Notiziario settimanale n. 490 del 11/07/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace 19/07/2014: Anniversario dell'assassinio di Paolo Borsellino Editoriale L'indignazione è morta (di ComboniFem Redazione Newsletter Suore Comboniane) - L’indignazione è morta. Non solo quella istituzionale, capace di risvegliarsi oramai solo quando in ballo ci sono interessi economici o politici propri, ma anche quella sociale. La nostra, insomma. Oramai i migranti morti in mare vengono contati a spanne dai media. Circa 30, almeno 60, ne mancherebbero altri 64… Numeri approssimativi, che se fossero “nostri” sarebbero raccontati come una strage, che se si riferiscono a “numeri” vivi vengono descritti come invasione. Ma non sono “nostri”, per cui l’approssimazione non ci riguarda. Per noi i “circa”, gli “almeno”, l’uso del condizionale non fanno la differenza. Non sono “nostri”. E l’indignazione è morta. Dopo le 366 vittime del 3 ottobre, che per giorni hanno riempito le pagine dei giornali, indignato (?!) le istituzioni, gli altri corpi recuperati così, “alla spicciolata”, ci scivolano addosso. Indice generale Editoriale.........................................................1 La differenza della notizia, lo insegnano nelle scuole di giornalismo, è data dalla vicinanza. Più è vicina, più è sentita. E noi questi morti li sentiamo lontani. Non percepiamo la strage, sentiamo l’invasione. Siamo inumani sì, ma da manuale. Capaci di commuoverci davanti all’Olocausto,di indignarci contro chi allora non si oppose alla deportazione dei nostri ebrei, ma impassibili davanti ai morti migranti. Siamo professionisti dell’ipocrisia. (fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2091 L'indignazione è morta (di ComboniFem - Redazione Newsletter Suore Comboniane)............................................................................................. 1 Approfondimenti Approfondimenti.............................................1 La schiavitù ha il sapore dei gamberetti (di Marina Perotta).....................1 Industria, la soluzione pubblica (di Matteo Lucchese)............................... 2 Delitti & Ipocrisia. Se erano neri? (di Salvatore Bragantini) ......................2 Io sto con la sposa (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)....3 Danilo Dolci: uscire dal tempo primitivo (di Nicola Lo Bianco)................3 Studi per la Pace: dieci punti fondamentali (di Johan Galtung) ..................4 Una scuola senza stereotipi di genere (di Monica Pasquino).....................5 Comunicazione sociale, partecipazione ed empatia. Breve analisi dello stato di salute del sistema socio-sanitario e del del terzo settore in Versilia (di Angelo Puccinelli)................................................................................ 5 Notizie dal mondo...........................................6 A chi è utile la crisi in Iraq? (di Robert Fisk)............................................ 6 I ragazzi palestinesi uccisi non fanno notizia. Il dolore secondo i media italiani (di Raimondo Schiavone)............................................................... 7 Recensioni/Segnalazioni.................................8 Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni possibili (Elena Parasiliti) (di Centro Studi Sereno Regis).................................................................. 8 Diritti La schiavitù ha il sapore dei gamberetti (di Marina Perotta) La storia dei pescatori comprati a trecento dollari dalle flotte dei gamberetti in Thailandia e Cambogia conferma una cosa: la schiavitù non è stata mai abolita, nemmeno nel XXI secolo. I giornalisti del The Guardian Kate Hodal, Chris Kelly e Felicity Lawrence hanno svelato che sui pescherecci che catturano il pesce destinato all’allevamento di gamberetti in Thailandia e Cambogia decine di pescatori sono tenuti sotto schiavitù. Il reportage è frutto di sei mesi di indagini. I pescatori sono acquistati e venduti come animali e detenuti sotto regime di schiavitù su barche da pesca al largo della Thailandia che provvedono alla cattura del cosidetto pesce spazzatura (ossia quello non commestibile) da destinare agli allevamenti di gamberetti venduti poi nei principali supermercati di tutto il mondo, compresi i primi quattro retailer globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco e Costco. Dall’inchiesta è emerso che il più grande allevatore di gamberi del mondo che ha base in Thailandia, la Charoen Pokphand Foods compra farina di pesce, da alcuni fornitori che possiedono, gestiscono o acquistano da barche da pesca sui cui sono sfruttai i pescatori schiavi. All’inchiesta ha preso parte anche EJF Environmental Justice Foundation impegnata a contrastare il traffico e sfruttamento di migranti birmani nella catena di 1 approvvigionamento di pesce. Già lo scorso gennaio EJF aveva denunciato lo sfruttamento di bambini e donne nella pesca dei gamberetti in Bangladesh con il report Impossibly Cheap: Abuse and Injustice in Bangladesh’s Shrimp Industry. non possegga una grande industria manifatturiera, l'industria in senso stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche di altri paesi che tale industria posseggono». Steve Trent, direttore esecutivo di EJF, ha detto: Era il 2003 quando Luciano Gallino iniziava così un agile libretto sul declino dell'Italia industriale, passando in rassegna il ridimensionamento della capacità produttiva in settori in cui l'Italia aveva avuto un posto di primo piano. A 11 anni di distanza, complice certo la crisi economica, il quadro industriale del paese non è cambiato e nessuna delle opportunità di rilancio è stata colta laddove esistevano risorse umane e tecnologiche per farlo. E’ scandaloso che un settore che genera tali livelli di profitto non riesca a sostenere i diritti umani fondamentali dei lavoratori. I consumatori in Europa e negli Stati Uniti devono essere consapevoli dei costi nascosti dei gamberetti incredibilmente a buon mercato. Nel 21 ° secolo, alimenti prodotti dal lavoro forzato o coatto non dovrebbe essere presenti nei nostri piatti. Gli uomini che sono riusciti a fuggire dai pescherecci hanno raccontato al The Guardian delle condizioni drammatiche in cui sono costretti a lavorare: turni di 20 ore, percosse regolari, torture e esecuzioni. Alcuni sono stati in mare per anni; a altri sono state regolarmente offerte metanfetamine per tenerli in piedi. Quindici lavoratori migranti provenienti da Birmania e Cambogia hanno raccontato di essere stati ridotti in schiavitù dopo che avevano pagato degli intermediari per aiutarli a trovare lavoro in Thailandia nelle fabbriche o nei cantieri edili. Ma sono stati venduti ai capitani dei pescherecci per 300 dollari. Ha detto Aidan McQuade direttore dell’associazione non governativa Anti-Slavery International Se si acquistano gamberi o gamberetti dalla Thailandia si acquista il prodotto del lavoro di uno schiavo. CPF è il più grande esportatore di gamberi al mondo coprendo quasi il 10% dell’interno fabbisogno di gamberetti e ha un fatturato annuo 33 milioni di dollari mentre l’intero giro d’affari mondiale è di 7,3 miliardi di dollari. La Thailandia è considerata la base per il transito o la destinazione dei traffici di schiavi e si stima che quasi mezzo milione di persone siano ridotte in schiavitù. Non vi è alcuna traccia ufficiale di quanti pescatori siano stati resi schiavi sui pescherecci, ma il governo thailandese stima che fino a 300.000 persone lavorano nel settore della pesca, il 90% dei quali sono migranti vittime della tratta e venduti per la schiavitù in mare. Questa situazione asce dall’aumento della domanda di gamberetti sempre più economici negli Stati Uniti e in Europa e ciò ha spinto la manodopera a basso costo fino alla schiavitù. Nonostante i buoni propositi espressi dal Governo Thailandese le associazioni che si occupano dei diritti umani ritengono che l’industria per l’export dei frutti di mare dalla Thailandia sarebbe destinata a crollare senza schiavitù. I retailer hanno preso formalmente le distanze ma nella pratica si potrebbe fare molto di più. Il primo passo riguarda noi consumatori: smettere di comprare gamberetti provenienti dalla Thailandia. Il fatto è che in Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di rilancio del sistema industriale, anche in questi anni in cui il crollo degli investimenti privati (e pubblici) ne rivelerebbe l'estremo bisogno. L'esperienza delle partecipazione statali e la gestione spesso corrotta dei fondi pubblici ha inevitabilmente finito per condizionare, anche a sinistra, il dibattito sull'utilità di forme di intervento pubblico a sostegno dell'industria. Altrove nel mondo, dopo un ventennio di politiche neoliberiste, il ritorno sulla scena della politica industriale ha accompagnato la promozione di piani di sviluppo dell'industria con un forte coinvolgimento dei governi. Secondo Mariana Mazzucato, è necessario «imporre una nuova narrativa e una nuova terminologia per descrivere il ruolo dello Stato» nell'economia. Nel suo libro sullo Stato imprenditore (o «innovatore» come recita il titolo dell'edizione italiana), Mazzucato ricorda come dietro le tecnologie più innovative si possa ritrovare l'azione pioneristica dello Stato, a guidare con considerevoli investimenti in programmi di ricerca di base e applicata gli sforzi innovativi d'impresa. Uno Stato che è chiamato a catalizzare gli investimenti del settore privato in aree ad alto rischio in cui i privati non sarebbero disposti ad investire. Con la consapevolezza che non tutti gli investimenti avranno successo e parte dei progetti saranno destinati al fallimento. Per fare questo, lo Stato avrebbe bisogno di sviluppare le migliori competenze, anziché ridurre drasticamente la sua sfera di influenza. Non sarebbe dunque necessario ridurre il suo peso, quanto ripensare lo Stato come attrattore delle migliori esperienze e competenze. Proprio in Italia varrebbe la pena provare a farlo, individuando nel contempo forme nuove di controllo democratico degli investimenti. Anche l'Europa dovrebbe fare la sua parte, promuovendo piani industriali concreti volti ad uno sviluppo più equilibrato del sistema industriale europeo. Tenendo ben presente che il dibattito sul futuro industriale di un paese è legato inscindibilmente alla qualità del lavoro che quel paese potrà permettersi nel futuro. Fonte: ecoblog La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. (fonte: Comune-info) link: http://comune-info.net/2014/06/schiavitu-gamberetti/ (fonte: Sbilanciamoci Info) link: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-soluzione-pubblica-25079 Economia Immigrazione Industria, Lucchese) la soluzione pubblica (di Matteo Delitti & Ipocrisia. Se erano neri? (di Salvatore Bragantini) Lo Stato dell'economia/In Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di rilancio del sistema industriale, anche in questi anni in cui il crollo degli investimenti privati (e pubblici) ne rivelerebbe l'estremo bisogno. «Nel XXI secolo, non meno che nei due secoli precedenti, un paese che 2 Omicidi efferati compiuti da italiani. Quando l'indignazione scatta a seconda del colore della pelle In Lombardia ci sono stati due gravissimi delitti nei giorni scorsi: a Cinisello Balsamo un ragazzo sui trent'anni, che girava nudo per la strada gridando di essere un uomo libero, ha ucciso una persona e ferito gravemente altre due. A Motta Visconti, un uomo ha freddamente pianificato l'uccisione della moglie e dei loro due figli, poi se n'è andato da amici a vedere la partita della Nazionale; doveva questo essere il suo alibi a prova di bomba, che invece s'è afflosciato in 24 ore. Ci si potrebbe chiedere come pensasse, il secondo, di farla franca, o di vivere tranquillo dopo quel che ha fatto, o se non era più semplice divorziare; al riguardo pare abbia detto agli inquirenti, che glie lo chiedevano, che sì, poteva farlo, ma dopo restavano i figli, per questo li ha uccisi tutti. Anche la soluzione del caso della povera Yara Gambirasio, con l'individuazione di un (presunto, ricordiamolo) colpevole anch'egli molto domestico, non ha destato particolari reazioni. Qui si vuol riflettere solo su un aspetto particolare. Fatti così violenti e immotivati hanno provocato uno sdegno tutto sommato limitato. Perché? Forse perché gli assassini sono simili a noi, sembrano il vicino della porta accanto e questo, paradossalmente, anziché farci più paura, quasi sembra rassicurarci. Ben diverse sarebbero state le reazioni se gli assassini avessero avuto la pelle nera, come quel Kabobo che l'anno scorso massacrò a Milano tre persone; un fatto per il quale sobriamente si reclamò la reintroduzione della pena di morte. I neri ci fanno paura di per sé, i “nostri” ci danno sicurezza. Se anche qui ci fosse stato di mezzo un nero, le reazioni sarebbero state violente, con le fiaccolate, la Lega in testa a reclamare la pulizia etnica o ad evocare, con la nota signorilità, la derattizzazione. Si vede che i “nostri”assassini sono ritenuti più buoni, per loro la pena di morte sarebbe esagerata, fuori misura. Il colore della loro pelle è una garanzia, quella degli altri invece è una condanna. (fonte: Linkiesta) link: http://www.linkiesta.it/omicidi-italiani-ipocrisia-bragantini Io sto con la sposa (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) L’ASGI invita a sostenere il progetto “Io sto con la sposa” (http://www.iostoconlasposa.com/#home). Un film documentario ma anche un’azione politica, una storia reale ma anche fantastica:Io sto con la sposa è tutte queste cose insieme, spiegano gli autori. Tra i protagonisti ci sono gli autori del film: Gabriele Del Grande, giornalista italiano e autore del blog Fortress Europe, Khaled Soliman al Nassiry, poeta palestinese siriano, e Antonio Augugliaro, regista televisivo. Dopo aver incontrato a Milano cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra, decidono di aiutarli a continuare il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati come trafficanti di esseri umani, decidono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un’amica palestinese che si travestirà da sposa e una decina di amici italiani e siriani che si fingeranno invitati. Così mascherati attraverseranno in corteo mezza Europa, da Milano a Stoccolma, tra il 14 e il 18 novembre 2013: un viaggio di tremila chilometri raccontato in presa diretta. Il costo della produzione e postproduzione è di 150 mila euro. Una campagna di crowdfunding punta a raccoglierne almeno la metà, 75 mila euro.Il film è gia' riuscito ad iscriversi al Festival di Venezia . (Fonte : Internazionale) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2090 Nonviolenza Danilo Dolci: uscire dal tempo primitivo (di Nicola Lo Bianco) La vita e l’opera di Danilo Dolci sono un esempio di come è possibile 3 cambiare “costringendo” alla saggezza gli increduli, i sottomessi ridotti al silenzio, le autorità irresponsabili. Probabilmente fu l’impressione dell’estrema miseria che ne ebbe da bambino, seguendo gli spostamenti del padre capostazione, a farlo tornare a Trappeto, vicino Partinico, un piccolo borgo marinaro tra le province di Palermo e Trapani. Seguiva, si capisce, una sua spinta interiore:la volontà di rendere la vita coerente coi princìpi, il desiderio di conoscere non astrattamente, ma nel vivo della realtà, l’innata sensibilità alla sofferenza, soprattutto a quella degli inermi che scontano le ingiustizie del mondo. La prima esperienza, abbandonati gli studi di architettura, è quella di Nomadelfia con don Zeno Saltini, a Fossoli, un ex campo di concentramento nazifascista, dove orfani, ragazzi sbandati, ex ladruncoli, potevano ritrovare una casa-famiglia. Dopo quasi due anni <di una prima profonda esperienza-conoscenza diretta>, confermato nei suoi propositi e sulla scorta della domanda che sempre più lo assilla -<e il resto del mondo?>-, abbandona, lui triestino, il Nord, e si trasferisce definitivamente in Sicilia<per capire un mondo che nessuno si sforzava di ascoltare>. Credo che il rovello spirituale di Danilo Dolci sia stato quello di “pretendere” un compiuto rispetto dell’essere umano, ricercando i fondamenti di una possibile liberazione morale, oltre che materiale:<Aspiravo –dice in “Ciò che ho imparato” – a “nuovo cielo e nuova terra”…volevo scoprire l’anima della vita>. A pochi mesi dal suo arrivo a Trappeto, nell’ottobre del ’52, <l’anima della vita> assume la forma assurda e tragica della morte del piccolo Benedetto Barretta per denutrizione. E’ il primo digiuno di protesta, l’inizio di un infaticabile impegno per far risorgere consapevolezza e speranza <in una delle zone più misere e più insaguinate del mondo>. Sono gli anni del banditismo, delle stragi dei contadini, della mafia latifondista e politica, della negazioni di bisogni primari:lavoro, istruzione, cibo, salute, violazioni di diritti umani che corrispondevano all’asservimento padronale e mafioso. L’acqua, ad es., l’acqua, che di nuovo oggi c’è chi manovra per farne proprietà privata, era in potere della mafia, che la gestiva secondo suoi torbidi interessi, secondo amicizie ed alleanze, o costringendo “gli altri”, la massa dei contadini, alla subordinazione e all’ossequio. Il giovane Dolci comincia a capire il “sistema”, e si rende conto che l’acqua, in un’economia estesamente agricola, è il nodo da sciogliere per creare una breccia nel dominio semifeudale. E’ la grande sfida della diga sul fiume Jato, l’opera alla quale i siciliani legano immediatamente il nome di Danilo:un decennio di proteste clamorose, di scioperi alla rovescia, di studi sapienti e mirati, di conferenze che chiamano in causa l’inerzia dei governi. Ma sono anche intimidazioni, denunce, processi, galera. I lavori di costruzione iniziano nel febbraio del 1963. Frattanto la figura di Danilo Dolci prende rilievo nazionale ed europeo. Attorno alle sue iniziative si raccolgono numerosi giovani volontari, intellettuali e studiosi di prestigio che credono nella necessità di <passare da un mondo autoritario e frammentato ad un mondo pluricentrico e coordinato>. Nel mentre che continua la partecipazione attiva alla denuncia di ogni forma di violenza, di degrado, di umiliazione dell’uomo, sorgono l’Asilocasa per i bambini più bisognosi, il Centro studi e iniziative, Radio Libera Partinico, “la radio dei poveri cristi”, la prima radio libera in Sicilia(libera, non privata), immediatamente chiusa dalle autorità. Il Centro di Borgo di Dio (gloria delle parole) a Trappeto, diviene un laboratorio di elaborazione teorica e pratica dove prendono la parola non solo gli studiosi più qualificati, ma anche i diretti interessati:la gente del luogo, i contadini, i disoccupati, gli analfabeti, le tante famiglie abbandonate a se stesse, taluni ex banditi. <La mia vita è la tua, la mia vita non può non essere anche la tua>, è un principio fondamentale nell’operare di Danilo Dolci, morale, di metodo, di conoscenza:dar voce agli ultimi, partecipare dal di dentro alla loro vita, valorizzare le loro competenze e apprendere dalla loro saggezza, portare le cose più alte a confrontarsi con la loro cultura, ascoltare e costruire insieme. Si trattava davvero, in quel tempo e in quei luoghi, di “portare i disperati alla luce”, perché, oltretutto, bisognava infrangere l’atavica diffidenza e lo scetticismo dei siciliani. Ma <ciascuno cresce solo se sognato>, e il “sogno”, oltre a condizioni di vita più degne, era quello di far crescere <un uomo nuovo>, lo scopo vero al fondo del pensiero e dell’opera di Danilo Dolci. Non è solo la persistente attenzione alle problematiche pedagogiche, è la trama stessa dell’attività, il modo stesso di interagire, a sollecitare la riflessione e la coscienza personale, a rivedere punti di vista e abitudini mentali, a riconoscere veridicità a quel principio basilare dettato da Gandhi: <Sii tu per primo quel cambiamento del mondo che vorresti>. Il possibile “cambiamento” sta per Danilo Dolci nel rapporto intrinseco tra individuale e collettivo, nel conoscere meglio se stessi e l’ambiente in cui si vive, nello scoprire che <c’è la possibilità di vivere per tutti>, nel <rifiutarsi ad ogni professione ed occasione che ci impegni in sfruttamenti ed assassinii di ogni genere>. La violenza, sia fisica che verbale, è bandita senza compromessi, perché<quando dici no alla violenza e alla menzogna, la lotta di liberazione è già cominciata>:c’è la ferma condanna dell’errore, ma respinge l’annientamento e l’umiliazione di chi lo compie, fosse anche l’uomo più bieco, perché <non ci sono nemici>, ma uomini che devono essere indotti al buon senso e al senso di responsabilità. E’ un’eco della “Pacem in terris” di Giovanni XXIII: “non si dovrà mai confondere l’errore con l’errante”, un insegnamento che oggi si tende gravemente a trascurare. E’ l’acume di Pierpaolo Pasolini a scoprire, già in alcune poesie giovanili (’51) di Danilo, un fermento religioso che identifica “Dio con il prossimo come immediata collettività…ha riscoperto L’Altro nei più poveri, soli, diseredati…”. Invero, Danilo Dolci è uno spirito religioso che opera laicamente, è l’uomo che vorrebbe coniugare un senso mistico-missionario della vita con la ricerca tutta terrena della verità. La morale, ad es., non può essere imposta dall’esterno, perché risulterebbe una sovrapposizione ben presto vanificata dall’incontro con la realtà; è, invece, un impegno quotidiano, deve scaturire dal dialogo, dal confronto con l’altrui esperienza, dal lavoro proiettato sul sociale, dalla ricerca di un mondo più sano, insomma, dal mettere l’uomo nelle condizioni di poter scegliere liberamente il bene e non il male. D’altro canto, il principio evangelico dell’amore per il prossimo è indispensabile perché<senza la carità, il sapere tende a divenire inumano>. Che nell’animo di quest’altro maestro del Novecento ci fosse, al di sopra dello scopo umano, un senso divino dell’operare, ce lo dice indirettamente lo storico Giuseppe Casarrubea, che in quegli anni conobbe Danilo e collaborò con lui:-Tra i suoi grandi maestri citava: Cristo e Lenin, Gandhi e Capitini, San Francesco e don Zeno Saltini-. E, del resto, è testimonianza comune che “Danilo fu sempre povero, e non disdegnò mai di esserlo”. Nicola Lo Bianco Articolo per la rivista “Famiglia in dialogo” -16 maggio 2007(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2085 Pace Studi per la Pace: dieci punti fondamentali (di Johan Galtung) Grazie per volere un compendio dei punti chiave nei “Galtung Peace Studies”. Sono appena stato onorato con un “Premio alla carriera” (Lifetime Award) della sociologia mondiale, oltre 60 anni; in breve, tempo sufficiente per un compendio con un avvertimento: non un surrogato alla lettura dei libri. [1] 1951: Studi per la pace = teoria della pace + pratica della pace; scienza applicata, con un valore esplicito – la pace – con teorie indicative di una 4 prassi e una pratica di verifica delle teorie; come gli studi sulla salute, a differenza delle scienze sociali.Modello: la pace sta alla violenza come la salute alla malattia; diagnosi-prognosi-terapia hanno prodotto salute indebolendo i patogeni-rafforzando i sanogeni; provare lo stesso con la pace indebolendo gli elementi fomentatori di guerra-rafforzando i fomentatori di pace. Mantra: mediante ricerca interdisciplinare, internazionale, interlivello. [2] Come nella malattia violenza=sofferenza di corpo-mente-spirito, anche dei familiari; a differenza della malattia, un atto intenzionale di commissione, un rapporto perpetratore-vittima, un crimine, incarnato nella guerra aggressiva. Le ferite fisiche possono essere guarite ma stigma, vergogna, umiliazione, disperazione, astio, paura, vendetta possono sedimentarsi come traumi nella mente e nello spirito. Per gli approcci giudiziari, sentenza e punizione – contro il furto dell’ ambita proprietà, violenza corporale e sessuale – si aggiungano gli approcci orientati alla vittima e al contesto come l’avere meno beni, più compagnia, nessuna provocazione e approcci orientati al contesto come per esempio cittadini in borghese in funzione di vigilantes in spazi pubblici, ecc. Ma l’antidoto alla violenza è la pace: una struttura di interazioni positive, una cultura di nonviolenza, focalizzata sul positivo nello yin/yang degli altri e sul cambiamento da rapporti violenti a pacifici, anziché sugli attributi delle parti; i rapporti hanno un peso più causale e sono irreducibili agli attributi: si veda il rapporto logica-buddhismo-taoismo. [3] La pace è stata liberata dal baricentro dello stato per coprire cinque livelli: 1. pace con la natura, pace ambientale; 2. micro-livello: interiore, e interpersonale nelle famiglie, a scuola, al lavoro; 3. meso-livello: fra gruppi, generazioni-generi-razze-classinazioni; 4. macro-livello: fra stati, nazioni e nazioni-e-stati; 5. mega-livello: fra macroregioni, civiltà; entro il mondo. [4] 1958: Pace divisa fra negativa e positiva – l’assenza di violenza; e la presenza di cooperazione e armonia. Sinonimi: sicurezza; e convivencia in spagnolo, kyosei in giapponese (in inglese?). Tesi: un contesto di pace positiva contribuisce alla pace negativa come un contesto di corpo-mentespirito-equilibrio sociale-benessere riduce la malattia. [5] 1965: Violenza divisa fra diretta e strutturale, gli atti non intenzionali di omissione che mantengono strutture di diseguaglianza, di sovraccarico, di isolamento, sottocarico; economicamente, militarmente, politicamente, culturalmente; che generalmente uccidono-feriscono molto più che la violenza diretta; aggiungendo a questo una violenza culturale che legittima quella diretta e strutturale. [6]Formula di pace: paxogeni/bellogeni (salute: sanogeni/ patogeni); pace positiva/assenza di pace negativa. Paxogeni chiave sono Equità (cooperazione a reciproco e uguale beneficio) ed Empatia (per l’armonia, soffrire della sofferenza altrui e godere della gioia altrui); bellogeni chiave sono il Trauma non riconciliato e il Conflitto non risolto = obiettivi incompatibili: Equità X Empatia Pace = ——————–—— Trauma X Conflitto Ciò implica quattro compiti di pace principali: Costruire equità, Educare all’armonia, Riconciliare i traumi e Risolvere il conflitto; tutti inerenti alla relazione, tutti maxi-3C, costruttivi-concreti-creativi, evitando moralismocritica. Si basa su una visione olistica di sistemi con contraddizioni, mirante al loro trascendimento con una mediazione basata sul dialogo e la ricerca reciproca di una nuova realtà. La teoria della pace si basa su Negoziato, Stato di Diritto, Diritti Umani, Democrazia, e presuppone che la somma della/e pace/i interne [alle singole società] è la pace globale, e che il compromesso è sufficiente; diritto mondiale, diritti globali, democrazia ONU e possono servire nuove realtà. In breve, una cultura di pace con cinque componenti: dialogo-equitàempatia-conciliazione-soluzione. La negazione è una cultura di violenza; come una cultura del malessere nega una cultura sanitaria di igiene, evitare i pericoli, buona nutrizione, esercizio e soluzione di dilemmi e conflitti. [7]Costruire Equità. Eguagliare gli effetti collaterali, le esternalità dell’interazione; un’economia di pace è un impegno in questa direzione. [8]Educazione all’Armonia. Consapevolezza della propria e altrui visione del mondo; l’educazione alla pace è un impegno in questa direzione. [9]Riconciliare i Traumi. Ripulire il passato, desiderando che la violenza sia superata e cooperando per un futuro migliore; il giornalismo di pace è un impegno in questa direzione. [10]Risolvere i Conflitti. Creare nuove realtà rendendo compatibili gli obiettivi legittimi incompatibili; il giornalismo di pace è un impegno in questa direzione. Verifichiamolo in un caso concreto: il rapporto della nazione ebraica – con la sua immensa sofferenza – verso il resto del mondo: La pace è definita espressamente come riduzione di comportamentiatteggiamenti violenti e rassicurare un Israele con attributi ebraici (stato ebraico = solo ebrei?). La diagnosi si basa sulla grossolana discordanza fra una minoranza che tiene molto al potere economico-culturale e una maggioranza che tiene molto al potere politico-militare, una ricetta per il disastro; si basa inoltre su un frequente pregiudizio; e su “fatti sul terreno” (insediamenti=colonialismo). La prognosi si basa su casi analoghi. La terapia rimuove le cause di violenza, costruendo pace con lo schema 12-6-20, eventualmente con cantoni israeliani in Cisgiordania e palestinesi nel NordOvest d’Israele (donde originò gran parte della Naqba). La MEC*, Comunità MediOrientale, comprenderebbe Israele e i suoi cinque vicini arabi, modellata sulla Comunità Europea del 1 gennaio 1958, e l’OSCWA**, organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Asia Occidentale, comprenderebbe i vicini e i vicini dei vicini, modellata sull’OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Gli studi per la pace aggiungono previsione e visioni di terapia all’analisi, e una pratica alla teoria; per una pace negativa e una pace positiva. Johan Galtung (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Notizie/Studi-per-la-Pace-dieci-punti-fondamentali146298 Questione di genere Una scuola senza stereotipi di genere (di Monica Pasquino) Da Siracusa a Bologna passando per Roma. Da nord a sud, tre piccole associazioni – Stonewall, Il Progetto Alice e Scosse – hanno lanciato un incontro nazionale, sabato 20 settembre 2014, a Roma, tra associazioni, insegnanti, esperti, educatori ed educatrici che quotidianamente lavorano nelle scuole e negli spazi extrascolastici per la costruzione di una società con meno stereotipi e violenza. C’è stato un così grande interesse verso l’iniziativa che in poche settimane 5 i co-promotori sono passati da tre a più di un centinaio. Tra di loro, molte realtà territoriali, associazioni, comitati di genitori, istituti di ricerca e associazioni di carattere nazionale. Il 20 settembre è un appuntamento per stabilire sinergie e connessioni tra chi realizza progetti dedicati al contrasto agli stereotipi di genere, alla valorizzazione delle differenze, alla pluralità dei modelli familiari, alla prevenzione di bullismo, omofobia, transfobia e violenza maschile contro le donne. n questo percorso, da un lato la scuola è il luogo privilegiato in cui agire, in quanto spazio in cui le nuove generazioni si educano non solo impartendo nozioni, perché nessuna scuola, neanche i nidi e le scuole dell’infanzia, assolve solo a una funzione di assistenza e di accudimento. Dall’altro la comunità torna ad avere il suo indispensabile ruolo e responsabilità nella formazione dei cittadini e delle cittadine di domani. che abiteranno società plurali. Negli ultimi mesi è ritornata in auge una battaglia che carsicamente ritorna, contro l’educazione alle differenze e gli studi di genere. Gli articoli e le dichiarazioni che animato queste polemiche hanno un peso specifico non indifferente: hanno l’obiettivo politico di favorire il mantenimento di ruoli e abitudini tradizionali e stereotipanti, contro le cosiddette “derive del femminismo” o “ideologie del gender”. Le cento associazioni che promuovono la giornata nazionale per L’educazione alle differenze, che promuovono libertà e pluralità, secondo la cultura democratica e il principio della laicità come fondamento della scuola dello Stato, sono stanche di subire distorsioni e accuse infondate. Il 17 giugno a Roma, si è svolta la prima assemblea territoriale per presentare l’incontro nazionale che si svolgerà il 20 settembre a Roma. E’ stata una bella occasione per iniziare a discutere sulla giornata del 20 settembre. Il 25 giugno a Milano ci sarà un altro incontro, organizzato dalla Consulta Milanese per la Laicità delle Istituzioni e da MaMi – Mamme, per avviare un altro filo del ragionamento. Per info sul programma dei lavori, la call degli interventi e la suddivisione dei tavoli proposta per la giornata nazionale del 20 settembre leggi qui. Alla giornata hanno aderito centinaia di associazioni (vedi qui). Per aderire e per ulteriori informazioni scrivete a [email protected]. Comune-info sarà uno dei mediapartener dell’evento. (fonte: Comune-info) link: http://comune-info.net/2014/06/genere/ Questioni sociali Comunicazione sociale, partecipazione ed empatia. Breve analisi dello stato di salute del sistema sociosanitario e del del terzo settore in Versilia (di Angelo Puccinelli) La vita è uguale per tutti! Quando sei nato non puoi più nasconderti Da sempre mi occupo di sociale e diritti di cittadinanza, studio la materia ricavando elementi di analisi e mutuando concetti da diverse discipline. Partecipo a consulte, Conferenze dei Servizi e alla Società della Salute. Dal 2001 siedo al tavolo Disabilità. Intervengo ai convegni degli enti pubblici teritoriali: in particolare, sono presente alle iniziative sui temi della disabilità e della salute mentale. Sono socio aggregato AICCeF. Da poco, ho concluso l'Accademia del Cittadino della R.T. e ho dato la mia disponibilità a partecipare al GART. Rilevo che, in genere, le riflessioni e le proposte di solito si limitano ai bisogni contingenti correlati alla patologia e all'età e non considerano il panorama evolutivo della persona e le dinamiche familiari e ambientali. Si riferiscono ai soli cittadini in carico ai servizi e si assume l'esistente come realtà immutabile. Così, delle decine di migliaia di aventi titolo4, solo una minoranza riceve parziali risposte. Non sempre si rispetta il diritto all'informazione e alla comunicazione sociale5. Si elude la trasparenza amministrativa6. Sembra che la prassi sia quella di far fare domanda per i servizi soltanto a chi può essere servito: non si hanno liste di attesa; si evita la programmazione e la progettualità basata sulla persona e sui mutevoli bisogni delle famiglie. Da anni gli amministratori dichiarano la scarsità delle risorse, che dicono ora essere finite, ma non dicono come impiegano quelle a disposizione, ne si confrontano con i cittadini sulla qualità dei servizi e l'efficacia delle cure. Per lo più, il dibattito si apre quando la sala si svuota e il confronto avviene, in assenza degli amministratori, fra i soliti resistenti. Poi il silenzio. Senza provvedere a migliorare efficacemente il rapporto con il territorio7, preparare il rientro e sostenere la permanenza a casa o, in assenza dei genitori e congiunti8, in luoghi a misura di persona, si continuano a proporre costose9, stigmatizzanti, cronicizzanti, anaffettive strutture di cura e assistenza, insufficienti a rispondere alle crescenti necessità dei residenti. Le decisioni su come devono vivere e morire10 gli invalidi e i loro cari sono prese, in altre sedi, prescindendo dai bisogni affettivi, sradicandoli dal loro ambiente, imponendo l'accanimento terapeutico e svilendo la ricchezza delle risorse umane presenti nella zona. Chi di noi vuole finire la vita in una RSA o lasciare il figlio in una RSD? Tutti invocano collaborazione, ma sorvolano su trasparenza, equità e solidarietà; ignorano la circolarità della sofferenza11. Si moltiplicano e si sprecano i momenti di pseudo-partecipazione. La famiglia, costretta all'assistenzialismo, è sola nel suo malessere. I genitori sono indotti al silenzio e confinati nell'invisibilità; fratelli e sorelle anonimi eredi di pesanti condizioni esistenziali. Vittime della pedagogia nera, siamo scotomizzati12: le nostre parole cadono nel vuoto e spesso sono usate contro di noi. Le parti sociali e gli esperti parlano differenti linguaggi, estranei al benessere delle persone, che danno l'illusione del dialogo e della cooperazione. Se esistono, non si diffondono i dati sull'età, sesso, tipologia e gravità dei disturbi e non si valutano le proiezioni del fenomeno. In genere, la politica non conosce la dimensione e la qualità del bisogno e delega l'Azienda a gestire disabilità e salute mentale. Si assiste al rimpallo delle competenze e, oltre la disponibilità di qualche medico, alcune infermiere e pochi operatori, le UU.OO. sembrano operare, nella sola ottica del bilancio, come imprese in concorrenza fra loro. Non si fa riferimento alla ricerca e alle asserzioni della psicologia umanistica e sociale del secolo scorso né si emulano le buone prassi dei vicini. In un ambito ad elevata complessità relazionale, ad alta pregnanza emotiva, contrattualmente atipico, dove si confondono cliente13 e committente, i servizi residenziali e alla persona sono esternalizzati con gare al ribasso e corrispettivo a retta, costringendo i fornitori provvisori14 a equilibrismi gestionali che ricadono sulla qualità della vita di lavoratori precari a rischio di burnout15, degli ospiti che vi stazionano a vita16 e dei genitori che si consumano al pensiero della loro futura assenza e precocemente invecchiano e si ammalano17. L'alternarsi degli operatori, la gravità, l'inevitabile declino degli ospiti e la fatica dei genitori non agevolano la coesione e la solidarietà fra gli attori in scena. La continua rotazione degli uni e degli altri e, soprattutto, lo squilibrato rapporto curante/utente non consentono un'adeguata formazione e l'instaurarsi di rapporti significativi. In un dinamismo statico, ammantato di supponenza, l'esistenza si snoda nel rosario di fugaci incontri che non concedono che una fragile vicinanza. Il singolo ha difficoltà a districarsi nel labirinto delle competenze, si fida delle istituzioni e si affida ai referenti18. Per timore reverenziale e paura di ritorsioni19, non esercita il controllo, rinuncia alla difesa e fugge la responsabilità20. Da più di dieci anni nulla cambia in Versilia21: in un defadigante stallo, ognuno difende il ruolo e la posizione acquisita. Impossibile, allo stato dei fatti, coordinare il terzo settore, evitare sovrapposizione di azioni e di tematiche. A fronte di tale parcellizzazione, sulla comprensibile spinta emotiva di drammi privati, proliferano nuove compagini, che attraggono (e distraggono) il sempre più distratto immaginario collettivo e sollecitano il paternalismo di professionisti e istituzioni che deprime l'autostima, manipola e strumentalizza l'iniziativa dal basso, ostacola la coesione sociale e la solidarietà fra pari. Indipendentemente dalla causa, i bisogni sociali sono sempre gli stessi. Se per la cura necessita la specializzazione, per la tutela 6 dei diritti dobbiamo allearci, presentare richieste unitarie, motivate e solidali, pretendere risposte adeguate. Agire isolati frammenta la domanda; disperde le risorse; separa e discrimina i più deboli; ostacola la solidarietà, impedisce le economie di scala. Si vive di più ma peggio. Ci muoviamo in un contesto culturale, politico, economico, sociale e amministrativo saturo di violenza verso i marginali, che genera incertezza e paura, altera i bioritmi e affatica la mente. Il normale livello di ansia diventa insopportabile in presenza della non autosufficienza, dell'handicap, e del disturbo mentale che, associati alla perdita di prospettiva, generano conflitti e sofferenza aggiuntiva proprio fra coloro, famiglie e strutture, per i quali, e nelle quali, c'è più bisogno di consapevolezza, collaborazione e ascolto. A volte rilevo una timida apertura a un confronto costruttivo, tuttavia, nel momento in cui le parole sfiorano ferite e lutti non elaborati l'incanto si dissolve. Allora ho la conferma che la crisi è culturale e strutturale. Al netto dell'illegalità, il sistema è di pura assistenza: induce il cittadino a eludere i propri doveri e maturare una pretesa assoluta verso la collettività; costringe le organizzazioni a un'aspra concorrenza22 per accaparrarsi le briciole dello stato sociale in disfacimento. Palese l'autoreferenzialità di associazioni e cooperative. Stante l'attuale confusa e oppressiva legislazione, è inevitabile che il terzo settore si determini come un“magma informe”23 speculare alla politica, dove convivono realtà molto diverse tra loro, in un intrico di conflitti d'interesse. Gli individui isolati subiscono le politiche di austerità e sono condannati all'esclusione sociale24. La famiglia sopporta il peso della rovina sociale prodotta da pochi. Dobbiamo discernere le responsabilità. È necessario dotarci di efficaci strumenti di verifica e di controllo per smascherare i millantatori, sanzionare i malfattori, tutelare gli onesti, sostenere chi ha veramente bisogno e riconoscere il lavoro di cura dei familiari25 in assenza del quale il sistema sarebbe già imploso, poiché non esistono "falsi invalidi" ma furbi che si procurano false certificazioni con la complicità di medici e funzionari disonesti. Intanto povertà e disperazione travalicano le mura domestiche, dilagano nell'ambiente, turbano gli animi, annientano le esistenze. link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2092 Notizie dal mondo Iraq A chi è utile la crisi in Iraq? (di Robert Fisk) L’ennesima crisi in Iraq ha un’origine precisa: la guerra creata da Usa e Gran Bretagna e foraggiata dall’Arabia Saudita. Ma i media hanno già dimenticato tutti gli iracheni che sono stati massacrati dal 2003 a causa delle fantasie di Bush e Blair: questi due uomini hanno distrutto il regime di Saddam a modo loro per “rendere sicuro il mondo” e hanno dichiarato che l’Iraq faceva parte di una battaglia titanica contro lo “islamofiscismo.” Ebbene, hanno perso. Oggi, sotto il nobel della pace Obama, l’Arabia Saudita continua a essere trattata come amichevolmente “moderata”, anche se milioni dei suoi dollari stanno armando i nuovi combattenti. E presto, molto presto, mentre anche altri paesi ricchi mandano armi alle parti in lotta saremo tutti invitati prima a considerare il futuro come una guerra tra sette, poi a cambiare canale. E così dopo tutte le storie grottesche dei talebani e di Osama bin Laden e dei 15 su 19 attentatori suicidi dell’11 settembre, eccovi l’ultimo mostruoso contributo dell’Arabia Saudita alla storia del mondo: il califfato islamista sunnita dell’Iraq e del Levante, i conquistatori di Mosul e di Tikrit – e di Raqqa in Siria – e forse di Baghdad, e i massimi “umiliatori” di Bush e di Obama. Da Aleppo nella Siria del Nord e fino quasi al confine tra Iraq e Iran, i jihadisti di dell’Isis e altri gruppuscoli assortiti, pagati dai Wahabiti sauditi e dagli oligarchi del Kuwait – ora dominano su migliaia di chilometri quadrati. A parte il ruolo dell’Arabia Saudita in questa catastrofe, quali altre notizie ci dovranno essere nascoste nei prossimi giorni e settimane? La storia dell’Iraq e la storia della Siria sono le stesse – dal punto divista politico, militare e giornalistico: uno sciita, l’altro alauita, che lottano per l’esistenza dei loro regimi contro il potere di un esercito internazionale musulmano sunnita che sta crescendo sempre di più. Mentre gli americani appoggiano l’abietto Primo ministro Nouri alMaliki e il suo governo sciita eletto, in Iraq, gli stessi americani chiedono ancora il rovesciamento di Bashar al-Assad della Siria e del suo regime, anche se entrambi i leader sono ora compagni d’armi contro i vincitori di Mosul e di Tikrit. La ricchezza da Creso del Qatar potrebbe essere presto portata via ai ribelli musulmani della Siria e dell’Iraq e dirottata verso il regime di Assad, per la paura e l’odio per i loro fratelli sunniti in Arabia Saudita (che potrebbe invadere il Qatar se si arrabbiasse molto). Conosciamo tutti la “profonda” preoccupazione di Washington e di Londra per le vittorie territoriali degli Islamisti e per la distruzione totale di tutto quello per cui l’America e la Gran Bretagna avevano buttato sangue ed erano morti in Iraq. Nessuno, tuttavia, proverà così tanto questa “profonda preoccupazione”, come l’Iran sciita e Assad della Siria e Maliki dell’Iraq, che forse considerano le notizie da Mosul e da Tikrit un disastro politico e militare. Proprio quando le forze militari siriane vincevano la guerra per Assad, diecine di migliaia di militanti con base in Iraq forse ora potrebbero rivoltarsi contro il governo di Damasco prima o dopo aver scelto di avanzare su Bagdad. Nessuno di loro si preoccuperà di quante migliaia di iracheni sono stati massacrati fin dal 2003 a causa delle fantasie di Bush e Blair. Questi due uomini hanno distrutto il regime di Saddam per rendere sicuro il mondo e hanno dichiarato che l’Iraq faceva parte di una battaglia titanica contro lo “islamofiscismo.” Ebbene, hanno perduto. Ricordatevi che gli americani hanno catturato e ricatturato Mosul per distruggere il potere dei combattenti islamisti. Hanno combattuto due volte per Falluja. Ed entrambe le città sono di nuovo andate perdute e prese dagli islamisti. Gli eserciti di Bush e Blair sono tornati in patria da molto tempo, dichiarando vittoria. Sotto Obama, l’Arabia Saudita continuerà a essere trattata come amichevolmente “moderata” nel mondo arabo, anche se la sua famiglia reale è fondata su quelle convinzioni wahabite degli islamisti sunniti in Siria e in Iraq – e anche se milioni dei suoi dollari stanno armando quei combattenti. Quindi la potenza saudita sta sia alimentando il mostro nei deserti della Siria e dell’Iraq che avvicinandosi alle potenze occidentali che la proteggono. Dovremmo anche ricordare che i tentativi militari di Maliki di riprendersi Mosul è probabile che saranno feroci e cruenti, proprio come si sono dimostrate essere le battaglie di Assad per riprendersi le città. I profughi che fuggono da Mosul sono più spaventati della vendetta del governo sciita di quanto lo siano dei jihadisti sunniti che hanno catturato la città. Ci si dirà anche di considerare il nuovo “califfato” armato come una “nazione del terrore”. Abu Mohamed al-Adnani, il portavoce dell’Isis, è intelligente quando mette in guardia dall’arroganza, parlando di un’avanzata su Baghdad quando forse sta pensando a Damasco. L’Isis sta lasciando i civili di Musul per lo più disarmati. Infine saremo invitati a considerare il futuro come una guerra tra sette quando sarà una guerra tra settari musulmani e non-settari musulmani. Il pezzo di “terrore” sarà offerto dalle armi che mandiamo a tutte le parti in lotta. Articolo scelto e tradotto da Maria Chiara Starace per znetitaly.org (fonte originale The Indipendent). (fonte: Comune-info) link: http://comune-info.net/2014/06/la-crisi-iraq/ 7 Palestina e Israele I ragazzi palestinesi uccisi non fanno notizia. Il dolore secondo i media italiani (di Raimondo Schiavone) Ci sono argomenti che è difficile trattare o spesso non vengono presi in considerazione perché si rischia di essere tacciati di razzismo, antisemitismo o fondamentalismo. Spesso si è meno crudi nel criticare il comportamento di un nero per non cadere nella banale accusa di essere un razzista, non si critica Israele per evitare di essere tacciati di antisemitismo, non si parla del diverso peso che la morte ha quando a morire è un bambino israeliano rispetto a quella di un bambino palestinese per non essere considerato un fondamentalista. Eppure le lacrime delle rispettive madri sono uguali, il dolore che provoca la perdita di un figlio è la stessa, ma l’impatto mediatico dei due eventi dolorosi è esageratamente diverso. Settimanalmente muoiono ragazzi o bambini nella striscia di Gaza, alcuni vengono arrestati e puniti fisicamente, le testimonianze giornalistiche di questi accadimenti sono sotto gli occhi di tutti, ma fa più clamore, crea molta più indignazione la morte di un ragazzo israeliano. Lungi dal volerla sminuire e da voler considerare quanto accaduto in questi giorni ai tre ragazzi Israeliani rapiti e uccisi da mano assassina, un fatto da sottovalutare o sminuire, ma il clamore di questo evento è eccessivamente sproporzionato rispetto a quello accaduto, quasi nelle stesse ore, ai ragazzi palestinesi rimesti uccisi sotto le bombe di Israele. E’ vero che l’abitudine indurisce, non fa notizia, non crea emozione, troppi sono infatti i ragazzi palestinesi che muoiono ogni anno sotto le bombe o i fucili israeliani ma non rappresentano più una notizia, non sono un caso, vengono declassati alla “normalità” di una guerra infinita dalla quale non possono che scaturire delle morti. Questo, però, non accade a parti invertite. Sono meno i ragazzi israeliani che subiscono gli effetti nefasti di quella guerra, sono casi rari ma sono proprio questi i casi enfatizzati dai media, in cui l’emozione diventa collettiva e l’attenzione quasi morbosa. Il dolore di quelle madri sembra diverso, quasi si legittima la reazione che provocherà tanti morti innocenti. Si, proprio innocenti, perché a pagare non saranno quei barbari assassini dei tre ragazzi israeliani ma decine di altri ragazzi, donne e bambini, perché le bombe non guardano in faccia nessuno, non chiedono la carta di identità o il certificato di nascita. Esistono i morti di serie A e quelli dei campionati dilettanti, esiste una bilancia che pesa la morte e non lo fa con giustizia ed equità ma è una bilancia che tiene conto del passaporto, del colore della pelle, del denaro che possiedi, dell’essere dalla parte dei vincitori o dei vinti. Una bilancia “scassata” dalla politica, dai media, dalla storia, da noi uomini che abitiamo questa terra e che abbiamo perso il senso della giustizia, che cambiamo canale quando il ragazzo morto era uno che tirava le pietre a mani nude mentre ci incolliamo alla TV se è uno del nostro “presunto” mondo. Non siamo capaci di esprimere la stessa commozione, le lacrime sono diverse, persino quelle assumono un colore politico, sono lacrime “ingiuste”, “inique”, sono lacrime di parte. Sconvolge pensare che nel nostro recondito possa nascondersi tanta crudeltà, insensibilità, durezza d’animo, eppure è un sentimento istintivo, indotto da anni di mistificazione della verità, di cattiva informazione, di deformazione dei fatti. Si, perché la verità, l’unica che nessuno può più nascondere è che in Palestina si combatte da decenni una guerra, che il “mondo” quella pace non la vuole, che Israele quella pace non la accetterà mai, sarà sempre e solo la prevaricazione ad avere la meglio e ci saranno sempre più ragazzi morti per i quali si invoca la benedizione dalle case di tutto il mondo e madri sole che piangeranno i propri figli, coltivando da sole la memoria senza storia, senza compassione. Raimondo Schiavone (1966). Giornalista. Laurea in giurisprudenza, è segretario generale del Centro Italo Arabo Assadakah. Vice presidente della Camera di Commercio Italo Araba. Esperto in progetti di cooperazione allo sviluppo e relazioni internazionali con i Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo. E’ coautore di numerosi volumi, ha curato i saggi Syria, quello che i media non dicono (Arkadia) e Middle East. Le politiche nel mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia). (fonte: Spondasud - segnalato da: Massimo Pretazzini) link: http://spondasud.it/2014/07/morte-dei-ragazzi-palestinesi-non-fanno-notiziadolore-i-media-italiani-2917 Recensioni/Segnalazioni Libri Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni possibili (Elena Parasiliti) (di Centro Studi Sereno Regis) Elena Parasiliti, Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni possibili, Terre di mezzo, Milano 2013, pp.160, € 12,00 Uccidono tuo padre, tu che fai: perdoni? E se qualcuno, a cuor leggero, diffonde una calunnia che ti rovina la vita o ti maltratta: dimentichi? Questo libro raccoglie le storie – vere e toccanti – di uomini e donne che a queste domande, in modi diversi, hanno saputo rispondere «sì». Ma anche le parole di chi, da dietro le sbarre, ha deciso di rimboccarsi le maniche per riconciliarsi col mondo «esterno». Come? Distogliendo l’attenzione dal torto, commesso o subìto, e concentrandosi sull’altra persona, sul suo volto e il suo nome. Per qualcuno si tratta di un gesto istintivo, per molti altri richiede un percorso che dura anni, per tutti finisce per rivelarsi una liberazione: significa smettere di «vivere in funzione di quello che è successo» e ricominciare a guardare al futuro. Il libro contiene schede informative sulle associazioni che in Italia promuovono percorsi di giustizia riparativa e mediazione. link: http://serenoregis.org/2014/06/25/ti-chiamo-per-nome-storie-diriconciliazioni-possibili-segnalazione-redazionale/ 8