Soprattutto in contesti come quello della medicina biologica e clinica cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore …”. “È in dubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità … impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. “Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (in vero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il Giudice ne accerti il valore ezio- 1058 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 logico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi la attendibilità in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile”. Non è consentito “dedurre automaticamente, e proporzionalmente, dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità”. Mentre “la probabilità statistica attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa alla successione degli eventi … la probabilità logica … contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale”. Si evince, pertanto dall’esame della sentenza in termini, che le leggi statistiche fornite dall’esperto medico-legale attengono più alla causalità generale; mentre la causalità individuale è valutata del giudice che è tenuto, a sua volta, a non assumere come prova particolaristica la stessa legge statistica ed anzi deve verificare di volta in volta la eventuale interferenza di fattori eziologici alternativi, cioè spiegazioni causali diverse che, se esistenti, possono portare ad escludere il nesso causale pur a fronte di elevati coefficienti di probabilità statistica. E, viceversa, se assenti possono portare il giudice a riconoscere il nesso causale pur in presenza di coefficienti medio-bassi, in un razionale convincimento che trasferisce dalla probabilità statistica (propria del perito e della causalità generale) alla probabilità logica, propria del giudice e della causalità individuale. Ma, al perito-consulente dotato di formazione medicolegale, non deve sfuggire, a questo punto, che il giudicante può avvalersi di ulteriori contributi tecnici anche riguardo all’eventuale interferenza di fattori causali alternativi. Al di sopra delle parti, ad avviso del sottoscritto, il perito deve completare il suo giudizio tecnico in ordine al nesso causale, distinguendo casi in cui l’esistenza di fattori eziologici alternativi è reale, concreta, da quelli in cui è solo teorica e collocabile negli oceanici possibilismi delle scienze biologiche: ad evitare quanto paventato proprio dalla sovra-richiamata sentenza della Suprema Corte, e cioè ad evitare che si debba rinunciare sempre all’accertamento della responsabilità medica, come già decenni or sono ricordato dal Cattaneo (5). È da ritenere sacrosanto, in altre parole, il principio dell’accertamento di responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio”: purché il dubbio, appunto, sia “ragionevole”. Così (unicamente per esemplificare e senza pretesa di precisione nella citazione di valori percentuali) in una persona colpita da rottura dell’aorta toracica ascendente possono dedursi, dalla letteratura, coefficienti di sopravNota: (5) G. Cattaneo, La Responsabilità del professionista, Milano, 1958, 325. OPINIONI•RESPONSABILITA’ MEDICA vivenza medio-alti per corretto trattamento cardio-chirurgico in urgenza: ma possono sussistere fattori eziologici alternativi (quali età avanzata, preesistenti patologie, tempistica del ricovero, carenza di strutture specialistiche nosocomiali, eccetera) tali da indurre il Giudice a ritenere non provato il nesso causale; e, viceversa, tali da ritenere lo stesso dimostrato per assenza dei fattori medesimi. Puntualizzazioni del consulente tecnico di Ufficio, a proposito di interferenza di fattori causali alternativi nel senso anzidetto, saranno anche maggiormente preziose ove si consideri che da più parti si auspica l’applicazione di una diversa unità di misura nel processo civile: non quella della probabilità elevata ma del “più probabile che no” (6). Applicazione che permetterebbe la soluzione anche di non pochi casi di danno per colpa medica in ambito oncologico che rischiano di rimanere privati di risarcimento pur a fronte di negligenze gravi e certe. Nota: (6) Così in F. Stella, loc. cit. sub.1, 382 - 383, che propone un intervento legislativo “che, sul terreno del processo civile, dia spazio alla regola della responsabilità proporzionale”. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1059 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA Danno per irragionevole durata del processo a cura di ALBERTO VENTURELLI 1. La c.d. Legge Pinto L’art. 2, primo comma, legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto, dal nome del senatore primo firmatario del disegno) sancisce il diritto ad «un’equa riparazione» per «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione» (1). Quest’ultimo provvedimento, ratificato con legge 4 agosto 1955, n. 848, riconosce il diritto di ogni persona «ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole» e prevede un’«equa soddisfazione» (art. 41) per il caso di violazione degli impegni assunti con la Convenzione, purché non esistano altri strumenti idonei al raggiungimento dello stesso scopo nella legislazione interna dello Stato (art. 35). Fino al 2001, in applicazione di tali disposizioni, la Corte Europea di Strasburgo aveva condannato più volte l’Italia per la lunghezza dei suoi processi (2) e il rimedio ex lege Pinto è stato introdotto proprio per attribuire la competenza in materia agli organi giurisdizionali interni (3). A cinque anni dalla sua entrata in vigore, però, non sembra che questo risultato possa dirsi davvero raggiunto: per quanto la Corte europea (4), nel settembre 2001, avesse dichiarato la generale irricevibilità dei ricorsi provenienti dall’Italia che non avessero previamente utilizzato il rimedio ex lege Pinto, ben presto lo stesso giudice europeo (5) ha riconosciuto la possibilità per il ricorrente italiano di ottenere a Strasburgo una pronuncia correttiva quando abbia subito un trattamento qualitativamente o quantitativamente inferiore a quello che gli sarebbe stato assicurato qualora avesse presentato domanda direttamente al giudice europeo. Quest’ultima decisione ha modificato radicalmente l’approccio giurisprudenziale al rimedio: mentre nei primi tre anni dalla sua entrata in vigore la giurisprudenza aveva elaborato soluzioni significativamente divergenti rispetto al modello di riferimento di Strasburgo, a partire dal gennaio 2004, cioè da quando anche le Sezioni Unite sono state chiamate ad intervenire in materia, i giudici si sono preocNote: (1) Cfr., fra i primi commentatori della legge, G. Ponzanelli, «Equa riparazione» per i processi troppo lenti, in questa Rivista, 2001, 569 ss.; C. Consolo, Disciplina “municipale” della violazione del termine di ragionevole durata del processo: strategie e profili critici, in Corr. giur., 2001, 569 ss.; R. Martino, Sul diritto all’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo (legge 24 marzo 2001, n. 89), in Riv. dir. proc., 2001, 1068 ss.; G. Tarzia, Sul procedimento di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, in Giur. it., 2001, 2430 ss.; L. Stilo, Genesi storica e politica della legge n. 89 del 24 marzo 2001, in Il nuovo dir., 2001, 555 ss.; A. Saccucci, Riparazione per irragionevole durata dei processi tra diritto interno e Convenzione europea, in Dir. pen. proc., 2001, 893 ss.; M. Bertuzzi, Violazione del principio della ragionevole durata del processo e diritto all’equa riparazione, in Giur. merito, 2001, 1153 ss.; A. Didone, L’equa riparazione per irragionevole durata del processo, in Quest. giust., 2001, 513 ss.; S. Corongiu, L’equa riparazione dei danni derivati dalla durata irragionevole del processo: prime riflessioni, in Studium iuris, 2001, 1007 ss.; M. Scalabrino, L’irragionevole durata dei processi italiani e la legge 24 marzo 2001, n. 89: un «commodus discessus», in Riv. int. dir. uomo, 2001, 397 ss.; G. Arnoaldi Veli, La legge Pinto sull’equa riparazione dei danni per la non ragionevole durata del processo: problemi applicativi e interpretativi, in Rass. forense, 2002, 21 ss.; D. Amadei, Note critiche sul procedimento per l’equa riparazione dei danni da durata irragionevole del processo, in Giust. civ., 2002, II, 29 ss.; G. Cricenti, Massime non consolidate sulla responsabilità da irragionevole durata del processo, in questa Rivista, 2002, 694 ss. (2) Cfr. G. Gaja, Valanghe di condanne per la durata dei processi: quali rimedi?, in Riv. dir. int., 1994, 328 ss.; L.P. Comoglio, Diritti fondamentali e garanzie processuali comuni nella prospettiva dell’Unione Europea, in Foro it., 1994, V, 153 ss.; V. Starace, Durata ragionevole del processo e impegni internazionali dell’Italia, ivi, 1995, IV, 264 ss. (3) Cfr. E. Dalmotto, Diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, in Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi. Commento alla legge 24 marzo 2001, n. 89, a cura di S. Chiarloni, Torino, 2002, 68 ss.; G. Romano, D.A. Parrotta ed E. Lizza, Il diritto ad un giusto processo tra Corte internazionale e Corti nazionali. L’equa riparazione dopo la legge Pinto, Milano, 2002, 1 ss.; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Milano, 2002, 19 ss.; Id., La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 193 ss.; F. Petrolati, I tempi del processo e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d. «legge Pinto»), Milano, 2005, 6 ss. (4) Cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 6 settembre 2001, in Guida al dir., n. 38/2001, 13 ss., con note di I. Tricomi, Cala il sipario sui risarcimenti a Strasburgo: per la lunghezza dei processi si decide in Italia; e di M. Scalabrino, Con la competenza diretta delle Corti d’Appello il cittadino perde un’opportunità contro lo Stato; e di E. Sacchettini, Non si può giustificare con la carenza di strutture il ritardo nell’amministrazione della giustizia; e in Dir. & Giust., n. 36/2001, 46 ss. La decisione è ampiamente commentata anche da G. Russo, La legge Pinto: effettività ed efficacia del rimedio, in Arch. civ., 2002, 19 ss.; I. Tamietti, La legge Pinto riceve un primo avallo da parte della Corte Europea: il rimedio da essa introdotto è accessibile ed efficace, in Cass. pen., 2002, 803 ss. (5) Cfr. Corte europea diritti uomo 27 marzo 2003, in Foro it., 2003, IV, 361 ss.; e in Guida al dir., n. 27/2003, 104 ss., con nota di G. Buonomo, La ristrettezza dei parametri risarcitori può compromettere l’operatività della legge Pinto. La decisione è ampiamente commentata anche da V. Esposito, Il non ragionevole contrasto del giudice italiano con quello di Strasburgo sulla ragionevole durata del processo, in Corr. giur., 2004, 363 ss.; O. Porchia, La ragionevole liquidazione del danno per irragionevole durata dei procedimenti tra conformità alla giurisprudenza europea e margine di autonomia del giudice interno, in Contr. impr. Europa, 2004, 538 ss.; L. Marigo, La Cassazione italiana ad una svolta dopo il caso Scordino?, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 221 ss.; E. Falletti, Si ricompone il contrasto tra la Corte di Strasburgo e la giurisprudenza italiana sull’effettività del rimedio interno previsto dalla legge Pinto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 209 ss. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1061 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA cupati di garantire un trattamento sempre più modellato sulle statuizioni europee, fino ad ammettere soluzioni contrastanti con la stessa formulazione letterale della legge 24 marzo 2001, n. 89 (6). Ciò appare particolarmente evidente riguardo alla prova e alle caratteristiche del danno non patrimoniale; si registra, invece, una sostanziale continuità di vedute in ordine all’individuazione dei criteri di accertamento dell’irragionevole durata del processo e all’identificazione dei limiti di risarcibilità del danno patrimoniale. Descrivere i più recenti orientamenti giurisprudenziali in ordine all’applicazione del rimedio ex lege Pinto, come si cercherà di fare in questo “itinerario”, sembra dunque un compito di cui occorre farsi carico se si vuole provare a verificare se il trattamento da essi determinato sia effettivamente omogeneo rispetto a quello che potrebbe essere assicurato dal ricorso alla Corte di Strasburgo. 2. L’«irragionevole» durata del procedimento Per l’art. 2, secondo comma, legge 24 marzo 2001, n. 89, la durata irragionevole del procedimento deve essere accertata valutando «la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché di quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione». Mentre non si registrano significative divergenze rispetto al modello di riferimento europeo in ordine all’interpretazione dei primi due parametri (7), più problematico sembra l’accertamento della nozione di «procedimento» sulla quale valutare la condotta del giudice e delle altre autorità. In termini generali, esso dovrebbe identificarsi solo con la controversia instaurata avanti ad un’autorità giudiziaria e conclusa con un provvedimento di carattere definitivo. Ciò sembrerebbe confermato dalla formulazione letterale dell’art. 4 legge 24 marzo 2001, n. 89, che legittima la proposizione del ricorso «durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata», ovvero «entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il medesimo procedimento è divenuta definitiva», con ciò lasciando intendere che eventuali fasi del procedimento successive all’emanazione della sentenza non potrebbero essere valutate ai fini dell’accertamento del carattere irragionevole della durata (8). Dal momento che la causa si instaura solo a partire dalla data di presentazione della domanda, i termini per la delimitazione cronologica del procedimento sembrerebbero identificarsi, rispettivamente, con le date della notificazione della citazione (o del deposito del ricorso) e della pubblicazione della sentenza che chiude il grado di giudizio (9), ferma restando la possibilità di ritenere compreso nella durata anche l’eventuale procedimento di correzione ex art. 287 c.p.c. (10) e l’incidente di costituzionalità (11). Occorre, però, considerare che l’utente del servizio giudiziario ha interesse non solo alla celere definizione del processo, ma anche e soprattutto all’ottenimento di una tutela di carattere sostanziale, cioè all’effettiva concretizzazione della decisione a lui favorevole. 1062 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 In questa prospettiva, una limitazione del diritto all’equa riNote: (6) Cfr. C. Asprella, Equa riparazione del danno per irragionevole durata del processo, in Giur. merito, 2005, 1861 s.; R. Giordano, Procedure fallimentari e legge c.d. Pinto: contrasti nella determinazione degli indennizzi per l’irragionevole durata del processo, in Corr. merito, 2005, 763 s. (7) Cfr. I. Iai, La durata ragionevole del procedimento nella giurisprudenza della Corte Europea sino al 31 ottobre 1998, in Riv. dir. proc., 1999, 549 ss.; A. Cittarello, La durata ragionevole del processo: criteri di valutazione della «ragionevolezza» elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed ordinamento italiano, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 145 ss. In giurisprudenza cfr. App. Brescia 29 giugno 2001, in questa Rivista, 2001, 959 ss., con nota di G. Ponzanelli, Prime applicazioni della legge Pinto; e in Guida al dir., n. 38/2001, 21 ss.; e in Il nuovo dir., 2001, 927 ss., con nota di L. Stilo, Legge Pinto e ricorso a Strasburgo: due strumenti solo in apparenza reciprocamente sostituibili; e in Foro it., 2002, I, 236 ss., con nota di M.G. Civinini, Prime applicazioni della c.d. legge Pinto sul diritto alla ragionevole durata del processo; App. Roma 10 luglio 2001, in questa Rivista, 2001, 957, con nota di G. Ponzanelli, op. ult. cit.; e in Resp. civ. prev., 2001, 987 ss.; e in Corr. giur., 2001, 1183 ss., con nota di S. Corongiu, Prime dialettiche pronunce risarcitorie di applicazione della Legge Pinto: nascita di un faticoso “tariffario”; App. Catanzaro 30 luglio 2001, in Foro it., 2002, I, 249 ss., con nota di M.G. Civinini, op. cit.; App. Brescia 30 agosto 2001, in Guida al dir., n. 43/2001, 58; App. Brescia 18 luglio 2002, ivi, n. 41/2002, 48; App. Genova 29 novembre 2001, in Giur. it., 2003, 275 ss., con nota di F. Longo, L’art. 2 della Legge Pinto: indennizzo o risarcimento?; e in Giur. merito, 2003, 18 ss., con nota di F. Longo, Violazione della durata ragionevole del processo: natura della riparazione e danno risarcibile; Cass. 23 luglio 2003, n. 11424, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 291 ss., con nota di P. Comoglio, Sulla competenza per territorio e sui criteri di valutazione dell’eccessiva durata del giudizio: due recenti pronunce della Corte di Cassazione in tema di equa riparazione; Cass. 21 febbraio 2006, n. 3783, in Foro it. Mass., 2006, 512; Cass. 11 maggio 2006, n. 10894, ivi, 887. (8) Lo rileva con chiarezza, da ultimo, Cass. 2 marzo 2005, n. 4451, in Foro it., Rep. 2005, voce Diritti politici e civili, n. 227, secondo la quale «il danno patrimoniale indennizzabile è esclusivamente quello arrecato dal prolungarsi della causa oltre il termine ragionevole, non anche il danno subito dalla parte vittoriosa a cagione del perdurare del fatto lesivo della parte soccombente, che non è casualmente ricollegabile alla durata del processo e rinviene piena tutela nel rapporto tra dette parti, mediante domanda che può essere fatta valere nello stesso processo o in separata sede». (9) Cfr. Cass. 20 gennaio 2006, n. 1184, in Foro it. Mass., 2006, 487; Cass. 30 maggio 2006, n. 12858, inedita, secondo la quale il concetto di «decisione definitiva» di cui all’art. 4 legge 24 marzo 2001, n. 89 «non può essere inteso come equivalente a quello di sentenza passata in giudicato, che identifica soltanto una species del genus della “definitività”, ma abbraccia, al contrario, qualsiasi provvedimento giurisdizionale, ancorché a contenuto meramente processuale, che si presenti comunque idoneo - ex se, ovvero a seguito dell’inutile decorso dei termini per l’espletamento dei rimedi prefigurati dall’ordinamento al fine di rimuoverlo - a porre formalmente termine al processo, così da impedire che quest’ultimo possa considerarsi ancora pendente». Controversa appare invece la possibilità di includere nella determinazione della lunghezza irragionevole anche il decorso del termine lungo per impugnare previsto dall’art. 327 c.p.c. Favorevole a tale inclusione si mostra Cass. 18 marzo 2005, n. 5991, in Giust. civ., 2006, I, 167 ss., con nota di F. Morozzo della Rocca, L’art. 327 c.p.c. e la ragionevole durata del processo: una singolare applicazione dell’art. 2 l. n. 89 del 2001, la quale nega rilievo a tale termine solo quando sia possibile accertare un «intento dilatorio» o una «negligente inerzia» nella parte che lo ha lasciato trascorrere. Decisamente contraria, tuttavia, Cass. 9 luglio 2005, n. 14477, ivi, 557 ss., con nota di F. Morozzo della Rocca, Sulla detraibilità del termine lungo per impugnare dalla (non) ragionevole durata del processo. (10) Cfr. Cass. 10 gennaio 2005, n. 297, in Giur. it., 2005, 1883 ss., con nota di G. Scotti, In tema di indennizzabilità del danno derivante dalla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. (11) Cfr. Cass. 17 gennaio 2006, n. 789, in Foro it. Mass., 2006, 58. ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA parazione ai soli procedimenti cognitivi non potrebbe assicurare un’effettiva tutela delle posizioni del cittadino e, proprio per questo, un costante orientamento della Corte di Strasburgo (12) ha esteso il diritto alla ragionevole durata del processo alla fase esecutiva. La giurisprudenza italiana si è uniformata a questa soluzione, riconoscendo l’applicazione del rimedio ex lege Pinto alle procedure esecutive e di sfratto (13), nonostante non si concludano con un provvedimento avente carattere decisorio, nonché alle indagini preliminari del processo penale, ancorché non sfocianti in una vera e propria fase dibattimentale (14). Si è isolatamente ammesso che anche l’attività delle autorità amministrative può essere valutata ai fini dell’accertamento del carattere irragionevole della durata del processo quando il ricorso ad esse si rivela indispensabile per l’instaurazione o la prosecuzione delle cause avanti all’autorità giudiziaria (15): in particolare, si è così stabilito che l’inefficienza delle Conservatorie dei Registri immobiliari può assumere importanza ai fini della determinazione del carattere irragionevole della lunghezza del procedimento (16). Muovendosi in questa direzione, la sentenza del Giudice di pace di Napoli 18 gennaio 2006 (17) ha riconosciuto a favore di un avvocato partenopeo un risarcimento di 500 Euro per il «danno esistenziale conseguente allo stress» derivato dalla lunghezza irragionevole dei tempi necessari per ottenere il rilascio di copie di una sentenza, quantificabili in un anno o 6 mesi, a seconda che venissero corrisposti i diritti di urgenza. La motivazione della sentenza si limita ad osservare che l’inefficienza della Cancelleria è così nota a tutti da non richiedere una particolare dimostrazione e che, in ogni caso, «negare il diritto dell’attore all’ottenimento del risarcimento del danno da stress vanificherebbe, parzialmente, gli sforzi del legislatore che con la legge n. 89/2001 ha inteso garantire il diritto dei cittadini alla ragionevole durata dei processi». Il giudice, però, non si preoccupa di valutare se l’inefficienza degli uffici di Cancelleria ha inciso sulla durata del processo, determinando un allungamento dei tempi necessari per la sua instaurazione o la sua prosecuzione. Per questo, la conclusione suscita perplessità, specie considerando che il processo risultava già concluso all’atto della richiesta della copia della sentenza e, comunque, l’ordinamento prevede strumenti alternativi (come il termine annuale per la formazione del giudicato) che non rendono indispensabile l’ottenimento in tempi rapidi della copia. L’unico modo per attribuire al decisum un qualche significato è, quindi, quello di ipotizzare che esso intendesse tutelaNote: (12) Cfr. ex plurimis Corte europea diritti dell’uomo 28 settembre 1995, in Foro it., 1996, IV, 113 ss., con nota di D. Piombo; e in Giust. civ., 1996, I, 3 ss., con nota di N. Izzo, L’esecuzione degli sfratti e la violazione dei Diritti dell’uomo; Corte Europea diritti dell’uomo 28 luglio 1999, in Corr. giur., 1999, 1347. (13) Cfr. Cass. 26 luglio 2002, n. 11046, in questa Rivista, 2002, 1114 ss., con nota di G. Ponzanelli, L’«equa riparazione» del danno secondo la legge Pinto: l’intervento della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano sulla vicenda Saevecke; e in Guida al dir., n. 33/2002, 54 ss.; e in Giust. civ., 2003, I, 695 ss., con nota di F. Morozzo Della Rocca, L’equa riparazione per irragionevole durata del processo nelle prime decisioni della Cassazione; Cass. 20 settembre 2002, n. 13768, in Giust. civ., 2002, I, 3063 ss.; e in Arch. civ., 2003, 990 ss.; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14885, in Foro it., 2003, I, 837 ss., con nota di P. Gallo, Il danno da irragionevole durata del processo tra diritto interno e giurisprudenza europea; Cass. 5 dicembre 2002, n. 17261, in Gius, 2003, 695 ss.; e in Arch. civ., 2003, 1102 ss.; Cass. 3 settembre 2003, n. 12807, ivi, 2004, 974 ss.; e in Gius, 2004, 641 ss.; Cass. 1 aprile 2004, n. 6359, in Guida al dir., n. 20/2004, 68; Cass. 6 aprile 2004, n. 6775, ivi, 69 ss. Contra, limitatamente ai procedimenti di sfratto, App. Perugia 16 luglio 2001, in Arch. loc., 2002, 53 ss. In dottrina, cfr. E. Dalmotto, op. cit., 136 ss.; G. Tarzia, Il giusto processo di esecuzione, in Riv. dir. proc., 2002, 349 s.; A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte Europea dei diritti dell’uomo, cit., 207 ss.; G. La Rocca, Equa riparazione per durata irragionevole dei processi, diritto del condominio e dei singoli condomini al risarcimento del danno, in Arch. loc., 2005, 257 ss. (14) Cfr. Cass. 30 gennaio 2003, n. 1405, in Foro it., Rep. 2003, voce Diritti civili e politici, n. 151; Cass. 15 settembre 2005, n. 18266, in Resp. e risarcimento, n. 9/2005, 52 ss., con nota di Della Monica, sintetizzata anche da P. D’Ascola, in La resp. civ., 2005, 867, secondo le quali «la nozione di causa, o di processo […] cui ha riguardo l’art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 2001, n. 89, si identifica con qualsiasi procedimento si svolga dinanzi agli organi pubblici di giustizia per l’affermazione o la negazione di una posizione giuridica di diritto o di soggezione facente capo a chi il processo promuova o subisca. Fa parte del processo pertanto anche la fase delle indagini che precedono il vero e proprio esercizio dell’azione penale, le quali perciò, ove irragionevolmente si siano protratte nel tempo, ben possono assumere rilievo ai fini dell’equa riparazione». Similmente, per la giurisprudenza europea, Corte europea diritti dell’uomo 29 luglio 2003, in Giur. it., 2004, 487 ss., con nota di A. Didone, Il nuovo processo societario di cognizione e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Il medesimo principio, però, non vale per i ricorsi amministrativi che costituiscono condizioni di procedibilità per l’inizio della controversia giudiziaria. Secondo Cass. 7 febbraio 2006, n. 2619, in Foro it. Mass., 2006, 501, infatti, «nel computo della durata del processo non va considerato il termine predeterminato dalla legge, al cui decorso il silenzio serbato dalla p.a., a fronte di un’istanza del privato, è equiparato ad un provvedimento di rigetto dell’istanza medesima, avverso il quale all’interessato è dato ricorrere al giudice». Il principio è riaffermato da Cass. 21 febbraio 2006, n. 3782, ivi, 714; Cass. 29 marzo 2006, n. 7118, ivi, 733; Cass. 28 aprile 2006, n. 9853, ivi, 829. (15) Lo stesso, però, non avviene per le controversie di natura tributaria che continuano ad essere escluse dal campo di operatività della legge Pinto: cfr., da ultime, Cass. 27 agosto 2004, n. 17139, in Fisco, 2004, 6404 s.; Cass. 17 settembre 2004, n. 18739, in Guida al dir., n. 39/2004, 56 ss.; entrambe le sentenze sono altresì pubblicate in Dir. & Giust., n. 36/2004, 26 ss., con nota di Triassi e massimate in Resp. civ. prev., 2005, 118 ss., con nota di M. Poto, La legge Pinto e le «zone franche»: quando la ragionevolezza cede il passo alla potestà pubblica. (16) Cfr. Cass. 4 aprile 2003, n. 5265, in Giust. civ., 2003, I, 892 ss. In senso contrario, però, App. Milano 29 giugno 2001, in questa Rivista, 2001, 963 ss., con nota di G. Ponzanelli, Prime applicazioni della legge Pinto, cit.; e in Corr. giur., 2001, 1190 ss., con nota di S. Corongiu, Prime dialettiche pronunce risarcitorie di applicazione della Legge Pinto: nascita di un faticoso “tariffario”, cit.; e in Guida al dir., n. 29/2001, 30; e in Giur. it., 2002, 2084 ss., con nota di A. Ronco, Due profili della legge 24 marzo 2001, n. 89: la somma algebrica tra lentezza e rapidità di fasi distinte dello stesso processo e l’indennizzabilità dei ritardi degli organi non appartenenti all’amministrazione della giustizia, la quale ha negato il risarcimento per il ritardo nell’iscrizione di un’ipoteca giudiziale connesso all’inefficienza dell’ufficio delle Conservatorie, osservando che essi non rientrano «tra le “autorità” considerate dalla legge, non essendo un organo amministrativo chiamato a “concorrere o contribuire”, né istituzionalmente, né nel caso specifico, alla definizione del procedimento d’esecuzione». (17) Inedita. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1063 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA re il diritto non alla ragionevole durata del processo, ma, piuttosto, all’efficiente amministrazione della giustizia, attraverso un procedimento analogico, in forza del quale, muovendo dalla legge n. 89/2001, è stato riconosciuto il diritto alla riparazione per l’inefficienza di ogni attività amministrativa che, pur non assumendo rilievo ai fini della determinazione della durata del processo, possa essere comunque considerata giudizialmente rilevante. Un siffatto esito interpretativo, però, avrebbe meritato una più approfondita valutazione, specie in ordine alla legittimazione attiva dell’avvocato: particolarmente discutibile, infatti, è il richiamo al carattere «esistenziale» del danno da questi lamentato, dal momento che tale nozione viene utilizzata da parte della dottrina (18) e della giurisprudenza (19) per identificare il pregiudizio, diverso dal danno morale soggettivo, «che la parte ha subito per la diminuzione della qualità della sua vita dovuta alle incertezze e ai patemi d’animo che è stata costretta irragionevolmente a sopportare prima che il suo torto o la sua ragione venisse definitivamente accertato» (20). Anche ammettendo la validità teorico-concettuale di siffatta voce di danno (21), essa sembrerebbe difficilmente adattabile alla fattispecie, perché ricollega lo stress alla durata irragionevole della controversia e, proprio per questo, presuppone l’esistenza di un interesse della parte danneggiata alla sua celere definizione, sicché tutt’al più dovrebbe essere il cliente, in quanto interessato ad una rapida concretizzazione della pronuncia a lui favorevole, a lamentarsi dell’inefficienza della Cancelleria. 3. Il danno patrimoniale Anche con riferimento alla tipologia del danno patrimoniale si registra una sostanziale continuità tra la giurisprudenza italiana e quella europea, le quali ammettono il risarcimento solo in presenza di un pregiudizio causalmente riconducibile alla durata della controversia e non identificabile con la causa petendi della controversia stessa (22). La giurisprudenza ha mostrato particolare rigidità in merito al problema della risarcibilità delle spese processuali delle cause iniziate, prima dell’entrata in vigore della legge Pinto, davanti alla Corte di Strasburgo. Note: (18) Cfr. S. Chiarloni, Danno esistenziale e attività giudiziaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 759 ss.; P. Ziviz, I «nuovi danni» verso la Cassazione, in Resp. civ. prev., 2001, 1207; Id., Legge Pinto e danno esistenziale, in Resp. civ. prev., 2003, 87 ss.; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, cit., 59; Id., Il danno “esistenziale” da irragionevole durata del processo tra Cassazione e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Corr. giur., 2003, 333 ss.; E. Dalmotto, op. cit., 87 ss.; G. Colonna, La liquidazione del danno nella legge Pinto, in Giur. it., 2003, 200 s.; F. Longo, L’art. 2 della legge Pinto: indennizzo o risarcimento?, cit., 277. (19) Cfr. App. L’Aquila 23 luglio 2001, in Giur. merito, 2001, 974; e in Corr. giur., 2001, 1185 ss., con nota di S. Corongiu, op. ult. cit.; e in Giust. civ., 2001, I, 2781 ss.; App. Firenze 25 gennaio 2002, ivi, 2002, I, 2284 ss.; Cass. 5 novembre 2002, n. 15449, in questa Rivista, 2003, 266 ss., con nota di G. Ponzanelli, Prova del danno non patrimoniale ed irrilevanza del danno esistenziale; e in Dir. & Giust., n. 41/2002, 22; e in Guida al dir., n. 45/2002, 56; e in Il Fisco, 2003, 96; e in Resp. civ. prev., 2003, 81 ss., con 1064 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 nota di P. Ziviz, Legge Pinto e danno esistenziale, cit.; e in Giur. it., 2003, 21 ss., con nota di A. Didone, Danno da irragionevole durata di processo penale per reato prescritto; Cass. 14 gennaio 2003, n. 362, in questa Rivista, 2003, 601 ss., con nota di A. Venturelli, La Cassazione di nuovo sulla legge Pinto: un’occasione perduta; e in Corr. giur., 2003, 331 ss., con nota di A. Didone, Il danno “esistenziale” da irragionevole durata del processo tra Cassazione e Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., la quale, però, non utilizza mai questa espressione, pur ammettendo il risarcimento del danno «derivante dalla situazione soggettiva di disagio»; App. L’Aquila 28 ottobre 2003, massimata in Giur. merito, 2004, 60. (20) Così A. Didone, op. ult. cit., 335. Una definizione simile, ancorché con riferimento al danno da demansionamento professionale, è stata fornita, recentemente, da Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572, in questa Rivista, 2006, 852 ss., con nota di F. Malzani, Il danno da demansionamento professionale e le Sezioni Unite; e in Dir. & Giust., n. 17/2006, 12 ss., con note di M. Cimaglia e G. Meucci; e in Corr. giur., 2006, 787 ss., con nota di P.G. Monateri, Sezioni Unite: le nuove regole in tema di danno esistenziale e il futuro della responsabilità civile; e in Resp. civ. prev., 2006, 1041 ss., con note di M. Bertoncini, Demansionamento ed onere della prova dei danni conseguenti; e di F. Bilotta, Attraverso il danno esistenziale, oltre il danno esistenziale; e in corso di pubblicazione in Foro it., 2006, I, con nota di G. Ponzanelli, La prova del danno non patrimoniale e i confini tra danno esistenziale e danno non patrimoniale, secondo la quale «per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». (21) Giova infatti ricordare che la figura del danno esistenziale è stata elaborata per superare la rigida delimitazione posta dall’art. 2059 c.c., che, se interpretato letteralmente, impedirebbe di reputare risarcibili i danni connessi alla diminuzione della qualità della vita, quando non accompagnati dalla commissione di un reato, mentre risulta del tutto inutile in un sistema (come quello in esame) che già ammette illimitatamente il risarcimento di tutti i pregiudizi a-reddituali connessi allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Di ciò sembra essersi accorta anche la giurisprudenza più recente: cfr. Cass. 4 ottobre 2005, n. 19354, in Dir. & Giust., n. 46/2005, 21 ss., con nota di G. Di Marzio; e in Fam. dir., 2006, 167 ss., con nota di A. Negro, L’eccessiva durata del procedimento di divorzio: quale danno?, la quale riconosce espressamente che, nel sistema ex lege Pinto, «il pregiudizio esistenziale costituisce una voce del danno non patrimoniale, non un autonomo titolo di danno»; nonché, da ultime, Trib. Venezia 11 luglio 2005,in questa Rivista, 2006, 1005 ss., con nota di G. Pedrazzi, Il “nuovo” danno biologico allo specchio del “vecchio” danno esistenziale; Cass. 12 giugno 2006, n. 13546, ivi 843 ss., con nota di G. Ponzanelli, Il danno esistenziale e la Corte di Cassazione, che riconduce il danno esistenziale alla categoria del danno non patrimoniale. In dottrina cfr. G. Ponzanelli, Una voce contraria alla risarcibilità del danno esistenziale, in questa Rivista, 2002, 341; Id., Prova del danno non patrimoniale ed irrilevanza del danno esistenziale, cit., 272; Id., La «forza» del sistema bipolare, in Critica del danno esistenziale, a cura di G. Ponzanelli, Padova, 2003, 13; G. Pedrazzi, Il danno esistenziale, in La responsabilità civile. Tredici variazioni sul tema, a cura di G. Ponzanelli, Padova, 2002, 58 s.; Id., La nuova stagione del danno non patrimoniale oltre le duplicazioni risarcitorie, in questa Rivista, 2002, 998 s.; Id., «Lifting the veil»: il disvelamento del danno esistenziale, in Critica del danno esistenziale, cit., 58 s.; C. Comai, Processo legislativo e giurisprudenza europea, ivi, 108 s.; V. Barela, Il diritto ad un giusto processo: responsabilità e profili riparatori, in Nuova giur. civ. comm., 2003, II, 153 s. (22) Cfr. App. Potenza 15 ottobre 2001, in Foro it., 2002, I, 232 ss., con nota di M.G. Civinini, op. cit.; e in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 416 ss., con nota di D. Amadei, Ambiguità e prospettive nell’applicazione della legge 24 marzo 2001, n. 89 sull’equa riparazione per la durata irragionevole del processo; Cass. 9 gennaio 2004, n. 119, in Foro it., Rep. 2004, voce Diritti politici e civili, n. 3; nonché, da ultimo, Cass. 26 aprile 2005, n. 8603, ivi, 2005, voce Diritti politici e civili, n. 155, secondo la quale «nel novero del danno patrimoniale da violazione del termine di durata ragionevole del processo non rientrano le poste che costituiscono oggetto del giudizio, pendente o concluso, protrattosi eccessivamente. Infatti il danno patrimoniale può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che vi si riconnetta sulla base di una normale sequenza causale, restando a carico della parte che agisce per il suo riconoscimento l’onere di dimostrare rigorosamente il pregiudizio (patrimoniale) lamentato». ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA A tale proposito, giova ricordare che l’art. 6 legge 24 marzo 2001, n. 89 consente a coloro che, prima dell’entrata in vigore della legge stessa, abbiano presentato domanda di riparazione alla Corte europea di sospendere il relativo giudizio, riassumendolo davanti al giudice italiano, «qualora non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità da parte della predetta Corte europea». Dal momento che l’accoglimento del ricorso presentato al giudice di Strasburgo comportava la condanna dello Stato italiano al pagamento delle relative spese processuali, si è posto il problema di verificare se esse potessero essere considerate danno patrimoniale risarcibile ex lege Pinto. Sul punto, è intervenuta, da ultima, Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28508 (23), la quale, conformandosi al costante orientamento giurisprudenziale (24), ritiene che «in mancanza di un’espressa previsione di diritto intertemporale che disciplini le spese di un ricorso divenuto irricevibile per effetto della sopravvenuta introduzione di un mezzo di tutela dinanzi al giudice nazionale, l’esigenza di assicurare un’effettiva protezione alla parte pregiudicata da un processo di eccessiva durata non costituisce ragione sufficiente per estendere l’equo indennizzo dei danni patrimoniali sino a comprendere in tale categoria anche gli esborsi sostenuti per il ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo». La soluzione è motivata dal fatto che il danno patrimoniale ex lege Pinto è solo quello causalmente connesso all’irragionevole durata del processo e non può comprendere altri pregiudizi determinati dall’attivazione dei mezzi di tutela riconosciuti dall’ordinamento. La conclusione non sarebbe smentita neppure considerando che la tutela giurisdizionale assicurata in Italia deve essere identica a quella riconosciuta a Strasburgo: tale principio, infatti, opererebbe solo con riferimento all’indennizzo ottenibile per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo e non potrebbe essere invocato allorché, come nel caso di specie, le spese da rimborsare trovino la loro unica causa nel concorso di rimedi giurisdizionali invocati dal ricorrente e, segnatamente, nella sua decisione di procedere, una volta presentata domanda avanti al giudice europeo, all’attivazione del rimedio interno. Le ragioni che hanno determinato la scelta del ricorrente inducono, però, ad avanzare alcune perplessità in ordine all’esattezza della soluzione giurisprudenziale. Le Sezioni Unite, infatti, non considerano con la dovuta attenzione che la parte è stata indotta ad abbandonare la causa già instaurata a Strasburgo dal timore che, in virtù della sopravvenuta entrata in vigore della legge Pinto, il ricorso fosse dichiarato inammissibile perché presentato senza aver esaurito le vie di tutela riconosciute dall’ordinamento interno: siffatto timore era, del resto, ampiamente giustificato dalla stessa evoluzione giurisprudenziale europea (25), che, secondo quanto già osservato, contravvenendo al principio generale secondo cui tempus regit actum, ha affermato che i ricorsi provenienti dall’Italia possono essere dichiarati ricevibili solo se sia stata presentata domanda ex lege Pinto, a nulla rilevando che il procedimento da- vanti al giudice europeo sia stato instaurato prima dell’entrata in vigore della normativa nazionale. Il diritto concesso al ricorrente dal citato art. 6 ha così assunto i contorni di un vero e proprio onere, il cui adempimento rappresenta condizione necessaria per assicurarsi una tutela effettiva (26). In questa prospettiva, l’indennizzo delle spese processuali determinate dal procedimento europeo potrebbe essere ottenuto richiamando soltanto il principio della soccombenza che, nell’ordinamento interno, individua il soggetto obbligato all’esborso in colui che, dal punto di vista sostanziale, ha perso la causa, prescindendo dall’accertamento dell’illiceità della sua condotta. Non occorrerebbe, in altri termini, identificare tale pregiudizio con il danno patrimoniale connesso all’irragionevole durata del processo, ma sembrerebbe sufficiente riconsiderare le spese processuali in un’ottica unitaria, comprensiva anche di quelle sostenute nella prima fase della procedura e non liquidate dal giudice europeo in virtù della sopravvenuta entrata in vigore della disciplina interna. Le Sezioni Unite rifiutano tale soluzione sottolineando la differente natura dei due procedimenti, per i quali valgono diverse norme, tanto che solo davanti alle Corti d’appello italiane l’assistenza legale è obbligatoria, mentre il ricorso presentato a Strasburgo può anche essere redatto personalmente dalla parte e spedito per posta. L’osservazione, senza dubbio esatta, sembrerebbe, però, idonea solo ad escludere, ai fini della determinazione del rimborso, tutte quelle spese solitamente sostenute avanti ad un giudice italiano, ma assenti nella fattispecie esaminata: la differente natura dei procedimenti confermerebbe soltanto che il rimborso in esame comprende voci diverse da quelle ordinariamente valutate da un giudice italiano (27). Note: (23) In questa Rivista, 2006, 747 ss., con nota di A. Venturelli, Le Sezioni Unite e l’equa riparazione per la lunghezza dei processi. (24) Cfr. Cass. 20 dicembre 2002, n. 18139, in Arch. civ., 2003, 1372; Cass. 3 gennaio 2003, n. 4, ivi, 1260; e in Giur. Boll. legisl. tecnica, 2003, 479; Cass. 17 aprile 2003, n. 6163, in Guida al dir., n. 26/2003, 51; e in Gius, 2003, 1970; e in Arch. civ., 2004, 286; Cass. 9 gennaio 2004, n. 123, in Guida al dir., n. 8/2004, 55; e in Arch. civ., 2004, 1348; e in Gius, 2004, 2362; Cass. 5 marzo 2004, n. 4508, in Giur. it., Rep. 2004, voce Danni in materia civile e penale, n. 24; Cass. 5 marzo 2004, n. 4512, ivi, n. 25; Cass. 11 giugno 2004, n. 11086, in Guida al dir., n. 29/2004, 66; Cass. 9 luglio 2004, n. 12664, ivi, n. 39/2004, 65; Cass. 5 agosto 2004, n. 15106, in Arch. loc., 2005, 42; Cass. 21 gennaio 2005, n. 1334, in Guida al dir., n. 7/2005, 49. (25) Cfr. Corte europea diritti dell’uomo 6 settembre 2001, cit. (26) Cfr. C. Consolo, op. cit., 570; R. Martino, op. cit., 1090, testo e note 58 e 59; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, cit., 64 s.; D. Amadei, Note critiche sul procedimento per l’equa riparazione dei danni da durata irragionevole del processo, cit., 42; G. Romano, D.A. Parrotta ed E. Lizza, op. cit., 20 s.; P.L. Nela, L’art. 6 della legge Pinto: una norma provvisoria preposta al definitivo coordinamento fra tutela sopranazionale e tutela nazionale, in Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, cit., 384 s.; M. Giorgetti, L’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, Bergamo, 2003, 63 ss.; F. Petrolati, op. cit., 176. (27) Sottolineano la criticabile diversità delle spese processuali tra i due procedimenti R. Martino, op. cit., 1083; D. Amadei, op. ult. cit., 35 s. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1065 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA Quanto, invece, alla diversità di organi giurisdizionali, la separazione strutturale prospettata dal Supremo Collegio mal si concilia con le caratteristiche del giudizio ex art. 6, nel quale la tempestiva attivazione del procedimento innanzi al giudice europeo costituisce una condizione di procedibilità, un presupposto processuale necessario per la corretta instaurazione della causa interna (28). A tale proposito, le Sezioni Unite si limitano a sottolineare che «la domanda di indennizzo proposta dinanzi al giudice nazionale non è strutturata come una prosecuzione di quella pendente dinanzi alla Corte di Strasburgo, ma costituisce l’atto iniziale di un giudizio il cui esaurimento costituisce condizione di ricevibilità della domanda che potrà essere proposta alla Corte di Strasburgo nel caso in cui la parte non abbia ricevuto un indennizzo adeguato» (29). In realtà, il ricorso già presentato alla Corte europea svolge un ruolo del tutto prioritario perché la validità dell’atto iniziale del procedimento instaurato in Italia è subordinata proprio all’indicazione della data di presentazione di tale ricorso, la quale incide anche sui relativi termini di proposizione (30). La soluzione prospettata dalle Sezioni Unite, inoltre, determina un trattamento ingiustamente diverso rispetto a quello assicurato a tutti gli altri ricorrenti ex lege Pinto, i quali possono ricevere un integrale rimborso delle spese processuali; la piena applicazione del principio della soccombenza sarebbe preclusa solo a coloro che sono stati costretti, a causa di un elemento imprevedibile nel momento in cui hanno attivato la procedura innanzi al giudice europeo, ad adire anche quello italiano. Del rischio di una siffatta disparità di trattamento si accorgono, peraltro, le stesse Sezioni Unite, le quali auspicano l’intervento di una «espressa previsione di diritto intertemporale che disciplini le spese di un ricorso divenuto irricevibile per effetto della sopravvenuta introduzione di un mezzo di tutela dinanzi al giudice nazionale» (31). Forse una più ragionata applicazione della regola processuale della soccombenza avrebbe consentito alla Cassazione di escludere la necessità di tale intervento. 4. La prova del danno non patrimoniale Con riferimento al pregiudizio non patrimoniale, invece, l’esigenza di garantire l’allineamento alla posizione europea ha determinato un articolato contrasto giurisprudenziale, che lascia a tutt’oggi aperte molteplici questioni problematiche (32). In particolare, subito dopo l’entrata in vigore della legge Pinto, proprio richiamando le pronunce della Corte di Strasburgo (33), parte della giurisprudenza di merito (34) e della dottrina (35) aveva aderito alla tesi del c.d. danno non patrimoniale in re ipsa, identificando, di fatto, tale forma di danno nella stessa violazione del diritto alla ragionevole durata e, pertanto, non richiedendo una sua allegazione o prova, ma ritenendolo risarcibile sempre e comunque una volta accertato l’irragionevole allungamento dei tempi processuali. Fino alla fine del 2003, però, la prima sezione della Cassa- 1066 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 zione (36) aveva sempre rigettato tale prospettazione, osNote: (28) Cfr. C. De Rose, Equa riparazione per i processi troppo lunghi: la legge 24 marzo 2001, n. 89 e la sua derivazione europea, in Cons. Stato, 2001, II, 463. (29) Così Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28508, cit. (30) In questo caso, infatti, non opera la regola generale disposta dall’art. 4 legge 24 marzo 2001, n. 89, ai sensi del quale il ricorso deve essere presentato entro sei mesi dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione sul procedimento avente durata irragionevole, ma la domanda deve essere formulata entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge Pinto, termine peraltro prorogato al 18 aprile 2002 dal decreto legge 12 ottobre 2001, n. 370, convertito nella legge 14 dicembre 2001, n. 432. (31) Così Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28508, cit. (32) Per una sintesi del problema sia consentito il rinvio ad A. Venturelli, Danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, in Il “nuovo” danno non patrimoniale, a cura di G. Ponzanelli, Padova, 2004, 244 ss. (33) Cfr. ex plurimis Corte Europea diritti uomo 26 ottobre 1988, in Foro it., 1989, IV, 380 ss.; Corte Europea diritti uomo 24 maggio 1991, in Riv. it. dir. lav., 1991, II, 714; Corte Europea diritti uomo 28 settembre 1995, cit.; Corte Europea diritti uomo 23 aprile 1998, in Foro it., 1999, IV, 1 ss.; Corte europea diritti uomo, 12 febbraio 2002, inedita; Corte europea diritti uomo 28 marzo 2002, inedita; Corte europea diritti uomo 31 luglio 2003, inedita; per un orientamento generale in merito al problema cfr. M. Gestri, Risarcimento del danno per violazioni della convenzione europea nella giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, in Foro it., 1987, IV, 1 ss.; M. Macchiaroli, Danni morali e persone giuridiche: orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Doc. giust., 2000, 224 ss.; C. De Rose, op. cit., 455 s. (34) Cfr. App. Torino 25 giugno 2001, in Guida al dir., n. 41/2001, 19; App. Roma 26 giugno 2001, inedito; App. L’Aquila 23 luglio 2001, cit.; App. Catania, 10 agosto 2001, in Guida al dir., n. 41/2001, 35; App. Genova 28 agosto 2001, ivi, n. 47/2001, 64; App. Roma 21 settembre 2001, inedito; App. Genova 13 novembre 2001, in Nuova giur. ligure, 2002, 9 ss.; e in Giur. merito, 2002, 342; App. Genova 29 novembre 2001, cit.; App. Milano 9 gennaio 2002, inedito; App. Firenze 25 gennaio 2002, in Giust. civ., 2002, I, 2284 ss. (35) Cfr. F. Plotino, Quando le incertezze normative fanno oscillare i criteri interpretativi, in Guida al dir., n. 41/2001, 18; S. De Paola, Ingiustificato il richiamo della legge alle regole sul risarcimento del danno, ivi, 33; F. Sorrentino, Alcune riflessioni sul diritto all’equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo, in Il Fisco, 2001, 11322; I. Peila, Brevi note in merito alla legge 24 marzo 2001, n. 89 in tema di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, in Resp. civ. prev., 2001, 1069; E. Dalmotto, op. cit., 197; S. Izar, Prime applicazioni giurisprudenziali della legge n. 89/2001 (c.d. legge Pinto) sulla responsabilità dello Stato per violazione del termine ragionevole del processo, in Resp. civ. prev., 2002, 974 s.; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, cit., 59; M. Poto, Prime pronunce della Corte di Cassazione sulla violazione del principio della ragionevole durata del processo, in Resp. civ. prev., 2003, 358; U. Vincenti, L’equa riparazione del danno non patrimoniale per l’eccessiva durata di un processo, in Dir. reg., 2004, 289 ss. (36) Cfr. Cass. 2 agosto 2002, n. 11592, in Guida al dir., n. 38/2002, 46; Cass. 2 agosto 2002, n. 11600, in Foro it., 2003, I, 851 ss., con nota di P. Gallo, op. cit.; Cass. 8 agosto 2002, n. 11987, ivi, 848; e in Giur. it., 2002, 2039 ss., con nota di A. Didone, La Cassazione e l’equa riparazione per irragionevole durata del processo; e in Giust. civ., 2002, I, 2393; e in Riv. dir. int., 2002, 1105; e in Dir. & Giust., n. 32/2002, 18; e in Resp. civ. prev., 2003, 355; e in Riv. dir. proc., 2004, 625 ss., con nota di E. Benigni, Il diritto all’equa riparazione nel «giusto» processo italiano; Cass. 13 settembre 2002, n. 13422, in Foro it., Rep. 2002, voce Diritti politici e civili, n. 172; Cass. 5 novembre 2002, n. 15443, in Giust. civ. Mass., 2002, 1095; Cass. 5 novembre 2002, n. 15449, cit.; Cass. 7 novembre 2002, n. 15607, in Giust. civ., 2003, I, 1270 s.; Cass. 28 novembre 2002, n. 16879, in Giust. civ. Mass., 2002, 1100; Cass. 3 gennaio 2003, n. 10, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 605 ss., con nota di D. Chindemi, La prova del danno non patrimoniale da (segue) ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA servando che il danno non patrimoniale deve essere valutato come un elemento ulteriore e distinto rispetto a tale violazione e, analogamente a quello patrimoniale, deve formare oggetto di rigorosa allegazione e prova. Essa aveva riconosciuto soltanto che, in considerazione dell’oggettiva difficoltà dell’assolvimento di siffatto onere, era consentito il ricorso a presunzioni, a massime d’esperienza e, in generale, a ragionamenti inferenziali fondati sulla conoscenza degli effetti che la pendenza di un processo provoca nell’uomo medio. Sul punto, però, intervennero quattro pronunce della Cassazione a sezioni unite (Cass., sez. un., 26 gennaio 2004, nn. 1338-1341 (37)) che, proprio muovendo dalla rilevanza costituzionale del diritto alla ragionevole durata del processo (38) e, soprattutto, dalla necessità di garantire una piena uniformità delle decisioni alla giurisprudenza europea, stabilirono che il danno non patrimoniale ex lege Pinto sussiste ogni volta che, accertata la durata irragionevole del procedimento, non ricorrano nel caso concreto circostanze particolari che facciano escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. Conseguentemente, esso non deve formare specifico oggetto di prova, ma basterà dimostrare l’irragionevole durata del processo per ottenerne il risarcimento, salvo che non sia accertato il conseguimento di un vantaggio per effetto del prolungamento della controversia. La soluzione, pacificamente reiterata dalla produzione giurisprudenziale successiva (39), assume un connotato decisamente compromissorio, perché pretende di superare sia la posizione precedentemente espressa dalla prima sezione della Cassazione, sia la tesi del c.d. danno in re ipsa, dal momento che ritiene possibile, sia pure in casi eccezionali, negare il risarcimento del danno non patrimoniale, quando il prolungamento irragionevole dei tempi processuali arrechi un vantaggio alla parte ricorrente. Le Sezioni Unite, a tale proposito, richiamano il caso di un locatario che, durante il giudizio, continui a detenere l’immobile locato, beneficiando delle relative utilità, ma l’esempio non appare pienamente convincente, dal momento che potrebbe indurre a confondere il piano dell’equa riparazione con quello della sussistenza, nel merito, del diritto fatto valere nel procedimento a quo. Si potrebbe, piuttosto, pensare al caso in cui, nelle more del procedimento, intervenga la prescrizione del reato (40), ovvero entri in viNote: (segue nota 36) irragionevole durata del processo; Cass. 13 febbraio 2003, n. 2130, in Foro it., 2003, I, 2400 ss.; Cass. 19 febbraio 2003, n. 2478, in Giust. civ., 2003, I, 898 s.; Cass. 6 marzo 2003, n. 3153, ivi, 897 s.; Cass. 3 aprile 2003, n. 5110, ivi, 893; Cass. 3 aprile 2003, n. 5131, in Foro it., Rep. 2003, voce Diritti politici e civili, n. 203; Cass. 17 aprile 2003, n. 6168, in Giust. civ., 2003, I, 2369 ss.; Cass. 19 giugno 2003, n. 9812, in Foro it., Rep. 2003, voce Diritti politici e civili, n. 172; Cass. 17 luglio 2003, n. 11721, inedita; Cass. 5 settembre 2003, n. 12935, in Giur. it., 2004, 1853 ss., con nota di F. Vitelli, La prova del danno non patrimoniale da violazione del termine di durata ragionevole del processo; Cass. 10 settembre 2003, n. 13211, in Foro it., Rep. 2003, voce Diritti politici e civili, n. 215; Cass. 5 novembre 2003, n. 16600, ivi, n. 285. (37) In questa Rivista, 2004, 499 ss., con nota di A. Venturelli, Legge Pinto: per le Sezioni Unite la prova del danno non patrimoniale è in re ipsa; e in Foro it., 2004, I, 693 ss., con nota di P. Gallo; e in Giur. it., 2004, 944 ss., con note di A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell’uomo: sepolti i contrasti; e di M. Fasciglione, Verso un allineamento della Suprema Corte alle posizioni della Corte di Strasburgo in tema di durata ragionevole del processo, ivi, 1147 ss.; e in Corr. giur., 2004, 609 ss., con nota di R. Conti, CEDU e diritto interno: le Sezioni Unite si avvicinano a Strasburgo sull’irragionevole durata dei processi; e in Giust. civ., 2004, I, 910 ss., con nota di F. Morozzo della Rocca, Durata irragionevole del processo e presunzione di danno non patrimoniale; e in Guida al dir., n. 6/2004, 16 ss., con nota di E. Sacchettini, Un’attività di difficile realizzazione pratica che mette a repentaglio le casse dello Stato; e in Dir. & Giust., n. 15/2004, 12 ss., con nota di G. De Stefano, È finita la guerra delle Corti: la Cassazione si adegua alla CEDU. (38) Cfr. Corte cost. 11 dicembre 1998, n. 399, in Giur. cost., 1998, 3454; e in Giur. it., 1999, 1021; e in Giust. pen., 1999, I, 133; Corte Cost. 22 ottobre 1999, n. 388, in Foro it., 2000, I, 1072 s.; e in Giust. civ., 2000, I, 12; e in Giur. it., 2000, 1127; Corte cost. 25 luglio 2001, n. 305, in Giust. civ., 2001, I, 2603 ss.; Corte cost. 21 marzo 2002, n. 78, ivi, 2002, I, 1165; e in Foro it., 2002, I, 1611; e in Giur. cost., 2002, 720; e in Giur. it., 2002, 2034, tutte richiamate da Cass. sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338, cit.; nonché, in dottrina, A. Didone, Appunti sulla ragionevole durata del processo, in Giur. it., 2000, 871; Id., Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, cit., 20; C. De Rose, op. cit., 457; R. Martino, op. cit., 1077, testo e nota 22; G. Mammone, La legge sull’equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in Giust. civ., 2002, II, 396; S. Izar, op. cit., 968; D. Amadei, op. ult. cit., 30; V. Barela, op. cit., 139. Più in generale, sui rapporti fra giusto processo e legge Pinto cfr. G. Verde, Giustizia e garanzie nella giurisdizione civile, in Riv. dir. proc., 2000, 312; S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, ivi, 1032 ss.; A. Proto Pisani, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V, 241 ss.; U. Olivieri, La «ragionevole durata» del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, secondo comma, Cost.), ivi, 251 ss.; G. Tarzia, L’art. 111 Cost. e le garanzie europee del processo civile, in Riv. dir. proc., 2001, 1 ss.; Id., Il giusto processo di esecuzione, cit., 348 s.; N. Trocker, Il nuovo art. 111 Cost. e il «giusto processo» in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 381 ss.; L.P. Comoglio, Le garanzie fondamentali del «giusto processo», in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 28 ss.; R.G. Aloisio, Dell’irragionevole durata del processo ovvero dell’astuzia del legislatore, in Riv. dir. priv., 2002, 477 s.; M. Chiavario, Giustizia penale, Carta dei diritti e Corte europea dei diritti umani, in Riv. dir. proc., 2002, 21 ss.; F. Cipriani, I problemi del processo di cognizione tra passato e presente, in Riv. dir. civ., 2003, I, 64 s.; G. Scarselli, La ragionevole durata del processo civile, in Foro it., 2003, V, 126 ss.; A. Dondi, Spunti di raffronto comparatistico in tema di abuso del processo (a margine della legge 24 marzo 2001, n. 89), in Nuova giur. civ. comm., 2003, II, 62 ss.; G. Vignera, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del «nuovo» art. 111 Cost., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1224 ss. (39) Cfr. Cass. 11 maggio 2004, n. 8896, in Guida al dir., n. 21/2004, 84 ss., con nota di R. Filoia, Il patema d’animo è una conseguenza normale della durata irragionevole del processo; App. Bari 9 luglio 2004, in Foro it., 2005, I, 200 ss.; Cass. 18 marzo 2005, n. 5991, cit.; Cass. 30 marzo 2005, n. 6714, in Giur. it., 2005, 1721 ss.; e in Dir. e giust., n. 17/2005, 21 ss., con nota di A. Didone; e in Giust. civ., 2006, I, 908, con nota di F. Morozzo della Rocca, Violazione del termine ragionevole del processo: il danno non patrimoniale e gli oneri di allegazione della parte; Cass. 5 aprile 2005, n. 7088, in Foro it., Rep. 2005, voce Diritti politici e civili, n. 258; Cass. 23 aprile 2005, n. 8568, in Giust. civ., 2006, I, 906 ss., con nota di F. Morozzo della Rocca, op. ult. cit.; Cass. 3 ottobre 2005, n. 19288, ivi, n. 257; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21094, ivi, n. 269; Cass. 11 novembre 2005, n. 21857, ivi, n. 257; Cass. 9 febbraio 2006, n. 2876, in Foro it. Mass., 2006, 502; Cass. 11 marzo 2006, n. 5386, ivi, 724; Cass. 16 marzo 2006, n. 5820, ivi, 727; Cass. 28 marzo 2006, nn. 6998 e 6999, ivi, 731 s.; Cass. 21 aprile 2006, n. 9411, ivi, 811; Cass. 30 maggio 2006, n. 12858, cit. (40) A tale proposito, la giurisprudenza (cfr. Cass. 5 novembre 2002, n. 15443, cit.; Cass. 5 novembre 2002, n. 15449, cit.; Cass. 21 marzo 2003, n. 4138, in Foro it., Rep. 2003, voce Diritti politici e civili, n. 246; Cass. 24 ottobre 2003, n. 16039, ivi, n. 250, e, con specifico riferimento al giudizio amministrativo, Cass. 7 marzo 2003, n. 3410, in Giust. civ., 2003, I, 905 (segue) DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1067 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA gore una legge più favorevole alla parte ricorrente (41), o comunque questa, nella piena consapevolezza dell’infondatezza del suo diritto, non si opponga all’allungamento dei tempi processuali, pure determinato dal concorso di altre cause. Proprio di quest’ultima ipotesi si è occupata, da ultimo, Cass. 13 aprile 2006, n. 8716 (42), la quale ha negato il risarcimento del danno non patrimoniale per la durata irragionevole di un processo avente ad oggetto la divisione di un immobile in comproprietà iniziato nel 1990 e conclusosi nel 2001 a seguito di un accordo transattivo stragiudiziale. Correggendo la sentenza di merito, che aveva negato il risarcimento per l’assenza di un provvedimento decisorio di conclusione del procedimento, il giudice di legittimità ha precisato che la durata irragionevole del processo può essere accertata indipendentemente dalla sua conclusione con un provvedimento decisorio e quindi anche quando le parti hanno concluso un accordo transattivo stragiudiziale (43). In questo caso, però, occorrerà valutare se la loro intenzione di avviare trattative non abbia favorito l’allungamento dei tempi processuali così da arrecare loro un vantaggio. Proprio per questo, la presentazione, ad opera delle parti, di molteplici richieste di rinvio per facilitare lo svolgimento delle trattative è stata considerata sufficiente per indurre il giudice di legittimità a «ritenere che si fosse al cospetto di una vicenda “completamente gestita in ambito stragiudiziale”: ergo, di una sostanziale carenza di interesse del ricorrente alla celere definizione del giudizio in cui era convenuto, essendo il suo interesse quello - opposto - alla stasi del procedimento, per coltivare la prospettiva, poi in effetti concretizzatasi, della definizione stragiudiziale» (44). La conclusione merita senz’altro accoglimento, anche se avrebbe forse potuto essere meglio argomentata considerando che, nel caso esaminato, si sarebbe potuto discutere, prima ancora della sussistenza del danno non patrimoniale, della stessa irragionevolezza della durata del procedimento, dal momento che, a norma dell’art. 2, secondo comma, legge 24 marzo 2001, n. 89, essa deve essere valutata tenendo in debita considerazione proprio il comportamento delle parti durante lo svolgimento della causa. Più in generale, la configurazione di una prova in re ipsa del danno non patrimoniale si espone a taluni profili critici che la giurisprudenza più recente, impegnata nella mera riproposizione tralatizia delle massime degli interventi delle Sezioni Unite, non ha saputo superare. La netta diversificazione fra danno patrimoniale e non patrimoniale, imposta dal nuovo principio di diritto, è incompatibile con le precise indicazioni letterali riscontrabili nel testo dell’art. 2, legge 24 marzo 2001, n. 89, che, al primo comma, dispone l’equa riparazione solo per «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione» del diritto alla ragionevole durata del processo, precisando, al terzo comma, che «rileva solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole». Tali elementi confermano la precisa intenzione del legisla- 1068 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 tore di parificare il danno non patrimoniale a quello patrimoniale sotto ogni profilo, ivi compreso quello attinente alla prova (45). L’esigenza equitativa di garantire comunque un ristoro economico alla parte che ha dovuto sopportare una cattiva amministrazione della giustizia potrebbe, quindi, essere perseguita attraverso il “correttivo” probatorio, già riconosciuto dalla prima sezione della Cassazione, del ricorso a presunzioni o massime di esperienza, senza bisogno di distinguere nettamente fra le due figure di danno (46). La giurisprudenza successiva al 2004 ha cercato di replicare a tale assunto attribuendo al richiamo della Convenzione Europea operato dal medesimo art. 2, primo comma, un Note: (segue nota 40) ss.; e in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 613 ss., con nota di A. Rampello, Due precisazioni sull’equa riparazione: è applicabile anche al processo amministrativo e non risente dell’esito del giudizio presupposto) ha precisato che la sopraggiunta prescrizione del reato a causa dell’eccessiva durata del procedimento non è di per sé idonea ad eliminare qualunque danno dell’imputato ricorrente, a meno che non sia possibile accertare l’adozione, da parte dell’imputato stesso, di tattiche dilatorie ed abusi del diritto di difesa. Similmente, secondo Cass. 18 gennaio 2006, n. 868, in Foro it. Mass., 2006, 486, «la circostanza che, all’esito del giudizio affetto da irragionevole ritardo, la parte attrice si sia vista riconoscere una somma pari agli interessi e alla rivalutazione monetaria frattanto maturati significa solo che quella causa - che proprio su tale pretesa verteva - si è conclusa per la medesima parte attrice in modo soddisfacente; ma nulla è lecito inferirne in ordine al pregiudizio soggettivo sofferto per avere dovuto attendere troppo tempo prima di potere conseguire la risposta giudiziaria dovuta». (41) Un caso simile è stato deciso da Cass. 17 ottobre 2003, n. 15573, inedita, in cui non è stato riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento, nonostante l’accertata durata irragionevole del procedimento, dal momento che, nelle more della controversia, il giudice aveva evitato alla parte l’instaurazione di un lungo e costoso giudizio amministrativo, trasformando la durata del procedimento in un concreto vantaggio. (42) Inedita nella motivazione, ma massimata in Foro it. Mass., 2006, 698. (43) Sul punto la giurisprudenza è concorde: cfr., per tutte, Cass. 24 gennaio 2003, n. 1069, in Foro it., Rep. 2003, voce Diritti politici e civili, n., 240; Cass. 19 febbraio 2003, n. 2478, cit.; Cass. 11 marzo 2005, n. 5398, in Foro it., Rep. 2005, voce Diritti politici e civili, n. 170. (44) Così Cass. 13 aprile 2006, n. 8716, cit. (45) La conclusione era già sottolineata dai primi commentatori della legge. Cfr., per tutti, C. De Rose, op. cit., 458; G. Cricenti, op. cit., 696. (46) Non è un caso che al medesimo esito siano giunte, con riferimento al danno «esistenziale» da demansionamento, Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572, cit., le quali osservano che «mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti - se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso - all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostante di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni […] cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva». ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA ruolo creativo del diritto, tale da imporre al giudice italiano di rispettare non solo la formulazione letterale del Trattato, ma anche l’interpretazione di questo operata dalla Corte di Strasburgo, sicché «tale regola di conformazione, inerendo ai rapporti tra la citata legge e la Convenzione ed essendo espressione dell’obbligo della giurisdizione nazionale di interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, conformemente alla Convenzione e alla giurisprudenza di Strasburgo, ha natura giuridica, onde il mancato rispetto di essa da parte del giudice del merito concretizza il vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione» (47). La soluzione è stata, da ultimo, riaffermata dalle stesse Sezioni Unite (48), le quali, intervenendo sul problema della trasmissibilità iure hereditario del diritto all’equa riparazione, hanno osservato che l’entrata in vigore della legge Pinto ha assunto soltanto una valenza processuale, determinando il mutamento dell’organo giudiziario competente per le relative controversie, ma non ha inciso sulle caratteristiche della tutela riconosciuta prima del 2001. La conclusione, tuttavia, non appare pienamente condivisibile. Le sentenze della Corte europea non hanno un’immediata efficacia vincolante per i giudici interni, dal momento che operano sulla base di un Trattato internazionale che obbliga soltanto gli Stati contraenti e non crea situazioni giuridiche soggettive direttamente invocabili - a livello interno - dai cittadini di questi stessi Stati (49). A tal stregua, fino all’entrata in vigore della legge Pinto mancava ogni forma di tutela interna per il diritto alla ragionevole durata del processo, che poteva essere fatto valere solo nelle forme e nei modi previsti dalla Convenzione. Il richiamo di questo testo operato dall’art. 2, legge 24 marzo 2001, n. 89, quindi, non può determinare, di per sé, una deroga alle comuni regole del diritto internazionale, ma, più semplicemente, identifica la fonte normativa attributiva della situazione giuridica soggettiva la cui lesione viene sanzionata dalla normativa in esame. In questa prospettiva, la differente evoluzione giurisprudenziale europea non comporta, per ciò solo, l’obbligo del giudice italiano di uniformarsi ad essa, ma impone di valutare se le caratteristiche strutturali del rimedio ex lege Pinto possano effettivamente giustificare soluzioni conformi a quelle già elaborate a Strasburgo. La risposta non può che essere negativa, perché la parificazione tra danno patrimoniale e non patrimoniale imposta dalla formulazione letterale della disposizione normativa e la necessità di accertare la violazione di una situazione giuridica soggettiva quale il diritto alla ragionevole durata del processo dimostrano la natura risarcitoria del rimedio, fondato su un’ipotesi di responsabilità oggettiva dello Stato (50) ed impediscono un’agevole riconduzione dello stesso al modello europeo, che, invece, si è sempre ispirato a parametri indennitari, riconoscendo la riparazione del pregiudizio non patrimoniale in modo sostanzialmente automatico. La conclusione non è smentita dal costante orientamento Note: (47) Così Cass. 21 settembre 2005, n. 18589, in Foro it., Rep. 2005, voce Diritti politici e civili, n. 184; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1630, in Foro it. Mass., 2006, 120. Similmente, App. Torino, 14 aprile 2004, in Foro it., 2005, I, 202 ss.; Cass. 15 settembre 2005, n. 18249, in Foro it., Rep. 2005, voce Diritti politici e civili, n. 150; Cass. 10 marzo 2006, n. 5292, in Foro it. Mass., 2006, 723, secondo le quali «il giudice nazionale deve, per quanto possibile, conformarsi ai parametri elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con l’effetto che deve ritenersi viziata la pronuncia del giudice di merito che, nel negare la violazione, si sia vistosamente discostata dagli stessi, senza indicare, con riferimento al caso concreto, alcuna circostanza giustificativa della deroga»; nonché Cass. 6 ottobre 2005, n. 19503, in Giust. civ., 2006, I, 282 ss., con nota di F. Morozzo della Rocca, Irragionevole durata del processo: l’allineamento della giurisprudenza nazionale agli standard Cedu, secondo la quale, pur dovendosi escludere che le decisioni di Strasburgo assumano efficacia di giudicato nei confronti del giudice italiano, «le sentenze rese dalla Cedu su casi identici, invocate dalla parte che affermi di aver patito analogo pregiudizio, devono essere prese in esame dal giudice per definire la controversia sulla base dell’interpretazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo da quelle accolte, adeguando le sue valutazioni ai parametri che ne risultano o motivatamente discostandosene: infatti, mentre una diversa ricostruzione della volontà espressa dalla norma convenzionale, richiamata dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, integra il vizio di violazione di legge, l’omissione dell’enunciazione delle ragioni dello scostamento, nel caso concreto, dai parametri della Cedu integra il difetto di motivazione». (48) Cfr. Cass. sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507, in questa Rivista, 2006, 745 ss., con nota di A. Venturelli, Le Sezioni Unite e l’equa riparazione per la lunghezza dei processi, cit.; e in Corr. giur., 2006, 833 ss., con nota di R. Conti, Le Sezioni Unite ancora sulla legge Pinto: una sentenza storica sulla via della piena attuazione della Cedu; e in La resp. civ., 2006, 699 ss., con nota di L. D’Alessandro, La legittimazione ad agire iure hereditatis per la riparazione del pregiudizio conseguente alla irragionevole durata del processo. (49) Cfr. G. Cricenti, op. cit., 694 s.; A. Converso, Il fatto generatore del danno nella legge 24 marzo 2001, n. 89, in Rass. dir. civ., 2003, 1073 s. Similmente, E. Benigni, op. cit., 644, la quale precisa che «dal testo della Convenzione non è desumibile un obbligo per il giudice interno di rispettare le decisioni della Corte quando si trovi a dover decidere una questione interna concernente l’interpretazione della Convenzione. In secondo luogo, […] la Corte di Strasburgo non è un tribunale sovraordinato, in senso tecnico, rispetto alle Corti nazionali, per cui i tribunali nazionali sono indipendenti ed autonomi rispetto ad essa. Quindi, se la Convenzione europea comporta certamente l’obbligo per gli Stati firmatari di garantire la compatibilità della propria legislazione con essa, questo non significa per i tribunali nazionali il dovere di conformarsi alle decisioni della Corte». In giurisprudenza cfr. Cass. 12 gennaio 1999, n. 254, in Giust. civ., 1999, I, 2363, la quale, con riferimento all’art. 5 Cedu, osserva che «la suddetta disposizione non ha portata precettiva e non si presta ad un’applicazione immediata ed assume soltanto il valore di un impegno degli Stati contraenti a darvi attuazione, attraverso strumenti apprestati dal diritto interno». Contra, invece, A. Ronco, Disposizioni finali, in Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, cit., 394 s.; R. Martino, op. cit., 1073 s. (50) Cfr. G. Ponzanelli, «Equa riparazione» per i processi troppo lenti, cit., 570; Id., Prime applicazioni della legge Pinto, cit., 968; Id., Prova del danno non patrimoniale ed irrilevanza del danno esistenziale, cit., 271; R. Martino, op. cit., 1077; G. Mammone, op. cit., 397 s.; F. Longo, L’art. 2 della legge Pinto: indennizzo o risarcimento?, cit., 276 s.; V. Barela, op. cit., 150; F. Morozzo Della Rocca, L’equa riparazione per irragionevole durata del processo nelle prime decisioni della Cassazione, cit., 705; C. Carbonaro, I danni da irragionevole durata del processo, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, a cura di E. Navarretta, Milano, 2004, 286 s. Più articolata la posizione di P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, in Rass. dir. civ., 2004, 1075 s., secondo il quale si tratterebbe di un’ipotesi indennitaria «comunque rientrante nella responsabilità civile». In giurisprudenza, sembrano ricondurre alla responsabilità aquiliana il rimedio App. Roma 10 luglio 2001, cit.; App. Torino 5 settembre 2001, in Guida al diritto, n. 41/2001, 18 ss.; e in Foro it., 2002, I, 233 ss. con nota di M.G. Civinini, op. cit.; App. Potenza 15 ottobre 2001, cit. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1069 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA giurisprudenziale (51) che identifica nell’art. 1173 c.c. la fonte dell’obbligo di ristorare il pregiudizio connesso alla durata irragionevole. Se infatti la reale natura della riparazione fosse indennitaria, non si riesce a capire perché la concessione dell’indennizzo non sia prevista automaticamente ogni volta che sia verificato il carattere irragionevole della durata della controversia, ma possa essere esclusa laddove non sia fornita prova del danno patrimoniale ovvero, sia pure in casi eccezionali, siano presenti circostanze idonee a far escludere la sussistenza di un pregiudizio a-redittuale. In realtà, poiché l’affermazione di una difformità del rimedio interno con quello europeo determinerebbe la sostanziale vanificazione degli scopi per i quali la legge Pinto è stata emanata, la Cassazione tenta, per così dire, di conciliare l’inconciliabile, ossia di permettere ad un rimedio che strutturalmente si presenta diverso da quello europeo di garantire un trattamento identico a quello che sarebbe riconosciuto a Strasburgo. In tal guisa però si finisce con l’introdurre surrettiziamente una regola di vincolatività del precedente riferita ad un organo giurisdizionale esterno rispetto a quello italiano. L’esigenza di garantire l’identità di trattamento è infatti fatalmente destinata a determinare l’applicabilità di qualunque soluzione europea, indipendentemente dagli effetti che essa è idonea a produrre nell’ordinamento interno. 5. Segue: il caso delle persone giuridiche Il rischio appena prospettato è particolarmente evidente se si fa caso al problema della legittimazione delle persone giuridiche all’esercizio del rimedio ex lege Pinto. La giurisprudenza tuttora maggioritaria (52), superato un iniziale orientamento contrario alla legittimazione delle persone giuridiche (53), ha riconosciuto anche a queste ultime la possibilità di essere risarcite ex lege Pinto sotto il profilo del danno non patrimoniale, quando l’eccessivo prolungamento della controversia abbia determinato la lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza della fisicità, come, ad esempio, il diritto all’identità, all’immagine, alla reputazione. Ne è derivata una completa parificazione, sotto questo profilo, del giudizio ex lege Pinto all’ordinaria azione ex art. 2043 c.c., che è esercitabile dalla persona giuridica solo quando sia possibile dimostrare l’esistenza di un pregiudizio a quei diritti riconosciuti indipendentemente dalla qualificazione in senso fisico o giuridico della sua personalità (54). L’intervento del gennaio 2004 non sembrava, almeno inizialmente, aver scalfito siffatta conclusione: Cass. 2 luglio 2004, n. 13504 (55), intervenendo con specifico riferimento al danno non patrimoniale lamentato da una società a responsabilità limitata per la durata irragionevole di un processo amministrativo, protrattosi per più di cinque anni senza che fosse stata fissata un’udienza, ha osservato che «considerato il tema del ricorso al TAR, relativo a questione specificamente patrimoniale, […] la società ricorrente doveva dedurre in che misura la lunghezza del processo amministrativo avesse prodotto danni ulteriori e di- 1070 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 versi da quelli indicati, chiarendo, in rapporto all’oggetto della causa, come l’eccessiva durata di essa avesse inciso sull’esistenza o sull’immagine, ovvero sulle altre posizioni personali od esistenziali dell’ente». La diversa natura del danno non patrimoniale subito dalla persona giuridica, quindi, inciderebbe anche sull’estensione dell’onere della prova, imponendole di dimostrare che l’allungamento dei tempi processuali, in considerazione Note: (51) Cfr. App. Milano 29 giugno 2001, cit.; App. Brescia 29 giugno 2001, cit.; App. Brescia 30 agosto 2001, cit.; Cass. 26 luglio 2002, n. 11046, cit.; Cass. 2 agosto 2002, n. 11600, cit.; Cass. 8 agosto 2002, n. 11987, cit.; Cass. 20 settembre 2002, n. 13768, cit.; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14885, cit.; Cass. 7 novembre 2002, n. 15611, in Giust. civ., 2003, I, 1269 ss.; nonché, in dottrina, C. De Rose, op. cit., 459; S. Izar, op. cit., 971; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, cit., 36 ss.; G. Colonna, op. cit., 198. (52) Cfr. App. Trento 31 luglio 2001, in Guida al dir., n. n. 38/2001, 31; Cass. 2 agosto 2002, n. 11573, in Giust. civ., 2002, I, 3063 ss.; e in Giur. it., 2003, 25 ss., con nota di A. Didone, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo per le persone giuridiche; Cass. 2 agosto 2002, n. 11592, cit.; Cass. 2 agosto 2002, n. 11600, cit.; Cass. 29 ottobre 2002, n. 15233, in Giust. civ. Mass., 2002, 1090; Cass. 19 novembre 2002, n. 16262, in Foro it., Rep. 2002, voce Diritti politici e civili, n. 202; Cass. 13 febbraio 2003, n. 2130, cit.; Cass. 10 aprile 2003, n. 5664, in Foro it., 2005, I, 198 ss. In dottrina, cfr. E. Dalmotto, op. cit., 194 s.; G. Colonna, op. cit., 202 s.; A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 203 s. (53) Cfr. App. Brescia 23 luglio 2001; App. Brescia 6 ottobre 2001, entrambe in Guida al dir., n. 38/2001, 29 s.; App. Roma 9 ottobre 2001, inedito. (54) Cfr. Cass. 10 luglio 1991, n. 7642, in Giust. civ., 1991, I, 1955 ss.; Cass. 5 dicembre 1992, n. 12951, ivi, 1993, I, 2156; e in Dir. inf., 1993, 373 ss.; e in Corr. giur., 1993, 584 s., con nota di V. Zeno Zencovich, La lesione della reputazione di uno Stato straniero; e in Foro it., 1994, I, 561 ss., con nota di F. Salerno, La legittimazione processuale dell’agente diplomatico straniero ad agire in giudizio per la tutela dell’onore del proprio Stato; Corte dei Conti 24 marzo 1994, n. 31, in Giust. civ., 1994, I, 1733 ss., con nota di M.V. Morelli, Delitti di corruzione e risarcibilità del “danno morale” inferto alla p.a.: dalla “Lockheed” a “Tangentopoli”; Cass. 15 aprile 1998, n. 3807, in Resp. civ. prev., 1998, 992 ss., con nota di G.F. Basini, La Cassazione ribadisce la configurabilità di un danno non patrimoniale anche in capo alle persone giuridiche; Cass. 3 marzo 2000, n. 2367, in questa Rivista, 2000, 490 ss., con nota di V. Carbone, Il pregiudizio all’immagine e alla credibilità di una s.p.a. costituisce danno non patrimoniale e non danno morale; in dottrina, cfr., per tutti, M. Franzoni, Dei fatti illeciti, in Commentario al codice civile Scialoja Branca, diretto da F. Galgano, Bologna - Roma, 1993, 1204 s.; C. Martorana, La “risarcibilità” dei danni non patrimoniali allo Stato (a proposito dell’affaire Lockheed), in Resp. civ. prev., 1993, 468 ss.; G.F. Basini, I soggetti legittimati in ordine alla riparazione del danno non patrimoniale, in Resp. civ. prev., 1998, 942 ss.; A. Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche, in Riv. dir. civ., 2002, I, 872 ss.; G. Basile, Le persone giuridiche, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2003, 146 ss.; E. Palmerini, I diritti della personalità e i danni agli enti collettivi, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, cit., 253 ss. (55) In questa Rivista, 2005, 977 ss., con nota di A. Venturelli, Legge Pinto: per le persone giuridiche la prova del danno non patrimoniale non è in re ipsa; e in La Resp. civ., 2005, 624 ss. (ma ivi erroneamente datata 10 marzo 2004), con nota di V. Giorgianni, Il risarcimento del danno non patrimoniale alle persone giuridiche. Similmente, cfr. Cass. 30 settembre 2004, n. 19467, in Giust. civ., 2005, I, 59 ss., con nota di R. Giordano, Ancora contrasti tra la giurisprudenza interna e quella della Corte di Strasburgo sull’equa riparazione dei danni per irragionevole durata del processo: il problema dei pregiudizi non patrimoniali subiti dagli enti, che ha esteso il principio alle società di persone e agli enti privi di personalità giuridica; Cass. 8 giugno 2005, n. 12015, in Foro it., Rep. 2005, voce Diritti politici e civili, n. 270. ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA della natura della controversia, abbia determinato una lesione ad un diritto della personalità ascrivibile all’ente. Siffatta conclusione, secondo la sentenza appena richiamata, non sarebbe smentita dal revirement giurisprudenziale del gennaio 2004, che, avendo ad oggetto una fattispecie relativa ad una persona fisica, non avrebbe fornito alcuna indicazione utile per la questione in esame. In realtà, la conclusione appare semplicistica, dal momento che confonde l’esito cui sono pervenute le Sezioni Unite con il suo presupposto giustificativo, che, se coerentemente sviluppato, sarebbe senz’altro idoneo a consentire una nuova configurazione anche della fattispecie in esame. L’intervento del gennaio 2004, infatti, trova la sua giustificazione nella necessità di garantire l’effettività della tutela apprestata dal rimedio interno, assicurando al danneggiato un trattamento identico a quello riconosciutogli avanti al giudice europeo. Tale necessità, però, può essere pienamente soddisfatta solo attraverso un radicale mutamento metodologico nell’accertamento della responsabilità ex lege Pinto, che, superato il limitato profilo della prova del danno non patrimoniale subito dalla persona fisica, si allarghi a considerare tutti gli aspetti problematici della vicenda. L’interprete chiamato ad operare con la legge 24 marzo 2001, n. 89, in altri termini, non dovrà più limitarsi a considerare l’applicazione interna della normativa, ma dovrà cercare una soluzione uniforme alle risultanze desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea (56). E proprio questa (57) ha consentito ad una società commerciale portoghese di ottenere il risarcimento, per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, anche del danno morale subito dai rappresentanti legali della società, per l’ansia e la preoccupazione concernenti l’allungamento dei tempi processuali di una controversia di recupero crediti. Tale conclusione viene giustificata osservando che il danno morale delle persone giuridiche per la durata irragionevole del processo si compone di elementi soggettivi ed oggettivi, che non si esauriscono nella semplice violazione del diritto all’immagine o alla reputazione dell’ente, ma che coinvolgono anche l’incertezza connessa all’esito del procedimento sulla sua gestione economica e le ansie e i patemi subiti a causa di questo dai suoi rappresentanti legali (58). Uniformandosi espressamente a questa pronuncia, Cass. 30 agosto 2005, n. 17500 (59), ha riconosciuto la possibilità di risarcire alle persone giuridiche anche il «danno consistente nel patema d’animo e nei turbamenti psichici causati dall’irragionevole durata del processo […], in quanto le situazioni imputate alle persone giuridiche, per la loro natura di soggetti meramente transitori e strumentali, sono comunque destinate a riferirsi alle persone fisiche che le compongono». La conclusione è già stata ampiamente criticata dai primi commentatori della pronuncia, i quali hanno evidenziato che essa si pone in contrasto con la ricostruzione tradizionale dell’autonomia della persona giuridica, «liquidando sbrigativamente l’assunto radicato e diffuso secondo cui la società, anche di persone, non per costruzione dogmatica, ma per le regole codicistiche che attengono alla sua struttura e al suo regime normativo è un soggetto nuovo, distinto dalle persone e dai patrimoni delle persone fisiche che se ne servono» (60). L’obiezione è senz’altro condivisibile, anche se non sembra idonea, di per sé, ad impedire il consolidarsi dell’orientamento in esame, specie laddove auspichi la riaffermazione della posizione giurisprudenziale maggioritaria (61). Questa, infatti, ha finora impedito di far valere, ai fini dell’accertamento del danno non patrimoniale, l’incidenza dell’allungamento dei tempi processuali sull’organizzazione economico-gestionale dell’ente. Al contrario, la soluzione prospettata dalla Corte di Strasburgo vuole proprio consentire all’ente collettivo di ottenere il risarcimento di un danno non patrimoniale anche quando non riesca a dimostrare che l’oggetto della controversia protrattasi irragionevolmente ha determinato la lesione di un suo diritto della personalità, ma risulti comunque accertato che esso appariva idoneo a provocare un generale stato di incertezza, sia per la gestione economicocontabile dell’ente, sia per le persone fisiche che, in varia misura, contribuiscono a questa stessa gestione. L’esigenza di garantire l’uniformità dell’applicazione del rimedio, quindi, non può fare altro che imporre un allargaNote: (56) Cfr. A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell’uomo: sepolti i contrasti, cit., 955; O. Porchia, op. cit., 529; M. Fasciglione, op. cit., 1149. (57) Cfr. Corte Europea diritti uomo 6 aprile 2000, in Corr. giur., 2000, 1246 s. (58) Secondo Corte europea diritti dell’uomo 6 aprile 2000, cit., «il danno morale può in effetti comportare per una società degli elementi più o meno “obiettivi” e “soggettivi”. Basti pensare alla reputazione dell’azienda così come all’incertezza nella programmazione, alle possibili perturbazioni nella gestione societaria, le cui conseguenze sono difficilmente quantificabili e, infine, sebbene in misura ridotta, alle noie subite dai membri degli organi dirigenziali». (59) In questa Rivista, 2006, 153 ss., con nota di M.V. De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti; e in Resp. civ. prev., 2006, 281 ss., con nota di C. Pasquinelli, Legge Pinto ed irragionevole durata del processo: la Cassazione ammette il danno morale per gli enti collettivi. Nello stesso senso cfr. inoltre Cass. 16 luglio 2004, n. 13163, in Giust. civ., 2005, I, 1579 ss., con nota di F. Morozzo Della Rocca, Legge 24 marzo 2001, n. 89: anche alle persone giuridiche spetta la pecunia doloris; Cass. 21 luglio 2004, n. 13504, in Dir. prat. soc., 24/2004, 60 ss., con nota di S. Pizzirusso; Cass. 15 giugno 2005, n. 12854, in Guida al dir., n. 34/2005, 60 ss.; Cass. 29 marzo 2006, n. 7145, in Foro it. Mass., 2006, 735. (60) Così M.V. De Giorgi, op. cit., 156. Similmente, C. Pasquinelli, op. cit., 288. (61) Questo sembra l’esito ultimo cui perviene C. Pasquinelli, op. cit., 289 s. Più articolata la posizione di M.V. De Giorgi, op. cit., 158 s., la quale, pur auspicando il superamento di questa posizione giurisprudenziale, ritiene possibile garantire un innalzamento della tutela offerta alla persona giuridica per l’irragionevole durata del processo attraverso una più ampia configurazione del danno non patrimoniale, che si allarghi a comprendere anche voci (esistenziali) diverse da quelle solitamente ricondotte al danno morale soggettivo. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1071 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA mento della tutela risarcitoria finora assicurata all’ente collettivo. Ciò peraltro non comporta necessariamente l’obbligo del giudice italiano di uniformarsi in toto alle statuizioni provenienti da Strasburgo: più precisamente, l’uniformità idonea a sventare il pericolo di nuove condanne per l’Italia dovrà riguardare soltanto gli esiti applicativi del rimedio, cioè la misura della riparazione ottenibile. I giudici italiani, in altri termini, dovranno garantire un ristoro identico a quello riconosciuto a Strasburgo, ma continueranno ad essere liberi di utilizzare le argomentazioni giuridiche che riterranno migliori per l’ottenimento di questo risultato, senza necessariamente essere costretti a riproporre pedissequamente le soluzioni europee. In questa prospettiva, non sembra necessario ignorare la tradizionale ricostruzione dell’autonomia della persona giuridica per garantire una soluzione equitativamente più corretta: basterà semplicemente valutare con la dovuta attenzione se il diritto al risarcimento per l’irragionevole durata del processo possa spettare all’ente collettivo nella stessa misura in cui è riconosciuto a favore del cittadino persona fisica e cioè indipendentemente dall’accertamento dell’idoneità del processo di durata irragionevole a ledere particolari ed ulteriori situazioni giuridiche soggettive. Nel caso della persona fisica, infatti, l’allungamento dei tempi processuali legittima al risarcimento perché compor- 1072 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 ta la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo e il ricorrente non ha alcun bisogno di dimostrare la lesione di una qualunque situazione giuridica soggettiva ulteriore rispetto a quest’ultima. Altrettanto potrebbe valere per la persona giuridica, che in questo modo sarebbe ammessa ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale connesso all’incertezza circa la propria situazione economica provocata dalla natura della controversia durata irragionevolmente. Quanto invece alle voci che solitamente compongono il c.d. danno morale soggettivo, esse potrebbero essere risarcite direttamente a favore dei rappresentanti legali dell’ente, che sono i soli ad averle realmente subite e che potrebbero concorrere nell’azione risarcitoria insieme all’ente stesso. Il problema perderebbe, peraltro, gran parte della sua importanza qualora anche per le persone giuridiche dovesse affermarsi la c.d. prova in re ipsa del danno non patrimoniale perché, salvo casi eccezionali, ciò comporterebbe la pressoché automatica liquidazione del danno; anche ammettendo, però, la riaffermazione della posizione favorevole ad una più rigorosa allegazione del danno non patrimoniale, i correttivi probatori già elaborati fino alla fine del 2003 dalla prima sezione della Cassazione potrebbero essere sufficienti a consentire un più ampio risarcimento a favore delle persone giuridiche, scongiurando così il pericolo di ricorsi al giudice europeo. ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA Quantum del danno patrimoniale e liquidazione equitativa a cura di MARCO BONA I. Danno alla persona: la rivitalizzazione del danno patrimoniale In questi ultimi anni, se non decenni, giuristi, magistrati, avvocati e medici legali si sono impegnati a fondo sul versante del risarcimento dei danni non patrimoniali (danno biologico in primis, danno morale, danno esistenziale, ecc.). Le contrapposizioni su queste voci sono state invero numerose, ma da ultimo, come si trae anche dalla decisione del 2006 delle Sezioni Unite della Cassazione (1), il sistema risarcitorio del danno non patrimoniale, nonostante l’indubbia necessità di ulteriori affinamenti, sembra ormai essersi definitivamente assestato e consolidato sulla seguente tripartizione: a) danno biologico; b) danno morale (la “sofferenza contingente”); c) il danno non patrimoniale da lesione di interessi garantiti dalla Costituzione o dalla legge (categoria entro cui si colloca anche il danno esistenziale). Ciò succintamente premesso, il dibattito sui danni non patrimoniali e la concentrazione degli sforzi sia degli interpreti e sia degli operatori su questo versante ha notevolmente ridimensionato, in primis nel contenzioso di tutti i giorni, l’interesse per il danno patrimoniale, prima al centro del sistema risarcitorio (2), poi spesso relegato ai margini. In particolare, alla base i consulenti tecnici, cioè i medici legali, hanno spesso mostrato di dedicare più attenzione ai risvolti biologici delle lesioni che ai riflessi delle stesse non solo sulle capacità e attitudini a produrre reddito, ma anche sulla possibilità dei danneggiati di attendere ad altre attività non propriamente lucrative, ma comunque fonte di risparmio se gestite in seno alla famiglia o effettuate in proprio nel caso dei single (attività domestiche, bricolage, giardinaggio, lavori di manutenzione, ecc.). Parimenti i consulenti tecnici hanno dedicato scarsa attenzione alle prospettive di spese mediche e di assistenza sanitaria. A loro volta gli avvocati delle vittime, certo non stimolati dalle relazioni tecniche né a loro volta di particolare stimolo verso i propri consulenti, hanno finito con il dedicare più sforzi alla prova e quantificazione dei danni non patrimoniali che di quelle patrimoniali, non adeguatamente supportati a livello probatorio, con allegazioni documentali limitate e capitolazioni insufficienti e carenti. A conferma di quanto si va qui affermando basti sfogliare gli elaborati dei periti di parte e dei consulenti d’ufficio: tutto danno biologico, scarsa attenzione per il danno patrimoniale, strettamente limitato a quanto “documentato”. La conseguenza è stata quindi quella di una sostanziale svalutazione del risarcimento dei pregiudizi patrimonia- li, malgrado la loro notevole incidenza sul patrimonio delle vittime, soprattutto - ma non solo - nei casi di macrolesioni. Il riferimento è ovviamente ai tradizionali danni da perdita e/o riduzione della capacità di produrre reddito, collegati al concetto di inabilità lavorativa specifica, nonché alle spese mediche, ma vi sono anche tutta un’altra serie di voci passate in secondo piano se non del tutto trascurate: il danno da perdita o da riduzione delle capacità concorrenziali sul mercato del lavoro, il danno da perdita o riduzione della capacità di svolgere attività domestiche e di utilità per la famiglia, il danno derivante dalla necessità di affrontare spese di viaggio (ad esempio, per recarsi a visite mediche, oppure, mutate le condizioni fisiche, per recarsi sul posto di lavoro), il danno per l’abbattimento di barriere architettoniche, ecc. La giurisprudenza di merito, infine, ha a sua volta frapposto al risarcimento integrale del danno patrimoniale una visione particolarmente ristretta delle conseguenze pecuniarie delle lesioni dell’integrità psicofisica, associando a questa tendenziale miopia una concezione della prova di questi pregiudizi schiacciata su prove strettamente documentali (fatture, ricevute, scontrini, dichiarazioni fiscali) e poco incline al ricorso alle prove presuntive, di estremo rilievo per i soggetti non percettori di reddito, per il calcolo del danno patrimoniale futuro, per il risarcimento degli altri pregiudizi pecuniari slegati dal parametro del reddito. In altri termini, soprattutto talune corti di merito hanno sviluppato una visione marcatamente “contabile” della prova del danno patrimoniale, fortunatamente criticata, come si vedrà oltre, dalla Suprema corte (nello specifico con riferimento alle spese mediche). L’esperienza giurisprudenziale degli ultimi anni denota invero un significativo mutamento di rotta, una nuova sensibilità per le potenzialità del danno patrimoniale nell’attuazione del principio della riparazione integrale del danno (3). Note: (1) Cass., sez. un. civ., 24 marzo 2006, n. 6572, in www.altalex.com, nonché in Resp. civ. pre., 2006, 138, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2006, 661. Per dei primi commenti alla decisione delle Sezioni Unite cfr. Bertonicini, Demansionamento ed onere della prova dei danni conseguenti, e Bilotta, Attraverso il danno esistenziale, oltre il danno esistenziale, in Resp. civ. prev., 2006, 1040 e ss. e 1050 e ss. (2) Rileva questo profilo Chindemi, Il «nuovo» danno patrimoniale, in Resp. civ. prev., 2006, 379. (3) Cfr. Chindemi, Il «nuovo» danno patrimoniale, cit., 378 e ss. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1073 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA II. Danno alla persona: perdita/riduzione della capacità lavorativa e delle capacità concorrenziali sul mercato del lavoro In merito ai riflessi delle lesioni psicofisiche sulla capacità del soggetto di produrre reddito pare opportuno premettere che spesso l’under-compensation di questi profili, soprattutto per quanto riguarda i risvolti sulla vita lavorativa futura della vittima, ha trovato le sue ragioni in una visione della riparazione del danno patrimoniale circoscritta ad una figura - quella del “danno da incapacità lavorativa specifica” - decisamente più ristretta rispetto al novero di pregiudizi pecuniari che possono manifestarsi in conseguenza delle limitazioni alla capacità di produrre reddito. A forza di demandare ai consulenti di esprimersi specificatamente sull’incidenza delle lesioni sulla capacità lavorativa specifica si è pervenuti a sacrificare tutta una serie di pregiudizi degni di rilievo, come ad esempio il danno da perdita o da riduzione delle capacità concorrenziali sul mercato del lavoro, cioè quel danno che discende dalla perdita o riduzione della capacità di inserirsi nuovamente o concorrere sul mercato del lavoro, da considerarsi in relazione alle particolarità che caratterizzano la situazione occupazionale nell’azienda e nel territorio in cui vive il danneggiato. Si pensi alla vittima che riporta l’amputazione di un arto: questa avrà ridotta la sua capacità lavorativa specifica (magari finirà seduto dietro una scrivania, con demansionamento e perdita di indennità o altri incentivi), ma vi è un danno ulteriore consistente nella perdita o riduzione delle sue capacità di concorrere sul mercato del lavoro, di trovarsi un’altra occupazione, soprattutto se soggetto giovane, agli inizi della carriera o ancora nella fase degli studi. Vi sono pure dei casi in cui il primo tipo di danno è assente oppure minimo, mentre il secondo assume notevole rilievo. Inoltre, il danno da perdita/riduzione della lavorativa è sovente stato esaminato con riferimento esclusivo all’attività concretamente svolta dalla vittima prima del sinistro e, dunque, si sono persi per strada i riflessi della lesione sulla capacità del danneggiato di svolgere attività lavorative di altro tipo, decisamente alla sua portata in base all’istruzione scolastica raggiunta oppure all’esperienza lavorativa maturata, senza contare l’incidenza delle lesioni sulle prospettive della vittima di avanzamento di carriera. Spesso questi pregiudizi, in quanto non oggetto di specifici quesiti e non riconducibili secondo almeno parte della dottrina medico legale nell’incapacità lavorativa specifica, hanno finito o per non essere riconosciuti o per essere svalutati tramite una loro collocazione in figure di danno sfuggenti quali il danno da maggiore usura (cui spesso non corrispondono liquidazioni alcune) oppure il danno alla capacità lavorativa generica, profilo semplicisticamente ricondotto in seno al danno biologico, categoria quest’ultima che in realtà non è idonea ad ospitare pregiudizi in tutto e per tutto a carattere reddituale/patrimoniale (spesso, ancora una volta, con mancata concreta liquidazione degli stessi). A questi rilievi si può poi aggiungere come altra ragione della svalutazione del danno patrimoniale in questione sia da rinvenirsi in 1074 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 automatismi creatisi tra la percentuale di invalidità individuati per il danno biologico e l’incidenza di siffatta invalidità sull’abilità alla produzione di reddito. Come si osservava, la giurisprudenza ha mostrato in questi anni di avere intrapreso un nuovo itinerario per ovviare a questi modi di concepire la tutela risarcitoria di chi abbia subito la lesione della capacità reddituale. In primo luogo, si è spezzato l’automatismo tra, da un lato, entità del danno biologico e, dall’altro lato, ravvisabilità del pregiudizio pecuniario: tale automatismo, a ben osservare e come ha frequentemente insegnato la pratica, spesso ha costituito non già una porta aperta a risarcimenti del danno patrimoniale anche laddove non sussistente, bensì, in senso opposto, si è posto quale ostacolo alla riparazione del danno da perdita/riduzione della capacità reddituale nei casi in cui il danno biologico risultava di modesta o media entità. La Suprema corte, in questa direzione e rivedendo sue posizioni più rigide (4), ha sì affermato che i postumi permanenti di modesta entità (cosiddetta “micropermanente”, correlata al mancato superamento del 10 per cento), di norma e salva diversa prova contraria (il cui onere incombe sul danneggiato), non incidono sulla capacità lavorativa specifica e rimangono valutabili soltanto come danno biologico (e, perciò, di tipo non patrimoniale), ma ha altresì rilevato che, mentre è agevole presumere con riguardo a quanti svolgono un’attività essenzialmente intellettiva - che i loro guadagni futuri rimarranno sostanzialmente invariati, venendo l’accertata lesione a produrre un pregiudizio esclusivamente nell’ambito del c.d. danno biologico, diversamente deve ritenersi nell’ipotesi del danneggiato che esplichi attività manuali, specie se particolarmente faticose e usuranti (5). In questo solco giurisprudenziale si segnala la sentenza Cass. n. 21497/2005, in cui si è affermato che il grado di invalidità di una persona determinato dai postumi permanenti di una lesione all’integrità psicofisica dalla medesima subita non si riflette automaticamente né tanto meno nella stessa misura sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e quindi di guadagno della stessa (6): ciò che conta è la prova della sussistenza di un danno patrimoniale apprezzabile in termini di perdita/riduzione della capacità lavorativa, a prescindere che l’invalidità biologica sia stata valutata in termini percentuali elevati, medi o modesti. Quanto al versante della nozione di danno patrimoniale da perdita/riduzione della capacità lavorativa la Suprema corte ha denotato di intendere tale categoria in senso ben più lato Note: (4) Cfr., ad esempio, Cass. civ., sez. III, 14 dicembre 2004, n. 23293, in Mass. giur. it., 2004, in CED Cassazione, 2004. (5) Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20317, in CED Cassazione, 2005, in Arch. giur. circolaz., 2006, 2, 136. Cfr. altresì App. Bari, 7 aprile 2005, in Infoutet. (6) Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2005, n. 21497, in Mass. giur. it., 2005, in CED Cassazione, 2005. ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA rispetto alla concezione tradizionale (7). Ciò emerge bene da quelle sentenze che si sono occupate dei soggetti non percettori di reddito al momento del fatto illecito. Ad esempio, i giudici di legittimità hanno ribadito come un danno patrimoniale da riduzione della capacità di guadagno possa essere riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza occupazione lavorativa e, quindi, senza alcun reddito: per la Cassazione, infatti, la mancanza di un reddito all’epoca dell’infortunio non può escludere il danno futuro collegato alla invalidità permanente che, proiettandosi nel tempo, andrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà un’attività remunerata (8). Fra i tanti esempi della giurisprudenza di merito si cita qui un precedente della Corte d’appello di Torino 11 maggio 2005, n. 781 (9), in cui, nel caso di lesione di media entità subita da un giovane che al tempo del sinistro faceva l’apprendista palchettista, si è dato ampio risalto, unitamente al risarcimento da riduzione della capacità lavorativa specifica, anche alla diminuzione della capacità concorrenziale sul mercato del lavoro, pregiudizio indubbiamente di natura patrimoniale e di certo non riducibile ad una mera componente del danno biologico. Quale prova deve essere fornita per la liquidazione dei pregiudizi pecuniari qui in questione? Anche sul punto la Cassazione ha fornito importanti indicazioni, che denotano un certo qual favor per il ricorso a schemi di tipo presuntivo. Ad esempio, la Suprema corte ha rilevato che nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente (nella specie, 25%) rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi (10). Già in precedenza, del resto si era affermato che il danno patrimoniale futuro va risarcito non solo nelle ipotesi in cui tale danno si produrrà con assoluta certezza, ma anche quando possa ritenersi accadere secondo “ragionevole previsione” (11). Il ricorso al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c. è stato perorato anche dalla giurisprudenza di merito, la quale, ad esempio, ha affermato che, una volta dimostrata la riduzione o la perdita della capacità lavorativa, deve ritenersi provato anche il relativo danno in termini di impossibilità o di limitate possibilità per il soggetto leso di svolgere la propria attività lavorativa o di iniziare in futuro un’attività lavorativa; tale prova può essere data anche in via presuntiva, purché sia dimostrata la perdita di capacità lavorativa specifica. Il fatto che il danneggiato non svolgesse alcuna attività all’epoca dei fatti, incide sui criteri di determinazione del danno da invalidità permanente, per cui si dovrà fare riferimento, in mancanza di un reddito, al triplo della pensione sociale, con riferimento all’epoca del sinistro (12). III. Lesioni personali e perdita/riduzione delle capacità di attendere a attività diverse da quelle produttrici di reddito La giurisprudenza già da tempo (13) ha messo compiuta- mente a fuoco come senza dubbio la casalinga svolga una vera e propria attività lavorativa apprezzabile anche ai fini del risarcimento, in via autonoma dal danno biologico, del danno patrimoniale, nonostante a tale impegno assolto nell’ambito domestico non si accompagni un reddito. In M. c. Assitalia S.p.A. (2000) (14) la Suprema corte ha ricordato che «il fondamento del diritto al risarcimento del danno inerente al lavoro della casalinga (specie quando è la componente di un nucleo familiare legittimo, e persino quando è la componente di un nucleo di convivenza stabile) è pur sempre di natura costituzionale: esso riposa sull’art. 4 della Costituzione che tutela qualsiasi forma di lavoro (e la scelta di lavorare per il proprio nucleo familiare concorre al consolidamento della famiglia e dunque al progresso materiale e spirituale della società …); ancora: l’art. 37 della Costituzione, nella seconda parte del primo comma, prevede che anche la donna lavoratrice debba avere spazi di libertà per l’adempimento della sua essenziale funzione familiare». Tra l’altro la Cassazione, nel precedente M. e altri c. Cattolica Ass. coop. a.r.l. e altri (1997) (15), ha affermato il seguente inequivocabile principio: «il danno subito dalla casalinga per la perdita e la riduzione della capacità lavorativa è risarcibile anche se essa non svolga faccende domestiche, in considerazione dell’opera di direzione e di governo della casa». Evidentemente, per la Suprema corte il ruolo della casalinga va apprezzato non solo in relazione allo svolgimento di attività materiali funzionali alla conduzione della casa (ad esempio, pulizia dell’abitazione, effettuazione della spesa, ecc.), ma innanzitutto con riferimento al ruolo che la casaNote: (7) Cfr. già ex plurimis Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 2003, n. 18945, in Arch. giur. circolaz., 2004, 1203; Cass. civ., sez. III, 7 agosto 2001, n. 10905, in Zacchia, 2002, 256, in cui si coglie il principio per cui “la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio per non avere il soggetto leso ancora raggiunto l’età lavorativa, ovvero per essere disoccupato, non giustifica di per se stessa la mancanza di un danno da lucro cessante legato all’invalidità permanente, che, proiettandosi per il futuro, verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa svolgerà un’attività remunerata”; Cass. civ., sez. III, 18 maggio 1999, n. 4801, in Assicuraz., 2000, II-2, 48. (8) Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2005, n. 26081, in Resp. civ., 2006, 278. (9) App. Torino, sez. III, 11 maggio 2005, n. 781, ined. (10) Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2005, n. 21497, in Mass. giur. it., 2005, in CED Cassazione, 2005. Nella specie, relativa a giovane minorenne privo di reddito, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, nel respingere la domanda con l’applicazione dei principi elaborati in materia di lesioni micropermanenti e traendo argomento anche dalla difficoltà di presunzione sulla futura attività lavorativa del ragazzo, aveva ignorato il disposto dell’art. 1226 c.c. in tema di liquidazione equitativa. (11) Trib. Como 12 ottobre 2001, in Gius., 2002, 1086. Cfr. altresì Cass., sez. III, 27 luglio 2001, n. 10291, in Zacchia, 2002, 254 (12) App. Catania sez. II, 19 settembre 2005, in Giur. aetnea, 2005, 3, 10. (13) In questo senso cfr. Cass., sez. III, 22 novembre 1991, n. 12546, in Monateri e Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 238, in Giur. it., 1992, I,1, 1036. (14) Cass., sez. III, 11 dicembre 2000, n. 15580, in Danno e responsabilità, 2001, 587, con nota di Maninetti. (15) Cass., sez. III, 6 novembre 1997, n. 10923, in Danno e responsabilità, 1998, 230, con nota di Violante, in Resp. civ. prev., 1998, 71, con nota di Ziviz. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1075 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA linga svolge all’interno del focolaio domestico, ruolo «certamente non paragonabile» al «lavoro espletato dalla collaboratrice famigliare», attesa la «maggiore estensione ed intensità» dell’apporto della «madre di famiglia», cui «di norma» si accompagna «un senso di responsabilità ineguagliabile» (16). Anzi, com’è dato evincere dalla citata sentenza in M. e altri c. Cattolica Ass. coop. a.r.l. e altri, il risarcimento del danno qui in esame può prescindere dallo svolgimento in concreto di attività manuali di conduzione dell’ambiente domestico, essendo sufficiente che il soggetto assolva a ruoli di direzione e di governo della casa. I giudici di legittimità, dunque, non solo hanno ampiamente riconosciuto, tra l’altro con ampio ricorso alla prova presuntiva (in primis, l’id quod plerumque accidit) (17), la risarcibilità del danno patrimoniale in capo alla casalinga, ma hanno altresì delineato criteri piuttosto precisi in ordine alla sua liquidazione. In particolare, giacché casalinga e domestica non possono essere poste sullo stesso piano, essendo l’ambito “lavorativo” della prima di gran lunga più esteso e complesso, a partire dalle responsabilità e dal coinvolgimento nell’ambito famigliare, la Cassazione ha in più occasioni ritenuto corretta l’impostazione in base alla quale, per stabilire il reddito figurato della casalinga, si muove dal reddito medio di una collaboratrice domestica, andando poi ad incrementare in via equitativa (in una misura generalmente collocata intorno al 20%) siffatto parametro di base alla luce delle maggiori funzioni alle quali la casalinga assolve rispetto alla colf. In altri termini, per orientamento ormai consolidato della Suprema corte «non è affatto improprio il riferimento al reddito percepito da una colf di prima categoria quale parametro di valutazione del danno reale inferto alla donna infortunata» (18), ma purché ciò avvenga «con gli adattamenti suggeriti dalla maggiore ampiezza di compiti» (19). La Cassazione ha altresì riconosciuto la legittimità del ricorso, in via equitativa, al criterio offerto dal parametro del triplo della pensione sociale (20), ferma restando, comunque, la possibilità di assumere a riferimento il parametro costituito dalla retribuzione media di una domestica. Larga parte della giurisprudenza di merito si è venuta a porre nello stesso solco tracciato dalla Suprema Corte (21), sperimentando essenzialmente due parametri per la liquidazione del danno in questione, tra i quali, in via preferenziale, quello offerto dalla retribuzione di una domestica e, in via sussidiaria, il parametro minimo costituito dal triplo della pensione sociale. In D. e altri C. G. e altri, ad esempio, il Tribunale di Treviso (22) ha stabilito che al risarcimento del danno alla capacità lavorativa della casalinga occorre procedere con liquidazione tabellare, considerando il reddito figurativo annuo dell’infortunata (nella specie calcolato dal giudicante sulla base di lire 1.800.000 mensili, valore ritenuto congruo per quanto notorio in ordine al valore attuale, economico e sociale dell’attività di casalinga cui inerisce anche il governo direzionale della casa e l’organizzazione della vita familiare), l’età del soggetto leso al tempo del sinistro ed il relativo coefficiente di capitalizzazione tratto 1076 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 dalle tabelle relative al censimento del 1981 pubblicate in Quaderni del C.S.M. detratto lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa. A sua volta la Corte d’Appello di Napoli in S. c. Soc. Nuova Maa assicur. (23), ribadendo che i postumi permanenti che incidono, rendendolo più difficoltoso, sullo svolgimento della attività di una casalinga, costituiscono causa di un danno patrimoniale, ha affermato come siffatto pregiudizio vada «preferibilmente liquidato sulla base del reddito di una collaboratrice domestica», lasciando tuttavia aperta, in assenza della prova della entità di tale reddito, la strada del parametro offerto dal triplo della pensione sociale. Sempre la giurisprudenza ha poi ritenuto che il principio della risarcibilità del danno patrimoniale alla casalinga ed i criteri di valutazione appena delineati possono trovare applicazione anche con riferimento al periodo di invalidità temporanea. In particolare, a questo riguardo si richiama qui la sentenza del Tribunale di Venezia in N. c. P. e altri (24), che, in un caso di gravidanza non programmata, ha ritenuto risarcibile in capo alla casalinga, con riferimento al periodo di cd. astensione obbligatoria dal lavoro, anche il danno patrimoniale da lucro cessante, costituito dal maggiore affaticamento e dalla maggiore attenzione al lavoro domestico, in esso compresi l’esclusione dei lavori più pesanti, prima del parto, ed un necessario minore impegno in detti lavori, dopo il parto, stante l’evidente e necessario tempo da dedicare al neonato, con sottrazione alle altre incombenze domestiche. Secondo questo indirizzo, dunque, non è strettamente necessaria, al fine del risarcimento del danno in questione, la dimostrazione di un danno emergente derivante dai costi di una collaboratrice domestica impiegata in qualità di sostituita durante il periodo di convalescenza. Si rileva, infine, come la giurisprudenza abbia altresì affermato come i famigliari della casalinga deceduta possano agire per la perdita dell’apporto economico derivante dall’atNote: (16) Le espressione sono state tratte da Cass., sez. III, 22 novembre 1991, n. 12546, cit. (17) È dato evincere dalla giurisprudenza come di fatto il risarcimento del danno in questione abbia luogo a fronte della dimostrazione dello status di casalinga, con variazioni del quantum debeatur in considerazione della composizione del nucleo famigliare. Rimane ad ogni modo chiara l’importanza per l’attore di allegare ogni circostanza utile a meglio personalizzare il suo danno. (18) Così Cass., 22 novembre 1991, n. 12546, cit. (19) Cass., sez. III, 6 novembre 1997, n. 10923, cit. (20) Cfr., ad esempio, F. e altri C. Soc. Unipol assicur. e altri, Cass. civ., sez. III, 10 settembre 1998, n. 8970, in Mass. giur. it., 1998. (21) Cfr., ad esempio, App. Milano 26 febbraio 2002, in Giur. milan., 2002, 388. (22) Trib. Treviso, 6 aprile 2000, in Arch. giur. circolaz., 2001, 43. Cfr. altresì Trib. Treviso 11 aprile 1996, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1996, 1002. (23) App. Napoli 22 settembre 1998, in Riv. Giur. circolaz. e trasp., 2000, 337. (24) Trib. Venezia 10 settembre 2002, in Giur. di merito, 2002, f. 6. ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA tività domestica svolta dalla vittima (25). In particolare, nel precedente C. e altri c. Soc. Uniass assicur. e altri (26) la Suprema Corte si è così espressa: «è noto che il diritto al risarcimento del danno patrimoniale che spetta ai congiunti di persona deceduta a causa di altrui fatto illecito, richiede l’accertamento che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui presumibilmente avrebbero continuato a fruire in futuro. Costituisce, ora, danno patrimoniale risarcibile a norma dell’art. 2043 c.c. quello subito dal marito e dal figlio minore per il decesso del congiunto (rispettivamente moglie e madre) a seguito di altrui fatto illecito anche nel caso in cui quest’ultimo fosse stato privo di un effettivo reddito personale. Tale danno, infatti, si concreta nella perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni attinenti alla cura, all’educazione ed alla assistenza cui il marito ed il figlio avevano ed hanno diritto nei confronti della rispettiva moglie e madre nell’ambito del rapporto familiare stesso, prestazioni che sono economicamente valutabili come qualsiasi altra attività corrispondente al lavoro della donna casalinga, lavoro, peraltro, caratterizzato da un ineguagliabile senso di responsabilità, nonché da spirito di generoso adempimento dei doveri e di moglie e di madre che le competono nella gestione della comunità familiare. Va, di poi, considerato che il legislatore ha disatteso il concetto che per la liquidazione del danno patrimoniale debba farsi necessariamente riferimento ad un lavoro retribuito e ne è prova quanto statuito dall’art. 4 della L. 39-77 che ha codificato un criterio minimo per la liquidazione del danno nel caso in cui il reddito della persona non sia comprovabile con la documentazione di cui al comma I del predetto articolo. Tale norma, orbene, può trovare certamente applicazione a favore di una donna che esplichi mansioni domestiche non retribuite materialmente, trattandosi di attività il cui reddito definito "figurativo" non è appunto comprovabile nei modi e termini di cui alla prima parte della norma citata». Ciò ricordato, indubbiamente tra gli sviluppi più importanti della giurisprudenza più recente vi è da segnalare, in linea con i precedenti sopra richiamati, la considerazione attribuita alle attività di carattere domestico. Non solo la Cassazione ha ribadito la risarcibilità del danno patrimoniale in capo alla casalinga rilevando nuovamente che il diritto al risarcimento di siffatto danno riposa sui principi di cui agli artt. 4 e 37 della Costituzione (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro, ed i diritti della donna lavoratrice) (27) e che tale danno sussiste anche nel caso in cui la casalinga sia solita affidare la parte materiale del proprio lavoro a persone estranee (28), ma, ha altresì asserito - questo il dato innovativo (29) - che qualunque soggetto che perda in tutto od in parte la propria capacità di svolgere lavori domestici (nella specie, il single), in precedenza effettivamente svolti in proprio favore, ha diritto al risarcimento del conseguente danno patrimoniale di cui dia prova, nelle forme del danno emergente ed, eventualmente, del lucro cessante (30). Pare, dunque, doversi trarre da siffatta giurisprudenza come, laddove vi sia adeguata prova, sia risarcibile anche il danno conseguente in capo al soggetto, che, vittima di lesioni personali e pur non essendo un casalingo, non sia più in grado di svolgere atti- vità rientranti nella sua vita domestica, come ad esempio assistere il proprio partner nella spesa, oppure nella conduzione della casa, o in altre attività funzionali, come il giardinaggio o lavori di manutenzione e riparazione, ivi compreso il bricolage (attività queste ultime che costituiscono un evidente risparmio economicamente apprezzabile per una famiglia). Si pensi altresì al caso dello studente, che vive fuori casa, oppure al single, che s’arrangia nella conduzione della casa, affaticandosi tra attività lavorativa e incombenze domestiche. In merito alla liquidazione del danno patrimoniale in capo alla casalinga la Cassazione, nei suoi precedenti più recenti, ha continuato a ritenere validi entrambi i criteri sopra ricordati. Infatti, ha ritenuto possibile il riferimento al criterio del triplo della pensione sociale di determinazione della misura del reddito previsto dall’art. 4 della legge 26 febbraio 1977, n. 39 (oggi art. 137 Cod. ass. (31)), pur essendo applicabile esclusivamente nei confronti dell’assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti: per i giudici di legittimità, infatti, siffatto criterio può essere utilizzato dal giudice, nell’esercizio del suo potere di liquidazione equitativa del danno patrimoniale conseguente all’invalidità quale generico parametro di riferimento per la valutazione del reddito figurativo della casalinga (32). Parimenti, la Cassazione ha altresì avvallato il secondo criterio, rilevando che, consistendo il danno in questione nella perdita di una situazione di vantaggio e non rimanendo esso escluso neanche dalla mancata sopportazione di spese sostitutive, legittimo risulta il riferimento, nel relativo procedimento di liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare, con gli opportuni adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza dei compiti espletati dalla casalinga (33). Note: (25) Cass. civ., sez. III, 10 settembre 1998, n. 8970, cit.; Cass., sez. III, 3 novembre 1995, n. 11453, in Resp. civ. e prev., 1996, 957, con nota di Miotto. Cfr. altresì Trib. Milano 1 aprile 1993, in Corr. giur., 1993, 1219, con nota di Polotti di Zumaglia; Trib. Milano 16 luglio 1992, in Resp. civ. e prev., 1993, 348, con nota di Comandè. (26) Cass., sez. III, 3 novembre 1995, n. 11453, cit. (27) Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20324, in Arch. giur. circolaz., 2005, 1189; Cass. civ., sez. III, 9 febbraio 2005, n. 2639, in Arch. giur. circolaz., 2005, 963, in Zacchia, 2005, 384; Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005, n. 572, in Danno e resp., 2005, 5, 564. (28) Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005, n. 572, cit. (29) Rilevato anche da Chindemi, Il «nuovo» danno patrimoniale, cit., 385. (30) Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2005, n. 4657, in Resp. civ. on line, 2005, in Arch. giur. circolaz., 2005, 576, in Foro it., 2005, 1, 2756, in Giur. it., 2005, 2054, in Arch. giur. circolaz., 2006, 2, 192. (31) Sull’art. 137 del Codice delle Assicurazioni si rinvia a Bona, Il danno alla persona nel Codice delle assicurazioni e nel nuovo processo civile, Milano, 2006, 22 e ss. (32) Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005, n. 15823, in Mass. giur. it., 2005, in CED Cassazione, 2005. (33) Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005, n. 572, cit. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1077 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA IV. Danni patrimoniali da uccisione Sul punto la Suprema Corte ha confermato che in caso di morte di un figlio in giovane età, ai fini del risarcimento del danno patrimoniale ai genitori, si deve tenere in considerazione l’apporto che la vittima avrebbe dato all’attività economica del padre, allorché tale apporto non si fondi su semplici speranze o su ipotetiche eventualità, ma su una ragionevole previsione, affidata ad un criterio di ponderata probabilità, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (34). V. Spese mediche Sul tema, per semplificare, si distinguerà tra spese già affrontate al momento dell’instaurazione del giudizio e spese future, cioè che si prospettano dopo la decisione del caso. In merito alla prova delle prime va debitamente segnalata la sentenza n. 8827/2003 (35), che ha affermato che nel caso di liquidazione delle spese affrontate in diciotto anni dai genitori del minore cerebroleso per la necessaria, pressoché costante, assistenza dello stesso, incapace di svolgere anche le più elementari funzioni, è in re ipsa l’impossibilità ovvero la grande difficoltà (sufficiente ad integrare i presupposti di cui all’art. 1226 c.c.) di provare nel loro preciso ammontare l’entità delle spese affrontate. Per i giudici di legittimità appartiene invero alle nozioni di comune esperienza che in ipotesi siffatte si impongano esborsi straordinari per soddisfare le più variegate esigenze, spaziandosi dai necessari adattamenti della casa di abitazione ai presidi sanitari, dagli accorgimenti particolari per l’alimentazione e l’igiene personale alla vigilanza (costante) ed alle cure, con inevitabile pervasione di ogni aspetto dell’esistenza di chi si occupi del soggetto, anche sotto il profilo strettamente economico; sicché la predisposizione delle “prove” delle spese di tradurrebbe nell’impossibile (o gravemente difficoltosa) contabilizzazione della vita stessa, inesigibile soprattutto da parte di chi abbia preoccupazioni ben più incombenti di quella costituita dalla imputazione di ogni singola erogazione di denaro, tra l’altro non sempre documentabile e non sempre univocamente collegabile alla situazione che la abbia provocata (36). In merito ai danni futuri la Cassazione ha ribadito la piena risarcibilità del danno patrimoniale futuro corrispondente ai costi che il danneggiato dovrà sostenere per sottoporsi ad un intervento chirurgico necessario per migliorare la funzionalità di un arto danneggiato a seguito di un illecito posto in essere da un terzo (37). Il risarcimento di siffatte voci di danno è ovviamente determinato dalla prova fornita. Nei casi di macrolesioni non è tuttavia difficile dimostrare la sussistenza di spese ragionevolmente prevedibili in futuro. In realtà il problema, che ad oggi non annovera precedenti della Suprema corte, è in quale misura si debba tenere conto delle prestazioni che possono essere rese dal S.S.N. e se la disponibilità del servizio pubblico possa condurre a ridurre se non escludere del tutto, come talvolta è sostenuto negli elaborati di taluni medici legali, la 1078 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 configurabilità del danno in questione. Al riguardo, dovrebbe ritenersi iniquo non assegnare al danneggiato un’adeguata copertura economica, che gli permetta in futuro di affrontare con serenità, completezza e senza lunghe attese e trafile burocratiche i costi necessari alla sua cura e assistenza. Del resto, la circostanza che alcune spese possano essere passate dal S.S.N. non dovrebbe costituire un dato determinante e dirimente, a partire dal fatto che la situazione economica attuale e gli indirizzi in materia di assistenza sanitaria ed infermieristica domiciliare denotano come alcuna certezza sia garantita su questo versante. Notori sono altresì i lunghi tempi di attesa che i macrolesi si trovano a fronteggiare per ricevere i benefici del S.S.N., peraltro sempre di più limitati anche a livello di qualità (si pensi, ad esempio, alle protesi oppure alle carrozzine, che il S.S.N. mette a disposizione dei danneggiati: si tratta nella maggior parte dei casi di modelli basilari e privi di conforti anche essenziali; anzi, talvolta le attrezzature e le protesi del S.S.N. risultano addirittura vetuste, di gran lunga inferiori di qualità rispetto a quelle che la vittima, disponendo di adeguate risorse economiche, può procurarsi privatamente). VI. Danni alla persona e da uccisione: la giurisprudenza della Corte di Strasburgo Di notevole interesse sul versante dei danni patrimoniali da lesioni personali e da uccisione risultano alcune pronunce rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricordandosi qui incidentalmente l’obbligo delle corti italiane di conformarsi alla giurisprudenza di Strasburgo (38). La Corte in questione denota un approccio piuttosto flessibile quanto alle prove richieste per il riconoscimento dei danni patrimoniali. Ad esempio, come emerge dal precedente Ö. v. Turkey (2002), le spese funeratizie sono ritenute risarcibili anche in assenza di una prova specifica, cioè di prova documentale, ciò su una “equitable basis”. Il principio della valutazione in via equitativa, con conseguente attenuazione del carico probatorio gravante sui ricorrenti, trova altresì applicazione costante con riferimento alla perdita del supporto economico subito dalle vittime secondarie nei casi di danni da uccisione (“loss of support”, “loss of earnings”, “loss of income” o “loss of potential financial support”), ad esempio laddove la vittima primaria sia un disoccupato o, comunque, non sia possibile offrire adeguata prova dell’entità del reddito percepito. Al riguardo si segnala in particoNote: (34) Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2005, n. 8002, in Resp. civ. on line, 2005, 660. (35) Cass., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827, in Giur. it., 2004, 1129, in Danno e resp., 2003, 8-9, 819. (36) Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827, cit. Cfr. inoltre Cass. 1 dicembre 1999, n. 13358, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 2000, 723 (37) Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2005, n. 16225, in Resp. civ., 2005, 12, 1042. (38) Su questo specifico profilo si rinvia amplius a Bona, Il danno alla persona nel Codice delle assicurazioni e nel nuovo processo civile, cit., 375 e ss. ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA lare il precedente V. v. Bulgaria (2000) (39), che prendeva le mosse dal decesso di uno zingaro, marito e padre di tre figli. La ricorrente aveva allegato come il marito fosse il principale sostegno economico della famiglia, rilevando tuttavia di non essere in grado di fornire alcuna prova documentale attestante il supporto fornito dal de cuius, atteso che questi prestava i suoi servizi in cambio direttamente di beni o di alimenti e, quindi, il profilo reddituale della sua attività non poteva essere in alcun modo documentato, come del resto per la maggior parte degli zingari residenti in Bulgaria, costretti ad accettare lavori in nero. Nello specifico la ricorrente aveva posto in luce che, se in casi come il suo si fosse richiesta, quale requisito imprescindibile, una prova documentale, non sarebbe stato allora mai possibile procedere ad alcun risarcimento a favore di vittime rom o altre consimili tipologie di vittime. La Corte, convinta che effettivamente la ricorrente si trovasse a sostenere un pregiudizio economico (cioè che questa “must have suffered pecuniary damage in the form of loss of income”) ha gestito la soluzione del caso “on an equitable basis”: “the Court notes that the applicant’s claim is based on the fact that she was living with Mr T. and that, as alleged by her, he was providing for the family, and would have continued to do so if he were alive”. VII. Il danno da perdita di chance La giurisprudenza degli ultimi anni ha altresì confermato la risarcibilità del danno da perdita di chance economicamente apprezzabili, senza aggiungere nulla di nuovo ai principi già affermati. La Suprema corte ha così ricordato che il creditore che voglia ottenere, oltre al rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di «chances» - che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione - ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (40). In altri termini, per la Cassazione ai fini della risarcibilità del pregiudizio in questione è necessario che sia dimostrata la sussistenza di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, ma pur sempre allegando specifiche circostanze di fatto (41). VIII. Pregiudizi pecuniari e equo indennizzo ex art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89 Capitolo a parte è costituito dal danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89/2001, tema al quale la Cassazione ha dedicato più pronunce negli ultimi anni. In particolare, i giudici di legittimità hanno tenuto a rimarcare come il danno patrimoniale risarcibile in applicazione di tale norma sia soltanto quello configurabile quale conseguenza della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, cioè quello arrecato dal pro- lungarsi della causa oltre il termine ragionevole, che costituisce l’effetto immediato e diretto di tale ritardo al quale deve ricollegarsi sulla base di una normale sequenza causale (restando a carico della parte che agisce per il suo riconoscimento l’onere di dimostrare rigorosamente il pregiudizio patrimoniale lamentato), mentre non è da considerarsi tale il danno subito dalla parte vittoriosa a cagione del perdurare del fatto lesivo della parte soccombente, né quello - da inadempimento o da illecito extracontrattuale - di cui si controverte nella causa antecedente, il cui soddisfacimento dipende unicamente dall’esito della causa e il cui ritardo pregiudizievole può essere fatto valere nella causa suddetta, né quello costituito dalle spese e dagli oneri sostenuti in detto procedimento per far valere il proprio diritto leso, ma unicamente lo specifico pregiudizio che sia derivato alla parte dal fatto che la controversia si è eccessivamente protratta nel tempo e che la sua soluzione è stata ottenuta con ingiustificato ritardo ovvero non è stata ancora conseguita pur essendo trascorso un lasso di tempo ritenuto dalla legge irragionevole (42). La Cassazione ha altresì affermato il danno patrimoniale risarcibile per l’eccessiva durata dei processi, pur essendo circoscritto esclusivamente alle conseguenze negative sul patrimonio della parte derivanti, in via immediata e diretta, dal prolungarsi della causa oltre il suo termine ragionevole, comprende anche il pregiudizio subito per perdita di “chances”, se l’interessato dimostra, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, che la indebita protrazione del processo ha impedito il verificarsi di concrete ed effettive occasioni suscettibili di procurargli risultati economici (43). Note: (39) Cfr. altresì Ö. and Others v. Turkey, 2004. (40) Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2005, n. 1752, in Guida al Diritto, 2005, 9, 91, in Zacchia, 2005, 385, in Arch. giur. circolaz., 2005, 827. (41) Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2005, n. 711, in Guida al Diritto, 2005, 16, 53, con nota di Madeo. Cfr. altresì App. Roma 15 febbraio 2005, in Resp. civ., 2005, 569. (42) Cass. civ., sez. I, 19 gennaio 2005, n. 1094, in Mass. giur. it., 2005 (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato il decreto impugnato che, con riferimento alla ritenuta violazione del termine di durata ragionevole di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro, senza considerare la natura risarcitoria dell’obbligo gravante sul datore di lavoro, qualora venga accertata la illegittimità del licenziamento, e senza valutare, ai fini della quantificazione del danno, l’esito del giudizio irragionevolmente protrattosi, aveva riconosciuto al datore di lavoro, a titolo di danno patrimoniale, l’importo delle indennità corrisposte al lavoratore, "ex" art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per l’accertato periodo di irragionevole durata del processo, attribuendo in tal modo al giudizio di equa riparazione la funzione di un mezzo attraverso il quale replicare il merito della precedente controversia); Cass. civ., sez. I, 2 marzo 2005, n. 4451, in Mass. giur. it., 2005 (nella specie, il ricorrente, nel lamentare l’eccessiva durata di un giudizio di reintegrazione nel possesso, aveva chiesto il risarcimento del danno consistente nel lucro cessante derivante dalla indisponibilità dell’immobile per tutto il corso della causa); Cass. civ., sez. I, 16 febbraio 2005, n. 3118, in CED Cassazione, 2005; Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2005, n. 8603, in CED Cassazione, 2005. (43) Cass. civ., sez. I, 28 settembre 2005, n. 18953, in Impresa, 2005, 1568, con nota di Pezzi. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1079 ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA In merito alla risarcibilità del danno da perdita di chances da durata eccessiva del processo va segnalato peraltro, ancorché risalente, un precedente della Corte di Strasburgo, che ha per l’appunto accolto la categoria del danno da perdita di chance, “loss of opportunity” nell’accezione inglese. Il riferimento è in particolare al caso M. M. v. Portugal (44). Nel caso di specie, il ricorrente, che aveva riportato delle gravi lesioni personali in un sinistro stradale, aveva adito, ai sensi dell’art. 6 (1), la Corte per l’eccessiva durata dei procedimenti (il primo grado era stato instaurato nel 1977; la decisione finale della Corte suprema era intervenuta nel 1987, dieci anni dopo). Il ricorrente lamentava, tra le varie voci di danno, di non essere stato in grado di conseguire in concreto il risarcimento che gli sarebbe spettato in base alla sentenza definitiva della Suprema corte, poiché al momento dell’esecuzione della decisione era emerso che la compagnia assicuratrice ormai da tempo era stata messa in liquidazione e, infine, nel 1988 era stata dichiarata insolvente. Questa situazione aveva costretto il ricorrente a contrarre degli ingenti prestiti per le sue cure mediche, con la conseguenza di trovarsi esposto a sostenere gli interessi connessi. La Corte, pur ritenendo che non sussistesse alcuna certezza che una minore durata delle diverse fasi di giudizio sarebbe stata tale da permettere al ricorrente di ottenere il risarcimento accordatogli, ha comunque concluso come il medesimo fosse stato privato della possibilità di evitare la contrazione di prestiti, riconoscendo dunque come risarcibile il danno, di natura pecuniaria, da “loss of opportunities”. IX. Danno patrimoniale e compensatio lucri cum damno Sul tema la giurisprudenza ha ribadito i principi già conso- 1080 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 lidati, e cioè che, perché possa applicarsi il principio della compensatio lucri cum damno, è necessario che il vantaggio economico sia arrecato direttamente dal medesimo fatto concreto che ha prodotto il danno. Dunque, la Cassazione è tornata ad affermare che dall’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno alla persona (patrimoniale o biologico) non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione d’inabilità o di reversibilità, oppure a titolo di assegni, di equo indennizzo, o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all’invalidità: per i giudici di legittimità, infatti, tali erogazioni si fondano su un titolo diverso rispetto all’atto illecito, e non hanno finalità risarcitorie (45). Sulla scorta dello stesso principio la Cassazione ha affermato che, qualora la cosa danneggiata per effetto di riparazione acquisti maggior valore o, trattandosi di cosa produttiva, diminuiscano le spese di gestione, il relativo vantaggio - determinabile dal giudice in via equitativa - va detratto dal risarcimento, non rilevando che l’intervento eseguito (nella specie: rifacimento integrale di vasche ed argini di una salina in luogo del restauro delle strutture danneggiate) fosse l’unico praticabile, nonché economicamente meno dispendioso di altri rimedi (46). Note: (44) (1988) 13 E.H.R.R. 517. (45) Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2005, n. 17764, in Guida al Diritto, 2005, 40, 62. (46) Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2005, n. 13401, in CED Cassazione, 2005. GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI Art. 2048 c.c. La responsabilità per il danno da autolesione CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 18 novembre 2005, n. 24456 Pres. Giuliano - Rel. Trifone - P.M. Gambardella (conf.) - N. R. ed altri c. Ministero dell’istruzione e dell’università ed altri Responsabilità civile - Danno cagionato dall’allievo a se stesso - Responsabilità dell’istituto - Natura - Fattispecie. (c.c. artt. 1218, 2048) Nelle ipotesi di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità della scuola e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale. Nei rapporti tra l’istituto scolastico e l’alunno, infatti, si instaura un vincolo negoziale in seguito all’accoglimento della domanda d’iscrizione, mentre la particolarità del ruolo assunto dal precettore fa sorgere a suo carico, per ‘contatto sociale’, un obbligo non solo di istruire ma anche di proteggere e vigilare sui minori. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da cd. autolesione è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola, né all’insegnante. Svolgimento del processo ... Omissis... Motivi della decisione I ricorsi, impugnazioni distinte della medesima sentenza, sono riuniti (art. 335 c.p.c.). Con l’unico mezzo di doglianza - deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 2048 e 2697 c.c. - i ricorrenti principali criticano l’impugnata sentenza perché il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto del fatto che, potendo la responsabilità di cui all’art. 2048 c.c. essere esclusa dalla dimostrazione di non avere potuto impedire il fatto, nella specie detta prova non era stata fornita, sicché si sarebbe dovuta affermare la presunzione di colpa per inosservanza dell’obbligo di sorveglianza in quanto l’infortunio si era verificato nel tempo in cui la minore era affidata alla scuola. Il motivo non può essere accolto. In tema di danno cagionato dall’alunno a se stesso, le Sezioni Unite di questa Corte, intervenute a dirimere un contrasto giurisprudenziale sulla questione, con la sentenza n. 9346/2002 hanno stabilito che la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso, quanto all’istituto scolastico, che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazio- ne di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che - quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico - tra insegnante ed allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da cd autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola, né all’insegnante. Tanto premesso - pur dovendo questo giudice di legittimità, facendo uso dei poteri correttivi consentitigli dalla norma di cui all’art. 384, secondo comma c.p.c., precisare che nella specie si sarebbe dovuto fare applicazione non della norma di cui all’art. 2048 c.c., ma dei principi in materia di responsabilità contrattuale per stabilire della fondatezza o meno della pretesa risarcitoria avanzata dai ricorrenti principali - osserva questa Corte che, anche rispetto alla diversa qualificazione giuridica che DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1081 GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI occorre dare all’azione esperita, la decisione di rigetto non è censurabile, in quanto risulta acquisita agli atti di causa, secondo l’espresso accertamento compiuto dal giudice del merito, la prova che nessun addebito di culpa in vigilando o di altra omissione di doverose cautele di sorveglianza può essere rivolto alla condotta dell’insegnante, cui al momento l’alunno era affidato, data la repentinità con cui l’incidente ebbe a verificarsi. La Corte territoriale, infatti, ha giudicato imprevedibile e, perciò, non prevenibile la improvvisa caduta dalla sedia della piccola M. G., in ciò ravvisando la situazione tipica di esclusione di responsabilità consistente nel caso fortuito, che, anche secondo i precedenti arresti di questo giudice di legittimità (Cass. n. 5668/2001; Cass. n. 1683/97), si realizza qualora vi sia la dimostrazione che la vigilanza è stata svolta nella misura dovuta; che non è stata omessa l’adozione, in via preventiva, di misure organizzative e disciplinari idonee ad evitare una situazione di pericolo; che l’azione dannosa è stata in concreto imprevedibile e repentina. La decisione sul punto è conforme a legge ed è sorretta da adeguata e logica motivazione, rispetto alla quale i ricorrenti non evidenziano vizi logici, ma sostanzialmente richiedono in questa sede l’inammissibile riesame del materiale probatorio per farne derivare una conclusione diversa da quella cui è pervenuta la Corte napoletana. Il ricorso principale, pertanto, è rigettato e in tale pronuncia resta assorbito il ricorso incidentale della società A. S.p.A., il cui esame la parte istante aveva espressamente condizionato all’accoglimento dell’impugnazione principale. Con il primo motivo dell’impugnazione incidentale deducendo la violazione delle norme di cui agli art. 112 e 100 c.p.c. e 61, secondo comma della legge n. 312 del 1980 - la ricorrente incidentale P. S. lamenta che il giudice di secondo grado, pure avendo riconosciuto l’applicabilità a suo favore del suddetto art. 61, non ha dichiarato anche la sua carenza di legittimazione passiva in relazione alla domanda di accertamento della sua responsabilità. Il motivo non è fondato, poiché non sussiste l’interesse della ricorrente incidentale ad impugnare la sentenza della Corte napoletana. La quale, infatti, nella lettura che occorre farne nel collegamento tra motivazione e dispositivo, mentre in motivazione ha espressamente precisato che nei confronti di P. S. non era stata proposta alcuna istanza risarcitoria e che, comunque, se detta domanda fosse stata proposta, si sarebbe reso necessario, in applicazione della norma di cui all’art. 61, secondo comma della legge 11 luglio 1980, n. 312, negare la sua legittimazione a contraddire; in dispositivo, poi, indicando che veniva accolto l’appello del Ministero, avente ad oggetto proprio l’accertamento dell’assenza di colpa dell’insegnante, ha logicamente ed implicitamente ribadito, ancorché con formulazione letterale non del tutto perspicua, che anche l’appello incidentale della S., esso pure avente ad oggetto 1082 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 l’accertamento negativo di ogni sua culpa in vigilando, veniva accolto. Del resto, la pronuncia accessoria sulle spese dell’intero giudizio, che ha riguardato anche la posizione della S., non sarebbe altrimenti giustificata ove il giudice d’appello avesse veramente omesso di provvedere sul suo appello incidentale. Con il secondo motivo dell’impugnazione incidentale deducendo la violazione della norma di cui all’art. 91 c.p.c. - la stessa ricorrente incidentale denuncia che, in conseguenza della carente sua legittimazione passiva, il giudice del merito avrebbe dovuto condannare gli attori in prime cure alle spese a suo favore di entrambi i gradi del giudizio. Anche questa censura, la quale investe la decisione di totale compensazione delle spese dell’intero giudizio, non può essere accolta. La pronuncia di totale compensazione è stata adottata nella ritenuta sussistenza dei giusti motivi (art. 92, secondo comma c.p.c.), dei quali l’impugnazione non assume l’insussistenza né denuncia l’inconsistenza o l’evidente erroneità. È giurisprudenza costante, infatti, che in tema di spese processuali la valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle stesse rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito; non richiede specifica motivazione; quale espressione di un potere discrezionale, attribuito dalla legge, è incensurabile in sede di legittimità, salvo che non risulti violato il principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero che la decisione del giudice di merito sulla sussistenza dei giusti motivi sia accompagnata dall’indicazione di ragioni palesemente illogiche, tali da inficiare lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto. Anche il ricorso incidentale di P. S. è, quindi, rigettato. ... Omissis... GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI DANNO AUTOPROCURATOSI DALL’ALLIEVO E RESPONSABILITA’ DELL’ISTITUTO SCOLASTICO di Valentina V. Cuocci Nella sentenza in esame i giudici riconducono la responsabilità dell’istituto scolastico, e del precettore, nell’ambito della responsabilità contrattuale - e non più della responsabilità extracontrattuale - con la conseguente applicazione di un diverso onere probatorio. L’orientamento è giustificabile per l’attenuazione dell’onere probatorio in capo al danneggiato, ma rischia di determinare regimi giuridici differenti (e relativi oneri probatori) per fattispecie simili. La decisione in epigrafe si conforma all’orientamento giurisprudenziale a tenore del quale la responsabilità dell’istituzione scolastica e dell’insegnante, in caso di danno cagionato dall’allievo a se stesso, ha natura contrattuale (da ultimo, Cass. 11 novembre 2003, n. 16947, in Foro it., 2004, I, 426, con nota di F. Di Ciommo). La qualificazione della responsabilità dell’istituto scolastico (e del precettore) sottende profili giuridici affatto delicati, che hanno visto l’avvicendarsi di interpretazioni giurisprudenziali contrastanti. I termini della questione risalgono ad un precedente del 1958, quando i giudici della Suprema Corte si trovarono di fronte all’inesplorato (per allora) dilemma inerente all’applicazione dell’art. 2048 c.c. al caso di danno cagionato dall’allievo a se stesso (Cass. 10 luglio 1958, n. 2485, in Foro it., Rep. 1958, voce Responsabilità civile, n. 211): nella decisione citata i giudici, con semplicità disarmante, considerarono la norma applicabile al solo caso di danno ingiusto causato dall’allievo ad un terzo (in dottrina sulla responsabilità ex art. 2048, ex multis: M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte (art. 2044-2048), Milano, 2002, XII-336; L. Bigliazzi Geri - F. D. Busnelli - U. Breccia - U. Natoli, Diritto civile, vol. III, Obbligazioni e contratti, Torino, 2002, 747; M. Comporti, Nuovi orientamenti giurisprudenziali sulla responsabilità di genitori ex art. 2048 c.c., in questa Rivista, 2002, 353; R. Settesoldi, La responsabilità civile dei precettori e dei maestri d’arte: i consolidati orientamenti giurisprudenziali e quelli in via di emersione, in Resp. civ., 1999, 959; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, 657; M. Franzoni, Dei fatti illeciti, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 351). Tra le recenti pronunce che hanno privilegiato un’interpretazione restrittiva dell’art. 2048 si segnala Cass. 13 maggio 1995, n. 5268, in Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 135, a mente della quale la norma trova applicazione esclusivamente ai casi in cui l’incapace cagioni ad altri un danno ingiusto, non anche nell’ipotesi in cui l’incapace si procuri una lesione, tenuto conto, altresì, che la prova liberatoria, prevista dal comma 3, va opposta al terzo danneggia- to, non già all’incapace che si sia autoprocurato un pregiudizio. A fronte di tale filone giurisprudenziale si era poi delineato un orientamento meno rigoroso, che ha ritenuto applicabile l’art. 2048 anche all’ipotesi dell’allievo che si procura un danno: Cass., sez. un., 3 febbraio 1972, n. 260, in Foro it., 1972, I, 3522; Cass. 1° agosto 1995, n. 8290, ivi, Rep. 1995, voce cit., n. 110; Cass. 7 agosto 1997, 7454, ivi, Rep. 1997, voce Istruzione pubblica, n. 493. Nemmeno a dirlo, la portata dei diversi orientamenti giurisprudenziali ha inevitabili ricadute sul piano della ripartizione dell’onere della prova: aderendo al primo, la parte che chiede il risarcimento dovrà dimostrare tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito secondo le disposizioni dall’art. 2043 c.c.; alla stregua del secondo, invece, la parte potrà beneficiare della presunzione di colpa di cui all’art. 2048. Invero, una delle ragioni che hanno indotto parte della giurisprudenza a privilegiare l’orientamento meno restrittivo è rappresentata da istanze garantistiche, volte a sollevare il genitore dall’onere di dover dimostrare la colpa (F. Di Ciommo, Danno allo scolaro e responsabilità quasi oggettiva della scuola, ivi, 1999, I, 1575). A dirimere l’annosa questione è intervenuta, da ultimo, Cass., sez. un., 27 giugno 2002, n. 9346, ivi, 2002, I, 2636, con nota di F. Di Ciommo, La responsabilità contrattuale della scuola (pubblica) per il danno che il minore si procura da sé: verso il ridimensionamento dell’art. 2048 c.c.; in tema v. pure P. Morozzo della Rocca, Le sezioni unite sul danno cagionato al minore da se stesso, in Corr. giur., 2002, 1293, nonché G. Facci, Minore autolesionista, responsabilità del precettore, e contatto sociale, in Resp. civ., 2002, 1022. Suggestiva, a tacer d’altro, la soluzione adottata dai giudici. Dopo aver sgombrato il campo da qualsiasi dubbio sulla inapplicabilità dell’art. 2048 c.c. all’ipotesi di danno autoinflitto dal minore, la Corte ha stabilito che la responsabilità dell’ente scolastico ha natura contrattuale: con la presentazione della domanda di iscrizione a scuola - e la conseguente ammissione dell’allievo - s’instaura un vincolo di natura negoziale che fa nascere l’obbligo dell’istituto di vigilare sull’incolumità e integrità dell’allievo durante le ore in cui fruisce della prestazione scolastica. I giudici specificano, inoltre, che anche tra insegnante - dipendente dell’istituto scolastico - ed allievo sorge, per contatto sociale, un rapporto giuridico in virtù del quale l’insegnante assume non solo l’obbligo di istruire l’allievo, bensì anche quello ulteriore di protezione e di vigilanza. L’esito è lo spostamento della responsabilità dell’istituzione scolastica e dell’insegnante per danno cagionato dal minore a se stesso dal piano extracontrattuale a quello contrattuale, con conseguente applicazione del regime probatorio previsto dall’art. 1218 c.c. I principi sopra enunciati sono stati seguiti, alla lettera, nella sentenza in epigrafe. I giudici, facendo uso dei po- DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1083 GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI teri correttivi conferiti ex art. 384 c.p.c., precisano che nella specie non doveva farsi applicazione dell’art. 2048, ma dei dettami in materia di responsabilità contrattuale per stabilire la fondatezza della pretesa risarcitoria. In ogni caso, la diversa qualificazione giuridica fornita dalla Corte di legittimità non osta al rigetto della domanda di risarcimento: sulla base di accertamenti di fatto espletati nella fase di merito, non sussistono, comunque, gli estremi della culpa in vigilando dell’insegnante poiché l’azione dannosa è stata in concreto repentina e non prevedibile (nella specie, caduta dalla sedia dell’allieva). Sul punto, la S.C. ha richiamato un principio consolidato in giurisprudenza a tenore del quale deve essere esclusa la responsabilità - ravvisando gli estremi del caso fortuito - tutte le volte in cui il danno si è verificato in conseguenza di un’azione non prevedibile e repentina, nonostante il dovere di vigilanza sia stato assolto nella misura dovuta e siano state adottate tutte le misure organizzative idonee ad evitare eventuali situazioni di pericolo (in tal senso Cass. 18 aprile 2001, n. 5668, in Foro it., 2001, I, 3099, con nota di F. Di Ciommo; Cass. 24 febbraio 1997, n. 1683, ivi, Rep. 1997, voce Responsabilità civile, n. 152). L’orientamento seguito dalla S.C. è giustificabile, non foss’altro per l’attenuazione dell’onere probatorio in capo al danneggiato, ma che rischia di determinare regimi giuridici differenti (e relativi oneri probatori) per fattispecie prossime: se l’alunno cagiona a se stesso un danno, la responsabilità del precettore ha natura contrattuale; se, nel medesimo contesto, subisce un danno ad opera di un terzo, la responsabilità del precettore ha natura extracontrattuale (sul punto v. le osservazioni formulate da Facci, Minore autolesionista, cit., 1033). Va segnalata, da ultimo, Cass. 30 marzo 2005, n. 6723 (in questa Rivista, 2005, 1171, con nota di V. Gaffuri, Responsabilità degli insegnanti per culpa in vigilando e difetto di legittimazione passiva), che ribadisce il difetto di legittimazione passiva dell’insegnante (dipendente dell’istituto scolastico), ai sensi della legge 11 luglio 1980, n. 312, art. 61, comma 2, in caso di danno subito dall’allievo sotto la sua (mancata) vigilanza. IL DEBOLE CONFINE TRA LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE E LA RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE: IL “CONTATTO SOCIALE” IN AMBITO SCOLASTICO di Teresa Perna Per classificare quale contrattuale o extracontrattuale la responsabilità a carico della scuola è necessario analizzare la relazione intercorrente tra quest’ultima e l’alunno, non sembrando soddisfacente preferire l’una o l’altra qualificazione solo in funzione del tipo di danno (a terzi o a se stesso) su cui si controverte. Se si ammette, in coerenza con la più recente giurisprudenza, che tra istituto scolastico e alunno si instaura ad origine un vincolo negoziale, anche nel caso in cui il soggetto passivo della condotta lesiva non sia lo stesso agente ma un altro studente, non potrà negarsi che tra le future parti in causa sussista comunque un rapporto di natura contrattuale. Ci si domanda, quindi, entro quali limiti potrà ancora ritenersi operante l’art. 2048, secondo comma c.c. Il fatto I genitori di un’alunna di scuola elementare citano in giudizio il Ministero della pubblica istruzione e l’insegnante, a cui era stata affidata la minore, al fine di ottenere il risarcimento per i danni a questa occorsi durante una lezione. 1084 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 Più precisamente, la bambina aveva riportato la frattura dei due denti incisivi superiori in seguito ad una caduta dal banco scolastico, infortunio che, secondo gli attori, poteva essere evitato se solo la maestra, presente al momento del fatto, non fosse venuta meno ai suoi doveri di vigilanza. Il Tribunale di Torre Annunziata accoglieva la tesi di parte attrice e attribuiva, così, la responsabilità dell’accaduto alla docente per culpa in vigilando, con conseguente condanna del Ministero convenuto al pagamento di quindici milioni di lire, oltre interessi, rivalutazione e spese processuali. La sentenza del giudice di prime cure veniva successivamente riformata dalla Corte d’appello di Napoli, in virtù dell’esimente di cui all’art. 2048, secondo comma c.c. in forza della quale i precettori «sono liberati dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto». Secondo tale prospettazione, la caduta e la frattura sarebbero stati conseguenze inevitabili di un movimento repentino e imprevedibile dell’alunna, la quale non aveva, sino ad allora, tenuto alcuna condotta così vivace da dover far presumere all’insegnante la probabilità che un tale infortunio le potesse occorrere. Sicché, il giudice sulla base del materiale probatorio raccolto ha ritenuto che il fatto non poteva essere in alcun modo previsto e ancor meno impedito. GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI La Cassazione aderisce a questa conclusione, anche se ritiene necessario correggere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., la motivazione addotta dal giudice partenopeo. In particolare, essa riconduce la fattispecie alla responsabilità contrattuale, richiamando il principio enunciato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 9346 del 2002 (1), in base al quale nelle ipotesi di danno autoprovocato dall’allievo, la responsabilità dell’istituto scolastico e del docente trova il suo fondamento direttamente nell’art. 1218 c.c., anziché nell’art. 2048, secondo comma c.c., destinato ad essere applicato solo quando l’alunno cagioni un danno a terze persone e non a se stesso. Nonostante la riqualificazione giuridica operata, quindi, i giudici di legittimità non censurano la decisione di rigetto del giudice napoletano, dichiarando comunque inammissibile la richiesta dei ricorrenti volta, in buona sostanza, ad ottenere una nuova analisi del merito della questione. Il rapporto intercorrente tra l’alunno e l’istituto scolastico Ancora una pronuncia della Suprema Corte che avalla l’ormai pacifico orientamento giurisprudenziale volto a definire la responsabilità dei docenti nelle ipotesi in cui l’allievo cagioni un danno a se stesso. Sono già trascorsi più di tre anni dall’approdo delle Sezioni Unite con cui fu sancita la natura contrattuale della medesima e, sebbene non si sia mai tendenzialmente discostata dalla via battuta nel 2002, ancora una volta la Cassazione è dovuta intervenire per “correggere” in tale senso la motivazione in diritto del giudizio di merito. Sia in primo sia in secondo grado i giudici avevano, infatti, percorso la via indicata dalle parti, le quali avevano preferito ricondurre la presunta responsabilità di P. alle ipotesi di culpa in vigilando ex art. 2048 c.c.. Ciò su cui vorremmo soffermare la nostra attenzione, prende spunto, in particolar modo, da ciò che la sentenza in esame non dice. Nonostante le numerose critiche a cui è stato sottoposto l’orientamento sposato dalla Cassazione nel 2002 (2), i giudici, nella pronuncia in oggetto, non sentono il bisogno di aggiungere alcunché a quanto addotto in precedenza, nemmeno per fini chiarificatori, ma si limitano a ricordare che le Sezioni Unite hanno già stabilito che «la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnate non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale […] e che - quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico - tra insegnante ed allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico». Nell’iter motivazionale della pronuncia i giudici hanno solo convertito l’inquadramento sistematico cui riferire la vicenda senza ulteriori riflessioni sulle ragioni alla base di tale assunto, sebbene siano stati avanzati molti dubbi in materia. Ecco i termini della questione. Per giungere alla medesima conclusione della Cassazione è necessario, innanzitutto, accertare la natura con- trattuale del rapporto, da cui emergerà una responsabilità negoziale della scuola, pubblica o privata che sia, ex art. 1228 c.c. per inadempimento cagionato da fatto del dipendente; in secondo luogo, si dovrà provare la sussistenza di un obbligo specifico, gravante sulla scuola e, quindi, sugli insegnanti, di vigilare sull’integrità non solo dei terzi, ma anche degli alunni stessi. Ciò che, pertanto, qui viene in discussione è l’effettiva sussistenza delle premesse di cui supra, dal momento che nel caso di specie nessuna pretesa risarcitoria è stata direttamente avanzata nei confronti del precettore, con la conseguenza di rendere inutile l’applicazione della categoria del “contatto sociale”. Essa potrebbe trovare nuova linfa solo nel caso in cui una delle nostre premesse venisse a mancare, per cui il vincolo contrattuale della Pubblica Amministrazione sorgerebbe in seguito alla situazione di fatto instauratasi tra l’allievo e l’insegnante. Appare superfluo, ai fini della seguente trattazione, soffermarci sull’annosa vicenda giurisprudenziale che ha condotto la Corte a ritenere inadeguata la disciplina ex art. 2048 c.c. nelle ipotesi in cui il minore arrechi un danno a se stesso; numerosi ed autorevoli sono, infatti, i contributi dottrinali sull’argomento ai quali si rinvia (3). Ci si ripropone, piuttosto, di verificare ciò che in sentenza è ritenuto a tal punto pacifico da non essere oggetto di alcuna ulteriore precisazione, nonostante le voci discordanti in dottrina e giurisprudenza. Sappiamo che la via prescelta dalla Cassazione è il riNote: (1) Cass., sez. un., 27 giugno 2002, n. 9346, in Foro it., 2002, I, 2635, con nota di Di Ciommo, La responsabilità contrattuale della scuola (pubblica) per il danno che il minore si procura da sé: verso il ridimensionamento dell’art. 2048 cod. civ; in Corr. giur., 2002, 1287, con nota di Morozzo della Rocca, Le Sezioni Unite sul danno cagionato al minore da se stesso; in Resp. civ. e prev., 2002, 1012; con nota di Facci, Minore autolesionista, responsabilità del precettore e contatto sociale; in questa Rivista, 2003, 46, con nota di Lanotte, Condotta autolesiva dell’allievo: non risponde l’insegnante; in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 264, con nota di Barbanera, In tema di responsabilità degli insegnanti statali; in Giust. civ., 2002, I, 2414; in Guida al dir., n. 28/2002, 60; in Arch. civ., 2002, 1173; in Dir. e giust., n. 33/2002, 19; in Foro it., Rep. 2002, voce Responsabilità civile, n. 257. (2) Almeno per quanto concerne l’ambito scolastico. La prima applicazione risale, invece, a qualche anno prima e investiva le fattispecie di responsabilità medica: Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, 3332, con note di Lanotte e Di Ciommo, nonché in Danno e resp., 1999, 294, con nota di Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto; in Corr. giur., 1999, 44, con nota di Di Majo; in Resp. civ., 1999, 661, con contributo di Forziati; in Giust. civ., 1999, I, 1003, con nota di Giancalone; infine in Contratti, 1999, 999, con commento di Guerinoni. (3) Ex multis: Di Ciommo, Danno "allo" scolaro e responsabilità "quasi oggettiva" della scuola, in Foro it., 1999, I, 1558; Id., La responsabilità contrattuale della scuola (pubblica) per il danno che il minore si procura da sé: verso il ridimensionamento dell’art 2048 cod. civ., cit., 2635 ss.; Masala, Sull’applicabilità dell’art. 2048 cod. civ., nel caso in cui l’allievo procuri un danno a se stesso, in Riv. giur. sarda, 2002, 349 ss.; Pandolfini, Sulla responsabilità dei precettori e dell’ente scolastico peri li danno cagionato dall’allievo a se medesimo, in Giur. it., 2000, 507; più recenti: Lanotte, Condotta autolesiva dell’allievo: non risponde l’insegnante, in Danno e resp., 2003, 46; Venturelli, Sulla responsabilità del precettore ex art. 2048, secondo comma, c.c., ivi, 2004, 94. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1085 GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI sultato del condivisibile tentativo di contemperare l’esigenza di fornire una tutela quanto mai omogenea per le fattispecie in oggetto con l’imprescindibile rispetto per il dettato normativo, nonché con l’attenzione, non meno importante, rivolta alla natura che stanno assumendo le relazioni tra i privati e la Pubblica Amministrazione. In assenza di un percorso motivazionale suggerito dalla stessa Corte di legittimità, in questa sede ci si ripropone di fornire un spunto di riflessione che, speriamo, possa rivelarsi utile al raggiungimento di una maggiore chiarezza sistematica. Innanzitutto, prendiamo in considerazione la natura del rapporto tra istituto scolastico e alunni. È noto che le Sezioni Unite del 2002 hanno ricondotto tale relazione nell’alveo della disciplina contrattuale in base all’osservazione per cui la presentazione della domanda di iscrizione e il successivo suo accoglimento, con conseguente ammissione dell’alunno nell’istituto, altro non rappresentano che naturali fasi della stipulazione di un contratto. Eppure, fino ad allora in dottrina e in giurisprudenza si riteneva che l’iscrizione scolastica fosse da considerarsi un mero atto amministrativo; difatti, una volta accertata la sussistenza in capo all’alunno dei requisiti richiesti dalla legge per la sua ammissione, la P.A. semplicemente concede al privato di usufruire di un servizio, nello specifico il godimento del diritto di accedere all’insegnamento pubblico (4). D’altra parte, è evidente come le parti non abbiano alcuna possibilità di determinare né il contenuto né gli effetti di un atto vincolante quale quello in esame e che, quindi, si tratterebbe di un negozio giuridico privo dei suoi elementi essenziali. In realtà, anche precedentemente, si riscontravano voci discordanti che negavano la natura provvedimentale dell’accertamento costitutivo ai fini dell’iscrizione scolastica (5) e la Corte ora, in buona sostanza, segue proprio la scia tracciata da tale orientamento e che recentemente ha suscitato nuovo interesse soprattutto in seguito ad un generale ripensamento dei rapporti tra privato e P.A. Ci si riferisce alle ben note ipotesi del paziente che usufruisce dei servizi offerti da un ente sanitario (6), nonché all’utente dell’autostrada nei suoi rapporti con la società di gestione (7). Non sembra satisfattivo criticare la nuova qualificazione operata dalla Corte solo argomentando che l’ammissione dell’alunno è sempre stata considerata un mero accertamento costitutivo, soprattutto in vista della prevedibile espansione che avrebbe avuto (e che sta effettivamente avendo) la complessiva riconsiderazione dei suddetti rapporti. Né può rinunciarsi ad apportare la migliore tutela alle fattispecie di danno autoprovocato dall’alunno, quale probabilmente è quella contrattuale. Sarebbe, infatti, piuttosto criticabile che la posizione processuale del minore che arrechi un danno a sé stesso sia così più gravosa a causa dell’applicazione della disciplina ex art. 2043, nonostante si tratti comunque di soggetti affidati alla sorveglianza del 1086 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 personale scolastico, che, pertanto, dovrebbe rispondere al di là di ogni imputazione per colpa (salvo le ipotesi di caso fortuito) (8). Le perplessità più rilevanti possono, semmai, riguardare la coerenza interna al nostro ordinamento vista l’anomala concorrenza di una responsabilità contrattuale della P.A. (ove l’alunno si autocagioni un danno) con una responsabilità aquiliana della medesima (per danni arrecati dall’alunno a terzi). Ebbene, da più parti ci si è interrogati sul perché «l’obbligazione ex contractu non sia idonea a tutelare i terzi che entrano in contatto con l’alunno, posto che la loro posizione non può essere valutata differentemente, nell’ottica dell’interesse alla protezione, da quella che fa capo al discepolo» (9), considerando anche che «spesso non è facile distinguere tra danno autoprocuratosi dal minore e danno cagionato al minore da altro minore. In entrambi i casi prospettati, l’affidamento nella capacità e nella professionalità del precettore è identico» (10). Appare, in effetti, paradossale e francamente illogico che la natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità dipenda dalle modalità concrete con cui è stato cagionato il danno, piuttosto che dal rapporto instauratosi tra le parti. Più chiaramente: se tra alunno e istituto scolastico Note: (4) In dottrina: De Francesco, L’ammissione della classificazione degli atti amministrativi, Milano, 1926; Galateria - Stipo, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 1998, 384; Corpaci, Ammissioni, in Dig. pubbl., vol. I, Torino, 1987, 253; Italia - Landi - Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2002, 159; Lanotte, Condotta autolesiva dell’allievo: non risponde l’insegnante, cit., 54; Perini, Osservazioni sull’accertamento costitutivo nel diritto amministrativo, Padova, 1953; Resta, Ammissione, in Nuoviss. Dig., Torino, 1974, 576; Vignocchi, Gli accertamenti costitutivi nel diritto amministrativo, Milano, 1950; Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 608; Virga, Diritto amministrativo, II, Atti e ricorsi, Milano, 1999, 20; Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1952, 210; Zotta, Gli accertamenti costitutivi nel quadro degli atti amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1040, I, 135. In giurisprudenza fra tutte: Cass., sez. un., 9 aprile 1973, n. 997, in Resp. civ. e prev., 1973, 262. (5) Giannini, Accertamento (dir. cost. e amm.), in Enc. dir., 1958, I, 219; Greco, Provvedimenti amministrativi costitutivi di rapporti giuridici fra privati, Milano, 1977, 75. (6) Autorevolmente: Cass., sez. un., 7 agosto 2001, n. 10893, in Giur. it., 2002, 1065. (7) Cass. 13 gennaio 2003, n. 298, in Corr. giur., 2003, 1165, con note di Pietrobon, Custodia delle autostrade e responsabilità del gestore, e Di Vito, Natura del pedaggio autostradale e responsabilità del concessionario nei confronti degli utenti. (8) Per chiarimenti sulla rilevanza dell’imprevedibilità dell’eventus damni: Cass. 13 maggio 1995, n. 5268, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 239, con nota di Zaccaria, Sulla responsabilità civile del personale scolastico per i danni sofferti dal minore; Cass. 24 febbraio 1997, n. 1683, in questa Rivista, 1997, 451, con nota di Franzoni, Illecito dello scolaro e responsabilità del maestro elementare. Più recentemente vedi: Trib. Catania 3 maggio 2006, n. 1478, inedita. (9) Lanotte, Condotta autolesiva dell’allievo: non risponde l’insegnante, cit., 57. (10) Faillace, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004, 64; conformemente: Facci, Minore autolesionista, responsabilità del precettore e contatto sociale, in Resp. civ. e prev., 2002, 4. GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI c’è un rapporto contrattuale, questo permane sia che lo studente si autocagioni un danno sia che il danno sia a lui provocato da un compagno di classe. La disciplina originariamente predisposta e voluta dal legislatore del 1942 presupponeva una relazione non contrattuale tra le parti; di conseguenza potevano semmai permanere dubbi sull’applicabilità dell’art. 2043 o dell’art. 2048, ma sempre nell’ambito della responsabilità extracontrattuale. È altrettanto vero che tale relazione attualmente ha subito notevoli cambiamenti rispetto alla situazione vigente nel 1942 e non sembra affatto azzardato o fuori luogo il tentativo di dotare di nuova linfa un impianto codicistico oggettivamente datato. Purché, comunque, si rispetti il valore delle norme ancora in vigore. Oltre a suggerire una rivisitazione del sistema, de iure condendo, per una maggiore coerenza interna del medesimo, al momento non possiamo che dare atto della situazione presente osservando che, ad ogni modo, tra le due fattispecie in esame permane, comunque, una differenza di non poco conto. Si fa riferimento all’illiceità della condotta: tipica nel caso di responsabilità aquiliana per danno cagionato a terzi, assente nel caso di danno autoprovocato dall’alunno a se stesso e coerente con una relazione di tipo contrattuale tra le parti. Ad oggi, bisogna, pertanto, rispondere alla seguenti domande: se tra la scuola e l’alunno sussiste un vincolo contrattuale, a quale fatto illecito si riferisce oggi l’art. 2048, secondo comma c.c.? E, quindi, quale ambito di operatività permane a questa fattispecie di responsabilità extracontrattuale? Non sembra peregrino affermare che l’art. 2048 c.c. potrebbe mantenere, ad ogni modo, una sua indipendenza funzionale in relazione a quelle ipotesi in cui la condotta dello studente arrechi un danno ad un terzo inteso quale soggetto non sottoposto a tutela. Così facendo, si garantirebbe una tutela appropriata alla fattispecie in oggetto e si preserverebbe il dettato normativo da presunte abrogazioni implicite o, peggio, da incongruenze interne. Pur aderendo alla teoria favorevole all’instaurazione di un vincolo contrattuale tra le parti e la P.A., resta, quindi, da acclarare se tra gli obblighi assunti dalla scuola possa annoverarsi anche quello di vigilare sull’allievo nei termini su esposti (11). È opinione dei giudici di legittimità che dal vincolo negoziale sorga «a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri un danno a se stesso». Anche qui bisogna dare atto degli indirizzi discordanti volti a definire la natura del suddetto dovere. Coerentemente a quanto sostenuto dalla recente sentenza della Cassazione, parte della giurisprudenza ha affermato che la responsabilità della scuola si estende dal momento dell’ingresso degli studenti nell’istituto scolastico sino a quello della loro uscita e concerne anche la tutela della loro integrità, oltre che quella dei terzi (12). Sappiamo, invero, che dovere principale è l’espletamento di funzioni didattiche nonché educative, le quali, secondo giurisprudenza consolidata, non si spingerebbero fino a comprendere illimitatamente anche i doveri di sorveglianza (13). Per ritenere operante anche tale obbligo si dovrà piuttosto valutare l’età, il carattere, l’educazione e il grado di maturazione del minore (14). Una volta acclarata la sussistenza delle suddette circostanze, è evidente come permanga a carico della scuola un accessorio obbligo di protezione che consente all’allievo di mantenere il favorevole onere probatorio scaturente dalla disciplina contrattuale. Non sembra, infine, di particolare incidenza il timore che la disciplina prevista dall’art. 1218 c.c. possa apportare un giovamento solo apparente al danneggiato, soprattutto a causa della limitazione del risarcimento ivi applicabile ex art. 1225 c.c. (15). Difficilmente, si preferirà attivare un’azione di tipo extracontrattuale in ragione della presunta non prevedibilità del danno da parte della scuola, in considerazione del fatto che quest’ultima ha, al contrario, più di una buona ragione per prevedere che un suo inadempimento all’obbligo di vigilanza possa essere causa di gravi danni all’incolumità dei minori che le sono stati affidati. Il “contatto sociale” nel rapporto tra alunno e insegnante Alla luce degli ultimi approdi giurisprudenziali della Corte di legittimità, si rivela sostanzialmente vano l’ulteriore sforzo di riqualificare anche la posizione diretta dell’insegnante. Se, infatti, dal punto di vista dogmatico assume certamente rilievo definire i limiti della responsabilità di ogni soggetto coinvolto nella vicenda, dal punto di vista processuale è evidente come la responsabilità ex contractu dell’iNote: (11) Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, in Il codice civile. Commentario, fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da F. D. Busnelli, Milano, 2002, 257; Rossi Carleo, La responsabilità dei genitori ex art. 2048 cod. civ., in Riv. dir. civ., 1979, II, 12. (12) Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, in Foro it., 1970, I, 2135; Cass. 28 luglio 1972, n. 2590, ivi, Rep. 1972, voce cit., n. 127; Cass. 7 giugno 1977, n. 2342, ivi, Rep. 1978, voce cit., n. 49; Cass. 30 marzo 1999, n. 3074, in Dir. ed econ. ass., 2000, 632, con nota di De Strobel; nonché la celebre e autorevole Cass., sez. un., 27 giugno 2002, n. 9346, cit. (13) Corsaro, voce Responsabilità civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, XXVI, 19-2; Cass. 13 maggio 1995, n. 5268, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 239, con nota di Zaccaria, Sulla responsabilità civile del personale scolastico per i danni sofferti dal minore. (14) Cass. 11 agosto 1997, n. 7459, in Foro it., Rep. 1997, voce Responsabilità civile, n. 148; Cass. 10 dicembre 1998, n. 12424, ivi, Rep. 1998, voce cit., n. 180; Cass. 9 giugno 1994, n. 5619, ivi, Rep. 1994, voce cit., n. 93; Trib. Genova 29 aprile 1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 555, con nota di Pinori, Sulla responsabilità dei genitori per culpa in educando ed in vigilando; App. Cagliari 10 settembre 1993, in Foro it., Rep. 1995, voce Responsabilità civile, n. 103; Trib. Napoli 12 maggio 1993, in Riv. dir. sport, 1994, 434. (15) In base al quale: «Se l’inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato ad danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione». DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1087 GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI stituto scolastico sortirà l’effetto di catalizzare su di sé le doglianze della parte lesa, vista la sua maggiore solvibilità rispetto al solo docente. In ogni caso, per cercare di comprendere l’iter logico che ha condotto i giudici ad abbracciare con siffatta convinzione (sebbene in assenza di un seppur necessario approfondimento teorico) il nuovo istituto del ‘contatto sociale’, anche nel caso di specie, si rende necessario un breve riepilogo della problematica concernente la generale ammissibilità di tale ipotesi di responsabilità contrattuale. Da non pochi anni, ormai, dottrina e giurisprudenza si scontrano nel tentativo di “incasellare” sistematicamente la responsabilità scaturente dalle fattispecie cosiddette borderline, poste, cioè, nell’area di confine tra il contratto e il torto (16). Sino ad oggi, i giuristi hanno preso in considerazione, oltre all’ipotesi che qui più ci interessa, anche quelle concernenti l’affidamento riposto nella correttezza dell’azione della Pubblica Amministrazione, gli obblighi del professionista verso coloro che usufruiscono della sua opera senza un formale vincolo, la diffusione di informazioni false o incomplete da parte degli intermediari finanziari ai piccoli investitori. È ben noto che l’obbligazione non può essere considerata come un rapporto elementare, ma anzi alla responsabilità per violazione dell’obbligazione principale viene sempre più spesso affiancata anche la responsabilità per violazione di altrettanto importanti obblighi accessori quali quello d’informazione, di sorveglianza, custodia, nonché del più generale dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica (17) (ex artt. 1175 e 1375 c.c.). Chiaramente l’ambito in cui trovano più frequente applicazione sarà quello in cui il creditore sia titolare di un’esigenza di protezione, con la conseguente contrattualizzazione dei danni alla persona derivanti dalla violazione di relativi doveri. Secondo la dottrina ormai minoritaria, invece, ove manchi una espressa disposizione legislativa in tal senso (18), dovrebbe configurarsi una responsabilità aquiliana o, al più, una concorrente responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (19). Sul nostro ordinamento ha avuto un’influenza decisiva il diritto tedesco, presso cui già verso la metà dell’800 la responsabilità precontrattuale era stata ricondotta sotto l’alveo di quella contrattuale (20), oltre a trovare riconoscimento, pochi anni dopo, la teoria degli obblighi di protezione (21) e, quindi il “contatto sociale” (22). Basti qui sapere che nella recentissima riforma del BGB, entrata in vigore il 1° gennaio 2002, ha fatto ingresso una concezione del rapporto obbligatorio inteso sia come rapporto complesso (secondo quanto su inteso), sia come comprensivo dei doveri di comportamento finalizzati alla salvaguardia della sfera giuridica di un soggetto con cui si instauri semplicemente un “contatto sociale” per assenza di una precedente obbligazione. Prendendo spunto dall’esperienza tedesca anche in 1088 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 Italia è stata avanzata l’ipotesi che gli obblighi di prestazione potessero far nascere una responsabilità contrattuale pur in assenza di una prestazione principale. Anche in Italia si inaugurava questa nuova stagione a partire dalla proposta di intendere come contrattuale la natura della responsabilità precontrattuale (23): nel concetto di buona fede oggettiva trova tutela l’affidamento sostanziale che il comportamento di una parte ingenera nell’altra (24). Poco dopo, come in Germania, la dottrina italiana cerca di individuare altre ipotesi in cui l’affidamento possa essere fonte di obbligazione senza un primario obbligo di prestazione, ma solo per il verificarsi di un “contatto sociale”. Innanzitutto, bisognava individuare un ulteriore eleNote: (16) Alpa, Responsabilità civile e danno, Bologna, 1991, 17; Busnelli, Verso un possibile riavvicinamento tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Resp. civ. e prev., 1977, 748; Castronovo, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini contratto e torto, già in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995, 148, ora in La nuova responsabilità civile, Milano, 1997, 190; Id., La responsabilità civile in Italia al passaggio del millennio, in Eur. e dir. priv., 2003, 159; Id., Le due specie della responsabilità civile e il problema del concorso, ivi, 2004, 93; Giardina, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Significato attuale di una distinzione tradizionale, Milano, 1993, 82; Prosser, The border land of tort and contract, Ann Arbor, 1953; Rossello, Responsabilità contrattuale e aquiliana, il punto della giurisprudenza, in La responsabilità civile, a cura di Alpa - Bessone, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da Bigiavi, Torino, 1987, I, 326, e in Responsabilità contrattuale ed aquiliana: il punto sulla giurisprudenza, in Contr. e impr., 1996, 641; Sbisà, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: realtà contrapposte o convergenza di presupposti e di scopi?, in Resp. civ. e prev., 1977, 723; Visintini, voce Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma 1990, 1. (17) Visintini. In Francia: Mazeaud - Mazeaud, Traitè thèorique et pratique de la responsabilitè civile, Paris, 1931, I, 141. Nei Paesi di common law: Chutorian, Tort remedies for beach of contract: the expansion of tortuous breach of the implied covenant of good faith and fair dealing into the commercial realm, in Col. L. Rev., 1986, 377; Gilmore, The death of contract, Columbus (Ohio), 1974. (18) Ad es. art. 2087 c.c.: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». (19) Rossello, Responsabilità contrattuale e aquiliana, il punto della giurisprudenza, cit., 138-139. (20) Von Jhering, Culpa in contraendo oder Schadensersatz bei nichtigen oder nicht zur Perfection gelangten Verträgen, in Jhering’s Jahrb, 1861, ristampato a cura di Schmidt, Bad Homburg-Berlin-Zürich, 1969. (21) Articolati in Leistungspflichten (obblighi di prestazione) e Verhaltenspflichten (comportamenti accessori all’obbligazione principale). (22) Dölle, Aussergesetzliche Schuldpflichten, in Zeitschr. f.d. gesam Staatwissen, 1943. (23) Fra tanti: Benatti, Culpa in contraendo, in Contr. e impr., 1987, 303; Galgano, Diritto civile e commerciale, II, I, 1990, 466; Grisi, L’obbligo precontrattuale d’informazione, Napoli, 1990, 74; Messineo, Il contratto in genere, I, in Trattato Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 1973, 365; Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. dir. comm., 1956, II, 370; Scongnamiglio, voce Responsabilità contrattuale e extracontrattuale, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 674; Turco, Interesse negativo e responsabilità precontrattuale, Milano, 1990, 425. (24) Sacco, voce Affidamento, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 661; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989, 147. GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI mento, da affiancare all’affidamento, che consentisse di superare i confini della responsabilità aquiliana; questo ulteriore elemento venne identificato nella professionalità di determinati soggetti svolgenti attività protette. Solo tale status potrà giustificare, da parte dei medesimi, l’assunzione della posizione di garanzia e un legittimo affidamento da parte di altri. L’aggancio normativo, sia per la responsabilità precontrattuale sia per le obbligazioni senza prestazione, è, quindi, l’art 1173 c.c. lì dove prevede il cosiddetto tertium genus quale fonte delle obbligazioni. Com’è noto, la prima applicazione giurisprudenziale del principio del “contatto sociale” è avvenuto con la sentenza della Cassazione del 22 gennaio 1999, n. 598 (25) e concerne la responsabilità del medico dipendente di un ente ospedaliero pubblico per un danno cagionato in seguito ad una errata diagnosi. Ciò che però qui ci interessa è, appunto, verificare se le conclusioni raggiunte in ambito medico-sanitario possono trovare identica applicazione anche nei rapporti tra l’insegnante e l’alunno (26). La Cassazione ha avallato l’orientamento che predilige la riconduzione in schemi contrattualistici della relazione tra medico e paziente, così come quella tra il paziente e l’ente ospedaliero; mentre, però, in quest’ultimo caso tra le parti sussiste un vero e proprio contratto, a carico del dipendente ci sarebbe una responsabilità di natura contrattuale ma in funzione di un diverso fondamento. È vero che tra il sanitario e il danneggiato non ricorre alcun contratto, ma è altrettanto vero che il medico non può essere considerato sottoposto al solo principio del neminem laedere quale un qualunque quisque de populo vista la particolare opera che è chiamato a prestare. La Corte ha, pertanto, sentito la necessità di avvicinare la realtà giuridica alla realtà sociale, invocando la sussistenza tra le parti di un “contatto sociale” assoggettabile alla disciplina ex art. 1218 c.c. Invero, diversamente da quanto sostenuto dalla Suprema Corte, appare maggiormente condivisibile la teoria che tenta di ricostruire tra il medico e il paziente un rapporto autenticamente contrattuale, senza ricorre al tertium genus (27). Ciò che, prima facie, sembra escludere la formazione di un contratto è l’assenza della scelta delle parti contraenti; eppure il medico può rifiutarsi di dare vita al rapporto con un paziente, così come il paziente può recarsi in una determina struttura ospedaliera per avvalersi dell’opera di un determinato medico ivi operante. Inoltre, attraverso l’esercizio del consenso informato il paziente può addirittura accordarsi sulla cura a cui sottoporsi; senza poi considerare i casi sempre più frequenti di obbligazioni di risultato in cui il consenso del paziente è volto all’ottenimento di un effetto ben preciso. Sembrerebbe, pertanto, configurarsi una fattispecie contrattuale a struttura complessa per il collegamento dei tre rapporti che lo caratterizzano: tra sanitario e struttura ospedaliera, tra questi e paziente, tra il paziente ed il medico. D’altra parte, più volte si è riconosciuta la validità dei contratti automatici o standard, in cui il consenso o l’accordo sono di difficile individuazione (28). Nel caso dei rapporti scolastici, invece, la posizione delle parti è ben distinta; infatti, la volontà dell’alunno ha scarso valore in merito all’insegnamento che il docente deve impartire, quindi nei loro rapporti si riscontrerebbe sì un dovere di vigilanza a carico dell’insegnante, ma solo come obbligazione ulteriore rispetto alla prestazione principale, che mantiene una natura del tutto differente. Questo carattere di forte accessorietà dell’obbligo di protezione rispetto alla professionalità del docente finalizzata sostanzialmente ad impartire l’insegnamento, difficilmente consente di superare i confini della responsabilità aquiliana. Come detto, infatti, l’elemento chiave che consente di invocare il “contatto sociale” è la professionalità che, nel caso di specie, non attribuisce al docente il dovere principale di tutelare la salute dell’allievo. Certo, sarebbe preferibile che la Corte non affrontasse tali questioni attraverso dei semplicistici, quanto insoddisfacenti, obiter dictum, soprattutto al fine di evitare che sentenze quale quella in commento si “accontentino” a loro volta di basare la loro motivazione su un principio nato in assenza di impianto giustificatore adeguato. Conclusioni È prevedibile che gli attori tenderanno ad agire ex art. 1218 c.c. nei confronti dell’istituto scolastico, ma, in un ottica de jure condito, non ha ragion d’essere il timore di dover presto constatare un’abrogazione implicita della fatNote: (25) Commentata da: Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto, in Danno e resp., 1999, 294; De Rosa, Responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario: una nuova tipologia di obbligazioni?, in Giur. merito, 1999, 1152; Di Ciommo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero, in Foro it., 1999, I, 3332; Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corr. giur., 1999, 446; Forziati, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il contatto sociale conquista la cassazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 679; Fracchia,Osservazioni in tema di responsabilità del dipendente pubblico e attività contrattuale, in Foro it., 1999, I, 1194; Giacalone, La responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale: contrattuale, extracontrattuale o transtipica?, in Giust. civ., 1999, I, 1003; Pizzetti, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da “contatto sociale”, in Giur. it., 2000, 740; Thiene, La Cassazione ammette la configurabilità di un rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione, in Nuova giur. civ. comm., 2000, 334. (26) Pur dando atto dei recenti sviluppi che hanno visto confermare orientamenti contrari: App. Venezia 16 giugno 2005, in Danno e resp., 2006, 293, con nota di Guerra, Obbligazione da “contatto sociale” nell’attività del chirurgo subordinato: una prima smentita. (27) Faillace, La responsabilità da contatto sociale, cit. Contra, Paradiso, La responsabilità medica dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, 337. (28) Fra tutti: Roppo, Contratti standard, Milano, 1989; Mazzoni, Contratti di massa e controlli nel diritto privato, Milano, 1975; Bessone, I contratti standard nel diritto interno e comunitario, Torino, 1991; Patti - Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard, Milano, 1993. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1089 GIURISPRUDENZA•MAESTRI E PRECETTORI tispecie extracontrattuale (29) disciplinata all’art. 2048, secondo comma c.c., essendo possibile imboccare una via alternativa. Come anzidetto, per invocare una responsabilità contrattuale o aquiliana è d’obbligo guardare alla relazione intercorrente tra le parti e non alla causa del danno subito dalla parte lesa. Se, quindi, si condivide l’assunto per cui tra le parti intercorre un rapporto del primo tipo non resta che indagare in quali ipotesi l’allievo potrà commettere un fatto illecito nei confronti di un soggetto che non sia a sua volta parte di rapporto contrattuale con la scuola. Ed ecco che da qui in poi, potrà considerarsi terzo (ex art. 2048, secondo comma c.c.) nel significato pieno del termine, quel soggetto che presenta le caratteristiche ora esplicate. Infine, ciò che distingue l’istituto scolastico dagli inse- 1090 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 gnanti è sostanzialmente l’oggetto del contratto stipulato da essi con l’alunno. Pur ammettendo, con i dubbi su esposti, che anche i docenti siano soggetti alla disciplina ex art. 1218 c.c. per ‘contatto sociale’resta il fatto che a carico di essi permane sostanzialmente un mero dovere di insegnamento, mentre sarà difficile negare che nell’oggetto del contratto stipulato dalla scuola non rientri anche l’obbligo, seppur accessorio, di approntare quanto necessario per la tutela degli allievi. Nota: (29) Venturelli, Sulla responsabilità del precettore ex art. 2048, secondo comma, c.c., in questa Rivista, 2004, 94. GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE Danni cagionati da animali Animali selvatici e responsabilità allo stato brado CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 25 novembre 2005, n. 24895 Pres. Fiduccia - Rel. Vivaldi - P.M. Iannelli (conf.) - Regione Liguria c. S. ed altri Responsabilità civile - Proprietà di animali - Danni cagionati dalla fauna selvatica - Risarcibilità da parte della P.A. (c.c. artt. 2043, 2051, 2052; Legge 11 febbraio 1992, n. 157; l.r. Liguria 1° luglio 1994, n. 29) Alle Regioni compete l’obbligo di predisporre tutte le misure idonee ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o cose e, pertanto, nell’ipotesi di danno provocato dalla fauna selvatica ed il cui risarcimento non sia previsto da apposite norme, la Regione può essere chiamata a rispondere in forza della disposizione generale dell’art. 2043 c.c. Svolgimento del processo ... Omissis... Motivi della decisione Superato il primo motivo di ricorso attinente alla giurisdizione, sul quale si sono pronunciate le Sezioni Unite civili dichiarando la giurisdizione del giudice ordinario, vanno in questa sede esaminati i motivi successivi. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia: “Art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione del principi generali inerenti l’autonomia legislativa e amministrativa regionale e l’autonomia degli enti locali nell’esercizio delle funzioni conferite. Art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Motivazione inesistente”. Ritiene che la sentenza impugnata sia lesiva, sia dell’autonomia legislativa ed amministrativa della Regione, sia dell’autonomia delle Province nell’esercizio delle funzioni amministrative che la legge regionale - in esecuzione della normativa statale - le ha conferito. Il Giudice di pace - secondo la tesi della ricorrente - ha ritenuto, da un lato, la Regione comunque responsabile dei danni “da fauna selvatica” in quanto titolare delle “attività di gestione di detta fauna”, con ciò omettendo di considerare che - al contrario - la Regione Liguria ha interamente delegato i compiti di gestione e controllo concreto della fauna selvatica alle Province, legiferando in attuazione dei principi generali della materia di cui alla legge n. 157 del 1992. Dall’altro, ha ritenuto egualmente responsabile la provincia di Savona dei danni in esame, poiché “proprietaria della strada su cui è avvenuto il sinistro”, in quanto “quale ultimo anello della catena sia talmente vincolata dalla normativa statale e regionale da non poter autonomamente disporre salvo uscire dai limiti impostile”. Ciò erroneamente, poiché tanto la legge statale, quanto quella regionale - che hanno individuato i diversi poteri e compiti del vari enti coinvolti a vario titolo nella gestione e tutela della fauna selvatica - debbono trovare applicazione nel rispetto dei principi di autonomia degli enti pubblici chiamati ad esercitare quelle determinate e diversificate funzioni. A tal fine richiama l’art. 1, commi 1 e 2 della legge 11 febbraio 1992 n. 157 recante “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” e la legge regionale 1° luglio 1994, n. 29 emanata dalla Regione Liguria che ha stabilito le diverse competenze degli enti pubblici che operano nel settore faunistico venatorio affidando, in particolare alla provincia così come disposto dalla legge 157/1992 - “le funzioni amministrative in materia di caccia, protezione e controllo della fauna selvatica” (art. 2, comma 4) e prevedendo altresì che “le Province...provvedono al controllo della fauna selvatica, esercitato selettivamente” (art. 36, comma 2). Successivamente, la Regione Liguria ha dettato i propri “Indirizzi regionali per la Pianificazione Faunistica-venatoria provinciale” contenuti nelle deliberazioni della giunta regionale n. 602 del 24 febbraio 1995 e n. 287 del 1° marzo 2000. Dal quadro così delineato emerge che la Regione Liguria ha compiutamente adempiuto al dettato degli artt. 117 e 118 della Costituzione esercitando la propria potestà normativa e regolamentare con una disciplina completa della materia, e, nell’ambito di tale disciplina, ha incaricato le Province di controllare e gestire la fauna selvatica. La sentenza impugnata non tiene conto di tali circostanze, imputando in capo alla sola Regione Liguria la responsabilità per il controllo e la gestione della fauna selvatica, ritenendo che le Province godano, comunque, di una “sostanziale impunità” per il non corretto esercizio dei compiti loro delegati. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1091 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE Di qui la violazione - secondo la ricorrente - dei principi che regolano la potestà normativa ed amministrativa delle Regioni, nonché l’autonomia degli enti locali e, nel caso di specie, delle Province, “ed altrettanto palese risulta la insussistenza delle motivazioni che hanno condotto - sotto tale profilo - alla condanna degli enti convenuti”. Il motivo non è fondato. L’art. 1 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 contenente norme per la protezione della fauna selvatica, dispone che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale (primo comma); che le Regioni a statuto ordinario provvedono ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica (terzo comma). Si deve aggiungere: che le Regioni esercitano le funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione faunistico-venatoria di cui all’articolo 10 della legge prima richiamata e svolgono i compiti di orientamento, di controllo e sostitutivi previsti dalla stessa legge e dagli statuti regionali. Alle Province spettano le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna secondo quanto previsto dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, che esercitano nel rispetto della legge (art. 9); che, per far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta, e dall’attività venatoria, è costituito a cura di ogni Regione un fondo destinato alla prevenzione e ai risarcimenti, al quale affluisce anche una percentuale dei proventi di cui all’articolo 23 (art. 26). Alle Regioni, quindi, compete l’obbligo di predisporre tutte le misure idonee ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o a cose e, pertanto, nell’ipotesi (corrispondente al caso in esame) di danno provocato dalla fauna selvatica ed il cui risarcimento non sia previsto da apposite norme, la Regione può essere chiamata a rispondere in forza della disposizione generale contenuta nell’art. 2043 c.c. (Cass. 1° agosto 1991, n. 8470; 13 dicembre 1999, n. 13956; 14 febbraio 2000, n. 1638; 24 settembre 2002, n. 13907). La sentenza impugnata si è attenuta a questi criteri e, quindi, si sottrae alla censura che si sta esaminando. Il richiamo, contenuto nel ricorso, a norme successive che avrebbero immutato il sistema di imputazione della responsabilità per danni cagionati da animali selvatici, non è rilevante, posto che con tale normativa sono state delegati alle Province, soltanto compiti amministrativi. Con il terzo motivo denuncia: “Art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione del principi generali in materia di responsabilità personale ed imputabilità del fatto illecito. Art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Motivazione inesistente”. A tal fine rileva che la sentenza di merito non tiene in nessun conto i principi in materia di imputabilità del fat- 1092 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 to dannoso al soggetto chiamato a risponderne, seppure - eventualmente - a titolo di responsabilità oggettiva, condannando la Regione sull’erroneo presupposto che la stessa sia responsabile per la tutela e la gestione concreta della fauna selvatica (determinando con ciò anche l’inesistenza di una effettiva motivazione). Alla Regione, viceversa, non può essere imputato alcun comportamento doloso o colposo in relazione all’evento che ha causato il danno, ossia in relazione all’attraversamento della strada da parte del capriolo che ha “investito” l’autovettura dell’attore. Ciò, né sulla base dell’art. 2043 c.c. perché - anche in un giudizio reso secondo equità - non può prescindersi dall’imputabilità di quel determinato fatto al suo autore o, comunque dall’imputabilità di quel determinato fatto al soggetto che l’ordinamento ha individuato come colui che è chiamato a risponderne; né sulla base dell’art. 2052 c.c. secondo il quale i danni cagionati dall’animale sotto custodia sono imputabili ex lege esclusivamente al proprietario o a chi se ne serve per il tempo in cui l’ha in uso, tranne che tali soggetti non provino il caso fortuito. E la Regione non è né proprietaria della fauna selvatica, né il soggetto incaricato di custodirla concretamente. Il giudice del merito, condannando la Regione Liguria al risarcimento dei danni, in via solidale con gli altri enti coinvolti, sulla base dell’erroneo presupposto che continui a gravare sulla stessa il controllo e la gestione della fauna selvatica ha, comunque, violato i principi generali del nostro ordinamento giuridico in materia di imputabilità e responsabilità per fatto illecito. Il motivo non è fondato. La sentenza impugnata ha accettato, con ragionamento corretto e completo, il fatto che la Regione e la Provincia non avevano adottato adeguate e sufficienti misure atte ad evitare che la fauna selvatica non provocasse danni alle persone e cose. In particolare ha ritenuto la responsabilità della Regione per le ragioni più sopra dette, e quella, della Provincia rilevando che “la responsabilità di quest’ultimo ente (la Provincia) non vada ricercata nel dispositivo di cui all’art. 2052 c.c., perché non può essere considerata né proprietaria né custode dell’animale, ma in base ai principi generali di cui al precedente art. 2043 quale proprietaria della strada sulla quale è avvenuto il sia pur modesto sinistro”. Infatti, in tema di responsabilità extracontrattuale, il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (Cass. 24 giugno 2003, n. 10008). Comportamento colposo che il giudice del merito ha ritenuto di individuare, rilevando che: “Su detta strada GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE (quella sulla quale è avvenuto il sinistro), che attraversa una zona densamente popolata di animali selvatici non è stato installato alcun avvertimento segnalante il pericolo; è stato sostenuto che detta segnaletica non sarebbe di per sé idonea ad evitare possibili incidenti e su ciò non si ritiene di interloquire; tuttavia sarebbe sufficiente ad invitare l’utente a prestare la massima attenzione ed a procedere con la massima prudenza”. Trattasi di accertamento compiuto dal giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità. Con il quarto motivo denuncia: “Art. 360, comma 1, n. 3 e/o n. 5 c.p.c. Violazione, di principi costituzionali e generali. Difetto di motivazione”. Deduce la violazione degli artt. 111 Cost. e 118 disp. att. c.p.c. che stabiliscono, il primo che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati ed il secondo che anche nelle sentenze rese dal giudice di pace secondo equità debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione. Nel caso di specie la sentenza con la quale il giudice di pace ha condannato la Regione Liguria, in solido con gli altri enti convenuti, ai danni subiti dall’autovettura del S., per ciò che concerne particolarmente la Regione Li- guria, non solo viola il principio costituzionale dell’obbligo di motivazione di ogni provvedimento giurisdizionale, ma anche le norme di natura processuale che impongono al giudice di adottare una motivazione sufficiente, adeguata e coerente. Tale violazione è più evidente considerato che le Regione è stata condannata in quanto “responsabile della gestione della fauna selvatica” e, quindi, sulla base di un erroneo presupposto. La sentenza, seppure resa secondo equità, “nel momento in cui pone a base della condanna pronunciata nei confronti della regione convenuta la "responsabilità di gestione della fauna selvatica” non si limita semplicemente a creare ex novo una norma giuridica che non ha alcun effettivo riscontro nel nostro ordinamento, ma addirittura fonda la decisione su un erroneo convincimento di base che attiene ad un punto decisivo della controversia. Il motivo sostanzialmente ripropone le censure evidenziate nell’esame dei precedenti ai quali, pertanto, si rimanda sottolineando la correttezza e congruità delle motivazioni adottate. Conclusivamente il ricorso va rigettato. ... Omissis... IL COMMENTO di Roberto Foffa La Cassazione non cambia idea: l’art. 2052 c.c. non si applica ai danni provocati dagli animali selvatici. Dall’esame della più recente giurisprudenza, tuttavia, emergono seri dubbi in ordine alla reale natura della responsabilità dell’amministrazione. Per l’ennesima volta la Cassazione torna a pronunciarsi in materia di danni provocati ad un’automobilista da un animale selvatico. A dire la verità, i danni, come spesso accade in questi casi, interessano soprattutto lo sfortunato capriolo finito arrotato. L’automobile riporta solo qualche modesto danno, quantificato in mille euro, di cui il proprietario chiede il risarcimento allo Stato Italiano, alla Regione (nel caso concreto, la Liguria) titolare dell’obbligo di protezione e controllo sulla fauna selvatica, nonché alla Provincia (di Savona) proprietaria della strada. Il Giudice di Pace ritiene corresponsabili questi tre enti, condannandoli al pagamento della complessiva somma di euro 516,00, nella misura di un terzo ciascuno, nonché al 50% delle spese del giudizio. La Regione, probabilmente sgomenta per l’ingente condanna ricevuta, suscettibile di mettere a repentaglio il disegno di contenimento della spesa pubblica, propone un ricorso per Cassazione articolato in quattro motivi. Il primo motivo è la consueta questione di giurisdizione, sistematicamente sollevata dalle Pubbliche Amministrazioni, che comporta l’assegnazione della causa alle Sezioni Unite. Richiamandosi alla più recente linea interpretativa (1), che riconosce un vero e proprio un diritto soggettivo a conseguire il risarcimento del danno, le Sezioni Unite rigettano il primo motivo, affermando la giurisdizione del giudice ordinario. La questione passa, quindi, al vaglio della Terza Sezione, per l’esame dei restanti motivi. La legge sulla caccia e la normativa regionale La difesa dei ricorrenti si fonda sul rapporto tra la legge sulla caccia n. 157/92 e la legge regionale ligure n. 29/94, che le ha dato puntuale attuazione. Ai sensi dell’art. 2 della citata legge regionale, «Le province esercitano le funzioni amministrative in materia di caccia, protezione e controllo della fauna selvatica ai sensi dell’art. 14 legge 142/90, nel rispetto di quanto previsto dalla presente legge», mentre il successivo art. 36 delega alle Province i compiti di controllo della fauna selvatica. Successivi regolamenti regionali hanno perfezionato l’attribuzione di compiti alle Province: pertanto, la Regione nel proprio ricorso nega la propria qualità di legittimata passiva, avendo legislativamente attribuito tutte le funzioni di gestione e controllo della fauna alle amministrazioni provinciali. La tesi, però, viene facilmente smontata dalla DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1093 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE Suprema Corte, sulla base del disposto della legge n. 157/92. Le Regioni a statuto ordinario, si legge nell’art. 1 della legge, provvedono ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica “in conformità alla presente legge”, e sono, inoltre, titolari della funzione di pianificazione faunistico-venatoria (art. 10), coordinando le funzioni delle Amministrazioni provinciali. Alle Province, in sostanza, spettano solamente le funzioni amministrative ed esecutive in materia di caccia e di protezione della fauna; ma le funzioni essenziali di programmazione e coordinamento rimangono in capo alle Regioni. È compito delle Regioni, non delle Province, istituire, ex art. 26 legge n. 157/92, lo speciale fondo destinato alla prevenzione e ai risarcimenti dei danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta. Pertanto tocca alle Regioni, non alle Province la scomoda funzione di «predisporre tutte le misure idonee per evitare che gli animali selvatici arrechino danni»: lo potranno fare mediante le Amministrazioni provinciali, delegando loro i compiti amministrativi (come nel caso della legge regionale ligure), ma la responsabilità rimane interamente a loro carico. Pertanto, sotto questo primo profilo, la pronuncia in esame individua senza alcuna incertezza il soggetto cui il danneggiato può rivolgere le proprie domande risarcitorie: la Regione, titolare della funzione di gestione e, potremmo dire, custodia della fauna selvatica. Nel caso in esame, è delineata anche una responsabilità della Provincia: ma solo in quanto ente proprietario della strada, per aver colposamente omesso di evidenziare, mediante apposita segnaletica verticale, la situazione di pericolo. Responsabilità oggettiva o 2043 (2)? Entrambi gli Enti vengono ritenuti responsabili ex art. 2043 c.c. La Provincia, per la colposa omissione appena descritta: una colpa talmente evidente da non rendere neppure necessario il ricorso all’art. 2051 c.c., norma di riferimento per la responsabilità degli enti proprietari delle strade. Sul punto, la motivazione è ampia e dettagliata. Non altrettanto appagante il passaggio sulla responsabilità della Regione. Questa, nel proprio ricorso, aveva lamentato come la sentenza di merito non avesse considerato «i principi in materia di imputabilità del fatto dannoso al soggetto chiamato a risponderne, condannando la Regione sull’erroneo presupposto che la stessa sia responsabile per la tutela e la gestione concreta della fauna selvatica». Con immagine suggestiva ma indubbiamente efficace, aveva sottolineato che non poteva esserle imputato alcun comportamento doloso o colposo in relazione all’attraversamento della strada da parte del capriolo. E tutti i torti, forse, non li aveva. La Cassazione si limita a ribadire che alla Regione spetta l’obbligo di predisporre tutte le misure idonee ad evitare che gli animali provochino danni: nei casi in cui la fauna provoca un danno il cui risarcimento non è previsto da apposite norme, la Regione ne può essere chia- 1094 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 mata a rispondere ex art. 2043 c.c. Escluso, invece, qualunque margine per l’operatività dell’art. 2052 c.c., «inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici» (3). Da questa sbrigativa motivazione non è dato individuare la condotta ritenuta rilevante ex art. 2043 c.c., mentre l’inutilizzabilità dell’art. 2052 c.c. viene data per scontata. Una motivazione di questo tipo pare sintomatica della stagnazione dell’annoso dibattito sulla natura della responsabilità delle Pubblica Amministrazione. Un dibattito iniziato quando la legge 27 dicembre 1977, n. 968 stabilì (art. 1) che «la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale». Da res nullius (4), gli animali selvatici divenivano a tutti gli effetti di proprietà dello Stato, entrando a far parte del suo patrimonio e rendendo, per la prima volta, risarcibili i danni provocati dalla fauna selvatica. La citata “legge sulla caccia” ha, poi, precisamente individuato l’Amministrazione responsabile in quella regionale: come si è visto, l’attribuzione di funzioni di controllo, gestione e tutela degli animali selvatici comporta un obbligo positivo di vigilanza degli animali, atto ad evitare che con il loro comportamento arrechino danni a terzi. Qual è, però, la norma applicabile alla Regione? Secondo alcuni autori (ma anche secondo la giurisprudenza costante della Suprema Corte e la Corte Costituzionale (5)), si tratta di responsabilità aquiliana “pura”, da valutare secondo i principi generali dell’art. 2043 c.c. (6). Certamente l’applicazione dell’art. 2052 c.c., ad una prima analisi, potrebbe forse apparire più logica. Tuttavia la CassazioNote: (1) Da ultimo, Cass., sez. un., 17 marzo 2004, n. 5417, in questa Rivista, 2005, 290; Cass., sez. un., 30 dicembre 1998, n. 12901, in Riv. giur. ambiente, 1999, 504. (2) Tra i numerosi contributi dottrinali si segnalano: Guarda, Automobilisti danneggiati dalla fauna selvatica: regole di responsabilità e piani di indennizzo no-fault, in questa Rivista, 2004, 1181; Bitetto, Danni provocati da animali selvatici: chi ne risponde e perché?, in Danno e resp., 2003, 273; Maresca, Gli uccelli e l’uva: le sezioni unite tornano sugli animali famelici, in questa Rivista, 1999, 1096; Caputi, commento a Cass. 27 ottobre 1995, n. 11173, in Foro it., 1996, I, 564; Centofanti, commento a Cass. 12 agosto 1991, in Foro it., 1992, I, 1795; Franzoni, La responsabilità oggettiva, vol. II, Padova, 1988; Di Giovine, La RC per i danni causati da animali, in La Responsabilità Civile, a cura di Cendon, vol. XI, Torino, 1998; Palmieri, Ripopolamento di cinghiali e danni alle colture, in Dir. giur. agr., 1980, 227; Ventrella, Danno cagionato da animali: fondamento della responsabilità ed individuazione dei soggetti responsabili, in Giust. civ., 1978, 741; Cendon, Commento alla legge 27 dicembre 1977, in Nuove leggi civili, 1979, 462. (3) La Cassazione cita testualmente la sentenza 24 giugno 2003, n. 10008, in Giust. civ. Mass., 2003, fasc. 6. (4) Ai sensi del r.d. n. 1016 del 1939, art. 2, comma 1. (5) Corte cost., ordinanze n. 4 del 4 gennaio 2001 e nn. 581 e 579 del 29 dicembre 2000, tutte in Foro it., 2001, I, 377: secondo la Consulta il danno da fauna selvatica rappresenta un’eclatante eccezione al principio ubi commoda, ibi incommoda, giustificata dal fatto che lo Stato non diventerebbe proprietario degli animali selvatici per utilizzarli o usufruirne in un qualunque modo (e quindi per trarne i commoda), ma unicamente per proteggerli e tutelarli, nell’interesse comune ed a spese della collettività. (6) Garri, La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, Torino, 2000, 432 ss. GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE ne, in numerose sentenze (7) certo meglio argomentate di quella in esame, ha tracciato un quadro interpretativo che non si presta facilmente ad obiezioni. Secondo la Suprema Corte, infatti, l’art. 2052 c.c. è utilizzabile solo per danni provocati da animali domestici o in cattività. Questo sulla base di numerose ragioni; fondamentalmente, per l’assenza in capo al soggetto caricato di tale responsabilità di specifici poteri giuridici e fattuali di uso, governo e controllo dell’animale, capaci di limitare la potenzialità dannosa, e nella stessa ratio dell’art. 2052 c.c., che lo renderebbe inapplicabile al caso in esame. Parte della dottrina concorda con questa visione, ritenendo che l’applicazione dell’art. 2052 c.c. sia da escludersi, laddove non risulti una vera e propria situazione di custodia, ossia di disponibilità giuridica e di fatto, con relativo potere/dovere di controllo e vigilanza sull’animale. La fauna selvatica, in mancanza di un simile potere in capo allo Stato, deve ritenersi al di fuori del campo di applicazione della norma (8). L’interesse pubblico alla tutela della fauna comporta, infatti, il rispetto della libertà della fauna: l’animale selvatico è per definizione ingovernabile e l’unico modo di sorvegliarlo continuativamente sarebbe ridurlo in cattività (9). Lo Stato, pertanto, sarebbe un proprietario sui generis, molto diverso dal responsabile civile individuato dall’art. 2052. La presunzione di responsabilità prevista da questa norma, secondo la Cassazione e la dottrina citata, si connetterebbe necessariamente con la presenza di concreti poteri di sorveglianza e controllo; per tutte queste ragioni, la norma non risulta utilizzabile per i danni causati da animali selvatici. Secondo altra parte della dottrina (10) e la maggioranza della giurisprudenza di merito (11), invece, la responsabilità dell’Amministrazione si colloca nell’alveo dell’art. 2052 c.c.: lo Stato, in quanto proprietario della fauna, deve rispondere dei danni da essa provocati, in base al comune principio ubi commoda, ibi incommoda. Anche alcuni autori (12) si sono dimostrati favorevoli a questa soluzione, anche per evitare che, come nel caso dell’art. 2051 c.c. rispetto alla responsabilità dell’ente proprietario della strada, l’inapplicabilità della norma si traduca in un ingiustificato privilegio di cui gode la P.A., unico proprietario a non rispondere dei danni provocati dall’animale secondo il criterio di imputazione dell’art. 2052 c.c. (13). Le dispute teoriche non devono, però, far perdere di vista la reale materia del contendere, emergente con estrema chiarezza dalla sentenza in commento: la reale applicabilità, o, meglio, la reale applicazione dell’art. 2043 c.c. agli enti pubblici. Consideriamo la situazione di fatto: il povero capriolo attraversa la strada e viene falciato. Il primo e più ovvio responsabile è il proprietario della strada, in questo caso la Provincia: la sua responsabilità viene connessa, anziché all’art. 2051 c.c., all’art. 2043 c.c. e sul punto, come si è visto, la sentenza è ben argomentata e pienamente condivisibile. Va detto, però, che in questo caso il ricorrente ha avuto la “fortuna” di trovarsi di fronte ad una colpa evidente. In passato non sono mancate pronunce in cui si è fatto riferimento, per affermare la responsabilità dello Stato, al dovere della P.A. di curarsi che il bene non presenti per l’u- tente una situazione di pericolo occulto (insidia o trabocchetto), quale può certamente considerarsi la presenza sulla rete stradale di un capriolo o un cinghiale (14). Tuttavia, nel caso in esame, è stata affermata anche la responsabilità della Regione per non aver adottato misure sufficienti ad evitare danni cagionati dalla fauna. Non è per amore di polemica che si vuole contestare l’applicazione Note: (7) Cass. 14 febbraio 2000, n. 1638, in Danno e resp., 2000, 397; Cass. 13 dicembre 1999, n. 13956, in Giur. it., 2000, 1594; Cass. 15 marzo 1996, n. 2192, in Foro it., 1996, I, 1216, con osservazioni di M. Caputi, e in questa Rivista, 1996, 591. Si riportano anche alcune pronunce di merito sulla medesima linea: Giud. di pace di Torino 8 marzo 2001, in Giur. it., 2001, 1634; Giud. di pace di Asti 10 luglio 1999, in Dir. e giur. agr. e amb., 2001, 61, con nota di Carmignani, Fauna: danno e responsabilità; Trib. Firenze 13 maggio 1994, in Foro it., Rep. 1995, voce Responsabilità civile, n. 184. (8) Il primo ad escludere la responsabilità dello Stato fu Cendon, Protezione e tutela della fauna e disciplina della caccia. L. 27 dicembre 1977 n. 968, in Nuove leggi civ., 1979, 462. Sulla stessa linea Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, 691; Alpa - Bessone - Zeno-Zencovich, I fatti illeciti, in Trattato di diritto privato, a cura di Rescigno, Torino, 1995, 357; Jannarelli, La responsabilità civile, in Istituzioni di diritto privato, a cura di Bessone, Torino, 1995, 935. (9) In questo senso Cendon, Protezione e tutela della fauna e disciplina della caccia, cit., 462; Comporti, Presunzioni di responsabilità e pubblica amministrazione: verso l’eliminazione di privilegi ingiustificati, cit., 846; Bitetto, Danni provocati da animali selvatici: chi ne risponde e perché? cit., 276; Agnino, commento a Cass. 29 settembre 2000, in Foro it., 2001, I, 1651. (10) Franzoni, cit., 547; Ronco, Il cinghiale e l’automobile, in Giur. it., 2001, 1634; Maresca, cit., 1100; Bitetto, cit., 279; Ventrella, cit., 744. (11) Giud. di pace di Perugia 27 aprile 1999, in Rass. giur. umbra, 1999, 788; Trib. Perugia 28 giugno 1996, ivi, 1997, 27; Trib. Perugia 11 dicembre 1995, in Foro it., 1997, I, 315; Trib. Firenze 13 maggio 1994, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1995, 46; Giud. di pace di Città di Castello 30 dicembre 1998, in Foro it., Rep. 2000, voce Responsabilità civile, n. 349; Trib. Perugia 11 dicembre 1995, in Foro it., 1997, I, 315; Pret. Ceva 22 marzo 1988, ivi, Rep. 1989, voce cit., n. 150, ed anche, per esteso, in Giur. agr. it., 1989, 110, con nota adesiva di Masini, Sulla responsabilità civile dello Stato per i danni cagionati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole, ai sensi dell’art. 2052 c.c.; Pret. Cosenza 5 luglio 1988, ivi, 1988, I, 3629. (12) Tra i più critici: Castagnaro, Osservazioni sul criterio di imputazione della responsabilità per i danni prodotti dalla fauna selvatica, in Giur. it., 2000, 1594; Di Ciommo, Il cinghiale carica, nessuno risponde: brevi appunti sulla (ir)risarcibilità dei danni causati da animali selvatici, in Danno e resp, 2000, 397; Resta, La p.a. e i danni cagionati dalla fauna selvatica, ivi, 1996, 592; Franzoni, La responsabilità oggettiva, I, cit., 547; Comporti, Presunzioni di responsabilità e pubblica amministrazione: verso l’eliminazione di privilegi ingiustificati, in Foro it., 1985, I, 1497; Bitetto, commento a Cass. 24 settembre 2002, n. 13907, ivi, 2003, I, 157 (con relativi richiami). (13) Lapidario Maresca, Gli uccelli e l’uva: le sezioni unite tornano sugli animali famelici, cit., 1100: «Se la necessità di lasciare libera la fauna selvatica di crescere e riprodursi è certamente espressione di civiltà, non assumersi il peso dell’intera reintegrazione per i danni provocati dagli animali selvatici è sintomo d’irresponsabilità, che si traduce in un ingiustificato privilegio». Si segnala anche l’isolata posizione dell’autore del presente commento in ordine alla possibile applicabilità dell’art. 2051 c.c., potendosi configurare in capo alla P.A. una vera e propria responsabilità da cose in custodia: Foffa, Cinghiali e conflitti di giurisdizione, in Danno e resp, 2005, 290. (14) Cass. 22 aprile 1999, n. 3991, in Foro it., Rep. 1999, voce Responsabilità civile, n. 289; Cass. 4 dicembre 1998, n. 12314, in Danno e resp, 1999, 874, con nota di Laghezza, Trabocchetto e responsabilità della p.a.: Corte costituzionale e Cassazione a confronto. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1095 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE dell’art. 2043 c.c., visto che è stata riconosciuta possibile, una volta tanto. Normalmente, infatti, il cittadino che invoca questo tipo di tutela risarcitoria si trova di fronte a difficoltà probatorie insormontabili (15), con conseguente frustrazione, quasi sistematica, delle pretese risarcitorie. Sono veramente poche le ipotesi in cui si può rintracciare in capo alla P.A. una condotta dolosa o colposa consistente nel non aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno: rarissime, poi, quelle in cui una condotta di questo tipo può rintracciarsi addirittura in capo a due Amministrazioni. Nel suo piccolo, forse, la sentenza in esame rappresenta un unicum (16). Ad ogni modo, la sollecitudine con cui l’estensore si è affrettato a statuire la responsabilità ex art. 2043 c.c. della regione lascia perplessi. Non viene chiarito, tra l’altro, quale sarebbe la condotta contrassegnata da dolo o colpa tenuta dalla Regione (quando, invece, viene più volte sottolineata quella della Provincia), o quali cautele avrebbe omesso di adottare per evitare il danno. Non viene nemmeno stabilito, in verità, un preciso nesso causale tra la condotta della regione ed il danno subito dal cittadino. In definitiva, cosa avrebbe dovuto fare la Regione? Monitorare ogni singolo capriolo, facendo in modo che non si avvicinasse alla strada? Recintare tutta la zona abitata dagli animali selvatici? Chiedere alla provincia la chiusura della strada, dichiarando di non essere in grado di garantire al 100% che gli animali selvatici non avrebbero creato problemi alla circolazione? Non si possono realisticamente esigere misure simili, soprattutto se si nega che la P.A. disponga di quei poteri di vigilanza e di controllo da cui discende l’applicazione dell’art. 2052 c.c. Si può ipotizzare che l’estensore abbia sposato la linea interpretativa ben espressa dalla sentenza 13907/02 (17), secondo la quale la responsabilità della regione va connessa al generale precetto del neminem laedere e la responsabilità per i danni cagionati dalla fauna selvatica va attribuita al soggetto pubblico che di tale fauna abbia in qualche modo la cura e la custodia, se non sorveglia le manifestazioni di intemperanza della stessa, omettendo di adempiere al proprio dovere di vigilanza. La sentenza ribalta, in concreto, l’onere probatorio del danneggiato, creando un meccanismo di presunzione della colpa in capo all’Amministrazione. La strada seguita da questa sentenza sembra simile. L’estensore ha posto l’accento sul fatto che alle Regioni compete l’obbligo di predisporre tutte le misure idonee ad evitare i danni; se questi si verificano ed il risarcimento non è previsto da apposite norme, scatta il 2043 c.c. Chiara l’inversione dell’onere probatorio. Tocca, infatti, alla Regione dimostrare la propria diligente condotta, anche se non è ben chiaro in che modo possa farlo. Se il danno si è verificato, come potrà la regione dimostrare che le misure adottate erano idonee ad evitarlo? Si è prodotto, quindi le misure erano inidonee: un sillogismo con poche vie d’uscita. Rimarrebbe soltanto la prova che l’evento era assolutamente imprevedibile ed inevitabile, oppure che è derivato da un fatto del danneggiato o da fattori esterni ed incontrollabili: in sostanza, la prova del caso fortuito. 1096 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 A questo punto, ci si può seriamente domandare se, al di là delle enunciazioni, la Cassazione stia realmente applicando il 2043 c.c. o non abbia, in realtà, creato una regola responsabilità oggettiva. Perché quella che si viene delineando è una vera e propria presunzione di responsabilità, non di colpa, costruita sulla scorta della previsione legislativa che impone alla Regione obblighi di custodia. Una presunzione relativa, suscettibile di prova contraria: un prova, tuttavia, piuttosto articolata, visto che la Regione dovrebbe dimostrare non solo di aver predisposto tutte le misure del caso, ma anche che l’accaduto esorbita da quanto si potrebbe ragionevolmente esigere da parte sua. Una prova liberatoria, come si può vedere, del tutto analoga a quella che la P.A. proprietaria della strada è tenuta a fornire in materia di responsabilità da cosa in custodia (18). Affermare che la Cassazione ponga in essere una nascosta, quasi inconfessabile applicazione dell’art. 2052 c.c. non è, però, così semplice. In primo luogo, perché è la stessa Corte, sulla scorta di una giurisprudenza di legittimità assolutamente pacifica, a negare, esplicitamente, l’applicabilità della norma. Inoltre, rimangono valide le già esaminate obiezioni della Suprema Corte: il 2052 c.c. comporta la titolarità di poteri capaci di limitare la potenzialità dannosa degli animali selvatici, e la ratio legis appare profondamente incompatibile con la fauna selvatica. Quanto al primo punto, come già detto in altra occasione (19), negare in assoluto la titolarità di poteri di controllo in capo alla P.A. appare assurdo: significherebbe sacrificare alla tutela della fauna l’interesse dei cittadini che da questa sono danneggiati, riconoscendo un più alto livello di tutela alle bestie selvatiche che ai cittadini. Sarebbe, tuttavia, anche antieconomico, perché la mancanza di prevenzione comporterebbe un numero molto alto di risarcimenti. L’oggettiva difficoltà nel controllare gli animali selvatici non può certo giustificare la mancata predisposizione di opportune misure preventive; piuttosto, dovrebbe servire per stabilire i confini dell’obbligo del proprietario, delimitando il caso fortuito. Note: (15) Argutamente sottolineati da Bitetto, Danni provocati da animali selvatici: chi ne risponde e perché?, cit., 276 e Maresca, Gli uccelli e l’uva: le sezioni unite tornano sugli animali famelici, cit., 1098. (16) Si veda, quale indizio di una possibile inversione di tendenza, la recente sentenza del Giudice di pace di Pontedecimo 11 novembre 2004, in Foro it., 2005, I, 1970 (la cui argomentazione non appare del tutto convincente sotto il profilo dell’applicazione del 2043). Tra i rari precedenti, l’inedita Conc. Boiano 18 aprile 1995, confermata da Cass. 13956/99 cit., e Giud. di pace di Novafeltria 11 settembre 1999, in Giud. di pace, 2000, 106. (17) Cass. 24 settembre 2002, n. 13907, in Foro it., 2003, I, 157, con nota di Bitetto: «La Regione ha l’obbligo di predisporre tutte le misure idonee atte ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o a cose; quindi, nell’ipotesi di danno provocato dalla fauna selvatica ed il cui risarcimento non sia previsto da apposite norme, la Regione può essere chiamata a rispondere in forza della disposizione generale del neminem laedere». (18) Per tutti Cass. 23 luglio 2003, n. 11446, in Foro it., 2004, I, 511. Contra, Cass. 15 gennaio 2003, n. 488, in Danno e resp, 2003, 735. (19) Foffa, Cinghiali e conflitti di giurisdizione, cit., 297. GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ CIVILE Rimane, però, un dato di fatto: l’art. 2052 c.c. riguarda gli animali domestici o comunque ammansiti, rispetto ai quali sussiste un rapporto immediato e rispetto ai quali si dispone di concreti ed immediati poteri d’intervento. Il 2052 c.c. è stato creato per i casi in cui un animale costantemente sotto controllo causa danni a cose o persone, mentre le Amministrazioni competenti hanno piuttosto il compito di tutelare al massimo la libertà degli animali ed evitare, per converso, che siano le persone a causare loro danni. Si ribadisce, pertanto, la sensazione già espressa in altra sede: la norma più appropriata a queste situazioni, per evitare sia situazioni di privilegio per la P.A., sia situazioni - come questa - di responsabilità oggettiva contrabbandata per applicazione del 2043 c.c., sembra essere il 2051 c.c. Ed infatti, sembra proprio questa la norma realmente applicata dalla Cassazione nel caso in esame, al di là del formale richiamo al 2043 c.c. La funzione attribuita alle Regioni dalla legge sulla caccia è, a tutti gli effetti, un obbligo di custodia. Se “custode” è il soggetto che, a qualsiasi titolo, dispone sulla cosa di un potere non solo giuridico, ma anche fattuale, vale a dire di un’effettiva signoria, un reale controllo (20), su cui grava l’obbligo di controllo e di protezione per evitare che la cosa crei situazioni di rischio per terzi (21), la cui responsabilità viene meno soltanto quando si dimostra che l’e- stensione o comunque le caratteristiche della cosa sono tali da rendere impossibile un controllo continuativo…la funzione di «predisporre tutte le misure idonee per evitare che gli animali selvatici arrechino danni» sembra cucita su misura. La Regione non sarà proprietario delle bestie selvatiche: ma, a tutti gli effetti, ne è il custode, con la relativa responsabilità. Note: (20) Si segnala, in proposito, la pragmatica ricostruzione di Di Giovine, La r.c. per i danni cagionati da cose, in Cendon (a cura di), La responsabilità civile, vol. XI, Torino, 1998, 307 ss., con i cospicui richiami giurisprudenziali. (21) Efficacemente, Cass. 23 gennaio 1985, n. 288, in Dir. e prat. ass., 1989, 952: «La responsabilità sancita dall’art. 2051 c.c. - fondandosi sulla relazione diretta tra la cosa e l’evento dannoso nonché sulla esistenza di un effettivo potere fisico del soggetto sulla cosa - sorge per effetto della violazione dell’obbligo di vigilare e di mantenere sotto controllo la cosa medesima, in modo da impedire il verificarsi di qualsiasi pregiudizio per i terzi. Conseguentemente, a carico del soggetto titolare di quel potere sussiste una presunzione iuris tantum di colpa, che può essere vinta unicamente dalla prova che l’evento dannoso sia derivato da caso fortuito, inteso nel senso più ampio, comprensivo cioè anche del fatto del terzo e del fatto del danneggiato». In dottrina, a puro titolo esemplificativo, appoggiano quest’interpretazione Alpa, Responsabilità civile e danno, Bologna, 1991, 88; Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Milano, 1965, 182; Bianca, Diritto civile, vol. V - La responsabilità civile, Milano, 1994, 716. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1097 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Visure ipotecarie La diligenza professionale del notaio: obblighi di visura e informazione CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 11 gennaio 2006, n. 264 Pres. Duva - Rel. Vivaldi - P.M. Fuzio (conf.) - B. ed altri c. Mediovenezie Banca S.p.A. ed altri Acquisto di immobile con pagamento del prezzo mediante accollo di quota di mutuo - Mancati frazionamento e cancellazione dell’ipoteca - Responsabilità civile della banca - Insussistenza - Responsabilità professionale del notaio Sussistenza. (c.c. artt. 1175, 1176, 1239, 1324, 1375, 1421, 2697, 2809, 2826, 2841, 2858; d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, artt. 39, 161; d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, artt. 2, 3) Il mancato adempimento dell’obbligo di informazione da parte del notaio integra un elemento essenziale della sua prestazione professionale, ed il suo inadempimento costituisce violazione delle obbligazioni derivanti dal contratto di prestazione d’opera professionale. Infatti, per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall’incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell’oggetto della prestazione d’opera professionale, poiché l’opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività, preparatorie e successive, necessarie perché siano assicurate la serietà e la certezza dell’atto giuridico da rogarsi e, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti. Svolgimento del processo ... Omissis... Motivi della decisione ... Omissis... Con il primo motivo del ricorso principale le ricorrenti denunciano la “Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, sull’obbligo della banca di procedere al frazionamento. Violazione del d.lgs. n. 385 del 1993, art. 39, comma 6, in relazione al d.lgs. n. 385 del 1993, art. 161, comma 6, in relazione al d.lgs. n. 385 del 1993, art. 161, comma 6, e, d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, comma 5”. Rilevano che la Corte di merito ha respinto le domande proposte dalle attuali ricorrenti nei confronti della Mediovenezie Banca S.p.A. di cancellazione dell’ipoteca gravante sui rispettivi immobili e di condanna al risarcimento del danno sul presupposto che, in base alla normativa disciplinante il contratto di mutuo in esame (d.P.R. n. 7 del 1976), non sussisteva un diritto al frazionamento dell’ipoteca, introdotto solo con il d.lgs. n. 385 del 1993, art. 39, comma 6. In mancanza di un tal diritto, non sussiste - secondo la sentenza impugnata - un obbligo dell’istituto mutuante al frazionamento derivante da un dovere di correttezza e buona fede operante solo in materia contrattuale e la cui violazione al di fuori di un rapporto contrattuale è fonte di responsabilità solo in quanto concreti la violazione dell’altrui diritto, non rinvenibile nel caso di specie. Ritengono che in base al d.lgs. n. 385 del 1993, art. 161, comma 6, restano regolati dalle norme anteriori, ora abrogate, solo “i contratti già conclusi e i procedimenti esecutivi in corso alla data di entrata in vigore del Testo Unico”. Da tale disposizione si evince che non sussiste limitazione al diritto al frazionamento in capo al terzo acquirente. Non sussiste, infatti, fra quest’ultimo e la banca alcun rapporto contrattuale, con la conseguenza che, non essendo la fattispecie riconducibile a quella dei “contratti già conclusi”, la stessa esula dall’applicazione del d.lgs. n. 385 del 1993, art. 161, comma 6. Anche vigente il d.P.R. n. 7 del 1976, il frazionamento doveva ritenersi un atto dovuto da parte della banca, in quanto la normativa speciale sul credito fondiario individuava già all’epoca una diversa disciplina rispetto al DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1099 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE generale principio di indivisibilità ipotecaria di cui all’art. 2809 c.c. Ed anche il d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, comma 5, (poi legge n. 175 del 1991, art. 5, comma 5) prevedeva la possibilità di suddivisione del mutuo in quote e, correlativamente il frazionamento dell’ipoteca sulle varie unità immobiliari che compongono il complesso condominiale. Inoltre, deve aggiungersi che la disciplina del credito fondiario prevede espressamente l’ipotesi che la vendita giudiziaria si effettui per lotti (d.P.R. n. 7 del 1976, ora d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 41, comma 5), in sintonia con gli artt. 576, 577 e 578 c.p.c. Questo tipo di vendita comporta la suddivisione del mutuo ed il frazionamento dell’ipoteca con i criteri della divisione (cioè identità e proporzionalità delle quote con la consistenza dei lotti). Il giudice dell’esecuzione, una volta avviata la procedura esecutiva da parte della banca, deve stabilire con l’ordinanza di vendita o di assegnazione il prezzo che l’aggiudicatario o l’assegnatario debbono versare alla banca in base al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 141; ciò che appare oltremodo difficile in assenza di un frazionamento dell’ipoteca. Conclusivamente sul punto sussistono elementi logicointerpretativi che inducono a considerare il frazionamento un atto dovuto dalla banca a richiesta anche del terzo acquirente. Con il terzo motivo del ricorso incidentale i ricorrenti incidentali denunciano la “Violazione del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 3, comma 6 e d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 161, comma 1 e 6, - Violazione del giudicato interno - Motivazione contraddittoria - art. 360 c.p.c., n. 3, 4 e 5”. Rilevano l’erroneità della sentenza di merito che ha ritenuto che al rapporto ipotecario intercorrente tra l’Istituto di credito e le ricorrenti principali (terze acquirenti) si applichi la riserva della legislazione previgente di cui al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 161, comma 6, trattandosi di contratto concluso prima del 1° gennaio 1994. Quindi al rapporto ipotecario poteva applicarsi soltanto il d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, e non la nuova normativa. Rilevano i ricorrenti incidentali che in tal modo il giudice di merito ha violato il disposto d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 161, comma 6, ed anche il giudicato interno che aveva affermato l’inesistenza di un rapporto contrattuale fra le ricorrenti principali e l’Istituto di credito. Infatti, solo i contratti, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, ex art. 161, comma 6, restano soggetti alla precedente regolamentazione normativa; non gli altri rapporti che legano i proprietari degli immobili ipotecari all’Istituto di credito fondiario. Se, quindi, il rapporto ipotecario era avulso dal contratto di mutuo, perché i terzi acquirenti dell’immobile gravato non ne erano parti e non erano vincolati, il rapporto non poteva non essere soggetto alla nuova normativa 1100 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 che sanciva l’obbligo dell’istituto di procedere al frazionamento. La sentenza è anche contraddittoria non potendosi ad un tempo affermare l’esistenza e la vincolatività del contratto di mutuo nei confronti delle ricorrenti principali ed, al contempo, negare tutte le conseguenze che da tale vincolatività derivano, in particolare sotto il profilo dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto. I due motivi, relativi al ricorso principale ed incidentale, riguardando le medesime censure, vanno esaminati congiuntamente. I motivi sono infondati. In proposito deve osservarsi che - come correttamente statuito dalla Corte d’appello - ai sensi del combinato disposto del d.lgs. n. 385 del 1993, art. 39, comma 6, e art. 161, comma 6, del d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, comma 5, il diritto alla suddivisione in quote del finanziamento concesso al debitore originario e della relativa garanzia ipotecaria riconosciuto ai terzi acquirenti può affermarsi solo con riferimento ai contratti stipulati dopo il 1° gennaio 1994 data di entrata in vigore della c.d. nuova legge bancaria. Viceversa per quelli conclusi, come nella fattispecie in esame, anteriormente a tale data vige il disposto d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, per il quale il frazionamento configura una rinuncia facoltativa del creditore ipotecario all’indivisibilità dell’ipoteca (Cass. 12 febbraio 2003, n. 2073). Infatti, il frazionamento è solo formalmente un contratto con il mutuatario perché esso, consistendo in una rinuncia all’indivisibilità dell’ipoteca, costituisce un diritto del creditore ipotecario, diritto al quale solo quest’ultimo può rinunciare. Quindi, il contratto di finanziamento in realtà consacra tale rinuncia unilaterale dell’istituto di credito all’indivisibilità; rinuncia in ordine alla quale il terzo acquirente dell’immobile, già ipotecato, non può avere alcun diritto contrario e prevalente, non potendo influire sulla rinuncia stessa (Cass. 14 dicembre 1990, n. 11916). Né può dirsi che al terzo acquirente appartenga un tale diritto sul presupposto che non è parte del contratto concluso con l’ente mutuante, per le ragioni più sopra evidenziate. Con il secondo motivo del ricorso principale denunciano la “Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: sull’obbligo della banca di mantenimento del rapporto tra la somma mutuata e valore cauzionale. Violazione del d.P.R. n. 7 del 1976, art. 2, lett. a)”. Rilevano l’erroneità della decisione di merito che ha ritenuto non sussistere in capo all’Istituto di credito l’obbligo del mantenimento del rapporto tra somma mutuata e valore cauzionale. In proposito si deve tenere conto che già il d.P.R. n. 7 del 1976 prevedeva che la concessione del mutuo poteva avvenire per una percentuale pari, come importo massimo, al 50% del valore cauzionale (art. 2 decreto citato, lett. a). E le stesse percentuali fissate dalla legge per la concessio- GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE ne del mutuo devono essere necessariamente rispettate nel procedere al frazionamento dell’ipoteca, assolutamente indispensabile nel caso di ipoteca costituita su complesso condominiale al fine di determinare la quota di mutuo gravante su ogni singolo immobile. Nel caso di specie, pertanto, nel procedere al frazionamento dell’ipoteca, la banca avrebbe dovuto imputare a ciascun immobile una quota di mutuo pari al 41,17% del valore del bene. Con il terzo motivo del ricorso principale denunciano la “Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: sull’applicabilità al caso di specie del principi di correttezza e buona fede”. Contestano la decisione del giudice di merito che ha escluso l’applicabilità, al caso di specie, dei principi di correttezza e buona fede (quali fonti dell’obbligo di procedere a frazionamento) sul presupposto che tra il creditore ipotecario (la Mediovenezie) ed i terzi acquirenti degli immobili non vi sarebbe alcun rapporto contrattuale. Infatti, se è vero che tra i terzi acquirenti e la banca non è intercorso alcun rapporto contrattuale, tuttavia al terzo acquirente è espressamente riconosciuta dall’art. 2858 c.c. la facoltà di pagare il creditore ipotecario al fine di ottenere la liberazione del bene dall’ipoteca. Tale facoltà riconosciuta al terzo acquirente è un vero e proprio diritto potestativo. Ne consegue che in capo all’istituto di credito vi è l’obbligo di cooperare al fine di consentire il pagamento da parte del terzo acquirente ed il mancato rispetto in tal senso dei principi di correttezza e buona fede, integra il diritto al risarcimento del danno. Errata è anche l’interpretazione del giudice di merito che ha ritenuto non applicabile alla fattispecie concreta il principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., in quanto non sussiste alcun diritto al frazionamento che è stato violato. Anche, nell’ipotesi, infatti, che non sussista un vero e proprio diritto in capo ai terzi acquirenti degli immobili, il diritto, a fronte del quale s’impone alla banca di rispettare il principio del neminem laedere, è il diritto a potere pagare il creditore iscritto riconosciuto dall’art. 2858 c.c. agli stessi. Con il quarto motivo del ricorso principale denunciano la “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5: sulla mala gestio dell’istituto di credito”. Rilevano che la pronuncia di merito appare priva di motivazione con riguardo alla contestazione di mala gestio avanzata nei confronti della banca. Il giudice di merito si è, infatti, limitato ad affermare che “Né ancora, può affermarsi la ipotizzata mala gestio dell’istituto che, se riferita al preteso obbligo di conservare il rapporto con il valore cauzionale, è privo di ogni contenuto...”. L’argomentazione del giudice di merito che non sussisteva l’obbligo di conservare il rapporto con il deposito cau- zionale - con la conseguenza della insussistenza della mala gestio - risulta inidonea a rivelare la ratio decidendi. Infatti, anche ammettendo che non vi sia l’obbligo di mantenimento del rapporto tra valore cauzionale e debito, il rispetto dei doveri di correttezza e buona fede imponevano alla banca di non svincolare la quasi totalità degli immobili facenti parte del complesso condominiale e di mantenere un’adeguata garanzia al fine di evitare che a garanzia di un credito di entità rilevante rimanessero solo tre immobili, con evidente pregiudizio per i proprietari degli stessi. Con il quinto motivo del ricorso incidentale i ricorrenti incidentali denunciano la “Violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede e degli artt. 117, 1375, 1324 e 2043 c.c. - art. 360 c.p.c., n. 3 e 5”. Rilevano che erroneamente la Corte di merito aveva escluso un comportamento contrario ai doveri di correttezza e buona fede da parte dell’Istituto di credito ritenendo che: “Né, escluso per il terzo acquirente, alla stregua della legislazione operante nella specie, il diritto al frazionamento, può ragionevolmente ascriversi all’Istituto mutuante un non meglio precisato dovere di buona fede, che imporrebbe di consentire comunque al frazionamento, non solo perché trattasi di principio operante in materia contrattuale (nessun rapporto negoziale è mai sorto tra la Mediovenezie rimasta estranea al negozio di compravendita e gli appellanti incidentali, neanche per i pagamenti da costoro effettuati, riconducibili all’adempimento del terzo), ma anche, e soprattutto, perché la violazione di siffatto dovere (per quanto, ma è dubbio riconducibile al più generale obbligo del neminem laedere) in tanto può essere fonte di responsabilità in quanto concreti la violazione dell’altrui diritto, nel caso che occupa non rinvenibile”. Né sarebbe ipotizzabile una mala gestio dell’Istituto per non avere conservato il rapporto con il valore cauzionale, mentre non si potrebbe invocare l’art. 2866 c.c., comma 2, perché questa disposizione opera solo quando “il terzo sia chiamato a rispondere dell’intero debito del suo dante causa”, mentre tale norma opererebbe esclusivamente nei rapporti tra debitore originario e creditore ed ogni profilo risarcitorio potrebbe essere fatto valere dal terzo acquirente solo nei confronti di tali soggetti. Tali affermazioni - secondo la tesi dei ricorrenti incidentali - contengono errori di diritto rilevanti ex art. 360 c.p.c., n. 3. In primo luogo, l’obbligo di correttezza e buona fede deve improntare tutti i comportamenti giuridici, traggano gli stessi titolo da rapporti di natura contrattuale, da rapporti in cui ad uno dei soggetti viene attribuita una posizione di preminenza, da diritti potestativi, o anche in ipotesi di rapporti non nati da un contratto. Tali doveri di correttezza e buona fede sono richiamati in moltissime disposizioni del codice civile e, soprattutto, negli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono rispettivamente a creditore e debitore di comportarsi secondo correttezza e di eseguire i contratti secondo buona fede. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1101 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Tali norme si applicano, per il richiamo di cui all’art. 1324 c.c., anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale e comunque ad ogni rapporto obbligatorio; e, quindi, anche ai diritti ed ai poteri che al terzo creditore spettano in forza dell’ipoteca nei confronti del terzo acquirente. Anche la relazione tra creditore ipotecario e terzo acquirente dell’immobile gravato da ipoteca va pur sempre qualificato come rapporto obbligatorio, sebbene non nasca da un contratto concluso dai suoi due soggetti, con la conseguente applicazione dei principi sopraenunciati, di portata generale. “Al creditore ipotecario, come ad ogni titolare di diritti, e così fatto obbligo di conservare le posizioni giuridiche delle persone che sono nei suoi confronti legate, almeno nella misura in cui questo non incida sulle proprie posizioni giuridiche”. Ne consegue che l’affermazione della Corte di merito secondo cui le norme sull’esecuzione dei contratti non sarebbero applicabili alla fattispecie concreta è errata ed in violazione degli artt. 1175 e 1324 c.c. Ad eguale risultato deve pervenirsi anche in ordine all’affermazione, contenuta nella sentenza di merito, secondo la quale neppure il principio del neminem laedere e l’art. 2043 c.c. sarebbe stato violato, poiché le ricorrenti principali non potrebbero lamentare “la violazione dell’altrui diritto, nel caso che occupa non rinvenibile”. In altri termini, il comportamento della Mediovenezie Banca non avrebbe causato danno ingiusto, per difetto di lesione di una posizione soggettiva dei terzi acquirenti qualificabile come diritto soggettivo perfetto. Erronea - secondo i ricorrenti incidentali - è tale affermazione, posto che le ricorrenti principali erano titolari del diritto di proprietà su beni ipotecati, diritto di proprietà violato dal comportamento contrario ai doveri di correttezza e buona fede. Egualmente per ciò che concerne la violazione dell’obbligo “dell’ente mutuante di conservare, sino all’estinzione del mutuo, e dunque con riferimento anche ad eventuali terzi acquirenti, quel rapporto (50%) inderogabilmente previsto dal d.P.R. n. 7 del 1976, art. 2, tra l’ammontare del mutuo ed il valore cauzionale dell’immobile”. Secondo la Corte di merito tale obbligo “deve ritenersi sussistente, atteso il chiaro tenore della disposizione del citato art. 2, solo all’atto dell’erogazione, e cioè dell’originaria stipulazione; contrariamente opinando si perverrebbe, per altra strada, al diritto al frazionamento, superando così il disposto del successivo art. 3, comma 5, decreto citato”. Ad avviso dei ricorrenti incidentali, “anche a dare per ammesso che l’obbligo del rapporto tra importo dato a mutuo e valore cauzionale cessi al momento della conclusione del contratto, esso è pur sempre indice di un dovere, dell’Istituto di Credito fondiario, di operare con criteri di trasparenza e di tranquillità”. 1102 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 Eguali considerazioni valgono per ciò che concerne l’applicabilità dell’art. 2866 c.c., comma 2. La sentenza di merito afferma che non è ipotizzabile una mala gestio dell’Istituto, tenendo presente “il diritto del terzo acquirente, che ha soddisfatto la quota relativa al proprio immobile, di subingresso ex art. 2866 c.c., comma 2, nelle ipoteche iscritte sugli altri beni del debitore inadempiente”. Tale disposizione opera solo “quando il terzo sia chiamato a rispondere dell’intero debito del suo dante causa” ed “esclusivamente nei rapporti tra questi due soggetti”. Anche in tal caso il giudice di merito ha ignorato l’obbligo di buona fede e di conservazione delle posizioni dell’obbligato che gli artt. 1375 e 1175 c.c. impongono anche nel rapporto tra creditore ipotecario e terzo acquirente. Il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso principale ed il quinto motivo del ricorso incidentale riguardano le medesime censure e possono essere esaminati congiuntamente. I motivi sono infondati. In ordine all’erroneità della decisione di merito che ha ritenuto non sussistere in capo all’Istituto di credito l’obbligo del mantenimento del rapporto tra somma mutuata e valore cauzionale deve rilevarsi che il giudice del merito non è incorso in alcuna violazione delle norme citate. Infatti, ai sensi del d.P.R. n. 7 del 1976, art. 2, tale obbligo sussiste soltanto all’atto della erogazione, vale a dire dell’originaria stipulazione (Cass. 1° settembre 1995, n. 9219). Correttamente, quindi, il giudice del merito ha ritenuto non sussistere un obbligo per l’ente mutuante di conservare, fino all’estinzione del mutuo - e quindi con riferimento agli eventuali terzi acquisenti -, quel rapporto inderogabilmente previsto dall’art. 2 citato. Quanto alla violazione dei principi di correttezza e buona fede, deve rilevarsi che la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (Cass. 30 luglio 2004, n. 14605). Nel caso di specie, di fronte all’insussistenza di un obbligo dell’istituto mutuante di procedere al frazionamento nei confronti del terzo acquirente, correttamente il giudice del merito ha ritenuto che “Né, escluso per il terzo acquirente, alla stregua della legislazione operante nella specie, il diritto al frazionamento, può ragionevolmente ascriversi all’istituto mutuante un non meglio precisato GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE dovere di buona fede, che imporrebbe di consentire comunque al frazionamento, non solo perché trattasi di principio operante in materia contrattuale, ma anche, e soprattutto, perché la violazione di un siffatto dovere in tanto può essere fonte di responsabilità in quanto concreti la violazione dell’altrui diritto, nel caso che occupa non rinvenibile”. Trattasi di motivazione puntuale e corretta, resa in conformità ai principi sopra richiamati. Quanto, poi, alla ipotizzata mala gestio deve rilevarsi che di fronte alla insussistenza dell’obbligo di mantenere il rapporto tra valore cauzionale e debito, per le ragioni più sopra evidenziate, correttamente il giudice del merito ha ritenuto che l’istituto di credito non è venuto meno ad alcun dovere di correttezza e buona fede, difettando, pertanto, la configurabilità, nella fattispecie concreta, di un’ipotesi di mala gestio. Con il quinto motivo del ricorso principale denunciano la “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5: sulla pretesa assenza di attualità del danno”. Preliminarmente deve rilevarsi che in ordine a tale motivo i ricorrenti incidentali ne assumono l’inammissibilità, in quanto la copia notificata del ricorso principale non contiene la pag. 20 in cui il motivo è trattato. Il rilievo è infondato. Ai fini del riscontro degli atti processuali deve aversi riguardo agli originali e non alle copie, per cui l’eventuale mancanza di una pagina dell’atto notificato può assumere rilievo soltanto se lesiva del diritto di difesa. Ciò che va in ogni caso escluso quando la pagina omessa risulti irrilevante ai fine di comprendere il tenore della difesa avversaria e quando l’atto di costituzione della parte contenga una puntuale replica alle deduzioni contenute nell’atto notificato, comprese quelle contenute nella pagina mancante (Cass. 15 aprile 2004, n. 7200; Cass. 28 aprile 1998, n. 4334). Nel caso di specie il motivo è trattato da pag. 17 a pag. 21 del ricorso principale ed i ricorrenti incidentali si sono puntualmente difesi sulle questioni nel motivo trattate. Nessun diritto di difesa è stato, pertanto, violato. Nel merito le ricorrenti principali rilevano che la sentenza è sprovvista di adeguata motivazione con riguardo al capo in cui statuisce che non sussiste, nel caso di specie, l’attualità del danno. Errata è la tesi affermata, a sostegno della inattualità del danno, in base alla quale la B., avendo ceduto alla Sat. Com. s.n.c. l’immobile, non ha sofferto alcun nocumento dalla permanenza dell’iscrizione ipotecaria. La B., infatti, assieme al marito B. D. è socia della Sat. Com. s.n.c. e la cessione del bene è stata dettata da ragioni di natura esclusivamente fiscale. Tale circostanza, pertanto, non giustifica la pretesa inattualità di pregiudizi economici in capo alla ricorrente, atteso che l’iscrizione ipotecaria, sia per la B., sia per le altre ricorrenti, ha certamente reso il bene non commer- ciabile ed è stata fonte di una vicenda giudiziaria non ancora conclusa, con forti ripercussioni sul piano personale. Neppure corrisponde al vero quanto afferma il giudice di merito secondo cui l’esecuzione da parte della banca non risulta essere mai stata minacciata, posto che la ricorrente ha documentato che in ben due occasioni la banca ha notificato al proprietari precetti per circa £ 2.500.000.000. Errata è anche l’affermazione che non sussiste il danno lamentato anche perché la banca non ha ancora avviato la procedura esecutiva per cui non potrebbe pronunciarsi né sentenza di condanna generica (per la quale si richiede specifica domanda che qui non è stata proposta), né sentenza di condanna condizionata (la quale richiede che l’evento futuro e incerto dal quale dipende il danno non debba essere soggetto al controllo di altri accertamenti di merito in un ulteriore giudizio di cognizione). Con riguardo all’attualità del danno la Corte di Cassazione ha osservato che in tali casi il danno “è connesso all’esistenza stessa dell’ipoteca e discende dalla eventuale espropriazione che l’acquirente subisca, con la conseguente perdita del bene, ovvero, anche in mancanza di espropriazione, dall’impossibilità di conseguire taluni vantaggi, quali quelli derivanti da una vendita vantaggiosa o alla fine, quanto meno, dalla necessità della purgazione dell’ipoteca, a norma degli artt. 2889 c.c. e ss.” (Cass. 3 gennaio 1994, n. 6). Inoltre, anche ammettendo che il danno non possa considerarsi attuale, il giudice del merito ben poteva pronunciare una condanna condizionale. La Corte di Cassazione ha avuto, infatti, occasione di esaminare la fattispecie, affermando che il terzo acquirente ha diritto di ottenere il risarcimento dei danni consistenti in tutte le somme eccedenti la quota del mutuo accollata che si sarebbe visto costretto a corrispondere all’istituto di credito. In tali ipotesi il giudice del merito deve accogliere la domanda e pronunciare sentenza di condanna condizionale al verificarsi dell’evento del pagamento delle predette somme superiori alla quota di mutuo accollata (Cass. 14 dicembre 1990, n. 11916). Il motivo non è fondato. Agli effetti dell’azione di risarcimento dei danni, il terzo acquirente di immobili ipotecati - cui l’art. 2858 c.c. attribuisce il diritto potestativo di pagare i creditori iscritti ovvero di rilasciare i beni ovvero di liberarli dalle ipoteche - deve dimostrare di avere effettivamente tenuto una di tali condotte, dovendosi distinguere, in mancanza di prova di un effettivo pregiudizio, tra pericolo di danno e pericolo che determina un danno attuale come nel caso di impossibilità o di ritardo nel rivendere il bene a terzi (Cass. 12 maggio 2000, n. 6123; Cass. 30 giugno 2005, n. 13957). Nel caso di specie, il giudice del merito ha ritenuto che una serie di elementi puntualmente indicati, quali il DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1103 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE pieno godimento dell’immobile da parte dei signori S. e P. e la cessione, da parte della B. alla Sat s.n.c. - escludessero la sussistenza di un danno attuale, quale presupposto del risarcimento richiesto, concludendo sul punto che “ne consegue dunque, come dedotto dagli appellanti, la non attualità del danno, che gli appellanti incidentali individuano proprio nel pericolo di esecuzione da parte del creditore ipotecario e, sia pure senza la dovuta chiarezza, nella permanenza del vincolo, vincolo che agendo, peraltro, sulla commerciabilità del bene necessiterebbe della prova - non fornita né offerta - della mancata vendita o delle difficoltà che ha frapposto alla vendita”. Trattasi di motivazione corretta e puntuale, non smentita dalle censure sopra indicate, avanzate dalle ricorrenti che, oltre a non fornire - come rilevato dal giudice del merito - prove in ordine alle difficoltà nella commerciabilità del bene, per il permanere del vincolo, non hanno neppure indicato nel ricorso per Cassazione in quali atti siano contenute le contestazioni in ordine alla non veridicità della circostanza affermata dal giudice di merito secondo cui l’esecuzione da parte della banca non risulta essere mai stata minacciata, “posto che la ricorrente ha documentato che in ben due occasioni la banca ha notificato ai proprietari precetti per circa £ 2.500.000.000” e non ne hanno riportato neppure il contenuto, con ciò violando il principio di autosufficienza. Neppure fondata è la censura secondo la quale, anche ammettendo che il danno non possa considerarsi attuale, il giudice del merito avrebbe potuto pronunciale una condanna condizionale. Nell’ordinamento processuale vigente sono ammesse sentenze di condanna condizionate, quanto alla loro efficacia, al verificarsi di un determinato evento futuro ed incerto, alla scadenza di un termine prestabilito o ad una controprestazione specifica, sempre che la circostanza tenuta presente sia tale per cui il suo verificarsi non richieda ulteriori accertamenti di merito da compiersi in un nuovo giudizio di cognizione (Cass. 1° ottobre 2004, n. 19657; Cass. 25 agosto 2003, n. 12444). Nel caso di specie il giudice del merito ha correttamente ritenuto l’insussistenza del presupposti per la pronuncia di un sentenza di condanna condizionata rilevando che “se anche la condanna nella specie potrebbe astrattamente ricondursi all’espropriazione del bene e dunque all’esecuzione eventualmente promossa dal creditore ipotecario, è del tutto evidente che, verificatosi l’evento, la quantificazione del danno abbisognerebbe - necessariamente - di un nuovo giudizio di merito”. Trattasi di valutazione di merito resa con motivazione puntuale, in linea con i principi sopra espressi. Con il sesto motivo del ricorso principale denunciano la “Omessa pronuncia su un punto della controversia: sulla domante di accertamento dell’importo ancora dovuto alla banca in forza dell’ipoteca iscritta sugli immobili e sulla domanda di manleva. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c, n. 3: sul diritto potestativo del terzo 1104 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 acquirente di pagare il creditore iscritto. Violazione dell’art. 285 c.c.”. Rilevano che il giudice di appello è caduto in un evidente error in procedendo avendo omesso di pronunciarsi su di una specifica domanda proposta, seppure in via subordinata, dagli attuali ricorrenti, cioè di “determinare quanto ancora dovuto alla Mediovenezie con riferimento al mutuo fondiario di cui agli atti 28 gennaio 1977, n. 31.551 e 4 dicembre 1979, n. 36123 di rep. del notaio La R. di Padova, gravante sugli immobili dei deducenti e...condannarlo a manlevare i deducenti, nonché...al risarcimento dei danni effettivamente patiti e patiendi dagli stessi nella misura che sarà ritenuta di giustizia”. “Alla luce di tale domanda avanzata sin dall’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado con riferimento alla quale era stata richiesta l’ammissione di apposita consulenza tecnica, è evidentemente del tutto fuori di luogo la tesi sostenuta dal giudice di appello, secondo cui l’accertamento del danno nel caso in esame necessiterebbe d’instaurare un ulteriore giudizio di cognizione”. Il motivo non è fondato. Infatti, agli effetti dell’azione di risarcimento dei danni, il terzo acquirente di immobili ipotecati - cui l’art. 2858 c.c. attribuisce il diritto potestativo di pagare i creditori iscritti ovvero di rilasciare i beni ovvero di liberarli dalle ipoteche - deve dimostrare di avere effettivamente tenuto una di tali condotte, dovendosi distinguere, in mancanza di prova di un effettivo pregiudizio, tra pericolo di danno e pericolo che determina un danno attuale come nel caso di impossibilità o di ritardo nel rivendere il bene a terzi (Cass. 12 maggio 2000, n. 6123; Cass. 30 giugno 2005, n. 13957). In mancanza di una prova siffatta il giudice del merito ha implicitamente rigettato la domanda. D’altra parte il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto e va escluso ove ricorrano gli estremi di una pronuncia implicita o di un suo assorbimento in altre statuizioni (Cass. 8 marzo 2001, n. 3435). Nel caso di specie sussistevano gli estremi della decisione implicita e dell’assorbimento della domanda, una volta che la decisione sulla domanda di manleva era stata superata dall’affermazione correttamente resa dal giudice del merito in ordine all’inattualità del danno. Con il settimo motivo del ricorso principale denunciano la “Omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia: sull’accertamento della responsabilità professionale del notaio”. Rilevano, a tal fine, che il giudice di appello, pur enunciando nella parte motiva della sentenza, di ritenere corretta la decisione di primo grado in ordine alla responsabilità professionale del notaio, nella parte dispositiva della sentenza così statuisce: “...b) in parziale riforma della sentenza 20 aprile - 1° giugno 2000 del Tribunale di GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Venezia, che nel resto conferma, respinge la domanda proposta da B. R. e dai consorti S. P. nei confronti di L. A. e, quindi, dei suoi eredi come in epigrafe indicati...”. Nella sentenza, pertanto - seppure la portata della decisione non va desunta soltanto dalla formula conclusiva adottata, ma va ricavata dalla motivazione - non è precisato che la domanda rigettata e solo quella relativa al risarcimento del danno da parte del notaio e non quella di accertamento della responsabilità professionale dello stesso. In tal senso i ricorrenti evidenziano l’omissione in cui è incorso il giudice di appello “per l’eventualità che la stessa possa determinare un’omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia”. Il motivo è infondato. Invero, è principio pacifico che la portata precettiva di una sentenza va individuata con riferimento non solo al dispositivo, ma anche alla motivazione e trova applicazione tutte le volte che il giudice abbia pronunciato una sentenza di merito (di accertamento o di condanna) il cui dispositivo, in conseguenza della indeterminatezza o incompletezza del suo contenuto precettivo, si presti ad una integrazione (Cass. 11 gennaio 2005, n. 360). D’altra parte, poiché il dispositivo ha la funzione di esprimere in forma riassuntiva la decisione, l’incertezza interpretativa emergente per la mancata riproduzione nel dispositivo di una parte della decisione non può che essere sciolta nel senso della prevalenza della motivazione (Cass. 4 marzo 2005, n. 4741). Con l’ottavo motivo del ricorso principale denunciano la “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5; sulla cancellazione delle pretese frasi ingiuriose contenute nella comparsa conclusionale delle ricorrenti nel giudizio di appello”. Rilevano a tal fine che la decisione impugnata è priva di motivazione con riguardo al capo con il quale è stata disposta la cancellazione di frasi ingiuriose contenute nella comparsa conclusionale dei deducenti. Si legge nella sentenza: “La natura offensiva di tali espressioni (i deducenti sono stati convinti dal venditore, con la complicità del notaio...risulta in modo inconfutabile che egli abbia preso parte ai raggiri “atteggiamento compiacente del notaio nei confronti del venditore”) e la gratuità delle stesse sono fuor di dubbio”. I ricorrenti deducono di avere offerto di provare per testimoni le circostanze in base alle quali hanno ritenuto di desumere la complicità del notaio ed il suo atteggiamento compiacente nei confronti del venditore. Il motivo è inammissibile. Infatti, la valutazione, da parte del giudice di merito, sul carattere sconveniente o offensivo di espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonché l’emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime a norma dell’art. 89 c.p.c. integrano esercizio di potere discrezionale, non censurabile in sede di legittimità, e l’istanza volta alla cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’applicazione dell’anzidetto potere discrezionale (Cass. 7 luglio 2004, n. 12479). Con il nono motivo denunciano la “Omessa, Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5: sulla compensazione delle spese tra gli appellanti principali e gli appellanti incidentali”. Rilevano la illogicità e la contraddittorietà della sentenza di merito nella parte in cui compensa le spese tra gli appellanti principali (gli eredi del notaio e la legataria L. F.) e gli attuali ricorrenti. Assume il giudice di merito che “motivi di giustizia consigliano l’integrale compensazione tra gli appellanti principali e gli appellati-appellanti incidentali per entrambi i gradi di giudizio”. Con riguardo all’appellante principale L. F., intervenuta nel giudizio a seguito del decesso del notaio, la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile tale intervento sul presupposto che l’interveniente non è erede, bensì legataria del notaio. L’applicazione del principio della soccombenza imponeva, pertanto, al giudicante di condannare L. F. alla rifusione delle spese in favore degli attuali ricorrenti principali. Con riguardo agli altri appellanti la Corte ha confermato la responsabilità degli stessi, quali eredi del notaio, per i danni derivanti agli appellati appellanti incidentali dai gravi inadempimenti commessi dal loro dante causa nell’esercizio della propria attività professionale, seppure ritenendo di non potere accogliere alla stato la conseguente domanda di risarcimento del danno e/o manleva per presunta non attualità del danno. Il motivo è infondato. Va, infatti, rilevato che la valutazione dell’opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca sia in quella della ricorrenza di giusti motivi, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiede specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risulti violato il principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero che, a fondamento della decisione del giudice di merito di compensare le spese, siano addotte ragioni palesemente illogiche e tali da inficiare, per la loro inconsistenza o evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale (Cass. 4 maggio 2005, n. 9260; Cass. 1° settembre 2003, n. 12744). Ciò che, nella fattispecie concreta, non sussiste. Con il primo motivo del ricorso incidentale i ricorrenti denunciano la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. - art. 360 c.p.c., n. 3 e 4”. Rilevano che la Corte di merito ha ritenuto inammissibili, costituendo domande nuove, i primi tre motivi di appello proposti dal notaio L. e dai suoi eredi con cui era stata censurata la sentenza del giudice di primo grado nella parte in cui aveva respinto la domanda degli origi- DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1105 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE nari attori, oggi ricorrenti principali. In tal modo gli esponenti avevano fatto proprie le domande proposte dai consorti S. - B. contro la Mediovenezie Banca S.p.A. Si tratterebbe di domanda nuova, posto che a tale domanda delle ricorrenti principali gli attuali ricorrenti incidentali mai avrebbero aderito in primo grado. Il motivo è in primo luogo inammissibile, ma anche infondato. Sotto il primo profilo deve sottolinearsi che il motivo, come proposto, viola il principio di autosufficienza, non essendo riportati in ricorso i primi tre motivi di appello proposti dal notaio L.; il che non consente neppure alla Corte di esaminare il motivo sotto il denunciato aspetto della novità della domanda. Peraltro, deve ritenersi anche infondato se - come è dato intuire - riguarda i profili di responsabilità evidenziati dagli attuali ricorrenti principali nei confronti della Mediovenezie Banca S.p.A., posto che, come più sopra rilevato nell’esaminare i motivi del ricorso principale, gli stessi sul punto sono stati ritenuti infondati. Con il secondo motivo denunciano la “Violazione dell’art. 1421 c.c., art. 1239 c.c., n. 7, artt. 2826, 2841 e 280 c.c. - art. 360 c.p.c., n. 3 e 4”. Rilevano di avere sollevato, sia pure solo nella comparsa conclusionale d’appello il rilievo che “i beni oggetto della rinnovazione sono stati identificati con il richiamo al comune di ubicazione (ed alle vie ove sono situati) nonché alle schede planimetriche e non già, invece, con riferimento, come imporrebbe l’art. 2826 c.c. al n. ...... di foglio e di mappa; detta - insufficiente - descrizione del bene gravato dal vincolo comporterebbe, a norma del successivo art. 2841 c.c. l’invalidità dell’iscrizione, essendo incerta l’identità dei singoli beni, invalidità che, comportando la caducazione del vincolo, escluderebbe ogni ragione di danno per gli acquirenti degli immobili”. Erroneamente, quindi, il giudice del merito ha ritenuto che “all’inesattezza della nota di trascrizione non consegue la nullità dell’iscrizione ipotecaria, in quanto tale rilevabile anche d’ufficio, ma piuttosto la sua inopponibilità al titolare del bene sul quale grava; in altri termini la irregolarità riscontrate - quand’anche sussistenti - opererebbero sul piano dell’efficacia e non già della validità, con la conseguenza che la relativa eccezione (in senso stretto) si palesa irrimediabilmente tardiva”. Contestano a tal fine la qualificazione della loro eccezione. Infatti - secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione - le incertezze rilevanti ex artt. 2839, 2826 e 2841 c.c. comportano l’invalidità dell’iscrizione; “il che è quanto dire la sua nullità. Naturalmente, da questa nullità deriva anche l’inopponibilità ai terzi; ma ciò non toglie che il vizio primigenio sia quello della nullità”. Ne consegue che il giudice di merito aveva l’onere, ai sensi dell’art. 1421 c.c., di controllare d’ufficio la validità della rinnovazione dell’iscrizione ipotecaria, con la conseguenza che, se fosse stata accertata la nullità, nessuna ulteriore pronunzia avrebbe potuto essere resa, in parti- 1106 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 colare sui rapporti tra le ricorrenti principali e gli attuali ricorrenti incidentali. Il motivo è infondato. I principi in tema di trascrizione sono finalizzati, in via principale, a dirimere il possibile conflitto fra più acquirenti dello stesso bene immobile o mobile registrato. Ne consegue che all’eventuale inesattezza della nota di trascrizione - oggetto di un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità - consegue soltanto l’inopponibilità nei confronti del terzo in buona fede, essendo la trascrizione, a tal fine, invalida (Cass. 22 aprile 1997, n. 3477). Correttamente, quindi, il giudice di merito ha ritenuto l’eccezione, sollevata soltanto nella comparsa conclusionale d’appello, tardiva. Con il quarto motivo denunciano l’“Omesso esame di un punto decisivo - Violazione dell’art. 112 c.p.c. - art. 360 c.p.c., n. 3, 4 e 5”. Rilevano che la Corte di merito non ha esaminato la questione, sollevata dagli attuali ricorrenti incidentali, relativa al frazionamento dell’ipoteca che, ai sensi del d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, può essere oggetto di rinuncia del creditore ipotecario al diritto all’indivisibilità dell’ipoteca e perciò riconducibile ad un atto unilaterale. Ed il frazionamento del mutuo e - conseguentemente dell’ipoteca - sia pure solo in via amministrativa altro non era che quell’atto unilaterale in cui giuridicamente consiste. La questione è decisiva soprattutto nell’ipotesi di applicazione alla fattispecie del disposto del solo d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, comma 5. Infatti “se il frazionamento in via amministrativa è il consenso unilaterale previsto da tale norma, ogni problema circa la sussistenza dell’ipoteca sugli immobili delle ricorrenti è risolto in radice; ed in senso che, essendo pacifico che la quota frazionata di mutuo era stata pagata, anche l’ipoteca doveva ritenersi estinta”. Il motivo è infondato. Come già rilevato, il diritto al frazionamento può essere affermato soltanto con riferimento ai contratti conclusi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 385 del 1993, mentre per quelli conclusi in epoca anteriore è applicabile la norma del d.P.R. n. 7 del 1976, art. 3, che prevede la mera facoltà dell’istituto mutuante di consentire il frazionamento, facoltà che nel caso di specie l’istituto di credito ha ritenuto, legittimamente, di non esercitare. Con il sesto motivo denunciano la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e delle regole sulla ripartizione dell’onere della prova - Omesso esame di punto decisivo - Motivazione errata e contraddittoria sul punto decisivo art. 360 c.p.c., n. 3, 4 e 5”. Deducono che la Corte di merito è incorsa nella violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nell’omettere l’esame di un punto decisivo della controversia e che la decisione non è adeguatamente motivata in ordine alla affermazione della responsabilità professionale del notaio. GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Sostengono a tal fine che incombeva alle attuali ricorrenti principali provare - ciò che non è stato - la responsabilità del notaio, poiché l’obbligo di informazione cui era tenuto il notaio costituiva un obbligo accessorio. Il motivo è infondato. Correttamente, invece, il giudice del merito ha ritenuto che il mancato adempimento all’obbligo di informazione da parte del notaio integrasse un elemento essenziale della sua prestazione professionale ed il suo inadempimento costituisse violazione delle obbligazioni derivanti dal contratto di prestazione d’opera professionale, con la conseguenza che era onere dello stesso notaio dimostrare il corretto adempimento delle obbligazioni sullo stesso gravanti. Di ciò ha dato atto nella decisione impugnata rilevando che il notaio si era limitato a sostenere di avere “oralmente spiegato ai clienti gli effetti (non meglio precisati) della stipulazione mai negando però di averli dissuasi dalla stipulazione”. Infatti, per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall’incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell’oggetto della prestazione d’opera professionale, poiché l’opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessaria perché sia assicurata la serietà e certezza dell’atto giuridico da rogarsi ed in particolare la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti dell’atto (Cass. 13 giugno 2002, n. 8470). Con il settimo motivo denunciano la “Violazione del principi in tema di responsabilità del notaio - Motivazione insufficiente e contraddittoria - art. 360 n. 3 e 5”. Rilevano che la motivazione della sentenza impugnata è insufficiente e contraddittoria nella parte in cui riconosce la responsabilità del notaio nel non avere dissuaso i compratori dall’acquistare, poiché il notaio ha un rapporto professionale sia con gli acquirenti, sia con i venditori, con la conseguenza che una diversa condotta avrebbe potuto sollevare le rimostranze dei venditori. Il motivo è infondato. Va a tal fine sottolineato che, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività di notaio, il professionista è tenuto ad una prestazione che, pur rivestendo i caratteri dell’obbligazione di mezzi e non di risultato non può ritenersi circoscritta al compito di mero accertamento della volontà delle parti ed alla direzione della compilazione dell’atto, estendendosi, per converso, a tutte quelle ulteriori attività preparatorie e successive, funzionali ad assicurare la serietà e la certezza del rogito ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico del negozio voluto dalle parti, con la conseguenza che l’inosservanza di tali obblighi accessori dà luogo a responsabilità ex contractu per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità (Cass. 28 gennaio 2003, n. 1228). La Corte di merito ha fatto corretto uso di tali principi ponendoli alla base della propria decisione. Conclusivamente entrambi i ricorsi vanno rigettati. ... Omissis... IL COMMENTO di Gianluca Guerreschi Nonostante nessuna norma di legge specifica lo imponga, è pacifica la sussistenza, per il notaio incaricato della stesura di un atto di trasferimento immobiliare, dell’obbligo di procedere, preventivamente, alle c.d. visure ipotecarie. In quale norma trova fondamento, quindi, l’esistenza di tale obbligazione? E come deve operare, il notaio, perché, nel concreto, possa dirsi adempiente? I coniugi S. A. e S. P., ed il signor R. B., acquistano un negozio, facente parte di un complesso immobiliare gravato da ipoteca, e convengono che, al pagamento del prezzo, si provveda mediante accollo di una quota del mutuo con- tratto dal venditore. Nonostante il pagamento dell’intero prezzo, tuttavia, la banca rifiuta il frazionamento di mutuo ed ipoteca e, conseguentemente, la cancellazione della medesima dai registri immobiliari (1). Di qui, le domande al tribunale di Venezia, volte al risarcimento dei danni, nei confronti del mutuante, del notaio rogante e, in subordine, per quanto eventualmente ancora dovuto alla banca, alla Nota: (1) La banca motiva la sua scelta alla luce del combinato disposto tra l’art. 2809 c.c., che sancisce il principio di indivisibilità dell’ipoteca, e l’art. 3 d.P.R. 7/1976, per il quale il frazionamento configura una rinuncia facoltativa del creditore ipotecario al principio suddetto. Avendo già provveduto ad alcuni frazionamenti e relativi svincoli, l’istituto di credito ha, evidentemente, ritenuto opportuno non indebolire ulteriormente la propria garanzia reale. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1107 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE condanna del notaio a manlevare gli attori. Il giudice respinge le richieste nei confronti della banca, ma accoglie quelle verso il notaio (2), che propone appello, sostenendo, fondamentalmente, che la situazione di fatto (ossia l’esistenza dell’ipoteca, con le relative conseguenze) fosse ben nota alle parti, dato che egli le aveva opportunamente rese edotte al riguardo. Gli appellati, dal canto loro, propongono appello incidentale, lamentando l’esiguità del danno liquidato. La Corte d’appello di Venezia conferma le decisioni di primo grado, riformando la sentenza solo parzialmente (3). Gli acquirenti del bene ipotecato ricorrono, allora, in Cassazione, sulla base di ben nove motivi; resistono, con controricorso, la banca e gli eredi del notaio (nel frattempo defunto), questi ultimi proponendo ricorso incidentale affidandosi a sette motivi. I ricorrenti principali vi resistono con controricorso. La Suprema Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta. In particolare, per quanto attiene ai profili di responsabilità del notaio, la Cassazione ritiene incensurabile la decisione del giudice di merito, allorché ha ritenuto che il mancato adempimento all’obbligo di informazione, da parte del professionista, integrasse gli estremi di un elemento essenziale, e non secondario, della sua prestazione; perciò, tale inadempimento costituisce violazione delle obbligazioni derivanti dal contratto di prestazione d’opera professionale, e, conseguentemente, è onere dello stesso notaio dimostrare il corretto adempimento delle proprie obbligazioni. Difatti, come il giudice di legittimità ha modo di ricordare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene immobile, attraverso la consultazione dei registri immobiliari, costituisce per il notaio un obbligo derivante dall’incarico conferitogli dai clienti (a meno di un’espressa e concorde rinuncia di questi ultimi in tal senso); pertanto, essa è parte integrante della sua prestazione professionale, la quale non può certo ridursi al compito di mero accertamento della volontà delle parti, ma deve estendersi a quelle attività preparatorie (e successive) necessarie per assicurare, da un lato, la serietà e certezza dell’atto giuridico, dall’altro, la sua attitudine a conseguire il suo scopo tipico e quello ricercato, concretamente, dalle parti. L’obbligo di procedere alle visure ipotecarie... Non esiste una specifica disposizione di legge che obblighi il notaio alle c.d. visure ipotecarie. Occorre, quindi, preliminarmente, chiedersi la fonte di tale dovere. Si ritiene che per il notaio, incaricato di redigere un atto di trasferimento immobiliare, l’obbligo di verificare la libertà e disponibilità del bene, attraverso le c.d. visure ipotecarie, riposi nel contratto d’opera professionale che lo lega ai clienti. Infatti, la prevalente giurisprudenza (di cui la sentenza qui annotata è un significativo esempio) ravvisa la fonte di tale dovere nella diligenza tecnica, richiesta al debitore dalla clausola generale contenuta nell’art. 1176, secondo comma c.c. (4). Effettivamente, chi vuole acquistare un bene mira alla realizzazione di un acquisto valido e pienamente efficace, 1108 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 e l’intervento del notaio, quale professionista, si inserisce proprio in questa direzione: per questo motivo egli dovrà verificare la libertà del bene, allo scopo, cioè, di offrire alle parti il ragionevole affidamento di una consacrazione fedele ed efficace della loro volontà. In sintesi, secondo questa ricostruzione, la responsabilità del notaio deriva dal suo obbligo, qualificato come obbligazione di mezzi e non di risultato, e che trova, fondamentalmente, la sua fonte giuridica nell’art. 1176, secondo comma c.c. (5). Pertanto, il notaio Note: (2) In ordine all’irresponsabilità della banca, il tribunale di Venezia ricorda come l’esistenza di un vero e proprio diritto al frazionamento dell’ipoteca relativa al mutuo concesso al debitore originario possa affermarsi solo per i contratti stipulati dopo l’1 gennaio 1994, data di entrata in vigore della nuova legge bancaria (d.lgs. n. 385/1993), che espressamente lo prevede. Per ogni contratto concluso anteriormente a tale data, la normativa applicabile è, e resta, quella posta dal d.P.R. 7/1976, che al riguardo prevede una semplice facoltà della banca. Viceversa, in capo al notaio, è ravvisata la sussistenza di responsabilità professionale, per il non aver correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni, con l’informare compiutamente le parti in ordine alle conseguenze giuridiche inerenti al vincolo ipotecario gravante sui beni compravenduti. (3) Fondamentalmente, oltre a respingere le richieste degli appellanti principali, la Corte d’appello di Venezia rigetta anche la domanda proposta dagli appellanti incidentali, ordina la cancellazione di frasi ritenute ingiuriose dell’onorabilità del notaio, contenute nella loro comparsa conclusionale e, infine, li condanna alla rifusione, in favore della banca, delle spese del giudizio di secondo grado. (4) Questa posizione giurisprudenziale è, in realtà, il risultato di un lungo percorso evolutivo, che ha abbracciato, per così dire, anche soluzioni estreme: infatti, da un’iniziale opinione che vedeva la sussistenza di tale obbligo solo in presenza di un espresso incarico delle parti (id est, contratto di mandato; cfr. le assai risalenti Cass. Napoli 20 marzo 1903, in Giorn. not., 1903, 199; Cass. Regno 6 maggio 1933, n. 1608, in Rolandino, 1933, 375 ss.), si è passati a fondare tale obbligo nella stessa funzione pubblica del notaio, attraverso il raccordo tra art. 2913 c.c. e art. 28, primo comma, l.n.: ossia, ricevere un atto di trasferimento relativo ad un bene, poniamo, pignorato, realizzava una violazione del precetto contenuto dalla legge notarile, che proibisce di rogare atti vietati dall’ordinamento o contrari all’ordine pubblico (cfr., per tutte, Cass. 1° agosto 1959, n. 2444, in Foro it., 1960, I, 100); il notaio, non effettuando le visure, si esponeva al rischio di porre in essere un atto inefficace verso i creditori pignoratizi, ed in ciò era vista la violazione dell’art. 28 l.n. (con le gravi conseguenze, anche disciplinari, che ciò comporta per il notaio). Si trattava, ad ogni modo, di una posizione contraddittoria, dato che da un lato, argomentando ex art 28 l.n., pareva affermare un’assoluta ineluttabilità della visura ipotecaria (in quanto collegata all’esercizio di pubbliche funzioni da parte del notaio), dall’altro ammetteva, comunque, la possibilità, per le parti, di dispensare il notaio dal procedervi: il che equivaleva a rendere disponibile per i privati la regolamentazione di un impegno pubblicistico (cfr., al riguardo, Consiglio Nazionale del Notariato, Intorno al divieto per il notaio di ricevere atti contrari alla legge, in Studi su argomenti di interesse notarile, II, Roma, 1969, 135 ss.). (5) È questa la posizione, oramai consolidata, tenuta dalla giurisprudenza al riguardo. Tra le sentenze più significative, così Cass. 2 aprile 1975, n. 1185, in Giust. civ., 1975, I, 459: «il notaio, pur essendo tenuto ad un’obbligazione di mezzi e non di risultato, deve tuttavia predisporre ed impegnare i mezzi di cui dispone, in vista del conseguimento del risultato voluto dalle parti con la diligenza media di un professionista sufficientemente preparato ed avveduto, onde la sua opera non può ridursi a quella di un passivo registratore delle dichiarazioni altrui, ma deve estendersi ad un’attività preparatoria adeguata. Pertanto il notaio, quando sia richiesto della preparazione e della stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, ha l’obbligo di procedere previamente alla verifica della libertà del bene, senza la necessità di uno specifico incarico delle parti; obbligo (segue) GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE è tenuto ad effettuare le visure ipotecarie, pena la responsabilità per danni; resta fermo, in ogni caso, che se si tratta di responsabilità ex contractu (6), allora le parti sono padrone di esonerare il notaio da tale adempimento, purché ciò risulti in modo esplicito (7), e sempre nei limiti del generale principio dell’art. 1229 c.c. In dottrina si è, però, recentemente fatta strada una diversa ipotesi ricostruttiva: la diligenza, infatti, non potrebbe essere considerata come fonte dell’obbligazione, ma solo come criterio di valutazione del modo in cui viene adempiuta un’obbligazione già sorta; la diligenza, insomma, presuppone un’obbligazione già esistente e non può porsi, essa stessa, quale fonte dell’obbligazione (8). Per queste ragioni, si è ritenuto di rinvenire la fonte del dovere de quo in altra norma, e, precisamente, negli usi negoziali ex art. 1340 c.c.: per effetto di tale norma, il contratto d’opera professionale tra notaio e cliente resta caratterizzato, ed in parte integrato, per quanto attiene agli impegni del notaio, alla prassi notarile invalsa, per la quale il notaio si preoccupa di effettuare le visure ipotecarie allo scopo di assicurare al proprio atto il massimo dell’efficacia (9). Insomma, la prassi generalizzata di affidare al notaio l’indagine sui registri immobiliari costituisce un uso negoziale integrativo del contenuto del contratto d’opera professionale e, come tale, determinativo di un’obbligazione del notaio, a prescindere da una volontà, espressa o tacita, manifestata in proposito (10). La riconduzione ad una fattispecie piuttosto che ad un’altra non è affatto priva di conseguenze. Come è noto, infatti, gli usi negoziali hanno funzione di chiarimento ed integrazione della volontà delle parti, e l’indagine sul loro contenuto è rimessa al discrezionale apprezzamento del giudice del merito, essendo, quindi, incensurabile in sede di legittimità (11); essi, inoltre, devono avere il requisito della spontaneità, la cui sussistenza deve risultare a posteriori, ossia dall’apprezzamento globale della prassi già consolidata, senza che possa aversi riguardo all’atteggiamento psicologico tenuto dalle parti (12); la loro esistenza, infine, va provata dall’attore che vi si richiama (13). È evidente, quindi, che se si propende per una ricostruzione ex art. 1176, secondo comma c.c., la responsabilità del notaio sorge automatica, a meno che lo stesso professionista non provi che le parti l’hanno esonerato; viceversa, in un’ipotesi ex art. 1340 c.c., saranno proprio le parti a dovere provare l’esistenza dell’uso negoziale, se unicamente questo risulta essere la fonte dell’obbligo di visura. E, si badi, questa prova va data per ogni lite, e spetterà al singolo giudice di merito valutarne l’esistenza, sulla base delle prove offerte dalle parti (14). prestazione da parte dei creditori, il notaio-debitore vi è senz’altro tenuto. Ora, appare ovvio che naturale portato di un tale dovere sia, sicuramente, la necessità che il notaio riferisca, agli interessati, circa l’esito dell’attività ispettiva condotta presso l’ufficio dei registri immobiliari. Tuttavia, v’è di più: nell’ipotesi in cui il notaio riscontri una trascrizione o, come nel caso qui annotato, un’iscrizione sfavorevoli, egli sarà tenuto ad un vero e proprio obbligo di informazione, soprattutto (ma non solo) nei confronti dell’acquirente, circa le particolari conseguenze (negative) che l’acquisto del bene in questione dovrà, necessariamente, sopportare. Per la giurisprudenza, infatti, non si tratta di un obbligo ulteriore, e meramente accessorio, ma (come si legge in sentenza) di «un elemento essenziale della...prestazione professionale» del notaio, direttamente impostogli dalla peculiare diligenza richiesta per l’esercizio di una delicata Note: (segue nota 5) dal quale il notaio può essere esonerato, per motivi di urgenza o per altre ragioni, solo per concorde ed espressa dispensa delle parti». Per un excursus sull’evoluzione giurisprudenziale sul punto, doveroso è il riferimento ad Angeloni, La responsabilità civile del notaio, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1990, 181 ss. (6) Nell’ipotesi, infatti, che i danneggiati dall’omessa/cattiva operazione di visura del notaio siano dei terzi, la responsabilità non potrà che essere extracontrattuale, venendosi, infatti, ad integrare gli estremi di un illecito diverso: se, infatti, nei confronti dei clienti, il notaio avrà violato un preciso obbligo di natura contrattuale, rispetto ai terzi, egli si porrà quale soggetto che, in conseguenza di un comportamento illecito, viene meno al generico dovere del neminem laedere; cfr., su questo punto, Baldassari Baldassari, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1993, 438 ss. (7) In questo modo, la giurisprudenza abbandona definitivamente la tesi della derivazione di tale obbligo dall’art. 28 legge n., tesi che non riusciva a spiegare in maniera convincente la possibilità, per le parti, di esonerare il notaio dall’obbligo di visura (vedi retro, nota 4). (8) Cfr., per tutti, Rodotà, voce Diligenza, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 544. (9) Cfr. Candian, La responsabilità civile del notaio nella fase preparatoria dell’atto di trasferimento immobiliare, in Resp. civ. e prev., 1984, 263 ss.; Consiglio Nazionale del Notariato, Obbligo del notaio di procedere a preliminari indagini (c.d. visure) catastali ed ipotecarie sulla concreta situazione giuridica dei beni, in Studi su argomenti di interesse notarile, IX, 1973, 103 ss.; Angeloni, La responsabilità civile, cit., 162 ss.; Petrelli, Visure ipotecarie. Responsabilità civile del notaio. Limiti del danno risarcibile, Milano, 1994, 124 ss.; Trapani, I limiti dell’obbligo di eseguire visure ipocatastali e la clausola di dispensa, in Notariato, 1197, 256 ss. (10) Così Petrelli, Visure ipotecarie, cit., 32 e 33; in termini analoghi, Trapani, I limiti dell’obbligo, cit., 256. (11) Cfr., in proposito, Cass. 2 giugno 1990, n. 5180, in Giur. agr. it., 1991, II, 415 ss. (12) Così Cass. 30 marzo 1994, n. 3134, in Foro it., 1994, I, 2114 (e in Giust. civ., 1995, I, 223, con nota di Mammome, Nota a Cassazione 30 marzo 1994, n. 3134). ...e il correlato obbligo di informazione alle parti (13) Cfr. Cass. 8 gennaio 1979, n. 90, in Giust. civ., Rep. 1979, voce Agenzia, n. 31. Come detto, il dovere di procedere alle visure ipotecarie ha natura contrattuale, ed è configurabile come contenuto tipico dell’obbligazione di prestazione d’opera professionale dovuta dal notaio ai propri clienti: la prova sta nel fatto che, senza un’espressa (e concorde) rinuncia a tale (14) Così Casu, Trasferimenti immobiliari e obbligo notarile di visure ipocatastali, nota a Cass. 15 giugno 1999, n. 5946, in Riv. not., 2000, I, 144; prosegue l’Autore: «si intuisce, pertanto, come la giurisprudenza, allo scopo di una semplificazione del giudizio e soprattutto per non costringere le parti a fornire dimostrazioni di un uso negoziale di difficile accertamento, abbia accolto la prima soluzione». DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1109 GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE funzione quale quella notarile: tale obbligo contribuisce in maniera determinante, insomma, a configurare la prestazione dedotta in obbligazione e la circostanza che le parti, col non rinunciarvi, hanno voluto ricomprendesse anche l’attività di visura ipotecaria. Questa riflessione, quindi, porta ad una importante considerazione: non è affatto detto che, effettuate le visure presso la competente conservatoria, il notaio sia senz’altro adempiente. E altrettanto dicasi per l’ipotesi in cui, espletata detta attività, egli si limiti a comunicare alle parti la mera esistenza di un’ipoteca. Ciò si potrà affermare soltanto nel caso in cui il notaio, o non riscontri alcuna formalità pregiudizievole, e lo comunichi agli interessati, o, riscontratene, informi adeguatamente i clienti, anche, e soprattutto, in ordine alle conseguenze giuridiche che tali formalità comportino in ordine alla circolazione dei beni. Questo è il portato, concreto, della clausola ex art. 1176, secondo comma c.c. Infatti, come la Cassazione ha modo di ricordare anche nella sentenza qui annotata (15), l’effetto di tale norma sull’obbligazione del notaio è tale per cui l’opera a lui richiesta non possa ridursi ad un’attività di mero accertamento della volontà delle parti, ma si spinga a ricomprendere tutte quelle attività (preparatorie o successive che siano) necessarie al raggiungimento di un risultato che, su di un piano astratto, è quello tipico di un determinato negozio giuridico, e, su di un piano concreto, è quello voluto dalle parti (16). In questo senso, l’esistenza di un dovere di informazione da parte del notaio diviene, quindi, decisiva e contribuisce, in maniera determinante, alla definizione del contenuto obbligatorio della prestazione d’opera del professionista. Non stupisce, perciò, che la Cassazione (17) abbia ritenuto, in passato, che il notaio ben si possa considerare adempiente anche laddove, rilevato un vincolo di indisponibilità del bene e portatolo (con le modalità che si sono precisate) a conoscenza delle parti, proceda egualmente, su sollecitazione delle stesse, alla stesura dell’atto di trasferimento (18). Con tutta evidenza, invece, nel caso qui annotato, questo non è avvenuto e, coerentemente, la Cassazione ha, quindi, ritenuto il notaio responsabile (19). In conclusione, si vuole sottolineare un ultimo aspetto: si è detto che il dovere di informazione è parte integrante della prestazione, che non è un dovere accessorio, e che discende dalla clausola generale ex art. 1176, secondo comma c.c. Ci si chiede: non si potrebbe affermare che il dovere di informazione debba essere considerato parte integrante della prestazione, che non sia un dovere accessorio e che discenda dalla clausola generale ex art. 1175 c.c.? Come è noto, anche la regola della correttezza informa i rapporti giuridici e li arricchisce, per così dire, di obblighi ulteriori (20): i c.d. “doveri integrativi”. Questi ultimi, si ritiene, sono tutt’altro che accessori; hanno rilievo autonomo e sono, perciò, autonomamente azionabili; discendono dalla normativa di buona fede oggettiva e sono, pertanto, applicabili sia al debitore che al creditore (21): fra di essi spicca 1110 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 il cosiddetto dovere di “avviso/informazione”, corollario del dovere di buona fede di “protezione dell’altrui sfera giuridica” (22). L’obbligo, per il notaio, di informare la parte interessata all’acquisto del bene ipotecato non potrebbe trovare proprio qui la sua fonte? Prima facie, non parrebbero porsi ostacoli ad una tale ricostruzione, ma, occorre ricordare, la funzione della buona fede oggettiva, che è, appunto, integrativa: ossia, va a riempire lacune del rapporto giuridico, laddove ve ne sia la necessità. Ora, per quanto detto sopra, la sussistenza di un dovere di informazione pare essere parte integrante della prestazione del notaio. Da questo punto di vista, non sembra avvertirsi la necessità di integrare il rapporto giuridico. Inoltre, piuttosto che logico corollario di un doNote: (15) Sul punto, vi sono precedenti significativi: su tutti, Cass. 2 aprile 1975 n. 1185, cit., supra nota 5. (16) Si tratta della c.d. “funzione notarile di adeguamento”, tipica di questa professione, consistente, appunto, nell’attività volta a raggiungere una congrua aderenza dell’intento empirico manifestato dalle parti ai paradigmi offerti dall’ordinamento giuridico; inutile sottolineare come, nel caso qui preso in esame, la volontà dell’acquirente fosse quella di ottenere, con certezza, che l’ipoteca gravante sull’immobile acquistato sarebbe stata cancellata, una volta estinto il relativo debito. In ordine alla funzione d’adeguamento, cfr., per tutti, D’Orazi Flavoni, La responsabilità civile nell’esercizio del notariato, in Scritti giuridici (Consiglio notarile di Roma), II, Roma, 1965, 965 ss. (17) Significativa è, in tal senso, Cass. 7 settembre 1977, n. 3893, in Foro it., 1978, I, 134, ove si legge che, se è vero che il notaio, richiesto della stesura di un atto di trasferimento immobiliare, ha l’obbligo di verificare preventivamente se il bene è libero da vincoli pregiudizievoli (a meno di un’espressa, concorde dispensa delle parti), «...è altresì vero che, una volta portati a conoscenza delle parti i vincoli gravanti sull’immobile, egli non può rifiutarsi di rogare l’atto». (18) Si badi che, a fronte della richiesta delle parti, sussiste un vero e proprio obbligo di legge, per il notaio, di rogare l’atto, sancito dall’art. 26 l.n. (19) Come si legge in sentenza, infatti, nel giudizio di merito il notaio non ha assolto, sul punto, l’onus probandi gravante su di lui, limitandosi a «sostenere di avere oralmente spiegato ai clienti gli effetti (non meglio precisati) della stipulazione, mai negando però di averli dissuasi dalla stipulazione». È un’evidente applicazione pratica del principio enunciato supra, nel testo: l’obbligo ha natura contrattuale, ergo il notaio doveva provare di aver informato i clienti e, come detto, il notaio non l’ha fatto: non ha fornito, cioè, i mezzi necessari per verificare se aveva informato i clienti «come avrebbe dovuto» (id est, come la diligenza ex art. 1176, secondo comma c.c. richiede): avrebbe, cioè, dovuto dimostrare di aver reso le parti chiaramente edotte in ordine agli effetti giuridici generati dall’iscrizione ipotecaria e alla circolazione del bene ipotecato. Solo con tali precisazioni il notaio avrebbe potuto mettere il giudice in condizione di valutare la sussistenza di un esatto adempimento, e non certo, invece, con un generico richiamo al colloquio avuto coi clienti e ai «non meglio precisati» effetti giuridici che avrebbe loro prospettati. (20) Si tratta della c.d. “funzione integrativa” del rapporto svolta dalla clausola generale di buona fede, per la quale si rimanda, fondamentalmente, a Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1953, I, 65 ss.; Benatti, Osservazioni in tema di doveri di protezione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, 1342 ss.; Breccia, Le obbligazioni, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1991. (21) Per un quadro sintetico, cfr. D’Angelo, La tipizzazione giurisprudenziale della buona fede contrattuale, in Contr. e impr., 1990, 702 ss. (22) Sull’argomento, cfr. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, 122 ss. GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE vere di protezione della controparte contrattuale, pare, nel caso del notaio, più ragionevole ritenere che il dovere di informazione sia elemento tipico della prestazione d’opera professionale dedotta in obbligazione. I doveri integrativi ex fide bona, infatti, non sono accessori, come detto, ma possono assumere un rilievo del tutto autonomo, anche rispetto alla prestazione dedotta, tipicamente, nel singolo rapporto (23): nel nostro caso, però, il dovere di informare i clienti è, per quanto sopra argomentato...la prestazione stessa (24). Note: (23) Cfr., infatti, Larenz, Lehrbuch des Schuldrechts, I, Monaco di Baviera, 1987, 138-141; e, ancora, Breccia, Le obbligazioni, cit., 370. (24) È in questo senso che si muove la Cassazione, nella sentenza qui annotata, allorché nega la natura di obbligo accessorio al dovere de quo: non a caso, conclude sul punto sottolineando come l’obbligo d’informazione integri «un elemento essenziale della... prestazione professionale ed il suo inadempimento [costituisca] violazione delle obbligazioni derivanti dal contratto di prestazione d’opera professionale». Semplicemente, non si vede la necessità di ricorrere alla normativa ex fide bona ai fini della giustificazione di un obbligo (quello di informare i clienti) che è già ricompreso nel novero delle obbligazioni del professionista. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1111 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI Intermediazione mobiliare Intermediazione mobiliare e apparenza del diritto CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 7 aprile 2006, n. 8229 Pres. Losavio - Est. Rordorf - P.M. Destro (conf.) - ING Group Società sviluppo Investimenti Sim S.p.a. c. M.V. Obbligazioni in genere - Apparenza del diritto - Intermediazione mobiliare - Intermediario finanziario - Responsabilità per l’attività svolta dall’apparente promotore - Configurabilità - Condizioni e limiti - Sindacato della Corte di cassazione sulla ritenuta ravvisabilità, nel caso, di una situazione di apparenza del diritto - Ambito - Principio espresso in fattispecie di promotore dimissionario. (legge 2 gennaio 1991, n. 1; c.c. art. 1396; c.p.c. art. 360) In base ai principi dell’apparenza del diritto, l’intermediario finanziario può essere chiamato a rispondere di un illecito compiuto in danno di terzi da chi appaia essere un suo promotore, ed in tale apparente veste abbia commesso l’illecito, ogni qual volta l’affidamento del terzo risulti incolpevole e alla falsa rappresentazione della realtà abbia invece concorso un comportamento colpevole (ancorché solo omissivo) dell’intermediario medesimo, fermo restando che la ravvisabilità, nel singolo caso, di una situazione di apparenza del diritto dipende da circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione sono riservati alla competenza esclusiva del giudice di merito e, come tali, possono essere sindacati in cassazione solo per eventuali difetti logici o giuridici della motivazione. (Enunciando il principio di cui in massima, la Corte ha confermato la decisione di merito, la quale - in una fattispecie di promotore dimissionario, cui la società di intermediazione aveva richiesto, invano, di restituire i moduli in suo possesso e di restituire il tesserino alla competente Commissione regionale per l’albo dei promotori - aveva ravvisato la situazione di apparenza colpevole, soprattutto facendo leva sul fatto che la società di intermediazione non aveva comunicato la cessazione del proprio rapporto con il promotore al cliente, il quale aveva avuto nel tempo una serie di ripetuti contatti contrattuali con detta società per il tramite di quel promotore ed era perciò logicamente incline ad identificare in costui un promotore di quella società di intermediazione. Nel ritenere giuridicamente e logicamente corretto il ragionamento del giudice di merito, la Corte ha precisato che, se non può pretendersi che l’intermediario informi della cessazione del rapporto di preposizione tutti coloro che in passato siano entrati in qualche modo con lui in contatto per il tramite del promotore cessato, un tale dovere di informazione, connesso al dovere di protezione dell’altro contraente, è invece configurabile nei confronti di coloro i quali, essendosi sempre e ripetutamente avvalsi del promotore poi dimissionario, hanno intrattenuto rapporti con la società di intermediazione in un arco di tempo che ragionevolmente può far supporre la loro attitudine ad effettuare ulteriori investimenti per il tramite di quel medesimo promotore). Contratti di borsa - In genere - Attività di intermediazione mobiliare - Responsabilità solidale dell’intermediario - Ambito Consegna da parte del cliente al promotore di somme di danaro con modalità difformi da quelle prescritte - Indebita appropriazione di tali somme da parte del promotore - Interruzione del nesso di causalità - Concorso del fatto colposo dell’investitore - Configurabilità - Esclusione - Fattispecie. (c.c. artt. 1223 e 1227; legge 2 gennaio 1991, n. 1, art. 5) In tema di intermediazione mobiliare, in ordine alla quale l’art. 5, quarto comma, della legge 2 gennaio 1991, n. 1 pone a carico dell’intermediario la responsabilità solidale per gli eventuali danni arrecati a terzi nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale, la mera allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità (nella specie, con assegni bancari al portatore) difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe legittimato a riceverle, non vale, in caso di indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività del promotore finanziario e la consuma- 1112 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI zione dell’illecito, e non preclude, pertanto, la possibilità di invocare la responsabilità solidale dell’intermediario preponente. Né un tal fatto può essere addotto dall’intermediario come concausa del danno subito dall’investitore, in conseguenza dell’illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre l’ammontare del risarcimento dovuto. Motivi della decisione ...Omissis... 2. Non è in discussione il fatto che il denaro affidato dal cliente al promotore della Sviluppo Investimenti Sim per essere investito in certificati di deposito bancario fu invece distratto a proprio favore dal promotore medesimo. È un fatto accertato in causa e, comunque, pacifico. Altrettanto certo è che un tal fatto sia idoneo a generare il diritto del cliente al risarcimento del danno subito e che la pretesa risarcitoria, ove ricorrano le condizioni previste (allora vigente) dalla L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4, possa esser fatta valere anche nei confronti della società d’intermediazione per la quale il promotore operava. Già nel corso del giudizio di merito è stata però prospettata dall’odierna ricorrente la configurabilità di una colpa esclusiva - o quanto meno concorrente - del cliente; colpa che la ricorrente ricollega al fatto che il sig. M. eseguì i versamenti consegnando al promotore assegni bancari al portatore, quantunque le schede di prenotazione predisposte dalla società Sviluppo Investimenti Sim e sottoposte alla sottoscrizione del cliente prevedessero espressamente che i pagamenti avrebbero dovuto esser fatti mediante assegni bancari o circolari intestati alla società. Entrambi i giudici di merito hanno negato che tale circostanza potesse sia escludere il diritto al risarcimento di un danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (art. 1227 c.c., comma 2), sia ridurre l’ammontare del risarcimento per avere il fatto colposo del danneggiato concorso a cagionare il danno (art. cit., comma 1). A tal riguardo, in particolare, la corte d’appello ha osservato che sarebbe dubbia la sussistenza della pattuizione concernente le suindicate modalità di pagamento, essendo essa riportata su moduli predisposti per l’investimento in fondi diversi, ma non anche sugli specifici moduli relativi ai certificati di deposito di cui si discute nella presenta causa; ed ha aggiunto che sarebbe comunque decisivo il rilievo per cui, già in diverse precedenti occasioni, lo stesso cliente, nell’effettuare investimenti tramite il medesimo promotore, aveva consegnato a costui assegni al portatore che erano stati accettati ed incassati dalla società d’intermediazione senza formulare alcuna obiezione né nei confronti del cliente né nei confronti del promotore medesimo, ad onta del fatto che il regolamento emanato dalla Consob espressamente vietasse una simile prassi e la sanzionasse addirittura con la radiazione del promotore dall’albo. 2.1. La ricorrente censura tali affermazioni, ravvisando in esse violazioni di diritto (con riferimento agli artt. 1227, 2697 e 2702 c.c., nonché artt. 115 e 116 c.p.c.) e difetti di motivazione. In particolare essa riferisce di aver prodotto in giudizio, in data 30 settembre 1999, cinque assegni bancali emessi dal sig. M. nel 1991 in relazione ad operazioni d’investimento mobiliare eseguite per il tramite del promotore sig. D., non intestati alla Sviluppo Investimenti Sim e posti all’incasso non da quest’ultima, bensì dallo stesso sig. D. o da terze persone. Di tali documenti non v’è cenno nella motivazione dell’impugnata sentenza, ma da essi invece - a parere della ricorrente - si sarebbe dovuto trarre la prova del fatto che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d’appello, la Sviluppo Investimenti Sim non aveva avuto alcuna contezza della prassi già in precedenza scorrettamente seguita dal proprio promotore con l’accettazione di assegni non intestati alla società d’intermediazione. Erano state altresì prodotte - osserva ancora la ricorrente - le schede di prenotazione dei certificati di deposito bancali, sottoscritte dal sig. M., nelle quali risultava espressamente indicato che il pagamento doveva aver luogo a mezzo di assegni intestati alla società d’intermediazione, onde non sarebbe comprensibile il dubbio espresso dalla corte d’appello in ordine all’effettiva vigenza di una siffatta pattuizione, non rispettata però dal cliente. Il quale, inoltre, aveva omesso di rilevare tempestivamente il mancato invio, ad opera della società, delle lettere di conferma degli investimenti relativi agli anni 1991 e 1992: ciò che avrebbe dovuto metterlo sull’avviso ed indurlo a compiere immediate verifiche, anziché attendere oltre un anno per accorgersi dell’accaduto, giacché simili lettere di conferma gli erano sempre state recapitate in occasione degli investimenti da lui effettuati negli anni precedenti. Avrebbe dunque errato la corte d’appello nel ritenere inapplicabile nel caso di specie la citata disposizione dell’art. 1227 c.c., comma 2, o almeno quella del comma 1 del medesimo articolo. 3. Non ritiene il collegio che tali censure siano meritevoli di accoglimento. Vi osta infatti un rilievo di carattere preliminare che porta ad escludere l’applicabilità, in un caso come quello in esame, delle disposizioni dettate da entrambi i commi del citato art. 1227 c.c.. 3,1. Occorre muovere dalla considerazione che la L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 23 e quindi dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 31, comma 3, ma ancora applicabile ratione temporis ai fatti di causa) pone a carico dell’intermediario la responsabilità solidale per gli “eventuali danni arrecati a terzi nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”. Non interessa in questa sede soffermarsi a discutere se DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1113 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI quella così configurata sia o meno una forma di responsabilità oggettiva, né quali siano i suoi rapporti sistematici con la responsabilità contemplata, in via generale, dall’art. 2049 c.c. a carico dei padroni e dei committenti per i fatti illeciti imputabili ai domestici ed ai commessi. Conviene invece sottolineare come la suindicata responsabilità dell’intermediario preponente, la quale pur sempre presuppone che il fatto illecito del promotore sia legato da un nesso di occasionalità necessaria all’esercizio delle incombenze a lui facenti capo (cfr. Cass. n. 20588 del 2004 e Cass. 10580 del 2002), trova la sua ragion d’essere, per un verso, nel fatto che l’agire del promotore è uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale nell’organizzazione della propria impresa, traendone benefici cui è ragionevole far corrispondere i rischi; per altro verso, ed in termini più specifici, nell’esigenza di offrire una più adeguata garanzia ai destinatari delle offerte fuori sede loro rivolte dall’intermediario per il tramite del promotore, giacché appunto per le caratteristiche di questo genere di offerte più facilmente la buona fede dei clienti può essere sorpresa. E tale garanzia il legislatore ha inteso rafforzare, tra l’altro, anche e proprio attraverso un meccanismo normativo volto a responsabilizzare l’intermediario nei riguardi dei comportamenti di soggetti quali sono i promotori - che l’intermediario medesimo sceglie, nel cui interesse imprenditoriale essi operano e sui quali nessuno meglio dell’intermediario è concretamente in grado di esercitare efficaci forme di controllo. In questo quadro si collocano, ovviamente, anche le disposizioni regolamentari che la Consob è stata chiamata a dettare, in base al disposto della citata L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 8, ed in particolare quelle menzionate nella lettera f) di detto comma, ossia le regole che i promotori debbono osservare “nei rapporti con la clientela al fine di tutelare l’interesse dei risparmiatori”. Tra esse rileva qui, specificamente, l’art. 14, comma 9, del regolamento emanato dalla Consob con Delib. n. 5388 del 2 luglio 1991 (vigente all’epoca dei fatti di causa), che fa obbligo al promotore di ricevere dal cliente esclusivamente: “1) titoli di credito che assolvono la funzione di mezzi di pagamento, purché siano muniti di clausola di non trasferibilità e siano intestati al soggetto indicato nel prospetto informativo o nel documento contrattuale ove il prospetto non sia prescritto; 2) titoli di credito nominativi intestati al cliente e girati a favore di chi presta il servizio di intermediazione mobiliare offerto tramite il promotore”. Ora, è pacifico che nel caso in esame, come s’è detto, tale disposizione non fu osservata dal promotore, il quale ebbe a ricevere assegni emessi dal sig. M. al portatore. Ma quella regola - come pure già si è sottolineato - è unicamente diretta a porre un obbligo di comportamento in capo al promotore e trae la propria fonte da una prescrizione di legge (la citata L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 8, lett. f) espressamente volta alla tutela degli interessi del risparmiatore. Non è perciò logicamente postulatole che essa, viceversa, si traduca in un onere di diligenza posto 1114 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 a carico di quest’ultimo, tale per cui l’eventuale violazione di detta prescrizione ad opera del promotore si risolva in un addebito di colpa (concorrente, se non addirittura esclusiva) a carico del cliente danneggiato dall’altrui atto illecito. ...Omissis... Non s’intende con ciò negare, in assoluto, che possa trovare spazio l’applicazione dell’art. 1227 c.c. (comma 1 o 2, a seconda dei casi), qualora l’intermediario provi che vi sia stata, se non addirittura collusione, quanto meno una consapevole e fattiva acquiescenza del cliente alla violazione, da parte del promotore, di regole di condotta su quest’ultimo gravanti. Al dovere di tutela reciproca dei contraenti, insito nel principio generale di buona fede, anche il cliente dell’intermediario è certamente tenuto. Per le ragioni dianzi chiarite, deve però escludersi che la mera allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe stato legittimato a riceverle valga, in caso d’indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività del promotore finanziario medesimo e la consumazione dell’illecito, e quindi precluda la possibilità d’invocare la responsabilità solidale dell’intermediario preponente; e deve parimenti escludersi che un tal fatto possa essere addotto dall’intermediario come concausa del danno subito dall’investitore in conseguenza dell’illecito consumato dal promotore al fine di ridurre l’ammontare del risarcimento dovuto. ...Omissis... 3.2. Neppure può esser dato peso in questa sede all’asserita tardività con la quale il cliente avrebbe reagito all’illecito del promotore, non accorgendosi del fatto che la società d’intermediazione non gli aveva inviato le consuete lettere di conferma degli investimenti da lui disposti e non segnalando perciò subito la cosa alla medesima società. Di una tal questione non si fa cenno nell’impugnata sentenza, e la ricorrente non indica se ed in quale atto difensivo del giudizio di merito essa l’avesse invece sollevata, limitandosi ad un generico richiamo alle risultanze documentali e ad un documento prodotto da parte avversa, ma senza fornire elementi idonei a dimostrare l’effettiva incidenza causale che il lamentato ritardo di reazione del cliente avrebbe avuto sulla produzione del danno. 4. Il secondo motivo di ricorso investe il tema della responsabilità della società d’intermediazione per la seconda delle due indebite appropriazioni di denaro del cliente, compiuta dal sig. D. nel settembre del 1992, quando da ormai circa un mese e mezzo egli aveva cessato di essere promotore della Sviluppo Investimenti Sim. La Corte d’appello, richiamando i principi della cosiddetta apparenza del diritto, ha ravvisato la sussistenza della responsabilità dell’intermediario preponente in considerazione essenzialmente di ciò: che il sig. M., pur essendo da tempo cliente della Sviluppo Investimenti GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI Sim per il tramite del promotore sig. D., non era stato informato dalla società della cessazione di ogni rapporto tra questa ed il predetto sig. D.; che quest’ultimo era stato lasciato in possesso del materiale a suo tempo fornitogli dalla Sviluppo Investimenti Sim per l’espletamento dell’attività di promotore ed aveva perciò potuto continuare ad utilizzare i moduli intestati alla società; che la Sviluppo Investimenti Sim non si era neppure attivata per assicurarsi che il sig. D. fosse privato del tesserino di promotore, onde costui aveva potuto esibirlo traendo in inganno il cliente in occasione dell’operazione di cui si tratta. 4.1. La ricorrente lamenta anche a tale proposito sia violazioni di legge (con riferimento agli artt. 1398, 2697 e 2702 c.c., artt. 115 e 166 c.p.c.) sia vizi di motivazione della sentenza impugnata. Essa sostiene: che il sig. M., pur avendo effettivamente avuto rapporti in precedenza con la Sviluppo Investimenti Sim, non poteva più dirsi cliente di quest’ultima nel luglio del 1992 (quando il sig. D. aveva dato le proprie dimissioni da promotore), onde nessuna specifica informazione gli era in proposito dovuta; che nessun addebito di colpa potrebbe comunque esser mosso alla ricorrente, la quale aveva tempestivamente chiesto già nel luglio 1992 al promotore dimissionario di restituire i moduli in suo possesso e di riconsegnare il tesserino alla competente Commissione regionale per l’albo dei promotori; che altrettanto tempestivamente, appena venuta a conoscenza nel settembre del 1993 degli illeciti compiuti dal sig. D., essa ne aveva informato gli organi preposti alla vigilanza ed aveva sporto denuncia alla magistratura competente. Circostanze tutte alla stregua delle quali la conclusione cui è prevenuta la corte territoriale risulterebbe priva di basi logiche e giuridiche. 5. Nemmeno questo motivo di ricorso è accoglibile. 5.1. Nessun errore di diritto è rilevabile in quanto statuito sul punto dalla corte d’appello. Non sembra infatti dubbio - e neppure la ricorrente in realtà lo pone in dubbio - che in un caso come quello di cui qui si tratta possano trovare applicazione i principi dell’apparenza del diritto, elaborati dalla giurisprudenza soprattutto nella materia della rappresentanza negoziale; e che, quindi, un intermediario finanziario possa esser chiamato a rispondere di un illecito compiuto in danno di terzi da chi appaia essere un suo promotore, ed in tale apparente veste abbia commesso l’illecito, ogni qual volta l’affidamento del terzo risulti incolpevole ed alla falsa rappresentazione della realtà abbia invece concorso un comportamento colpevole (ancorché magari solo omissivo) dell’intermediario medesimo. A questo principio si è attenuta la sentenza impugnata, che per questa ragione non può dunque essere censurata, essendo per il resto evidente che la ravvisabilità nei singoli casi di una situazione di apparenza del diritto, nei termini sopra indicati, dipende da circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione sono riservati alla competenza esclusiva del giudice del merito e, come ta- li, possono essere sindacati in cassazione solo per eventuali difetti logici o giuridici della motivazione. 5.2. Si tratta perciò di stabilire se, nel presente caso, il giudice del merito abbia motivato in modo giuridicamente e logicamente corretto il proprio ragionamento. Ed è in rapporto a ciò che viene in evidenza soprattutto il tema della colpa addebitata dalla corte territoriale alla società d’intermediazione, sulla base degli elementi già dianzi ricordati, il cui fondamento la ricorrente però contesta. ...Omissis... Non sembra invece possibile dubitare del fatto - da solo invero decisivo - che la Sviluppo Investimenti Sim dovesse diligentemente comunicare la cessazione del proprio rapporto con il promotore a chi, come il sig. M., aveva avuto nel tempo una serie di ripetuti contatti contrattuali con detta società per il tramite di quel promotore ed era perciò logicamente incline ad identificare in costui appunto un promotore di quella società d’intermediazione. La circostanza che i promotori possano svolgere la loro opera nell’interesse di una sola società d’intermediazione (cd. obbligo di monomandato, già posto dall’allora citata L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 3) e la naturale conseguente identificazione da parte dei terzi del promotore come inserito nella struttura organizzativa di detta società, per effetto di un atto di preposizione da questa proveniente, rende evidente il rischio che i terzi - ed in specie i clienti adusi ad avere rapporti con la società tramite quello specifico promotore - possano continuare ad identificare in costui un referente della medesima società pur quando in realtà il rapporto di preposizione sia invece venuto meno. Emerge perciò anche in questo campo quell’esigenza d’informazione tempestiva del terzo alla quale, sia pure con una norma non di per sé applicabile alla presente fattispecie, il legislatore si è mostrato ben sensibile dettando l’art. 1396 c.c.. ...Omissis... Ora, in punto di fatto, la corte d’appello ha accertato che il sig. M. aveva compiuto investimenti con l’intermediazione dell’anzidetta società fino a quattro mesi prima di quando il sig. D. presentò le proprie dimissioni da promotore. Questo accertamento, appunto perché attiene ad una circostanza di fatto, non può evidentemente esser rimesso in discussione in sede di legittimità e, sulla base di esso, tenuto anche conto dei doveri di diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente che già l’art. 6, comma 1, lett. a), dell’allora vigente L. n. 1 del 1991 poneva a carico dell’intermediario, non può dubitarsi che fosse dovuta un’informazione come quella di cui si discute, perché inerente ad un fatto nuovo idoneo a dispiegare effetti sul modo in cui fino ad allora si erano svolti i rapporti tra intermediario e cliente; rapporti non necessariamente continuativi, ma comunque frequenti e reiterati, dei quali, per ciò stesso, sarebbe stato logico attendersi ulteriori sviluppi. Sotto questo profilo la motivazione che ha indotto la cor- DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1115 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI te territoriale a ravvisare una colpa della ricorrente nell’affidamento incolpevolmente riposto dal cliente nell’esistenza del rapporto di preposizione si appalesa corretta ed adeguata a sorreggere l’anzidetta conclusione. 6. Privo di fondamento, infine, è anche l’ultimo motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione dell’art. 1248 c.c., oltre che difetti di motivazione dell’impugnata sentenza. L’assunto della ricorrente, secondo la quale la condanna al risarcimento dei danni in favore del sig. M. avrebbe dovuto esser circoscritta nel quantum all’importo delle somme da quest’ultimo versate e poi distratte dal promotore, maggiorate dei soli interessi legali e non di interessi al tasso annuo del 14&percnt, in difetto di pattuizione scritta in tal senso, è palesemente infondato. Non è qui in questione, infatti, la corresponsione di interessi dovuti in forza di una specifica pattuizione tra il debitore ed il creditore, è questione invece del risarcimento del danno sofferto in conseguenza della violazione, da parte di un soggetto cui una determinata somma era stata affidata, dell’obbligo di investirla conformemente alle disposizioni ricevute. E poiché, in punto di fatto, la sentenza impugnata indica (e la stessa ricorrente nella premessa del ricorso conferma) che quella somma avrebbe dovuto essere investita in certificati di deposito bancari dei quali era prevista la restituzione a scadenza con aggiunta di interessi annui al tasso del 14%, risulta conforme a diritto e congruamente motivata la statuizione con cui la Corte di merito ha condannato i convenuti ad un risarcimento comprendente anche la misura degli interessi che il cliente avrebbe percepito qualora le somme da lui affidate al promotore fossero state impiegate come dovevano. ...Omissis... IL COMMENTO di Luca Frumento L’Autore, dopo aver inquadrato la responsabilità dell’intermediario finanziario per fatto illecito del promotore finanziario ex art. 31 T.u.f., commenta favorevolmente la sentenza nel suo duplice aspetto di maggior interesse: l’insussistenza del concorso di colpa del risparmiatore per violazione delle norme sui mezzi di pagamento e, ricorrendone le condizioni in termini di “apparenza del diritto”, la responsabilità dell’intermediario per danno compiuto dal proprio ex promotore finanziario. Il Signor M. aveva consegnato, in due riprese, assegni bancari al promotore finanziario D. della Sviluppo Investimenti Sim S.p.a.: il quale non aveva dato corso agli investimenti concordati (certificati di deposito bancari al tasso del 14% annuo), non avendo trasmesso tali assegni alla propria Sim ed anzi essendosene indebitamente appropriato. Il risparmiatore citava in giudizio il promotore e la Sim al fine di ottenere il risarcimento del danno, in misura pari all’importo complessivo degli assegni maggiorati degli interessi di cui avrebbe beneficiato se gli investimenti avessero avuto buon fine. Si costituiva in giudizio la Sim, che domandava il rigetto della domanda di M., al quale doveva essere imputata l’esclusiva responsabilità per avere effettuato i versamenti a mani del promotore a mezzo di assegni bancari al portatore e, quindi, in violazione delle clausole contrattuali, che - invece - avrebbero imposto l’impiego di assegni direttamente intestati alla società. Evidenziava poi che talune ap- 1116 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 propriazioni erano avvenute allorquando il promotore D. aveva cessato il rapporto di agenzia con la Sim, essendosi oltretutto la società attivata per recuperare la modulistica ed ogni altro materiale in possesso del promotore. In subordine chiedeva l’accertamento del concorso colposo dell’attore per avere concorso nel fatto causativo del danno e formulava rivalsa nei confronti di D. per quanto eventualmente essa fosse condannata a risarcire all’attore. Il Tribunale di Monza, con sentenza 14 marzo 2000, accoglieva la domanda di M. condannando in solido la Sim e D, peraltro con la rivalsa a carico del secondo. Tale decisione veniva integralmente confermata dalla Corte di Appello di Milano, con sentenza 19 febbraio 2002. Nella specie la Corte riteneva che non potesse imputarsi al cliente alcuna colpa, esclusiva o concorrente, per non aver consegnato al promotore assegni intestati direttamente alla Sim, in quanto tale previsione non figurava in modo chiaro negli ordini di investimento (schede di prenotazione dei certificati di deposito) e, soprattutto, in quanto già in precedenza M. aveva emesso assegni non intestati alla Sim, la quale tuttavia aveva accettato i pagamenti senza sollevare eccezioni. Quanto poi alla circostanza della consegna a D. del secondo gruppo di assegni quando questi non era più promotore della Sim, la Corte osservava che, nondimeno, egli era rimasto in possesso della documentazione dell’intermediario di cui il promotore si era servito: dunque l’incolpevole affidamento dell’investitore, convinto della permanenza del rapporto di agenzia di D., era imputabile alla Società, che non aveva neppure provveduto ad informare il cliente dell’avvenuta cessazione del rapporto. GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI Avverso tale sentenza la Sim ha proposto ricorso per cassazione, formulando tre motivi di gravame. Tali motivi investono rispettivamente, le tre principali questioni sulla quali si era pronunciata la Corte d’Appello. Nella specie: 1) se sussistano, nel caso in esame, gli estremi di una colpa esclusiva o concorrente del cliente danneggiato dall’illegittimo comportamento del promotore finanziario, del cui illecito la Sim è stata chiamata a rispondere; 2) se sussista una situazione di apparenza del diritto imputabile alla Sim, tale per cui quest’ultima debba essere ritenuta responsabile anche della condotta illecito del promotore successiva allo scioglimento del rapporto di agenzia; 3) se sia attribuibile al cliente, a titolo di risarcimento del danno, una somma comprensiva degli interessi convenzionali che lo stesso cliente avrebbe percepito ove l’investimento avesse avuto regolare esecuzione. La S.C., con la sentenza in commento, che si segnala per importanza e per chiarezza espositiva, ha respinto tutti i motivi di gravame ed ha confermato la pronuncia di merito, assumendo però un nuovo iter decisionale. Premessa La disciplina applicabile alla fattispecie era quella prevista dall’allora vigente legge n. 1 del 1991 (c.d. legge Sim), sub art. 5. Il quadro normativo di riferimento relativo alla responsabilità dell’intermediario finanziario per fatto illecito del promotore finanziario non è da allora molto mutato, nonostante l’emanazione del d.lgs. n. 415/1996 (c.d. Decreto Eurosim) e, successivamente, del d.lgs. n. 58/1998 (Testo unico finanza). L’art. 31, comma 3, T.u.f. stabilisce infatti che “Il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal promotore finanziario, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale” (1). La previsione è quindi simile a quella già contenuta nell’art. 5 della legge n. 1/1991, anche se con compare più il riferimento ai danni causati dal promotore finanziario nello svolgimento delle incombenze affidate (2) e viene espressamente sancita la responsabilità solidale del soggetto abilitato che conferisce l’incarico. La previsione si colloca nell’ambito della generale previsione contenuta nell’art. 2049 c.c., di cui costituisce espressione particolare, e di tale norma riprende la connotazione di responsabilità oggettiva, non consentendosi all’intermediario finanziario prova liberatoria circa la propria assenza di colpa della causazione del fatto dannoso al risparmiatore (3), almeno secondo la giurisprudenza di gran lunga prevalente (4). Note: (1) Sul vigente art. 31 T.u.f. si vedano, in generale, i commenti di Roppo in AA.VV., Commentario al Testo unico finanza, a cura di Alpa-Capriglione, Milano, 1998, 331 ss; Rabitti Bedogni, in AA.VV., Il Testo unico della intermediazione finanziaria, Milano, 1999, 260 ss.; Chieppa Maggi, in AA.VV., Testo unico della Finanza, a cura di Campobasso, Torino, 2000, 274; Bochicchio, La nuova disciplina del promotore finanziario, in Giur. comm., 1998, I, 887; Costi-Enriques, Il mercato mobiliare, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, VIII, Torino, 2004, 181 ss.. Sul previgente art. 5 l. n. 1/991 si vedano Annunuziata, Regole di comportamento degli intermediari e riforme dei mercati mobiliari, Milano, 1993, 381; Carbonetti, I contratti di intermediazione mobiliare, Milano, 1992, 68; Coltro Campi, La nuova disciplina dell’intermediazione e dei mercati mobiliari, Torino, 1991, 85; Santorsola, La S.I.M. nell’evoluzione del mercato finanziario, Milano 1992. Sul previgente art. 23 decreto Eurosim si vedano AA.VV., L’Eurosim, a cura di Campobasso, Milano, 1997; Zitiello, Decreto Eurosim: la disciplina degli intermediari e delle attività, in Le Società, 1996, 1009; Pinori, Decreto Eurosim: la responsabilità degli intermediari finanziari in Danno e resp., 1997, 292. Sulla responsabilità dell’intermediario per fatto illecito del promotore nella vigente normativa cfr. Lobuono, La responsabilità degli intermediari finanziari, Napoli, 1999; Bochicchio, Illeciti dei promotori finanziarti nei confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, in Giur. comm., 1997, 4, 466; Carbone; La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie in Danno e resp., 1999, 615; Poltronieri, I limiti della responsabilità della società di intermediazione mobiliare per l’operato dei promotori di servizi finanziari, in Banca, borsa tit. cred., 1999, 1, 2; Maniaci, La responsabilità della sim per fatto illecito del promotore in Contratti, 1999, 497; Santosuosso, La buona fede del consumatore e dell’intermediario nel sistema della responsabilità oggettiva, in Banca, borsa e tit. cred., 1999, I, 33; Petrone-Ristuccia; La responsabilità dell’intermediario per l’illecito del promotore in giurisprudenza in AA.VV., Banche, promotori e internet, a cura di Parrella-Tofanelli, Milano, 2000, 163; Tucci, Illecito del promotore finanziario e responsabilità solidale della società di intermediazione mobiliare in Banca, Borsa, tit. cred., 2002, II, 767; Id., Responsabilità dell’intermediario per fatto illecito del promotore finanziario e concorso di colpa dell’investitore, ivi, 2005; Chieppa Maggi, Sulla responsabilità indiretta della Sim, ivi, 424; Galletti, La responsabilità dell’intermediario per l’illecito del dipendente o del promotore finanziario, in Giur. comm., 2004, 7, 1212; Liace, Note minime in tema di responsabilità solidale tra la sim e li promotore finanziario in Dir. fall., 2003; 237; Id., Responsabilità oggettiva della Sim per illecito del promotore finanziario, in Danno resp., 2004, 297; Frumento, Responsabilità (ex art. 2049 c.c.) dell’intermediario finanziario per l’illecito del promotore-agente, ivi, 2006, 141 (2) Il venir meno del riferimento all’’esercizio delle incombenze nell’art. 31 cit. è stato dai più giudicato non significativo in ragione del carattere immanente del requisito (cfr. la maggioranza degli A. citati nella nota precedente). Resta però il fatto che il significato letterale della norma è ora più esteso, potendosi quindi ritenere che il legislatore abbia inteso introdurre un regime di responsabilità per l’intermediario più severo rispetto al precedente. (3) In tale senso cfr. Roppo, cit., 336; Lobuono, cit., 244; per una diversa accezione Santosuosso, cit. 32, che fa discendere la responsabilità dell’intermediario da esigenze di contemperamento di interessi contrapposti quali l’affidamento incolpevole degli investitori danneggiati e degli intermediari adempimenti alla normativa. In giurisprudenza cfr., Cass. 29 settembre 2005 n. 19166 in Danno e resp., 2006, 141, nota Frumento, Cass. 22 ottobre 2004 n. 20588 in Giust. civ. Mass., 2004, f. 10 e, per esteso, nel repertorio web Iurisdata; Trib. Mantova, 13 ottobre 2003, in Danno e resp., 2004, 297 nota Liace, che ha ritenuto che la sim risponde a titolo oggettivo del fatto illecito del promotore finanziario consistente nella distrazione di somme affidate dal risparmiatore, con l’unica possibilità di liberarsi provando che il risparmiatore ha deliberatamente affidatoteli somme per investimenti estranei al campo di azione della sim; Trib. Sanremo 13 gennaio 2003 in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II, 154 che tiene ferma la natura di responsabilità oggettiva della sim ove il fatto illecito del promotore sia di natura dolosa; Trib. Milano 17 maggio 2003, ivi, 2004, II, 154, che riconduce la responsabilità oggettiva dell’intermediario alla categoria del rischio di impresa. Analogamente Trib. Roma 23 marzo 2005, in Iurisdata: “La responsabilità dell’intermediario per il fatto del promotore ha carattere essenzialmente oggettivo imputandosi alla società intermediata, nell’interesse della quale l’attività viene svolta dal promotore, il costo del rischio dell’attività medesima e quindi l’illecito del promotore. Il rischio infatti non può cadere sull’inerme risparmiatore ma deve cadere su chi sceglie il collaboratore, se ne avvale, lo organizza, lo controlla e può tradurre il rischio stesso in costo”. (4) Sostengono la natura colposa della responsabilità in questione Trib. Milano, 11 giugno 1998, in Contratti, 1999, 487, nota Maniaci: “I presupposti necessari per la configurazione della responsabilità solidale della sim per i danni cagionati a terzi dai promotori di servizi finanziari …sono il rapporto di (segue) DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1117 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI La ratio della norma va ricercata nell’esigenza di tutela dell’investitore quale parte debole del rapporto contrattuale di investimento: il danno illecito (anche penalmente rilevante) del promotore finanziario costituisce dunque un rischio d’impresa che l’intermediario che ha in carico il promotore è tenuto ad accollarsi. La disposizione si coniuga e si interseca con altre disposizioni contenute nella normativa di settore: in primo luogo, la previsione che, nell’offerta fuori sede, il soggetto abilitato debba avvalersi di promotori finanziari (art. 31 comma 1, T.u.f.), che essi debbano essere legati all’intermediario tassativamente a mezzo di rapporto di lavoro subordinato, di agenzia e di mandato e - soprattutto - che possano operare nell’interesse di un solo intermediario (comma 2, art. cit.). Tale ultima previsione (c.d. ‘monomandato’) viene considerata di particolare importanza in relazione al tema della responsabilità solidale dell’intermediario, potendosi fare discendere la natura oggettiva di tale responsabilità anche dal riconoscimento del promotore finanziario quale operatore che opera in via esclusiva per quell’intermediario (5). Area di responsabilità dell’intermediario: esercizio delle incombenze del promotore finanziario e rapporto di “occasionalità necessaria” La natura oggettiva della responsabilità dell’intermediario per fatto illecito del promotore (come verificato, di gran lunga prevalente in giurisprudenza e in dottrina) determina importanti conseguenze nell’ambito dell’onere probatorio, avuto riguardo anche alla norma di inversione dell’onere, contenuta nell’ultimo comma dell’art. 23 T.u.f., tale per cui “Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta” (6). Dunque l’investitore dovrà unicamente provare: a) la qualità del promotore finanziario che lo ha danneggiato; b) l’esistenza dell’incarico di lavoro, agenzia o mandato (cfr., ancora, art. 31 cit.) attribuitogli dall’intermediario, oppure, come ha evidenziato la sentenza de quo, una equivalente situazione di apparenza colpevolmente imputabile alla società (su tale aspetto cfr. par. IV infra nel testo); c) la colpa del promotore, posto che la premessa del criterio di imputazione della responsabilità è costituita dalla condotta illecita di questi. L’onere sub c) implica molto spesso la dimostrazione che il promotore ha violato le regole di diligenza e di correttezza della propria attività professionale, contenute nel T.u.f. e nella normativa attuativa regolamentare della Consob (Reg. n. 11522/1998 e successivi emendamenti), sulla cui osservanza vigila la stessa Commissione, quale Organo di controllo. Anche la sentenza in commento richiama ed evidenzia tale apparato normativo e regolamentare, evidenziando che esso è “…volto a responsabilizzare l’intermediario nei 1118 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 riguardi dei comportamenti di soggetti - quali sono i promotori - che l’intermediario medesimo sceglie, nel cui interesse imprenditoriale essi operano e sui quali nessuno meglio dell’intermediario è concretamente in grado di esercitare efficaci forme di controllo”. Viceversa deve escludersi che l’intermediario possa dimostrare, quale prova liberatoria, la propria diligenza nella scelta del promotore, nel suo controllo, etc., potendo tuttalpiù cercare di provare che l’illecito è accaduto al di fuori delle incombenze affidate al promotore finanziario, analogamente a quanto accade nelle ipotesi di applicazione dell’art. 2049 c.c. ove si richiede un rapporto di ‘occasionalità necessaria’tra fatto illecito e incarico affidato. In termini del tutto analoghi si esprime la sentenza, che sottolinea “…come la suindicata responsabilità dell’intermediario preponente, la quale pur sempre presuppone che il fatto illecito del promotore sia legato da un nesso di occasionalità necessaria all’esercizio delle incombenze a lui facenti capo, trova la sua ragion d’essere, per un verso, nel fatto che l’agire del promotore è uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale nell’organizzazione della propria impresa, traendone benefici cui è ragionevole far corrispondere i rischi; per altro verso ed in termini più specifici, nell’esigenza di offrire una più adeguata garanzia ai destinatari delle offerte fuori sede loro rivolte dall’intermediario per il tramite del promotore, giacché appunto per le caratteristiche di questo genere di offerte più facilmente la buona fede dei clienti può essere sorpresa” (7). Note: (segue nota 4) preposizione, il fatto illecito del preposto e la connessione tra l’esercizio delle incombenze e il danno, con la conseguenza che la sim è esonerata da tale responsabilità soltanto quando fornisca la prova rigorosa e puntuale dell’assenza di una propria ‘culpa in vigilando’sull’attività del promotore” e idem 23 gennaio 2003, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II, 154. Peraltro è stato evidenziato che, in tali fattispecie, è stato fatto un “…uso meramente ‘declamatorio’del requisito della culpa in vigilando del preponente, in conformità con un orientamento tralatizio della giurisprudenza, che talora afferma - in via del tutto incidentale - che la responsabilità dei padroni e dei committenti ex art. 2049 c.c. si basa su una presunzione assoluta di culpa in eligendo vel in vigilando, che non ammette prova contraria” (Tucci, Responsabilità dell’intermediario, cit., 148). (5) Analogamente è stato sostenuto che “Questa previsione di responsabilità indiretta e solidale, disposta evidentemente a tutela dell’investitore, si ricollega all’obbligo di esclusiva ed alle altre disposizioni che vincolano il promotore finanziario al rispetto delle norme legislative e regolamentari che disciplinano l’attività dell’intermediario nonché delle ulteriori norme interne elaborate dallo stesso intermediario ovvero dalla categoria di appartenenza di quest’ultimo” (Rabitti Bedogni, cit., 262). (6) Sull’argomento cfr. Topini, L’onere della prova nei giudizi di responsabilità per danni cagionati nello svolgimento dei servizi di investimento, in Giur. comm., 1999, I, 701; Lobuono, cit., 219; Maniaci, cit., 297; Galletti, cit., 1214, Liace, Responsabilità oggettiva, cit., 300. Per quanto attiene all’inversione dell’onere probatorio nel regime della l. n. 1/1991, cfr. Annunziata, cit., 381; Carbonetti, cit., 68; Coltro Campi, cit., 85. (7) Al riguardo la sentenza richiama due precedenti: Cass. 22 ottobre 2004 n. 20588 (in Banca, borsa e tit. credito, 2005, con nota di Tucci), la cui massima recita “Ai fini della sussistenza della responsabilità della società di intermediazione mobiliare per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari (segue) GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI Allo stesso modo, potrà dall’intermediario essere fornita la dimostrazione, idonea ad esimere da responsabilità in quanto recide il nesso causale, dell’intento collusivo del promotore e dell’investitore finalizzato alla frode verso l’intermediario. Ancora una volta soccorre la sentenza, che esclude la responsabilità della società, qualora essa “…provi che vi sia stata, se non addirittura collusione, quanto meno una consapevole e fattiva acquiescenza del cliente alla violazione, da parte del promotore alle regole di condotta su quest’ultimo gravanti” (8). Risponde l’investitore di concorso di colpa per violazione delle regole su mezzi di pagamento? Si viene dunque alla prima delle questioni sollevate dalla sentenza: se cioè nel comportamento dell’investitore sussistano gli estremi di colpa esclusiva o concorrente (art. 1227, primo e secondo comma, c.c.). Come cennato, tale colpa è stata prospettata dalla difesa della Sim e ricollegata al fatto che M. aveva eseguito i versamenti consegnando al promotore assegni al portatore, nonostante le schede di prenotazione dei certificati di deposito, predisposte dalla Sim e sottoposte alla sottoscrizione del cliente, prevedessero espressamente che i pagamenti avrebbero dovuto essere effettuati unicamente mediante assegni bancari o circolari intestati alla società. I Giudici di merito hanno escluso che tale circostanza possa dare luogo all’applicazione dell’art. 1227 c.c., con conseguente esclusione o riduzione del danno. L’argomento adotto dalla Corte è duplice ed esclusivamente orientato in fatto. In primo luogo si è ritenuta dubbia la circostanza che la suindicata modalità di pagamento sarebbe stata contenuta nelle schede di prenotazione dei certificati di deposito, figurando essa in altra modulistica (ordini di acquisto di fondi) non rilevante ai fini della causa. In secondo luogo - ed il rilievo è stato ritenuto decisivo dalla Corte di Appello - era emerso che già in precedenti occasioni M., nell’effettuare investimenti tramite il promotore D., gli aveva consegnato assegni al portatore, i quali erano stati accettati ed incassati dalla Sim, senza obiezione alcuna. La Sim, con il motivo di gravame in questione, recante asseriti vizio di motivazione e violazione di legge, ha obiettato: sulla prima questione, che, contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice di merito, nelle schede di prenotazione era espressamente indicato che il pagamento doveva avere luogo a mezzo di assegni intestati alla Sim; sulla seconda, che gli assegni in passato consegnati a D. erano stati da questi, o da terzi, incassati, e non già dalla Sim. A ciò la ricorrente ha aggiunto che il mancato invio della conferma d’ordine, da parte della società, avrebbe dovuto mettere M. sull’avviso ed indurlo a compere immediate verifiche, anziché attendere oltre un anno, come era poi accaduto. La S.C., per respingere il mezzo di gravame, prende le mosse dalle disposizioni regolamentari Consob in materia di mezzi di pagamento a promotori finanziari, evidenziandone la palese violazione nella specie. La pronuncia richiama l’art. 14, comma 9, del Reg. n. 5388 del 2 luglio 1991 in quanto vigente all’epoca dei fatti di causa. La norma regolamentare di riferimento è oggi costituita dall’omologo art. 96, comma 6, del Reg. n. 11522 del 1° luglio 1998 e successivi emendamenti, a tenore del quale “Il promotore può ricevere dall’investitore, per la conseguente immediata trasmissione, esclusivamente: a) assegni bancari o assegni circolari intestati o girati al soggetto abilitato per conto del quale opera ovvero al soggetto i cui servizi, strumenti finanziari o prodotti sono offerti, muniti di clausola di non trasferibilità; b) ordini di bonifico e documenti similari che abbiano quale beneficiario uno dei soggetti indicati nella lettera precedente; c) strumenti finanziari nominativi o all’ordine, intestati o girati a favore del soggetto che presta il servizio oggetto di offerta”. Ebbene, secondo la S.C., la consegna al promotore di mezzi di pagamento non consentiti non implica assunzione di responsabilità in capo all’investitore che tale consegna abbia effettuato. Il concorso di colpa viene infatti escluso sulla base del rilievo che le norme regolamentari Consob sono rivolte esclusivamente al promotore e non già all’investitore, nel cui interesse esse sono dettate: la disposizione regolamentate Consob sui mezzi di pagamento “…è unicamente diretta a porre un obbligo di comportamento in capo al promotore e trae la propria fonte da una prescrizione di legge (…) espressamente volta alla tutela degli interessi del risparmiatore”. Ne consegue che non è logicamente sostenibile “…che essa, viceversa, si traduca in un onere di diligenza posto a carico di quest’ultimo, tale per cui l’eventuale violazione di detta prescrizione ad opera del promotore si risolva in un addebito di colpa (concorrente se non esclusiva) a carico del cliente danneggiato dall’altrui atto illecito”. La S.C. ricorre poi ad un efficace argomento per absurdum: “Ove si ammettesse la possibilità per l’intermediario di scaricare in tutto o in parte sull’investitore il rischio della violazione di regole di comportamento gravanti sui promotori, si finirebbe evidentemente per vanificare lo scopo Note: (segue nota 7) nello svolgimento delle incombenze loro affidate è sufficiente un rapporto di “necessaria occasionalità” tra fatto illecito del preposto ed esercizio delle mansioni affidategli, a nulla rilevando che il comportamento del promotore abbia esorbitato il limite fissato dalla società, come si desume dall’art. 2049 c.c., la cui portata è stata estesa dall’art. 5, comma 4, della legge n. 1 del 1991” e Cass. 19 luglio 2002 n. 10580 (in Giust. civ. Mass., 2002, 1290 e, per esteso, in Iurisdata), secondo cui “La società di intermediazione mobiliare è responsabile dei danni arrecati a terzi dal proprio promotore finanziario, in tutte le ipotesi in cui il comportamento del promotore rientri nel quadro delle attività funzionali all’esercizio delle incombenze di cui è investito”. Cfr., sul punto, anche i precedenti sub nota n. 17. (8) “La violazione delle norme sui mezzi di pagamento e, più in generale, eventuali anomalie nella conclusione del contratto tra l’investitore e il promotore, in definitiva, potranno esonerare da responsabilità l’intermediario convenuto soltanto ove questi sia in grado di provare una collusione tra promotore e investitore, che abbia l’effetto di rendere del tutto estranea l’attività del primo all’incarico ricevuto, in quanto tra l’esercizio delle incombenze e danno dell’investitore si è frapposta la scelta consapevole di quest’ultimo di accettare le modalità di investimento ‘devianti’suggerite dal promotore”: così Tucci, Illecito del promotore finanziario, cit., 770. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1119 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI della normativa che (…) mira incede proprio a responsabilizzare l’intermediario per siffatti comportamenti del promotore”. Che, poi, tali norme regolamentari Consob sui mezzi di pagamento siano state nella specie trasfuse nel testo contrattuale (anche se non è chiaro se gli ordini di prenotazione dei certificati di deposito sottoscritti da M. effettivamente recassero disposizioni sui mezzi di pagamento) viene ritenuto dalla S.C. del tutto irrilevante, non potendo la stessa norma, a seconda che sia o non sia richiamata nel contratto, mutare sostanza e, in particolare trasformarsi da obbligo di comportamento del promotore in vista della tutela dell’investitore, in un onere gravante su quest’ultimo. La pronuncia si colloca nella scia di un filone giurisprudenziale già nutrito (9). Non mancano però precedenti di merito, anche recenti, di segno diverso. Si è, ad esempio, ravvisato, un concorso di colpa dell’investitore (con conseguente riduzione del risarcimento del danno del 50%) per avere questi girato assegni circolari al promotore finanziario e per non essersi insospettito per le anomale modalità di pagamento dei frutti del preteso investimento (10). È interessante notare che anche tali precedenti, che tendono ad ammettere il concorso di colpa, si richiamano, al pari della sentenza in commento, alla ratio della normativa di settore, salvo giungere ad esiti del tutto discordanti. È stato, ad esempio, affermato che le norme regolamentari Consob sui mezzi di pagamento sono certamente poste a tutela dell’investitore, quale contraente debole, ma che tuttavia - esse “…configurano a suo carico un onere di collaborazione destinato ad evitare il rischio di appropriazione indebita da parte del promotore finanziario in danno dell’investitore”, per modo che l’inosservanza di questo onere condurrebbe ad una riduzione del risarcimento dovuto, in applicazione dell’art. 1227 c.c., “per avere il danneggiato dato causa al pregiudizio che egli lamenta” (11). Altre volte la giurisprudenza di legittimità ha assunto un non chiara linea intermedia, “possibilista” sul concorso di colpa: in un caso ha, ad esempio, ritenuto il difetto di motivazione della pronuncia di merito, nella parte in cui ha accertato un concorso colposo del risparmiatore, ritenuto “modesto” (e che ha dato luogo ad un riduzione del risarcimento del 10%) (12). In altra fattispecie si è limitata ad affermare che i mezzi di pagamento costituiscono “elementi secondari della fattispecie”, la cui violazione di per sé non è idonea ad “interrompere il nesso di occasionalità necessaria e la configurazione della responsabilità solidale” (13). La dottrina è scettica sul concorso colposo dell’investitore per l’illecito del promotore finanziario: viene infatti evidenziato, al pari della sentenza in commento, che le norme del T.u.f. e regolamentari Consob (ad esempio, le già richiamate norme sui mezzi di pagamento) contengono precetti rivolti al promotore finanziario e non già al risparmiatore, nel cui interesse esse sono state formulate (14). È stato inoltre osservato che tali norme assicurano una tutela uniforme dell’investitore, non distinguendo a seconda del suo grado di competenza e di preparazione, do- 1120 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 vendosi quindi approntare tutela anche al risparmiatore sprovveduto, tra l’altro in ragione della ‘copertura’costituzionale del risparmio nella sua connotazione oggettiva. (15). Ed ancora, è stata evidenziata l’intrinseca debolezza logica del concorso colposo del risparmiatore, dovendosi altrimenti ammettere che il meccanismo di responsabilità solidale dell’intermediario per fatto illecito del promotore sia destinato a trovare rara applicazione, come nelle situazioni di versamenti conformi alle prescrizioni normative (16). Viene naturalmente eccettuata la situazione in cui la negligenza dell’investitore sulle c.d. regole di presentazione del promotore sia di “cosciente” negligenza, se non di collusione con il promotore. È la situazione del cliente il quale sia pienamente consapevole, magari per averlo appreso successivamente rispetto al primo conferimento, che il promotore finanziario procura investimenti al di fuori di quanto offerto dalla propria mandante, magari ottenendo performances più interessanti (e violando il monomandato legaNote: (9) Cfr. Cass. 17 maggio 2001 n. 6756, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 365; Trib. Milano 2 maggio 1996, in Resp. civ. prev.,1997, 1237 (nota Annunziata); Trib. Milano 24 giugno 1996, in Giur. comm., 1997, II, 466 (nota Bochicchio); Trib. Trani 9 luglio 2001, in Le Corti Bari, Lecce e Potenza, 2002, I, 14 (nota Lo buono); Trib. Brescia 23 dicembre 2002, in Foro it., 2003, I, 1264; Trib. Mantova, 13 ottobre 2003, in Danno e resp., 2004, 297 (nota Liace); Trib. Lecce 28 giugno 2004, in I Contratti, 2005, 584. Originale l’impostazione di Trib. Verona 1° marzo 2001, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, II, 753 (nota Tucci) ove leggesi che il concorso di colpa non è configurabile “allorché si sia in presenza di responsabilità connessa ad un fatto doloso e non colposo dell’autore dell’illecito”. (10) Trib. Roma 14 ottobre 2004 in Banca, borsa, tit. cred., 2005, con nota di Tucci. Si vedano, anche, Trib. Monza 4 luglio 2000, in Resp. civ. prev., 2000, 229 (nota Romeo); Trib. Milano 11 giugno 1998, in Contratti, 1999, 487 (nota Maniaci); idem, 11 febbraio 2002, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, II, 153. (11) Trib. Milano 11 giugno 1998, cit. (12) Cass. 29 settembre 2005, n. 19166, cit. (13) Cass. 20 ottobre 2004, n. 20588, cit. (14) Cfr. Lobuono, cit., 251; Tucci, Illecito del promotore finanziario, cit., 767, il quale osserva che “Le norme sui mezzi di pagamento costituiscono altrettanti obblighi a carico del promotore, della cui violazione non può che rispondere ..il soggetto abilitato che ha conferito l’incarico”. Originale l’impostazione di Bochicchio, Illeciti dei promotori finanziari, cit., 466, secondo cui il concorso di colpa ricorre solo allorché la colpa del danneggiato sia fronteggiata da colpa del danneggiante “…e non anche allorché sia fronteggiata, come nella maggior parte di illeciti dei promotori, che volontariamente si appropriano delle disponibilità loro affidate dai clienti, senza investirle come di converso pattuito, da dolo del danneggiante stesso: non ha infatti senso che la colpa del danneggiato vada a tutela di chi ha teso coscientemente a danneggiarne il patrimonio e comunque a lederne fondamentali diritti. A mò di sillogismo, se del ricorso al concorso di colpa non può beneficiare il promotore - danneggiante, dello stesso non può beneficiare nemmeno la preponente-responsabile oggettivamente, in quanto la responsabilità oggettiva è caratterizzata, per antonomasia, dall’impossibilità di proporre eccezioni non proponibili dal danneggiante-responsabile diretto”. Trattasi peraltro di impostazione che - come riconosce lo stesso A. - è avversata dalla giurisprudenza, che non esclude il concorso di colpa neppure nel caso in cui il danneggiante versi in situazione di dolo e ciò sulla base del principio de “l’equivalenza delle cause”. (15) Galletti, cit., 1216. (16) Sia consentito il richiamo a Frumento, cit., 150. GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI le) e che i mezzi di pagamento irregolari costruiscono una modalità necessaria per conseguire tali risultati. Di tale limite, del resto, la sentenza in commento si rende ben conto, escludendo, come già rimarcato, il c.d., nesso di occasionalità necessaria ove l’intermediario provi che vi sia stata collusione o, quantomeno, la ‘consapevole e fattiva acquiescenza’dell’investitore alla violazione delle regole da parte del promotore finanziario. In questa situazione può ritenersi venuta meno la responsabilità dell’intermediario per difetto di nesso causale tra la commissione dell’illecito e l’ambito di attività del promotore (17). Risponde l’intermediario del danno subìto dall’investitore per comportamento illecito del proprio ex promotore? Il secondo motivo di gravame ha riguardo alle appropriazioni compiute da D. quanto questi aveva cessato, da circa un mese e mezzo, di essere promotore finanziario della Sim. Il Giudice di merito, richiamando i principi di apparenza del diritto aveva ritenuto la responsabilità della società, in ragione delle seguenti circostanze: - che M., pur essendo da tempo cliente della Sim, non era stato informato da quest’ultima nel venir meno del rapporto di agenzia col proprio promotore; - che questi era stato lasciato nel possesso di modulistica contrattuale, la quale, infatti, era stata fraudolentemente impiegata; - che la Sim non si era neppure attivata per ottenere la restituzione del tesserino di D., per modo che questi aveva potuto esibirlo traendo in inganno l’investitore. Avverso tale statuizione è insorto l’intermediario il quale, con gravame evidenziante preteso vizio di motivazione e violazione di norma di legge: – ha negato che M., all’epoca dei fatti, fosse ancora proprio cliente, quindi negando che gli fosse dovuta alcuna informativa; – che, effettivamente, la società aveva, senza esiti, chiesto la restituzione della modulistica (a sé medesima) e del tesserino (alla Commissione regionale per l’Albo); – che la stessa società, non appena venuta a conoscenza degli illeciti compiuti da D., aveva informato gli organi di vigilanza e sporto denuncia alla magistratura. Anche tale motivo è stato respinto dalla S.C., che ha ritenuto sussistere nella specie i principi di apparenza di diritto nella rappresentanza negoziale. In particolare si è ritenuto che l’intermediario può essere chiamato a rispondere di illecito compiuto in danno di terzi da chi appaia essere un suo promotore, ed in tale apparente veste abbia commesso l’illecito, “…ogni qual volta l’affidamento del terzo risulti incolpevole ed alla falsa rappresentazione della realtà abbia invece concorso un comportamento colpevole (ancorché magari solo omissivo) dell’intermediario medesimo”. Effettivamente costituisce insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che il principio dell’apparenza del diritto, riconducibile a quello più generale dell’affidamento incolpevole, può essere invocato con riguar- do alla rappresentanza, allorché si riscontri: a) la buona fede del terzo che abbia concluso atti con il falso rappresentante (atteggiamento psicologico di chi invoca la situazione di apparente); b) un comportamento colposo del rappresentato tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza/preposizione sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante/preponente apparente. In altri termini, perché possa invocarsi utilmente il principio dell’apparenza del diritto occorre che coesistano due elementi: uno relativo al soggetto, il terzo, che ha fatto affidamento su tale apparenza (lett. a) e l’altro relativo al soggetto, il rappresentato apparente, che gli effetti di tale apparenza subisce (lett. b) (18). Del resto la giurisprudenza ha, fino ad oggi, fatto uso discretamente frequente del principio di apparenza del diritto - beninteso, in presenza dei denunciati requisiti - al fine di ritenere la responsabilità dell’intermediario in quelle Note: (17) Cfr. Trib. Brescia 22 dicembre 2002, cit., secondo cui la responsabilità solidale della Sim non è esclusa dall’irregolare forma di pagamento adottata dal risparmiatore danneggiato, in difformità dalle indicazioni fornite dalla società preponente e dalla normativa Consob, “…se non nel caso in cui si evidenzi una colpa esclusiva del risparmiatore, per imprudenza non scusabile, tale da rivestire un’incidenza causale determinante ed unica nella creazione del danno”; Trib. Verona 1° marzo 2001, cit., che esonera la sim da responsabilità ove questa dimostri “…che l’investimento è avvenuto, per espresso patto tra le parti, al di fuori dell’incarico conferito, per avere il cliente consapevolmente richiesto investimenti finanziari del tutto estranei all’attività svolta dalla Sim”; Trib. Mantova 13 ottobre 2003, cit., che analogamente richiede”…la prova della consapevole collusione tra risparmiatore e promotore finanziario è idonea ad escludere questa responsabilità”. In dottrina cfr. Bochicchio, cit., 881, il quale ritiene che il comportamento dell’investitore assume rilievo giustappunto nella sola ipotesi di vera e propria collusione tra cliente e promotore. Per modo che l’apparente ‘grave imprudenza’dell’investitore costituirebbe indizio e sintomo di accordo fraudolento con il promotore; Analogamente Tucci, nota n. 8 e Responsabilità dell’intermediario, cit., 133: “La violazione delle norme in materia …se da sola non è sufficiente a configurare un concorso di colpa del cliente, può tuttavia essere valutata come eventuale indizio di una collusione tra l’investitore e il promotore a danno dell’intermediario o, quanto meno, della consapevolezza circa l’estraneità della condotta del promotore alla sfera di attività dell’intermediario che ha conferito l’incarico”. (18) Cfr., avuto riguardo ad una controversia di settore, Cass. 18 febbraio 1998 n. 1720 (in Giust. civ. Mass., 1998, 366 e, per esteso, in Iuritalia), a tenore della quale “Il principio dell’apparenza del diritto, riconducibile a quello più generale della tutela dell’affidamento incolpevole, può essere invocato con riguardo alla rappresentanza, allorché, indipendentemente dalla richiesta di giustificazione dei poteri del rappresentante a norma dell’art. 1393, non solo vi sia la buona fede del terzo che abbia concluso atti con il falso rappresentante, ma vi sia anche un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente”. Nel caso di specie la S.C. ha ritenuto che una Sim non avesse assolto l’obbligo di informativa che aveva nei confronti delle mandanti, avendo trasmesso le informative mensili e quelle sulle operazioni non alle stesse direttamente ma a soggetto qualificato falsamente come rappresentante. Cfr. anche, tra le più recenti e in prospettiva più generale, Cass. 13 agosto 2004 n. 15743, in Foro it., 2004, I, 3318; Cass. 23 luglio 2004 n. 13829, in Giust. civ. Mass., 2004, 7-8; Cass. 10 gennaio 2003 n. 204, ivi, 2003, 52. La teoria della “apparenza colposa” trova il suo leading case, in Cass. 14 dicembre 1957 n. 4703, in Foro it., 1958, I, 390, con nota critica di Torrente. In dottrina Cfr., per tutti, Sacco, Apparenza, in Digesto IV, Disc. Priv., Sez. civ., I, Torino, 1987, 353. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1121 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI RISPARMIATORI situazioni in cui non è dato riscontrate la sussistenza di rapporto di agenzia o lavoro tra lo stesso intermediario e il promotore autore dell’illecito dannoso (19). L’onere della prova relativamente alla situazione di apparenza grava sull’investitore che promuova il giudizio risarcitorio: onere che, evidentemente, non sussiste ove il promotore convenuto fosse effettivamente legato ad un rapporto di preposizione all’epoca dei fatti (20). La valutazione sulla sussistenza o meno dei requisiti di cui sopra è riservata al giudice di merito, dipendendo esclusivamente dalle circostanze di fatto della fattispecie, e può essere sindacata solo in presenza di difetti logici o giuridici della motivazione. La S.C. ha ritenuto logicamente e giuridicamente corretto il ragionamento condotto dalla Corte di Appello: non tanto avuto riguardo all’inerzia che la Sim avrebbe serbato nel richiedere la restituzione di modulistica e di tesserino (posto “…che può effettivamente dubitarsi che una società di intermediazione disponga in concreto dei mezzi necessari per conseguire con certezza la restituzione”), quanto con riferimento alla mancata comunicazione al cliente M dell’intervenuto scioglimento del rapporto di agenzia con D. Dunque la società avrebbe dovuto diligentemente comunicare la cessazione del proprio rapporto con il promotore, specie con chi, come M., “…aveva avuto nel tempo una serie di ripetuti contratti contrattuali con detta società per il tramite di quel promotore ed era perciò logicamente incline ad identificare in costui appunto un promotore di quella società d’intermediazione”. L’esigenza, concretamente disattesa, di informazione tempestiva al cliente è inoltre amplificata e resa insopprimibile, secondo la S.C., da due circostanze, una generale e l’altra attinente alla concreta fattispecie. Quanto alla prima, viene evidenziato che, in ragione del noto vincolo di monomandato, i promotori possono esercitare attività solo per un solo intermediario, conseguendone il rischio che gli investitori “…possano continuare ad identificare costui un referente della società pur quando in realtà il rapporto di preposizione sia invece venuto meno”. Quanto alla seconda, posto che tale dovere di informazione non ha riguardo a chiunque nel tempo sia venuto in qualche modo in contatto con il promotore, ma è rivolto a coloro che hanno intrattenuto rapporti con la Sim in un arco di tempo che possa far supporre, secondo ragionevolezza, “la loro attitudine ad effettuare ulteriori investimenti per il tramite di quel medesimo promotore”, tale situazione si presenta nella specie, posto che è emerso che M. aveva compiuto investimento fino a quattro mesi prima il dimissionamento di D. Sul risarcimento dovuto all’investitore Con ultimo motivo di gravame, la Sim ha lamentato che la condanna a proprio carico avrebbe dovuto essere circoscritta alle somme versate da M., e poi distratte da D., maggiorate dei soli interessi legali e non già del tasso al 14% 1122 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 annuo, posto che difetta qualsiasi pattuizione scritta in tal senso. Sennonché la S.C., rigettando anche tale motivo, ha chiarito l’equivoco in cui è caduta la difesa della società: non si è trattato infatti di corrispondere interessi convenzionali ex art. 1284, u.c., c.c., ma di riconoscere il risarcimento del danno patito da M in conseguenza del mancato investimento della somma che aveva affidato a D. E posto che la somma in questione avrebbe dovuto essere investita in certificati di deposito bancario per i quali era prevista, alla scadenza annuale, l’aggiunta di interessi al tasso del 14%, “…risulta conforme a diritto e congruamente motivata la statuizione con cui la Corte di merito ha condannato i convenuti ad un risarcimento comprendente anche la misura degli interessi che il cliente avrebbe percepito qualora le somme da lui affidate al promotore fossero state impiegate come dovevano”. Note: (19) Cfr., oltre a Cass. 18 febbraio 1998 n. 1720, cit., Cass. 9 luglio 1998 n. 6691, in Danno e Resp., 1999, 48, nota Laghezza. Richiami alla giurisprudenza di merito in Carbone, cit., 615; Petrone e Ristuccia, cit., 163 ss.; Chieppa Maggi, cit., 426 il quale osserva che “La giurisprudenza ha fatto spesso ricorso al principio di apparenza del diritto, per giungere ad affermare la responsabilità della Sim, in particolar modo in mancanza di un effettivo rapporto di preposizione tra società di intermediazione mobiliare e soggetto responsabile dell’illecito. Il principio trova, però, applicazione a condizione che sussistano oggettivi riscontri e giustificazione dell’apparenza: uso di credenziali, di prospetti intestati, di depliants e altro”. In senso negativo Trib. Verona 6 marzo 2001, in Società, 2001, 963, che esclude che la responsabilità dell’intermediario possa essere costruita sulla base del principio di apparenza perché così procedendo si svuoterebbe di significato il principio di responsabilità solidale ex art. 31 T.u.f.. Originale l’impostazione di Cass. 29 settembre 2005 n. 19166, cit., secondo cui “Con riguardo alle attività illecite poste in essere dal promotore finanziario prima della entrata in vigore della legge n. 1 del 1991, sussiste la responsabilità della società di intermediazione finanziaria, ai sensi dell’art. 2049 c.c., ancorché l’agente sia privo del potere di rappresentanza, qualora - come nella specie - quest’ultimo abbia non solo il compito di promuovere, per conto del preponente, la conclusione di contratti di investimento finanziario, ma anche quelli di fare sottoscrivere dai risparmiatori il contratto di investimento e di procedere alla riscossione delle somme versate da questi ultimi, ancorché con determinate cautele”. (20) Cfr. Trib. Verona 1° marzo 2001, cit., secondo cui “La Sim risponde nei confronti del risparmiatore della dolosa distrazione di fondi da parte di un suo promotore finanziario, ancorché la sottoscrizione dei prodotti finanziari non sia avvenuta mediante assegni intestati alla società e muniti di clausola di trasferibilità. Tale responsabilità sussiste anche se il promotore non abbia il potere di rappresentanza nella Sim, ed a prescindere dal fatto che il promotore stesso sia o meno rappresentante apparente della Sim”. Sembra invece richiede il requisito della colpevole apparenza anche nel caso di promotore regolarmente incardinato presso l’intermediario Trib. Milano 1° febbraio 2001, cit.: “La responsabilità solidale della Sim per i danni arrecati dal promotore finanziario deriva direttamente dall’art. 23 d.lgs. n. 415 del 1996 e costituisce un’ipotesi rafforzata rispetto agli istituti previsti dal codice civile. Detta responsabilità non richiede infatti la violazione di un comportamento di controllo o scelta del promotore, e non viene meno neppure nell’ipotesi di responsabilità penale. Ne consegue che il rapporto con il promotore finisce per diventare rapporto con la Sim, che è tenuta a far fronte agli obblighi assunti in suo nome anche da un promotore privo di rappresentanza e ciò per avere ingenerato nei terzi, mediante un comportamento di tolleranza, la convinzione non colposa della sussistenza di un rapporto di rappresentanza, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento”. GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE Azione diretta del danneggiato Il litisconsorzio nell’azione diretta verso l’assicurazione r.c.a. CASSAZIONE CIVILE, Sez. un., 5 maggio 2006, n. 10311 Pres. Carbone - Rel. Lo Piano - P.M. Maccarone (conf.) - C. c. S. e altro Impugnazioni civili - Cause scindibili e inscindibili - Notificazione dell’impugnazione - Causa di risarcimento danni derivanti dalla circolazione di veicoli - Assicurazione obbligatoria della R.c.a. - Azione diretta nei confronti del assicuratore - Impugnazione proposta dall’assicuratore del danneggiante nei confronti del solo danneggiato - Impedimento del passaggio in giudicato della sentenza nei confronti delle altre parti litisconsorti - Sussistenza - Fondamento. (c.c., art. 2909; c.p.c., art. 102, 324, 331, 334; l. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 18, 23) In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore o dei natanti, qualora il danneggiato, esercitando l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore, evochi in giudizio quest’ultimo ed il responsabile assicurato e, chiedendo un risarcimento eccedente i limiti del massimale di assicurazione, proponga, oltre alla domanda nei confronti dell’assicuratore, anche domanda contro l’assicurato, le domande medesime si trovano in rapporto di connessione e reciproca dipendenza, trovando presupposti comuni nell’accertamento della responsabilità risarcitoria dell’assicurato e dell’entità del danno risarcibile, con la conseguenza che l’impugnazione della sentenza per un capo attinente a detti presupposti comuni, da qualunque parte ed in confronto di qualsiasi parte proposta, impedisce il passaggio in giudicato dell’intera pronuncia con riguardo a tutte le parti. Assicurazione - Veicoli (circolazione-assicurazione obbligatoria) - Risarcimento del danno - Azione diretta nei confronti dell’assicuratore - Litisconsorti necessari - Proprietario del veicolo e responsabile del danno - Inclusione - Fondamento Dichiarazioni confessorie rese dal responsabile del danno contenute nel modulo di constatazione amichevole di incidente Efficacia probatoria di piena prova solo nei confronti del confitente - Esclusione - Libero apprezzamento di dette dichiarazioni da parte del giudice nei confronti di tutti i litisconsorti - Necessità. (c.c., art. 1917, 2733; c.p.c., art. 102, 116, 331; l. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 18, 23; d.l. 23 dicembre 1976, n. 857, convertito con modificazioni in l. 26 febbraio 1977, n. 39, art. 5) Nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore della r.c.a., il responsabile del danno, che deve essere chiamato nel giudizio sin dall’inizio, assume la veste di litisconsorte necessario, poiché la controversia deve svolgersi in maniera unitaria tra i tre soggetti del rapporto processuale (danneggiato, assicuratore e responsabile del danno) e coinvolge inscindibilmente sia il rapporto di danno, originato dal fatto illecito dell’assicurato, sia il rapporto assicurativo. Di conseguenza, il giudizio deve concludersi con una decisione uniforme per tutti i soggetti che vi partecipano. Avuto riguardo alle dichiarazioni confessorie rese dal responsabile del danno, pertanto, deve escludersi che, sia nel giudizio in cui sia stata proposta soltanto l’azione diretta sia in quello in cui sia stata avanzata anche la domanda di condanna nei confronti del responsabile del danno, si possa pervenire ad un differenziato giudizio di responsabilità in base alle suddette dichiarazioni, in ordine ai rapporti tra responsabile e danneggiato da un lato, e danneggiato ed assicuratore dall’altro. Conseguentemente, va ritenuto che la dichiarazione confessoria, contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro (cosiddetto C.I.D.), resa dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato e litisconsorte necessario, non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice, dovendo trovare applicazione la norma di cui all’art. 2733, comma 3, c.c., secondo cui, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1123 GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE ...Omissis... Svolgimento del processo ...Omissis... Motivi della decisione Con il primo motivo del ricorso si denuncia: Violazione degli artt. 112, 339, 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Si deduce che la sentenza di primo grado, che aveva pronunciato la condanna in solido del S. e della s.p.a Lloyd Adriatico, era stata impugnata solo da quest’ultima, che aveva chiesto la reiezione della domanda contro di lei proposta dal C.; nessuna impugnazione era stata invece proposta da S.S., con la conseguenza che il giudice d’appello non avrebbe potuto rigettare la domanda, avanzata nei confronti del predetto dal C. e già accolta, sia pure parzialmente, dal giudice di primo grado. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e degli artt. 2054, 2697 e 2735 c.c., nonché del D.L. n. 857 del 1976, art. 5, commi 1 e 2, convertito nella L. n. 39 del 1977 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La censura svolge le seguenti argomentazioni: – il Tribunale ha immotivatamente disatteso le risultanze del modulo CID, che con riferimento al S. aveva valore di confessione stragiudiziale, nel quale erano con precisione indicati l’ora ed il luogo del fatto, i mezzi coinvolti, il teste presente, le modalità del sinistro, la dichiarazione del S. di avere costretto con la sua manovra il C. a “stringere a sinistra”, nonché il punto di contatto tra i due mezzi; – v’era la prova della collisione tra i due veicoli e la dinamica del sinistro era stata confermata dal teste indicato nel modulo CID ed aveva trovato riscontro nell’interrogatorio libero e in quello formale del C.; – la prova del sinistro e delle sue modalità era stata data dal C. a mezzo di prove documentali ed orali e tale prova non poteva essere superata dalla consulenza basata su mere deduzioni, tra l’altro, erronee e contraddittorie; – la prova del nesso causale tra i danni ed il sinistro era stata fornita e del resto la sentenza del giudice di pace sul punto non era stata impugnata; – il Tribunale ha erroneamente ritenuto che il D.L. n. 857 del 1976, art. 5 trovi applicazione soltanto nel caso di “scontro” tra i veicoli inteso nel senso di contatto materiale tra gli stessi idoneo a cagionare danno ad entrambi, mentre è da considerare “scontro” “qualsiasi contatto tra i mezzi cha causalmente provochi, di per sé ovvero in conseguenza di manovre illegittime e colpose, un sinistro”; – il modulo CID era pienamente probante nei confronti della compagnia assicuratrice, perché gli elementi in esso indicati avevano trovato riscontro negli altri elementi di prova acquisiti al processo; – la valenza probatoria del modulo CID non poteva essere inficiata dal rilevato ritardo con cui, secondo il Tri- 1124 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 bunale, esso era stata trasmesso alla compagnia assicuratrice; ciò perché: nessun termine era previsto dalla legge per l’invio del modulo; nessuna eccezione era stata sollevata in proposito dalla compagnia di assicurazione; il modulo era stato consegnato tempestivamente dal C. alla propria compagnia assicuratrice; – il Tribunale ha immotivamente ritenuto che la compagnia assicuratrice avesse fornito la prova contraria, su di essa incombente, ai sensi del D.L. n. 857 del 1976, art. 5, comma 2. Con riferimento ai detti motivi, la terza sezione civile di questa Corte, ha rilevato che gli stessi pongono una questione di massima di particolare importanza (artt. 374 e 376 c.p.c.) e, pertanto, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha disposto la trattazione della causa da parte di queste sezioni unite. L’ordinanza, richiamata la giurisprudenza di questa Corte, osserva che in essa sono rinvenibili due principi: – uno, secondo cui il litisconsorzio previsto dalla L. n. 990 del 1969, art. 23, che impone al danneggiato che esercita l’azione diretta (art. 18) nei confronti dell’assicuratore di chiamare in giudizio il responsabile del danno, “soddisfa l’esigenza che sulla responsabilità dell’assicurato e dell’assicuratore si statuisca in un unico contesto, in modo uniforme”, cosicché l’impugnazione proposta dal solo assicuratore impedisce che sulla responsabilità del danneggiante, chiamato in giudizio, si formi il giudicato - l’altro, secondo cui “il modulo di constatazione amichevole di sinistro stradale redatto ai sensi del D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, convertito con modificazioni in L. n. 39 del 1977 (quando è sottoscritto dai conducenti coinvolti e completo in ogni sua parte, compresa la data), ha valore probatorio di confessione esclusivamente nei riguardi del suo autore, mentre genera soltanto una presunzione iuris tantum nei confronti dell’assicuratore, come tale superabile con prova contraria”, con la possibilità, quindi, che la responsabilità dell’assicurato venga affermata in base alla sua confessione, mentre l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore venga respinta ove egli fornisca la prova contraria. Con riferimento al caso in esame l’ordinanza osserva che il Tribunale ha respinto la domanda proposta nei confronti del responsabile del danno che, con la sottoscrizione del modulo, aveva ammesso fatti per sé sfavorevoli; con ciò il Tribunale aveva fatto applicazione del primo principio, secondo cui la decisione deve essere unitaria, sia per l’assicurato, sia per l’assicuratore, ma aveva disatteso il secondo principio, secondo cui la dichiarazione di fatti sfavorevoli al responsabile del danno, contenuta nel modulo da lui sottoscritto, ha valore di confessione stragiudiziale. Il Tribunale osserva ancora che se il Tribunale avesse affermato la responsabilità dell’assicurato, in base alla sua confessione, e rigettato la domanda nei confronti dell’assicuratore, ritenendo che questi avesse offerto la prova contraria rispetto a quanto dichiarato dall’assicurato nel modulo CID, avrebbe rispettato il secondo principio, ma avrebbe disatteso il primo. GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE L’ordinanza, a questo punto, prospetta, sia pure in via dubitativa, le seguenti possibili soluzioni: – un’applicazione dell’art. 2733 c.c. in linea col primo principio, nel senso che la confessione di uno soltanto dei litisconsorti necessari sia bensì liberamente apprezzabile dal giudice, ma in modo conforme per tutti i litisconsorti, come affermato da Cass., 14 gennaio 1987, n. 198; ma a ciò, secondo l’ordinanza, sembra ostare la lettera e la ratio del D.L. n. 857 del 1976, art. 5, comma 3, che ha anche funzione dissuasiva di tentativi di frode in danno dell’assicuratore; – ritenersi che l’impossibilità di un apprezzamento (e di conseguenze) difforme per il confitente e per il litisconsorte non confitente sia da riservarsi ai soli casi di litisconsorzio sostanziale in cui sia dedotto un unico rapporto, con la conseguente possibilità di valutare diversamente la confessione dell’assicurato nei casi di cui alla L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 23: ammettendosi, cioè, che la sua confessione (tramite il modulo di constatazione amichevole) non abbia effetto solo per l’assicuratore che abbia offerto la prova contraria ai sensi del D.L. n. 857 del 1976, art. 5, comma 3; ciò, però, secondo l’ordinanza, comporterebbe lo scostamento dal primo principio, dovendo allora riconoscersi la possibilità che lo stesso fatto sia ritenuto vero per l’assicurato e non vero per l’assicuratore, quantomeno nei casi in cui sia il solo assicuratore del responsabile (e non anche il solo assicurato) a dover essere mandato indenne dalla pretesa risarcitoria del danneggiato. Sembra a queste sezioni unite che, al fine di dare una risposta ai quesiti posti con l’ordinanza di cui sopra - che trovano fondamento nelle questioni poste con i motivi del ricorso - occorra partire dall’analisi della struttura dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, disciplinata dalla legge n. 990 del 1969, art. 18, e dall’accertamento delle ragioni del litisconsorzio che il successivo art. 23 impone di realizzare nei confronti del responsabile del danno. In particolare occorre verificare se il procedimento litisconsortile disciplinato dai suddetti articoli tolleri che si possa giungere ad una decisione che non sia unica per tutte le parti che vi devono necessariamente partecipare. Tale accertamento appare necessario perché, se ben si osserva, più o meno consapevolmente, la tesi prevalente nella giurisprudenza, che, pure riconoscendo nella fattispecie considerata la ricorrenza di un litisconsorzio necessario previsto dalla legge, afferma che la confessione del danneggiante assicurato fa piena prova nel rapporto tra questi ed il danneggiato, mentre può essere liberamente apprezzata dal giudice nel diverso rapporto tra assicurato ed assicuratore, si fonda sulla tesi che non in tutti i casi in cui è necessaria la partecipazione al giudizio di una pluralità di parti sussiste anche la necessità che la sentenza sia unica per tutte, donde il diverso senso da attribuire all’espressione litisconsorzio necessario, che nell’art. 102 c.p.c., esprime solo l’esigenza che al giudizio partecipino più soggetti, mentre nell’art. 2733 c.c., comma 3, si riferisce non a tutti i casi di litisconsorzio ma solo a quelli in cui la decisione deve essere uguale per tutte le parti in causa. Ai sensi dell’art. 1917 c.c., che disciplina l’assicurazione della responsabilità civile, di cui l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli costituisce una specie, l’assicuratore è tenuto a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto. È giurisprudenza costante di questa Corte che l’assicurazione della responsabilità civile non può essere inquadrata tra i contratti a favore dei terzi giacché per effetto della stipulazione non sorge alcun rapporto giuridico diretto ed immediato tra il danneggiato e l’assicuratore, ma l’obbligazione dell’assicuratore relativa al pagamento dell’indennizzo all’assicurato è distinta ed autonoma rispetto all’obbligazione di risarcimento cui l’assicurato è tenuto nei confronti del danneggiato, talché quest’ultimo non ha azione diretta contro l’assicuratore (v. in tal senso Cass. n. 8382/93 e successivamente, Cass. n. 2678/96; Cass. 4364/97; Cass. 4364/00; Cass. 10418/02; nonché Cass. 8650/96, la quale ha precisato che il principio opera anche quando l’indennità sia stata pagata direttamente al terzo danneggiato, ai sensi dell’art. 1917 c.c., comma 2). In deroga a questa disciplina, la legge n. 990 del 1969, art. 18, dispone che il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante, per i quali a norma della medesima legge vi è obbligo di assicurazione, ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’assicuratore, entro i limiti delle somme per le quali è stata stipulata l’assicurazione. Con il comma 2, la suddetta norma inoltre dispone che fino alle somme minime per cui è obbligatoria l’assicurazione, indicate nella tabella A allegata alla legge, l’assicuratore non può opporre al danneggiato, che agisce direttamente nei suoi confronti, eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno, ed altresì stabilisce che l’assicuratore ha tuttavia diritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe avuto contrattualmente diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione. Fin da Cass. Sez. un. nn. 5218 e 5219/83 la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la L. n. 990 del 1969, prevedendo l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore, ha creato - accanto al rapporto, sorto dal fatto illecito, tra il danneggiante e l’assicurato ed al rapporto contrattuale fra il responsabile e l’assicuratore - un terzo rapporto che, sul presupposto del primo ed in attuazione del secondo, obbliga ex lege l’assicuratore verso il danneggiato; in sostanza l’assicuratore non resta più estraneo al rapporto tra il suo assicurato ed il terzo danneggiato, ma viene inserito quale parte e protagonista attivo nel rapporto risarcitorio dipendente dal- DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1125 GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE l’illecito di cui l’assicurato è responsabile, con la conseguenza che la richiesta del danneggiato lo rende contraddittore diretto e primario per l’accertamento e la quantificazione dell’obbligazione risarcitoria dell’assicurato e lo costituisce debitore verso lo stesso terzo della relativa prestazione. Secondo lo schema delineato dalla legge n. 990 del 1969, il danneggiato, allorquando, trascorso inutilmente il termine di cui all’art. 22, agisce nei confronti dell’assicuratore per essere risarcito del danno, non chiede che l’assicuratore sia condannato ad adempiere in suo favore l’obbligo che il predetto ha nei confronti dell’assicurato in base al contratto, ma fa valere un diritto suo proprio nei confronti del predetto assicuratore. Ciò è sufficientemente provato dal fatto che, secondo la legge, l’assicuratore non può opporre al danneggiato, che agisce direttamente nei suoi confronti, eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedono l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno. L’accoglimento della domanda del danneggiato presuppone che siano accertate: – l’esistenza di un contratto di assicurazione tra l’assicuratore convenuto e colui che è indicato come responsabile del danno; – l’esistenza di una danno e la responsabilità del soggetto assicurato. Tali accertamenti, anche se non esplicitamente formulati, costituiscono oggetto della domanda che il danneggiato propone nei confronti dell’assicuratore, la quale ha quindi il seguente contenuto: a) si accerti che Tizio è responsabile dei danni che Caio ha subito a seguito di incidente stradale; b) si accerti che Tizio è assicurato per la responsabilità civile con la società X; c) si condanni la società X, obbligata ai sensi della legge n. 990 del 1969, art. 18, al risarcimento dei danni subiti da Caio. L’accertamento negativo in ordine ad una sola delle indicate circostanze importa che la domanda proposta nei confronti dell’assicuratore ai sensi della legge n. 990 del 1969, art. 18 debba essere respinta. Infatti, in assenza di un contratto di assicurazione non sorge alcun obbligo di indennizzo a carico dell’assicuratore convenuto e, del resto, una volta accertata l’esistenza del rapporto assicurativo l’obbligo di indennizzo diretto da parte dell’assicuratore non sussiste se non sussiste anche la responsabilità dell’assicurato in ordine al fatto dannoso, o perché questo non si è verificato, o perché pur essendosi verificato non è connotato dalle caratteristiche attribuitegli, ovvero ancora perché, pur essendo connotato da quelle caratteristiche, non comporta alcun obbligo risarcitorio. L’art. 18 propone una situazione di questo tipo. Vi è da un lato un soggetto che assume di essere rimasto danneggiato da un sinistro stradale, il quale agisce in giudizio e dall’altro l’assicuratore che la legge costituisce come obbligato al risarcimento del danno cagionato dal proprio assicurato. Si hanno pertanto due soggetti danneggiato ed assicuratore legittimati rispettivamente ad agire 1126 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 e resistere nel giudizio in forza di un rapporto sostanziale che prevede un’obbligazione del secondo direttamente nei confronti del primo. Senonché, come si è visto, l’accertamento dell’esistenza del contratto di assicurazione e quello relativo alla responsabilità dell’assicurato, i quali costituiscono oggetto della domanda proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, riguardano rapporti rispetto ai quali la titolarità è del responsabile del danno. È, infatti, l’assicurato che ha, con la stipulazione del contratto, costituito il rapporto assicurativo che, sebbene non perda la sua caratteristica di contratto finalizzato a tenerlo indenne dal rischio del risarcimento dovuto a causa di una sua responsabilità civile, rende, tuttavia, l’assicuratore direttamente responsabile nei confronti del danneggiato estraneo al rapporto contrattuale; è d’altra parte il danneggiante l’autore dell’illecito che fa sorgere il diritto al risarcimento da parte del danneggiato nei confronti dell’assicuratore. In una situazione di questo genere la legge n. 990 del 1969, art. 23 ha previsto che nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore deve essere chiamato il responsabile del danno. Si tratta di un litisconsorzio che è necessario non solo perché è previsto dalla legge, ma anche perché l’accertamento dei due rapporti in cui è coinvolto il responsabile del danno non costituisce un mero presupposto per l’accoglimento della domanda proposta dall’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma costituisce invece uno degli oggetti della domanda. Tale accertamento non può che essere unico e uniforme per tutti e tre i soggetti coinvolti nel processo, non potendosi nel medesimo giudizio affermare, con riferimento alla domanda proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, che il rapporto assicurativo e la responsabilità dell’assicurato esistano nel rapporto tra due delle parti e non per l’altra, e ciò non soltanto in base al principio di non contraddizione, ma soprattutto in base alla struttura dell’azione così come disciplinata dalla L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 23, se si ha presente che l’obbligazione dell’assicuratore di pagare direttamente l’indennità al danneggiato, non nasce se non esiste il rapporto assicurativo e se non è accertata la responsabilità dell’assicurato. Né è sostenibile che l’univoco accertamento che il giudice compie in ordine all’azione promossa dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore vale solo con riferimento al rapporto diretto che la legge istituisce tra i due. Si consideri come nessuno abbia mai dubitato che l’accertamento della esistenza del contratto di assicurazione e della responsabilità dell’assicurato, compiuto nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, valga anche nel rapporto tra assicuratore e responsabile del danno. Nessuno ha mai sostenuto, infatti, che l’assicuratore condannato a risarcire il danno, il quale, in separato giudizio svolga l’azione di rivalsa nei confronti dell’assicurato, assumendo di aver indennizzato il danneggiato pur GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE avendo avuto contrattualmente il diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione, possa vedersi opporre dall’assicurato che egli non era responsabile del danno e che il contratto di assicurazione non esisteva, quando questi fatti siano stati accertati nel giudizio promosso dal danneggiato ai sensi dell’art. 18, al quale abbia partecipato anche l’assicurato. Allo stesso modo l’assicurato che faccia valere la responsabilità dell’assicuratore perché questi con il suo comportamento omissivo ha fatto lievitare il danno oltre i limiti del massimale e, quindi, chiede di essere tenuto indenne dall’assicuratore, in base al rapporto di assicurazione tra i due esistente, di quanto abbia dovuto pagare al danneggiato, non può vedersi opporre dell’assicuratore che il rapporto accertato nel giudizio intercorso tra il danneggiato e l’assicuratore e la responsabilità accertata nello stesso giudizio non esistono. Se ciò è vero nei rapporti tra assicurato ed assicuratore, deve essere pure vero nei rapporti tra danneggiato e assicurato, con riferimento all’accertata responsabilità del danno. Questa responsabilità una volta accertata o negata nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, in contraddittorio con l’assicurato, è accertata o negata anche nei rapporti tra danneggiato e assicurato. Ma, come si è detto prima, nel giudizio tra danneggiato ed assicuratore l’esistenza del rapporto di assicurazione e la responsabilità dell’assicurato non possono essere contemporaneamente affermate e negate. O esistono e la domanda va accolta o non esistono ed allora la domanda va respinta, aspetto questo ben colto da Cass. n. 10693/98 laddove afferma, richiamando Cass. n. 5793/82, che la controversia si svolge in maniera unitaria tra i tre soggetti del rapporto processuale ed abbraccia inscindibilmente sia il rapporto di danno, originato dal fatto illecito dell’assicurato, sia il rapporto assicurativo. La situazione non muta se il danneggiato, nel giudizio promosso contro l’assicuratore ai sensi della legge n. 990 del 1969, art. 18, oltre a chiedere la condanna dell’assicuratore chiede anche la condanna del responsabile del danno; in tale caso la domanda nei confronti di quest’ultimo si articola nei seguenti punti: a) si accerti che Tizio è responsabile dei danni che Caio ha subito a seguito di incidente stradale; b) si condanni Tizio al risarcimento del danno subito da Caio. Ma la domanda sub a) proposta dal danneggiato nei confronti del responsabile del danno è la stessa domanda sub a) proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, attiene ad un medesimo fatto, impone l’accertamento delle medesime circostanze e delle medesime conseguenze giuridiche; ciò che la differenzia dall’altra è che alla domanda di accertamento della responsabilità si aggiunge quella di condanna del responsabile al risarcimento del danno. Ora, se come si è sopra chiarito, l’accertamento della responsabilità dell’assicurato, nell’azione diretta promossa dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore deve avvenire in modo unitario nei rapporti di tutte e tre le parti che partecipano al giu- dizio, e tale accertamento vale anche nei rapporti tra danneggiato e responsabile, ne consegue che nell’azione promossa dal danneggiato nei confronti del responsabile per ottenere da costui il risarcimento del danno, tale accertamento non può differire da quello svolto in sede di azione diretta. La suddetta ricostruzione dell’azione diretta e della sussistenza in essa di un litisconsorzio necessario che impone oltre alla partecipazione al giudizio del responsabile del danno anche una decisione unitaria nei confronti dei soggetti partecipanti allo stesso, giustifica come nell’ipotesi di azione proposta dal danneggiato nei confronti del solo responsabile del danno non sia prevista la necessaria partecipazione al giudizio dell’assicuratore quale litisconsorte. Invero in quest’ultima ipotesi il rapporto sostanziale dedotto in giudizio intercorre tra le parti che formalmente vi partecipano e la situazione accertata in quel giudizio solo indirettamente influisce sul rapporto assicurativo, il quale potrebbe essere solo eventualmente introdotto mediante una chiamata in garanzia, ovvero essere introdotto con altro giudizio, ovvero ancora non essere mai evocato. Se quanto sin qui detto è esatto ne discende: a) che va ribadita la giurisprudenza di questa Corte, risalente a Cass., sez. un., 20 luglio 1983, n. 5220, secondo cui in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore o dei natanti, qualora il danneggiato, esercitando l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore, evochi in giudizio quest’ultimo ed il responsabile assicurato (legge 24 dicembre 1969, n. 990, artt. 18 e 23), e, chiedendo un risarcimento eccedente i limiti del massimale di assicurazione, proponga, oltre alla domanda nei confronti dello assicuratore, anche domanda contro l’assicurato, le domande medesime si trovano in rapporto di connessione e reciproca dipendenza, trovando presupposti comuni nell’accertamento della responsabilità risarcitoria dell’assicurato e dell’entità del danno risarcibile, con la conseguenza che l’impugnazione della sentenza per un capo attinente a detti presupposti comuni, da qualunque parte ed in confronto di qualunque parte proposta, impedisce il passaggio in giudicato dell’intera pronuncia con riguardo a tutte le parti (v. di recente: Cass. n. 15039/04; Cass. n. 10125/03; Cass. n. 5877/99; Cass. n. 255/99; Cass. n. 9919/98); b) che, in materia di dichiarazioni rese dal responsabile del danno, va respinta qualsiasi tesi che porti a concludere che, nel giudizio instaurato ai sensi della legge n. 990 del 1969, art. 18, e nel caso in cui sia stata proposta soltanto l’azione diretta e nel caso in cui sia stata proposta anche la domanda di condanna nei confronti del responsabile del danno, in base a dette dichiarazioni si possa pervenire ad un differenziato giudizio di responsabilità, in ordine ai rapporti tra responsabile e danneggiato da un lato, e danneggiato ed assicuratore dall’altro. È bene che questo punto sia affrontato e chiarito, a prescindere dal fatto se la dichiarazione del responsabile del DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1127 GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE danno sia contenuta o meno nel cosiddetto CID, con la precisazione che quando si parla di dichiarazioni confessorie si fa riferimento a quelle dichiarazioni in cui siano ammessi fatti che, valutati alla stregua delle regole in materia, possano portare alle affermazione della responsabilità del soggetto che le ha rese, e non quindi alle dichiarazioni che consistano in mera assunzione di responsabilità o di colpa. Questo secondo punto deve, inoltre, essere affrontato in relazione all’ipotesi in cui la dichiarazione, ritenuta avente valore confessorio, sia resa dal responsabile del danno che sia anche litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal danneggiato contro l’assicuratore, e cioè dal proprietario del veicolo assicurato, secondo quella che è la quasi unanime giurisprudenza di questa Corte. Questa ipotesi si realizza prevalentemente nel caso, ricorrente nella specie, in cui il conducente del mezzo si identifica con il proprietario del veicolo. Sono estranee al presente giudizio invece le questioni che attengono alla confessione resa dal conducente del veicolo, il quale non sia anche proprietario del mezzo. Orbene una volta chiarito che nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore il responsabile del danno, che deve essere chiamato nel giudizio sin dall’inizio, assume la veste di litisconsorte necessario, ed una volta affermato che la decisione deve essere uniforme per tutti e tre i soggetti ed è, inoltre, idonea a regolare i rapporti tra gli stessi (non quindi solo il rapporto tra danneggiato ed assicuratore, ma anche quello tra quest’ultimo ed il responsabile del danno, in ordine alla sussistenza del rapporto assicurativo, e tra il predetto responsabile ed il danneggiato in ordine alla responsabilità del sinistro), appare consequenziale che dalla valutazione delle dichiarazioni di colui che secondo il danneggiato è il responsabile del danno, non possono derivare conclusioni differenziate in ordine ai rapporti sopra individuati. La norma attraverso la quale si realizza questo effetto è quella di cui al terzo comma dell’art. 2733 c.c., secondo la quale in caso di litisconsorzio necessario la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice; questa norma costituisce una deroga a ciò che dispone il secondo comma, secondo cui la confessione fa piena prova contro chi l’ha fatta; infatti viene esclusa la funzione di piena prova della confessione, la quale assume soltanto la natura di elemento che il giudice apprezza liberamente, e ciò non solo nei confronti di chi ha reso la dichiarazione ma anche nei confronti degli altri litisconsorti. La norma è applicabile alla fattispecie in esame, poiché si verte in tema di accertamento di fatti, da effettuarsi in modo unitario, i quali, come si è in precedenza affermato, hanno efficacia e rilevanza comuni per tutte e tre le parti che la legge indica come litisconsorti necessari del giudizio promosso dal danneggiato ai sensi della legge n. 990 del 1969, art. 18. In applicazione dei suddetti principi perde rilievo la questione sollevata nel secondo motivo del ricorso relativa 1128 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 al valore confessorio o meno da attribuire alle dichiarazioni rese della parti nel modello CID. Non hanno rilievo neppure le questioni sollevate, sempre con il secondo motivo, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata, secondo cui il D.L. n. 857 del 1976, art. 5 non troverebbe applicazione nella specie essendo mancato uno “scontro” tra i due veicoli e perché il modello CID sarebbe stato inviato con ritardo all’assicuratore. Infatti, il Tribunale, nonostante abbia affermato che, per le suddette ragioni, il modulo CID non potesse avere valore di “presunzione legale” nei confronti dell’assicuratore, ha finito poi per prendere in esame la ricostruzione dei fatti contenuta nel predetto modulo e con ampia ed argomentata motivazione, basata su dati obiettivi e sulle osservazioni del consulente tecnico, ha, in accordo con questi, concluso che i danni riscontrati sull’auto del C. non erano compatibili con la dinamica del sinistro così come descritta dalle parti e che, ammesso che il sinistro si fosse effettivamente verificato, lo stesso era comunque avvenuto con modalità diverse da quelle descritte. Ora se si considera che, come da costante giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, il modulo CID quando è sottoscritto dai conducenti coinvolti e completo in ogni sua parte, compresa la data, genera una presunzione iuris tantum valevole nei confronti dell’assicuratore, e come tale superabile con prova contraria e che tale prova può emergere non soltanto da un’altra presunzione, che faccia ritenere che il fatto non si è verificato o si è verificato con modalità diverse da quelle dichiarate, ma anche da altre risultanze di causa, ad esempio da una consulenza tecnica d’ufficio, ne consegue che la sentenza impugnata si sottrae alle censure in diritto svolte dal ricorrente, perché, nonostante le richiamate contrarie affermazioni, essa ha finito per applicare di fatto correttamente la norma che si assume violata. Le censure che, invece, si richiamano alla violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 sono inammissibili, atteso che esse si risolvono nella pretesa di una diversa valutazione degli elementi di prova esaminati dal Tribunale, il cui convincimento è sostenuto da argomentazioni immuni da vizi logici e, come rilevato nel paragrafo che precede, anche da vizi giuridici. Il ricorso è rigettato. Nulla per le spese in assenza di svolgimento di attività difensiva delle parti intimate. ...Omissis... GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE IL COMMENTO di Giuseppe Finocchiaro Dopo aver ripercorso i tratti salienti della motivazione, la nota di commento precisa l’ambito di applicazione e sviluppa le conseguenze applicative della condivisibile pronuncia in epigrafe, con cui le Sezioni Unite sono intervenute su una questione di rilevante interesse sia teorico sia pratico, nella materia dell’azione diretta del danneggiato in un sinistro stradale nei confronti dell’impresa di assicurazione della r.c.a. Il caso L’apprezzabile pronuncia in commento si impone all’attenzione del lettore non soltanto perché interviene in un tema di notevolissima rilevanza pratica, ma anche (e sembra doversi aggiungere - soprattutto) poiché affronta una questione particolarmente delicata che si inserisce in un contesto assai più vasto e problematico. La lunga, complessa ed articolata sentenza in commento trae origine da una fattispecie - al contrario - estremamente semplice, per non dire banale. C. e S., entrambi sia proprietari sia conducenti dei veicoli coinvolti in un incidente stradale, compilano e sottoscrivono il modulo di constatazione amichevole del sinistro (c.d. “CID”), ricostruendone così la dinamica: mentre C. in un tratto di strada rettilineo sta sorpassando S., questi inizia una manovra di sorpasso del veicolo che lo precede, intersecando così la traiettoria del veicolo di C. Approfittando della facoltà riconosciutagli dalla legge in materia di assicurazione obbligatoria della r.c.a., C. agisce direttamente in giudizio nei confronti oltre che di S. anche della sua compagnia assicuratrice, chiedendo la loro condanna in via solidale all’integrale risarcimento dei danni subiti. Nonostante la ricordata ricostruzione dei fatti contenuta nel CID e pur nella contumacia di S., la domanda di C. è accolta soltanto in parte dal giudice di primo grado (che ritiene sussistere un concorso di colpa tra C. ed S., specificamente e rispettivamente, nella misura del 20 e dell’80%) ed è integralmente rigettata - in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla compagnia assicurativa - da quello di appello. Questi, in particolare, rilevato che il modulo CID non può costituire prova nei confronti della compagnia assicuratrice, valutato comunque che la ricostruzione contenuta nel CID si pone in insanabile contrasto sia con la documentazione fotografica acquisita sia con le risultanze della c.t.u. basata sulla circostanza che l’auto di S. non presenta tracce di collisione, conclude che il sinistro si è svolto diversamente da quanto dichiarato da C. e S. nel CID e da quanto affermato da C. nella sua domanda giudiziale, sicché rigetta la domanda di C. per non aver assolto l’onere della prova del nesso di causalità tra i danni subiti ed il sinistro. Avverso questa decisione C. propone ricorso per cas- sazione lamentando diversi vizi, tra i quali - con estrema sintesi - possono segnalarsi le violazioni, strettamente legate tra loro: a) dell’art. 112 c.p.c., per aver il giudice d’appello in mancanza dell’impugnazione di S. rigettato la domanda (sia pure soltanto parzialmente) già accolta dal giudice di primo grado nei confronti di questi; b) dell’art. 2735 c.c., per essere stata disattesa l’efficacia di piena prova della confessione stragiudiziale resa da S. attraverso la sottoscrizione del modulo CID, dal quale risultava che si era verificata la collisione tra i due veicoli. Il concorso dei principi di unicità dell’accertamento del sinistro e di efficacia diversificata del modulo CID La causa, inizialmente assegnata ad una sezione semplice della S.C., è poi rimessa alle Sezioni Unite, dal momento che i motivi sopra succintamente riepilogati pongono “una questione di massima di particolare importanza”. In via preliminare, vale anticipare che i termini della questione si presentano immutati anche in seguito al recente “tsunami legislativo” (1) che si è abbattuto sull’intero ordinamento giuridico italiano senza risparmiare neppure questa specifica materia. Ratione temporis, infatti, sono applicabili le norme di cui agli art. 18 e 23 della l. 24 dicembre 1969, n. 990, come modificati dal d.l. 23 dicembre 1976, n. 857, convertito con modificazioni in l. 26 febbraio 1977, n. 39, nonché dall’art. 5 del d.l. ult. cit., le quali risultano ora riprodotte con formulazioni sostanzialmente identiche, rispettivamente, negli art. 144 e 143, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, codice delle assicurazioni private (2). Irrilevanti, inoltre, per la risoluzione della particolare questione affrontata dalla sentenza in commento sono le innovazioni apportate dalla legge 21 febbraio 2006, n. 102, Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali (3). Note: (1) Per questa efficace espressione, cfr., Costantino, Considerazioni impolitiche sulla giustizia civile, in Questione Giustizia, 2005, 1167 e ss.; Id., Rassegna di legislazione (1° giugno-30 settembre 2005), in Riv. dir. proc., 2005, 1282. (2) In materia, in dottrina si segnalano: Gentile, Assicurazione obbligatoria dei veicoli e dei natanti, Milano, 1973; Castellano-Cottino-De Cupis-Fanelli-Partesotti-Scalfi-Vocino, L’assicurazione dei veicoli a motore, a cura di Genovese, Padova, 1977; Giannini e Pogliani, L’assicurazione obbligatoria dei veicoli e dei natanti, Milano, 1994. A margine del recente d.lgs. cit. nel testo, si segnalano: Bin, Codice delle assicurazioni, Milano, 2006; Amorosino e Desiderio, Il nuovo codice delle assicurazioni, Milano, 2006; AA.VV. (a cura di Bin), Commentario al codice delle assicurazioni, Padova, 2006. (3) Per un primo commento a queste norme, specie alle novità di carattere processuale e alla controversa previsione dell’applicabilità delle norme del rito del lavoro alle “cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali”, ed alla problematica applica(segue) DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1129 GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE Con specifico riferimento al merito della questione decisa, come ricordato in motivazione, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo elaborato in materia due principi tra loro concorrenti, secondo cui: 1) da un lato, poiché la legge espressamente stabilisce che nel giudizio in cui è esercitata l’azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice della r.c.a. “deve essere chiamato nel processo anche il responsabile del danno” (art. 23, legge n. 990 del 1969; di tenore assai simile è ora l’art. 144, comma 3, codice delle assicurazioni private), sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché l’impugnazione della sentenza per un capo attinente alla sussistenza della responsabilità risarcitoria e alla quantificazione dell’entità del danno risarcibile, da qualunque parte ed in confronto di qualunque parte proposta, impedisce il passaggio in giudicato dell’intera pronunzia con riguardo a tutte le parti (4); 2) dall’altro lato, poiché la legge precisamente prevede che “Quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’assicuratore, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso” (art. 5, d.l. n. 857 del 1976; di tenore pressoché identico è il nuovo art. 143, comma 2, codice delle assicurazioni private), il CID sottoscritto da entrambe le persone coinvolte nel sinistro spiega un’efficacia probatoria diversificata nei confronti di queste e della compagnia assicurativa, rispettivamente, di piena prova ex art. 2735 c.c., quale confessione stragiudiziale, e di presunzione semplice fino a prova contraria (5). I due ricordati principi, se ordinariamente possono convivere, nella fattispecie in esame, invece, finiscono con il collidere e con l’escludersi reciprocamente. In particolare, vale rilevare che l’applicazione del primo, in forza del quale l’accertamento dei fatti relativi alla dinamica dell’incidente deve essere identico sia per il responsabile del sinistro sia per la compagnia di assicurazione (oltre che per il danneggiato) contraddice il secondo che prevede che il medesimo mezzo di prova possa avere efficacia differente tra le diverse parti del processo. Il superamento del principio dell’efficacia probatoria diversificata del modulo CID Con l’articolata pronuncia in commento le Sezioni Unite hanno risolto la “questione di massima di particolare importanza”, superando il riferito principio che riconosceva un’efficacia probatoria diversificata al modulo CID sottoscritto da entrambi i conducenti coinvolti e contestualmente confermando il principio che impone la necessità che l’accertamento sia unico sia per il responsabile del sinistro, sia per la compagnia di assicurazione. Anzi, esaminando la motivazione, deve segnalarsi come la stessa sia pressoché interamente dedicata ad attestare l’esattezza di questo, dal quale viene fatta discendere in modo automatico la dimostrazione di quello. Prima di considerare con specifica attenzione la portata nonché le conseguenze della soluzione cui è pervenuta la 1130 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 S.C., vale cercare di ripercorrere - ancorché in estrema sintesi - le motivazioni adottate. Queste, in termini assolutamente schematici, possono essere esposte come segue: 1. chi abbia subito un danno in un incidente derivante dalla circolazione di veicoli o natanti è titolare: 1.a. sia di un diritto al risarcimento del danno per fatto illecito nei confronti del responsabile del sinistro; 1.b. sia di un diritto a conseguire direttamente l’indennità derivante dalla obbligatoria stipulazione del contratto di assicurazione per la r.c.a. nei confronti della compagnia assicurativa; 2. i due indicati diritti soggettivi possono essere tenuti distinti - come già accennato - sia per la fonte, sia per la misura, sia per il soggetto passivo, sia per i fatti costitutivi. In particolare: 2.a. il diritto extracontrattuale (ex art. 2043 e 2054 c.c.) al risarcimento integrale del danno cagionato nei confronti del responsabile del sinistro si fonda sui seguenti fatti costitutivi: I. sinistro stradale, II. danno, III. nesso di causalità; 2.b. diversamente, il diritto (ex art. 18, legge n. 990 del 1969, ed ora 144, comma 1, Codice delle assicurazioni private), di origine contrattuale, a conseguire Note: (segue nota 3) bilità ai processi pendenti sia consentito rinviare, rispettivamente, ai miei Incidenti stradali: rito del lavoro per velocizzare gli indennizzi. - Nasce l’ennesimo processo speciale, in Guida dir., 2006, f. 13, 35 e ss. e Liti pendenti per lesioni da incidenti stradali: a Milano non passa la conversione del rito. Un’interpretazione in piena armonia con il principio del giusto processo, ivi, f. 16, 119. (4) A partire dalla ormai risalente Cass., sez. un., 29 luglio 1983, n. 5220 (richiamata in motivazione, ed edita in Riv. giur. circol. trasp., 1984, 60, nonché in Assicurazioni, 1983, II, 238, con nota di Geri, Una parola definitiva in tema di massimale, svalutazione e mora dell’assicuratore: chiusura dei contrasti?), la giurisprudenza di legittimità è assolutamente pacifica: tra le pronunce più recenti, cfr.: Cass. 29 novembre 2005, n. 26041; Cass. 27 luglio 2005, n. 15675; Cass. 5 agosto 2004, n. 15039; Cass. 25 giugno 2003, n. 10125; Cass. 14 giugno 1999, n. 5877; Cass. 12 gennaio 1999, n. 255, ove l’ulteriore precisazione che tale impugnazione, inoltre, legittima le parti formalmente estranee all’impugnazione, ma contraddittori necessari anche nel nuovo giudizio, ad impugnare a loro volta la sentenza medesima nei confronti di qualunque altra parte, a tutela dei propri collegati interessi, nelle forme e con gli effetti dell’impugnazione incidentale tardiva; Cass. 7 ottobre 1998, n. 9919 (in Foro it., 1998, I, 3512). In termini analoghi, inoltre, cfr. Cass. 27 ottobre 1998, n. 10693 (ricordata in motivazione ed edita in Riv. giur. circol. trasp., 1999, 327, nonché in Assicurazioni, 1999, II, 2, 55, ed in Arch. giur. circol. e sinistri, 1998, 1117), che ha deciso che nei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento dei danni causato dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, quando il danneggiato proponga azione diretta nei confronti dell’assicuratore, si instaura un rapporto processuale trilatero ed inscindibile a danneggiato, assicurato ed assicuratore, con la conseguenza che la sentenza la quale decide sull’appello proposto dall’assicuratore della r.c.a. spiega i propri effetti anche nei confronti dell’assicurato, sebbene quest’ultimo non abbia proposto appello incidentale. (5) Nel senso di cui nel testo appare orientata la prevalente giurisprudenza della S.C.: Cass. 1° luglio 2002, n. 9548; Cass. 3 aprile 1998, n. 3462, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1998, 873; Cass. 12 febbraio 1998, n. 1471, ivi, 333; Cass. 16 aprile 1997, n. 3276, in Giur. it., 1998, 222. In senso conforme, ancorché con riferimento anziché al modulo CID a qualsiasi dichiarazione confessoria resa dal responsabile del danno nei giudizi risarcitori con esercizio dell’azione diretta nei confronti della compagnia assicurativa, cfr.: Cass. 23 febbraio 2004, n. 3544, in Assicurazioni, 2004, II, 164, con nota su altra parte di Mancuso, Assicurazione cumulativa e coassicurazione: criteri discretivi e profili applicativi; Cass. 14 febbraio 2003, n. 2222; Cass. 23 aprile 2001, n. 5973. GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE direttamente dalla compagnia assicurativa l’indennità nei limiti del massimale consensualmente convenuto tra assicurato e compagnia assicurativa (6), ha come fatti costitutivi: I. la sussistenza del diritto extracontrattuale nei confronti del responsabile del sinistro; II. la conclusione del contratto di assicurazione per la r.c.a. del veicolo o natante coinvolto nel sinistro; 3. sebbene diversi, questi due diritti soggettivi, peraltro, devono essere necessariamente accertati in modo univoco a ragione - come evidenziato nella sentenza in commento - della circostanza che il diritto al risarcimento del danno costituisce “presupposto” (o più correttamente come si è appena cercato di spiegare, a propria volta, “fatto costitutivo”) del diritto all’indennità. Immediati corollari di questa conclusione sono i due principi di diritto enunciati nella pronuncia, secondo cui: – da un lato, l’impugnazione proposta dalla compagnia assicurativa impedisce il passaggio in giudicato della sentenza anche nei confronti del responsabile del sinistro; – dall’altro, le risultanze del CID, anche se aventi contenuto confessorio, sono sempre liberamente valutabili dal giudice in quanto rese da un litisconsorte necessario (7). Delimitazione dell’ambito applicativo dei principi enunciati dalla sentenza Volendo valutare la motivazione sopra riassunta, può osservarsi che la medesima è rivolta ad individuare la ratio dell’esplicita previsione della legge in materia di assicurazione della R.c.a. del litisconsorzio necessario tra danneggiato, responsabile del sinistro e compagnia assicurativa, nel caso di azione diretta del primo nei confronti di quest’ultima. In sostanza, l’argomento adottato secondo cui la sussistenza del diritto del risarcimento del danno costituisce “presupposto” (o, rectius, “fatto costitutivo”) del diritto all’indennità sembra poter essere riportato nell’alveo di quelle indicazioni dottrinali secondo cui, pur in difetto di un’espressa previsione legislativa, ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario ove sussista un rapporto di pregiudizialità tra le situazioni giuridiche aventi titolari differenti (8). Vale sottolineare che la fattispecie in esame, invece, sebbene presenti indubbi elementi di somiglianza, non deve essere confusa con l’altra ipotesi in cui la dottrina (9) ritiene applicabili le norme in materia di litisconsorzio necessario e cioè per essere in presenza di un caso di legittimazione straordinaria, come nel caso paradigmatico dell’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. A questo specifico riguardo, infatti, deve rilevarsi che il danneggiato non si sostituisce esattamente nella medesima situazione giuridica di cui è titolare il responsabile del sinistro nei confronti dell’impresa assicurativa. Quest’ultima, in particolare, come espressamente stabilito sia dall’art. 18, comma 2, legge n. 990 del 1969, sia dall’art. 144, comma 2, codice delle assicurazioni private, “Per l’intero massimale di polizza … non può opporre al danneggiato … eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno … ha tuttavia di- ritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe avuto contrattualmente diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione” (10). Conseguenza pratica di grande rilievo di quanto precede, ad esempio, si ha, come ha avuto modo di decidere in più occasioni la S.C., nell’ipotesi di sinistro cagionato con dolo: il contratto di assicurazione della responsabilità civile, ex art. 1917, comma 1, c.c., non copre i danni provocati con dolo, ciò non di meno, la compagnia assicuratrice della r.c.a. convenuta in giudizio direttamente dal danneggiato non può ammissibilmente eccepirgli tale circostanza, potendo, invece, soltanto eventualmente agire in via di rivalsa nei confronti dell’assicurato (11). La compiuta precisazione, secondo cui attraverso la Note: (6) A questo specifico riguardo, peraltro, la S.C. ha avuto modo di chiarire che l’assicuratore per la responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione dei veicoli a motore che voglia contenere l’obbligazione di risarcimento nei limiti del massimale di polizza ha l’onere di indicare quali siano detti limiti e fornire la prova di ciò a mezzo della relativa polizza (Cass. 5 dicembre 2003, n. 18656, in Giust. civ., 2004, I, 2054). (7) Nello stesso senso, peraltro, si era già recentemente espressa Cass. 18 maggio 2005, n. 10385 (in Arch. giur. circol. e sinistri, 2006, 157); nonché in precedenza Cass. 14 gennaio 1987, n. 198 (in Arch. giur. circol. e sinistri, 1987, 289, nonché in Assicurazioni, 1987, II, 2, 57); Cass. 24 novembre 1981, n. 6248 (in Arch. civ., 1982, 242, nonché in Arch. giur. circol. e sinistri, 1982, 184). (8) Così, in generale, cfr.: Luiso, Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi, Milano 1981, 62 e ss.; Frasca, Note sui presupposti del litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1999, 758. In termini simili, peraltro, con specifico riferimento alla previsione di litisconsorzio stabilito positivamente dall’art. 23, l. n. 990 del 1969, si ricordano Tarzia, Aspetti processuali dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica, in Riv. dir. proc., 1974, 35 e ss. (secondo cui in tale fattispecie le due cause sono legate tra loro da un nesso di pregiudizialità-dipendenza); Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, 439-440; Id., Litisconsorzio (dir. proc. civ.), in Enc. Giur., vol. XIX, Roma, 1990, 9-10. (9) Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, I, 2, Torino 1973, sub art. 102, 1111; Tomei, Alcuni rilievi in tema di litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1980, 671; Costantino, op. ult. cit., 10; Zanuttigh, Litisconsorzio, in Dig. IV, disc. priv., sez. civ., vol. XI, Torino 1994, 50; Frasca, op. cit., 753 e ss. (10) In materia, cfr., Criscuolo, Le eccezioni dell’assicuratore in materia di R.C. Auto, in questa Rivista, 1997, 404; Id., Rivalse, regressi, surroghe e manleve in materia di R.C. Auto, ivi, 1998, 972; Rossetti, Le azioni di surrogazione e di rivalsa dell’assicuratore, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, 11; de Strobel, Identificazione dell’assicurato, soggetto passivo dell’azione di rivalsa dell’assicuratore ex art. 18 della l. n. 990/1969, in Dir. econ. ass., 1999, 251. (11) Così Cass. 21 giugno 2004, n. 11471; Cass. 18 febbraio 1997, n. 1502, in Foro it., 1997, I, 2144, nonché in Giur. it., 1998, 655, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1997, 500, ed in Resp. civ. e prev., 1998, 140, con nota di Colaiacomo, Il problema del dolo nell’assicurazione obbligatoria R.C.A. e l’eterointegrazione normativa del contratto, ed ivi, 1082, con nota di Ricciardello, L’assicurazione del fatto doloso; Cass. 15 maggio 1982 n. 3038, in Giust. civ., 1982, I, 2341, nonché in Foro it., 1982, I, 2196, in Resp. civ. e prev., 1982, 571, ed ivi, 591, con nota di Rigolino Barberis, Sinistro automobilistico doloso e assicurazione, ed in Assicurazioni, 1983, II, 113, con nota di De Marco, La garanzia per i “fatti dolosi” nell’assicurazione della R.C. auto. Nello stesso senso, inoltre, ancorché in relazione alla domanda proposta nei confronti del Fondo di garanzia per le vittime della strada, cfr.: Cass. 17 maggio 1999 n. 4798, in Danno e resp., 1999, 1001, con nota di Sica, Danno derivante da fatto doloso e risarcibilità a carico del fondo di garanzia. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1131 GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE c.d. azione diretta il danneggiato fa valere nei confronti dell’impresa di assicurazioni una situazione giuridica diversa da quella di cui l’assicurato potrebbe chiedere tutela in un separato giudizio per essere tenuto indenne delle conseguenze sfavorevoli derivanti da un’eventuale condanna, sembra imporre la conclusione che le norme in materia di litisconsorzio risultano applicabili esclusivamente in presenza di una domanda in tal senso del danneggiato. Di conseguenza, non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario: – né ove il danneggiato abbia agito in giudizio soltanto nei confronti del responsabile del sinistro chiedendo il risarcimento del danno (12), – né qualora, secondo quanto previsto dall’art. 1917, comma 4, c.p.c., l’assicurato, convenuto in giudizio dal danneggiato, chiami successivamente in causa l’impresa di assicurazioni (salva, peraltro, la possibilità che, in seguito alla chiamata in garanzia ex art. 106 e 269 c.p.c., il danneggiato espressamente e tempestivamente formuli domanda di c.d. “azione diretta”). Se il danneggiato non si avvale della facoltà riconosciutagli dalla legge di rivolgersi direttamente nei confronti dell’impresa assicurativa per ottenere tutela, dunque, è possibile che si svolgano due distinti processi tra danneggiato e danneggiante e tra questi e compagnia assicuratrice, che possono concludersi con accertamenti contrastanti tra loro, senza che ciò susciti nessuno scandalo a ragione dei limiti soggettivi del giudicato sostanziale imposti dall’art. 2909 c.c. Vale precisare, peraltro, che ove venga esercitata la “azione diretta”, il litisconsorzio necessario sussiste esclusivamente in relazione all’accertamento degli indicati fatti costitutivi dei due diversi diritti di cui il danneggiato è titolare nei confronti del danneggiante e dell’impresa assicuratrice. Qualora quest’ultima - ancorché nel medesimo processo - eccepisca fatti in forza dei quali contrattualmente avrebbe “diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione”, i medesimi non debbono essere accertati nel contraddittorio con il danneggiato, potendo, pertanto, il giudice, ex art. 279, n. 5, c.p.c., perfino, pronunciare sentenza in ordine alle domande proposte dal danneggiato e disporre la separazione della causa relativa all’azione di rivalsa tra danneggiante e compagnia assicurativa. Da ultimo, vale segnalare che espressamente escluso dall’esame dalla decisione in commento delle Sezioni Unite è l’ipotesi in cui il conducente e il proprietario del veicolo che ha cagionato i danni non coincidano, ma siano due persone distinte. Come ben noto, in relazione a questa ipotesi, il danneggiato, oltre che esercitare l’azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice, può chiedere il risarcimento del danno sia al conducente sia al proprietario del veicolo (o, in sua vece, l’usufruttuario o l’acquirente con riservato dominio), il quale, ex art. 2054, comma 3, c.c., è responsabile in solido, salva la prova che la circolazione sia avvenuta contro la sua volontà. In questo caso, secondo la consolidata e pressoché uniforme giurisprudenza della S.C., litisconsorte necessario 1132 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 è soltanto il proprietario del veicolo e non anche il conducente (13). Tale orientamento giurisprudenziale, assai criticato dalla maggioritaria dottrina(14), peraltro, continua ad essere compatibile con l’orientamento espresso nella decisione in commento, atteso che trova il proprio fondamento nella considerazione che la chiamata in causa del “responsabile del danno” integra una deroga al principio della facoltatività del litisconsorzio in materia di obbligazioni solidali, giustificata dall’esigenza di rafforzare la posizione processuale dell’assicuratore al fine dell’opponibilità all’assicurato dell’accertamento della responsabilità, e che tale deroga, in difetto di espressa previsione, non può essere estesa ad altri eventuali responsabili, quale il conducente, la cui partecipazione al giudizio potrebbe perseguire solo scopi di natura probatoria, estranei all’istituto del litisconsorzio necessario. Note: (12) Nello stesso senso, in giurisprudenza, cfr., da ultimo, Cass. 29 aprile 2005, n. 8991; Cass. 1° agosto 2000, n. 10042; Cass. 25 luglio 2000, n. 9744. (13) Cfr.: da ultimo, Cass. 27 luglio 2005, n. 15675; Cass. 27 febbraio 2002, n. 2911; Cass. 23 febbraio 2000, n. 2047, in Resp. civ. e prev., 2001, 140, con nota di De Berardinis, Le perplessità su di una consolidata interpretazione giurisprudenziale: gli artt. 18 e 23 legge n. 990/69; Cass. 25 settembre 1998, n. 9592, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1998, 1128; Cass. 24 febbraio 1998, n. 1976, in Foro it., 1998, I, 3512, nonché in Arch. giur. circol. e sinistri, 1998, 571; Cass. 6 novembre 1996, n. 9647, in Giur. it., 1997, I, 1, 882, con nota di Ronco, nonché in Resp. civ. e prev., 1997, 405, con nota di De Berardinis, Il “responsabile del danno” nell’azione diretta contro l’assicuratore della r.c.a.: profili applicativi, ed in Arch. giur. circol. e sinistri, 1997, 244; Cass. 17 aprile 1994, n. 3629, in Assicurazioni, 1997, II, 2, 17, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1996, 623, ed in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 321; Cass. 20 marzo 1995, n. 3215, in Giust. civ., 1995, I, 2432, nonché in Giur. it., 1995, I, 1, 1406, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1995, 701; Cass., sez. un., 11 luglio 1984, n. 4055, in Giust. civ., 1985, I, 825, con nota di Sassani, Il responsabile del danno nel procedimento contro l’assicuratore della responsabilità civile nella circolazione dei veicoli, nonché in Giur. it., 1985, I, 1, 140, con nota di Viale, Azione diretta contro l’assicuratore e “responsabile del danno”, in Foro it., 1984, I, 2466, in Riv. giur. circ. trasp., 1985, 47, in Arch. civ., 1985, 1141, in Resp. civ. prev., 1984, 647, ed in Assicurazioni, 1985, II, 2, 31, con note di Geri, Un litisconsorzio necessario controverso e tormentato (art. 23, legge 24 dicembre 1969, n. 990), ed ivi, 165, con nota di Ippolito, Il responsabile del danno tra ermetismo giuridico e processo kafkiano (artt. 18 e 23, legge 990/69). Contra, a quanto consta, si rinviene unicamente Cass. 10 giugno 1992, n. 7130, in Giur. it., 1993, I, 1, 1991, con nota di Caprio, Art. 23 legge 24 dicembre 1969, n. 990: una inversione di tendenza, nonché in Arch. giur. circol. e sinistri, 1992, 815, in Assicurazioni, 1993, II, 2, 98, ed in Resp. civ. e prev., 1993, 94, con nota di Grisenti Bruna, Ancora sull’individuazione del responsabile del danno quale litisconsorte necessario dell’assicuratore obbligatorio della r.c. auto. (14) Tra gli altri, cfr.: Sassani, op. ult. cit.; Geri, op. cit., Grisenti Bruna, op. cit.; De Berardinis, op. cit.; nonché Rossetti, Le azioni di surrogazione e di rivalsa dell’assicuratore, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, 19; Giannini e Pogliani, op. cit., 214; Franco, Infortunistica stradale, Milano, 1996, 504. GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI CONSUMATORI Antitrust Tutela antitrust del consumatore finale CORTE D’APPELLO DI NAPOLI, sez. I civ., 9 febbraio 2006, n. 374 Pres. Marena - Est. Iacobellis - N. c. Compagnia assicuratrice Unipol S.p.a. Concorrenza - Intesa - Azione risarcitoria - Consumatore finale - Danno - Nesso causale - Prova. (legge 10 ottobre 1990, n. 287, Disciplina della concorrenza e del mercato, artt. 2 e 33, comma 2) Il comportamento anticoncorrenziale accertato e sanzionato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato con il provvedimento n. 8546 del 2000 non comporta ex se l’affermazione di responsabilità delle compagnie di assicurazione in ordine al lamentato incremento dei premi di polizza, dovendosi accertare l’incidenza causale del comportamento medesimo nella produzione del danno. Svolgimento del processo ...Omissis... Motivi della decisione Va preliminarmente osservato che le azioni di nullità e di risarcimento di cui all’art. 33, 2° co. della legge 10 ottobre 1990, n. 287, costituiscono mezzi di tutela autonomi e concorrenti rispetto al procedimento amministrativo davanti all’Autorità Garante, procedimento avente carattere eventuale e che si conclude con provvedimento soggetto al controllo giurisdizionale del giudice amministrativo (art. 33, I c., legge cit.). L’autonomia di cui sopra comporta che l’accertamento - da parte dell’AGCM - circa l’esistenza di una intesa restrittiva non è pregiudiziale all’azione di cui all’art. 33, 2° comma legge 287/90, e, con riferimento all’art. 2935 c.c., non costituisce impedimento di diritto all’esercizio dell’azione risarcitoria. La stretta connessione tra l’azione di nullità dell’intesa e l’azione risarcitoria di cui all’art. 33, 2° co. legge cit., poi, non esclude che tale seconda domanda vada esaminata alla luce degli artt. 2043 e 2697 c.c., con conseguente onere per l’attore, in ogni caso, di comprovare l’attività lesiva dell’altrui diritto, il danno ed il nesso di causalità fra la condotta antigiuridica e l’evento. Nel merito l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con il provvedimento del 28 luglio 2000, n. 8546, ha accertato e sanzionato la complessa ed articolata intesa orizzontale posta in essere dalla società convenuta, unitamente ad altre imprese concorrenti, nel periodo 1994-1997, nella forma di una pratica concordata consistente nello scambio sistematico di informazioni commerciali sensibili. L’impugnativa avverso tali statuizioni, relativamente alla società convenuta, è stata rigettata dal giudice amministrativo (Tar Lazio - sent. 6139 del 5 luglio 2001 - e Consiglio di Stato - sent. 2199 del 26 febbraio-23 aprile 2002). Il comportamento così accertato e sanzionato non comporta ex se l’affermazione di responsabilità della società assicuratrice in ordine alla pretesa attorea, dovendo accertarsi l’incidenza causale del comportamento medesimo nella produzione del danno assunto: il danno infatti non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo. Orbene l’istruttoria compiuta dall’AGCM ha riguardato il verificare se lo scambio di informazioni tra imprese di assicurazione, in ragione della natura e della attualità delle informazioni, della immediata identificabilità delle imprese, nonché della struttura del mercato, unitamente alla realizzazione di incontri sistematici tra le parti, potesse essere suscettibile di determinare una violazione dell’articolo 2 della legge n. 287/90 (49); e tale violazione è stata affermata a seguito dell’accertamento dello scambio di informazioni tra imprese di assicurazione, realizzato attraverso la società di consulenza RC Log, senza alcun accertamento in ordine agli effetti dell’intesa. Ciò risulta ancorpiù evidenziato dal Consiglio di Stato laddove afferma che: la fattispecie sanzionata è costituita dal solo scambio di informazioni, ritenuto di per sé restrittivo della concorrenza (7.2.1.); che la intesa è stata sanzionata per il solo oggetto anticoncorrenziale e non anche per gli effetti concreti, risultando quindi del tutto irrilevanti i riflessi della pratica sulle tariffe applicate (7.2.5); che l’Autorità non ha in alcun modo esteso la sua indagine agli effetti concreti della pratica contestata, ma si è limitata a ritenere la sussistenza di effetti potenzialmente dannosi per la concorrenza. L’Autorità ha quindi dimostrato non la concreta utilizzazione dei dati da parte di tutte le imprese, ma la utilizzabilità dei dati scambiati a prescindere dall’effettivo uso (7.4.3). Va altresì rilevato che l’ISVAP, nel corso del procedimento amministrativo, abbia segnalato all’AGCM che l’elevato aumento dei premi si sia accompagnato ad un aumento dei costi particolarmente sostenuto; che la DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1133 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI CONSUMATORI stessa AGCM afferma come le imprese non sono state in grado di controllare neppure i propri costi di produzione. Ciò appare con tutta evidenza nel caso degli oneri di acquisizione e incasso, nonché delle spese di amministrazione (77); e che la voce di costo che, come evidenziato anche dall’ISVAP, ha registrato i maggiori aumenti in Italia è quella relativa al risarcimento dei sinistri con danno alle cose, rappresentati prevalentemente dai costi delle riparazioni delle autovetture (78). La circostanza che poi l’intesa abbia riguardato solo alcune imprese assicurative porta altresì ad escludere che la collusione “a monte” abbia determinato “per l’attore una contrattazione che non ammette alternative”, potendo il consumatore comunque stipulare altra polizza per la R.C. auto con società diverse da quelle sanzionate. L’adesione del consumatore al premio proposto dalla società convenuta costituisce ulteriore elemento atto ad escludere l’efficienza causale dell’intesa sanzionata nel determinare l’assunto danno. Sulla sola base delle decisioni prodotte dall’attore a fondamento della domanda non può pertanto ritenersi che la partecipazione della società convenuta all’intesa sanzionata sia stata causa immediata e diretta dell’incremento del premio assicurativo per la r.c. corrisposto dall’attore alla società convenuta dal 5 dicembre 1994 al 5 dicembre 1997, con conseguente rigetto della domanda. Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del grado. IL COMMENTO di Stefano Bastianon La sentenza della Corte di appello di Napoli in commento esclude che da un comportamento accertato e sanzionato dall’Autorità garante a causa del suo oggetto anticoncorrenziale possa farsi discendere automaticamente il diritto dei consumatori finali ad ottenere il risarcimento dei danni in difetto di prova circa l’esistenza del nesso causale tra la condotta illecita a monte e i contratti a valle. Ad avviso dell’autore, tuttavia, la soluzione accolta, pur in linea con altre pronunce di merito, sembra non cogliere pienamente le peculiarità del caso di specie nei termini illustrati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 2207/2005. 1. In questi ultimi anni il tema del risarcimento dei danni antitrust, particolare espressione di quello che si è soliti chiamare private enforcement del diritto della concorrenza, ha catalizzato l’attenzione generale della dottrina la quale, soprattutto negli ultimi anni, ha avuto la possibilità di dialogare con la giurisprudenza, di merito e di legittimità, dando vita ad un dibattito, ancora agli inizi, ma già ricco ed interessante (1). Anche sul versante comunitario il tema delle azioni di risarcimento dei danni per violazione della disciplina antitrust ha conosciuto in questi ultimi anni una popolarità senza uguali, come dimostra sia l’attenzione riservata a tale argomento dal commissario Neelie Kroes e dal suo predecessore Mario Monti (2), sia dalla pubblicazione, alla fine del 2005, del Libro verde della Commissione sulle azioni risarcitorie per violazione degli artt. 81 e 82 del Trattato C.E. (3). Per tali ragioni, prima di passare ad analizzare la sentenza in rassegna appare opportuno dare conto, seppur sommariamente, dello stato dell’arte in materia, sia a livello nazionale, sia a livello comunitario. 1134 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 2. La giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento dei danni antitrust può idealmente essere suddivisa in tre distinte fasi. Note: (1) Vedi, tra i molti, C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e resp., 2004, 469; M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, ion Danno e resp., 2004, 933; C. Castronovo, Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, in Danno e resp., 2004, 1165; M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., 2005, 237; C. Lo Surdo, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, in Banca, borsa, tit. cred., 2004; I, 175; G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004; I, 479; R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, in Foro it., 2004; I, 469; G. Colangelo, Intese restrittive della concorrenza e legittimazione ad agire del consumatore, in Danno e resp., 2003, 1181; A. Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni «extravagantes» per un illecito inconsistente, in Foro it, 2002, I, 1121; E. Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, in Foro it., 2002, I, 1132; A. Palmieri, R. Pardolesi, L’antitrust e il benessere (e il risarcimento dei danni) dei consumatori, in Foro it., 2005, I, 1015; E. Scoditti, L’antitrust dalla parte del consumatore, in Foro it., 2005, I, 1018; U. Violante, Illecito antitrust e azione risarcitoria, in Danno e resp., 2005, 14; O. Pallotta, Illeciti antitrust, contratti a valle e presunzione di danno, in Contratto e Impr. - Europa, 2006, n. 1, 177. Ci si permette di ricordare, inoltre, S. Bastianon, Nullità «a cascata»? Divieti antitrust e tutela del consumatore, in Danno e resp., 2004, 1067, nonché Antitrust e tutela civilistica: anno zero, in Danno e resp., 2003, 391. (2) N. Kroes, Enhancing actions for damages for breach of competition rules in Europe, Dinner speech at the Harvard Club, New York, 22 September 2005; N. Kroes, Damages Actions for Breaches of EU Competition Rules: Realities and Potentials, Opening speech at the conference “La reparation du prejudice causé par une pratique anti-concurrentielle en France et à l’ètranger: bilan et perspectives”, Paris 17 October 2005; M. Monti, Private litigation as a key complement to public enforcement of competition rules and the first conclusions on the implementation of the new Merger Regulation, IBA - 8th Annual Competition Conference, Fiesole, 17 settembre 2004, consultabili sul sito www.europa.eu.int/ comm/competition/speeches. (3) Libro verde - Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, Bruxelles, 19 dicembre 2005, COM (2005) 672. GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI CONSUMATORI La prima fase (1999 - 2001) si caratterizza per un approccio molto cauto al tema in esame, ma incline ad ammettere, perlomeno in teoria, la possibilità di ravvisare un collegamento tra l’intesa restrittiva a monte e i contratti a valle. In particolare, Cass. n. 827/99 aveva sottolineato che la nullità di un’intesa anticoncorrenziale non investe soltanto l’eventuale negozio originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma tutta la più complessa situazione, anche successiva al negozio (4); analogamente, Cass. n. 887/2001 aveva riconosciuto la possibilità di far valere non solo la nullità delle Norme bancarie uniformi per contrasto con l’art. 2 della legge n. 287/90, ma anche il carattere distorsivo dei comportamenti delle banche in sede di stipula dei singoli contratti con i clienti finali (5). La seconda fase (2002 - 2003), al contrario, risulta caratterizzata da un approccio diametralmente opposto, in virtù del quale il consumatore finale, pur essendo riconosciuto come soggetto del mercato, viene privato della possibilità di avvalersi della tutela speciale prevista dall’art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990. Nella pronuncia Axa Assicurazioni c. Isvap e Larato, infatti, la Corte di cassazione, sulla base di una lettura “imprenditorialmente orientata” della normativa antitrust italiana, ha escluso, da un lato, la legittimazione dei consumatori finali ad agire in via risarcitoria ai sensi dell’art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990 e, dall’altro lato, la possibilità di ravvisare qualsiasi collegamento negoziale tra l’accordo antitrust “a monte” e i contratti “a valle” in base al rilievo, peraltro non dimostrato, che questi ultimi costituirebbero «meri fenomeni che, pur attenendo alla vita del mercato, si pongono solo a valle in quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle singole imprese nella gestione dei singoli e specifici rapporti intessuti direttamente con i singoli consumatori, rapporti già presieduti in quanto tali dalla loro logica giuridica interna» (6). A distanza di soli sei mesi da tale pronuncia, nella sentenza Liquigas. c. G. la Corte di cassazione ha precisato che, pur in presenza di un accordo antitrust dichiarato nullo con provvedimento definitivo dell’Autorità garante, «i contratti scaturiti in dipendenza da tale accordo mantengono la loro validità e possono dare luogo soltanto ad un’azione [ordinaria] di risarcimento del danno» (7). Secondo tale impostazione, pertanto, la nullità dell’intesa antitrust “a monte” non si estende mai ai contratti “a valle”, mentre coloro che hanno stipulato un negozio giuridico con un soggetto partecipante all’intesa anticoncorrenziale possono contare soltanto sulla tutela ordinaria apprestata dal codice civile che, a seconda delle varie prospettazioni accolte, si risolve nell’annullabilità del contratto ex art. 1339 c.c., nell’azione risarcitoria ex art. 1440 c.c. (dolo incidente) nei confronti della controparte in malafede, ovvero nell’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. (8). Da ultimo, la terza fase, che coincide sostanzialmente con la pronuncia Unipol c. R del 2005, risulta caratterizzata dall’intervento delle Sezioni Unite e dal riconoscimento che, contrariamente a quanto affermato nel 2002, «la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere». Da tale fondamentale premessa le Sezioni Unite hanno tratto due, altrettanto fondamentali, conseguenze: a) il contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa, essenziale a realizzarne gli effetti, posto che la seconda si estrinseca e viene attuata tramite il primo; b) la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare proprio lo strumento attraverso il quale i partecipanti dell’intesa realizzano il vantaggio che la legge intende vietare (9). 3. A livello comunitario, sino al 2001 il tema del risarcimento dei danni per violazione della normativa antitrust non ha ricevuto particolare attenzione. A parte, infatti, la pubblicazione nel 1966 di uno studio sul risarcimento dei danni per violazione degli (allora) artt. 85 e 86 del Trattato C.E. (10) e nel 1997 di uno studio sull’applicazione di tali norme da parte dei giudici nazionali (11), la dottrina, salvo alcune eccezioni (12), non ha mai mostrato un particolare interesse al tema in esame. Analogamente, la Corte di giustizia ha sempre ribadito che spettava all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoNote: (4) Cass. 1 febbraio 1999, n. 827, in Foro it., 1999, I, 831, con nota di Lambo. (5) Cass. 20 giugno 2001, n. 887, in Foro it., Rep. 2001, voce Concorrenza (disciplina), n. 141. (6) Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, in Foro it., 2002, I, 1121, con note di A. Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni «extravagantes» per un illecito inconsistente e di E. Scoditi, Il consumatore e l’antitrust; in Danno e resp., 2003, 390, con nota di S. Bastianon, Antitrust e tutela civilistica: anno zero; in Resp. civ. prev., 2003, 365, con nota di A. Guarneri, Il cartello degli assicuratori è fonte di danno per gli assicurati?, nonché in Dir. ind., 2003, 172, con nota di G. Colangelo. (7) Cass. 11 giugno 2003, n. 9384, in Danno e resp., 2004, 1067, con nota di S. Bastianon, Nullità «a cascata»? Divieti antitrust e tutela del consumatore. (8) Per un primo inquadramento v. M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, 649; G. Oppo, Costituzione e diritto privato nella tutela della concorrenza, in Riv. dir. civ., 1993, II, 549; M. Meli, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, 2001; C. Lo Surdo, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit. (9) Cass. S.U., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Foro it., 2005, I, 1014. (10) Commissione CEE, Il risarcimento dei danni per violazione degli articoli 85 e 86 del Trattato CEE, Serie Concorrenza, Bruxelles, 1966. (11) Commissione CE, L’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato CE da parte delle giurisdizioni nazionali degli Stati membri, consultabile su www.europa.eu.int/comm/competition/publications/art8586_it.pdf (12) A Winterstein, A community right in damages for breach of EC competition rules?, in E.C.L.R., 1995, 49; A. Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, 114. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1135 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI CONSUMATORI li in forza dell’effetto diretto degli artt. 81 e 82 del Trattato C.E., pur sottolineando che tali modalità non potevano essere meno favorevoli di quelle previste per i ricorsi analoghi di natura interna e non dovevano rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario (13). In tale contesto, la sentenza Courage c. C. del 2001 ha segnato il classico punto di non ritorno. In tale pronuncia, infatti, la Corte di giustizia ha affermato che «la piena efficacia dell’art. 81 del Trattato C.E. e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito al n. 1 di detto articolo, sarebbero messi in discussione se chiunque non potesse chiedere il risarcimento del danno causatogli da un contratto o da un comportamento che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza. In quest’ottica, le azioni di risarcimento dei danni dinanzi ai giudici nazionali possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità» (14). Secondo il giudice comunitario, pertanto, sono le stesse norme antitrust contenute nel Trattato C.E. a costituire il presupposto per la concessione, in ambito nazionale, di un rimedio giurisdizionale a contenuto risarcitorio, anche a prescindere da quanto previsto dalle singole legislazioni nazionali sulla concorrenza. Sebbene a distanza di cinque anni dalla sentenza Courage c. C. la Corte di giustizia abbia avuto occasione di ritornare sul tema in esame soltanto una volta con la recente pronuncia M. (15), è indubitabile che a livello comunitario il problema del risarcimento dei danni antitrust e, più in generale, del private enforcement, sia divenuto sempre più attuale, tanto da spingere l’esecutivo comunitario a pubblicare, alla fine del 2005, un Libro verde sulle azioni di risarcimento dei danni antitrust. Si tratta di un documento nel quale la Commissione, preso atto che in Europa questo tipo di azioni legali sono ancora molto rare, analizza i principali ostacoli che ancor oggi impediscono al private enforcement di affermarsi su larga scala, prospettando una serie di opzioni e suggerimenti in ordine a possibili riforme da attuare all’interno dei singoli ordinamenti giuridici nazionali, con specifico riferimento a temi quali l’accesso alle prove, il requisito della colpa, la quantificazione dei danni, l’onere della prova, la legittimazione ad agire dei consumatori finali, i costi delle azioni legali, la giurisdizione e la legge applicabile (16). 4. È in tale contesto, caratterizzato sia a livello nazionale sia a livello comunitario da un’accentuata sensibilità al problema del risarcimento dei danni antitrust, che deve essere letta la sentenza della Corte di appello di Napoli. La fattispecie decisa dai giudici napoletani è estremamente semplice, rappresentando il classico esempio di scuola: dopo la conferma, ad opera sia del Tar Lazio sia del Consiglio di Stato, del provvedimento n. 8546 con il quale l’Autorità garante aveva sanzionato per contrasto con l’art. 2 della legge n. 287/1990 la pratica di un gruppo di compagnie di assicurazioni consistente nello scambio di informazioni sensibili relative alle polizze per la responsabilità civile de- 1136 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 rivante dalla circolazione di autoveicoli (R.C. auto) (17), un assicurato aveva convenuto in giudizio la propria compagnia di assicurazione chiedendo il risarcimento dei danni subiti per effetto dell’aumento del premio assicurativo conseguente alla pratica anticoncorrenziale sanzionata dall’Autorità garante. Per quanto semplice, tale vicenda evidenzia due dei principali problemi connessi ad ogni giudizio in materia di responsabilità civile per violazione della normativa antitrust: in primo luogo, l’individuazione del soggetto legittimato ad agire ex art. 33, 2° comma, della legge n. 287/90; in secondo luogo, i rapporti tra l’intesa restrittiva della concorrenza “a monte” e i contratti stipulati “a valle” dai soggetti partecipanti all’intesa con i consumatori finali. Per quanto riguarda il problema della legittimazione ad agire, il fatto che nella sentenza tale tema non sia stato affrontato ha un significato inequivoco: sia le parti, sia il collegio giudicante hanno ritenuto di conformarsi alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 2207/2005, riconoscendo quindi la legittimazione del consumatore finale ad avvalersi della tutela apprestata dall’art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990. Nell’attuale contesto italiano, caratterizzato, come già accennato, da un lato, da un acceso dibattito dottrinale e, dall’altro lato, dal numero ancora esiguo delle pronunce della giurisprudenza di merito su tale specifico punto, l’approccio seguito dalla Corte di appello di Napoli merita, quantomeno, di essere evidenziato. Decisamente più complesso si presenta il discorso relativo alla fondatezza della domanda di risarcimento dei danni proposta dall’assicurato. Secondo i giudici napoletani, infatti, ogni indagine deve muovere dalla natura autonoma, seppur concorrente, delle azioni di nullità e di risarcimento del danno ex art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990 rispetto ai procedimenti amministrativi davanti all’Autorità garante, e dalla conseguente necessità che l’atNote: (13) Corte giust. 12 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe/Landwirtschaftskammer Saarland, in Raccolta, 1976, 1989; 7 luglio 1981, causa 158/80, Rewe/Hauptzollamt, in Raccolta, 1981, 1805. Più recentemente, Corte giust. 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani, in Raccolta, 1997, 4025. (14) Corte giust. 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage c. Crehan, in Raccolta, 2001, I-6297 nonché in Foro it., 2002, IV, 75, con note di A. Palmieri-R. Pardolesi, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: «chi è causa del suo mal … si lagni e chieda i danni»; E. Scoditti, Danni da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano; G. Rossi, «Take Courage»! La Corte di Giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust; in Danno e resp., 2001, 1151, con osservazioni di S. Bastianon, Intesa illecita e risarcimento del danno a favore della parte debole; in Resp. civ. prev., 2002, 668, con osservazioni di L. Tonelli, Intesa antitrust e risarcimento dei danni; in Corriere giur., 2002, 454, con nota di G. Colangelo, Intese «obtorto collo» e risarcibilità del danno: le improbabili acrobazie dell’antitrust comunitario. (15) Corte giust., 13 luglio 2006, cause riunite C-295/04 e C-298/04, Manfredi, in Guida al diritto, 2006, n. 30, 100, con nota di N. Buquicchio. (16) Per un primo esame v. S. Bastianon, Il risarcimento del danno antitrust tra esigenze di giustizia e problemi di efficienza. Prime riflessioni sul Libro verde della Commissione, in Mercato Concorrenza Regole, 2006, n. 2, 315. (17) Autorità garante della concorrenza e del mercato, provvedimento 28 luglio 2000, n. 8546, in Bollettino, n. 30/2000. GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI CONSUMATORI tore, il quale domanda il risarcimento dei danni, fornisca la prova dell’altrui condotta illecita, del danno subito e del nesso causale tra la prima e il secondo. Sulla scorta di tale premessa, il ragionamento seguito dalla corte si sviluppa nei seguenti passaggi: a) il provvedimento n. 8546 dell’Autorità garante ha accertato e sanzionato, sub specie di pratica concordata, lo scambio di informazioni sensibili tra compagnie di assicurazione; b) tale pratica è stata sanzionata soltanto a causa del suo oggetto anticoncorrenziale, non avendo l’Autorità garante esteso la propria indagine agli effetti concreti della condotta delle compagnie di assicurazione; c) dal provvedimento dell’Autorità garante non può farsi discendere automaticamente l’affermazione di una responsabilità delle compagnie di assicurazione in ordine al denunciato aumento indiscriminato dei premi di polizza, «dovendo accertarsi l’incidenza causale del comportamento medesimo nella produzione del danno assunto»; d) in assenza di idonea prova sul punto, considerato altresì che l’intesa sanzionata dall’Autorità garante ha riguardato soltanto alcune compagnie di assicurazione e che, quindi, il consumatore avrebbe potuto stipulare la propria polizza con un’altra compagnia di assicurazione, «non può ritenersi che la partecipazione della società convenuta all’intesa sanzionata sia stata causa immediata e diretta dell’incremento del premio assicurativo corrisposto dall’attore». La domanda risarcitoria del consumatore finale, dunque, viene respinta unicamente per difetto di prova in ordine al nesso causale tra la condotta illecita ed il danno subito. A prima vista la pronuncia della Corte di appello di Napoli si presenta in linea con altre sentenze di merito (18). Nel caso di specie, infatti, il consumatore finale non ha fornito alcun indizio che il lamentato aumento del prezzo del premio di polizza (dell’ordine del 20%) potesse essere causalmente ricondotto allo scambio di informazioni sanzionato dall’Autorità garante; tale circostanza, inoltre, assume un particolare significato in un contesto quale quello dell’assicurazione r.c. auto nel quale, per stessa ammissione dell’Autorità garante (19) e dell’Isvap (20), una pluralità di fattori eterogenei (limitato ingresso sul mercato italiano di nuovi operatori, relazione verticale di esclusiva tra produttori e distributori di polizze, ipervalutazione del danno biologico, incremento delle truffe a danno delle assicurazioni, ecc.) hanno contribuito in misura significativa all’incremento dei premi di polizza. Per tale ragione - si è detto - «il c.d. cartello assicurativo si pone soltanto come uno dei plurimi, distinti ed autonomi antecedenti causali, tutti simultanei e tutti teoricamente possibili cause di danno», sì che «spetterà al danneggiato fornire in modo rigoroso la prova della precisa imputabilità dell’evento, con la conseguenza che, ove non sia assolto puntualmente un onere siffatto, la pretesa risarcitoria dovrà essere rigettata» (21). La pronuncia in rassegna, pertanto, conferma i dubbi espressi da quella parte della dottrina che, all’indomani degli interventi del giudice di legittimità, aveva sottolineato che il riconoscimento in capo ai consumatori finali della legittimazione ad agire ex art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990 non sarebbe stata di per sé sufficiente ad assicurare a questi ultimi un’effettiva tutela (22). Sennonché, proprio l’insistenza con la quale i giudici napoletani hanno escluso la responsabilità della compagnia di assicurazione per difetto di prova circa il nesso causale tra la condotta illecita ed il danno lamentato dall’assicurato induce a qualche considerazione supplementare. In primo luogo, non del tutto convincente si rivela l’affermazione secondo cui, per aver l’intesa riguardato soltanto alcune compagnie di assicurazione, il consumatore avrebbe potuto stipulare la propria polizza r.c. auto con una compagnia assicuratrice diversa da quelle sanzionate dall’Autorità garante, con la conseguenza che «l’adesione del consumatore al premio proposto dalla società convenuta costituisce ulteriore elemento atto ad escludere l’efficienza causale dell’intesa sanzionata nel determinare l’assunto danno». A tale riguardo, è agevole obiettare che, nel momento in cui il consumatore stipulava il contratto di assicurazione r.c. auto, la partecipazione della propria compagnia all’intesa, successivamente scoperta e sanzionata dall’Autorità garante, non era certo evidente, come pure non si conoscevano i nomi delle compagnie di assicurazione coinvolte; in secondo luogo, l’affermazione della Corte di appello sembra non tenere nella giusta considerazione il c.d. umbrella effect, che spinge le imprese non partecipanti all’intesa ad allineare i propri prezzi a quelli praticati dalle imprese cartellizzate. Da ultimo, si osserva che l’intesa sanzionata dall’Autorità garante aveva coinvolto diciannove delle prime venti compagnie operanti nel settore R.C. auto ed un numero di imprese rappresentanti oltre l’80% del mercato in questione, per cui il riferimento alla possibilità per l’assicurato di scegliere un’impresa di assicurazione estranea al cartello appare poco realistica. Più in generale, peraltro, si osserva che, se anche possono immaginarsi casi nei quali la prova del danno effettivamente subito dal consumatore finale e la Note: (18) Giud. di Pace Milano 25 novembre 2003, in Giudice di Pace, 2004, 124, con nota di A. Palmieri; Giud. di Pace Gioiosa Ionica, sentenza n. 181/02, citata da U. Violante, Illecito antitrust e azione risarcitoria, cit., 18, nota 18. (19) Autorità garante della concorrenza e del mercato, Provvedimento 17 aprile 2003, n. 11891, in Bollettino, n. 16-17/2003. (20) Parere ISVAP 14 luglio 2000 citato dall’Autorità garante nel provvedimento 28 luglio 2000, n. 8546, cit. (21) U. Violante, Illecito antitrust e azione risarcitoria, cit., 20. Contra, I. Nasti, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile, in Corriere giur., 2003, 344, secondo cui «l’estensione della tutela di cui all’art. 33 comporterebbe (...) la possibilità per il cittadino assicurato di poter ottenere il risarcimento del danno senza dover sottostare alle limitazioni strutturali di un giudizio di accertamento della responsabilità aquiliana sancito dall’art. 2043 c.c. Il consumatore si gioverebbe, in altri termini, di una presunzione relativa di dannosità del contratto stipulato e potrebbe ottenere il risarcimento senza dover provare l’esistenza di un danno né di un nesso causale tra il comportamento vietato, cioè la pratica collusiva tra le compagnie di assicurazione e il danno lamentato». (22) A. Palmieri, R. Pardolesi, L’antitrust e il benessere (e il risarcimento dei danni) dei consumatori, cit., 1018. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1137 GIURISPRUDENZA•TUTELA DEI CONSUMATORI sua ricollegabilità causale alla condotta anticoncorrenziale risulta problematica e necessita di un accurato accertamento (si pensi, ad esempio, alle ipotesi caratterizzate da fenomeni di traslazione, integrale o parziale, del danno), nel caso di specie la situazione appare diversa. Lo scambio di informazioni, infatti, viene sanzionato dal diritto antitrust in quanto mira a rendere il mercato più trasparente e a consentire alle imprese di sfruttare tale trasparenza per realizzare profitti sopracompetitivi. Tali profitti, peraltro, non vengono concretamente realizzati per effetto del mero scambio di informazioni, bensì tramite l’utilizzo delle informazioni così scambiate in sede di conclusione dei singoli contratti con i consumatori finali. Se, quindi, il contratto a valle non si pone come qualcosa di diverso e di autonomo rispetto all’intesa a monte, ma rappresenta il momento attuativo di quest’ultima, per cui è la stessa illiceità della seconda che si riflette sul primo, appare quanto mai ingiusto ritenere che, in assenza di specifiche prove, l’incremento del premio delle polizze assicurative non possa essere causalmente ricollegato allo scambio di informazioni sanzionato dall’antitrust a causa della presenza di altri fattori potenzialmente in grado di incidere sul prezzo dei premi. Sia chiaro: non si contesta il fatto che, durante il periodo della condotta illecita sanzionata dall’Autorità garante, i premi possano essere lievitati anche a causa di fattori esterni; appare dubbia, invece, la pretesa di escludere, in assenza di specifica prova, l’esistenza di qualsiasi legame causale tra lo scambio di informazioni e i prezzi “gonfiati” delle polizze R.C. auto. Ciò, infatti, equivarrebbe a ritenere che le informazioni scambiate siano state riposte in un cassetto e che quindi l’intesa sanzionata dall’Autorità garante non abbia mai avuto attuazione pratica. Tale conclusione, oltre ad essere difficilmente conciliabile con elementari ragioni di logica e di buon senso, risulta in contrasto con la stessa istruttoria condotta dall’Autorità garante da cui è emerso, sulla scorta di numerose evidenze documentali, che le imprese di assicurazione si avvalevano delle informazioni scambiate per determinare i propri prezzi finali, che l’accelerazione dell’introduzione di nuovi tariffari (in alcuni casi sino a quattro variazioni annuali) non aveva alcuna giustificazione tecnica e che gli aumenti dei premi per l’assicurazione R.C. auto erano superiori alla media europea (23). Va da sé, inoltre, che portando alle estreme conseguenze il ragionamento della Corte di appello di Napoli, diverrebbe quanto mai difficile comprendere perché il singolo contratto di assicurazione sia affetto da illiceità. In altre parole, se le informazioni scambiate non sono mai state utilizzate per “gonfiare” i premi assicurativi, non risulterebbe chiaro perché il comportamento della compagnia di assicurazione in sede di stipula del singolo contratto venga qualificato illegittimo e il risarcimento del danno escluso unicamente a causa della mancanza di prova circa il nesso A ben vedere, quindi, il problema non si pone in termini di esistenza/assenza del nesso causale tra la condotta a monte ed il danno subito dal consumatore finale, bensì di riparto del nesso causale tra i vari fattori concorrenti nella causazione dell’evento dannoso (24). Anche in tale ipotesi, peraltro, 1138 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 sul consumatore finale finirebbe per gravare un onere probatorio particolarmente difficile, se non addirittura impossibile, da assolvere, tanto da far ragionevolmente ritenere che sotto tale profilo l’esito della vicenda decisa dalla Corte di appello di Napoli non sarebbe stato diverso. Resta, pertanto, la convinzione che, una volta riconosciuta la legittimazione del consumatore finale ad esperire le azioni di nullità e di risarcimento del danno previste dall’art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990, l’effettiva tutela del consumatore sotto il profilo concorrenziale non possa più essere rimessa all’operare delle ordinarie regole, sostanziali e processuali, che disciplinano la responsabilità civile in Italia, dovendosi, al contrario, iniziare a valutare seriamente l’opportunità di introdurre forme di inversione dell’onere probatorio, di tutela collettiva e di deroghe al principio «chi perde, paga» (anche al fine di non incorrere nel rischio che, per evitare in futuro soluzioni analoghe a quella in esame, il consumatore finale possa essere indotto ad avvalersi di perizie, consulenti tecnici e modelli matematici di quantificazione dei danni il cui costo complessivo supera di gran lunga il valore dei danni di cui si chiede il risarcimento (nella specie, € 134,21). Ma questo, si sa, è un altro discorso. Note: (23) Autorità garante della concorrenza e del mercato, Provvedimento 28 luglio 2000, n. 8546, cit., punti 167, 257, 258, 263. Interessante al riguardo si rivela il passo della pronuncia 4 febbraio 2005, n. 2207 delle Sezioni Unite, cit., 1025, ove si afferma che «se un’intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora alcun effetto (...) non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287/1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura formale di comportamenti “a valle”». (24) U. Violante, Illecito antitrust e azione risarcitoria, cit., 20. GIURISPRUDENZA•DANNO ESISTENZIALE Mancato pagamento dell’indennità di maternità La responsabilità dell’ente previdenziale per danno esistenziale TRIBUNALE DI LECCE 18 aprile 2006 Giud. Buffa - R. c. Eos e INPS Indennità di maternità - Inadempimento dell’obbligo di anticipazione da parte del datore di lavoro - Responsabilità Mancata corresponsione da parte dell’INPS - Risarcimento del danno subito dal lavoratore - Danno esistenziale Liquidazione. (Legge n. 33/1980, art. 1; c.c., artt. 2043, 2059) Il pagamento della indennità di maternità al lavoratore dipendente è oggetto di un obbligo che ha contenuto patrimoniale, ma il cui adempimento esatto ha una funzione anche non patrimoniale, in quanto il lavoratore trae normalmente dalla detta indennità il mezzo di sostentamento per sé e per la propria famiglia in via di ampliamento. Ne consegue che il mancato pagamento della indennità di maternità da parte dell’ente previdenziale e la mancata anticipazione da parte del datore di lavoro espongono tali soggetti al risarcimento del danno esistenziale subito dalla lavoratrice per il grave peggioramento della qualità della vita a causa del detto inadempimento. Svolgimento del processo ... Omissis... Motivi della decisione Nel merito, il ricorso è fondato e deve essere accolto. Deve dichiararsi cessata la materia del contendere quanto al pagamento dell’indennità di maternità, essendo divenuto pacifica la sua spettanza ed essendo stato effettuata la corresponsione della stessa da parte dell’Inps senza riserva alcuna. Quanto alla domanda risarcitoria, deve preliminarmente rilevarsi che il comportamento dei convenuti è stato gravemente inadempiente: il datore di lavoro non ha adempiuto all’obbligo - previsto dalla legge - di anticipare l’indennità in questione richiesta dalla dipendente; l’Istituto non ha pagato - venendo meno alla propria funzione istituzionale - la prestazione richiesta pur in presenza dell’inadempimento datoriale - risultante univocamente in tutti i vari giudizi intentati dalla lavoratrice e comunque facilmente accertabile - al detto obbligo. Ai sensi dell’inderogabile disciplina sancita dall’art. 1 della legge 33/80, l’Inps è l’unico soggetto obbligato ad erogare l’indennità di maternità (come pure di malattia), mentre il datore di lavoro è tenuto ad anticiparla, salvo conguaglio con i contributi e le altre somme dovute all’istituto (Cass. 6190/00, 6659/94, 7607/91, fra le tante). È sempre stato pacifico del resto la spettanza del diritto della ricorrente, essendo documentato ai convenuti anche stragiudizialmente la gravidanza ed il parto della ri- 1140 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 corrente ed il periodo di interdizione dal lavoro, come pure la sussistenza dei requisiti di copertura assicurativa; nessun convenuto ha mai contestato, in sede giudiziale, il diritto azionato, limitandosi l’Inps a far presente che il datore di lavoro anticipa di norma la prestazione (senza però dimostrare che nel caso ciò fosse avvenuto, restando obbligato in proprio conseguentemente), e limitandosi il datore ad invocare la natura previdenziale della prestazione e la responsabilità dell’ente. La violazione dei detti obblighi è stata macroscopica e resa con la consapevolezza (maturata con i ricorsi cautelare se non già stragiudizialmente) oltre che dell’esistenza del diritto soggettivo perfetto alla prestazione, della natura previdenziale della stessa (essendo volta a sostenere la donna proprio nel periodo di maggior delicatezza in relazione alla sua funzione familiare essenziale costituzionalmente riconosciuta e tutelata e nel momento del bisogno determinato dalla sospensione del rapporto di lavoro - e di percezione della retribuzione - obbligatoriamente imposta dalla legge), nonché delle difficoltà economiche - gravi, eccezionali e sempre puntualmente documentate - in cui versavano la ricorrente e la sua bambina. Mentre i convenuti eccepivano reciprocamente - e reiteratamente in relazione a tute le varie istanze giudiziali della ricorrente - il proprio difetto di legittimazione passiva per sottrarsi agli obblighi patrimoniali inderogabili previsti dalla legge, la ricorrente accumulava debiti per cercare di far fronte tra innumerevoli difficoltà (documentate tutte in atti) alle esigenze quotidiane, e, a tace- GIURISPRUDENZA•DANNO ESISTENZIALE re delle esigenze economiche della stessa ricorrente, la figlia intanto nasceva, cresceva, doveva mangiare, vestirsi, forse avere i primi giocattoli, andare all’asilo, avere le proprie esigenze, economicamente rilevantissime. Non vi è chi non veda che dall’immotivato inadempimento di entrambi i convenuti sia derivato alla ricorrente un danno gravissimo, essendo stata violata la sua dignità di persona umana, oltre che i suoi diritti di donna e di madre in particolare. Il tipo di danno che la ricorrente ha subito è senza dubbio non patrimoniale, e di tipo esistenziale. Il pagamento della indennità di maternità al lavoratore dipendente è oggetto sì di un obbligo che ha contenuto patrimoniale, ma il cui adempimento esatto ha una funzione anche non patrimoniale, in quanto il lavoratore trae normalmente dalla detta indennità il mezzo di sostentamento per sé e per la propria famiglia. Il danno esistenziale da mancato pagamento di emolumenti economici può avere il suo referente costituzionale oltre che negli artt. 36, che tutela la retribuzione in sé, 37, che tutela la donna lavoratrice e prevede una protezione speciale nel periodo in cui è madre, nonché 38 che tutela forme assistenziali di chi non può lavorare, anche nell’art. 2, che tutela la qualità dignitosa della vita nelle formazioni sociali. Certo, si tratta di provare le privazioni “esistenziali” patite per la mancata percezione di emolumenti garantiti dalla legge, ma queste spesso sono facilmente immaginabili: è la qualità scemata della vita con il telefono o gas o luce staccata perché non si è pagata la bolletta o con le minacce di sfratto del locatore per morosità o ancora per la rinuncia all’acquisto di beni voluttuari o infine la lesione della dignità della persona che deve chiedere prestiti a parenti amici e conoscenti, o deve subire pignoramenti che avrebbe altrimenti evitato, situazioni queste spesso, come nel caso, casualmente riconducibili al mancato o ritardato pagamento di somme spettanti al lavoratore. Diviene dunque risarcibile nei detti casi il danno esistenziale, connesso con la lesione della dignità della persona del lavoratore e altresì con la diversa qualità della vita del lavoratore in seguito a tutte le conseguenze che derivano dalla mancata percezione dei mezzi di sostentamento. Si tratta non solo dei danni diretti derivanti dall’inadempimento, ma anche dei danni indiretti e mediati, ma collegati da un nesso di regolarità causale con l’inadempimento. Al riguardo, occorre tenere in considerazione l’interpretazione che la giurisprudenza ha dato dell’art. 1223 c.c., norma che letteralmente sembra contenere il risarcimento ai danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. Infatti, secondo la giurisprudenza, il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti in via diretta ed immediata dall’inadempimento deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da ricomprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale dell’inadempimento, secondo il principio di regolarità causale; in conseguenza, mentre sono da escludere i danni verificatisi per l’intervento di cause e circostanze estranee al comportamento dell’obbligato, vi rientrano invece gli altri quanto, pur non producendo il fatto di per sé quel determinato evento, abbia tuttavia prodotto uno stato di cose tali che senza di esso non si sarebbe verificato (Cass. 18 luglio 1987, n. 6325; Cass. 20 maggio 1986, n. 3353; Cass. 19 maggio 1974, n. 1474; Cass. 9 dicembre 1974, n. 4135). Peraltro, il principio della causalità regolare va inteso va inteso non già nel senso che il danno sia risarcibile solo quando sia proporzionato alla gravità del fatto che vi ha dato origine, bensì nel senso che, se si tratta di danno mediato e indiretto, è risarcibile solo quando costituisce una normale e naturale conseguenza del fatto stesso, e non è risarcibile quando la sua gravità sia stata determinata, piuttosto che dal fatto, da altre ed eccezionali concause. Diventa in relazione a ciò fondamentale individuare il nesso causale, ed in particolare il nesso di regolarità causale, che va riguardato in relazione all’id quod plerumque accidit in casi omogenei: così, diverse saranno le conseguenze normali dell’inadempimento ove la famiglia del lavoratore sia monoreddito e numerosa, da quella in cui vi sia altri redditi in famiglia; il lavoratore, dovrà quindi, volta per volta, dimostrare la riconducibilità causale del danno subito all’inadempimento e dunque, ove si tratta di danni indiretti, la impossibilità di prevenire gli stessi in altro modo. Nel caso, tale prova risulta essere data con la documentazione in atti, dalla quale risultano pienamente le difficoltà incontrate dalla ricorrente a seguito del mancato pagamento dell’indennità di maternità e della sua mancata anticipazione da parte del datore. Con riferimento al tipo di danno (non patrimoniale) ed alla sua risarcibilità, come noto, due sentenze della Corte di Cassazione (Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), ed una della Corte Costituzionale (Corte costituzionale 11 luglio 2003, n. 233) hanno rivoluzionato il sistema della responsabilità civile in relazione al danno alla persona, affermando la risarcibilità del danno esistenziale, inteso come danno alla persona, di carattere non patrimoniale e che attinge a beni ed interessi costituzionalmente tutelati, inerenti l’esistenza dei singoli e la qualità della vita o comportanti la lesione di vari beni immateriali. Più in particolare, la giurisprudenza delle supreme magistrature si è oggi orientata verso una nozione ampia, costituzionalmente orientata, del danno non patrimoniale, esorbitante non solo da una visione penalistica (del resto i casi di legge ormai riguardano in via maggioritaria fattispecie extrapenali), ma anche da una impostazione limitativa del risarcimento ai casi previsti dalla legge: nel perdurante vigore dell’art. 2059 c.c., si è ritenuto che, allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1141 GIURISPRUDENZA•DANNO ESISTENZIALE sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge (tanto più se correlata all’art. 185 c.p.), e si è affermato che ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, in quanto una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti, come nel caso di specie il diritto al lavoro e al dignità professionale ed umana della lavoratrice. Quanto alla liquidazione del danno, essa può avvenire soltanto in termini equitativi che debbono avere riguardo alla natura, all’intensità e alla durata delle compromissioni esistenziali derivate ed all’importanza del bene giuridicamente rilevante che è stato leso; peraltro, se è vero che il danno ha carattere non patrimoniale sicché la sua liquidazione potrebbe assai meglio basarsi su parametri diversi dalla retribuzione, in difetto della allegazione di tali diversi parametri, non può che farsi riferimento al valore economico del lavoro della ricorrente e dunque alla retribuzione della stessa (dagli atti si evince una retribuzione mensile della ricorrente pari ad euro 840 mensili nette) commisurando ad essa il risarcimento dovuto dal lavoratore, in difetto della prova di danni di ti- po o entità diversa, secondo una percentuale che tenga conto dei criteri sopra richiamati: quanto a tale percentuale della retribuzione, la gravità della situazione della ricorrente consente di far riferimento alla misura del 100% della retribuzione. Conseguentemente, con riferimento alla retribuzione spettante alla ricorrente ed alla durata della lesione, che nel caso è di cinque mensilità (che è la durata dell’indennità di maternità per astensione obbligatoria), si perviene in applicazione della percentuale del 100% della retribuzione mensile alla somma complessiva di euro 4.200. Tale somma deve essere aumentata di rivalutazione ed interessi dalla data in cui la prestazione avrebbe dovuto essere corrisposta e si è verificata la lesione dell’illecito al soddisfo. Il danno non può invece superare la misura sopra indicata, non potendosi addebitare ai convenuti le difficoltà economiche e di vita della ricorrente che neppure la corresponsione tempestiva della indennità di maternità avrebbe potuto colmare. I convenuti rispondono in solido del danno, e delle spese di lite che seguono la soccombenza e che si liquidano, per la cautela ed il merito, come da dispositivo. ... Omissis... IL COMMENTO di Giuseppe Cassano L’autore analizza e condivide l’assunto giurisprudenziale secondo cui il mancato pagamento della indennità di maternità da parte dell’ente previdenziale e la mancata anticipazione da parte del datore di lavoro espongono il soggetto ad un danno esistenziale per obiettivo peggioramento della qualità della vita. La pronuncia in commento si segnala per la sua originalità nel panorama delle decisioni della giurisprudenza di merito relative alla materia del danno esistenziale: si trattava, in particolare, di una lavoratrice alla quale il datore di lavoro non aveva corrisposto l’indennità di maternità e che conseguentemente si era rivolta, anche questa volta senza successo, all’Inps per avere il pagamento diretto; dai reiterati rifiuti del datore di lavoro e dell’Inps era poi nato un contenzioso reiterato basato essenzialmente su istanze cautelari della lavoratrice, con alterne vicende giudiziarie. Da ultimo, la decisione in epigrafe ha ristabilisce il diritto della ricorrente e appronta soddisfacimento alla domanda della stessa di tutela giurisdizionale. La decisione, in particolare, rileva che il pagamento 1142 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 della indennità di maternità al lavoratore dipendente è oggetto di un obbligo che ha contenuto patrimoniale, ma osserva il giudice - il cui adempimento esatto ha una funzione anche non patrimoniale, in quanto il lavoratore trae normalmente dalla detta indennità il mezzo di sostentamento per sé e per la propria famiglia in via di ampliamento. Ne consegue, prosegue la decisione, che il mancato pagamento della indennità di maternità da parte dell’ente previdenziale e la mancata anticipazione da parte del datore di lavoro espongono tali soggetti al risarcimento del danno esistenziale subito dalla lavoratrice per il grave peggioramento della qualità della vita a causa del detto inadempimento. A quanto consta, si tratta del primo caso di giurisprudenza che condanna l’ente previdenziale al risarcimento del danno esistenziale correlato all’inadempimento o all’inesatto adempimento di obblighi istituzionali dell’ente previdenziale medesimo inerenti l’indennità di maternità. Peraltro, va rilevato che in altro settore previdenziale si registrano pure pronunciamenti condannatori per l’ente previdenziale: così, ad esempio, in relazione al danno esistenziale cagionato da erronea informazione dell’ente previdenziale che abbia causato le dimissioni del lavoratore sul pre- GIURISPRUDENZA•DANNO ESISTENZIALE supposto, indotto dalla erronea informazione resa dall’ente e rivelatosi poi fallace a rapporto di lavoro irrimediabilmente cessato, della sufficienza della contribuzione versata ai fini della maturazione di prestazione pensionistica; ovvero, all’opposto, in relazione al caso in cui l’amministrazione previdenziale per errore abbia escluso il diritto del lavoratore al collocamento a riposo pur in presenza dei relativi requisiti ed il privato abbia così continuato ad espletare la prestazione lavorativa pur potendo invece andare in pensione. In particolare, in relazione alla prima fattispecie, Cass. n. 19340/03 ha riconosciuto il risarcimento del danno nel caso di perdita del posto di lavoro lasciato a seguito del conseguimento dall’ente previdenziale di informazioni in ordine alla propria posizione contributiva (che viene erroneamente dichiarata come idonea a consentire al lavoratore di fruire dei benefici previdenziali). Con riferimento alla seconda fattispecie, la Corte d’appello di Genova, sez. IV, 27 aprile 2005, in questa Rivista, 2006, 557, con nota di Palmerini (Il rinvio dell’agognata pensione e il danno non patrimoniale), ha ritenuto che il diniego illegittimo alla richiesta di esercizio dei diritti previdenziali ed il conseguente prolungato ritardo del pensionamento programmato ledono l’interesse a realizzare una personale scelta di vita e sono fonte di pregiudizio non patrimoniale. In dottrina, per un esame delle fattispecie in discorso, sia consentito il rinvio a Buffa - Cassano, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Torino, 2005, ed ivi ampi richiami bibliografi, ove diffusamente è analizzato il tema. Il caso in commento evidenzia tuttavia non un mero errore dell’ente previdenziale ma un inadempimento voluto dell’obbligo previdenziale (pur sulla base di osservazioni giuridiche ritenute dal giudicante poi infondate). La pronuncia bene sottolinea come nessun convenuto nel caso concreto abbia sostanzialmente mai contestato, in sede giudiziale, il diritto azionato, limitandosi in particolare l’INPS a far presente che il datore di lavoro anticipa di norma la prestazione (senza però dimostrare che nel caso ciò fosse avvenuto, restando obbligato in proprio conseguentemente), e limitandosi il datore ad invocare la natura previdenziale della prestazione e la responsabilità dell’ente. La violazione dei rispettivi obblighi, asserendo ciascun convenuto dovuta la prestazione dall’altro, è stata posta in essere nella pacifica esistenza del diritto soggettivo perfetto alla prestazione, prestazione peraltro di natura previdenziale e dunque importantissima, essendo volta - come rimarca l’importante e condivisibile decisione - a sostenere la donna proprio nel periodo di maggior delicatezza in relazione alla sua funzione familiare essenziale costituzionalmente riconosciuta e tutelata e nel momento del bisogno determinato dalla sospensione del rapporto di lavoro - e di percezione della retribuzione - obbligatoriamente imposta dalla legge. Nella fattispecie, dunque, proprio dalla condotta dell’ente previdenziale è derivato un danno consistente di tipo non patrimoniale, ed in particolare, esistenziale. Si tratta di un danno della cui risarcibilità ormai non si dubita sostanzialmente in giurisprudenza, ora che anche la giurisprudenza delle supreme magistrature si è orientata verso una nozione ampia, costituzionalmente orientata, del danno non patrimoniale, esorbitante non solo da una visione penalistica, ma anche da una impostazione limitativa del risarcimento ai casi previsti dalla legge: nel perdurante vigore dell’art. 2059 c.c., si è ritenuto che, allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge (tanto più se correlata all’art. 185 c.p.), e si è affermato che ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, in quanto una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti, come nel caso di specie il diritto al lavoro e al dignità professionale ed umana della lavoratrice. Significativamente la decisione evidenzia come, mentre i convenuti eccepivano reciprocamente - e reiteratamente in relazione a tute le varie istanze giudiziali della ricorrente - il proprio difetto di legittimazione passiva per sottrarsi agli obblighi patrimoniali inderogabili previsti dalla legge, la ricorrente accumulava debiti per cercare di far fronte tra innumerevoli difficoltà alle esigenze quotidiane e, a tacere delle esigenze economiche della stessa ricorrente, la figlia intanto nasceva, cresceva, doveva mangiare, vestirsi, forse avere i primi giocattoli, andare all’asilo, avere le proprie esigenze, economicamente rilevantissime. Insomma, per concludere, va detto che il caso è emblematico proprio perché evidenzia come, alla delicatezza delle funzioni pubbliche commesse all’ente previdenziale e all’importanza - anche sociale - delle relative provvidenze fa da pendant l’entità dei pregiudizi - ed il tipo del danno (che attinge direttamente la sfera esistenziale della persona) - che il cittadino può subire dall’erroneo o mancato esercizio di quelle importanti prerogative, risultando in tal modo l’azione amministrativa particolarmente delicata ed importante per i cittadini. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1143 GIURISPRUDENZA•SINTESI Osservatorio di legittimità a cura di ANTONELLA BATÀ e ANGELO SPIRITO COSE IN CUSTODIA Cassazione civile, sez. III, 6 luglio 2006, n. 15383 - Pres. Nicastro - Est. Segreto - P.M. Abbritti (conf.) - B.A. c. Comune di Ancona 1) La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia, anche nell’ipotesi di beni demaniali in effettiva custodia della P.A., ha carattere oggettivo e, perché tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa (che ne è fonte immediata) ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante". 8.2. "La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all’art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali (nella fattispecie: del demanio stradale) ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della P.A. mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito. 2) La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all’art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali (nella fattispecie: del demanio stradale) ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della P.A. mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito. 3) Ove non sia applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051 c.c., per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni da detti beni, subiti dall’utente, secondo la regola generale dettata dall’art. 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale (e segnatamente della strada), fatto di per sé idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A. sulla quale ricade l’onere della prova dei fatti impeditivi (della propria responsabilità, quali - nella teorica dell’insidia o trabocchetto - la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia. 4) Tanto in ipotesi di responsabilità oggettiva della P.A. ex art. 2051 c.c., quanto in ipotesi di responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento colposo del soggetto danneggiato nell’uso di bene demaniale (che sussiste anche quando egli abbia usato il bene demaniale senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) esclude la responsabilità della P.A., se tale comportamento è idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso, integrando, altrimenti, un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227 c.c. comma 1, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato. Il caso La fattispecie nella quale si muove il provvedimento è costituita da un’ordinaria azione per il risarcimento del danno proposta contro il comune da un automobilista, il quale lamenta che nel transitare a bordo della propria vettura lungo una strada comunale era finito con la ruota posteriore in un tombino scoperto, non segnalato, il cui coperchio era appoggiato in vicinanza dell’apertura. I giudici del merito rigettano la domanda, sostenendo che, trattandosi di bene appartenente al demanio stradale comunale, non era ipotizzabile una responsabilità del Comune a norma dell’art. 2051 c.c., ma solo ai sensi dell’art. 2043 c.c., ove fosse stata DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1145 GIURISPRUDENZA•SINTESI ravvisabile un’insidia stradale; che nella fattispecie l’attore avrebbe potuto far valere la responsabilità da custodia nei confronti dell’Azienda Municipalizzata Servizi (dotata di propria soggettività giuridica), in quanto gli operai di tale azienda avevano sollevato il coperchio del tombino; che, nessuna colpa poteva ravvisarsi a carico del Comune, in quanto lo scoperchiamento del tombino costituiva un caso fortuito posto in essere da un terzo, che escludeva il nesso di causalità. La soluzione della Corte di Cassazione e i collegamenti giurisprudenziali La sentenza in commento va segnalata in quanto la Cassazione, dopo una serie di tentennamenti in tema di responsabilità dell’ente proprietario della strada, fa finalmente il punto della situazione, ricucendo precedenti orientamenti in parte o in tutto contrastanti. Del provvedimento si raccomanda l’integrale lettura, contenendo, peraltro, esso una esaustiva e dotta ricostruzione della materia. Per giungere alla conclusione di cui alle massime sopra riportate, si prospetta l’esistenza di quattro precedenti orientamenti delineatisi finora nella giurisprudenza di legittimità: a) quello predominante, secondo cui la tutela in questione è esclusivamente quella predisposta dall’art. 2043 c.c., in quanto la P.A. incontra nell’esercizio del suo potere discrezionale, nonché nella vigilanza e nel controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere (art. 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cd. trabocchetto o insidia stradale. Sussiste l’insidia, fondamento della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c., della P.A. per danni riportati dall’utente stradale, allorché essa non sia visibile o almeno prevedibile (Cass. 26 maggio 2004, n. 10132; Cass. 22 aprile 1999, n. 3991; Cass. 28 luglio 1997, n. 7062; Cass. 20 agosto 1997, n. 7742; Cass. 16 giugno 1998, n. 5989 e molte altre); b) un orientamento minoritario, invece, riconduce la responsabilità della P.A., proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall’utente di detta strada, alla disciplina di cui all’art. 2051 c.c., assumendo che la P.A., quale custode di detta strada, per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell’art. 2051 c.c., deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato dell’esistenza dell’insidia, che questi, invece, non deve provare, così come non ha l’onere di provare la condotta commissiva o omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l’evento danno ed il nesso di causalità con la cosa (Cass. 22 luglio 1998, n. 4070; Cass. 20 novembre 1998, n. 11749; Cass. 21 maggio 1996, n. 4673; Cass. 3 giugno 1982 n. 3392, Cass. 27 gennaio 1988 n. 723); 1146 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 c) un orientamento intermedio, che è andato sempre più sviluppandosi negli ultimi tempi, ritiene che l’art. 2051 c.c., in tema di presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia - in realtà trova applicazione nei confronti della pubblica amministrazione, con riguardo ai beni demaniali, esclusivamente qualora tali beni non siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei terzi, ma vengano utilizzati dall’amministrazione medesima in situazione tale da rendere possibile un concreto controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo (Cass. 30 ottobre 1984 n. 5567), ovvero, ancora, qualora trattisi di beni demaniali o patrimoniali che per la loro limitata estensione territoriale consentano una adeguata attività di vigilanza sulle stesse (Cass. 5 agosto 2005, n. 16675; Cass. n. 11446 del 2003; Cass. 1 dicembre 2004, n. 22592; Cass. 15 gennaio 2003, n. 488; Cass. 13 gennaio 2003, n. 298; Cass. 23 luglio 2003, n. 11446); d) una recente sentenza (Cass. 20 febbraio 2006, n. 3651), poi, ribadisce il principio che, poiché custode dei beni demaniali è la P.A., essa risponde dei danni provocati da detti beni a norma dell’art. 2051 c.c. La peculiarità di questa sentenza è nell’escludere che la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. costituisca una responsabilità oggettiva, cioè “una responsabilità senza colpa”, poiché fondamento della responsabilità è la violazione del dovere di sorveglianza, gravante sul custode. Secondo tale arresto il caso fortuito, che esclude la responsabilità, non costituisce un elemento esterno che incide sul nesso causale, ritenendo, invece che la prova del fortuito (prova liberatoria) attiene alla prova che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, per cui la prova del fortuito attiene al profilo della mancanza di colpa da parte del custode, mentre l’estensione del bene demaniale e l’uso diretto della cosa da parte della collettività sono elementi sintomatici per escludere tale presunzione di colpa a carico del custode. Tale sentenza, quindi, non solo inquadra la responsabilità della P.A. per danni da beni demaniali nell’ambito dell’art. 2051 c.c., ma soprattutto riporta la responsabilità del custode nell’ambito della responsabilità per colpa, nella specie presunta. In argomento bisogna anche dar conto di Corte cost. 10 maggio 1999, n. 156, la quale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2043, 2051 e 1227 c.c., comma 1, in rapporto agli artt. 3, 24 e 97 Cost., sulla scorta dei rilievi che, come sottolineato in alcune sentenze, “la notevole estensione del bene e l’uso generale e diretto da parte del terzi costituiscono meri indici dell’impossibilità del concreto esercizio del potere di controllo e di vigilanza sul bene medesimo; la quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù di un puro e semplice riferimento alla natura demaniale del bene, ma solo a seguito di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità”. La Corte costituzionale, nel ritenere non fondata la questione, richiamato il principio di autoresponsabilità a carico degli utenti “gravati di un onere di par- GIURISPRUDENZA•SINTESI ticolare attenzione nell’esercizio dell’uso ordinario diretto del bene demaniale per salvaguardare appunto la propria incolumità”, ha tra l’altro considerato la nozione di insidia “come una sorte di figura sintomatica di colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità in esame”. RISARCIMENTO DANNI Cassazione civile, sez. III, 7 luglio 2006, n. 15522 - Pres. Fiduccia - Est. Massera - P.M. Golia (diff.) - R.R. c. Ministero Tesoro La perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora: a) si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale; b) il creditore provi, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta. Il caso Il sig. R. cita in giudizio il Ministero del Tesoro per il risarcimento dei danni conseguenti al mancato riconoscimento della qualifica di orfano di guerra. Egli sostiene, infatti, di aver dovuto rinunciare ad un posto di lavoro per non aver potuto usufruire di quel titolo, che gli avrebbe consentito l’assegnazione di una sede meno distante dalla sua residenza, e la perdita di chance con riferimento ad altro posto di lavoro. I giudici del merito rigettano la domanda, ritenendo insussistente il rapporto causale tra il fatto denunciato e gli eventi lamentati. Il sig. R. propone, allora, ricorso per cassazione, assumendo che la Corte territoriale ha preteso di ricostruire il danno come un lucro cessante, con riferimento al quale occorre una ragionevole certezza della prova della sua futura verificazione, anziché come perdita di chance (conseguente all’impossibilità di esibire la qualifica di orfano di guerra), danno che consiste nella perdita della possibilità di conseguire un risultato futuro favorevole, idoneo ad incidere direttamente sul patrimonio del danneggiato, e che può essere provato anche secondo un calcolo di proba- bilità o per presunzioni e liquidato facendo ricorso al criterio equitativo. La soluzione della Corte di Cassazione e i collegamenti giurisprudenziali La S.C. rigetta il ricorso, ricordando - sulla stregua della sua precedente giurisprudenza - che il danno extracontrattuale deve essere risarcito in tutte le sue componenti, tuttavia evitando duplicazioni risarcitorie o estensioni che sfilaccino l’indispensabile collegamento causale tra condotta ed evento. In tale quadro si inserisce la cosiddetta perdita di chance, che (vedi Cass., sez. III, n. 9598 del 1998) costituisce un’ipotesi di danno patrimoniale futuro, come tale risarcibile a condizione che il danneggiato dimostri (anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate) la sussistenza d’un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno. Sicché, il creditore ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta. Di qui la corrispondenza a questi principi della sentenza di merito, la quale ha fatto leva proprio sulla inadeguatezza del quadro probatorio offerto dal sig. R. al fine di dimostrare, quanto al concorso bandito dal Ministero dei Monopoli di Stato, la verosimiglianza della sua concreta assegnabilità ad una sede più vicina, di cui non ha fornito alcuna indicazione, e alla conseguente accettazione da parte sua, e, quanto al concorso bandito dal Ministero della Pubblica Istruzione, la sua collocazione nella graduatoria di merito in posizione tale che la produzione del documento gli avrebbe consentito di ottenere l’assunzione in una sede per lui accettabile. In argomento, cfr. soprattutto Cass. 11 dicembre 2003, n. 18945 (in Arch. giur. circ. 2004, 510, in Rass. dir. civ., 2005, 528, con nota di Viti, in Resp. civ., 2004, 751, con nota di Bastianon), la quale ha ritenuto non provata la perdita di chances lavorative subite da una infortunata in un sinistro stradale, la quale si era limitata ad allegare che, se non coinvolta nel sinistro, avrebbe potuto lavorare per le Poste prima a tempo determinato e poi rientrare nella riserva dei posti a tempo indeterminato senza produrre al giudice di merito le proposte lavorative effettuatele da Poste Italiane e senza riportarne il contenuto. Così pure per Cass. 18 marzo 2003, n. 3999 (in Riv. Corte Conti 2003, 283; Nuova giur. civ. comm., 2003, 871, con nota di Ponticelli, in Giur. it. 2003, 1783), la quale ha confermato la sentenza impugnata che non aveva riconosciuto, in quanto non provato, il danno derivante alla parte creditrice per la perdita delle asserite “occasioni” che il mercato le avrebbe offerto per incrementare il proprio patrimonio e non sfruttate a causa dell’inadempimento dell’altra parte, ritenuta responsabile di non aver adempiuto agli obblighi scaturenti da una tran- DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1147 GIURISPRUDENZA•SINTESI sazione avente ad oggetto la divisione giudiziale di beni ereditari. RISARCIMENTO DANNI Cassazione Civile, sez. I, 28 giugno 2006, n. 14977 Pres. De Musis - Est. Giuliani - P.M. Ceniccola (diff.) D.N. c. S.A.A. Il protesto cambiario, conferendo pubblicità ipso facto all’insolvenza del debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un’ottica commerciale-imprenditoriale, ma si risolve in una più complessa vicenda, di indubitabile discredito, tanto personale quanto patrimoniale, così che, ove illegittimamente sollevato ed ove privo di una conseguente, efficace rettifica, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno patrimoniale anche sotto il profilo della lesione dell’onore e della reputazione del protestato come persona, al di là ed a prescindere dai suoi eventuali interessi commerciali, onde, qualora l’illegittimo protesto venga riconosciuto lesivo di diritti della persona, come quelli sopraindicati, il danno, da ritenersi in re ipsa, andrà senz’altro risarcito, non incombendo sul danneggiato l’onere di fornire la prova della sua esistenza. Il caso Il sig. N. cita in giudizio il sig. P., sostenendo di avergli rilasciato alcune cambiali di favore, obbligandosi a risarcirgli i danni da mancato pagamento o da protesti che gli fossero derivati dall’utilizzo delle cambiali medesime. L’attore chiede, dunque, la condanna del convenuto al pagamento di una somma di danaro a titolo di risarcimento del danno materiale e del danno all’immagine derivatogli, per essere state messe all’incasso quelle cambiali, con relativi protesti. I giudici del merito respingono la domanda, ritenendo, in primo luogo, che dalla dichiarazione del convenuto, esibita dall’attore, non chiaramente trasparisse l’obbligo di tenere indenne la controparte dai danni derivanti dall’uso delle cambiali. In secondo luogo, affermano che altro motivo di rigetto della domanda sia da ravvisare nella genericità di questa circa l’ammontare del danno, richiesto in £ 15 milioni, atteso che, se il danno all’immagine non poteva essere liquidato se non in via equitativa, il danno materiale derivato dall’inadempimento contrattuale doveva essere quantificato o sulla base di una esplicita previsione contenuta nel documento o sulla base di una prova offerta in ordine a quello in concreto subito. Il sig. N. propone ricorso per cassazione. La S.C. lo accoglie, ritenendo, innanzitutto, che i giudici del merito non abbiano interpretato secondo corretti canoni ermeneutici la dichiarazione di responsabilità rilasciata dal convenuto all’attore. Quanto, poi, alla seconda ragione del decidere (la necessità di liquidare il danno sulla base di una concreta prova offerta), la Corte di cassazione spiega che il giudice avrebbe dovuto liquidare il danno all’immagine in via 1148 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 equitativa, siccome il protesto cambiario illegittimamente sollevato e non rettificato è idoneo a provocare un danno patrimoniale che è in re ipsa e che non deve essere, quindi, provato dal danneggiato. La soluzione della Corte di Cassazione e i collegamenti giurisprudenziali Con la sentenza in commento risulta ribadito il principio già affermato da Cass. 5 novembre 1998, n. 11103 (in Banca, borsa, 2000, 35, con nota di Martorano, in Corr. giur., 1999, 998, con nota di Sciso, in Giur. it. 1999, 770, con nota di Sanzo), in sede di annullamento di una sentenza con cui il giudice di merito, in relazione ad una vicenda di protesto cambiario elevato nei confronti di un funzionario di banca, nonostante la patente contraffazione della data di scadenza del titolo di credito, pur avendo ritenuto tanto il notaio procedente che l’istituto bancario istante corresponsabili a titolo di colpa, aveva poi escluso ogni consequenziale risarcimento dei danni patrimoniali - non ritenendo tali né il trasferimento del funzionario da Milano a Roma, né il rigetto di una successiva domanda di mutuo nonché ogni lesione della reputazione commerciale del protestato nel mondo imprenditoriale ed economico. GIURISPRUDENZA•SINTESI Osservatorio sulla giustizia amministrativa a cura di GINA GIOIA LA SEMPLICE ISCRIZIONE ALL’ALBO DEGLI AVVOCATI DEL LUOGO IN CUI SI ESERCITA L’ATTIVITÀ DI GIUDICE DI PACE È CAUSA DI DECADENZA T.a.r. Lazio, sez. Roma, 29 agosto 2006, n. 7719 - Pres. de Lise - Rel. Barone - G. C. c. Ministero della Giustizia, C.S.M. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 15 aprile 2004, ha deliberato di non confermare il ricorrente nell’incarico di giudice di pace per la sede di Segni - circondario di Velletri, trovandosi lo stesso in una delle situazioni di incompatibilità previste dall’articolo 8 della legge n. 374/1991 e successive modificazioni. In particolare, il provvedimento è stato adottato in conseguenza dell’accertata sussistenza della causa di incompatibilità determinata dall’iscrizione del ricorrente nell’albo del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Velletri. Il ricorrente si è così opposto alla deliberazione per: a) violazione di legge; b) eccesso di potere per carenza di istruttoria e per contraddittorietà. La deliberazione impugnata avrebbe illegittimamente parificato l’iscrizione all’Albo degli Avvocati all’esercizio della professione forense, senza considerare che la mera iscrizione non comporta automaticamente l’esercizio dell’attività nell’ambito del territorio del Tribunale di Velletri. La deliberazione sarebbe in contrasto con la precedente delibera del 15 settembre 2003, la quale, in risposta ad un quesito formulato dal ricorrente in ordine all’incompatibilità dell’esercizio delle funzioni di giudice di pace con l’iscrizione all’Albo degli Avvocati, richiamando la circolare P-1436 del 21 gennaio 2000, aveva affermato che l’incompatibilità sussiste ogni qualvolta il giudice di pace eserciti la professione forense nel medesimo circondario in modo stabile e continuativo. L’amministrazione intimata, infine, si sarebbe limitata ad accertare, sulla base di un esposto, la mera iscrizione all’albo senza, però, svolgere alcun accertamento sull’attività libero-professionale effettivamente svolta dal ricorrente. Sia nel cautelare che nel merito il ricorso è stato rigettato. L’articolo 6 della legge n. 468/1999 ha novellato l’articolo 8 della legge n. 374/1991, introducendovi i commi 1-bis ed 1-ter. Il comma 1 bis stabilisce che gli avvocati non possono esercitare le funzioni di giudice di pace nel circondario del Tribunale nel quale esercitano la professione forense ovvero nel quale esercitano la professione forense i loro associati di studio, il coniuge, i conviventi, i parenti fino al secondo grado o gli affini entro il primo grado. Il comma 1-ter dispone che gli avvocati che svolgono le funzioni di giudice di pace non possono esercitare la funzione forense dinanzi all’ufficio del giudice di pace al quale appartengono e non possono rappresentare, assistere o difendere le parti di procedimenti svolti dinanzi al medesimo ufficio, nei successivi gradi di giudizio; il divieto si applica anche agli associati di studio, al coniuge, ai conviventi, ai parenti entro il secondo grado e agli affini entro il primo grado. Il ricorrente, nella sostanza, ha sostenuto che l’incompatibilità di cui alle norme citate vada guardata non in astratto, bensì in concreto, considerato che la legge professionale consente l’esercizio della professione in territorio diverso da quello del circondario di competenza del Tribunale presso il quale ha sede l’ordine forense. Di parere diverso il T.a.r. Lazio che, dopo aver richiamato la legittimità delle circolari del C.S.M. (n. P-15880 del 1 agosto 2002 e n. P - 23482 del 23 dicembre 2002) nelle quali si è individuato nell’iscrizione all’albo professionale il dato rivelatore dell’esercizio della professione forense e nella cancellazione dall’albo la modalità di rimozione della causa di incompatibilità (sentenza n. 4476/2002 e n. 1001/2001), considera che l’incompatibilità discende dalla semplice possibilità di esercizio della attività e non dal suo concreto svolgimento. Inoltre, secondo il Collegio, la sanzione della decadenza espressamente prevista, dalla legge, a fronte di un preciso divieto impedisce alla Amministrazione l’esercizio di una potestà discrezionale, una volta accertata la violazione del divieto. giudizio tra le parti. SUL DANNO DA PERDITA DI CHANCE T.a.r. Calabria, sez. dist. Reggio Calabria, 28 agosto 2006, n. 1397 - Pres. Rel. Caruso - M. c. Regione Calabria Il ricorrente ha impugnato la mancata inclusione nell’albo degli aspirante Direttori generali delle ASL della regione Calabria, per difetto del requisito minimo temporale previsto dall’art 3 d.lgs. n 229/1999, consistente nella esperienza almeno quinquennale di direzione tecnica, amministrativa, di enti, aziende, strutture pubbliche o private, in posizione dirigenziale con autonomia gestionale e diretta responsabilità delle risorse umane, tecniche, finanziarie, svolta nei 10 anni precedenti la pubblicazione dell’avviso. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1149 GIURISPRUDENZA•SINTESI Il mancato raggiungimento del requisito temporale dipendeva dal Provvedimento con il quale il Presidente della Giunta regionale della Calabria aveva negato al ricorrente la conferma dell’incarico di Direttore generale della ASL n 11 della Regione Calabria, risolvendone il contratto già stipulato. Tale provvedimento era stato annullato dal T.a.r. ed il ricorrente è stato reintegrato nelle funzioni solo dopo tre provvedimenti cautelari al Consiglio di Stato, perdendo così quel servizio utile ai fini della inclusione nell’apposito albo. Il T.a.r., dopo aver rigettato la sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento, ne accoglieva il ricorso ritenendolo fondato sotto il profilo risarcitoria. Osservano i giudici calabresi che il provvedimento di mancata conferma è stato annullato con sentenza definitiva che lo ha dichiarato illegittimo. Se la prestazione del ricorrente non fosse stata illegittimamente interrotta, questi avrebbe maturato il requisito temporale di legge per l’inclusione nell’albo. Non è revocabile in dubbio pertanto che il provvedimento illegittimo è stato fonte di un danno ingiusto per il ricorrente che si è visto negare la possibilità di conseguire la inclusione nell’albo. Trattasi di un danno da perdita di chance che viene quantificato in via equitativa, senza considerare l’esatto ammontare della retribuzione non percepita. È evidente, infatti, e proprio per questo il danno è da chance, che non vi è certezza circa la nomina a Direttore, una volta ammesso all’albo, potendosi solo valutare la probabilità concreta che questo accada. RESPONSABILITÀ CONTABILE DEL DIRETTORE DEI LAVORI Corte dei Conti, sez. II, 20 luglio 2006, n. 270 - Pres. De Pascalis - Rel. Casaccia - A. V. c. Comune di Como Il Procuratore di prime cure aveva citato in giudizio il direttore dei lavori di un appalto di opera pubblica committente il Comune di Como, per avere lo stesso svolto, le proprie incombenze con grave negligenza Il P.M. aveva contestato al direttore dei lavori innanzitutto l’omissione della tenuta del libretto delle misure ed il fatto di avere consentito all’appaltatore di redigere una falsa contabilità delle opere eseguite con un indebito arricchimento pari alla somma precitata. I fatti erano emersi dalle indagini del Nucleo della Polizia Tributaria di Como, indagini che poi erano state trasmesse con una perizia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como. Da questa perizia è risultato che l’Impresa non possedeva le apposite attrezzature ed il necessario know-how ed aveva quindi subappaltato i lavori per lo scavo e la posa in opera di pali di grande diametro alla Ditta Sandon & Co. s.a.s.. Dal raffronto dei lavori fatturati dalla citata Ditta e quelli contabilizzati dal direttore dei lavori venne riscontrato che questi ultimi erano superiori a quelli eseguiti dalla Ditta su- 1150 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 bappaltatrice con una differenza pari alla somma sopra citata. Ma soprattutto veniva contestata l’omessa istituzione del libretto delle misure, presupposto indispensabile per tutte le altre scritture contabili, quali il registro di contabilità, lo stato di avanzamento dei lavori, i certificati per i pagamenti in conto. L’Ing. V. dal canto suo si difendeva affermando di essere stato vittima dei raggiri posti in essere dall’appaltatore Caprile, ma soprattutto eccepiva la prescrizione dell’azione di responsabilità e nel merito contestava ogni addebito. La Sezione di prime cure sul presupposto che si trattava di un danno dolosamente cagionato rispetto al quale il dies a quo del termine prescrizionale di cinque anni decorre dal momento della scoperta dello stesso danno, faceva decorrere, appunto, il termine di prescrizione dall’informativa del Nucleo Tributario di Como, datata 19 dicembre 1997. L’Ing. V. impugnava la sentenza ribadendo la violazione della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e la violazione e la falsa applicazione del R.D. 25 maggio 1895, n. 350, artt. 42 e 43, Regolamento dei lavori dello Stato eccependo, in via preliminare l’improcedibilità dell’azione per intervenuta prescrizione, e nel merito, l’insussistenza della responsabilità per difetto della colpa grave, in quanto lo stesso direttore dei lavori avrebbe compiuto tutte le verifiche di rito mentre la preordinazione truffaldina dell’Appaltatore avrebbe eluso ogni condotta diligente del direttore dei lavori. L’appello è stata rigettato dalla Corte che ha disatteso l’eccezione di prescrizione e confermato la sentenza di prime cure. Come è ben noto ai sensi del comma 2 dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, salvo il caso di occultamento doloso del danno. In tale ultima evenienza la prescrizione decorre dalla data della scoperta del pregiudizio ai danni dell’Erario. Tale norma non prevede chi debba essere l’autore dell’occultamento doloso del danno, con la conseguenza che può verificarsi anche il caso in cui tra l’autore dell’occultamento doloso del danno ed il responsabile del danno erariale non vi sia una coincidenza. In altre parole, la norma giustifica l’inerzia dell’Amministrazione quando oggettivamente si è verificato comunque un comportamento doloso che non ha consentito all’Amministrazione di far valere le proprie ragioni se non dal momento stesso in cui il fatto dannoso è stato scoperto. Il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione nella fattispecie in giudizio è stato così fatto coincidere con il momento in cui il fatto dannoso è stato scoperto, ossia da quando la Polizia Tributaria di Como il 19 dicembre 1997 ha rilevato la contabilizzazione di somme maggiori da parte dell’Impresa appaltatrice rispetto ai lavori effettivamente svolti. Nel merito, il Collegio ha osservato che lo stesso giudice penale con la sentenza di assoluzione n. 1992/2000, che peraltro è stata invocata dall’Appellante, ha evidenziato che il Direttore dei lavori, ha contribuito materialmente, me- GIURISPRUDENZA•SINTESI diante la contabilizzazione dei pali per una lunghezza superiore a quella fatturata e dei corrispondenti quantitativi di ferro, alla consumazione del delitto di truffa (reato cui è stato condannato l’Appaltatore). L’appaltatore, in altre parole, ha conseguito un ingiusto profitto con pregiudizio per le finanze dell’Amministrazione a seguito di un esborso di denaro superiore a quello dovuto per una contabilizzazione di maggiori quantitativi. E tutto questo è stato possibile proprio perché il Direttore dei lavori, ha tenuto una condotta gravemente negligente consistente nel non aver provveduto a tenere a regola d’arte il libretto delle misure e con una superficialità delle stesse verifiche. L’impresa appaltatrice proprio di queste negligenze ha potuto avvantaggiarsi e conseguire l’ingiusto profitto, a danno dell’Amministrazione. A tal uopo i giudici hanno osservato che a responsabilità del direttore dei lavori è ben definita dall’art. 124 del d.P.R. n. 554/1999, ovverosia lo stesso direttore ha la responsabilità di tutto l’ufficio dei lavori e dell’accettazione dei materiali sulla base dei controlli eseguiti. Anche in precedenza la responsabilità del direttore dei lavori era puntualmente disciplinata dal R.D. n. 350 del 1895, e cioè a dire il direttore dei lavori deve assumere ogni iniziativa ed effettuare ogni controllo affinché i lavori siano eseguiti a regola d’arte ed in conformità al progetto ed al contratto. Ancorché la presenza del direttore dei lavori non sia necessariamente continua presso il cantiere, tuttavia l’insufficienza dei controlli e soprattutto la mancata istituzione del libretto delle misure, che è stata rilevata anche nella sentenza penale di assoluzione, costituiscono elementi sufficienti alla sussistenza della colpa grave. Pertanto il Collegio ha ritenuto sussistessero tutti gli elementi soggettivi e oggettivi della responsabilità amministrativa del Direttore dei Lavori. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1151 INTERVENTI•LAVORO Atti e comportamenti vessatori L’Inail e la tutela previdenziale del danno da mobbing di GUGLIELMO CORSALINI* Il danno da mobbing rappresenta un’ipotesi particolare rispetto a quella più ampia del pregiudizio comunque riconducibile all’eventuale nocività dell’organizzazione del lavoro. Nel sistema di sicurezza sociale, allora, ai fini della protezione previdenziale, conta soltanto la sussistenza di una patologia riconducibile all’attività lavorativa svolta dall’assicurato, per cui non rileva se essa sia stata o meno determinata da comportamenti volontariamente vessatori posti in essere nei confronti del lavoratore. Una volta riscontrata la tecnopatia, essa merita ogni tipo di intervento previsto dalla normativa a tutela degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. 1. Premessa L’Inail non dispone di strumenti utili a impedire o reprimere comportamenti potenzialmente dannosi o, per quello che qui interessa, comportamenti tendenzialmente “mobbizzanti”. L’Ente svolge, invece, un’attività di carattere preventivo che si sostanzia, soprattutto, in attività di carattere formativo e nell’attribuzione di incentivi e vantaggi alle imprese che investono in sicurezza o che riescono, comunque, a garantire un abbattimento degli infortuni e delle malattie professionali dei propri lavoratori; ma la sua funzione principale, oltre alle pur rilevanti attività di cura e riabilitazione, rimane soprattutto quella di indennizzare i lavoratori colpiti da eventi pregiudizievoli collegati all’attività lavorativa svolta, assicurando mezzi adeguati alle loro esigenze di vita (v. art. 38, comma 2 Cost.). Presupposti essenziali ai fini della tutela degli infortuni e delle malattie professionali sono, da un lato, il verificarsi di quella che possiamo genericamente definire “lesione”, dall’altro, la sussistenza di un nesso tra tale pregiudizio ed il lavoro. L’assenza del danno indennizzabile, che può consistere in una inabilità di carattere temporaneo e/o in postumi permanenti e/o anche nella morte dell’assicurato, comporta dunque l’estraneità della fattispecie rispetto all’effettivo raggio di azione dell’assicurazione pubblica. Orbene, considerato che «il mobbing non è una patologia, ma è una situazione (…) non è un problema dell’individuo, ma è un problema dell’ambiente di lavoro (…) non è depressione, ansia, insonnia, gastrite, stress, o quant’altro, ma è la spiegazione di questi disturbi (…) insomma non è l’effetto, ma è la causa!” (1), va subito sottolineato che l’Inail non si interessa del mobbing in sé, ma soltanto del pregiudizio alla salute che da tale situazione eventualmente derivi al lavoratore. In relazione poi al secondo presupposto della tutela, ossia l’esistenza del collegamento tra il danno e l’attività lavorativa, è forse opportuno ricordare che, specie nell’ultimo decennio, tale collegamento è stato interpretato in senso molto ampio, giungendo così ad una notevole estensione dell’ambito di intervento del sistema di protezione sociale. Invero, secondo la vetusta teoria del carattere assicurativo della tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, il pregiudizio subito dal lavoratore sarebbe meritevole di protezione soltanto in presenza del rischio specifico in rapporto al quale viene pagato il premio assicurativo. Questa concezione, però, nonostante dottrina (2) e giurisprudenza continuino spesso a far riferimento al “rischio professionale”, sembra ormai superata nei fatti; basterà pensare alla protezione accordata all’infortunio in itinere, evento assolutamente indipendente dal rischio in relazione al quale vengono corrisposti i contributi, ed alla tutela di soggetti, come le casalinghe o gli studenti, che non possono neppure essere considerati lavoratori in senso stretto, per poter affermare che oggi, ai fini della garanzia previdenziale, si può serenamente prescindere dalla professionalità del rischio (3). Ormai, perciò, la nozione di causa lavorativa è atta a ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale, ma anche la nocività riconducibile all’organizzazione delle attività lavorative. Ecco, allora, che anche il pregiudizio derivante dalla cattiva organizzazione del lavoro - voluta e non - trova spazio nel sistema di protezione sociale. Note: * Avvocato - Professore a contratto presso l’Università di Macerata. (1) V. H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002, 11. (2) Cfr., tra gli altri, Pontrandolfi, Il mobbing e l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in Riv. inf. e mal. prof., 2002, I, 19 ss. (3) Cfr. Corsalini, Gli infortuni sulle vie del lavoro, Padova, 2005, 10 s. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1153 INTERVENTI•LAVORO 2. Tutela previdenziale del danno da “costrittività organizzativa” In questo senso, si può affermare che il mobbing viene tutelato quale espressione estrema di quel fenomeno più generale che viene chiamato “disfunzione dell’organizzazione di lavoro” o, anche, “costrittività organizzativa” (4). Più in particolare, il mobbing, secondo la definizione della Corte Costituzionale, è quel «complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione, finalizzati all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo» (sent. 19 dicembre 2003, n. 359) (5); si tratta quindi di una situazione caratterizzata dalla sistematicità e durata considerevole delle azioni persecutorie e dalla loro destinazione alla distruzione psicologica, sociale e professionale della vittima. Se, quindi, nel mobbing la condotta dell’autore è proprio volta ad emarginare, umiliare, aggredire la vittima (per cui si sostiene dai più che si sarebbe in presenza dell’elemento soggettivo qualificabile come “dolo specifico”), questo elemento soggettivo non appare presente ed indispensabile in tutte le situazioni di “costrittività organizzativa” che determinano disagi e difficoltà al lavoratore: può capitare, per esempio, che il datore di lavoro ponga in essere una serie di atti (anche omissioni), che nel loro complesso finiscono per penalizzare o emarginare il proprio dipendente, e ciò faccia solo per negligenza o scarsa attenzione; del resto, il lavoratore potrebbe trovarsi a svolgere la sua opera in condizioni disagiate, non perché qualcuno voglia pregiudicarlo, ma soltanto perché l’impresa ove lavora non dispone di strutture o attrezzature idonee; in caso di pluralità di autori di comportamenti vessatori, poi, ognuno di essi potrebbe agire anche senza la consapevolezza dell’attività concorrente degli altri e, quindi, senza la coscienza del carattere lesivo del proprio gesto. Correttamente, allora, l’intervento del sistema di sicurezza sociale non solo nell’ipotesi del mobbing, ma in ogni caso in cui la cattiva organizzazione del lavoro abbia determinato un danno (indennizzabile) al lavoratore, era stato espressamente disciplinato dalla circolare n. 71 del 17 dicembre 2003. Tale provvedimento, però, è stato ritenuto illegittimo dal T.a.r. del Lazio con sentenza del 4 luglio 2005, n. 5454, fortemente criticata dalla dottrina (6) ed attualmente sottoposta a giudizio di impugnazione. In ogni caso, tuttavia, com’è stato autorevolmente affermato, «l’impatto dell’annullamento della circolare dell’Inail sarà probabilmente modesto» (7); infatti, anche a prescindere da detta circolare, la protezione previdenziale del danno da mobbing e, più in generale, del danno da “costrittività organizzativa” trova la sua fonte nella stessa disciplina della tutela degli infortuni e delle malattie professionali, almeno così come si è evoluta adeguando- 1154 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 si ai principi costituzionali di ampia protezione del lavoratore. In sostanza il danno da “costrittività organizzativa” non può avere un trattamento deteriore rispetto a quello riservato a qualunque altra malattia professionale non tabellata. 3. Danno da “costrittività organizzativa” come malattia professionale Si tratta, in effetti, di malattia professionale, anche se non può escludersi a priori che in taluni casi il pregiudizio da cattiva organizzazione del lavoro possa configurarsi quale infortunio sul lavoro. L’infortunio, come noto, si Note: (4) Una tipizzazione dei comportamenti vessatori e discriminatori sul lavoro era stata da tempo tracciata dalla dottrina e, più di recente, indicata dall’art. 2 della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 359/2003, cit.). Un’esemplificazione di quelle che vengono designate come “disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”, o situazioni di “costrittività organizzativa”, è stata prevista dal decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 27 aprile 2004 (pubblicato sulla G.U. 10 giugno 2004, n. 134), che sul punto ha sostanzialmente ricalcato la circolare INAIL - concernente proprio i “disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro” - del 17 dicembre 2003, n. 71. In base a tale d.m., il mobbing si può estrinsecare nelle seguenti condotte: – marginalizzazione dalla attività lavorativa, svuotamento delle mansioni, mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata, mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, ripetuti trasferimenti ingiustificati; – prolungata attribuzione di compiti dequalificanti o con eccessiva frammentazione esecutiva, rispetto al profilo professionale posseduto; – prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, anche in relazione ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici; – impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie; – inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; – esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale; – esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo; – altre assimilabili. Non sembra possano invece essere ricondotti al mobbing, come precisato dall’INAIL nella circolare citata, quei fattori organizzativo-gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di lavoro (nuova assegnazione, trasferimento o legittimo licenziamento) e le situazioni indotte dalle dinamiche psicologiche-relazionali comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita, ossia quelle conflittualità interpersonali e difficoltà relazionali che fanno parte dei normali rapporti umani. Si ritiene allora condivisibile, in tal senso, la decisione del giudice di merito, confermata dal Supremo Collegio (sent. 8 agosto 1997, n. 7380), con la quale è stata esclusa l’illiceità del comportamento del datore di lavoro che, nel corso di una cena con la segretaria, le aveva dichiarato il suo d’amore e, dopo averle regalato un anello, aveva tentato di darle un bacio. D’altra parte, lo stress e il disagio del lavoratore potrebbero anche dipendere da comportamenti legati esclusivamente alla sua personalità, al suo carattere, al suo spirito competitivo; l’ambizione, l’aspirazione alla ricchezza ed al potere, purtroppo, fanno parte della fragilità della natura umana, e, quando finiscono per rappresentare la ragione principale di rivalità, frustrazione, sofferenza e malattia, non possono comportare il diritto alla tutela (“chi è causa del suo mal pianga sé stesso”). (5) Cfr. anche, da ultimo, Cass. 6 marzo 2006, n. 4774. (6) V. Giubboni, L’INAIL e il mobbing, in Riv. dir. sic. soc., 2005, n. 3, 561 s. (7) V. Giubboni, op. cit., 571. INTERVENTI•LAVORO ha quando la lesione deriva da una causa violenta, con i caratteri della rapidità (massimo una giornata lavorativa) e della estrinsecità, in occasione di lavoro. Orbene, quando un danno deriva da un singolo, magari grave, comportamento di “costrittività organizzativa” o mobbizzante (si pensi all’ipotesi del licenziamento in tronco illegittimo, che produca un’eccezionale reazione emotiva nel lavoratore, tale da provocare un ictus o un infarto, oppure da indurlo al suicidio), almeno in questo caso l’evento dovrebbe più propriamente configurasi come infortunio. Del resto, un’apertura in tal senso si evinceva nella stessa circolare dell’Inail sopra ricordata, nel punto in cui si precisava che le fattispecie che si caratterizzano in termini di «evento acuto (…) devono trovare naturale collocazione nell’ambito dell’infortunio lavorativo». Normalmente, però, la fattispecie meglio si colloca nell’ambito delle malattie professionali in quanto, come si è già detto, le disfunzioni dell’organizzazione del lavoro consistono in situazioni di lunga durata, che possono progressivamente incidere sulla salute della vittima e, come noto, si parla proprio di tecnopatia quando la patologia deriva da una causa lenta e sussiste un vero e proprio nesso eziologico (non di semplice occasionalità) con l’attività lavorativa svolta. La malattia conseguente a “costrittività organizzativa”, naturalmente, è da considerarsi ad origine multifattoriale e, come tale, necessita di concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via probabilistica, circa la sussistenza della sua connessione causale con il lavoro. 4. (Segue): tecnopatia a denuncia obbligatoria ex d.m. 27 aprile 2004 A questo proposito va ancora sottolineato che tale tecnopatia è stata ricompresa nell’elenco delle malattie allegato al d.m. 27 aprile 2004, emanato in forza dell’art. 10 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38. Proprio con questo art. 10 il legislatore ha recepito definitivamente il così detto sistema misto di tutela delle malattie professionali (introdotto nel nostro ordinamento dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale 18 febbraio 1988, n. 179), in base al quale possono essere considerate tecnopatie, non solo quelle così dette ‘tabellate’(elencate negli allegati dell’art. 3 e 211 del T.U. 1124/65), ma anche tutte le altre di cui sia dimostrata la causa lavorativa. È vero che l’elenco allegato al d.m. del 27 aprile 2004 riguarda le malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi dell’art. 139 T.U. (e non le malattie tabellate in senso proprio), ma comunque queste malattie vanno tenute sotto osservazione anche ai fini della revisione delle tabelle di cui agli artt. 3 e 211 citati. L’elenco è stato suddiviso in tre liste: I) malattie la cui origine lavorativa è di elevata probabilità; II) malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità; III) malattie la cui origine lavorativa è possibile. Le malattie psichiche e psicosomatiche derivanti da “costrittività organizzativa” sono inserite nella lista II); con questa collocazione assegnata a tali patologie, quantunque l’assicurato non possa avvalersi della presunzione legale d’origine, di certo egli sarà agevolato nell’onere di fornire la prova della sussistenza del nesso eziologico tra le affezioni stesse, ritenute appunto di probabile origine lavorativa, e le disfunzioni dell’organizzazione del lavoro nelle quali sia stato eventualmente coinvolto. D’altra parte, una volta chiarito, come sopra si è tentato di fare, che il danno derivante da cattiva organizzazione del lavoro merita tutela a prescindere dalla configurabilità della fattispecie come mobbing, si dovrebbe giungere ad un ulteriore alleggerimento dell’onere probatorio in capo al lavoratore; non appare, infatti, indispensabile la dimostrazione particolarmente difficoltosa dell’elemento soggettivo del “dolo specifico”, ossia della volontarietà delle vessazioni subite nell’ambiente lavorativo, essendo sufficiente che il lavoratore provi che si sono verificate situazioni di “costrittività organizzativa” con riflessi negativi sulla sua salute, indipendentemente dalle intenzioni del datore di lavoro o dai suoi preposti e collaboratori (8). 5. Pregiudizio indennizzabile Il danno che può derivare dalla difettosa organizzazione del lavoro può essere più o meno grave, in considerazione delle specifiche situazioni e delle capacità di resistenza e reazione di chi lo subisce; si può verificare l’insorgenza nel lavoratore di disturbi di vario tipo e, a volte, di patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress post-traumatico; si può pervenire poi, nei casi più gravi, al compimento da parte della vittima di atti di autolesionismo, fino al suicidio. L’assicurato può patire allora un danno patrimoniale, come pregiudizio alle capacità professionali o, comunque, alla vita professionale, consistente nella cessazione dell’attività lavorativa o magari soltanto nella perdita di chances; inoltre, può anche subire un danno biologico, per le conseguenze psicosomatiche derivanti dalle angherie ricevute; può, infine, risentire un danno morale, tradizionalmente inteso come sofferenza psichica e patema d’animo (9). Nella lista II, sopra richiamata, gruppo 7, vengono indicate come malattie psichiche e psicosomatiche da costrittività organizzative soltanto: a) il disturbo dell’adattamento cronico (con ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta e/o della emotività, disturbi somatiformi); b) il disturbo post-traumatico cronico da stress. Dovendo allora procedere alla valutazione del danno biologico in ambito Inail (il cui indennizzo, come Note: (8) Sull’onere della prova nelle cause di mobbing cfr., da ultimo, Cass. 25 maggio 2006, n. 12445; Cass., sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572, in questa Rivista, 2006, 852 ss., con nota di Malzani, Il danno da demansionamento professionale e le Sezioni Unite. (9) Cfr., a proposito di un caso di dequalificazione professionale, Cass., sez. lav., 26 maggio 2004, n. 10157, in Giust. civ. Mass., 2004, 5. DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1155 INTERVENTI•LAVORO noto, è stato introdotto ad opera dell’art. 13 del decreto n. 38/2000), per tali patologie, tenendo conto della tabella delle menomazioni di cui al d.m. 12 luglio 2000, sembrerebbe consentito utilizzare esclusivamente le due voci che attengono entrambe al solo disturbo post-traumatico da stress cronico, di grado moderato (voce 180) e di grado severo (voce 181); stando così le cose, poiché dette voci prevedono una quantificazione dei postumi, rispettivamente, fino al sei e fino al quindici per cento, si potrebbe arrivare a riconoscere all’assicurato solamente un indennizzo in capitale del danno e mai una rendita (che viene accordata per postumi pari o superiori al sedici per cento). In realtà, le possibili conseguenze della cattiva organizzazione dell’attività lavorativa non sono solo quelle indicate nella lista, ma, come già rilevato, potrebbero essere molteplici, compreso, nei casi estremi, la stessa morte del lavoratore; la lista delle malattie di cui al d.m. del 27 aprile 2004, allora, ad avviso di chi scrive, non può impedire il riconoscimento di altri eventuali danni che l’interessato dimostri essere derivati dalle angherie subite sul lavoro o, più in generale, dalle situazioni di costrittività, in quanto una tale preclusione sarebbe in contrasto con i principi fondamentali di tutela del lavoratore. Da ciò discende che ogni prestazione di legge (indennità di temporanea, indennizzo del danno biologico in capitale ed in rendita, assegno funerario, rendita ai superstiti, ecc.) deve essere garantita all’assicurato. 6. Tutela previdenziale e tutela civilistica del danno Naturalmente la protezione previdenziale dell’evento non può pregiudicare il diritto del lavoratore ad ottenere l’integrale ristoro del danno subito, come garantito dalla normativa civilistica (10). Difatti, le prestazioni previste dal sistema di sicurezza sociale non hanno lo scopo di risarcire il danno nell’esatta misura in cui si è prodotto, bensì assolvono ad una funzione sociale, essendo, come già detto, finalizzate a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore (art. 38 Cost.) e, quindi, a liberare rapidamente il lavoratore dal bisogno conseguente all’infortunio o alla malattia, sulla base di una logica transattiva (11). Se, di conseguenza, con l’introduzione della tutela previdenziale del danno biologico, si è pervenuti ad una più ampia tutela del lavoratore infortunato, permane, tuttavia, una sostanziale differenza tra sistema indennitario e sistema risarcitorio; ciò, non solo perché risulta diversa la quantificazione del danno biologico nei due ambiti di protezione, ma anche perché la tutela civilistica garantisce il ristoro di pregiudizi non indennizzati dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, che sono rappresentati dalle menomazioni permanenti di grado inferiore al minimo indennizzabile (danno in franchigia), dal danno morale, dal danno biologico temporaneo, dal danno biologico da morte subito dai superstiti, dalle congrue spese mediche per le quali non è previsto il rimborso da parte dell’Ente previden- 1156 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 ziale, e, almeno parzialmente, dal pregiudizio alla capacità lavorativa specifica (12). Quindi, nel caso in cui il datore di lavoro non possa avvalersi dell’esonero da responsabilità (di cui all’art. 10, comma 1, T.U. 1124/1965), come avviene normalmente in caso di danno provocato da cattiva organizzazione del lavoro e, ancor più, da mobbing (13), al lavoratore infortunato non deve essere preclusa la stessa integrale tutela spettante a qualsiasi altro cittadino, con il conseguente concorso tra protezione previdenziale e tutela civilistica dell’evento. 7. Conclusioni In conclusione, sembra si possa sostenere che la tutela previdenziale del danno da “costrittività organizzativa”, almeno in via di principio, sia del tutto adeguata. Più in generale, nel nostro ordinamento appaiono già validi ed efficaci gli strumenti di protezione del lavoratore da ogni ipotesi, dolosa o colposa, di cattiva organizzazione del lavoro. Non si può tuttavia pretendere, richiamando quanto sostenuto in altra occasione da chi scrive (14), che il sistema di tutela giuridico giunga a contrastare ogni disagio e sofferenza comunque presenti nel mondo del lavoro; non si può chiedere allo Stato, come pure da qualcuno suggestivamente sostenuto (15), di garantire persino il diritto alla felicità del lavoratore. Pur non volendo aderire al pessimismo cosmico del Poeta, che tanto si è occupato del desiderio di felicità dell’uomo, secondo il quale dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale (16), si deve accettare l’idea che spesso il dolore e la malattia sono situazioni estranee ad ogni sistema giuridico di tutela; piaccia oppure no, si è costretti a riconoscere che il travaglio usato non può essere ogni giorno e per tutti i lavoratori motivo di gioia. Note: (10) Cfr. Corsalini, La tutela del danno biologico da parte dell’INAIL tra novità e continuità, in Riv. inf. e mal. prof., 2002, I, 11 ss. (11) V., tra le altre, Corte cost. 21 novembre 1997, n. 350, in questa Rivista, 1998, 141, con nota di D. Poletti, Nuovo invito della Consulta per la riforma dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le tecnopatie. (12) Cfr. Corsalini, Gli infortuni sulle vie del lavoro, cit., 146 s. (13) Cfr., ancora, Cass. 6 maggio 2006, n. 4774. (14) Cfr. Corsalini, Il mobbing: tutela giuridica e protezione previdenziale, in Dir. e giust., 2004, n. 33, 89 s. (15) Cfr., tra gli altri, Mattiuzzo, Il diritto alla felicità sul posto di lavoro, in Lav. giur., 2003, 722 ss. (16) Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. INDICI Venturelli Alberto Danno per irragionevole durata del processo............... 1061 INDICE DEGLI AUTORI Batà Antonella Osservatorio di legittimità............................................. 1145 Bastianon Stefano Tutela antitrust del consumatore finale........................ 1134 Bona Marco Itinerari della giurisprudenza - Quantum del danno patrimoniale e liquidazione equitativa ......................... 1073 Cassano Giuseppe La responsabilità dell’ente previdenziale per danno esistenziale ...................................................................... 1142 Corsalini Guglielmo L’Inail e la tutela previdenziale del danno da mobbing 1153 Cuocci Valentina V. La responsabilità per il danno da autolesione - Danno autoprocuratosi dall’allievo e responsabilità dell’istituto scolastico................................................................. 1083 Finocchiaro Giuseppe Il litisconsorzio nell’azione diretta verso l’assicurazione r.c.a............................................................................. 1129 Foffa Roberto Animali selvatici e responsabilità allo stato brado...... 1093 INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI Giurisprudenza Corte di cassazione Civile 18 novembre 2005, n. 24456, sez. III............................ 25 novembre 2005, n. 24895, sez. III............................ 11 gennaio 2006, n. 264, sez. III ................................... 7 aprile 2006, n. 8229, sez. I .......................................... 5 maggio 2006, n. 10311, sez. un. ................................. 28 giugno 2006, n. 14977, sez. I.................................... 6 luglio 2006, n. 15383, sez. III ..................................... 7 luglio 2006, n. 15522, sez. III ..................................... 1081 1091 1099 1112 1123 1148 1145 1147 Corte d’appello 9 febbraio 2006, n. 374, Napoli, sez. I .......................... 1133 Tribunale 18 aprile 2006, Lecce..................................................... 1140 Corte dei Conti 20 luglio 2006, n. 270, sez. II......................................... 1150 Tribunale amministrativo regionale 28 agosto 2006, n. 1397, Calabria, sez. dist. Reggio Calabria........................................................................... 1149 29 agosto 2006, n. 7719, Lazio, sez. Roma ................... 1149 Frumento Luca Intermediazione mobiliare e apparenza del diritto ...... 1116 Gioia Gina Osservatorio sulla giustizia amministrativa.................. 1149 Guerreschi Gianluca La diligenza professionale del notaio: obblighi di visura e informazione............................................................ 1107 Perna Teresa La responsabilità per il danno da autolesione - Il debole confine tra la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale: il “contatto sociale” in ambito scolastico............................................................ 1084 Prati Luca Le criticità del nuovo danno ambientale: il confuso approccio del “Codice dell’Ambiente” ........................ 1049 Ronchi Enzo La formazione del consulente tecnico.......................... 1056 Spirito Angelo Osservatorio di legittimità............................................. 1145 INDICE ANALITICO Circolazione stradale Il litisconsorzio nell’azione diretta verso l’assicurazione r.c.a. (Cassazione civile, sez. un., 5 maggio 2006, n. 10311), con commento di Giuseppe Finocchiaro.......... 1123 Cose in custodia Nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato (Cassazione civile, sez. III, 6 luglio 2006, n. 15383), Osservatorio di legittimità............................... 1145 Danni cagionati da animali Animali selvatici e responsabilità allo stato brado (Cassazione civile, sez. III, 25 novembre 2005, n. 24895), con commento di Roberto Foffa ...................... 1091 Danni non patrimoniali Le criticità del nuovo danno ambientale: il confuso approccio del “Codice dell’Ambiente”, di Luca Prati... 1049 Danno esistenziale La responsabilità dell’ente previdenziale per danno esistenziale (Tribunale di Lecce 18 aprile 2006), con commento di Giuseppe Cassano .................................... 1140 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 1157 INDICI Equa riparazione Quantum del danno patrimoniale e liquidazione equitativa, a cura di Marco Bona.......................................... 1073 Danno per irragionevole durata del processo, a cura di Alberto Venturelli......................................................... 1061 Lavoro L’Inail e la tutela previdenziale del danno da mobbing, di Guglielmo Corsalini................................................... 1153 Responsabilità dei maestri e precettori La responsabilità per il danno da autolesione (Cassazione civile, sez. III, 18 novembre 2005, n. 24456), con commento di Valentina V. Cuocci e Teresa Perna......... 1081 Responsabilità della P.A. La semplice iscrizione all’albo degli avvocati del luogo in cui si esercita l’attività di giudice di pace è causa di decadenza (T.a.r. Lazio, sez. Roma, 29 agosto 2006, n. 7719), Osservatorio sulla giustizia amministrativa.............................................................................. 1149 Responsabilità del medico La formazione del consulente tecnico, di Enzo Ronchi 1056 Responsabilità professionale La diligenza professionale del notaio: obblighi di visu- 1158 DANNO E RESPONSABILITÀ N. 11/2006 ra e informazione (Cassazione civile, sez. III, 11 gennaio 2006, n. 264), con commento di Gianluca Guerreschi . 1099 Risarcimento del danno Perdita di chance nell’attività lavorativa (Cassazione civile, sez. III, 7 luglio 2006, n. 15522), Osservatorio di legittimità ....................................................................... Risarcimento del danno all’immagine derivante da protesto cambiario (Cassazione civile, sez. I, 28 giugno 2006, n. 14977), Osservatorio di legittimità ............. Responsabilità contabile del direttore dei lavori (Corte dei Conti, sez. II, 20 luglio 2006, n. 270), Osservatorio sulla giustizia amministrativa................................... Sul danno da perdita di chance (T.a.r. Calabria, sez. dist. Reggio Calabria, 28 agosto 2006, n. 1397), Osservatorio sulla giustizia amministrativa ............................... 1147 1148 1150 1149 Tutela dei consumatori Tutela antitrust del consumatore finale (Corte d’appello di Napoli, sez. I civ., 9 febbraio 2006, n. 374), con commento di Stefano Bastianon..................................... 1133 Tutela dei risparmiatori Intermediazione mobiliare e apparenza del diritto (Cassazione civile, sez. I, 7 aprile 2006, n. 8229), con commento di Luca Frumento......................................... 1112