Notiziario settimanale n. 473 del 14/03/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace 21/03/2014: Giornata in ricordo delle vittime delle mafie. 22/03/2014: Giornata mondiale dell'acqua Per molti, Mario Lodi è e resterà sempre Cipì. Per le tante bambine e bambini, di ieri e di oggi, che sono cresciuti con le gesta del passerotto curioso, protagonista del libro. Per tutti, Mario Lodi era il Maestro all’altezza dei bambini. Il Maestro che parte dai saperi e dalle curiosità dei propri scolari per dare continuità alla conoscenza che ciascuno possiede come patrimonio personale e che arricchisce la scuola, facendola divenire espressione di chi la abita. Mario Lodi era il Maestro capace di ergersi alla statura dei più piccoli, affinché diventassero insieme una comunità di “cittadini responsabili”, primi fautori e dimoranti della Costituzione. Un testo, quello della Carta, che la scuola non doveva (deve) insegnare ma vivere, garantendo il diritto alla parola e all’essere ascoltati, all’uguaglianza e scrivendo, con i cittadini bambini, le regole per una convivenza democratica. Quella che oggi tanto si acclama… la partecipazione dal basso. Ed è stata proprio questa, la raccomandazione che, domenica scorsa, ha lasciato alle sue figlie, e ai suoi collaboratori (tanti, più di quanti si possa immaginare) della Casa delle arti e del Gioco. “Andate avanti”… Un monito che racchiude un’eredità quanto mai necessaria da tramandare. Redazione newsletter Combonifem (06/03/2014) Indice generale sfornato una marea di articoli per manifestare la loro solidarietà agli omosessuali russi perseguitati. Il numero di questi articoli ha sfiorato il ridicolo: in soli due giorni ho contato almeno dieci inviati di vari giornali del mondo nello stesso bar gay di Soci, il Mayak. In un bar gay perfino un solo giornalista deve fare un bello sforzo per non dare nell’occhio, perciò i poveri russi che sono andati lì venerdì 7 e sabato 8 febbraio per bere un bicchiere in pace e flirtare un po’ devono essersi sentiti come animali allo zoo. Ma anche se hanno condannato all’unanimità l’ omofobia di stato russa, i giornalisti dei paesi occidentali si sono guardati bene dal raccontare quello che succede più vicino a noi. L’Istituto canadese per la diversità e l’inclusione ha postato su YouTube un breve video sfacciatamente erotico che ha come protagonisti due uomini e si conclude con la frase “Le Olimpiadi sono sempre state un po’ gay”. La polizia di frontiera canadese, però, non si è dimostrata altrettanto tollerante. La settimana scorsa l’attrice inglese transgender Avery Edison, che era andata a Toronto a trovare la sua compagna, è stata fermata all’aeroporto perché aveva superato il periodo di soggiorno previsto dal visto di studio che le era stato rilasciato in precedenza. E dopo ore di domande ossessive è stata spedita in un carcere maschile. In un tweet spedito dall’aeroporto mentre stavano per portarla via, Edison ha scritto di essere stata trattata in modo “deplorevole”. Viaggiare senza i documenti in ordine non è un reato. E lei non aveva nessuna intenzione di emigrare in Canada. Ma se l’avessero lasciata passare tranquillamente ci sarebbe stato il rischio di vedere da qualche parte due lesbiche che si baciavano. L’omofobia non c’è solo in Russia (di Laurie Penny)................................ 1 Perché le banche non fanno il loro mestiere (di Thomas Fazi)...................2 Il traffico di esseri umani è una holding miliardaria (di Redazione Popoli Webmagazine internazionale dei gesuiti)................................................... 2 Lettera aperta alle ministre Pinotti e Mogherini (di Giorgio Beretta) .........3 La lotta nonviolenta: l’equivalente morale della guerra (di Giorgio Barazza)..................................................................................................... 4 La parola partecipazione svuotata dalla politica (di Gino Buratti) ..............5 Spending review (di Maria G. Di Rienzo).................................................. 6 Corsi, concorsi e scatole rosa (di Maria G. Di Rienzo).............................. 6 8 marzo: le donne nella Resistenza (di Onorina Brambilla Pesce)............7 Siamo proprio sicure? (di Maria G. Di Rienzo).......................................... 7 Cosa succede in Venezuela (di Stefano Femminis).................................... 8 Rivolta in Ucraina, un gesuita racconta (di Popoli - Webmagazine internazionale dei gesuiti).......................................................................... 9 Come sono usate le risorse nel progetto SPRAR Lunigiana (di ARCI Massa Carrara)......................................................................................... 11 Non c’è assolutamente niente di male nel manifestare la propria solidarietà alle transessuali e agli omosessuali russi, che sono discriminati in modo grottesco. Ma gli altri paesi non meritano certo una medaglia per il semplice fatto di essere meno omofobi dei russi. Approfondimenti Un portavoce del ministero ha dichiarato al nostro giornale: “Non espelliamo nessuno che rischia di essere perseguitato per le sue inclinazioni sessuali”. Diritti L’omofobia non c’è solo in Russia (di Laurie Penny) Non c’è niente di male nel dare solidarietà agli omosessuali e ai transessuali russi. Ma gli altri paesi non meritano una medaglia solo perché sono meno omofobi dei russi Prendersi gioco degli omofobi è diventato uno sport nazionale che posso anche condividere. Da quando sono cominciate le Olimpiadi invernali 2014, a Soci in Russia, i mezzi d’informazione di tutti i paesi hanno 1 Per questo tipo di falsa simpatia per i gay, gli attivisti lgbt usano la parola pinkwashing, costruita sul modello di greenwashing, l’ambientalismo di facciata di stati e aziende che vogliono dare di sé un’immagine positiva. Al Regno Unito piace pensare di essere un paese tollerante, ma la Uk border agency, l’agenzia addetta al controllo delle frontiere, è stata accusata dall’organizzazione per la difesa dei diritti degli omosessuali Stonewall di “omofobia sistematica”. Da alcuni documenti del ministero dell’interno emerge chiaramente che le persone bisessuali che presentano domanda di asilo sono sottoposte per ore a interrogatori degradanti da parte di funzionari che fanno domande del tipo: “Cosa ci trova di tanto attraente nel sedere di un uomo?”. Questa affermazione lascerebbe molto perplessa Jacqueline Nantumbwe, una lesbica che ha fatto richiesta di asilo e che quello stesso ministero vuole rimandare in Uganda, dove per il reato di omosessualità è previsto il carcere a vita. Ho parlato con la sua compagna, anche lei ugandese, secondo la quale se tornassero in patria sarebbero “linciate dalla folla”. Il Regno Unito è indubbiamente meno omofobo dell’Uganda, ma questo non significa che può permettersi di trattare i richiedenti asilo omosessuali come criminali. Personalmente, non ho niente contro i mezzi d’informazione, le aziende e i singoli individui che prendono in giro gli omofobi o sventolano la bandiera arcobaleno. È una manifestazione di solidarietà divertente e non costa nulla. Ma il problema è proprio che non costa nulla. Appena c’è qualcosa da pagare, si tirano subito indietro. La bandiera arcobaleno dovrebbe essere un simbolo di protezione. Se un locale la espone, vuol dire che è un rifugio sicuro. Per i paesi occidentali è un’ipocrisia appropriarsene per poi umiliare e arrestare gli omosessuali alle loro frontiere. Mentre sventolano la simbolica bandiera arcobaleno in faccia ai russi, quando le lesbiche, i gay, i bisessuali e le transessuali in carne e ossa arrivano alle loro frontiere e chiedono di essere accolti e protetti, i paesi occidentali li maltrattano e li insultano. Difendere i loro diritti in tutto il mondo è encomiabile ma, se nasce da una convinzione profonda, dovrebbe essere accompagnato da comportamenti coerenti anche in patria. Mentre stava per essere portata in un carcere maschile dell’Ontario, dopo l’umiliante interrogatorio all’aeroporto, Avery Edison ha scritto su Twitter: “Questo rovinerà la mia immagine di ragazza allegra e spensierata”. E i governi occidentali che alle loro frontiere continuano a trattare gli omosessuali come se non fossero esseri umani potrebbero dire la stessa cosa. LAURIE PENNY è una giornalista britannica. È columnist del settimanale New Statesmane collabora con il Guardian. In Italia ha pubblicato Meat market. Carne femminile sul banco del capitalismo (Settenove 2013). Fonte: Internazionale 1039 l 21 febbraio 2014 (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/03/01/lomofobia-non-ce-solo-in-russia-lauriepenny/ Economia Perché le banche non fanno il loro mestiere (di Thomas Fazi) Banche da legare/8 Perdite superiori a quelle dichiarate, nessuna riforma strutturale del sistema e bilanci peggiorati dall'austerity. La Bce riferisce che i prestiti alle imprese e alle famiglie nell'eurozona, soprattutto nei paesi della periferia, continuano a crollare, registrando il calo più drammatico da più di vent'anni a questa parte, alla faccia della tanto sbandierata ripresa: -2.3% in media rispetto all'anno precedente. Particolarmente critico il dato che si riferisce alle imprese: -3.9%. I dati per l'Italia sono da bollettino di guerra: Bankitalia parla di un calo dei prestiti alle imprese del 6% (il dato peggiore degli ultimi dieci anni), mentre i mutui concessi alle famiglie hanno fatto registrare una flessione dell'1.2% su base annua. Confindustria aggiunge che la caduta è stata finora del 10.5% dal picco del settembre 2011, pari a 96 miliardi, e che per il 2014 la contrazione sarà di altri otto miliardi. Come se non bastasse, come ha denunciato recentemente la Cgia di Mestre, i pochi finanziamenti erogati vengono concessi solo alle grandi imprese. Molti si chiedono come sia possibile che nonostante la colossale somma di denaro pubblico messa a disposizione dai governi europei per salvare le banche in seguito alla crisi finanziaria – almeno 4.600 miliardi di euro tra il 2008 e il 2010, secondo i dati della Commissione europea, a cui bisogna sommare i mille miliardi di euro circa di prestiti a bassissimo tasso d'interesse erogati dalla Bce – queste si ostinino a non prestare, o a farlo solo a tassi da usura. Le ragioni sono molteplici. Sono tre le considerazioni da fare. La prima è che la somma di denaro in questione, per quanto enorme – a essa infatti si può ascrivere in buona parte l'aumento del debito pubblico nei paesi della Ue nel triennio 2008-10 e 2 dunque anche la successiva crisi del debito sovrano, in un processo che giustamente è stato definito da molti una «socializzazione del debito privato delle banche», se non un vero e proprio «colpo di stato» rappresenta poco più di una goccia nell'oceano sommerso della finanza. Considerando le dimensioni del settore bancario europeo (350% del Pil), la sua propensione al gioco d'azzardo (per mezzo di derivati e quant'altro) e la sua capacità di occultare i debiti trasferendoli nel cosiddetto «settore bancario ombra», è naturale presupporre che le perdite sostenute dalle banche in seguito alla crisi del 2008 siano ampiamente superiori a quelle dichiarate, e che i trilioni di euro di aiuti statali abbiano rappresentato poco più di una toppa. Secondo un recente studio, infatti, le banche europee sarebbero ancora sottocapitalizzate di circa mille miliardi di euro. Ma si tratta sempre di stime. Quello che serve (e che manca) è anzitutto trasparenza. Questo ci porta alla seconda considerazione. Ossia che dal 2008 ad oggi non è stata effettuata nessuna riforma strutturale del sistema per rimettere le banche al servizio dell'economia reale. Infatti apprendiamo che le banche europee hanno ripreso a scommettere sui mutui subprime americani, hanno ricominciato a cartolarizzare i loro mutui a rischio, distribuendo così i rischi nel sistema e continuano a giocare d'azzardo sul mercato dei derivati (che infatti si stima essere cresciuto di valore dal 2007 ad oggi). La terza considerazione è che la cura letale della repressione fiscale promossa dalla troika Ue-Bce-Fmi sotto la pressione di Berlino non ha fatto che acuire la recessione nei paesi della periferia, peggiorando i bilanci delle imprese (che fanno sempre più fatica a ripagare i debiti contratti con le banche) e di conseguenza i bilanci delle banche stesse, rendendole così ancora più restie a prestare soldi (indifferentemente dalle flebo dei governi e della Bce per tenerle in vita). Gli ultimi dati parlano di un aumento del 22.7% dei crediti di difficile riscossione nel 2013, pari all'incirca a 150 miliardi di euro (Bankitalia stima che possano arrivare presto a 300).Complessivamente le sofferenze adesso corrispondono al 10.5% dei prestiti bancari. In conclusione, risulta evidente che siamo in presenza di un circolo vizioso, e che affidarsi alle banche per uscire da un crisi provocata dalle banche stesse (senza neanche cambiare le regole del sistema finanziario) è un controsenso. In un momento in cui l'economia ha un disperato bisogno di liquidità, è la politica che deve farsi carico di rimettere in circolazione il denaro, per mezzo di politiche fiscali espansive. Ma questo è un altro discorso. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. (fonte: Sbilanciamoci Info) link: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Perche-le-banche-non-fanno-illoro-mestiere-22344 Immigrazione Il traffico di esseri umani è una holding miliardaria (di Redazione Popoli - Webmagazine internazionale dei gesuiti) Il traffico di essere umani è per la criminalità organizzata un lucroso business che, per proventi, è secondo solo allo spaccio di droga. Popoli.info ne ha parlato con Giampaolo Musumeci, autore, insieme al criminologo Andrea Di Nicola, del libro Confessioni di un trafficante di uomini, in uscita in questi giorni Dopo la droga, si tratta del secondo business illegale mondiale, con proventi che si aggirano fra 3 e 10 miliardi di dollari l’anno. È lo smuggling, il traffico di esseri umani. Nel libro Confessioni di un trafficante di uomini (Chiarelettere, 2014, pp. 208, euro 10,20), scritto dal criminologo Andrea Di Nicola e dal giornalista Giampaolo Musumeci, per la prima volta parlano i trafficanti di migranti, svelando i metodi, le rotte, l’organizzazione. I due autori hanno coniugato, in un lavoro durato due anni, l’approccio criminologico-analitico al lavoro on the road percorrendo le rotte dell’immigrazione clandestina dell’Europa e del Mediterraneo. Ne abbiamo parlato con Musumeci. La cattura di uno scafista rappresenta solo la punta di un iceberg. Chi c’è dietro questo traffico? Ci sono gli smugglers, i trafficanti di esseri umani. Lo smuggling è un business gigantesco e come tale va trattato. Il trafficante deve costruirsi una rete di collaboratori, avere mezzi, computer, telefonini, camion, barche, non è un mestiere che s’improvvisa, si può entrare per caso, ma richiede straordinarie doti per affermarsi perché c’è concorrenza, un tariffario, rischi da gestire. Se affonda un barcone di migranti, la reputazione dello smuggler è toccata e rischia di non avere più migranti, cioè lavoro. Il trafficante egiziano El Douly, quarantenne, emergente, che metteva in contatto Egitto e Libia, mi spiegava che non è una organizzazione verticistica, ma fluida, ci sono tanti nodi che compongono una rete flessibile. La rete di smuggling quale metodo utilizza per muovere denaro? Utilizzano l’hawala, un metodo ingegnoso in cui movimentano denaro senza farlo muovere fisicamente. Tutto si basa sulla fiducia, su una rete di dealer (detti nodi), gli hawaladar, e su un codice scritto su un foglietto. Per esempio: per trasferire soldi da Kabul a Roma, si va in un negozio di Kabul, il cui gestore è un hawaladar. A lui si porta denaro contante e in cambio si riceve un codice numerico che si comunica a un contatto a Roma. Quest’ultimo si recherà da un hawaladar romano il quale, dietro verifica del codice, consegna il denaro. Tra i due hawaladar ci sono crediti e debiti che regoleranno tra loro. La rotta verso Lampedusa è quella più conosciuta, ma non la più utilizzata. Quali sono le altre tratte per arrivare in Europa? Sicuramente Lampedusa è la più mediatizzata, ma la maggior parte dei migranti passa da altre frontiere. Sta riaprendo in maniera silenziosa, ma corposa, la frontiera con i Balcani, si passa a piedi nei boschi dalla Slovenia oppure verso l’Austria. Nel 2012-2013 attraverso la frontiera italo-slovena si stima che ci siano stati 35mila ingressi irregolari contro i 24mila via mare. Altro Paese che i migranti hanno preso ad attraversare è la Bulgaria. Anche i nascondigli cambiano: non solo camion, camper, macchine, ma anche, è l’ultima tendenza nel Mediterraneo, yacht di lusso che, guidati da skipper ucraini o georgiani, trasportano i migranti al posto di turisti facoltosi. © FCSF – Popoli (fonte: Popoli - Webmagazine internazionale dei gesuiti) link: http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Il_traffico_di_esseri_umani_e_una_ holding_miliardaria.aspx Industria - commercio di armi, spese militari Lettera aperta alle ministre Pinotti e Mogherini (di Giorgio Beretta) Gentili Ministre, innanzitutto congratulazioni per la nomina al nuovo incarico. Ho pensato di scrivervi questa lettera aperta per segnalarvi alcune istanze che numerose associazioni impegnate per la pace, nel disarmo, nella cooperazione e solidarietà internazionale vanno presentando agli ultimi governi. Si tratta di proposte e iniziative che provengono da associazioni e movimenti che ben conoscete sia per la vostra militanza giovanile sia per i vostri impegni politici successivi. Un mondo quanto mai variegato e multiforme, difficile da incasellare sotto un’unica etichetta. Proprio per questo, questa lettera è solo mia e – seppur lunga – non può riassumere tutte le proposte e soprattutto non intende farsi voce di alcuno, se non del portale Unimondo che da 15 anni quotidianamente informa su questi temi. Il vostro primo atto, significativo e doveroso, è stato telefonare ai due fucilieri della Marina trattenuti in India, Salvatore Girone e Massimiliano 3 Latorre, e qualche giorno dopo incontrare le loro mogli alle quali avete espresso “la determinazione di tutto il Governo a fare tutto il possibile per riportare in Italia i due fucilieri”. Determinazione necessaria, ma che – per essere credibile – non può prestarsi a fraintendimenti. Se infatti, come hanno affermato i vostri predecessori, la questione investe “il riconoscimento dei nostri diritti di Stato sovrano”, penso sia necessario fugare atteggiamenti poco comprensibili se non ambigui: a cominciare dagli interessi delle aziende militari italiane in India, e in particolare di Finmeccanica. Lo dico perché – come sapete – il ministero della Difesa indiano, dopo aver escluso Finmeccanica dal salone Defexpo, non ha fatto mistero dell’indagine che riguarda AgustaWestland, azienda del gruppo Finmeccanica, per il presunto caso di corruzione nella fornitura di 12 elicotteri Aw 101 VIP. Questa commessa è stata congelata ed è seguita anche la sospensione dell’ordinativo di 98 siluri pesanti Black Shark prodotti dalla WASS di Livorno del valore di 300 milioni i dollari. E ieri il ministero della Difesa indiano ha chiesto alla francese Dassault di chiarire se vi siano componenti di aziende del gruppo Finmeccanica nel caccia Rafale che l’India intende acquisire dalla Francia in quanto la legge indiana non permette di acquistare sistemi militari da ditte sotto inchiesta. Non capisco perciò in base a quale “interesse nazionale” si possa continuare a ritenere di fare affari militari con l’India come se fosse “business as usual”. La determinazione per riportare a casa i due marò non sarà senza costo. Sta anche a voi dimostrare se e quanto il nostro governo è disposto a pagare anche in termini di rinuncia a commesse militari sulle quali le autorità indiane non sembrano disposte a fare sconti sulla reputazione internazionale del nostro paese. Al ministro Pinotti Lei, ministro Pinotti, in un’intervista a La Stampa subito dopo la sua nomina, ha affermato di voler «costruire un libro bianco della Difesa che parta dai rischi che il Paese si troverà ad affrontare nei prossimi anni, per poi su queste basi costruire il nuovo modello di settore». E questo, «calibrando così le reali necessità di Aeronautica e Marina, che sono eccellenze dell'Italia. Senza pregiudizi ideologici. Significa supportare le nostre aziende e creare un volano virtuoso per l'economia». Nella sua agenda anche «la messa a reddito dei tanti immobili inutilizzati della Difesa». Come sa, da tempo diverse associazioni pacifiste hanno sottoposto all’attenzione del Parlamento proprio la necessità di ridefinire con chiarezza il “modello di difesa” del nostro paese alla luce del dettato costituzionale (Art. 11). Lo hanno chiesto anche in considerazione del prospettato acquisto dei cacciabombardieri F-35 sui quali – come le è noto – da anni le associazioni hanno promosso una campagna che chiede la cancellazione del programma e, come primo e imprescindibile passo, la sua sospensione per favorire appunto un’indagine approfondita sia sulle effettive esigenze sia sui costi reali del programma. Nei mesi scorsi lei si era resa disponibile ad un confronto con queste associazioni: sono certo che non mancheranno di contattarla per presentare a lei e al governo le loro proposte in materia di difesa e di spese militari. Nell’attesa mi permetto una proposta. Come saprà ad agosto è previsto nei pressi di Mosca un evento alquanto singolare: si tratta di una sorta di olimpiadi dei carri armati, nota come “Tank Biathlon” alla quale sarebbero stati invitati per la prima volta anche paesi della Nato quali Stati Uniti, Germania e Italia. Non so quale sia stata la risposta all’invito da parte del suo predecessore. Ma credo che non sia certo auspicabile in questo momento indugiare in giochi tra carri armati. Quello che sta avvenendo in Ucraina e i carri armati russi in Crimea non lasciano presagire niente di buono. Un suo annuncio pubblico di rinuncia da parte dell’Italia a partecipare ai “giochi senza frontiere” coi carri armati russi sarà sicuramente apprezzato anche dai partner europei e dalle sue colleghe ministre della difesa. E soprattutto da chi, come me, si attende un chiaro segno di discontinuità dalle politiche di coloro che sostengono che “per amare la pace bisogna armare la pace”. Al ministro Mogherini Un invito anche a lei, ministro Mogherini. Tra le varie competenze del suo ministero vi è quella assegnata all’UAMA (Unità per le Autorizzazioni di Materiali di Armamento) che appunto riguarda le autorizzazioni alle esportazioni di armi e sistemi militari. Un business in crescita negli ultimi anni ma di cui non ce ne possiamo far vanto: come ho ripetutamente documentato su questo sito sono state numerose e rilevanti le autorizzazioni per esportazioni di armi rilasciate a governi di paesi autoritari che spiccano per costanti violazioni dei diritti umani – a partire dall’impiego della tortura e della pena di morte –, che si distinguono per le forti limitazioni delle libertà democratiche, che investono ingenti somme in armamento nonostante al loro interno persistano enormi sacche di povertà e indigenza o che si trovano in zone di forte tensione se non di guerra. E ciò nonostante la normativa italiana e comunitaria dovrebbero “impedire l’esportazione di tecnologia e attrezzature militari che possano essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale”. Tra i documenti che il suo ministero sta predisponendo in questi giorni vi è la Relazione sulle esportazioni di sistemi militari: un documento prezioso che dovrebbe riportare con chiarezza e completezza tutte le autorizzazioni e le consegne di armamenti avvenute lo scorso anno. Un documento che, però, nell’ultima legislatura (governi Berlusconi e Monti) è stato pesantemente modificato tanto che oggi non permette di conoscere con precisione ciò che tale relazione dovrebbe chiaramente documentare: e cioè a quali paesi l’Italia vende quali e quante armi. Una materia, come ben comprende, che riguarda direttamente la politica estera e di difesa del nostro paese. E sulla quale non si può indulgere in compiacenze al settore dell’industria militare: le ingenti esportazioni di sistemi militari italiani alla Libia di Gheddafi (tra cui le armi per la Pubblica Sicurezza) e alla Siria di Bashar al-Assad non sono certo servite né per la difesa e tanto meno per la protezione di quelle popolazioni. Rete italiana per il disarmo ha ripetutamente chiesto ai suoi predecessori di riaprire il confronto su questi temi e, in particolare, sulla Relazione sulle esportazioni di armi. Un confronto che – fino alla Relazione predisposta dal governo Monti (e inviata alle Camere dal governo Letta) – era tra l’altro ufficialmente previsto: la Relazione infatti invitava il governo a “continuare il dialogo con i rappresentanti delle Organizzazioni non governative interessate al controllo delle esportazioni e dei trasferimenti dei materiali d’armamento con la finalità di favorire una più puntuale e trasparente informazione nei temi d’interesse”. Anche su questo punto credo che le associazioni della società civile non mancheranno di invitarla ad un confronto di approfondimento. Che è quanto mai urgente visti i tempi stretti: la Relazione, ai sensi di legge, dovrebbe essere inviata alle Camere entro il 31 marzo. Un’ultima considerazione. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha ripetutamente affermato che questo “è un governo di legislatura”. E ha concluso la sua replica alla Camera dei Deputati dicendo che “non ci sono più alibi”. Un concetto che era già stato affermato dal Presidente della Repubblica quando, affidando l'incarico a Renzi, ha detto: "confido che veramente non si perda quest’occasione, perché non possiamo concederci il lusso di perderla". (qui il testo in .pdf) Credo sia così. E mi auguro che, per quanto di vostra competenza, le istanze che ho presentato vengano considerate. Non ci sono più alibi. Per nessuno. Cordialmente, Giorgio Beretta [email protected] (fonte: Unimondo newsletter - segnalato da: Gino Buratti) link: http://www.unimondo.org/Notizie/Lettera-aperta-alle-ministre-Pinotti-eMogherini-144968 Nonviolenza La lotta nonviolenta: l’equivalente morale della guerra (di Giorgio Barazza) Una partnership tra diverse forme di arte: cinema, gioco, letteratura e mostra. La difesa dei diritti umani e la lotta nonviolenta: come è possibile trasformare le relazioni “oppresso-oppressore” con mezzi pacifici. A Ciriè, in provincia di Torino, presso l’istituto comprensivo Fermi-Galilei tutte le terze e le quarte (complessivamente circa 400 studenti) stanno usufruendo delle pari opportunità1. Di solito negli anni passati la parte armata della difesa, rappresentanti delle Guardia di finanza, Carabinieri, Forze Armate venivano a presentare il loro punto di vista e la bontà dei loro servizi verso il paese. Quest’anno grazie all’iniziativa di Amnesty International della zona di Ciriè (Gruppo Italia 124) anche i corpi civili di pace, le forze non armate hanno avuto la possibilità di farsi conoscere. Ogni anno Amnesty di Ciriè individua una tematica da approfondire e chiede alle diverse organizzazioni presenti in zona per sviluppare l’argomento di fornire dei servizi alle scuole del territorio, dalle scuole dell’infanzia alle superiori. Quest’anno il tema è stato “Cittadini del mondo – insieme contro la guerra”. Il terreno dell’Istituto comprensivo Fermi-Galileo è fertile, due professoresse, Anna Tancredi e Valeria Vassia, hanno aderito all’iniziativa. Il Centro Studi Sereno Regis, coinvolto dal Comitato pace di Robassomero, aveva presentato un progetto dal titolo la difesa dei diritti umani e la lotta nonviolenta: come è possibile trasformare le relazioni “oppresso-oppressore” con mezzi pacifici e si è trovato così nell’opportunità di fornire una prima idea di quelli che sono oggi chiamati i corpi civili di pace. La pari opportunità si è realizzata attraverso un incontro di 2 ore per tutti gli studenti (8 incontri in tutto) e nella messa a disposizione di 34 roll-up di una mostra sui 150 anni di resistenza alla guerra che saranno esposti un mese circa (dal 17/2 al 21/3). Le arti hanno contribuito a questa iniziativa attraverso Il CINEMA. È stato proiettato il filmato2 “Nashville, we were warrior” (Nashville: noi eravamo guerrieri) che affronta il problema della segregazione razziale e racconta della preparazione e della lotta nonviolenta, condotta dal coordinamento degli studenti nonviolenti in Alabama (USA) nel 1960. Lotta che aveva come obiettivo l’accesso alla caffetterie da parte della popolazione di origine africana; I GIOCHI. Per agevolare la comprensione dei concetti che stanno alla base di queste forma di lotta l’esercizio del proprio potere personale e collettivo e per comprendere la dinamica della lotta nonviolenta (ju-jitsu politico) attraverso l’uso del corpo sono stati fatti fare due esercizi. Il primo “la piramide rovesciata” permette di comprendere il potere che ognuno di noi possiede nel collaborare o non collaborare con le diverse situazioni in cui vive. Il secondo “2 palme” permette di sperimentare l’escalation della violenza fino alla sottomissione di una delle due parti, ma anche di come togliendo la collaborazione si spiazza l’avversario, ci si preoccupa che non si faccia male (si combatte il peccato non il peccatore) anzi gli si offre la possibilità di partecipare a un altro gioco (progetto costruttivo); La MOSTRA3. I pannelli ripercorrono le diverse manifestazioni in cui si è espressa la resistenza alla guerra negli ultimi 150 anni: la resistenza alla circoscrizione obbligatoria, l’antimilitarismo, il pacifismo 4 democratico e l’antimilitarismo anarchico; l’insubordinazione, l’autolesionismo, la diserzione, la nascita delle prime organizzazioni internazionali contro la guerra; l’antifascismo, la resistenza civile, gli obiettori di coscienza, le lotte civili che hanno portato all’abbattimento del muro di Berlino; le alternative della nonviolenza; La LETTERATURA. Sono state offerte per essere esplorate e discusse 13 pillole di nonviolenza applicata in contesti di forte dominazione a partire dal contributo di alcuni autori: Nelson Mandela, Jacques Semelin, Badshah Khan, Walter Winks, Johan Galtung, Desmund Tutu, Etienne De La Boètie, Adrian Karatnycky e Peter Akerman. NOTE 1 L’articolo 52 della costituzione recita che “la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”, compito che appartiene a tutti e non riguarda solo chi è nelle forze armate. Purtroppo però le feste nazionali (es: 4 novembre, festa della “vittoria” nel 1918) vedono solo la presenza di questa parte della difesa. Nel 2008, ben 200 Generali delle Forze Armate sono stati messi a disposizione delle scuole per illustrare il significato della giornata di questa festa (o lutto?). La cultura profonda della difesa armata è riuscita nella 16^ legislatura (10/3/2011) a presentare al Senato della Repubblica un disegno di legge multipartisan (IDV, PD, PDL, Lega) “disposizioni per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà”. Nel frattempo il Ministero della difesa ha stipulato delle collaborazioni con diversi ordini di scuola per presentare l’esperienza formativa, professionale di servizio, nonché di difesa dei diritti umani delle forze armate. Tutto ciò avviene mantenendo il completo silenzio sulla DIRETTIVA del Ministero della Pubblica Istruzione, Dipartimento per l’istruzione, Direzione generale per lo studente, Programma nazionale “LA PACE SI FA A SCUOLA” (4 ottobre, giornata nazionale della pace a scuola) 2 Questo filmato insieme ad altri cinque fa parte di un ciclo dal titolo “A Force More Powerful” (una forza più potente) http://www.aforcemorepowerful.org in cui sono presentate alcune delle lotte nonviolente che hanno avuto successo nel ‘900. Il filmato è accompagnato da un libretto che aiuta alla lettura dei conflitti con schede dei film e altro materiale didattico 3 I roll-up esposti fanno parte della mostra “Italia-Euopa in 150 anni, pace e nonviolenza” a cura di Renzo Dutto e del Centro Sereno Regis (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/02/21/la-lotta-nonviolenta-lequivalente-moraledella-guerra-giorgio-barazza/ Politica e democrazia La parola partecipazione svuotata dalla politica (di Gino Buratti) Le vicende della politica italiana assumono spesso aspetti contraddittori, talvolta ambigui, che, in qualche modo, certo non aiutano a superare quel senso di disagio e rifiuto che avvolge il mondo dei politici. Dinanzi alla crisi in cui versa il sistema dei partiti, un tema ricorrente, quasi un “mantra”, è quello dell'insistere sulla “partecipazione”, come se questa fosse il toccasana della crisi, facendo si che ciascuno si attribuisca il patentino di migliore facilitatore della partecipazione, chi praticando le consultazioni nella rete, chi proponendo il sistema delle primarie, chi stampandosi in fronte il numero di consensi ottenuti, come lasciapassare per ogni scelta. Il proporre il tema della partecipazione, senza tuttavia specificarne l'obiettivo e lo scopo, usando questo termine in maniera astratta, senza inserirlo in una cornice, di fatto svuota questa parola di un preciso e concreto significato e sterilizza uno strumento che potrebbe invece rafforzare quel senso di comunità e di appartenenza che manca nella nostra vita politica. 5 E' un male questo tipico di questa nostra politica, così avvezza a cercare le scorciatoie facili, gli slogan immediati, sottraendosi, invece, a quella sfida alta che la complessità e la drammaticità di questa crisi imporrebbero. I modelli partecipativi, sviluppati oltre quello previsto della scelta dei propri rappresentanti alle elezioni, possono essere uno elemento di amplificazione delle pratiche di democrazia e di rafforzamento di quella cittadinanza attiva, che pur è prevista anche dalla Costituzione. Scegliere l'orizzonte di ampliare la sfera della partecipazione, ben oltre il semplice momento elettorale, non è una strada obbligata, è una scelta che la politica assume, accettandone però tutte le sfide e i rischi che ciò comporta. Non è però, a mio modesto avviso, semplicemente uno strumento per misurare e/o cercare consenso rispetto ad una propria posizione, è la capacità, ancor prima culturale che metodologica, di assumere come elemento centrale e vitale la propria “parzialità”, il proprio “limite”, sia come soggetto organizzato che come singola persona, nella lettura del sistema e nel cercarne soluzioni. Da questa parzialità nasce il bisogno di avviare percorsi partecipativi, nell'ottica di leggere le problematiche da diverse prospettive e, al tempo stesso, cogliere elementi nella visione dell'altro, nella consapevolezza della necessità di dover “ampliare” il punto di osservazione e di individuare anche risorse ed energie che altrove si trovano, cogliendo il valore aggiunto che esse rappresentano rispetto ad un processo di trasformazione. In tale ottica, l'orizzonte partecipativo è proprio all'antitesi di quella arroganza culturale, che diventa spesso violenza (verbale), così frequente nella nostra vita politica, che comporta la presunzione di essere gli unici detentori di una verità e gli unici interpreti del cambiamento. Ma l'orizzonte partecipativo è anche all'antitesi di quel “bisogno di leader forte”, che ormai ha contagiato tutte le forze politiche. Processo questo che ha avuto i suoi primi barlumi con il decisionismo di Craxi, che poi è proseguito a destra con “il culto” di Berlusconi, ma che ha contagiato centro-sinistra e sinistra nella ricerca di leader carismatici (penso ad esempio all'esperienza della lista Ingroia), alla presentazione di continue liste centrate sul nome, senza soffermarsi minimamente sui programmi. Non ultimo il delinearsi del M5S, nato per sperimentare pratiche nuove, ma tutto centrato su la figura di due leader carismatici-gurù, e l'avvento di Renzi, paladino delle primarie e della partecipazione, che di fatto però si presenta con il tono arrogante di chi ha la verità in tasca. Ma questa cultura “accentratrice” si è incarnata anche nei modelli di governo dei territori, con la proposizione delle figure dei “governatori” delle regioni e dai sindaci forti, consegnando ad una figura, e non ad un progetto politico culturale, la rappresentatività della trasformazione e del governo. Tutto ciò, se pur legittimamente, è una contraddizione stridente con percorsi partecipativi reali, che non siano semplici processi di consultazione e/o conferma del consenso. Troppo spesso assistiamo a figure, siano essi leader di partito/movimento o amministratori locali, che hanno costruito il proprio ruolo di novità proprio partendo dall'esaltazione dei luoghi della partecipazione, per poi, procedere invece a governare, amministrare, gestire un partito proprio negando quegli stessi presupposti, o camuffandoli. Accettare poi un orizzonte partecipativo, inoltre, significa assumere la consapevolezza che i tempi della decisione non sono quelli delle telematica, perché comporta capacità di ascolto, di confronto duro e consapevolezza di arrivare ad una sintesi, nella quale non vi sono semplicemente vinti e sconfitti, ma soggetti che hanno ottenuto qualcosa, magari rinunciando ad altro. Significa declinare l'esperienza partecipativa nell'analisi e nella programmazione delle politiche di un territorio e di un paese, non semplicemente come momento di verifica del proprio consenso. Significa saper procedere su un terreno non facile, ricco di insidie, sperimentando le poche certezze e i tanti dubbi, nella convinzione che solo una pratica reale che veda i soggetti (singoli e organizzati) protagonisti di un percorso può, non aumentare un consenso, ma costruire un processo condiviso, arricchito da punti di vista plurali. In tale ambito diventa estremamente ambigua la riproposizione degli slogan sulla partecipazione proposti dai nostri leader: in nessuno c'è il bisogno di confronto ed ascolto delle altrui prospettive, c'è semplicemente il bisogno (con scelte ed espressioni lessicali) di affermare il proprio pensiero distruggendo, di fatto, le diversità, negando, nelle pratiche, l'assunzione della parzialità, del limite e del dubbio come compagni di viaggio nella costruzione di un percorso politico di cambiamento, non semplicemente amministrativo. Lo stesso strumento delle primarie, per altro interessante per certi punti di vista, non può essere pensato come l'unico modello partecipativo, è un modello, che assume un senso se esso va ben oltre la semplice individuazione di un leader e di una linea, una volta ogni tanto, diventa strumento interessante se capace di essere declinato non come momento occasionale, ma come pratica politica. Se da un lato un problema forte è in “l'idea di democrazia” dentro ai partiti/movimenti, quali contenuti e strumenti dargli per renderla reale, dall'altro è evidente il rischio di chi, utilizza parole fondamentali quali la partecipazione, semplicemente per ornare le proprie pratiche di gestione del potere semplice ricerca di consenso e affermazione del proprio pensiero. Tutto legittimo nell'agorà della democrazia, ma quanto meno si eviti di tingere certe pratiche politiche – ad esempio i guru sui blog, l'esaltazione del modello delle primarie come unica pratica di democrazia, il proporsi come leader salvifico e unico interprete del cambiamento e della novità, l'atteggiamento populistico che inonda tutti i leader dei maggiori partiti (M5S, PD e Forza Italia) - con il velo della partecipazione, perché non solo facciamo danni politici irreparabili, ma diventiamo soggetti mistificatori e corresponsabili dell'incoerenza e del discredito che la politica ha assunto, con grave pericolo e danno per la democrazia, a causa dell'affermarsi di movimenti e forze destabilizzanti. link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2025 Spending review (di Maria G. Di Rienzo) In attesa delle “grandi riforme” mai meglio specificate ma che il paese attende con ansia (o almeno così dicono politici e giornalisti), in attesa di sapere se taglieranno “auto blu” o “auto grigie” (quelle delle Asl) e come questo andrà davvero ad incidere sul debito, leggo che l’obiettivo della revisione della spesa pubblica in Italia punta ad un risparmio di 32 miliardi in tre anni. Potremmo raggranellare più della metà di detta cifra in un anno solo, con un semplice accorgimento: smettere di essere violenti verso le donne. La violenza di genere costa infatti al nostro paese 17 miliardi l’anno in servizi sociali, ore di lavoro perse, medicalizzazioni, prevenzione, eccetera. I quotidiani stranieri commentano l’andazzo con frasi di questo tipo: “L’alto tasso di violenza contro le donne è da attribuirsi ad un problema della cultura italiana, in cui le aggressioni alle donne sono accettate come norma sociale.” Non vi chiedo di essere buoni o buonisti, suvvia; non vi chiedo di provare compassione per Lidia Nusdorfi, l’ultima ammazzata a coltellate in ordine di tempo dal suo ex compagno – è una delle tante, lo aveva lasciato e lui era “accecato dalla gelosia” e “preso dal raptus” al punto da organizzarle un incontro fasullo, viaggiare tre ore e mezza in auto per raggiungerla, coprirsi con un ombrello per cercare di sfuggire alle telecamere e convincere due altre persone a mentire per coprirlo. Si capisce bene che non era padrone di se stesso, vero? Non vi chiedo neppure di trattare le donne nelle vostre vite come esseri umani (di fronte ad una norma sociale ciò sarebbe probabilmente troppo trasgressivo)… vi sto chiedendo di stringervi al vostro amato paese in questo momento di difficoltà e di risparmiare: tenendo mani e coltelli e pistole e bastoni e lacci in tasca. Provate. Maria G. Di Rienzo Fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo (fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2023 6 Questione di genere Corsi, concorsi e scatole rosa (di Maria G. Di Rienzo) Se un alieno volesse conoscere in modo velocissimo lo status delle donne in Italia – ad esempio, che gradi di partecipazione e rispetto godono nella sfera pubblica, quanto le si ascolta, quanto il loro lavoro è valutato, quanto si prendono sul serio le informazioni sull’allucinante tasso di violenza che subiscono – gli basterebbe dare un’occhiata al paese l’8 marzo. Gestori di negozi, misogini incalliti per i restanti 364 giorni dell’anno, ti ficcano la mimosa nella borsa della spesa nel mentre si lamentano della mancanza di una “festa dell’uomo” – e mettono a repentaglio duri anni di training nonviolento, perché ti viene voglia di far loro la festa subito e in modo definitivo. Comuni finanziano corsi di burlesque-spogliarello perché ciò “fa bene all’anima delle donne” e comunque i nudi “non sono integrali”: Assessora, e mi scusi se le ricordo che è femmina – so che lei chiama se stessa “Assessore” – il mio benessere spirituale non è competenza dell’amministrazione comunale. Inoltre, se lo spogliarello fa bene all’anima, perché non arrivare al “nudo integrale”? Si rischia per caso la santità? Fondazioni lanciano il concorso, rivolto alle prime cento titolari della data polizza assicurativa che “clickeranno”, sta scritto così, sul loro sito web, per l’ambita “scatola rosa” con cui “chiedere soccorso premendo un apposito pulsante in auto”: ammettetelo, vi state chiedendo come siete riuscite a vivere senza, sino ad ora. E i giornali, al solito, delirano: si va dalle “suffragette” di Repubblica (suffragiste, signori, suffragiste) alle simpatiche foto “Diamoci dei consigli” del Corriere – dove il sublime è raggiunto dal cartello retto da una signora imbronciata, in cui alla frase “Io sono una persona” è accoppiato il disegnino di una donna con una bella X sopra. Ecco, cancellarmi o cancellare le mie simili in occasione della Giornata Internazionale della Donna è un consiglio che non intendo seguire, e che con tale Giornata non ha proprio niente a che fare. L’8 marzo dovrebbe servire a riflettere su a che punto siamo arrivate nella nostra ricerca di giustizia ed eguaglianza. L’8 marzo dovrebbe servire a gettare un po’ più di luce sulle realtà in cui vivono le nostre sorelle ovunque, mentre lottano per veder riconosciuta la loro dignità. L’8 marzo dovrebbe servire a guardarci intorno e a sentirci grate per le tutte le donne meravigliose che hanno fatto la differenza nella nostra vita e nel mondo. Anche se i media vi daranno questo, forse, nel 2050, non importa: potete creare uno spazio in cui ciò accade ora nella vostra cerchia di amicizie, nella vostra famiglia, e persino da sole nella vostra mente. Il mio pensiero per voi amiche e lettrici, l’8 marzo, non è diverso da quello che vi rivolgo tutti gli altri giorni: amo la vostra unicità, che vi rende preziose, e la vostra somiglianza, che vi rende vicine a me. Vi immagino cantare, ridere, ballare. Immagino di coccolarvi quando siete giù di morale. Amo il fatto che voi siate qui, su questa Terra. E’ perché ci siete che amo esserci anch’io. Maria G. Di Rienzo (fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo) link: http://lunanuvola.wordpress.com/2014/03/08/corsi-concorsi-e-scatole-rosa/ 8 marzo: le donne nella Resistenza Brambilla Pesce) (di Onorina La guerra di Liberazione ha visto una rivoluzione culturale di non poco conto, quella della donna italiana, che usciva dall’arretratezza nella quale il fascismo l’aveva tenuta. Mussolini aveva predicato per vent’anni alle donne “la sottomissione e la bellezza” – così diceva lui – di stare a casa a fare la calza. “La donna è la regina del focolare”, diceva la propaganda fascista. Strana regina, di un focolare nel quale, in molti, troppi casi, non si garantiva neppure il pane. In realtà, si sanciva in ogni legge l’inferiorità della donna! Non ha diritto al voto, sono escluse dall'insegnamento delle lettere e della filosofia, sono escluse dai posti di responsabilità di dirigenza scolastica, dall’amministrazione pubblica, dalla magistratura e, a parità di lavoro con gli uomini, hanno salari molto inferiori. Nonostante ciò, durante il ventennio, le donne hanno avuto momenti di ribellione e di lotta. Voglio ricordare soprattutto le mondine dell’Emilia-Romagna e del Novarese che rivendicavano le otto ore di lavoro (ricordiamo la famosa canzone “Se otto ore vi sembran poche”, perché lavoravano anche 10/12 ore al giorno), e alcuni scioperi delle operaie tessili e di altre categorie per migliori condizioni di lavoro e di salario. Anche durante il fascismo quindi, pur sotto un clima di paura, le donne non hanno sempre accettato supinamente la loro condizione di “inferiorità”, poi la guerra, i lutti, il razionamento dei generi alimentari, i bombardamenti che distruggono le case, le fabbriche. La guerra cambia un po’ le cose: gli uomini servono per le guerre. Le donne allora vengono impiegate in loro sostituzione in ogni campo: nelle scuole, nelle fabbriche, nell’amministrazione pubblica, nei servizi civili. Iniziamo così a vedere per le strade le postine, le tranviere, le ferroviere; nelle campagne assumono la direzione delle aziende agricole. Arriva poi l’8 settembre del ’43. L’esercito è abbandonato a se stesso, i soldati scappano per sottrarsi al rastrellamento dei tedeschi che invadono le nostre città, e sono le donne che, rischiando, li nutrono,li aiutano, li nascondono, forniscono loro i vestiti affinché non si facciano individuare con la divisa che ancora indossano. Io credo che siano state proprio le donne a iniziare la Resistenza, col loro intervento di aiuto ai soldati, che rappresentò anche una reazione naturale, nemmeno forse organizzata, ma che servì senza dubbio a salvare migliaia di persone. Anche se purtroppo sappiamo che altrettante migliaia furono arrestate e mandate ai lavori forzati in Germania. Seguì la Resistenza vera, la ribellione di massa delle donne, perché di questo si tratta. Inizia da quel momento il risveglio, la presa di coscienza di un gran numero di donne di ogni strato sociale, di ogni idea politica e religiosa. E alla Resistenza partecipano in tante, numerose, in decine di migliaia, e svolgono tante mansioni. Sono le cosiddette “staffette”, che contribuiscono in tanti modi. Combattono in montagna e in città, assicurano i collegamenti, il rifornimento di viveri, armi, medicinali, vestiario, la preparazione di documenti falsi, la ricerca di alloggi necessari per chi deve nascondersi, la diffusione della stampa clandestina. Ricordiamoci di un giornale che venne fondato e diffuso allora dalle donne della Resistenza: “Noi Donne” che esiste ancora oggi. Erano le donne che spesso dovevano scriverlo, stamparlo e diffonderlo, ed ebbe una funzione importante di orientamento e mobilitazione per tante altre donne. Le “staffette” si occupano, tra l’altro, della cura dei partigiani feriti, poiché non sempre è possibile ricoverarli in ospedale. Si occupano dei contatti con le famiglie dei combattenti e dei carcerati. In definitiva le “staffette” hanno svolto varie e molteplici mansioni, che risultarono spesso decisive per la vita delle stesse brigate partigiane. Mansioni in apparenza semplici, ma che in realtà richiedevano intelligenza, prontezza e attenzione, si correva il rischio dell’arresto, delle torture e della morte. Alla fine della guerra, dai documenti del Ministero della Difesa, e vorrei citarli perché forse sono poco conosciuti, si hanno queste cifre e questi dati: 2.500 cadute o fucilate; 35.000 riconosciute partigiane combattenti; 20.000 patriote; 7 512 commissarie di guerra; 2.750 deportate; 2.653 arrestate e torturate; 19 insignite di Medaglia d’Oro al valor militare; numerose di Medaglia d’Argento; 70.000 furono le donne che aderirono e lottarono nei gruppi di Difesa della Donna un’organizzazione che riuscì a mobilitare migliaia di donne nella Resistenza, per l’assistenza ai “Volontari della Libertà”. Questa organizzazione unitaria di massa diede un grande aiuto alle brigate partigiane. La prima conseguenza di questo grande e indispensabile contributo alla liberazione dal nazifascismo fu la conquista al diritto di voto, deciso dal governo del Comitato di Liberazione Nazionale, quando ancora la guerra non era finita. Un diritto che non rappresenta un regalo, ma il giusto riconoscimento dell’insostituibile apporto fornito alla lotta di Liberazione. Abbiamo poi il 2 giugno ’46. Per la prima volta nella storia d’ltalia le donne votano, nel referendum “repubblica o monarchia”, e vince la repubblica! Abbiamo ragione di ritenere che siano state tante, soprattutto al nord le donne che hanno scelto la repubblica. Sempre nel 1946 si apre la fase costituente, l’assemblea di coloro che redigeranno la Carta costituzionale. In questa assemblea vengono elette 21 donne. La presenza delle donne nella Costituente, con alle spalle la partecipazione alla lotta di Liberazione e la conoscenza diretta della condizione femminile, è stata senz’altro decisiva nella formulazione degli articoli, nei quali vengono stabilite norme di parità tra uomini e donne. Ne cito solo alcuni, ma sarebbero più numerosi: l’articolo 3, che stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociali; l’articolo 37, sulla parità di salario tra uomo e donna; l’articolo 41, per l’accessibilità delle donne agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Ho citato solo questi tre articoli,ma nel complesso la Costituzione è la più grande conquista democratica e di libertà che gli uomini e le donne che hanno preso parte alla Resistenza hanno ottenuto per tutti gli italiani. E decisiva è risultata la presenza delle donne. Ricordiamo le conquiste più significative del dopoguerra, in conseguenza della lotta della Resistenza, ottenute mediante lotte incessanti e con manifestazioni popolari unitarie. Noi riteniamo che tutte queste leggi siano state anche il risultato della lotta nella Resistenza, perché già allora noi lottavamo per la libertà e la democrazia del nostro Paese, ma rivendicavamo sin da allora, per le donne, un avvenire diverso, una posizione uguale agli uomini, nella famiglia, nella società e in tutte le leggi. Seguì poi l’approvazione di altre leggi, che cito soltanto: sulle pari opportunità; le pensioni alle casalinghe; il divorzio; la tutela della maternità; l’interruzione volontaria della gravidanza, la legge 194 . Concludo il mio intervento dicendo che sappiamo, che in questo momento, sono in atto tentativi revisionisti per cancellare il passato, per rinnegare gli ideali della guerra di Liberazione e della Costituzione, pietre miliari su cui invece si dovrebbe marciare speditamente verso il futuro. Marzo 2008 Con questo intendiamo far capire che quanto abbiamo vissuto, sofferto, conquistato, non vada perso, ma diventi patrimonio prezioso per le generazioni future. Onorina Brambilla Pesce, marzo 2008 Da Patria Indipendente n. 1/2010 (segnalato da: Barbara Mangiapane) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2026 Siamo proprio sicure? (di Maria G. Di Rienzo) L’aggeggio si chiama “Siamo sicure!” ed è un’applicazione per smartphone, ma più ci penso meno io sono sicura che si tratti di una buona idea. Non tanto per le possibilità di “lanciare un allarme sonoro, di accendere una torcia, di chiamare il 112 o un altro numero di emergenza che si è memorizzato, di inviare un sms (…) con la propria posizione” (La Stampa, 25.1.2014), anche se alcune di queste funzioni non dovrebbero aver bisogno di un’applicazione specifica e anche se sembrano indicazioni più utili a un militare di stanza in Afghanistan che a una donna qualsiasi. E’ proprio il decalogo dei “comportamenti ritenuti sicuri da adottare per prevenire e contrastare situazioni di pericolo e potenziale violenza” che mi lascia perplessa. L’articolo succitato dice che l’applicazione è gratuita, sviluppata dalla società Kulta con il patrocinio del Comune di Firenze, e che l’idea è di Telefono Rosa – un’associazione pioniera nel campo del contrasto alla violenza di genere, per cui io nutro profondissima stima: e questo è il motivo che mi rende ancora più perplessa. I consigli, infatti, sono in gran parte irricevibili – di quanto sia irricevibile il loro sfondo dirò poi – e mi stupisce che chi ha prodotto l’applicazione non l’abbia notato: una esce di casa e deve… 1) 2) 3) “stare attenta alle persone raggruppate senza un apparente motivo”. Quindi per caso? E io come faccio a determinare se hanno un motivo o no? Quanto sono sospetti un gruppo alla fermata dell’autobus o un gruppo di amici/amiche che ne aspetta un altro per strada? E mettiamo che io trovi sospetto un gruppo di persone, ma che come prima il posto dove devo andare comporti il passare accanto ad esse senza possibili alternative, ripeto tutta la tiritera con il telefono “intelligente”? “notare l’atteggiamento delle persone nei locali, cercare le eventuali uscite, munirsi di oggetti di difesa come uno spray urticante, una penna o un mazzo di chiavi” e “tenere la guardia alta soprattutto nelle attività di routine durante le prime ore della mattina o la sera tardi”. Guardate, se andare al bar o in una discoteca o allo spettacolo e andare al lavoro o a fare la spesa o a prendere il bambino a scuola, comporta una preparazione all’assalto ed è l’equivalente dell’addentrarsi in zona di guerra, forse c’è un problema a monte che non riguarda i nostri comportamenti, ma quelli altrui. 4) “verificare di non avere qualcuno alle spalle quando si avvicina al portone di casa, non attardarsi ad entrare magari cercando nella borsa le chiavi”. Questa è la migliore del mazzo (di chiavi). Visto che non posso attardarmi a cercare le chiavi, se nessuno è in casa per aprirmi il portone immagino che dovrò rapidamente sfondarlo a calci o arrampicarmi veloce veloce su per il muro sino alla mia veranda, che però non è aperta (ci mancherebbe che mi rendessi responsabile di tanta leggerezza dopo aver digerito i consigli per essere “sicura”) perciò sfonderò in un lampo anche quella. Viva Wonder Woman! 5) D’altronde è “importante fare sport per poter essere pronte alla fuga in situazioni a rischio”, chi se ne frega se sei anziana, se sei disabile, se dello sport non te ne può fregare di meno o se vorresti farlo quando e come ti va, e non per prepararti al tentato stupro. 6) 8 “stare attenta al livello di illuminazione delle strade, evitando le vie deserte”: ma se per andare al lavoro, all’ospedale, a casa, non ho altro percorso disponibile cosa faccio, volo? Ok, accendo la torcia, l’allarme sonoro (per la delizia del vicinato) e mando un sms preventivo a zia Ursula: “Attenzione, sono a 100 metri da casa, il lampione (porca miseria) è ancora fuori uso, ma quando l’ho segnalato al Comune invece di ripararlo mi hanno regalato l’applicazione per lo smartphone!” “in città guidare sempre con la sicura abbassata e sui treni o in metro evitare gli scompartimenti vuoti. Buona regola è anche non leggere, non ascoltare musica o distrarsi con il cellulare”. Per non farla troppo lunga, tutti i consigli si potrebbero riunire in un’unica raccomandazione, che fa parte dello sfondo di cui parlavo prima: vivi ogni momento della tua vita in costante allarme e tensione, perché la responsabilità di quel che ti accadrà se non lo fai è tua. In altre parole, lo stupratore o l’aggressore non ha niente a che fare con le proprie azioni e scelte, sono le tue azioni e le tue scelte che devono essere vigilate, ed è la tua libertà di movimento che deve essere ristretta. Per la tua sicurezza, certo. Mi si dirà: “Ma delle donne sono assalite in vicoli bui, durante la notte!” Sì, però questo non significa che ogni violenza sessuale è accaduta in uno scenario simile, ad opera di uno sconosciuto: in effetti questa è l’altra parte del fondale, quella che disegna la violenza come perpetrata pressocchè esclusivamente da estranei, ma purtroppo la maggior parte della violenza subita dalle donne proviene da persone che esse conoscono. I due terzi, per essere più precisi. Sono due terzi composti da parenti, amici, colleghi, partner o ex partner, che picchiano e violentano in situazioni assai più comode e premeditate della strada buia o dell’incontro occasionale in metropolitana, e a cui – per via dei legami che con loro abbiamo o abbiamo avuto, o perché sono i padri dei nostri figli, ecc. – a volte siamo leggermente riluttanti a infilare la penna biro nell’occhio. Inoltre, non ha per nulla un effetto rassicurante il sentirsi ripetere che ogni angolo scuro nasconde il predatore pronto all’assalto e che è mio dovere guardarmi di continuo alle spalle ed evitare chiunque incroci la mia strada. Non mi sento meglio ad essere qualificata come bersaglio ambulante. Mi sarei sentita meglio se il Comune di Firenze avesse individuato come punto focale il consigliare qualcosa ai potenziali aggressori e non alle potenziali vittime, ed investito nell’educazione al rispetto e al consenso, anche con piattaforme informatiche e applicazioni per cellulari, se preferisce: Hollaback, Harassmap, Everyday Sexism, Everyday Victims’ Blaming, Blank Noise, ecc. lo stanno già facendo in giro per il mondo. Maria G. Di Rienzo (fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo) link: http://lunanuvola.wordpress.com/2014/01/29/siamo-proprio-sicure/ Notizie dal mondo America Latina Cosa succede in Venezuela (di Stefano Femminis) Da un mese si moltiplicano in Venezuela scontri di piazza che hanno provocato almeno 15 morti, numerosi feriti e diversi danni materiali. Sullo sfondo, una profonda crisi economica e sociale. Abbiamo chiesto a Jesús María Aguirre, gesuita, direttore del Centro Gumilla, prestigioso istituto di studio e azione sociale retto dai gesuiti, di spiegarci sia le cause immediate sia quelle profonde di queste tensioni. «Alla fine di gennaio - spiega Aguirre - sono iniziate alcune proteste studentesche in università pubbliche e private - a eccezione di quelle bolivariane, controllate direttamente dal governo - negli ospedali e in altri spazi pubblici. Gli studenti protestavano contro il clima di crescente insicurezza nel Paese. Il Venezuela ha uno dei più alti tassi di violenza in America Latina. Secondo l'Osservatorio venezuelano sulla violenza, il 2013 si è chiuso con 24.763 morti violente. La dura repressione nella Universidad de Los Andes, nello Stato di Táchira, con l'arresto di tre studenti, è stata la scintilla che ha innescato proteste in altri centri universitari del Paese, su nuovi temi: dalla mancanza di investimenti al blackout informativo sulla protesta stessa imposto ai media dal governo». Chi sono i principali responsabili delle violenze? Come succede spesso in situazioni simili, manifestazioni inizialmente pacifiche vengono poi infiltrate da attori politici interessati a manipolare e polarizzare le proteste. Questa escalation di violenza va imputata alle fazioni radicali di entrambi gli schieramenti. Da un lato, c'è chi non riconosce l'attuale governo come legittimo, per varie ragioni (la presunta nazionalità colombiana del presidente, brogli elettorali, deriva autoritaria, ecc.), e arrivano a giustificare qualsiasi metodo di protesta, anche quelli antidemocratici. Dall'altro lato, si cerca di soffocare il movimento di ribellione utilizzando le forze di sicurezza, infiltrando le manifestazioni o attaccando le stesse con gruppi paramilitari chiamati "collettivi". Si sono registrate vittime da entrambe le parti, ma va detto che la maggior parte sono state causate dalla repressione del governo e dai "collettivi". Quali sono le cause più profonde delle tensioni? Le proteste studentesche hanno a che fare con il crescente malcontento e la disperazione della classe media , ormai impoverita da un'inflazione superiore al 50% - e dal fallimento di molte piccole e medie imprese private. È difficile infatti sopravvivere a leggi sul lavoro soffocanti, senza accesso alla valuta estera e non potendo di fatto importare nulla a causa del controllo sul cambio imposto arbitrariamente dal governo. A questi fattori si aggiunge la componente politica, poiché la maggioranza dei venezuelani rifiuta il modello cubano e, nonostante la sconfitta della modifica costituzionale proposta da Chavez nel 2007 di carattere sostanzialmente comunista, il governo cerca di imporre tale modello attraverso leggi delega che permettono al presidente di legiferare su quasi qualsiasi argomento. In tutto ciò quali sono le responsabilità del successore di Hugo Chávez, il presidente Nicolás Maduro? Tutti ammettono che Maduro non ha il carisma del defunto Chávez. È una figura che si regge sull'investitura personale ricevuta dallo stesso Chávez con il consenso dei fattori cubano-castristi inseriti nella macchina statale. Nelle ultime elezioni c'è stato un esborso economico che ha contribuito a svuotare le casse nazionali solo per far vincere Maduro e, nonostante la vittoria sia stata risicata e molto contestata, a livello internazionale la sua presidenza si è consolidata grazie alle partnership con alleanze regionali come Alba, Mercosur e Unasur, e l'appoggio di Cina e Russia. Tuttavia, l'eredità economica di Chávez non è sostenibile e l'aumento esorbitante del debito, unito alla riduzione delle riserve valutarie internazionali, non permette a Maduro di attenuare gli effetti negativi di alcune nazionalizzazioni che hanno indebolito la produttività di industria e agricoltura. Il «socialismo del XXI secolo», con le sue promesse di indipendenza e sovranità alimentare, in un decennio ha fatto crescere le importazioni alimentari dal 65% del fabbisogno a oltre l'80% e non riesce a rifornire il mercato interno con i prodotti di base come farina, olio, carta igienica. Le carenze dovute al crollo della produzione toccano le tasche di tutti, poveri e ricchi, anche se questi ultimi ovviamente ne risentono di meno. Questo diffuso malcontento è in parte controbilanciato dalla crescita esponenziale dei dipendenti pubblici, che hanno formato una massa clientelare se non entusiasta, almeno favorevole al governo: se in Colombia la pubblica amministrazione rappresenta il 3,9% degli occupati e in Perù l'8,4 %, in Venezuela abbiamo raggiunto il 19,6%. Tuttavia anche questa classe media o medio-bassa è colpita dall'inflazione. Inoltre, la riduzione delle risorse per le cosiddette «Missioni sociali» (Mercal para alimentos, Barrio Adentro para la salud - supportata dai cubani -, Misión Vivienda, ecc.), che aiutavano in particolare baraccopoli e settori popolari, ha indebolito l'influenza dello Stato. Tuttavia permane l'idea di un regime che riconosce e difende gli interessi degli esclusi, nonostante il suo carattere sempre più autoritario e militarista. Intravede una possibile via di uscita condivisa e non violenta? Purtroppo permane la polarizzazione politica con l'obiettivo di annientare l'avversario e di ottenere l'egemonia. Nel suo linguaggio il presidente Maduro, anche quando chiama al dialogo, continua a stigmatizzare avversari come borghesi, nemici della patria e golpisti. A sua volta parte dell'opposizione, in un anno non elettorale quale è il 2014, è tentata di trovare scorciatoie per un cambio di governo, senza darsi il tempo per consolidare le basi sociali per un progetto alternativo. Si diffondono approcci costruttivi su problemi specifici come la sicurezza 9 o la salute, ma questo avviene tra attori che non si identificano in nessuna delle fazioni politiche in campo. Di fatto, la maggior parte della popolazione chiederebbe un'intesa nazionale, ma non ci sono mediatori in vista. Non potrebbe essere la Chiesa cattolica venezuelana a svolgere questa mediazione? In primo luogo, occorre tenere presente che circa il 75% della popolazione venezuelana è cattolica, almeno culturalmente, e che ci sono cristiani in tutte le classi sociali e schieramenti politici. Sebbene il governo abbia cercato di approfondire la divisione tra gerarchia anti-rivoluzionaria e cattolicesimo popolare, la Chiesa mantiene un'elevata credibilità rispetto ad altre istituzioni. La posizione della gerarchia si è manifestata attraverso due dichiarazioni ufficiali della Conferenza episcopale venezuelana che si riassumono nella seguente proposta: «Chiediamo ai leader di tutti i partiti e gruppi, sociali e politici, che incoraggino i loro simpatizzanti a contribuire con il loro comportamento e le loro parole ad allentare le tensioni, a riconoscere gli avversari e a cercare la riconciliazione. Sia forte il proposito di costruire la pace e prevenire qualsiasi manifestazione violenta che possa rompere la convivenza pacifica tra tutti i cittadini» (14 febbraio 2014). Anche se alcuni leader, soprattutto di opposizione, propongono la mediazione della Chiesa, difficilmente il governo le riconoscerà questo ruolo, essendo stata negativamente segnata da uno sfortunato intervento del cardinale Velasco nel tentato colpo di Stato dell'aprile 2002. Ci sono poi singoli pastori che si sono pronunciati, come il vescovo di San Cristóbal - luogo dei primi tumulti - e l'arcivescovo di Maracaibo, il primo con un tono più conciliante e il secondo più critico. Ci sono state numerose altre comunicazioni, provenienti da istituzioni cattoliche, anzitutto dall'Università Cattolica Andrés Bello, e di altre organizzazioni vicine alla Chiesa: in tutte c'è il riconoscimento della legittimità delle proteste studentesche, la richiesta di tutelare i diritti umani e l'appello a un dialogo nazionale. Per quanto riguarda il Centro Gumilla, con la nostra rivista Sic e attraverso la Rete di azione sociale della Chiesa cerchiamo di contribuire alla depolarizzazione politica, al dialogo per la ricerca del consenso e, in ultima analisi, a creare un clima di riconciliazione. Crediamo che senza trattative e senza accordi il Paese rischi di andare in rovina. E la ricostruzione , soprattutto istituzionale, durerebbe parecchi anni, anche se il petrolio mantenesse un buon prezzo... In un numero speciale di Sic, che ha appena celebrato il suo 75° anniversario, proponiamo ulteriori vie di uscita. Stefano Femminis (fonte: Popoli - Webmagazine internazionale dei gesuiti) link: http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Cosa_succede_in_Venezuela.aspx Ucraina Rivolta in Ucraina, un gesuita racconta (di Popoli Webmagazine internazionale dei gesuiti) Il superiore dei gesuiti in Ucraina, David Nazar, riferisce delle ultime due tragiche giornate di scontri a Kiev, in cui sono morte decine di persone, e della situazione a Leopoli. Denuncia con forza le responsabilità governative in questa escalation della violenza, mentre le Chiese, compresi gli ortodossi legati a Mosca, sono vicine ai manifestanti. I gesuiti a Kiev e a Leopoli stanno dando aiuto come possono. Nonostante la violenza del 20 febbraio o, meglio, a causa di essa, il sostegno al presidente Yanukovich si sta sgretolando. Non ha mai avuto un forte appoggio, ma in base alla Costituzione e attraverso la corruzione ha un potere enorme. Oggi, tuttavia, le cose stanno in modo del tutto diverso. Iniziamo dal 19 febbraio. Il ministro degli Interni, che controlla le varie forze di polizia, ha dichiarato pubblicamente che non ci sarebbe stato un assalto al maidan e nessuno Stato di emergenza, nonostante indiscrezioni contrarie che sono trapelate. Mentre tutti i parlamentari erano riuniti, incredibilmente è iniziato un attacco. Le forze speciali hanno circondato la piazza (maidan) e chiuso tutti gli accessi da una decina di strade diverse, perché la gente accorre quando si presenta una minaccia. L'amministratore della città, che non è il sindaco ma è nominato direttamente dal presidente, ha deciso in modo illegale di chiudere tutte le linee della metropolitana. La polizia locale ha creato posti di blocco sulle principali strade che portano a Kiev, perché la gente viene da tutto il Paese quando c’è una minaccia. Tutti i treni provenienti dall’Ucraina occidentale, centrale e settentrionale sono stati ritardati mentre la polizia perquisiva i passeggeri “per le bombe nelle loro ceste di verdura”. Uno dei nostri giovani gesuiti era tra questi viaggiatori. La situazione era assurda e i poliziotti ridevano imbarazzati, ma aveva l’ordine di farlo. Gli abitanti di Kiev hanno sfondato la barriera di polizia e in poco tempo si sono radunate circa 20mila persone nella piazza. La polizia ha usato costantemente pistole elettriche, ordigni assordanti, bombe molotov, cannoni ad acqua e fucili. La gente fa tre cose ogni volta che questo accade: dà fuoco a pneumatici per creare fumo e ridurre la visibilità, lancia ciottoli che stacca dalla strada e scaglia molotov da una certa distanza. Le telecamere riprendono costantemente gli eventi e non si è mai vista un'arma da fuoco nelle mani dei manifestanti, nonostante le dichiarazioni del governo in senso contrario. Quando la polizia ha sfondato alcune barricate, i manifestanti disarmati sono fuggiti spostandosi verso il centro. Nella loro ritirata sono stati colpiti e uccisi in strada. Il ministro dell’Interno ha dichiarato solennemente che le forze speciali e la polizia non hanno armi da fuoco. Le telecamere mostrano chiaramente che fanno più volte fuoco. L'ospedale ha riferito che dei primi 25 morti, 19 erano stati uccisi da armi da fuoco. Le uniche persone che sparavano erano le forze speciali. Le telecamere hanno mostrato i bossoli, alcuni inesplosi. Poi il ministro ha dichiarato che i manifestanti stavano sparando contro altri manifestanti per gettare cattiva luce sul governo. Osservando le riprese e date le verifiche compiute dai medici, oltre ad altre chiare prove, viene da pensare che il governo dovrebbe confezionare menzogne più convincenti o fornire un’altra scusa per l'utilizzo di munizioni reali. Riferisco tutto questo, perché è così assurdo e spiega cosa sta accadendo. I diplomatici lo vedono: camminano nella piazza, come tutti, ricevono le notizie in Tv e su internet, come tutti; e poi, increduli, ascoltano ciò che dice il governo. La notte del grande attacco, il principale canale di notizie è stato oscurato in tutto il Paese. Questa stazione mantiene telecamere in diretta dalla piazza. Tutte le altre stazioni televisive erano in funzione. Questa stazione Tv se lo aspettava e dopo un po’ di confusione ha trovato un modo alternativo per trasmettere in diretta dalla piazza. Ci sono code di automobili lunghe chilometri sulle autostrade che portano a Kiev bloccate da mezzi pesanti. Il motivo ufficiale sarebbero alcuni ingorghi, secondo quanto riferisce con un sorriso imbarazzato la polizia stradale, nessuno riesce a nascondere le bugie. Il 20 febbraio il governo ha fatto sapere che i binari ferroviari tra l'Ucraina occidentale e Kiev avevano bisogno di riparazioni e i treni non potevano viaggiare. Il presidente ha adottato lo Stato di emergenza senza dichiararlo formalmente. Il giorno prima, 26 membri del suo stesso partito (Partito delle Regioni) hanno noleggiato un aereo per Vienna. In questo modo non possono approvare ulteriori idiozie da lui proposte. Un membro del partito ha detto che ogni voto richiesto veniva pagato 10mila dollari.I principali oligarchi che controllano circa il 30% del partito hanno preso pubblicamente posizione contro di lui. Tuttavia, la Costituzione e il sistema di corruzione assegnano al presidente tanto potere da rendere difficile un cambiamento secondo le leggi. 10 In linea di principio, tutti sanno queste cose e molto altro. Allora, che cosa fare? Attendere una soluzione pacifica? Dopo le sparatorie di ieri, gli attacchi e le menzogne pubbliche, quali opzioni esistono? Un altro membro del partito ha dichiarato che ogni ordine proviene dal presidente. Anche l’intelligentissimo ministro dell’Interno ha detto di non avere ordinato alle forze speciali di attaccare. A tutti i livelli di governo ci sono persone contrarie a ciò e lasciano trapelare informazioni: gli attacchi imminenti, chi dà gli ordini, quali armi vengono usate, ecc. La nave del presidente fa acqua da tutte le parti. La maggior parte dei manifestanti vuole aspettare con pazienza e pacificamente, ma alcuni stanno perdendo la pazienza e la fiducia nella prospettiva di un dialogo di fronte alle troppe menzogne. Quando si chiede perché il governo farebbe questo, bisogna circoscrivere alla domanda al presidente e alla sua cerchia di 4-5 ministri che hanno accumulato miliardi illegalmente. Possono immaginare solo di imprigionare o uccidere l’opposizione. Qualsiasi compromesso che si traduca in una riduzione del potere, per loro significherebbe perdere ricchezza e finire in carcere. Non avendo fatto in precedenza una piccola concessione, Yanukovich si è messo con le spalle al muro. È circolata una voce che volesse lasciare l’incarico e il Paese. Quindi non si tratta del governo nel suo insieme, che in sé non è un gruppo di alto profilo morale, ma di pochi che detengono la ricchezza, della polizia e di delinquenti di strada - e questo la dice lunga. I teppisti pagati hanno iniziato a vestirsi con i colori dei manifestanti e vagare per la città di notte. Hanno dato fuoco a una cinquantina di auto di manifestanti parcheggiate sotto casa. La notte del 18 hanno ucciso un giornalista che dava informazioni che non piacevano al governo. Ci sono testimoni e ciononostante il governo non reagisce. Anche i più impazienti o radicali tra i manifestanti hanno fatto alcune cose. In primo luogo, e perlopiù pacificamente, hanno occupato edifici della polizia e uffici amministrativi presidenziali in tutto il Paese. In alcuni casi, hanno distrutto queste proprietà, ma solo queste. Si è trattato di atti di sfida contro il presidente in persona. Ciò che è interessante è che altri manifestanti cercano di impedire ulteriori danni. In diversi casi hanno circondato gli edifici della polizia, chiedendo agli agenti di uscire e andare a casa, cosa che la polizia ha fatto pacificamente senza incidenti. Diversi responsabili regionali nominati dal presidente si sono dimessi subito dopo l’escalation della violenza. Altri sono stati costretti a dimettersi dalla gente del posto. A Leopoli, il sindaco ha chiesto ai manifestanti di organizzare ronde notturne per impedire che si compissero atti sconsiderati. Uno dei nostri gesuiti prende parte a queste ronde, che perlustrano i quartieri dove ci potrebbero essere rischi per edifici come il Consolato russo, banche o centri commerciali di proprietà di membri del partito del presidente. È davvero impressionante vedere l’orgoglio civico e il senso di responsabilità al posto della polizia: il Paese ha un anima e la gente la fa propria. Non sono mai stato in un Paese dove vi è una tale devozione per l’anima della nazione. Forse perché qui è stata vissuta tanta sofferenza, è stato versato sangue, c’è stata tanta repressione e la sofferenza di uno diventa di tutti. È il motivo per cui la gente accorre nel maidan. Uno sta accanto all’altro, rischiando la vita per l’Ucraina, la terra, l’unità nazionale, la fratellanza, ecc. Nel maidan si ripetono preghiere e l'inno nazionale, capita di ascoltarlo anche cento volte al giorno. I sacerdoti rimangono con la gente in piazza. Eparchie e diocesi invitano a pregare ogni ora in tutto il Paese. Sono stati proclamati giorni di digiuno e anche la Chiesa ortodossa russa in Ucraina (sotto il Patriarcato di Mosca ) ha preso posizione contro il governo. Questo è un fatto raro. Non ci sono sacerdoti con le truppe dal momento che queste fanno la loro comparsa con autobus nei momenti degli attacchi. I sacerdoti si sono avvicinati agli agenti quando erano schierati e hanno pregato davanti a loro. Anche il papa ha espresso una preghiera di sostegno al Paese e contro la violenza. La notizia è circolata ovunque ed è stata più volte ripetuta in televisione. La Chiesa offre una voce di equilibrio e moderazione, contro il male e per una risoluzione pacifica attraverso il dialogo. Questo è ciò che vuole la maggioranza, ma la tentazione è di perdere la pazienza. La voce della Chiesa rimane forte. Le richieste del popolo non sono solo per un qualche concetto ideologico di democrazia, ma esiste una corruzione endemica e una manipolazione ai più alti livelli di governo che mantengono la gente povera. Si nega la giustizia, si emettono condanne su basi discutibili e si limita lo sviluppo economico. Nelle carceri ci sono 150mila persone, tre volte più della media europea. 38mila sono in attesa di giudizio, alcuni da dodici anni. Il 95 % di essi soffre di epatiti. Questo tipo di statistiche si riscontra in diversi ambiti. Non esiste un piano, ideologia, visione di un bene superiore o qualsiasi ideale che guidi il presidente e i suoi amici. Nella Città di Dio, sant’Agostino parla di singoli credenti che fanno la differenza attraverso il comportamento personale. In Ucraina, questo sforzo è collettivo: il sistema deve migliorare per tutti o per nessuno. E ancora una volta, la battaglia è contro una forma di male: furto, ingiustizia, falsità, omicidio, ecc. Agostino dice che il male non può essere razionalmente compreso, come in questo caso. Non c'è una spiegazione per certe azioni e per la mancanza di azioni corrette, da parte del presidente, se non la paura. Il 19 febbraio è stato il giorno più tragico di tutti questi tre mesi. Almeno 26 sono state le vittime, di cui 19 uccise dalle forze speciali. Il presidente, citando solo per la seconda volta da novembre la perdita di vite umane, ha proclamato un giorno di lutto ufficiale, che ha coinciso con l’arrivo di tre ministri degli Esteri europei. La giornata prometteva di essere più calma, ma al mattino le truppe hanno attaccato il maidan. Cecchini erano appostati sui tetti e sparavano liberamente tra la folla. Sembra che ci siano stata subito un’altra ventina di morti uccisi e altri dieci nel corso della giornata. Una telecamera mostra i cecchini mentre sparano. I medici hanno verificato che i colpi hanno raggiunto testa, torace e cuore: azioni da professionisti. Come si spiega che un tale ordine sia stato dato in un giorno di lutto nazionale, mentre arrivavano alti rappresentanti stranieri? È irrazionale. Un altro elemento che non è stato ancora provato, ma la cui evidenza prende sempre più corpo, è che i cecchini e le forze speciali vengano dalla Russia. Un certo numero di persone che sono state rapite e picchiate affermano che veniva parlato loro in russo con l’accento della Russia e mai in ucraino. Questo ha un senso: gli ucraini detestano farsi del male, anche su ordine del governo. Durante la Rivoluzione arancione del 2004, in cui Yanukovich fu sconfitto, la polizia, le forze di sicurezza e l’esercito rifiutarono pubblicamente di combattere contro il gente. Dichiararono che erano dalla parte del popolo e non del governo. Yanukovich non perdonò mai la Rivoluzione arancione e, quando nel 2010 è diventato presidente, le sue guardie del corpo personali sono arrivate dalla Russia, causando notevole scandalo. Ancora una volta, ha paura e non si fida dei suoi. È del tutto credibile, perciò, che l'unico modo in cui potrebbe ottenere che le truppe sparino sul “proprio popolo” è di portare forze speciali russe. Diverse divisioni delle forze speciali ucraine si sono rifiutate di lasciare le loro guarnigioni regionali per venire a Kiev e combattere. Circa un centinaio di militari il 20 febbraio si sono recati nel maidan disarmati, dicendo di stare con la gente e di non voler ricevere ordini dal presidente. La presenza russa non deve essere intesa come una diretta interferenza della Russia, ma come una decisione di Yanukovich di fare affidamento sulle truppe di cui si può fidare e che può pagare generosamente. Tuttavia getterà una macchia pesante sulla Russia quando la verità verrà a galla. Ora è importante pregare e digiunare. Sacerdoti guidano regolarmente la preghiera nel maidan. Penso che ora, con tante defezioni nel partito del presidente, ci sarà una svolta. La Francia ne ha chiesto le dimissioni e credo che se l'Unione europea e gli Stati Uniti insisteranno con le sanzioni, questo avverrà. (fonte: Popoli - Webmagazine internazionale dei gesuiti) link: http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Rivolta_in_Ucraina_un_gesuita_racc onta.aspx 11 Associazioni Documenti Come sono usate le risorse nel progetto SPRAR Lunigiana (di ARCI Massa Carrara) L’Italia è l’unico Paese dell’Unione Europea nel quale la materia dell’asilo non è disciplinata in maniera organica. Questo ha comportato difficoltà in questi anni non solo per i richiedenti asilo e rifugiati, ma anche per gli stessi operatori chiamati ad applicare una normativa lacunosa e talvolta contraddittoria, di fronte a situazioni come quelle dell'Emergenza Nord Africa. Come ARCI continuiamo a chiedere una legge organica in materia di asilo, da inserire nel contesto più ampio della normativa sugli stranieri, e continuiamo a ricordare gli obblighi internazionali assunti dall’Italia in base alla Convenzione di Ginevra e alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Da questo punto di vista la creazione della rete Sistema Protezione Richiedenti Asilo Rifugiati (SPRAR) e la sua crescita nel tempo - pur non costituendo in assenza di un intervento legislativo organico la risoluzione del problema - è per noi un fatto positivo di gestione di questa tematica, anche a fronte di alternative sicuramente peggiori, quali una più lunga permanenza nei Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA). Le risorse investite nei progetti di accoglienza locale del sistema SPRAR, ci tolgono, infatti dalla situazione di emergenza e di spreco di denaro oltre che spesso di mancata tutela dei diritti - che si verifica in situazioni come quelle del CARA di Mineo (Catania) dove a fronte di 2000 posti disponibili, sono quasi 4.000 gli “ospiti” tra donne, uomini e bambini, in un campo circondato da filo spinato e presidiato da forze dell'ordine ed esercito. Una situazione in cui, tra l'altro, il rapporto con le associazioni, a differenza che nello SPRAR, è inesistente. I profughi ed i richiedenti asilo, purtroppo, continueranno ad esserci fino a quando ci saranno situazioni di guerra, di violazione dei diritti e di squilibrio nello sviluppo tra Nord e Sud del mondo. Anzi cresceranno. Come ARCI crediamo che sia doveroso che il nostro paese abbia un adeguato sistema di accoglienza e ad esso dedichi risorse economiche e competenze. Altrettanto doveroso riteniamo in una fase di grande sofferenza sociale, che qualcuno cerca di utilizzare per rompere quella solidarietà che andrebbe invece rafforzata, garantire la massima trasparenza sull'utilizzo delle risorse destinate al progetto SPRAR. Tanto più vista la natura pubblica delle risorse impiegate. Vogliamo iniziare dal funzionamento dell’amministrazione dei fondi, tema che, in questo momento di grave crisi economica e difficoltà delle famiglie e di molti cittadini, riteniamo particolarmente sensibile. Il Ministero stanzia 35 euro al giorno per ogni assistito dal programma (Fondo per le politiche ed i servizi dell’asilo) per un totale, qui in Lunigiana, di 558mila e 906 euro per tre anni. Il finanziamento può essere usato solo per le voci di spesa indicate come ammissibili dal Ministero: le spese in questione sono quelle relative ai servizi, alla gestione e al buon funzionamento del progetto. Ad esempio:per l’ accoglienza materiale ci sono le spese relative alle abitazioni (affitti, cauzioni, bollette, spese di allestimento degli appartamenti, spese di manutenzione e risistemazione periodica degli alloggi -che devono essere monitorati costantemente ed avere sempre un buon livello di decoro, gestione e vivibilità-,); spese relative al vitto e relative alla persona (effetti personali, scarpe, indumenti etc nota: per le spese relative alla persona dal Servizio Centrale è ammesso in percentuale l’uso di indumenti usati, le cui raccolte vanno quantificate e dichiarate. E' un modo per raggiungere la quota di cofinanziamento che viene imposta dal Ministero come obbligatoria per la presentazione del progetto. Considerata l’alternanza degli ospiti e i cambi di stagione buona parte degli indumenti/scarpe dovrà essere comunque acquistata. Lo stesso vale per le spese di allestimento degli appartamenti: è ammesso l’uso di mobili usati – se in buono stato e se garantiscono un allestimento decoroso degli alloggi); spese per i trasporti ordinarie (ogni ospite deve avere garantita la possibilità di muoversi agevolmente sul territorio per cui si dovranno fornire abbonamenti di autobus e treno per gli spostamenti utili, insieme si forniranno mezzi che possano usare per piccoli spostamenti in autonomia, es biciclette) e spostamenti relativi all’iter giudiziario (viaggi alla Questura di Massa, alla Prefettura di Massa; alla Commissione territoriale di Torino, colloqui con i legali a Firenze); spese mediche non ordinarie (non è raro che alcuni ospiti necessitino di visite specialistiche e di un piano terapeutico non coperto dal SSN); corsi di lingua italiana (oltre all’inserimento nei corsi sul territorio verranno attivati corsi interni con insegnanti qualificati che li seguiranno proponendo un progetto di apprendimento personalizzato relativo ai diversi livelli e necessità); costi relativi al personale (operatori, mediatori culturali, insegnanti, operatori legali, personale amministrativo) che è tenuto a garantire il buon funzionamento del progetto e un supporto a 360 gradi degli ospiti; Pocket Money (per le piccole spese personali ad ogni ospite vengono erogati 2,30 euro al giorno); spese per i documenti: sia per permessi temporanei che definitivi: marche da bollo, fototessere, versamenti; carta di viaggo; spese per l’uscita dal progetto: contributi per l’affitto ed interventi per agevolare, nel primo periodo, la sistemazione alloggiativa autonoma. Gli ospiti, come già specificato, non saranno fissi per i tre anni, ma, se l’iter va a buon fine e c’è una risposta positiva, si avvicenderanno anche ogni sei mesi, per cui alcune delle spese sopra citate vanno moltiplicate. In ogni caso per avere un quadro di quello che dovrebbe essere il percorso di accoglienza e il lavoro che si richiede agli operatori è forse utile e consigliata una veloce consultazione del Manuale Operativo perl’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza e integrazione perrichiedenti e titolari di protezione internazionale (scaricabile agevolmente su internet) Riguardo ai passaggi con cui viene regolamentata la gestione del finanziamento possono riassumersi così: ARCI Regione Toscana raccoglierà le fatture di spesa dagli operatori che gestiscono le case nei nostri comuni, le invierà mensilmente in rendicontazione alla SdS Lunigiana, SdS Lunigiana a sua volta le trasmetterà al Servizio Centrale del Ministero che, una volta verificata l'ammissibilità delle spese presentate, erogherà il corrispondente finanziamento alla Società della Salute che a sua volta lo girerà ad ARCI Toscana in qualità di riaccredito per le spese sostenute. E’ possibile che i riaccrediti (che dovrebbero avere cadenza mensile) non rispettino i tempi stabiliti, nell'eventualità ARCI Toscana, anche tramite un fido con Banca Etica, potrà fare fronte alle spese giornaliere e correnti dei centri. Ovviamente nel contributo è calcolato l’interesse passivo che ARCI deve riconoscere a Banca Etica. E’ un po’ complicato, ma verificabile. Una nota a parte: come possiamo vedere gran parte de finanziamento che arriva dal Ministero e che viene utilizzato per questo importante, civile e solidale progetto, resta sul territorio della Lunigiana e in particolare nei comuni dove sono accolti i richiedenti asilo (cercheremo ad esempio di appoggiarci, per le spese alimentari e non, sui market e negozi locali). Molti soci dei circoli ARCI e delle associazioni che hanno dato la loro adesione al progetto svolgeranno attività di volontariato per sostenere il progetto, farlo crescere e farlo conoscere ai cittadini permettendo loro di partecipare a una importante e civile esperienza. Questo lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo a maggior ragione oggi che abbiamo nei nostri comuni una concreta esperienza di accoglienza, solidarietà e di incontro interculturale. (documento a cura di ARCI Massa Carrara) link: http://sprarlunigiana.blogspot.it/2014/02/come-sono-usate-le-risorse-nelprogetto.html 12