Il melodramma
Origini ed evoluzioni
(I primi due secoli di storia: dal 1600 alla fine del 1700)
A differenza di altri generi e forme musicali, per l’opera lirica (o melodramma) abbiamo una data e
un luogo specifico di nascita: Firenze, 1600. Risalgono infatti a questa data e a questo luogo quelle
che per convenzione vengono considerate le prime due opere liriche della storia della musica
ovvero l’Euridice di Jacopo Peri e l’Euridice di Giulio Caccini, entrambe composte, a Firenze, sul
medesimo libretto che era stato scritto dal poeta Ottavio Rinuccini.
Prima di allora, caratteristica della musica d’arte – sia profana (si pensi ai madrigali), sia sacra – era
quella di essere musica polifonica, ovvero costituita dall’intreccio di più voci (vocali o strumentali)
sovrapposte, ognuna dotata della propria linea melodica autonoma, senza rapporti di
melodia/accompagnamento: ...tutte voci alla pari, insomma, nessuna più importante di un’altra.
[→ Come esempio di stile polifonico, abbiamo ascoltato in classe un Madrigale di Carlo
Gesualdo]
Due aspetti tipici della scrittura musicale polifonica iniziarono però, verso la fine del
Cinquecento, ad essere messi in discussione, ovvero:
- l’intreccio polifonico di più voci autonome rendeva quasi impossibile comprendere il
testo che veniva cantato;
- nella musica polifonica si rilevava la difficoltà di comunicare le emozioni (o, come
venivano chiamate allora, gli affetti), giacché l’affetto, essendo legato alla sfera individuale,
personale, soggettiva, difficilmente poteva essere veicolato da un intreccio di voci distinte,
appartenenti a un gruppo composto da persone diverse: l’interiorità di ogni individuo ha
infatti un suo specifico affetto, un suo proprio modo di vivere quell’emozione, diverso da
quello di ogni altro individuo.
Di questi due problemi si discuteva negli ultimi decenni del Cinquecento a Firenze, nella casa del
Conte Bardi, dove si ritrovano vari intellettuali e musicisti dell’epoca in quella che fu definita la
‘Camerata dei Bardi’. Tra di essi vi era anche Vincenzo Galilei, padre dello scienziato Galileo
Galilei.
Quello su cui essi si trovarono concordi fu l’intuizione di come entrambi gli aspetti
problematici si sarebbero risolti passando dalla polifonia alla monodia accompagnata, ovvero a
un tipo di canto affidato a una voce singola sostenuta da un accompagnamento.
Le loro riflessioni accoglievano tra l’altro dei fermenti che già da tempo si ravvisavano nella
musica: sempre più spesso, ad esempio, i madrigali scritti per essere cantati a più voci venivano
eseguiti affidando le voci più gravi a un liuto o a un clavicembalo (come fossero un
accompagnamento strumentale) e cantando quindi soltanto la voce più acuta, andando a realizzare
una sorta di monodia accompagnata. C’era inoltre l’esempio della musica popolare, ambito in cui,
ovviamente, il tipo di canto era nella gran parte dei casi monodico.
Gli intellettuali della Camerata dei Bardi nel loro appoggiare la monodia accompagnata si
rifacevano inoltre al prestigioso teatro tragico degli antichi greci (considerati modello sommo da
seguire e imitare) che si riteneva fosse una forma teatrale in cui gran parte dei dialoghi e monologhi
dei personaggi venissero cantati anziché recitati (si pensi a titoli come Edipo re di Sofocle o Medea di
Euripide).
È da tutte queste riflessioni e da tutti questi stimoli che nasce l’idea del “recitar
cantando”: ovvero di un dramma in cui (secondo il modello già dell’antico teatro greco) i
personaggi anziché recitare le loro battute, le cantano. Un dramma, quindi, tutto in musica: il
melodramma.
In tal modo, visto che si tratta di canto a una voce sola, le parole diventano comprensibili e,
soprattutto, è possibile veicolare le emozioni, gli affetti suscitati di volta in volta dal testo poetico che
si sta intonando.
E qual è lo stile del ‘Recitar cantando’? La linea vocale tende, volutamente, a essere poco
melodica, una via di mezzo tra il recitare e il cantare: vuole infatti essere una sorta di amplificazione
della naturale musicalità del linguaggio parlato; l’impressione è quella di una recitazione parlata un
po’ più musicale, un po’ più espressiva.
Affinché la voce solista sia valorizzata al massimo, è inoltre necessario che
l’accompagnamento sia molto leggero e, nello stesso tempo, elastico, in grado di sostenere al meglio
tutti i cambi di emozione che il cantante esprime nel suo ‘recitar cantando’ e di assecondarli. Viene
per questo motivo inventato – parallelamente alla monodia accompagnata (e dunque al
melodramma) – un nuovo modo di accompagnare, ovvero il basso continuo.
Il basso continuo è una linea di accompagnamento, scritta su un solo pentagramma in
chiave di basso, che accompagna la melodia dall’inizio alla fine (ecco perché ‘continuo’). Per il basso
continuo non viene specificato lo strumento che deve suonarlo: sta all’esecutore/al direttore
stabilire come eseguire la linea del basso (un violoncello, ad esempio, o un liuto, un clavicembalo,
un organo, un’arpa o anche combinazioni di più strumenti insieme), a seconda dell’atmosfera
espressiva che si vuole creare, e magari anche arricchendo la linea del basso con variazioni, accordi
e arpeggi ecc.
I primi melodrammi (così l’Euridice di Peri come quella di Caccini composte nel 1600)
vennero dunque scritti su due soli righi, trattandosi di ‘Recitar cantando’:
- sul rigo superiore la melodia (e le parole) intonata dal cantante;
- nel rigo inferiore, scritto in chiave di basso, la linea del basso continuo, da eseguire con gli
strumenti che più si ritenevano opportuni.
Fin da subito il nuovo genere del melodramma suscitò aspre critiche. In molti sottolineavano come
fosse assurdo concepire un dramma in cui i personaggi anziché parlare cantavano; ...e anche per
rispondere a tali critiche i compositori scelsero volutamente nelle prime opere delle trame ispirate a
vicende mitologiche, aventi come personaggi dei o semidei, ninfe dei boschi, pastori di epoche
leggendarie ecc.: in tal modo, infatti, era più facile giustificare che – trattandosi di ambientazioni
mitologiche, leggendarie, favolose – i personaggi comunicassero fra di loro in ‘recitar cantando’.
È inoltre indicativo che molte delle prime opere avessero come argomento (basti pensare
alle due Euridice composte nel 1600 e poi all’opera di Monteverdi del 1609) il mito di ‘Orfeo e
Euridice’: scelta non casuale giacché si tratta del mito che più di ogni altro celebra la musica e la
capacità della musica di comunicare e suscitare sentimenti. Euridice è morta e Orfeo riesce grazie
alla musica a compiere ciò che nessun uomo è mai riuscito a fare: sconfiggere la morte, attraversare
la barriera che separa la vita e morte (Orfeo è un cantore ed è col proprio canto che riesce a
convincere il guardiano degli Inferi a lasciarlo entrare nel regno dei morti per riportare in vita
l’amata Euridice).
***
Le prime opere vengono rappresentate nelle corti, all’interno dei palazzi, in occasioni di feste
principesche (matrimoni, avvenimenti speciali ecc.). Particolarmente appassionati al nuovo genere
del melodramma sono le corti di Firenze e Mantova. E proprio alla corte dei Gonzaga di Mantova
vanno in scene tre delle opere di cui abbiamo ascoltato dei brani in classe:
-
La Dafne di Marco da Gagliano (1607)
L’Arianna di Claudio Monteverdi (1608)
L’Orfeo di Claudio Monteverdi (1609)
L’Arianna di Claudio Monteverdi è un’opera che purtroppo è andata nella sua interezza perduta. Se
ne conserva un unico brano, ovvero il cosiddetto Lamento di Arianna: il lamento che Arianna canta
dopo che si sveglia, sull’isola di Nasso, e si accorge che nella notte Teseo è salpato abbandonandola.
Il brano è giunto fino a noi perché all’epoca ebbe un successo enorme: le cronache raccontano di
come tutti, nel pubblico, piangessero, turbati e profondamente commossi dalla disperazione di
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Arianna. Il merito di questa reazione commossa del pubblico fu certo dovuto anche alla grande
espressività dell’interprete, ovvero dell’attrice Virginia Andreini, che all’ultimo momento aveva
sostituito la giovane cantante designata per il ruolo di Arianna morta poco prima della prova
generale. Il fatto che Monteverdi decise di affidare la parte a Virginia Andreini, un’attrice (come si è
detto) più che una cantante, è indicativo: nel melodramma delle origini, basato sul ‘recitar cantando’,
ciò che contava era soprattutto il ‘dire’ le parole, recitarle, comunicando emozioni.
→ Ascolto – Lamento di Arianna di Claudio Monteverdi:
http://www.youtube.com/watch?v=DyJy6-IQDOw
Su La Dafne e L’Orfeo ci siamo soffermati per sottolineare come già nel melodramma delle
origini i compositori iniziassero a inserire nelle loro partiture delle sezioni con melodie più
orecchiabili, in forma chiusa (con ripetizioni ecc.), che andassero a interrompere ogni tanto lo stile
del ‘recitar cantando’ che, a lungo andare, poteva risultare monotono. È il caso, nella Dafne di Da
Gagliano, del coro «Odi il pianto e i preghi nostri, o del ciel monarca e re» che intervalla come fosse
un ritornello le strofe intonate dai Pastori (a volte come solisti, a volte in duetto).
→ Ascolto da La Dafne di Marco Da Gagliano:
http://www.youtube.com/watch?v=ZkRJoFKvtsM
[Corrisponde alla partitura in caratteri antichi distribuita in classe: ... inizia in ‘recitar
cantando’ e, dal minuto 2’14’’, cominciano le sezioni più orecchiabili, in forma chiusa, con
la melodia che si ripete e il coro «Odi il pianto e i preghi nostri».]
Così, nell’Orfeo di Motnteverdi, ci sono molti brani che già hanno l’aspetto di vere e proprie arie
(dalla melodia più orecchiabile e in forma chiusa, riconoscibile), come «Vi ricorda, o boschi
ombrosi» intonato da Orfeo nel II atto, costruito come un aria in quattro strofe (A A1 A2 A3), in cui
cambiano le parole, ma la melodia rimane sempre la stessa.
→ Ascolto da L’Orfeo di Claudio Monteverdi – «Vi ricorda, o boschi ombrosi»:
http://www.youtube.com/watch?v=bU681o8BlZs
***
Il grande successo dell’opera lirica fa sì che essa dalle corti di Firenze e di Mantova si propaghi ben
presto in altre corti d’Italia ed Europa. Per parecchio tempo essa rimane però un genere di
spettacolo riservato agli aristocratici, rappresentato esclusivamente nelle corti: ci vorranno più di
trent’anni prima che l’opera lirica diventi accessibile a tutto il pubblico, e ciò avverrà quando –
ormai convinti del gradimento suscitato dal melodramma – si inizieranno a rappresentare le opere
nei teatri, consentendo a tutti di potervi assistere dietro il pagamento del prezzo del biglietto. Si
passerà quindi dalla stagione della cosiddetta ‘opera di corte’ a quella dell’opera ‘mercenaria’, ovvero
a pagamento (si parla in proposito anche di ‘opera impresariale’, perché veniva gestita da degli
impresari come fosse un’impresa, con spese, guadagni ecc.). La prima opera lirica rappresentata in
un teatro a pagamento fu l’Andromeda, che andò in scena nel 1637 al Teatro S. Cassiano di Venezia.
Il fatto che l’opera diventi un genere “di consumo”, che deve mantenersi ‘in attivo’ attraverso le
entrate derivanti dai biglietti venduti, fa sì che i compositori, nello scrivere i loro melodrammi,
cerchino di andare incontro il più possibile a quelli che sono i gusti e le tendenze del pubblico, in
modo da riuscire ad assicurarsi un buon successo (e quindi ingenti guadagni). Da ciò deriva, a
partire della seconda metà del Seicento, il progressivo aumento delle arie all’interno delle opere:
sono infatti le arie i momenti che – com’era prevedibile – il pubblico dimostrava di apprezzare
maggiormente; ...e tali arie sempre più diventano non solo dei momenti di espressività, ma
soprattutto delle occasioni per mirabolanti esibizioni vocali, in cui gli interpreti si cimentano nei più
sensazionali virtuosismi. È in questo periodo che, in linea con tali cambiamenti, acquistano una
sempre maggiore importanza le figure dei cantanti (in particolare castrati), venerati dal pubblico
come fossero delle popstar o rockstar dei giorni nostri.
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3
L’opera della fine del Seicento e di tutto il Settecento è dunque dominata dalle figure dei
cantanti e dall’importanza delle arie.
A livello strutturale si configura come un’alternanza
- di recitativi (nello stile di quello che veniva alle origini denominato ‘recitar cantando’,
quindi con la voce accompagnata da un essenziale basso continuo)
- e di arie (in cui la voce è accompagnata da tutta l’orchestra e in cui la melodia, più
orecchiabile, si organizza in ‘forme chiuse’, con ripetizioni, riprese ecc.).
Se durante i recitativi l’azione prosegue, il tempo scorre (accadono gli avvenimenti), durante le arie è
invece come se il tempo si fermasse: l’aria è una specie di oggettivazione dell’affetto, dell’emozione,
come se noi, durante l’aria (con il tempo che si sospende) potessimo sbirciare nell’anima del
personaggio e conoscere il sentimento (l’affetto che sta provando), e di cui l’aria ci offre una perfetta
descrizione (non a caso le arie sono quasi sempre tripartite, con la forma A B A, come se l’affetto
fosse racchiuso nella sua cornice).
Le arie, proprio perché “rappresentazioni” di un affetto (arie di furore o di tempesta –
incentrate sulla rabbia – o di catene – lamenti dell’eroina imprigionata – ecc.), possono virtualmente
essere anche inserite in opere diverse da quella per cui sono state scritte: da qui il fenomeno delle
cosiddette arie di baule, che si verificava quando un cantante chiedeva di poter cantare in un’opera
un’aria scritta in realtà per un’opera in cui aveva cantato in precedenza e in cui aveva ottenuto
particolare successo.
Il fatto che le arie siano rappresentazioni di affetti standard (ira, furore, nostalgia, amore,
gioia, invidia, rassegnazione, allegria ecc.) fa sì che le opere italiane possano essere comprese, nelle
linee generali della loro trama, anche all’estero, anche da chi non conosce la lingua italiana. È infatti
anzitutto la musica a permettere a chi ascolta di capire quale sia lo stato d’animo del personaggio.
E il vantaggio non è da poco, visto che, fino alla fine del Settecento, l’opera lirica viene composta
ed eseguita in tutta Europa in lingua italiana (salvo rari casi e con l’eccezione della Francia, dove
l’assolutismo nazionalista del re Luigi XIV portò alla creazione di un’opera lirica in francese,
denominata tragédie lyrique).
Di questo periodo della storia del melodramma abbiamo ascoltato brani tratti da varie opere di
Antonio Vivaldi e di Georg Friedrich Handel:
– Da L’Orlando finto pazzo di Vivaldi (Venezia, 1714):
Recitativo + Aria: «Anderò volerò griderò»
→ http://www.youtube.com/watch?v=QrCAKP6J-yo
– Dal Rinaldo di Handel (Londra, 1711):
Recitativo + Aria: «Venti, turbini, prestae»
→ http://www.youtube.com/watch?v=Wsce2rfNf60
→ http://www.youtube.com/watch?v=yAPZlr9aLrY
Aria: «Lascia ch’io pianga»
Lascia ch’io pianga
mia cruda sorte
e che sospiri la libertà.
Il duolo infranga
queste ritorte
dei miei martiri
sol per pietà.
Lascia ch’io pianga...
→ http://www.youtube.com/watch?v=MnBT84764ds
→ http://www.youtube.com/watch?v=vhpD5JbChPQ
→ http://www.youtube.com/watch?v=clqM5ZjvD0M
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– Dal Serse di Handel (Londra, 1734):
Recitativo accompagnato + Aria: «Ombra mai fu»
Frondi tenere e belle
del mio platano amato
per voi risplenda il fato.
Tuoni, lampi e procelle
non v’oltraggino mai la cara pace,
né giunga a profanarvi austro rapace.
Ombra mai fu
di vegetabile,
cara ed amabile,
soave più.
→ http://www.youtube.com/watch?v=N7XH-58eB8c
→ http://www.youtube.com/watch?v=-m225lOjGTg
→ http://www.youtube.com/watch?v=QSoJewajnis
Ascoltando il recitativo che precede l’aria «Ombra mai fu» (il recitativo è presente solo nel terzo dei
link indicati qui sopra, tutti gli altri cominciano direttamente dall’aria) ci siamo accorti che si tratta di
un recitativo particolare: in esso, infatti, la voce è accompagnata non dal solo basso continuo, bensì
dall’orchestra; il compositore non si è dunque limitato a scrivere come accompagnamento la linea
del basso, lasciando agli esecutori di stabilire come suonarla, ma ha scritto dettagliatamente le parti
per tutti i vari strumenti dell’orchestra coinvolti.
Questo tipo di recitativo, in cui la voce è accompagnata dall’orchestra, prende il nome di
recitativo accompagnato; mentre il tradizionale recitativo, per voce e basso continuo (ovvero
quello che abbiamo trovato in tutti gli altri esempi fin qui ascoltati), viene chiamato recitativo
secco.
I recitativi accompagnati iniziano a comparire già nei primi decenni del Settecento, di
norma affidati ai personaggi principali dell’opera e inseriti nei momenti di maggiore pathos e
intensità (di solito ce n’erano uno o al massimo due in tutta un’opera); ma tendono ad aumentare
sempre di più man mano che ci si avvicina alla fine del Settecento. Nei primi decenni dell’Ottocento
i recitativi secchi tenderanno sempre più a diminuire, fino a scomparire del tutto, soppiantati per
intero dai recitativi accompagnati.
L’ascolto di alcuni brani del Don Giovanni di Mozart (1787) ci ha permesso di chiarire
meglio la differenza tra
– recitativo secco (quello cantato da Don Giovanni, «Povera sventurata...», che con una
scusa si allontana perché teme che Donna Anna possa scoprire che è stato lui a tentare di
violentarla);
– recitativo accompagnato (che inizia alle parole «Don Ottavio, son morta!», quando
Donna Anna esprime il suo turbamento: è sconvolta perché ha riconosciuto che colui che
l’ha assalita è Don Giovanni. Il recitativo accompagnato prosegue anche durante il
racconto di Donna Anna dell’accaduto, così da evidenziarne la concitazione);
– aria («Or sai chi l’onore ecc.»), in cui il tempo si sospende (non succede niente): Donna
Anna invita il fidanzato a vendicarla. La potremmo definire un’aria di vendetta, con
struttura tripartita, col da capo (A B A1 + coda).
→ Ascolti:
http://www.youtube.com/watch?v=FlurwfGXJco
Qui trovate la prima sezione in cui si ha il recitativo secco di Don Giovanni cui
segue il recitativo accompagnato in cui dialogano Donna Anna e Don Ottavio;
http://www.youtube.com/watch?v=Wp8UTemmlq8
Qui invece il video inizia direttamente dal recitativo accompagnato cui segue, al
minuto 3’35’’, l’aria «Or sai chi l’onore».
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Appunti sulla nascita e l`evoluzione del melodramma