n.7 2 The Godfather Lev Nikolaevič Tolstoj di JACOPO CIRILLO J acques Monod ha scritto un libro veramente pesante, un mattone alla Filippo Pennacchio diciamo, che si chiama Il caso e la necessità. Per carità di Dio, non leggetelo. Anche perché basta il titolo per riflettere. Io ho letto tre libri di Tolstoj, tutti incredibilmente corti: di uno se ne è parlato su Finzioni numero due, degli altri se ne parlerà adesso. Li ho letti praticamente di seguito, consigliati da due persone diverse, e in ordine casuale: prima La morte di Ivan Il’ic, poi Padre Sergij. Se li avessi letti nell’ordine inverso non avrei capito quello che sto per blaterare, dunque il caso nella successione è diventato necessità per la comprensione. È stato necessario che il caso abbia scelto. Insomma, vabbè, abbiamo capito. Nella Morte di Ivan Il’ic si parla della morte di Ivan Il’ic per un male incurabile. E del lento avvicinarsi della fine, in un viaggio allucinante nella sua psiche, tanto da far pensare, seriamente, che Tolstoj fosse morto per riuscire a (de)scrivere così bene. Sembra l’autobiografia di un morto. Te l’aspetti in Lovecraft, non in Tolstoj, insomma. Alcune marche narrative intra ed extradiegetiche però, come l’uso della terza persona o l’effettivo stato di salute dell’autore, portano ad attribuire la stranezza alla sua abilità e non a un’esperienza extracorporea. In Padre Sergij si parla della conversione di Padre Sergij da promettente principe della guardia imperiale a monaco in cerca di santità. Anche qui, un’abilità irritante nel cogliere tutto quello che succede nella testa del protagonista. A questo proposito il buon Igor Sibaldi, traduttore di lungo corso, dice benissimo che “un’esperienza religiosa altrui non esiste, è una contraddizione in termini”. Un po’ come la morte. E alla fine il buon Sergij non muore nemmeno, dunque stavolta potrebbe essere davvero l’autobiografia di Tolstoj, un santo wannabe, se non fosse per un incredibile verbo finale: “In Siberia andò […] e adesso vive là” (p.86). Boom! Un urlo all’indicativo presente. Dunque abbiamo: due quasi autobiografie che, lette nell’ordine giusto, definiscono una gradazione di possibilità di identificazione crescente ma allo stesso tempo disattesa (morte: impossibile; vita in Siberia: improbabile) ma, soprattutto, consacrano Tolstoj nell’Olimpo dei narratori. Infatti: o si fa come Lovecraft, che parla per bocca di un morto nelle profondità di Cthulhu (facileee); o si fa come Tolstoj, che scrive talmente bene da instillare il dubbio. 3 Sommario La citazione del mese Le vite ortogonali Nobel minori Libri (quasi) mai letti Biografie Edulcorate Letterature Involontarie Recensione/1 Le città letterarie Mattoni Metaletterari su carta 5 6 7 8 9 10 12 13 14 15 Punizioni! La lettera che muore Oh, Scena! Pillole di Scienza Viaggi I ferri del mestiere La posta dei lettori Ghost World Iperboloser Contributi da 16 17 18 19 20 21 22 24 25 26 Editoriale O h, salve. Benvenuti al nuovo numero di Finzioni, più bello del precedente e meno del successivo. ci abbia messo lo zampino. Ma soprattutto - è questa la novità del mese - sta arrivando RadioFinzioni! Esatto, stiamo creando un programma musicalletterario di un’ora a puntata, in cui ci saranno notizie, letture, traduzioni di racconti inediti, sciocchezze e insospettati abbinamenti libro-canzone. Presto i podcast sul sito finzionimagazine.it e la programmazione settimanale su Radio Sonora (www.sonora.ra.it). Per una combinazione non so quanto fortuita, in questo Finzioni numero sette si parlerà di maiali. Sia come base per una lardosemantica di provincia, sia come fonte di sostentamento per nebbiosi e dediti porchettari. Ma c’è molto altro, come Vite ortogonali di Jacopo Donati che, dopo aver concluso la serie di Beaten Beatitudine, torna prepotentemente sulla carta facendosi beffe di Plutarco e delle sue Vite parallele; oppure Punizioni!, dove il chiacchieratissimo ultimo libro di Dan Brown viene allo stesso tempo denigrato e apprezzato da una persona che aveva giurato a se stesso di non leggerlo mai e poi mai. E, per dare un tono di adulta serietà al tutto, all’interno vi aspettano anche scottanti rivelazioni su Gargamella e la fine del suo rapporto con i Puffi e in che modo Roald Dahl E, ci raccomandiamo, abbonatevi a Finzioni su finzioni.bigcartel.com. Costa meno di una birra ma sballa di più (a meno che la birra non la compriate alla bocciofila del paese, allora costa meno quella). La Redazione 4 Alla fine Gargamella si sveglia e si accorge di aver sognato i Puffi sotto l’effetto di un allucinogeno scoprendo così che in effetti i Puffi non sono mai esistiti. Un mio amico l’altra sera La citazione del mese Giovanna Nuvoletti e Roald Dahl di JACOPO CIRILLO L a serie televisiva dei Puffi finisce con Gargamella che si sveglia e si accorge che è stato tutto un sogno. È vero, scaricatevi la puntata[1]. Che finale deludente, scoprire che il vecchio stregone era l’onirico demiurgo di tutta Pufflandia. Io l’ho imparato qualche tempo fa e, come con le grandi delusioni d’amore, adesso i finali a sorpresa un po’ mi spaventano e, di certo, non mi ispirano fiducia. Ecco perché un libro come Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più di Giovanna Nuvoletti mi è piaciuto così tanto: perché non c’è, davvero, un finale. La storia di tre generazioni di potenti aristocratici che si snoda attorno alla mitica Capannina di Forte dei Marmi ha una struttura decisamente ricorsiva: succedono sempre le stesse cose negli anni e il loro succedersi assicura una ripetizione infinita nelle generazioni che devono ancora venire, anche se, di fatto, non verranno mai. Niente scossoni allora: a pagina 50 si sa già come finisce perché se ne intuisce la struttura. Di certo non succederà qualcosa così trascendente/trascendentale come il sogno di Gargamella (che sia maledetto). È la lotta, antica come quella del bene e del male, tra la soddisfazione superficiale del “hei, non me l’aspettavo” contro la più consapevole soddisfazione intellettuale del “tutto progressivamente va al suo posto, come avevo intuito”. Poi però arriva Roald Dahl, quello che ha scritto La fabbrica di cioccolato e, nella fattispecie, anche una serie di racconti “di humour sofisticato e macabro” curati da Guanda. La cosa più notevole dei corti di Dahl sono i finali. Spesso la parte più spaventevole e imprevista sono proprio le ultime righe ma, nonostante la mia scottatura puffosa (puffarbacco), ne sono affascinato. Perché i finali, in Roald Dahl, fanno senso, sia perché sono un po’ funerei, sia, soprattutto, perché elaborano e riorganizzano tutto il 5 significato del racconto, in maniera decisa e sorprendente. Non sono banali colpi di scena come quello di Gargamella (che non spiega nulla e nulla aggiunge alla narrazione), sono piuttosto “produttori retroattivi” di senso. Come nella più letterale delle tradizioni, il racconto si compie nel finale. Che è meglio! [1] Scaricare illegalmente contenuti audio e video da internet è un reato. Voi rubereste una borsetta? E Finzioni? No, Finzioni è a gratis. Le vite ortogonali Samuel Pickwick vs Hans Schnier di JACOPO DONATI P lutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze. Hans Schnier la parete grigia della diga, la crepa che da piccola e invisibile diventa tutto d’un tratto evidente, serpeggia fino in cima e poi c’è solo acqua. Nel caso di Hans, sostituite all’acqua il liquore. I cattolici diventano il bersaglio preferito del clown che in seminario ha proprio un fratello, Leo. Hans compone il numero del seminario per ottener soldi pure da lui che sarà l’unico che potrà offrirglieli. Ma Hans li rifiuterà: Leo, infatti, ha fraternizzato col nemico, Züpfner. Hans respinge l’unica mano disposta ad aiutarlo e finisce per odiare tutti coloro a cui riesce ad addossare le sue colpe. È il frutto degli sbagli che continua a commettere e di quella che crede integrità mentre altro non è se non testardaggine. Samuel Pickwick R H ans Schnier è un clown ventisettenne e alcolizzato, partorito da Böll in Opinioni di un clown. Non è di certo un clown che fa ridere, anzi: si piange addosso, spara a zero su tutti e passa il tempo a scorrere il dito sul disco del telefono, alla ricerca di qualcuno che gli presti un po’ di soldi. Fallito è la prima parola che viene in mente. E qui entra in campo Maria, la sua compagna prima che un certo Züpfner arrivasse e se la portasse via. Maria fu per Hans la crepa sul- iassumere la vita di Pickwick non è difficile, è impossibile. La penna è di uno dei più grandi romanzieri di tutti i tempi, Charles Dickens, e Il circolo Pickwick è tra i libri più divertenti che abbia scritto. Pickwick parte con tre amici in giro per l’Inghilterra, alla ricerca di tutto ciò che merita di essere osservato. Troveranno storie incredibili, personaggi strambi e una valanga di guai. Un personaggio incarna tutto ciò: Jingle. Jingle parla veloce, più veloce della sua bocca che spezza le frasi, e risulta così energico che Dickens non può che tenerlo 6 in vita. Le strade di Pickwick e Jingle si separano dopo che questi l’ha umiliato in più occasioni, ma si ricongiungeranno: Pickwick, in prigione per un malinteso con la sua padrona di casa, fa un giro per gli altri piani del carcere e incontra Jingle. Lo ritrova nell’ala degli indigenti, prossimo alla morte, e quella vista gli fa riconsiderare tutte le vicende passate. Fa preparare un pranzo che lo rimetta in forze, salda il suo debito e gli trova un lavoro. Quando anche la sua padrona di casa sta per varcare la stessa soglia, Pickwick si decide a pagare il debito che per cocciutaggine l’aveva portato lì e perdona tutti i suoi nemici. Fossero persone in carne ed ossa, Pickwick batterebbe Schnier su tutti i fronti. E infatti, uno finisce in una casa di campagna, circondato dai suoi amici e dai loro figli; l’altro, triste e sconsolato, chiede l’elemosina sui gradini della stazione. Chi è più felice tra i due è evidente. Nobel Minori “Foe” di J.M. Coetzee di VIVIANA LISANTI C osa fareste, se in seguito ad un naufragio, vi trovaste su un’isola deserta? Le prime settimane scivolerebbero veloci nella necessità di soddisfare bisogni primari quali bere e mangiare; nel tentativo disperato di attirare l’attenzione di possibili salvatori accendendo un fuoco sulla spiaggia. Ma una volta costruiti degli strumenti rudimentali con i quali cacciare e pescare, trovata una sorgente d’acqua fresca e un luogo riparato dove riposare; una volta rassegnati all’idea di dover trascorrere ancora molti mesi, forse la vita intera su quell’isola sperduta in mezzo all’oceano, allora cosa fareste? Susan Barton, che su quell’isola si trova, non ha dubbi: troverebbe il modo di tenere un diario sul quale scrivere di sé, della vita che si trascina lenta su quell’isola cosicché i futuri viaggiatori, approdandovi, possano leggere la testimonianza della sua presenza, assicurandole di non cadere nell’oblio. Un’esigenza non condivisa dal coinquilino Cruso, che su quell’isola è arrivato molto tempo prima eppure non ha mai pensato di scrivere, tanto meno di insegnare a scrivere a Venerdì, lo schiavo nero suo compagno di sventura, al quale hanno tagliato la lingua in circostanze misteriose. Come fa Cruso a non avvertire l’impellenza di fissare indelebilmente quello che gli sta accadendo? Giacché gli anni passano e con il tempo i ricordi sono destinati a sfumare, cosa porterà sulla terraferma della sua avventura, nel caso venisse tratto in salvo? “Vista da un osservatorio troppo lontano, la vita comincia a perdere la sua peculiarità. Tutti i naufragi diventano lo stesso naufragio, tutti i naufraghi lo stesso naufrago, scottato dal sole, intristito dalla solitudine, vestito delle pelli degli animali uccisi.” Per Susan sono i dettagli a sancire la differenza, a far si che ogni esperienza sia irripetibile. Ed è la scrittura a far si che la vita si faccia storia cioè che un evento vissuto nel passato, attraverso la rielaborazione racchiusa nell’atto di scrivere, venga ordinato cronologicamente, con un inizio e una fine, ed acquisti finalmente un senso. La scrittura quindi è necessaria a trasformare il vissuto in qualcosa di comprensibile, o per lo meno di indagabile. L’urgenza di capire, di trovare un significato all’anno trascorso sull’isola, spinge Susan, una volta tornata in Inghilterra, a conferire ad uno scrittore, Foe, l’incarico di scrivere la sua storia. E qui inizia il travaglio di Foe, ovvero simbolicamente il difficoltoso cammino che intraprende qualunque scrittore insignito dell’arduo compito di trarre da una materia confusa, imperfetta, quale è la vita, un’opera d’arte compiuta. Cruso è morto durante il viaggio dall’isola alla terraferma, Venerdì è muto e non sa scrivere, Susan, 7 la musa di Foe, racconta della vita sull’isola come di un’esperienza monotona : giorni che si susseguono tutti uguali, che si trascinano nella noia. Lo scrittore deve affidarsi alla finzione della narrazione nel tentativo di rendere il romanzo interessante: riempie i vuoti con la fantasia; trae dal silenzio di Venerdì le parole; dai fantasmi dei ricordi di Susan crea i personaggi del suo libro. Ma queste abilità non bastano. La gestazione dell’opera sembra non finire mai, il percorso è più complicato di quanto Susan pensasse. La nobile arte che esercita Foe non si risolve nel trascrivere. E’ un’arte misteriosa e indispensabile, un’arte sacra. “Chi racconta una storia (…) deve divinare quali episodi della sua vicenda racchiudono promesse di compiutezza, districandone i significati nascosti, intrecciandoli insieme come si intreccia una corda. A districare e intrecciare come in ogni mestiere, si può imparare. Quanto però al determinare quali episodi racchiudono una promessa (come le ostriche le perle) non a torto quest’arte si chiama divinazione.” Foe, J.M Coetzee (Einaudi, 145 p., € 15) Libri (quasi) mai letti “L’amante” di Marguerite Duras di MARIA GIOVANNA ZICCARDI L a finzione dei libri quasi mai letti nasce molto più banalmente di quanto possiate pensare. I libri si leggono, si rileggono, si sfogliano, si scelgono, si giudicano, e si “sentono”, anche. Anzi, più li si ama, più capricciosa diventa l’epidermide: quell’istinto che si somma alla curiosità e alle conoscenze, ma comunque le precede tutte e forse alla fine si prende pure l’ultima parola. Ecco perché non leggo L’amante. Fondamentalmente non avrei altro da dire, ma visto che mi concedono altre 3052 battute da spendere, cerco di spiegare in che senso. A me, prima che a voi. Se entro in libreria senza sapere che esiste Marguerite Duras e incontro un titolo che fa L’amante, io tiro dritto. Voi no? Confessiamolo: i libri si scelgono, proprio perché un po’ si sentono, anche dal nome. E a ben vedere non è nemmeno un criterio tanto assurdo: da una storia che si chiama così mi aspetto tutto quanto di più prevedibile possa ruotare intorno ad un amante. È associazione di idee. Per questo editor accorti hanno trasformato Pansy in Via col vento, L’ultimo uomo d’Europa in 1984, Prime impressioni in Orgoglio e pregiudizio. Poi non è vero che da un titolo estroso esca il libro della mia vita. Ma forse perché dice tutto, forse perché non dice abbastanza, forse perché resta grigio e anonimo, dall’amante io non mi aspetto proprio nulla di stimolante. Facciamo finta, invece, di sapere benissimo che esiste Marguerite Duras, che è una grande scrittrice e che L’amante è il suo “best seller”. Questo mi trattiene sul libro: anziché tirare dritto mi fermo, lo guardo, lo prendo in mano, lo sfoglio. Ma non mi invita, mi invita piuttosto alla cautela. Istintivamente associo alla parola “best seller” uno spreco di tempo; il libro che legge il mio vicino di ombrellone; il libro che regalo a chi conosco, non a chi amo. E poi, non mi piace che ad essere coronata come tale sia proprio una delle ultime opere della scrittrice. Potrebbe essere il culmine del percorso letterario; ma potrebbe essere vero anche il contrario: che Marguerite abbia ceduto qualcosa di sé, abbia barattato forza espressiva, potenza di significati, con qualcosa di più mite, di più accessibile, di più facile. Che accade quasi per distrazione e si ritrova perfetto per essere “sold”. Continuo a fiutare: sentore di banalità, la banalità in cui è troppo facile cadere quando si batte il sentiero, vischioso e rischioso, amore/sesso/biografia. Non mi fido di queste contaminazioni evidenti, smaccate. Temo che gonfino la storia per poi afflosciarla in una “piccola storia”, che mi lascia senza niente in mano o mi fa venire voglia - orrore - di vedere il film (e dire, puntualmente, immancabilmente, la frase fatale: «Era meglio il libro») oppure mi lascia smarrita e delusa, afflosciata appunto: «È tutto qui? o sono io che non capisco?». 8 Ma ancora: lo stile di Marguerite è spoglio eppure densissimo; è una grande artista perché scrive con spessore, perché scava anime e linguaggio. Lo so perché ho letto due dei suoi libri minori, Occhi blu capelli neri e Giornate intere tra gli alberi. Ritroverei lo stesso senso raffinatissimo della discrezione? Le altezze, i chiaroscuri, i fantasmi? Quale abilità, per il miliardario cinese e la quindicenne francese, di fare gli acrobati sull’esistenza? Di sviscerare volando? Non mi fido, io, dell’amante. E ringrazio questa rubrica per concedermi il lusso di essere semplicistica. Biografie edulcorate Daniel Wallace di ANDREA MEREGALLI D aniel Wallace, diciamocela tutta, non se lo fila nessuno. Cioè, voglio dire, se Tim Burton, quel giorno, proprio quello, avesse deciso di farsi un giro anziché un film, noi, di Daniel Wallace, non avremmo mai sentito parlare. dre sta morendo, un figlio corre al capezzale, una madre soffre di brutto, una nuora è decisamente gravida. E poi arrivano i giganti, i nani, il circo, le streghe, le gemelle siamesi, la città sommersa, il fiume, il grande pesce. Film? Hai detto film? Ma quale? Sai, ce ne sono tanti in commercio, razza di zuccone! Ah, quindi voi, manco il film conoscete? Ma, scusate, redazione. Scusate. Il lettore medio di Finzioni è così scialbo? Così puerile? Così balocco? Cirillo, non va bene. Non ci sto. Mi parlavi di cultura, di gloria, di tette mastodontiche. E che cazzo! Comunque, scusate, mi è passata. Ora respiro profondamente e mando giù due gocce di quelle forti. Ok. Quindi. Vediamo. ca, ho trovato anche Il Re dei cocomeri (2003). Bello, anzi, bellissimo. Proprio le storie che piacciono a me. Una paese e la sua sagra. E tutti i cazzi e i mazzi. Gente un po’ pazza. Situazioni grottesche. Tra il sì e il no. Questo surreale che ci aggrada. E un sacco di uomini vergini. Del 2007 è Mr. Sebastian e l’ombra del diavolo e, questo romanzo, non avete scuse, lo si trova con prepotenza nelle librerie. Io, pensate, non l’ho nemmeno cercato, me lo sono trovato lì, con la copertina blu, accattivante, quasi erotica. Praticamente è la vicenda di un uomo di colore che sbianca. No, ragazzi. Non è la biografia del compianto Michael Jackson. E no, ragazzi. La parola “vitiligine” non viene mai nominata. Lui è un mago e se la deve vedere con il demonio. Big Fish! (1998) Brutto affare. Sì, diamine! L’ha scritto proprio lui! E non è un libro egregio? Io lo trovo pregevole. E lo trovo ricco e, tra l’altro, lo trovo molto meglio del film che, a sua volta, lo trovo molto meglio di tanti altri film che trovo rispettabili. Tutto qui? Cioè, ci hai fracassato le palle e te la sei menata con questo Daniel Wallace che, poi, ha scritto solo tre libri? Ehm, cioè, sì. Effettivamente. È così. Non è colpa mia se i biliardi di racconti che ha scritto, nessuno si è preso la briga di tradurli. Ha vinto dei premi, questo qui. Ma niente. Io trovo cose e parlo con gente. E Daniel Wallace è nato nel 1959, in Alabama, Stati Uniti d’America. Pensate un po’: prima di pubblicare Big Fish ha scritto 5 romanzi che sono stati segati dagli editori. Tutti. E 5. Anzi. Ha scritto Elynora, un libro per ragazzi, ci sono le illustrazioni, anche. Che fottuta figata! Sicché, amici. La storia la conosciamo. Un pa- Sta di fatto che in Italia, bibliote- 9 Letterature involontarie Sapere di maiale. Per una lardosemantica di provincia di EDOARDO LUCATTI L a semantica dei prototipi è uno dei modi con cui posso studiare il significato delle parole. Comincio chiedendomi, ad esempio, quali sono i criteri in base ai quali chiamo maiale un dato maiale. In effetti potrei chiamarlo animale, suino, ungulato artiodattilo, maiale di mezza età o prossimo al macello, maiale di Norcia. Perché, il più delle volte, lo chiamo semplicemente maiale? L’idea è che nella struttura categoriale vi sia un livello privilegiato o privilegiabile: è il livello di base (maiale), distinto dal livello sovraordinato (animale) e da quello subordinato (suino di razza mora romagnola). Dei molti motivi per cui questo livello di base è privilegiato rispetto agli altri, ne affronterò uno che mi torna piuttosto utile. Questa sera non mi farò una bistecca di animale, e nemmeno una bistecca di suino di razza casertana; questa sera mi papperò una braciola di maiale o, più semplicemente, mangerò del maiale. “frassino”). Anche negli altri due livelli, volendo, si possono classificare gli oggetti, solo che non conviene. Dire di un maiale che è un animale non mi costa nulla ma non mi dice molto su ciò che ho di Quindi il livello di base è privilegiato perché entra nelle mie azioni quotidiane, e anche per questo è il primo in cui i bambini percepiscono e classificano gli oggetti (dicendo “albero”, e non “vegetale” o 10 fronte. Dire di un maiale che è un suino di razza mora romagnola mi fornisce tante informazioni ma mi costa anche una fatica elefantiaca e proboscioidale. In sostanza, il livello di base mi dice tutto quello che generalmente mi serve senza incasinarmi troppo la vita. Insomma: ha il migliore rapporto qualità/ prezzo. Se dico maiale so che me lo posso mangiare, so che è più buono del pollo (piantiamola con questo insolente relativismo dei gusti, per Dio), so che è intelligente e piuttosto stronzo, so che va cotto di più rispetto al vitello e so che una volta Homer Simpson ne ha rincorso uno morto che volava con una mela in bocca. Faccio fatica a sapere queste cose? No, mi vengono semplicemente in mente. Il livello di base, come direbbero le felsinee genti (aggettivazione tutt’altro che basica), “è una gran bazza”. Ci sta dentro tutto e non costa nulla, olè! Cesare Cadeo e Giorgio Mastrota, insigni studiosi di semantica dei prototipi, la venderebbero senz’al- tro così. “Venite a Budrio che c’abbiam del maiale!”. Con queste parole il sindaco di Budrio, ridente località del bolognese, ha chiuso la presentazione della festa del maiale che si sarebbe tenuta di lì a poco nel suo bel paesino. I giornalisti presenti hanno scrupolosamente preso nota e l’invito è stato riportato nella sua fulgida efficacia. Pensate se avesse detto che nel successivo weekend budriese l’agroalimentare avrebbe schiuso i segreti della produzione suinicola del territorio. A me sarebbero venute in mente conferenze sull’organolettica del maiale, visite guidate ad allevamenti durante le quali qualcuno si perde e la comitiva rimane bloccata ad aspettarlo tra i porci che defecano sotto un sole cocente, e forse cortei di vegani in protesta che lanciano piselli reidratati contro gli espositori di una mostra zootecnica. La stanchezza mi avrebbe afflitto prima ancora di cercare su Google Maps dove diavolo si trovi Budrio. Se invece avesse semplicemente promesso che sarebbe stata “una bella festa con tanti animali”, avrei potuto lasciarmi atterrire da immagini di caste fattorie aperte a bimbi boccoluti che danzano tenendosi per mano mentre i padri li guardano maledicendosi lo scroto e ciò che ebbe a uscirne in quella notte buia e tempestosa. Invece no. Lui ha detto: “c’abbiam del maiale”. L’efficacia dell’invito è nel “del”, espressione spesso abusata in questa zona della Bassa e tuttavia dotata di una sua particolare arguzia che ne fa un potente attivatore semantico. Il “del”, infatti, preposto che sia al termine del livello di base (“maiale”), ne squaderna l’ampio spettro di informazioni (tutte a costo zero, ricordiamolo) senza vincolarne la selezione. In una sola volta ci troviamo circondati da un florilegio di maiabilità, in cui stanno assieme facendosi però apprezzare in tutto il loro preciso sapore la braciola di lombo, la chiazza di sugo della signora Luisa che ti serve gridando sopra la tua testa che non ha capito l’ordinazione dell’altro tavolo pieno di invorniti, il tendone della sagra, la panza piena del dopo pranzo, i vecchi che ti dicono che loro ai tuoi tempi scopavano di più, un’altra braciola di lombo perché la prima era troppo buona, il foglietto col numerino che devi sventolare nella calca quando è il tuo turno e il vino della casa che si aggrappa al palato e ci resta per una settimana. Insomma: maiale è il prototipo, l’esempio migliore della categoria di cui fanno parte “quelle cose lì”, quelle che “sanno di” maiale. Il “del” è il passe-partout per scorrazzare liberamente in questa categoria, slumandosi tutte le nitide e informative immagini che essa contiene e potendo così scegliere, DEL maiale, ciò che meglio s’accorda al nostro gusto d’accedervi. 11 Verboso metro 20 15 10 5 0 Ritaglia il verb osomet ro e attaccalo sulla schien a del tuo amico verbos o Recensione/1 Verboso metro L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e l’avvolvere. Da 0 a 5 espressioni verbose. Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire. Da 5 a 10 espressioni verbose. Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana. Da 10 a 15 espressioni verbose. Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa. Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa. Più di 20 espressioni verbose. Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo. Maiali nella nebbia Matteo Bettoli P rima di Maiali nella nebbia avevo letto altri due libri con dei suini nel titolo (L’era del porco di Gianluca Morozzi e Porci con le ali di Rocco e Antonia), uno mi era piaciuto e l’altro no. Gli animali nei titoli dei libri, se non sono libri per mocciosi, raramente indicano l’animale in carne ed ossa. Spesso sono lì per far scena. Qui Gentili parla di suini veri, quelli da mangiare, quelli sapidamente controversi ma che piacciono un po’ a tutti, uomini e donne, timorati e disinibiti, tralasciando solo i vegetariani. Nel mezzo della nebbia ci stanno degli uomini, anche se si vedono poco, che dedicano la vita all’animale che, tra tutti, provoca più imbarazzo e ironia: il suino. raccontarla ci si mette Fellini. Una ragazza della costa mi ha detto un giorno “tu vieni dalla Romagna più becera, quella del tavernello, senza il mare, c’avete la nebbia... mangiate la piadina alta... quella strana, con lo strutto.” Ora, credo che le campagne marchigiane siano simili a quelle delle mie parti. Becere. Eppure ricche di dolcezza, una dolcezza che ha il sapore della cura e del sudore. Essere porchettari non dev’essere facile, allevare animali in genere non dev’esserlo, soprattutto se il frutto di tanta cura e fatica dovrà essere inevitabilmente macellato. Il processo tanto auspicato e oliato si chiude con una morte, ma è una morte che non distrugge bensì trasforma, converte e decodifica. Decodifica il maiale, rendendolo accettato. Nessuno sfotte il prosciutto, neppure i vegetariani. Ho detto “ci sono uomini” e poi ho divagato. Sono individui induriti da un lavoro spesso ingrato, salvo celebrazioni e piccole soddisfazioni. Sono mariti, anche se le mogli nel libro si vedono poco. Spesso sono macchiette, comiche e malinconiche, forse rassegnate ad essere uomini non troppo amati. In mezzo ci stanno storie di amicizie virili simili a quelle che compaiono in tanti romanzi d’avventura, una bromance intesa come romance tra bro, fratelli, che vivono sulla fatica, sulla necessità l’uno dell’altro, sull’amore per la bestemmia, sulla durezza e sulla nebbia. Che ritorna, come un qualcosa che cancella ma che permette pure il ricordo. Cosa ricordi? Ricordo la nebbia. Ci sono uomini, dicevo. Sono uomini spesso in mandrie, in piccoli assembramenti di esemplari, riuniti dalla missione della conversione. Ho ricordi vaghi di quando andavo in campagna da bambino ma ricordo lo spazio. La campagna che conosco, quella romagnola, è anti-romantica, reale, pure se a Maiali nella nebbia di Enrico Gentili, ed. Tracce, 2007, 14 euro 12 Le città letterarie Roma, A immaginare una vita ce ne vuole un’altra di AGNESE GUALDRINI “Il colosseo sta alla borgata come la vespetta sta allo scooter. Quella campava mille anni, questo ogni due mesi finisce dal meccanico” A ppena mi sono trasferita a Roma ho iniziato a camminare. E camminare, insieme ai viaggi in motorino, è forse il modo migliore per vivere la città. Essendo io una donna piuttosto imbranata ed essendo la guida degli automobilisti romani totalmente priva di criterio, non ho mai avuto il coraggio di comprare un motorino tutto mio e ho finito per fare, ogni tanto, solamente la passeggera dietro le spalle di qualcuno. Sono quasi due anni che abito qui e buona parte di Roma l’ho girata a piedi. Roma è una città letteraria di per sé. Perché in sé racchiude tutto. La maestosità di san Pietro, la desolazione del Laurentino, la pace di Villa Borghese, i sabati sera più coatti che abbia mai visto sulla via ostiense, il bel mercato di Testaccio, gli immigrati di Piazza Vittorio, la chiccheria camuffata da donna trasandata del Pigneto. E si potrebbe continuare per ore. Il mio sguardo è comunque ancora, e lo sarà sempre, uno sguardo straniero. Lo sguardo di chi non è nato a Roma e di chi, trasferendocisi, ne subisce il fascino, ne acquisisce il luoghi comuni e si esaspera per la sua totale mancanza di funizionalità. Tanti scrittori hanno parlato di Roma e tanti romanzi hanno Roma come sfondo. è scritto come si muovono i miei pensieri (e non è forse questa una delle cose più portentose della lettura?), forse perché l’autrice, fiorentina, parla di questa città in un modo così completo (dai luoghi più oscuri a quelli più rassicuranti), questo è un libro che mi ha colpita molto. Riesce a tessere in un’unica trama le aspettative di chi viene a Roma per cercare un’opportunità e la città per quella che davvero è, senza elogi, senza infamie. Un giudizio asciutto ma sentito su un grande paesone fatto di tanti quartieri. Una città che ti può dare molto, se non pretendi da lei cose che non potrà mai darti. Elena Stancanelli, A immaginare una vita ce ne vuole un’altra (Minimum Fax, 2007). Forse perché Quando mi sono trasferita a Roma tutti mi chiedevano un parere. Io mi sentivo a casa. Abitante, zi di trasporto rende Roma una città misteriosa agli abitanti stessi. Quelli di Roma Nord sanno di Roma Sud soltanto storie, luoghi comuni, leggende e viceversa. Le ville dell’Eur, lo spaccio a San Basilio, le puttane della salaria, i Rumeni di Anagnina. Se abiti al Trullo non ci vai a Tor Bella Monaca, né da Dragona ti azzardi a raggiungere la Bufalotta. Puoi calare al centro, questo sì, ed è lì che probabilmente si tramandano le leggende sui quartieri”. “La scarsa efficienza dei servi- 13 Allora, quale delle due vite è? Perché per immaginare una vita ce ne vuole un’altra: la vita poetica non è immaginabile senza quella fatta dalla quotidianità e dalle sue certezze. a volte, della solitudine non sentendomi però mai davvero sola. Roma non è una città moderna, non ti offre nemmeno così tanti divertimenti o svaghi come immagineresti; in certi momenti Roma è antica e quasi ti sembra immobile. È lì: scorre ogni giorno sotto la tua finestra. Roma è tutte e due le cose insieme. Mattoni “L’uomo senza qualità” di Robert Musil Peso: 3, 86 kg di FILIPPO PENNACCHIO Q ui a Mattoni – approcci pesanti a contenuti pesantissimi – non abbiamo certo bisogno di fare dotte citazioni – al massimo giochiamo sporco e spacciamo come nostra la farina dell’altrui sacco, in barba a qualsivoglia correttezza deontologica – o di tirare in ballo chissà quali nomi per dimostrarvi che di letteratura e di libri pesanti ne sappiamo a pacchi. E però, per legittimare certe cose pese che andiamo a dire, ogni tanto ci concediamo qualche strappo alla regola e lasciamo la parola a ospiti illustrissimi (in genere anziani, visto che «i vecchi spaccano», cfr. finzionimagazine.it). Oggi, ad esempio, il buon Umberto Eco – sì, lo sappiamo eccome che citarlo è banale, scontato, quello che volete – ci spiega perché nessuno ha mai veramente voglia di leggere libri che pesano più di due chili: «Potremmo domandarci se era necessario che Manzoni inserisse quelle informazioni storiche sui bravi. Si sa benissimo che il lettore è tentato di saltarle, e ciascun lettore de I promessi sposi ha fatto così, almeno la prima volta». Noi I promessi sposi non li leggeremo mai, ci mancherebbe, ma quel che ci interessa è la bella idea messa a fuoco da Umberto: quando leggendo un libro incontriamo lunghe parentesi descrittive, pedantissime ricostruzioni storiche, momenti in cui, letteralmente, non succede un bel cazzo di niente, noi lettori di Palahniuk spesso ci annoiamo tantissimo, alziamo gli occhi al cielo e se non succede qualcosa – qualsiasi cosa – nell’arco di un paio di pagine decidiamo di passare ad altro. Ecco, una persona che decidesse di leggere L’uomo senza qualità – ma suvvia, nessun (giovane) ha oggi voglia né (soprattutto) tempo di prendere in mano un librone che 14 per dire che era «una bella giornata d’agosto» tira in ballo minimi barometrici, isoterme, isòtere e oscillazioni aperiodiche o che contiene capitoli con titoli del tipo «Il capodivisione Tuzzi scopre un difetto nel funzionamento del suo ministero» – dicevo, una persona che decidesse di leggere L’uomo senza qualità si troverebbe probabilmente in imbarazzo nel constatare che, come minimo, ogni singola pagina va saltata a piè pari: niente azione, niente personaggi memorabili, niente frasi particolarmente epiche o ciniche da riciclare come status su Facebook. Al massimo il borghesissimo protagonista intorta un paio di tipe, si sbatte per riabilitare un falegname psicotico alto due metri che ammazza dei gran troioni e ci racconta di piccoli e grandi crucci in seno all’Impero austroungarico (sì, si parla un sacco di Impero austro-ungarico). Il resto è tutto un discutere di massimi sistemi, di filosofia storia meteorologia arte politica eccetera. D’altra parte, tra le pagine di quest’opera-monstre che sarebbe assurdo definire “romanzo” – dentro a questo bestione massimalista che a un incipit altamente vago e dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla fa corrispondere un finale che non è tale, perché incompiuto e perché avrebbe potuto protrarsi all’infinito – c’è un po’ di tutto, disordine soprattutto: mentre la scrive, a Musil si disfa tra le mani, e il risultato è che pagina dopo pagina il Nostro finisce per pisciare sempre più fuori dal vaso. sun motivo in particolare: non c’è ragione di perdere mesi dietro a libroni che tanto non avrete tempo e pazienza per finire e che comunque non vi cambieranno la vita. Anche se lo si è già detto: oltre a tediarti immensamente e a lasciarti dei bei segni rossi sull’addome se li leggi sdraiato sul divano, i “mattoni” nascondono tra le loro pieghe sempre almeno una fondamentale lezione morale. L’uomo senza qualità, ad esempio, fra le altre cose introduce fatalmente al preciso significato della parola “mediocrità”: «Un giovane in fase di attività mentale – non siete voi – irradia continuamente idee in tutte le direzioni. Ma solo quelle che incontrano risonanza nell’ambiente gli vengono rinviate e si consolidano, mentre tutte le altre irradiazioni si sparpagliano nello spazio e vanno perdute. E così nel corso del tempo le idee comuni e impersonali si rafforzano da sé e quelle eccezionali si perdono, così che quasi ognuno, con la precisione di un congegno meccanico, diventa sempre più mediocre»: come a dire che alla fin fine, chi più chi meno, tutti, tanto per rimanere in ambito scatologico, facciamo cacare almeno un po’. Indi per cui eccoci arrivati alla solita domanda: perché mai leggere un “mattone”? (Ma anche, se volete, perché leggere Mattoni?) Come al solito, e cioè per nes- Et voilà. Discutetene pure. Anzi, siccome di sicuro non correrete a leggere il suddetto (bellissimo) mattone, fatevene una ragione. Ciao eh. Alla prossima. Metaletterari su carta Come ti faccio lo scrittore di LICIA AMBU A llora, a Moccia (bla, bla, bla, lo sappiamo già) gli tocca scegliere le frasi dei cioccolatini, perché dice che si è guadagnato sul campo una specializzazione in sentimentalismo romantico. Una specie di direttore editoriale della Perugina, per capirci. Tassi glicemici raddoppiati. Coelho invece aveva deciso di fare un film della sua Strega, ma poi si è detto perché non donare questa gioia ai miei lettori? Che lo facciano loro il film. Si è indetto quindi un concorso. Lui, però, ha scelto i migliori quindici da presentare a Roma, precisiamolo. Annosa anche la questione del nome. Il figlio di King per esempio, è anche lui scrittore, sotto pseudonimo però, perché non vuole usufruire di papà. Come ogni segreto di pulcinella, presto detto l’hanno smascherato. Il suo libro lo leggono 15 lo stesso, ma lui resta il figlio di Stephen K. Last but not least il Dan B. Finalmente la grande opera è uscita (v. pag. 16). Dei lettori non frega niente a nessuno, l’importante è che la chiesa possa di nuovo farsi pubblicità incazzandosi, che i massoni abbiano un pr e, soprattutto, che Tom Hanks firmi di nuovo. Punizioni! cambiando continuamente scena e personaggi, probabilmente per rincoglionirci e non farci pensare alle puttanate che ci sono scritte. “Il Simbolo Perduto” di Dan Brown di JACOPO CIRILLO “Oh mio Dio! Ho commesso un terribile errore!” riferimento massone, anche i miei studenti lo capirebbero? Warren Bellamy, architetto del Campidoglio e massone, p. 376. E non è tutto: quando Brown vuol far capire che non c’è narrazione normale ma qualcuno che sta pensando tra se e se, scrive le frasi in corsivo, una roba inventata al tempo delle pitture rupestri. E per rendere la storia, cito da fonti anonime, “acuta, esaltante, velocissima”, non fa altro che spezzettarla in maniera esasperata, facendo durare ogni capitolo due o tre pagine e terminandolo con rivelazioni spesso fasulle come ho appena trovato la risposta e, dunque, N on paghi di punirci qualitativamente, noi di Finzioni abbiamo deciso di flagellarci anche quantitativamente. Per questo, il libro punizione del mese è Il simbolo perduto di Dan Brown, 600 pagine di finti colpi di scena, mezzucci narrativi e sceneggiature pensate da cento scimmie messe davanti a una tastiera ed esortate a scrivere a caso. Le cose sono due, o i protagonisti del libro sono dei ritardati (e può essere), oppure Dan Brown pensa che i ritardati siamo noi. Ma com’è possibile che l’atletico Robert Langdon venga condotto con l’inganno a Washington e costretto a portare con sé un pacchetto dal valore simbolico inestimabile e questi si renda conto dopo ben cento pagine che è quello la cosa importante, ciò che i cattivoni cercano, e non la sua bella faccia? (ma certo, il pacchetto!) E come è possibile che la terribile mano mozzata trovata al centro del Campidoglio con il pollice e l’indice rivolti verso l’alto faccia tribolare per decine di pagine il vecchio Bob per poi fargli dire che quella posizione è un chiarissimo 16 Ci sono centotrentatre (133) capitoli, senza contare il prologo, l’epilogo e dieci pagine bianche alla fine per le annotazioni e gli insulti. E però, e però, alla fine me lo sono letto tutto, e in pochi giorni. Sia perché sembra un lungo pensierino dato da una maestra paziente a uno studente modello di terza elementare, sia perché, insultatemi, è interessante. È questo il problema di Dan Brown: dice delle cose interessanti ma le dice male. Ma sono talmente interessanti – massoneria, noetica, Invisibile College, crittografia, SMSC – che ci si passa sopra volentieri, un po’ come l’insegnante suo e di David Foster Wallace (sì, erano compagnucci di banco) che disse, rispetto a DFW, “Dan è bravo, ma in una maniera più tranquilla”. Looooser! La lettera che muore Quante Kcal ha un libro? E quanti Km ti permette di percorrere? di MICHELE MARCON B entornati a La Lettera che muore, la rubrica di Finzioni che tiene sempre i piedi in due staffe. E che, per capire come cambia il mondo, torna indietro al Medioevo. Già, perché oggi voglio parlarvi di un oggetto a tutti noi molto caro, un oggetto di cui si paventa la scomparsa ormai da un lustro bello e buono. Come avrete capito sto parlando del nostro più amato compagno di viaggio: il libro. Fu solo nel Medioevo infatti che il libro divenne un vero e proprio oggetto di consumo, quasi come lo intendiamo noi. La cultura europea medievale, tra scriptoria monastici e spinte scolastiche, introdusse un nuovo tipo d’appetito e di conseguenza un nuovo tipo d’appetente. Tipo, quest’ultimo, in cui noi di Finzioni, e immagino anche voi, ci riconosciamo appieno. Sto parlando del cosiddetto topo da biblioteca. Petrus Comestor, del quale ho anticipato le gesta il mese scorso, fu il capostipite e il più famelico esemplare di questa stirpe di roditori beneducati, e noi non siamo altro che suoi epigoni. Ovviamente si tratta di un nomignolo affibbiatogli dagli invidiosi, ma lui ne andava così fiero che vi dedicò addirittura il proprio epitaffio: “Petrus eram… dictusque comestor, nunc comedor”, che suona più o meno così: “Pietro sono stato… e chiamato il divoratore, ora sono divorato”. Tutti all’epoca sapevano che ciò che Pietro il Mangiatore mangiava erano i libri. E Pietro il Mangiatore era più che felice di essere conosciuto con questo nome e si vantava del fatto che, pur rimanendo giorni e notti chiuso tra quattro pareti ricolme di voluminosi libri, viaggiasse più di qualsiasi avventuriero. Un po’ come il ragazzetto di Baudelaire: “Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes, l’univers est égal à son vaste appétit…”. Oggi le nostre concezioni di viaggio e di appetito sono completamente cambiate. Le barrette energetiche prendono il posto della pastasciutta, mentre i più strenui sostenitori dell’ebook, ovvero dell’acerrimo nemico del nostro caro libro, tentano di farci credere che quest’ultimo prodigio della tecnologia permette di godere maggiormente della letteratura in viaggio, evitando dolorosi mal di schiena dovuti all’eccessivo peso dei voluminosi libri. Non pensano che tutto ciò comporterebbe la privazione di un’indispensabile nutriente: come se uno con carenze di ferro cominciasse a ciucciare un martello piuttosto che mangiare un bel piatto di fegato alla veneziana. E Petrus Comestor lo sapeva bene: si è riempito la pancia di libri ed è vissuto più di cent’anni. Ma come negare lo sviluppo 17 tecnologico? In ultima analisi non posso che trovarmi d’accordo con gli strenui sostenitori, e confessare che prima o poi comprerò anch’io il prodigioso supporto. Ancora una volta, e come sempre, dipende tutto da noi e da cosa decidiamo di fare dei mezzi a nostra disposizione. Se volete alleggerirvi la schiena e la coscienza, usate pure l’ebook. Ma se come me volete nutrire il corpo e lo spirito, non dovete fare altro che divorare un caro vecchio libro: è ricco di fibre e chilocalorie, fonti d’energia indispensabili all’organismo. Insomma, provate voi a digerire cavi elettrici e microchip! P.S. Ancora a proposito del viaggio. Io non credo a tutto quello che mi dicono, ma credo in quello che leggo. Coleridge ha chiamato questa cosa “sospensione dell’incredulità”. Perciò credete a questo: in un bel libro di Massimiliano Governi c’è scritto che nei libri vecchi e ammuffiti si possono trovare dei parassiti che, una volta depositati sulla muffa delle pagine e delle copertine, rilasciano delle spore allucinogene. Questa è la prova definitiva che con i libri si viaggia… e che viaggi! Oh, Scena! Oh, Sonja! di SIMONE ROSSI Astrov: “Una donna può essere amica di un uomo solo in questa successione: prima conoscente, poi amante, poi amica”. Vania: “Che filosofia triviale”. B affi, cravatte, calosce, svegliarsi presto per mettere via il fieno, un ciccione soprannominato Frittella, dottori alcolizzati come in Ombre Rosse, della gran vodka, della gran polka, del gran samovar. “Cechov è la stella di una scuola di giovani scrittori capaci solo d’infilzare fatterelli e piccole impressioni, che ricordano quei rosari di funghi secchi esposti sui banconi dei negozi di alimentari”. Come no, caro Waliszewski: intanto di te non si ricorda quasi nessuno, e invece Zio Vanja di Cechov è il protagonista della settima puntata di Oh, Scena!. Ivan Petrovic Vojnickij aka Uncle Vania, in his own words: “Dormo quando non dovrei dormire, a pranzo e a cena, mangio piatti pesanti, bevo vino: questa non è una vita sana. (...) Ho sprecato la mia vita. Col mio talento, intelligenza, audacia... se fossi vissuto normalmente, sarei potuto diventare uno Schopenhauer, un Dostoevskij... Ho perso la bussola, sto diventando pazzo... Mamma, sono disperato! Mamma!”. Zio Vanja è un vecchio brontolone con un complesso di Edipo grande grande, ma Zio Vanja non è una commedia di vecchi brontoloni. E non è nemmeno una tragedia, nonostante i colpi di pi- stola del finale: Zio Vanja, signora mia, è un’invettiva in quattro atti contro la spocchia intellettualoide. “Da 25 anni quest’uomo insegna e scrive d’arte, e di arte non capisce un accidente. Da 25 anni rimastica idee altrui, sul realismo, naturalismo e altre baggianate. Per 25 anni ha insegnato e scritto cose che gli intelligenti sanno a memoria e che agli idioti non interessano affatto: cioè da 25 anni ha venduto aria fritta”. Sono sempre parole di Zio Vanja, dirette questa volta a uno che è più vecchio e più brontolone di lui: il prof Serebrjakov, intellettuale in pensione con una moglie giovane & gnocca e tanti di quei soldi da poterci comprare una villetta in Finlandia. “Cose che gli intelligenti sanno a memoria e che agli idioti non interessano affatto” è un po’ la figura che il giovane Bud Fox fa con il vecchio Gordon Gekko in Wall Street: “Ragazzo, dimmi qualcosa che non so”. E’ la figura che non vorrebbe fare Oh, Scena! (ehi, ma questa è una meta-puntata!): parlare di classici del teatro russo d’inizio Novecento con la saporita leggerezza dell’aria fritta e il rischio costante di perdere lettori per strada, perché quelli che hanno studiato sono lì che sbadigliano, e quelli che non hanno studiato hanno smesso di leggere alla parola “calosce”. Come se ne esce? Fuggendo. Sì, ma in che direzione? Tra le braccia di chi? “La cosiddetta gente colta poi, come si fa ad andarci d’accordo? Mi stanca. Tutti i nostri 18 cari amici hanno piccoli pensieri, piccole passioni e non vedono più in là del proprio naso: in altre parole, sono stupidi. E quelli un po’ più intelligenti sono isterici: rosi dall’analisi, spaccano i capelli in quattro... si lamentano, sputano veleno, hanno il verme della calunnia: ti si accostano ghignando, ti guardano in cagnesco, ti squadrano, ti etichettano: “Questo, è uno psicopatico” oppure “Quello è un parolaio”. E quando non sanno che etichetta appicicarti in fronte, dicono: “E’ un uomo strano, proprio strano!”. Amo le foreste: è strano. Non mangio carne: anche questo, strano”. Ti sbronzi invece di visitare i pazienti: è strano. La moglie gnocca del prof è innamorata di te: è strano. Questo era Astrov, un altro vecchio brontolone in questa commedia di vecchi brontoloni che, per l’appunto, è tutt’altro. Poi c’è Sonja che è brutta, e a un certo punto lo dice proprio: “Che cosa terribile, essere brutta!”, e verso la fine del Secondo Atto ci sono due pagine strappa mutande in cui la brutta Sonja cerca di intortarsi il brutto Astrov, e lui è vecchio e sbronzo e non capisce, e fuori piove, mangiano insieme e lui se ne va, e Sonja rimane sola, però le viene da ridere: “La sua anima e il suo cuore sono ancora chiusi per me; ma perché mi sento così felice?”. Perché tu hai l’amore, piccola brutta Sonja, hai un sentimento incandescente che brucia l’aria fritta, e io mi rifugerei proprio tra le tue braccia. Spegni la luce, però. D opo la festa dell’unità i manifesti restano appesi per mesi. E si scoloriscono. Che triste, perché si scoloriscono? Appena stampati sono così sfavillanti... Succede che la luce del sole, soprattutto la componente ultravioletta che porta con se più energia, quando interagisce con le molecole di inchiostro le spacca. E da colorate diventano bianche. Un chimico fisico (brutta gente) vi direbbe che la molecola decompone e i frammenti restanti non hanno coniugazione sufficiente per assorbire la radiazione visibile. Diventano bianche, appunto. inorganici costano molto di più dei coloranti organici. In secondo luogo la tossicità: molti pigmenti sono infatti a base di piombo o cadmio, estremamente tossici, quindi ora vietati. Ma capiamo perché i vestiti e i lenzuoli della nonna non hanno ancora cambiato colore. E ora il consueto angolo alcolico: perché le bottiglie di rosso sono fatte col vetro scuro. Il vetro marrone infatti assorbe tutta la luce lasciando il vino al buio dentro la bottiglia, preservandolo così dall’invecchiamento fotochimico. Infatti il vino rosso, assorbendo e resiste meglio. A ogni modo le bottiglie di bianco sono comunque belle spesse e verdi. Al riparo dalla luce, sempre! Tempo fa conobbi un chimico messicano, che lavorò alla Corona, in Messico. Mi disse che la Corona appena imbottigliata è molto meglio, poi peggiora un casino. Quella che arriva al bar è già pessima: tutto a causa della bottiglia bianca e sottile. Non protegge la birra dalla luce e quella poi degrada rapidamente. Ecco perché bisogna metterci del limone. Alla fine l’effetto è sempre buono, ma se fosse imbottigliata nel vetro della Peroni, Pillole di scienza Vetrate colorate di FABIO PARIS Questa cosa è abbastanza comune per le molecole organiche, quelle basate sul carbonio che sono alla base della vita, e di cui tutto quello che non è pietra o ferro è composto (sì, ci sarebbe molto altro, ma semplifichiamo un po’). Infatti tutte le cose molto colorate sono sensibili alla luce. Non va bene conservare il prosciutto all’aperto, perderebbe sapore, oltre a seccarsi. tantissima luce, ne è molto sensibile, meno il vino bianco, che essendo chiaro interagisce meno Questo fenomeno è però comune solo ai coloranti organici. Quelli inorganici, derivanti dalle pietre e contenenti metalli pesanti, sono estremamente stabili, e non temono affatto la luce. Perché allora non si usano per i nostri vestiti, così da far durare di più i colori? Beh, i motivi fondamentali sono due: in primo luogo i costi: i pigmenti 19 la bionda messicana sarebbe molto più gustosa. Ma meno sexy, come dissero al mio amico messicano. H o installato su Firefox un gioco che si svolge durante le navigazioni in Internet. É una cosa un po’ da nerd chiamata PMOG, Passively Multiplayer Online Game. Il mio ruolo é quello di aprire porte che collegano diversi siti. In poche parole, chi ha lo stesso add-on installato, andando su un determinato sito troverà una porta creata da me che gli suggerisce di passare in un altro. Faccio la stessa cosa quando leggo libri. Non sono particolarmente interessato alle evoluzioni stilistiche, ai tripli salti mortali della lingua, alle gare di voli circolari e pindarici attorno a concetti spesso rubati ad autori passati. Certo non mi passerebbe mai per la mente di acquistare uno dei classici della mocciologia, ma neppure acclamo chi, superati i divertissement, con circonvoluzioni retoriche dice il nulla ma lo dice molto bene, cordi rompendo i giovani più di Socrate e con buona pace sia di Platone che di quel dio che avrebbe dovuto sapere se ad una sorte migliore sia andata Atene, e noi con lei, o il condannato a morte. Noto in verità con uno stupore mitigato dall’abitudine che vengono sfornati più libri con idee precotte di quante baguette precotte sforni la Panizzeria. Ciò che interessa maggiormente me e la mia lettura é vedere come la vita di un personaggio, o di un concetto filosofico, che poi é lo stesso, vengano ad incrociarsi con la mia vita privata. lo sui single (Finzioni n° 3) ed alla faccia di Fermina Daza, che, diciamocelo, un poco se lo merita! Del resto ora che malvolentieri sopporto la routine necessaria alla quotidianità vorrei mille volte avere la macchina del tempo e ritornare all’epoca di una delle due Innominabili della mia vita, come a creare una porta tra il personaggio de I promessi sposi e le due figure che hanno segnato «i migliori anni della nostra vita» come la canzone di Renato Zero. L’Innominabile Runaway vaga per una cittadella che si crede cit- Viaggi Porte Apertura mentale, porte chiuse, connessioni. Extracogito ed ergo extrasum intitola Chumy Chùmez una serie di vignette dove tra amanti ci si dice ciò che nella realtà non si può: «Io ti amo molto! Ogni volta che desidero vederti morta, mi pento». A proposito dell’artico- ALESSANDRO POLLINI tà, vive una immaturità che crede edonismo, legge di Lorca Gli Incontri di una lumaca avventurosa piuttosto che Alba: «Oggi il mio cuore é arido/ come una stella spenta». L’Innominabile Return vaga per una city che si crede the world, vive una selfishness che crede indipendence, non sa chi sia Gabriel Garcia Marquez ma segue i Giant allo stadio di New York. Io riguardo le foto ispaniche nuotando nell’inquietudine che mi ha trasmesso la lettura di Senilità al liceo -la professoressa diceva che non era inquietante e che avrei dovuto leggerlo ma a me é parso comunque angosciante- ed evito di scrivere U.S. sui muri come Zeno, che nel caso potrebbe davvero significare United States e per un breve periodo lo ha significato. Scrivo di letture mentre potrei essere a lavorare da Starbucks facen- 20 do grandi sorrisi e servendo Gingersnap Latte o Peppermint Mocha Twist o cos’altro bevono di orribile ed ipercalorico mentre tifano il football americano. Se avessi la macchina del tempo e ritornassi all’epoca di una delle due Innominabili della mia vita, probabilmente ne cercherei una terza. «Volere é potere e potendo rifar tutto/ forse costruirei dove prima avrei distrutto» canta Antonio di Rocco. Tutto é così denso da perdersi nei significati. Troppe parole possono portare al caos, o al caso, che talvolta é addirittura peggiore. Faccio mie le parole di una fiaba di Ermanno Bencivenga: «Quando ero piccolo avevo un grosso problema. [...] Succedeva che mi facessero male i pantaloni, quando la mamma li metteva in lavatrice e quella specie di ventola li sbatteva di qua e di là. Mi faceva male la porta se il vento la chiudeva con gran fracasso, mi faceva male il gatto se qualcuno gli tirava la coda e mi faceva male la sedia quando ci si sedeva lo zio Pasquale, che pesa più di un quintale e a momenti la sfonda». Mi sono venuti in mente in questo articolo: Platone - Apologia di Socrate Critone (Laterza, 139 pp. 7,50 euro); Chumy Chùmez - Siamo tutti di extra (Città armoniosa, 107 pp. Fuori commercio); Alessandro Manzoni - I promessi sposi (Garzanti, 540 pp. 9 euro); Gabriel Garcia Marquez - L’amore ai tempi del colera (Mondadori, 376 pp. 12 euro); Federico García Lorca - Tutte le poesie (Rizzoli, 1207 pp. 14 euro); Italo Svevo - Senilità (Garzanti, 202 pp. 7,50 euro); Italo Svevo La coscienza di Zeno (Barbera, 424 pp. 10 euro); Ermanno Bencivenga - La filosofia in quarantadue favole (Mondadori, 93 pp. 9 euro) I ferri del mestiere “This book is a book” Cronache dalla Frankfurt Buchmesse di AGNESE GUALDRINI L a Fiera del Libro di Francoforte è una bolgia, un viavai di gente addetta ai lavori che normalmente invece di camminare corre. Corre per i corridoi, sui tapirulan e sulle scale mobili. Si tratta della fiera dell’editoria più grande del mondo dove non si vendono e non si acquistano libri ma si cerca di acquistarne e di venderne i diritti di traduzione. Le parole d’ordine sono: buona conoscenza dell’inglese, buona conoscenza dei libri che si vogliono proporre, fiuto nello scovare i titoli degli altri. Il tutto avviene in uno spazio enorme pervaso da un intenso e inconfondibile odore di Bratwurst – tanto che a volte ti chiedi se invece di trovarti in mezzo ai libri tu non sia per caso finito all’Ocktober Fest. Il martedì si arriva e si monta lo stand: pile di cataloghi da sistemare, pile dei libri da esporre, locandine da attaccare. Appena ti appresti ad aprire le scatole inizia a montare l’ansia. Perché abbiamo spedito così pochi cataloghi? Perché abbiamo così pochi libri? E come mai l’arancione di questa locandina è venuto così arancione? E chi ha deciso di fare i manifesti proprio di questi titoli invece di quegli altri libri, poverini, che invece sono così più importanti? Dopo le domande angoscianti di rito il tuo stand, nonostante l’allarme generale, risulta piuttosto accogliente. Pulisci bene i tavolini e gli scaffali. Disponi le sedie come se dovessi dare un ri- cevimento. Il mercoledì si inizia. Ognuno ha una scheda di appuntamenti dislocati più o meno ovunque: generalmente al tuo stand se devi vendere i tuoi titoli, allo stand dell’editore straniero se vuoi curiosare tra i suoi. Gli appuntamenti durano non più di mezz’ora. La fretta regna sovrana. Devi parlare velocissimo e dire le cose salienti. I primi giorni non so come mai ma i tuoi libri e quegli degli altri ti sembrano bellissimi e interessatissimi, ascolti con attenzione e valuti in maniera consapevole se quello che sul momento leggi – non più di 3 righe di presentazione in inglese – fa per te o meno. Se ti interessa ti fai mandare la copia in casa editrice. Se ti interessa moltissimo fai un’offerta sul momento. Se non ti interessa lasci perdere. La carica iniziale inizia tuttavia a scemare i giorni successivi, forse complici le serate finite tardi in quello stesso locale dove ri-incontri tutti quelli che hai visto durante il giorno in fiera (e la domanda è: ma perché ci ostiniamo a tornare sempre lì, mentre un pianista suona brutte canzoni italiane e la cosa più economica, una birra, costa 10 euro?). Arrivi al sabato che le ansie iniziali si sono totalmente dissipate: invece di correre ti lasci trasportare dal tapirulan; il tuo stand ha le sedie in disordine, le ditate sui tavolini e le orecchie sulle locandine. I tuoi libri e quelli degli altri editori ti sembrano autentiche fol- 21 lie e se mentre dialoghi ti estranei per un attimo ti chiedi seriamente che senso abbia essere lì con uno sconosciuto da un tempo indefinito a parlare, per esempio, di narrative non fiction. La cosa rincuorante è che in questo straniamento generale non ti senti mai sola: negli ultimi appuntamenti c’è chi ti offre il gelato invece del catalogo, chi cerca di svenderti l’intera parete dello stand pur di liberarsene, chi ti ascolta con lo sguardo fisso nel vuoto. Nessuno sa più cosa dire, tanto che qualcuno per parlarti di un libro può esordire dicendoti “this book is a book” e rimanere per un minuto buono in silenzio. Come a dire: del resto, questo libro, non è né più né meno che un libro. La domenica si riparte e sono avanzati un sacco di cataloghi. Non hai trovato il bestseller che speravi, ma la fiera non è andata male. Lasci il padiglione ovattato dall’odore di Bratwurst e il giorno dopo sei di nuovo in casa editrice. Squilla il telefono. Rispondi e un autore ultraottentenne in preda al panico ti chiede se puoi aiutarlo perché quella notte non ha dormito: non si ricorda più in quale dei sui 11 libri e precisamente in quale pagina compare la parola “Novecentismo”. È convinto che io possa dargli immediatamente una risposta. Purtroppo o per fortuna, mi sento di nuovo a casa. La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI B ettoli, nel film Io sto con gli ippopotami, oltre a cuocere delle frittatone d’uova di struzzo e a dare delle pizzone in faccia a bislacchi turisti giapponesi, i due protagonisti si trovavano a fare i conti con un Sud Africa fresco di apartheid. Non le sto a spiegare, forse giassà, ma in una scena ambientata in un casinò un cliente si lamenta col direttore che oramai è uno schifo, non c’è più rispetto, si fanno entrare tutti, “anche i neri”. Il direttore risponde all’incirca “ma come, non lo sa? il mondo non si divide più tra bianchi e neri, ma tra ricchi e poveri”. Il cliente manda giù amaro, viso pallido forse spaventato dal non essere sul pezzo sulle ultime tendenze della segregazione. Le racconto questo perchè Palomo Valens-Valens è appena uscito in libreria con un libro-discussione che munge questo dialogo budspenceriano già nel titolo, Il mondo non si divide tra ricchi e poveri, ma tra fotogenici e non-fotogenici (ed. Le Carrube dei Porci, 10 euro). Che ne pensa?. Hugo, Rovello Penso che Valens-Valens, nato Jeffrey Canidone, potesse scegliersi un nome da scrittore serio e non da tipologia di australopiteco. Se facciamo finta di niente e valutiamo il nostro Palomo come scrittore, però, dobbiamo dargli atto che le intuizioni non roboano solo nel titolo ma si sviluppano pure in complessi panegirici a pane e salame. Dopo le disamine intitolate Valà che Serge Gainsbourg avrebbe venduto più dischi se solo fosse sta- to decente e Se si estingue il naked mole rat io non piango giunge il centralissimo capitolo La sindrome da Carlo d’Inghilterra. L’autore riconduce alla non-fotogenia dell’aspirante monarca l’origine del suo essere ignorato un po’ da tutti ed il doversi dedicare alla caccia alla volpe 24/7. Non si potrebbe spiegare, altrimenti, il fatto che “William flirta con una decerebrata come Britney Spears eppure sembra il monarca perfetto; il principino Harry si gonfia di birra / si fa gonfiare dai buttafuori un giorno sì e l’altro pure, va alle feste di carnevale vestito da nazista, perde i capelli in modo aggressivo, plagia le tesi di storia dell’arte e pure lui sarebbe un monarca più fico di Carlo”. In più ci metti che la regina Elisabetta non abdica e allora ciao ciao, Carlo salta il turno al trono. • C aro Bettoli, Da quando ho cambiato il mio status su Facebook i amici non mi cagano più di Filadelfo Seventisisser (ed. Spicchi, 6 miseri euro) è ormai un piccolo caso editoriale. Scritto in prima persona e inquietante proprio per questo (Filadelfo c’ha 43 anni, pergiuda), il libro è la classica marchetta al fenomeno del momento condita con una storiella prescindibile. C’è dentro tutto quello che c’è di solito in ‘ste menate: un sedicenne (Galvano) con lo sbattimento della scuola, l’amore per la sbarba di turno che lo spinge a cambiare lo status da 22 *single* a *it’s complicated*, il pacco continuo agli amici perché di andare a giocare alla play non si ha più voglia e “solo lei dà senso alla mia esistenza”, i tormentoni (“è un classico”) la ribellione codificata e il consumismo di prodotti ma pure di simboli, ideologie, culti e chi più ne ha più ne consumi. Ma? Tancredi, Vincenza “M a” che? “Ma” possibile che mi dovete scrivere di questi abomini, che poi me li devo pure andare a leggere, e intanto Finzioni non paga gli stipendi da Marzo. Filadelfo scrive in prima persona facendo il sedicente sedicenne -e questo è già sordido di per sé- ma, non pago, Filadelfo infila nel suo capolavoro pure la salagiochi, le Harley Davidson, le radioline per sentire il campionato la domenica pomeriggio e le soste in autogrill. Ruminando: Filadelfo vuole fare il giovine, si è fatto spiegare da un cugino di terzo grado cos’è “smandrappo” oggi (Facebook) ma poi lo integra con ciò che era spericolato quando sedici anni ce li aveva lui, nel 1982. Ci si mette pure uno scienziato a bruciare la letteratura in Da quando ho cambiato il mio status su Facebook i amici non mi cagano più: è il Professor Carovani, disilluso antropologo emarginato dalla comunità di antropologi e oramai pure dalle comunità di recupero, che prenderà Galvano sotto la sua ala protettiva invitandolo alla riflessione e ribadendogli continuamente “ma poi, in 25000 anni di storia dell’uomo, cosa non è un classico?”. • G entile Bettoli, i vandali sono intorno a noi e costruiscono sul loro vandalare in giro ora *manifestazioni precarie*, ora *dittature del significante*, ora *sovversioni situazioniste*, ora *derive schizzocreativiste*, ora *divisioni sociali collettivizzate*. Ma basta dai. Non vedo niente di romantico in tutto ciò, eppure un numero sempre maggiore di scrittori idolatrano perditempo armati di bombolette, di scalpelli o solo di teste bacate. Dove andremo a finire? Cialtroni come Banksy si aggirano indisturbati per le strade di Londra sporcando muri grigi eppure seri e rigorosi, artisti visuali come i norvegesi Tier & Smellson fanno spogliare uomini donne & animali e occupano piazze della Scandinavia con corpi ignudi che a sentir loro sono arte, stregoni guatemaltechi come Guillermo Verduga piazzano teche di vetro in Piazza Rossa e costringono attoniti individui post-bolscevichi muniti di ventiquattrore ad osservarli mentre cucinano il minestrone. Poi arriva Terzo Parenti e ci costruisce il bestseller di rottura Pensa che bello se scalpello col martello il ******* al David di Donatello, diario di un vandalo fan(t)a(s)tico. Sassarelli, Cascata Piacentina P ensa che bello se scalpello col martello il ******* al David di Donatello (ed. Compiacenti, 11 euro) rappresenta un romanzamento di un fenomeno sempre più presente nelle strade del mondo: la depravazione. Scenari apocalittici venivano prospettati da Asimov già negli anni 50, mutazioni trans-sensoriali erano premonite da Krichton, opere abusate e malcitate venivano date alle stampe in 23 continuazione durante la guerra del Kippur (L’anno del sole quieto di Tucker), ma niente lasciava presupporre che il vandalismo potesse diventare punto di riferimento. L’ossessione per il David di Donatello del nostro protagonista è quantomeno ridicola: lo scalpello come arma di rottura è stata superata dall’arte del plagiare, manipolare, ingannare. Terzo Parenti è indietro, su queste cose, forse è ingenuo: cosa ci interessa un fanatico che vuole mettere in difficoltà una statua bronzea? Rimane qualche considerazione sparsa sulla furia iconoclasta dei nostri tempi, furia che non ha niente a che fare col cavallo del west che beve solo caffè ma che non è altro che una sostituzione di vecchi simboli con nuovi simbolicci plastificosi. scrivete a: [email protected] Ghost World “Swallow Me Whole” di Nate Powell di MARINA PIERRI I realize now that I know a supreme order. When I give in to it, I channel it. And when I channel it, only then do I find peace. Ruth E così, tra le fiabe, gli incubi, le storie d’amore, la Storia e i supereroi, il mio percorso a zig zag tra le migliori graphic novel – che qui vi presento - mi ha trascinato verso Swallow Me Whole, che per certi versi è la più terribile di tutte. Mi perdonerete, spero, se vi racconto una cosa che mi riguarda: sono figlia di due psichiatri, beh, da quando sono nata. La pazzia per me non è mai stata un tabù, o qualcosa di alieno. Camminavo nei corridoi pieni di malati quando avevo sei anni, sentivo nomi strani di malattie che poi imparavo ad associare a sintomi. Per questo ci sono volute poche pagine per capire che Ruth, la protagonista di Swallow Me Whole - il primo romanzo di Nate Powell (vincitore peraltro del prestigioso Eisner Award) – fosse una bambina schizofrenica. La sua vicenda fa male. È doloroso entrarci ed è doloroso uscirne. Dal momento in cui conosciamo i due personaggi principali, in un ospedale, vicino a una donna anziana (la nonna) in un letto, si apre un vortice di pena. Powell, che ha lavorato per anni con pazienti psichiatrici, fa il più grande regalo e la più grande cattiveria che uno scrittore possa fare a me in quanto lettore: mi costringere ad adottare un punto di vista molto preciso, di più, fa sì che io venga risucchiata in un’altra vita e in un altro mondo; quello della piccola Ruth, che colleziona insetti (è affetta da un disturbo ossessivo-compulsivo molto pronunciato) per gestire un forte sfasamento tra la realtà e l’immaginazione. La accompagnerò, nel corso del racconto, nella sua adolescenza e poi fino all’impossibile finale: vedrò coi suoi occhi e parlerò con la sua voce, ma, soprattutto, vivrò la sua incapacità di vivere una vita “normale”, a una sola dimensione, dentro un solo universo. Accanto a lei, il fratellino Perry, a sua volta, soffre di continue allucinazioni. In entrambi i casi, il malessere conduce chi lo vive a coltivare un certo tipo di talento: la scienza per Ruth, il disegno per Perry. In entrambi i casi, la malattia corrisponde all’espressione dell’unicità, dell’individualità, della formazione della personalità. Per questo e per altri, più ovvi motivi (l’età anagrafica, tipo), Swallow Me Whole racconta anzitutto l’amarezza dell’adolescenza. Solo, qui l’amore, che pure esiste, non è problematico o controverso e forse non lo sono neppure più di tanto i rapporti con i coetanei. È la vita stessa a essere ingestibile, la quo- 24 tidianità, la banalità di azioni che noi consideriamo perfettamente normali. Questo fa del lavoro di Powell qualcosa di assolutamente differente, più coraggioso, più tremendo di tutte le altre graphic novel sulla pubertà che forse leggerete mai. Infine, lo sapete, da figlia di due psichiatri, ho imparato anche la controversia della psichiatria. Cioè: di certi assiomi della psichiatria. Esiste un determinismo semplicista (come molti determinismi), per dirne una, che vuole che tutti i problemi siano legati alla famiglia. Powell non è leggero sul tema: i figli sono malati per colpa dei genitori, ma i la colpa dei genitori – che non è una colpa – è essere a loro volta malati di silenzio, incomunicabilità, distanza. E qui arriviamo alla fine del libro, che non ho voluto capire, ma purtroppo ho finito per capire. È un epilogo surreale, ma nella sua surrealtà punta un dito, dritto, non ignorabile, che taglia come se fosse un coltello. C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si alter- nano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori, In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser I Fratelli Gracchi di JACOPO CIRILLO Il piccolo Tiberio Sempronio Gracco odiava la guerra e la violenza. Lo ripeteva sempre. Guerra: brutta! Ecco, a 17 anni militò in Libia per quasi una decade, tornò a Roma semianalfabeta, si fece il mazzo per studiare, fu eletto questore – ah, finalmente un po’ di pace – e subito ripartì per le battaglie contro i Numantini. Gracco si era un po’ rotto le balle della guerra e della violenza (violenza: cattiva!) e quindi prese un po’ sottogamba l’impegno, causando una disastrosa sconfitta per i romani, che lo insultarono al suo ritorno a casa e cominciarono a scrivergli contro frasi oscene sui muri. Un giorno a Tiberio venne la bella idea di mettersi contro i più ricchi e potenti e di difendere Muzio Scevola e per questo venne preso a bastonate e gettato nel Tevere. Il fratellino minore Gaio, il cui nome già gli aveva causato molti traumi infantili irrisolti, continuò da perfetto sconosciuto l’abile e lungimirante opera del fratello contro le persone più potenti e influenti di Roma. L’insicurezza datagli dal suo ambiguo nome di battesimo gli spalancò il cervello e, legislativamente, lo fece ragionare come un politico illuminato del XXI secolo. Per questo promulgò le temibili Leges Semproniae su questioni di magistratura libera e cittadinanza allargata (e viceversa). 25 Ma allora questi non imparano proprio mai, pensarono i ricchi plutocrati e, com’è come non è, lo costrinsero a farsi uccidere da un servo in un bosco (o viceversa). Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”. Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione *lobbista*. Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, n. 7 / Novembre 2009 [email protected] www.finzionimagazine.it 26 sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita. portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo. Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini. Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del non voler dire nulla. Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto. Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed é bellissimo. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del Finzioni è disponibile solo su abbonamento. Abbonati o richiedi gli arretrati su http://finzioni.bigcartel.com 27 www.finzionimagazine.it