Notiziario settimanale n. 490 del 11/07/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
19/07/2014: Anniversario dell'assassinio di Paolo Borsellino
Editoriale
L'indignazione è morta (di ComboniFem
Redazione Newsletter Suore Comboniane)
-
L’indignazione è morta. Non solo quella istituzionale, capace di
risvegliarsi oramai solo quando in ballo ci sono interessi economici o
politici propri, ma anche quella sociale. La nostra, insomma.
Oramai i migranti morti in mare vengono contati a spanne dai media.
Circa 30, almeno 60, ne mancherebbero altri 64… Numeri approssimativi,
che se fossero “nostri” sarebbero raccontati come una strage, che se si
riferiscono a “numeri” vivi vengono descritti come invasione. Ma non
sono “nostri”, per cui l’approssimazione non ci riguarda. Per noi i “circa”,
gli “almeno”, l’uso del condizionale non fanno la differenza. Non sono
“nostri”. E l’indignazione è morta.
Dopo le 366 vittime del 3 ottobre, che per giorni hanno riempito le pagine
dei giornali, indignato (?!) le istituzioni, gli altri corpi recuperati così,
“alla spicciolata”, ci scivolano addosso.
Indice generale
Editoriale.........................................................1
La differenza della notizia, lo insegnano nelle scuole di giornalismo, è
data dalla vicinanza. Più è vicina, più è sentita. E noi questi morti li
sentiamo lontani. Non percepiamo la strage, sentiamo l’invasione.
Siamo inumani sì, ma da manuale. Capaci di commuoverci davanti
all’Olocausto,di indignarci contro chi allora non si oppose alla
deportazione dei nostri ebrei, ma impassibili davanti ai morti migranti.
Siamo professionisti dell’ipocrisia.
(fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2091
L'indignazione è morta (di ComboniFem - Redazione Newsletter Suore
Comboniane)............................................................................................. 1
Approfondimenti
Approfondimenti.............................................1
La schiavitù ha il sapore dei gamberetti (di Marina Perotta).....................1
Industria, la soluzione pubblica (di Matteo Lucchese)............................... 2
Delitti & Ipocrisia. Se erano neri? (di Salvatore Bragantini) ......................2
Io sto con la sposa (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)....3
Danilo Dolci: uscire dal tempo primitivo (di Nicola Lo Bianco)................3
Studi per la Pace: dieci punti fondamentali (di Johan Galtung) ..................4
Una scuola senza stereotipi di genere (di Monica Pasquino).....................5
Comunicazione sociale, partecipazione ed empatia. Breve analisi dello
stato di salute del sistema socio-sanitario e del del terzo settore in Versilia
(di Angelo Puccinelli)................................................................................ 5
Notizie dal mondo...........................................6
A chi è utile la crisi in Iraq? (di Robert Fisk)............................................ 6
I ragazzi palestinesi uccisi non fanno notizia. Il dolore secondo i media
italiani (di Raimondo Schiavone)............................................................... 7
Recensioni/Segnalazioni.................................8
Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni possibili (Elena Parasiliti)
(di Centro Studi Sereno Regis).................................................................. 8
Diritti
La schiavitù ha il sapore dei gamberetti (di Marina
Perotta)
La storia dei pescatori comprati a trecento dollari dalle flotte dei
gamberetti in Thailandia e Cambogia conferma una cosa: la schiavitù non
è stata mai abolita, nemmeno nel XXI secolo.
I giornalisti del The Guardian Kate Hodal, Chris Kelly e Felicity
Lawrence hanno svelato che sui pescherecci che catturano il pesce
destinato all’allevamento di gamberetti in Thailandia e Cambogia decine
di pescatori sono tenuti sotto schiavitù. Il reportage è frutto di sei mesi di
indagini. I pescatori sono acquistati e venduti come animali e detenuti
sotto regime di schiavitù su barche da pesca al largo della Thailandia che
provvedono alla cattura del cosidetto pesce spazzatura (ossia quello non
commestibile) da destinare agli allevamenti di gamberetti venduti poi nei
principali supermercati di tutto il mondo, compresi i primi quattro retailer
globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco e Costco.
Dall’inchiesta è emerso che il più grande allevatore di gamberi del mondo
che ha base in Thailandia, la Charoen Pokphand Foods compra farina di
pesce, da alcuni fornitori che possiedono, gestiscono o acquistano da
barche da pesca sui cui sono sfruttai i pescatori schiavi. All’inchiesta ha
preso parte anche EJF Environmental Justice Foundation impegnata a
contrastare il traffico e sfruttamento di migranti birmani nella catena di
1
approvvigionamento di pesce. Già lo scorso gennaio EJF aveva
denunciato lo sfruttamento di bambini e donne nella pesca dei gamberetti
in Bangladesh con il report Impossibly Cheap: Abuse and Injustice in
Bangladesh’s Shrimp Industry.
non possegga una grande industria manifatturiera, l'industria in senso
stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze
economiche, sociali e politiche di altri paesi che tale industria
posseggono».
Steve Trent, direttore esecutivo di EJF, ha detto:
Era il 2003 quando Luciano Gallino iniziava così un agile libretto sul
declino dell'Italia industriale, passando in rassegna il ridimensionamento
della capacità produttiva in settori in cui l'Italia aveva avuto un posto di
primo piano. A 11 anni di distanza, complice certo la crisi economica, il
quadro industriale del paese non è cambiato e nessuna delle opportunità di
rilancio è stata colta laddove esistevano risorse umane e tecnologiche per
farlo.
E’ scandaloso che un settore che genera tali livelli di profitto non
riesca a sostenere i diritti umani fondamentali dei lavoratori. I
consumatori in Europa e negli Stati Uniti devono essere consapevoli dei
costi nascosti dei gamberetti incredibilmente a buon mercato. Nel 21 °
secolo, alimenti prodotti dal lavoro forzato o coatto non dovrebbe essere
presenti nei nostri piatti.
Gli uomini che sono riusciti a fuggire dai pescherecci hanno raccontato al
The Guardian delle condizioni drammatiche in cui sono costretti a
lavorare: turni di 20 ore, percosse regolari, torture e esecuzioni. Alcuni
sono stati in mare per anni; a altri sono state regolarmente offerte
metanfetamine per tenerli in piedi. Quindici lavoratori migranti
provenienti da Birmania e Cambogia hanno raccontato di essere stati
ridotti in schiavitù dopo che avevano pagato degli intermediari per aiutarli
a trovare lavoro in Thailandia nelle fabbriche o nei cantieri edili. Ma sono
stati venduti ai capitani dei pescherecci per 300 dollari.
Ha detto Aidan McQuade direttore dell’associazione non governativa
Anti-Slavery International
Se si acquistano gamberi o gamberetti dalla Thailandia si acquista il
prodotto del lavoro di uno schiavo.
CPF è il più grande esportatore di gamberi al mondo coprendo quasi il
10% dell’interno fabbisogno di gamberetti e ha un fatturato annuo 33
milioni di dollari mentre l’intero giro d’affari mondiale è di 7,3 miliardi di
dollari. La Thailandia è considerata la base per il transito o la destinazione
dei traffici di schiavi e si stima che quasi mezzo milione di persone siano
ridotte in schiavitù. Non vi è alcuna traccia ufficiale di quanti pescatori
siano stati resi schiavi sui pescherecci, ma il governo thailandese stima
che fino a 300.000 persone lavorano nel settore della pesca, il 90% dei
quali sono migranti vittime della tratta e venduti per la schiavitù in mare.
Questa situazione asce dall’aumento della domanda di gamberetti sempre
più economici negli Stati Uniti e in Europa e ciò ha spinto la manodopera
a basso costo fino alla schiavitù.
Nonostante i buoni propositi espressi dal Governo Thailandese le
associazioni che si occupano dei diritti umani ritengono che l’industria per
l’export dei frutti di mare dalla Thailandia sarebbe destinata a crollare
senza schiavitù.
I retailer hanno preso formalmente le distanze ma nella pratica si potrebbe
fare molto di più. Il primo passo riguarda noi consumatori: smettere di
comprare gamberetti provenienti dalla Thailandia.
Il fatto è che in Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di
rilancio del sistema industriale, anche in questi anni in cui il crollo degli
investimenti privati (e pubblici) ne rivelerebbe l'estremo bisogno.
L'esperienza delle partecipazione statali e la gestione spesso corrotta dei
fondi pubblici ha inevitabilmente finito per condizionare, anche a sinistra,
il dibattito sull'utilità di forme di intervento pubblico a sostegno
dell'industria. Altrove nel mondo, dopo un ventennio di politiche
neoliberiste, il ritorno sulla scena della politica industriale ha
accompagnato la promozione di piani di sviluppo dell'industria con un
forte coinvolgimento dei governi.
Secondo Mariana Mazzucato, è necessario «imporre una nuova narrativa e
una nuova terminologia per descrivere il ruolo dello Stato» nell'economia.
Nel suo libro sullo Stato imprenditore (o «innovatore» come recita il titolo
dell'edizione italiana), Mazzucato ricorda come dietro le tecnologie più
innovative si possa ritrovare l'azione pioneristica dello Stato, a guidare
con considerevoli investimenti in programmi di ricerca di base e applicata
gli sforzi innovativi d'impresa. Uno Stato che è chiamato a catalizzare gli
investimenti del settore privato in aree ad alto rischio in cui i privati non
sarebbero disposti ad investire. Con la consapevolezza che non tutti gli
investimenti avranno successo e parte dei progetti saranno destinati al
fallimento. Per fare questo, lo Stato avrebbe bisogno di sviluppare le
migliori competenze, anziché ridurre drasticamente la sua sfera di
influenza.
Non sarebbe dunque necessario ridurre il suo peso, quanto ripensare lo
Stato come attrattore delle migliori esperienze e competenze. Proprio in
Italia varrebbe la pena provare a farlo, individuando nel contempo forme
nuove di controllo democratico degli investimenti.
Anche l'Europa dovrebbe fare la sua parte, promuovendo piani industriali
concreti volti ad uno sviluppo più equilibrato del sistema industriale
europeo. Tenendo ben presente che il dibattito sul futuro industriale di un
paese è legato inscindibilmente alla qualità del lavoro che quel paese potrà
permettersi nel futuro.
Fonte: ecoblog
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata
la fonte: www.sbilanciamoci.info.
(fonte: Comune-info)
link: http://comune-info.net/2014/06/schiavitu-gamberetti/
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-soluzione-pubblica-25079
Economia
Immigrazione
Industria,
Lucchese)
la
soluzione
pubblica
(di
Matteo Delitti & Ipocrisia. Se erano neri? (di Salvatore
Bragantini)
Lo Stato dell'economia/In Italia si è rinunciato da tempo a definire un
piano di rilancio del sistema industriale, anche in questi anni in cui il
crollo degli investimenti privati (e pubblici) ne rivelerebbe l'estremo
bisogno.
«Nel XXI secolo, non meno che nei due secoli precedenti, un paese che
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Omicidi efferati compiuti da italiani. Quando l'indignazione scatta a
seconda del colore della pelle
In Lombardia ci sono stati due gravissimi delitti nei giorni scorsi: a
Cinisello Balsamo un ragazzo sui trent'anni, che girava nudo per la strada
gridando di essere un uomo libero, ha ucciso una persona e ferito
gravemente altre due. A Motta Visconti, un uomo ha freddamente
pianificato l'uccisione della moglie e dei loro due figli, poi se n'è andato
da amici a vedere la partita della Nazionale; doveva questo essere il suo
alibi a prova di bomba, che invece s'è afflosciato in 24 ore.
Ci si potrebbe chiedere come pensasse, il secondo, di farla franca, o di
vivere tranquillo dopo quel che ha fatto, o se non era più semplice
divorziare; al riguardo pare abbia detto agli inquirenti, che glie lo
chiedevano, che sì, poteva farlo, ma dopo restavano i figli, per questo li ha
uccisi tutti.
Anche la soluzione del caso della povera Yara Gambirasio, con
l'individuazione di un (presunto, ricordiamolo) colpevole anch'egli molto
domestico, non ha destato particolari reazioni.
Qui si vuol riflettere solo su un aspetto particolare. Fatti così violenti e
immotivati hanno provocato uno sdegno tutto sommato limitato. Perché?
Forse perché gli assassini sono simili a noi, sembrano il vicino della porta
accanto e questo, paradossalmente, anziché farci più paura, quasi sembra
rassicurarci. Ben diverse sarebbero state le reazioni se gli assassini
avessero avuto la pelle nera, come quel Kabobo che l'anno scorso
massacrò a Milano tre persone; un fatto per il quale sobriamente si
reclamò la reintroduzione della pena di morte.
I neri ci fanno paura di per sé, i “nostri” ci danno sicurezza. Se anche qui
ci fosse stato di mezzo un nero, le reazioni sarebbero state violente, con le
fiaccolate, la Lega in testa a reclamare la pulizia etnica o ad evocare, con
la nota signorilità, la derattizzazione. Si vede che i “nostri”assassini sono
ritenuti più buoni, per loro la pena di morte sarebbe esagerata, fuori
misura. Il colore della loro pelle è una garanzia, quella degli altri invece è
una condanna.
(fonte: Linkiesta)
link: http://www.linkiesta.it/omicidi-italiani-ipocrisia-bragantini
Io sto con la sposa (di Associazione Studi Giuridici
sull'Immigrazione)
L’ASGI invita a sostenere il progetto “Io sto con la sposa”
(http://www.iostoconlasposa.com/#home).
Un film documentario ma anche un’azione politica, una storia reale ma
anche fantastica:Io sto con la sposa è tutte queste cose insieme, spiegano
gli autori.
Tra i protagonisti ci sono gli autori del film: Gabriele Del Grande,
giornalista italiano e autore del blog Fortress Europe, Khaled Soliman al
Nassiry, poeta palestinese siriano, e Antonio Augugliaro, regista
televisivo. Dopo aver incontrato a Milano cinque palestinesi e siriani
sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra, decidono di aiutarli a
continuare il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere
arrestati come trafficanti di esseri umani, decidono di mettere in scena un
finto matrimonio coinvolgendo un’amica palestinese che si travestirà da
sposa e una decina di amici italiani e siriani che si fingeranno invitati.
Così mascherati attraverseranno in corteo mezza Europa, da Milano a
Stoccolma, tra il 14 e il 18 novembre 2013: un viaggio di tremila
chilometri raccontato in presa diretta.
Il costo della produzione e postproduzione è di 150 mila euro. Una
campagna di crowdfunding punta a raccoglierne almeno la metà, 75 mila
euro.Il film è gia' riuscito ad iscriversi al Festival di Venezia . (Fonte :
Internazionale)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2090
Nonviolenza
Danilo Dolci: uscire dal tempo primitivo (di Nicola
Lo Bianco)
La vita e l’opera di Danilo Dolci sono un esempio di come è possibile
3
cambiare “costringendo” alla saggezza gli increduli, i sottomessi ridotti al
silenzio, le autorità irresponsabili.
Probabilmente fu l’impressione dell’estrema miseria che ne ebbe da
bambino, seguendo gli spostamenti del padre capostazione, a farlo tornare
a Trappeto, vicino Partinico, un piccolo borgo marinaro tra le province di
Palermo e Trapani.
Seguiva, si capisce, una sua spinta interiore:la volontà di rendere la vita
coerente coi princìpi, il desiderio di conoscere non astrattamente, ma nel
vivo della realtà, l’innata sensibilità alla sofferenza, soprattutto a quella
degli inermi che scontano le ingiustizie del mondo.
La prima esperienza, abbandonati gli studi di architettura, è quella di
Nomadelfia con don Zeno Saltini, a Fossoli, un ex campo di
concentramento nazifascista, dove orfani, ragazzi sbandati, ex ladruncoli,
potevano ritrovare una casa-famiglia.
Dopo quasi due anni <di una prima profonda esperienza-conoscenza
diretta>, confermato nei suoi propositi e sulla scorta della domanda che
sempre più lo assilla -<e il resto del mondo?>-, abbandona, lui triestino, il
Nord, e si trasferisce definitivamente in Sicilia<per capire un mondo che
nessuno si sforzava di ascoltare>.
Credo che il rovello spirituale di Danilo Dolci sia stato quello di
“pretendere” un compiuto rispetto dell’essere umano, ricercando i
fondamenti di una possibile liberazione morale, oltre che
materiale:<Aspiravo –dice in “Ciò che ho imparato” – a “nuovo cielo e
nuova terra”…volevo scoprire l’anima della vita>.
A pochi mesi dal suo arrivo a Trappeto, nell’ottobre del ’52, <l’anima
della vita> assume la forma assurda e tragica della morte del piccolo
Benedetto Barretta per denutrizione.
E’ il primo digiuno di protesta, l’inizio di un infaticabile impegno per far
risorgere consapevolezza e speranza <in una delle zone più misere e più
insaguinate del mondo>.
Sono gli anni del banditismo, delle stragi dei contadini, della mafia
latifondista e politica, della negazioni di bisogni primari:lavoro,
istruzione, cibo, salute, violazioni di diritti umani che corrispondevano
all’asservimento padronale e mafioso.
L’acqua, ad es., l’acqua, che di nuovo oggi c’è chi manovra per farne
proprietà privata, era in potere della mafia, che la gestiva secondo suoi
torbidi interessi, secondo amicizie ed alleanze, o costringendo “gli altri”,
la massa dei contadini, alla subordinazione e all’ossequio.
Il giovane Dolci comincia a capire il “sistema”, e si rende conto che
l’acqua, in un’economia estesamente agricola, è il nodo da sciogliere per
creare una breccia nel dominio semifeudale.
E’ la grande sfida della diga sul fiume Jato, l’opera alla quale i siciliani
legano immediatamente il nome di Danilo:un decennio di proteste
clamorose, di scioperi alla rovescia, di studi sapienti e mirati, di
conferenze che chiamano in causa l’inerzia dei governi.
Ma sono anche intimidazioni, denunce, processi, galera.
I lavori di costruzione iniziano nel febbraio del 1963.
Frattanto la figura di Danilo Dolci prende rilievo nazionale ed europeo.
Attorno alle sue iniziative si raccolgono numerosi giovani volontari,
intellettuali e studiosi di prestigio che credono nella necessità di <passare
da un mondo autoritario e frammentato ad un mondo pluricentrico e
coordinato>.
Nel mentre che continua la partecipazione attiva alla denuncia di ogni
forma di violenza, di degrado, di umiliazione dell’uomo, sorgono l’Asilocasa per i bambini più bisognosi, il Centro studi e iniziative, Radio Libera
Partinico, “la radio dei poveri cristi”, la prima radio libera in Sicilia(libera,
non privata), immediatamente chiusa dalle autorità.
Il Centro di Borgo di Dio (gloria delle parole) a Trappeto, diviene un
laboratorio di elaborazione teorica e pratica dove prendono la parola non
solo gli studiosi più qualificati, ma anche i diretti interessati:la gente del
luogo, i contadini, i disoccupati, gli analfabeti, le tante famiglie
abbandonate a se stesse, taluni ex banditi.
<La mia vita è la tua, la mia vita non può non essere anche la tua>, è un
principio fondamentale nell’operare di Danilo Dolci, morale, di metodo, di
conoscenza:dar voce agli ultimi, partecipare dal di dentro alla loro vita,
valorizzare le loro competenze e apprendere dalla loro saggezza, portare le
cose più alte a confrontarsi con la loro cultura, ascoltare e costruire
insieme.
Si trattava davvero, in quel tempo e in quei luoghi, di “portare i disperati
alla luce”, perché, oltretutto, bisognava infrangere l’atavica diffidenza e lo
scetticismo dei siciliani.
Ma <ciascuno cresce solo se sognato>, e il “sogno”, oltre a condizioni di
vita più degne, era quello di far crescere <un uomo nuovo>, lo scopo vero
al fondo del pensiero e dell’opera di Danilo Dolci.
Non è solo la persistente attenzione alle problematiche pedagogiche, è la
trama stessa dell’attività, il modo stesso di interagire, a sollecitare la
riflessione e la coscienza personale, a rivedere punti di vista e abitudini
mentali, a riconoscere veridicità a quel principio basilare dettato da
Gandhi: <Sii tu per primo quel cambiamento del mondo che vorresti>.
Il possibile “cambiamento” sta per Danilo Dolci nel rapporto intrinseco tra
individuale e collettivo, nel conoscere meglio se stessi e l’ambiente in cui
si vive, nello scoprire che <c’è la possibilità di vivere per tutti>, nel
<rifiutarsi ad ogni professione ed occasione che ci impegni in sfruttamenti
ed assassinii di ogni genere>.
La violenza, sia fisica che verbale, è bandita senza compromessi,
perché<quando dici no alla violenza e alla menzogna, la lotta di
liberazione è già cominciata>:c’è la ferma condanna dell’errore, ma
respinge l’annientamento e l’umiliazione di chi lo compie, fosse anche
l’uomo più bieco, perché <non ci sono nemici>, ma uomini che devono
essere indotti al buon senso e al senso di responsabilità.
E’ un’eco della “Pacem in terris” di Giovanni XXIII: “non si dovrà mai
confondere l’errore con l’errante”, un insegnamento che oggi si tende
gravemente a trascurare.
E’ l’acume di Pierpaolo Pasolini a scoprire, già in alcune poesie giovanili
(’51) di Danilo, un fermento religioso che identifica “Dio con il prossimo
come immediata collettività…ha riscoperto L’Altro nei più poveri, soli,
diseredati…”.
Invero, Danilo Dolci è uno spirito religioso che opera laicamente, è
l’uomo che vorrebbe coniugare un senso mistico-missionario della vita
con la ricerca tutta terrena della verità.
La morale, ad es., non può essere imposta dall’esterno, perché risulterebbe
una sovrapposizione ben presto vanificata dall’incontro con la realtà; è,
invece, un impegno quotidiano, deve scaturire dal dialogo, dal confronto
con l’altrui esperienza, dal lavoro proiettato sul sociale, dalla ricerca di un
mondo più sano, insomma, dal mettere l’uomo nelle condizioni di poter
scegliere liberamente il bene e non il male.
D’altro canto, il principio evangelico dell’amore per il prossimo è
indispensabile perché<senza la carità, il sapere tende a divenire inumano>.
Che nell’animo di quest’altro maestro del Novecento ci fosse, al di sopra
dello scopo umano, un senso divino dell’operare, ce lo dice indirettamente
lo storico Giuseppe Casarrubea, che in quegli anni conobbe Danilo e
collaborò con lui:-Tra i suoi grandi maestri citava: Cristo e Lenin, Gandhi
e Capitini, San Francesco e don Zeno Saltini-.
E, del resto, è testimonianza comune che “Danilo fu sempre povero, e non
disdegnò mai di esserlo”.
Nicola Lo Bianco
Articolo per la rivista “Famiglia in dialogo” -16 maggio 2007(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2085
Pace
Studi per la Pace: dieci punti fondamentali (di
Johan Galtung)
Grazie per volere un compendio dei punti chiave nei “Galtung Peace
Studies”. Sono appena stato onorato con un “Premio alla carriera”
(Lifetime Award) della sociologia mondiale, oltre 60 anni; in breve, tempo
sufficiente per un compendio con un avvertimento: non un surrogato alla
lettura dei libri.
[1] 1951: Studi per la pace = teoria della pace + pratica della pace; scienza
applicata, con un valore esplicito – la pace – con teorie indicative di una
4
prassi e una pratica di verifica delle teorie; come gli studi sulla salute, a
differenza delle scienze sociali.Modello: la pace sta alla violenza come la
salute alla malattia; diagnosi-prognosi-terapia hanno prodotto salute
indebolendo i patogeni-rafforzando i sanogeni; provare lo stesso con la
pace indebolendo gli elementi fomentatori di guerra-rafforzando i
fomentatori di pace. Mantra: mediante ricerca interdisciplinare, internazionale, interlivello.
[2] Come nella malattia violenza=sofferenza di corpo-mente-spirito, anche
dei familiari; a differenza della malattia, un atto intenzionale di
commissione, un rapporto perpetratore-vittima, un crimine, incarnato nella
guerra aggressiva. Le ferite fisiche possono essere guarite ma stigma,
vergogna, umiliazione, disperazione, astio, paura, vendetta possono
sedimentarsi come traumi nella mente e nello spirito. Per gli approcci
giudiziari, sentenza e punizione – contro il furto dell’ ambita proprietà,
violenza corporale e sessuale – si aggiungano gli approcci orientati alla
vittima e al contesto come l’avere meno beni, più compagnia, nessuna
provocazione e approcci orientati al contesto come per esempio cittadini
in borghese in funzione di vigilantes in spazi pubblici, ecc.
Ma l’antidoto alla violenza è la pace: una struttura di interazioni positive,
una cultura di nonviolenza, focalizzata sul positivo nello yin/yang degli
altri e sul cambiamento da rapporti violenti a pacifici, anziché sugli
attributi delle parti; i rapporti hanno un peso più causale e sono irreducibili
agli attributi: si veda il rapporto logica-buddhismo-taoismo.
[3] La pace è stata liberata dal baricentro dello stato per coprire cinque
livelli:
1. pace con la natura, pace ambientale;
2. micro-livello: interiore, e interpersonale nelle famiglie, a scuola,
al lavoro;
3. meso-livello: fra gruppi, generazioni-generi-razze-classinazioni;
4. macro-livello: fra stati, nazioni e nazioni-e-stati;
5. mega-livello: fra macroregioni, civiltà; entro il mondo.
[4] 1958: Pace divisa fra negativa e positiva – l’assenza di violenza; e la
presenza di cooperazione e armonia. Sinonimi: sicurezza; e convivencia in
spagnolo, kyosei in giapponese (in inglese?). Tesi: un contesto di pace
positiva contribuisce alla pace negativa come un contesto di corpo-mentespirito-equilibrio sociale-benessere riduce la malattia.
[5] 1965: Violenza divisa fra diretta e strutturale, gli atti non intenzionali
di omissione che mantengono strutture di diseguaglianza, di sovraccarico,
di isolamento, sottocarico; economicamente, militarmente, politicamente,
culturalmente; che generalmente uccidono-feriscono molto più che la
violenza diretta; aggiungendo a questo una violenza culturale che legittima
quella diretta e strutturale.
[6]Formula di pace: paxogeni/bellogeni (salute: sanogeni/ patogeni); pace
positiva/assenza di pace negativa. Paxogeni chiave sono Equità
(cooperazione a reciproco e uguale beneficio) ed Empatia (per l’armonia,
soffrire della sofferenza altrui e godere della gioia altrui); bellogeni chiave
sono il Trauma non riconciliato e il Conflitto non risolto = obiettivi
incompatibili:
Equità X Empatia
Pace = ——————–——
Trauma X Conflitto
Ciò implica quattro compiti di pace principali: Costruire equità, Educare
all’armonia, Riconciliare i traumi e Risolvere il conflitto; tutti inerenti alla
relazione, tutti maxi-3C, costruttivi-concreti-creativi, evitando moralismocritica.
Si basa su una visione olistica di sistemi con contraddizioni, mirante al
loro trascendimento con una mediazione basata sul dialogo e la ricerca
reciproca di una nuova realtà. La teoria della pace si basa su Negoziato,
Stato di Diritto, Diritti Umani, Democrazia, e presuppone che la somma
della/e pace/i interne [alle singole società] è la pace globale, e che il
compromesso è sufficiente; diritto mondiale, diritti globali, democrazia
ONU e possono servire nuove realtà.
In breve, una cultura di pace con cinque componenti: dialogo-equitàempatia-conciliazione-soluzione. La negazione è una cultura di violenza;
come una cultura del malessere nega una cultura sanitaria di igiene,
evitare i pericoli, buona nutrizione, esercizio e soluzione di dilemmi e
conflitti.
[7]Costruire Equità. Eguagliare gli effetti collaterali, le esternalità
dell’interazione; un’economia di pace è un impegno in questa direzione.
[8]Educazione all’Armonia. Consapevolezza della propria e altrui visione
del mondo; l’educazione alla pace è un impegno in questa direzione.
[9]Riconciliare i Traumi. Ripulire il passato, desiderando che la violenza
sia superata e cooperando per un futuro migliore; il giornalismo di pace è
un impegno in questa direzione.
[10]Risolvere i Conflitti. Creare nuove realtà rendendo compatibili gli
obiettivi legittimi incompatibili; il giornalismo di pace è un impegno in
questa direzione.
Verifichiamolo in un caso concreto: il rapporto della nazione ebraica – con
la sua immensa sofferenza – verso il resto del mondo:
La pace è definita espressamente come riduzione di comportamentiatteggiamenti violenti e rassicurare un Israele con attributi ebraici (stato
ebraico = solo ebrei?). La diagnosi si basa sulla grossolana discordanza fra
una minoranza che tiene molto al potere economico-culturale e una
maggioranza che tiene molto al potere politico-militare, una ricetta per il
disastro; si basa inoltre su un frequente pregiudizio; e su “fatti sul terreno”
(insediamenti=colonialismo). La prognosi si basa su casi analoghi.
La terapia rimuove le cause di violenza, costruendo pace con lo schema 12-6-20, eventualmente con cantoni israeliani in Cisgiordania e palestinesi
nel NordOvest d’Israele (donde originò gran parte della Naqba). La
MEC*, Comunità MediOrientale, comprenderebbe Israele e i suoi cinque
vicini arabi, modellata sulla Comunità Europea del 1 gennaio 1958, e
l’OSCWA**, organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Asia
Occidentale, comprenderebbe i vicini e i vicini dei vicini, modellata
sull’OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
Gli studi per la pace aggiungono previsione e visioni di terapia all’analisi,
e una pratica alla teoria; per una pace negativa e una pace positiva.
Johan Galtung
(fonte: Unimondo newsletter)
link: http://www.unimondo.org/Notizie/Studi-per-la-Pace-dieci-punti-fondamentali146298
Questione di genere
Una scuola senza stereotipi di genere (di Monica
Pasquino)
Da Siracusa a Bologna passando per Roma. Da nord a sud, tre piccole
associazioni – Stonewall, Il Progetto Alice e Scosse – hanno lanciato un
incontro nazionale, sabato 20 settembre 2014, a Roma, tra associazioni,
insegnanti, esperti, educatori ed educatrici che quotidianamente lavorano
nelle scuole e negli spazi extrascolastici per la costruzione di una società
con meno stereotipi e violenza.
C’è stato un così grande interesse verso l’iniziativa che in poche settimane
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i co-promotori sono passati da tre a più di un centinaio. Tra di loro, molte
realtà territoriali, associazioni, comitati di genitori, istituti di ricerca e
associazioni di carattere nazionale.
Il 20 settembre è un appuntamento per stabilire sinergie e connessioni tra
chi realizza progetti dedicati al contrasto agli stereotipi di genere, alla
valorizzazione delle differenze, alla pluralità dei modelli familiari, alla
prevenzione di bullismo, omofobia, transfobia e violenza maschile contro
le donne.
n questo percorso, da un lato la scuola è il luogo privilegiato in cui agire,
in quanto spazio in cui le nuove generazioni si educano non solo
impartendo nozioni, perché nessuna scuola, neanche i nidi e le scuole
dell’infanzia, assolve solo a una funzione di assistenza e di accudimento.
Dall’altro la comunità torna ad avere il suo indispensabile ruolo e
responsabilità nella formazione dei cittadini e delle cittadine di domani.
che abiteranno società plurali.
Negli ultimi mesi è ritornata in auge una battaglia che carsicamente
ritorna, contro l’educazione alle differenze e gli studi di genere. Gli
articoli e le dichiarazioni che animato queste polemiche hanno un peso
specifico non indifferente: hanno l’obiettivo politico di favorire il
mantenimento di ruoli e abitudini tradizionali e stereotipanti, contro le
cosiddette “derive del femminismo” o “ideologie del gender”.
Le cento associazioni che promuovono la giornata nazionale per
L’educazione alle differenze, che promuovono libertà e pluralità, secondo
la cultura democratica e il principio della laicità come fondamento della
scuola dello Stato, sono stanche di subire distorsioni e accuse infondate.
Il 17 giugno a Roma, si è svolta la prima assemblea territoriale per
presentare l’incontro nazionale che si svolgerà il 20 settembre a Roma. E’
stata una bella occasione per iniziare a discutere sulla giornata del 20
settembre. Il 25 giugno a Milano ci sarà un altro incontro, organizzato
dalla Consulta Milanese per la Laicità delle Istituzioni e da MaMi –
Mamme, per avviare un altro filo del ragionamento.
Per info sul programma dei lavori, la call degli interventi e la
suddivisione dei tavoli proposta per la giornata nazionale del 20 settembre
leggi qui. Alla giornata hanno aderito centinaia di associazioni (vedi qui).
Per
aderire
e
per
ulteriori
informazioni
scrivete
a
[email protected]. Comune-info sarà uno dei mediapartener dell’evento.
(fonte: Comune-info)
link: http://comune-info.net/2014/06/genere/
Questioni sociali
Comunicazione sociale, partecipazione ed empatia.
Breve analisi dello stato di salute del sistema sociosanitario e del del terzo settore in Versilia (di Angelo
Puccinelli)
La vita è uguale per tutti! Quando sei nato non puoi più nasconderti
Da sempre mi occupo di sociale e diritti di cittadinanza, studio la materia
ricavando elementi di analisi e mutuando concetti da diverse discipline.
Partecipo a consulte, Conferenze dei Servizi e alla Società della Salute.
Dal 2001 siedo al tavolo Disabilità. Intervengo ai convegni degli enti
pubblici teritoriali: in particolare, sono presente alle iniziative sui temi
della disabilità e della salute mentale. Sono socio aggregato AICCeF. Da
poco, ho concluso l'Accademia del Cittadino della R.T. e ho dato la mia
disponibilità a partecipare al GART.
Rilevo che, in genere, le riflessioni e le proposte di solito si limitano ai
bisogni contingenti correlati alla patologia e all'età e non considerano il
panorama evolutivo della persona e le dinamiche familiari e ambientali.
Si riferiscono ai soli cittadini in carico ai servizi e si assume l'esistente
come realtà immutabile. Così, delle decine di migliaia di aventi titolo4,
solo una minoranza riceve parziali risposte. Non sempre si rispetta il
diritto all'informazione e alla comunicazione sociale5. Si elude la
trasparenza amministrativa6. Sembra che la prassi sia quella di far fare
domanda per i servizi soltanto a chi può essere servito: non si hanno liste
di attesa; si evita la programmazione e la progettualità basata sulla persona
e sui mutevoli bisogni delle famiglie. Da anni gli amministratori
dichiarano la scarsità delle risorse, che dicono ora essere finite, ma non
dicono come impiegano quelle a disposizione, ne si confrontano con i
cittadini sulla qualità dei servizi e l'efficacia delle cure. Per lo più, il
dibattito si apre quando la sala si svuota e il confronto avviene, in assenza
degli amministratori, fra i soliti resistenti. Poi il silenzio. Senza
provvedere a migliorare efficacemente il rapporto con il territorio7,
preparare il rientro e sostenere la permanenza a casa o, in assenza dei
genitori e congiunti8, in luoghi a misura di persona, si continuano a
proporre costose9, stigmatizzanti, cronicizzanti, anaffettive strutture di
cura e assistenza, insufficienti a rispondere alle crescenti necessità dei
residenti. Le decisioni su come devono vivere e morire10 gli invalidi e i
loro cari sono prese, in altre sedi, prescindendo dai bisogni affettivi,
sradicandoli dal loro ambiente, imponendo l'accanimento terapeutico e
svilendo la ricchezza delle risorse umane presenti nella zona. Chi di noi
vuole finire la vita in una RSA o lasciare il figlio in una RSD? Tutti
invocano collaborazione, ma sorvolano su trasparenza, equità e
solidarietà; ignorano la circolarità della sofferenza11. Si moltiplicano e si
sprecano i momenti di pseudo-partecipazione. La famiglia, costretta
all'assistenzialismo, è sola nel suo malessere. I genitori sono indotti al
silenzio e confinati nell'invisibilità; fratelli e sorelle anonimi eredi di
pesanti condizioni esistenziali. Vittime della pedagogia nera, siamo
scotomizzati12: le nostre parole cadono nel vuoto e spesso sono usate
contro di noi. Le parti sociali e gli esperti parlano differenti linguaggi,
estranei al benessere delle persone, che danno l'illusione del dialogo e
della cooperazione. Se esistono, non si diffondono i dati sull'età, sesso,
tipologia e gravità dei disturbi e non si valutano le proiezioni del
fenomeno. In genere, la politica non conosce la dimensione e la qualità
del bisogno e delega l'Azienda a gestire disabilità e salute mentale. Si
assiste al rimpallo delle competenze e, oltre la disponibilità di qualche
medico, alcune infermiere e pochi operatori, le UU.OO. sembrano
operare, nella sola ottica del bilancio, come imprese in concorrenza fra
loro. Non si fa riferimento alla ricerca e alle asserzioni della psicologia
umanistica e sociale del secolo scorso né si emulano le buone prassi dei
vicini. In un ambito ad elevata complessità relazionale, ad alta pregnanza
emotiva, contrattualmente atipico, dove si confondono cliente13 e
committente, i servizi residenziali e alla persona sono esternalizzati con
gare al ribasso e corrispettivo a retta, costringendo i fornitori provvisori14
a equilibrismi gestionali che ricadono sulla qualità della vita di lavoratori
precari a rischio di burnout15, degli ospiti che vi stazionano a vita16 e
dei genitori che si consumano al pensiero della loro futura assenza e
precocemente invecchiano e si ammalano17. L'alternarsi degli operatori,
la gravità, l'inevitabile declino degli ospiti e la fatica dei genitori non
agevolano la coesione e la solidarietà fra gli attori in scena. La continua
rotazione degli uni e degli altri e, soprattutto, lo squilibrato rapporto
curante/utente non consentono un'adeguata formazione e l'instaurarsi di
rapporti significativi. In un dinamismo statico, ammantato di supponenza,
l'esistenza si snoda nel rosario di fugaci incontri che non concedono che
una fragile vicinanza. Il singolo ha difficoltà a districarsi nel labirinto
delle competenze, si fida delle istituzioni e si affida ai referenti18. Per
timore reverenziale e paura di ritorsioni19, non esercita il controllo,
rinuncia alla difesa e fugge la responsabilità20. Da più di dieci anni nulla
cambia in Versilia21: in un defadigante stallo, ognuno difende il ruolo e la
posizione acquisita. Impossibile, allo stato dei fatti, coordinare il terzo
settore, evitare sovrapposizione di azioni e di tematiche. A fronte di tale
parcellizzazione, sulla comprensibile spinta emotiva di drammi privati,
proliferano nuove compagini, che attraggono (e distraggono) il sempre più
distratto immaginario collettivo e sollecitano il paternalismo di
professionisti e istituzioni che deprime l'autostima, manipola e
strumentalizza l'iniziativa dal basso, ostacola la coesione sociale e la
solidarietà fra pari. Indipendentemente dalla causa, i bisogni sociali sono
sempre gli stessi. Se per la cura necessita la specializzazione, per la tutela
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dei diritti dobbiamo allearci, presentare richieste unitarie, motivate e
solidali, pretendere risposte adeguate. Agire isolati frammenta la
domanda; disperde le risorse; separa e discrimina i più deboli; ostacola la
solidarietà, impedisce le economie di scala. Si vive di più ma peggio. Ci
muoviamo in un contesto culturale, politico, economico, sociale e
amministrativo saturo di violenza verso i marginali, che genera incertezza
e paura, altera i bioritmi e affatica la mente. Il normale livello di ansia
diventa insopportabile in presenza della non autosufficienza,
dell'handicap, e del disturbo mentale che, associati alla perdita di
prospettiva, generano conflitti e sofferenza aggiuntiva proprio fra coloro,
famiglie e strutture, per i quali, e nelle quali, c'è più bisogno di
consapevolezza, collaborazione e ascolto. A volte rilevo una timida
apertura a un confronto costruttivo, tuttavia, nel momento in cui le parole
sfiorano ferite e lutti non elaborati l'incanto si dissolve. Allora ho la
conferma che la crisi è culturale e strutturale. Al netto dell'illegalità, il
sistema è di pura assistenza: induce il cittadino a eludere i propri doveri e
maturare una pretesa assoluta verso la collettività;
costringe le
organizzazioni a un'aspra concorrenza22 per accaparrarsi le briciole dello
stato sociale in disfacimento. Palese l'autoreferenzialità di associazioni e
cooperative. Stante l'attuale confusa e oppressiva legislazione, è
inevitabile che il terzo settore si determini come un“magma informe”23
speculare alla politica, dove convivono realtà molto diverse tra loro, in un
intrico di conflitti d'interesse. Gli individui isolati subiscono le politiche di
austerità e sono condannati all'esclusione sociale24. La famiglia sopporta
il peso della rovina sociale prodotta da pochi. Dobbiamo discernere le
responsabilità. È necessario dotarci di efficaci strumenti di verifica e di
controllo per smascherare i millantatori, sanzionare i malfattori, tutelare
gli onesti, sostenere chi ha veramente bisogno e riconoscere il lavoro di
cura dei familiari25 in assenza del quale il sistema sarebbe già imploso,
poiché non esistono "falsi invalidi" ma furbi che si procurano false
certificazioni con la complicità di medici e funzionari disonesti. Intanto
povertà e disperazione travalicano le mura domestiche,
dilagano
nell'ambiente, turbano gli animi, annientano le esistenze.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2092
Notizie dal mondo
Iraq
A chi è utile la crisi in Iraq? (di Robert Fisk)
L’ennesima crisi in Iraq ha un’origine precisa: la guerra creata da Usa e
Gran Bretagna e foraggiata dall’Arabia Saudita. Ma i media hanno già
dimenticato tutti gli iracheni che sono stati massacrati dal 2003 a causa
delle fantasie di Bush e Blair: questi due uomini hanno distrutto il regime
di Saddam a modo loro per “rendere sicuro il mondo” e hanno dichiarato
che l’Iraq faceva parte di una battaglia titanica contro lo “islamofiscismo.”
Ebbene, hanno perso. Oggi, sotto il nobel della pace Obama, l’Arabia
Saudita continua a essere trattata come amichevolmente “moderata”,
anche se milioni dei suoi dollari stanno armando i nuovi combattenti. E
presto, molto presto, mentre anche altri paesi ricchi mandano armi alle
parti in lotta saremo tutti invitati prima a considerare il futuro come una
guerra tra sette, poi a cambiare canale.
E così dopo tutte le storie grottesche dei talebani e di Osama bin Laden e
dei 15 su 19 attentatori suicidi dell’11 settembre, eccovi l’ultimo
mostruoso contributo dell’Arabia Saudita alla storia del mondo: il califfato
islamista sunnita dell’Iraq e del Levante, i conquistatori di Mosul e di
Tikrit – e di Raqqa in Siria – e forse di Baghdad, e i massimi “umiliatori”
di Bush e di Obama.
Da Aleppo nella Siria del Nord e fino quasi al confine tra Iraq e Iran, i
jihadisti di dell’Isis e altri gruppuscoli assortiti, pagati dai Wahabiti
sauditi e dagli oligarchi del Kuwait – ora dominano su migliaia di
chilometri quadrati.
A parte il ruolo dell’Arabia Saudita in questa catastrofe, quali altre notizie
ci dovranno essere nascoste nei prossimi giorni e settimane? La storia
dell’Iraq e la storia della Siria sono le stesse – dal punto divista politico,
militare e giornalistico: uno sciita, l’altro alauita, che lottano per
l’esistenza dei loro regimi contro il potere di un esercito internazionale
musulmano sunnita che sta crescendo sempre di più.
Mentre gli americani appoggiano l’abietto Primo ministro Nouri alMaliki e il suo governo sciita eletto, in Iraq, gli stessi americani chiedono
ancora il rovesciamento di Bashar al-Assad della Siria e del suo regime,
anche se entrambi i leader sono ora compagni d’armi contro i vincitori di
Mosul e di Tikrit.
La ricchezza da Creso del Qatar potrebbe essere presto portata via ai
ribelli musulmani della Siria e dell’Iraq e dirottata verso il regime di
Assad, per la paura e l’odio per i loro fratelli sunniti in Arabia Saudita
(che potrebbe invadere il Qatar se si arrabbiasse molto).
Conosciamo tutti la “profonda” preoccupazione di Washington e di
Londra per le vittorie territoriali degli Islamisti e per la distruzione totale
di tutto quello per cui l’America e la Gran Bretagna avevano buttato
sangue ed erano morti in Iraq. Nessuno, tuttavia, proverà così tanto questa
“profonda preoccupazione”, come l’Iran sciita e Assad della Siria e Maliki
dell’Iraq, che forse considerano le notizie da Mosul e da Tikrit un disastro
politico e militare. Proprio quando le forze militari siriane vincevano la
guerra per Assad, diecine di migliaia di militanti con base in Iraq forse ora
potrebbero rivoltarsi contro il governo di Damasco prima o dopo aver
scelto di avanzare su Bagdad.
Nessuno di loro si preoccuperà di quante migliaia di iracheni sono stati
massacrati fin dal 2003 a causa delle fantasie di Bush e Blair. Questi due
uomini hanno distrutto il regime di Saddam per rendere sicuro il mondo e
hanno dichiarato che l’Iraq faceva parte di una battaglia titanica contro lo
“islamofiscismo.” Ebbene, hanno perduto. Ricordatevi che gli americani
hanno catturato e ricatturato Mosul per distruggere il potere dei
combattenti islamisti. Hanno combattuto due volte per Falluja. Ed
entrambe le città sono di nuovo andate perdute e prese dagli islamisti. Gli
eserciti di Bush e Blair sono tornati in patria da molto tempo, dichiarando
vittoria.
Sotto Obama, l’Arabia Saudita continuerà a essere trattata come
amichevolmente “moderata” nel mondo arabo, anche se la sua famiglia
reale è fondata su quelle convinzioni wahabite degli islamisti sunniti in
Siria e in Iraq – e anche se milioni dei suoi dollari stanno armando quei
combattenti. Quindi la potenza saudita sta sia alimentando il mostro nei
deserti della Siria e dell’Iraq che avvicinandosi alle potenze occidentali
che la proteggono.
Dovremmo anche ricordare che i tentativi militari di Maliki di riprendersi
Mosul è probabile che saranno feroci e cruenti, proprio come si sono
dimostrate essere le battaglie di Assad per riprendersi le città. I profughi
che fuggono da Mosul sono più spaventati della vendetta del governo
sciita di quanto lo siano dei jihadisti sunniti che hanno catturato la città.
Ci si dirà anche di considerare il nuovo “califfato” armato come una
“nazione del terrore”. Abu Mohamed al-Adnani, il portavoce dell’Isis, è
intelligente quando mette in guardia dall’arroganza, parlando di
un’avanzata su Baghdad quando forse sta pensando a Damasco. L’Isis sta
lasciando i civili di Musul per lo più disarmati.
Infine saremo invitati a considerare il futuro come una guerra tra sette
quando sarà una guerra tra settari musulmani e non-settari musulmani. Il
pezzo di “terrore” sarà offerto dalle armi che mandiamo a tutte le parti in
lotta.
Articolo scelto e tradotto da Maria Chiara Starace per znetitaly.org (fonte
originale The Indipendent).
(fonte: Comune-info)
link: http://comune-info.net/2014/06/la-crisi-iraq/
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Palestina e Israele
I ragazzi palestinesi uccisi non fanno notizia. Il
dolore secondo i media italiani (di Raimondo
Schiavone)
Ci sono argomenti che è difficile trattare o spesso non vengono presi in
considerazione perché si rischia di essere tacciati di razzismo,
antisemitismo o fondamentalismo. Spesso si è meno crudi nel criticare il
comportamento di un nero per non cadere nella banale accusa di essere un
razzista, non si critica Israele per evitare di essere tacciati di
antisemitismo, non si parla del diverso peso che la morte ha quando a
morire è un bambino israeliano rispetto a quella di un bambino palestinese
per non essere considerato un fondamentalista. Eppure le lacrime delle
rispettive madri sono uguali, il dolore che provoca la perdita di un figlio è
la stessa, ma l’impatto mediatico dei due eventi dolorosi è esageratamente
diverso.
Settimanalmente muoiono ragazzi o bambini nella striscia di Gaza, alcuni
vengono arrestati e puniti fisicamente, le testimonianze giornalistiche di
questi accadimenti sono sotto gli occhi di tutti, ma fa più clamore, crea
molta più indignazione la morte di un ragazzo israeliano.
Lungi dal volerla sminuire e da voler considerare quanto accaduto in
questi giorni ai tre ragazzi Israeliani rapiti e uccisi da mano assassina, un
fatto da sottovalutare o sminuire, ma il clamore di questo evento è
eccessivamente sproporzionato rispetto a quello accaduto, quasi nelle
stesse ore, ai ragazzi palestinesi rimesti uccisi sotto le bombe di Israele.
E’ vero che l’abitudine indurisce, non fa notizia, non crea emozione,
troppi sono infatti i ragazzi palestinesi che muoiono ogni anno sotto le
bombe o i fucili israeliani ma non rappresentano più una notizia, non sono
un caso, vengono declassati alla “normalità” di una guerra infinita dalla
quale non possono che scaturire delle morti.
Questo, però, non accade a parti invertite.
Sono meno i ragazzi israeliani che subiscono gli effetti nefasti di quella
guerra, sono casi rari ma sono proprio questi i casi enfatizzati dai media,
in cui l’emozione diventa collettiva e l’attenzione quasi morbosa. Il dolore
di quelle madri sembra diverso, quasi si legittima la reazione che
provocherà tanti morti innocenti.
Si, proprio innocenti, perché a pagare non saranno quei barbari assassini
dei tre ragazzi israeliani ma decine di altri ragazzi, donne e bambini,
perché le bombe non guardano in faccia nessuno, non chiedono la carta di
identità o il certificato di nascita. Esistono i morti di serie A e quelli dei
campionati dilettanti, esiste una bilancia che pesa la morte e non lo fa con
giustizia ed equità ma è una bilancia che tiene conto del passaporto, del
colore della pelle, del denaro che possiedi, dell’essere dalla parte dei
vincitori o dei vinti. Una bilancia “scassata” dalla politica, dai media, dalla
storia, da noi uomini che abitiamo questa terra e che abbiamo perso il
senso della giustizia, che cambiamo canale quando il ragazzo morto era
uno che tirava le pietre a mani nude mentre ci incolliamo alla TV se è uno
del nostro “presunto” mondo.
Non siamo capaci di esprimere la stessa commozione, le lacrime sono
diverse, persino quelle assumono un colore politico, sono lacrime
“ingiuste”, “inique”, sono lacrime di parte.
Sconvolge pensare che nel nostro recondito possa nascondersi tanta
crudeltà, insensibilità, durezza d’animo, eppure è un sentimento istintivo,
indotto da anni di mistificazione della verità, di cattiva informazione, di
deformazione dei fatti. Si, perché la verità, l’unica che nessuno può più
nascondere è che in Palestina si combatte da decenni una guerra, che il
“mondo” quella pace non la vuole, che Israele quella pace non la accetterà
mai, sarà sempre e solo la prevaricazione ad avere la meglio e ci saranno
sempre più ragazzi morti per i quali si invoca la benedizione dalle case di
tutto il mondo e madri sole che piangeranno i propri figli, coltivando da
sole la memoria senza storia, senza compassione.
Raimondo Schiavone (1966). Giornalista. Laurea in giurisprudenza, è
segretario generale del Centro Italo Arabo Assadakah. Vice presidente
della Camera di Commercio Italo Araba. Esperto in progetti di
cooperazione allo sviluppo e relazioni internazionali con i Paesi della
Sponda Sud del Mediterraneo. E’ coautore di numerosi volumi, ha curato i
saggi Syria, quello che i media non dicono (Arkadia) e Middle East. Le
politiche nel mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia).
(fonte: Spondasud - segnalato da: Massimo Pretazzini)
link: http://spondasud.it/2014/07/morte-dei-ragazzi-palestinesi-non-fanno-notiziadolore-i-media-italiani-2917
Recensioni/Segnalazioni
Libri
Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni
possibili (Elena Parasiliti) (di Centro Studi Sereno
Regis)
Elena Parasiliti, Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni possibili,
Terre di mezzo, Milano 2013, pp.160, € 12,00
Uccidono tuo padre, tu che fai: perdoni? E se qualcuno, a cuor leggero,
diffonde una calunnia che ti rovina la vita o ti maltratta: dimentichi?
Questo libro raccoglie le storie – vere e toccanti – di uomini e donne che a
queste domande, in modi diversi, hanno saputo rispondere «sì».
Ma anche le parole di chi, da dietro le sbarre, ha deciso di rimboccarsi le
maniche per riconciliarsi col mondo «esterno». Come? Distogliendo
l’attenzione dal torto, commesso o subìto, e concentrandosi sull’altra
persona, sul suo volto e il suo nome. Per qualcuno si tratta di un gesto
istintivo, per molti altri richiede un percorso che dura anni, per tutti finisce
per rivelarsi una liberazione: significa smettere di «vivere in funzione di
quello che è successo» e ricominciare a guardare al futuro.
Il libro contiene schede informative sulle associazioni che in Italia
promuovono percorsi di giustizia riparativa e mediazione.
link:
http://serenoregis.org/2014/06/25/ti-chiamo-per-nome-storie-diriconciliazioni-possibili-segnalazione-redazionale/
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