UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA Dipartimento di Studi umanistici Lingue, mediazione, storia, lettere, filosofia DOTTORATO DI RICERCA IN “LINGUE E LETTERATURE COMPARATE” CICLO XXII Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’ Reilly Herrera ed Edward Rivera TUTOR e COORDINATRICE Chiar.ma Prof.ssa Marina Camboni ANNO 2013 DOTTORANDA Dott.ssa Mara Salvucci Alla mia famiglia per il nutrimento affettivo che mi ha sempre dato RECORDAR: Del latín re-cordis, Volver a pasar por el corazón. El libro de los abrazos, Eduardo Galeano. To Walt Whitman hey man, my brother world-poet prophet democratic here’s a guitar for you -a chicana guitarso you can spill out a song for the open road big enough for my people -my Native American race that I can’t seem to find in your poems Angela de Hoyos INDICE Introduzione ................................................................................................................1 PARTE PRIMA 1 IL ROMANZO MULTIGENERAZIONALE........................................ 11 1.1 Verso una definizione ........................................................................ 11 1.2 L’immaginazione genealogica ........................................................... 16 1.3 L’identità generazionale ..................................................................... 22 1.4 Linee guida .......................................................................................... 26 1.5 Ibridità del genere .............................................................................. 30 2 LA LETTERATURA LATINA NEGLI STATI UNITI..................... 39 2.1 Latino Social Force .............................................................................. 39 2.2 Latino Writing Force ........................................................................... 55 2.2.1 Letteratura chicana: da Aztlán a Borderlands ..................... 55 2.2.2 Letteratura portoricana: dal jíbaro all’hip-hop ................. 64 2.2.3 Letteratura cubano-americana: da Martí ai Mambo Kings .. 75 2.3 Dalla scrittura del sé al Romanzo multigenerazionale ................... 84 PARTE SECONDA 3 Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera ed Edward Rivera ..... 95 3.1 Nash Candelaria: A True Child of New Mexico.................................. 95 3.2 Edward Rivera: The Pioneering Bilingual Persona .............................. 113 3.3 Andrea O’Reilly Herrera: Una cubanita pasada por agua ................. 126 4 Analisi comparata delle opere primarie ................................................139 ANALISI NARRATOLOGICA 4.1 The Pearl of the Antilles, Andrea O’Reilly Herrera ................... 139 4.1.1 Dall’acquarello alla pubblicazione ................................... 139 4.1.2 Quadro sinottico ............................................................... 141 4.1.3 Intrecciando voci e prospettive ...................................... 152 4.1.4 Women’s Language ............................................................... 161 4.2 Family Installments, Edward Rivera ............................................. 168 4.2.1 Sul solco dell’Underclass Lit........................................... 168 4.2.2 Quadro sinottico............................................................. 170 4.2.3 Il narratore autocratico .................................................... 180 4.2.4 Tra generi letterari e marginalità ................................. 188 4.3 A Daughter’s a Daughter, Nash Candelaria................................. 192 4.3.1 Un romanzo di strong women ........................................... 192 4.3.2 Quadro sinottico ............................................................... 193 4.3.3 Il matriarcato narrativo .................................................... 204 ANALISI LINGUISTICA 4.4 Surface Deviant English vs Latent, Underlying Spanish ................. 213 ANALISI CULTURALE 4.5 Los nadies della storia ...................................................................... 239 4.6 Dalla storia alla “mnemostoria”.................................................. 245 4.7 La post-memoria: tra genealogia e generazioni....................... 268 4.8 La loca, la mulata, la mestiza e la loro ombra sul presente .............. 273 5 Intervista con gli autori ............................................................................... 283 5.1 Introduzione ..................................................................................... 283 5.2 Intervista con Nash Candelaria ...................................................... 286 5.2.1 Versione originale ................................................................. 286 5.2.2 Versione tradotta .................................................................. 297 5.3 Intervista con Andrea O’Reilly Herrera ..................................... 309 5.3.1 Versione originale ................................................................. 309 5.3.2 Versione tradotta .................................................................. 328 Conclusioni ....................................................................................................................... 349 Appendice: foto, opere d’arte e immagini ................................................. 361 BIBLIOGRAFIA ......................................................................................... 375 Introduzione La tesi prende in esame un settore estremamente specifico della letteratura angloamericana contemporanea: il romanzo multigenerazionale di tre autori provenienti dalle principali comunità ispaniche degli Stati Uniti: A Daughter’s a Daughter di Nash Candelaria (messico-americano), Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic di Edward Rivera (portoricano) e The Pearl of the Antilles di Andrea O’Reilly Herrera (cubano-americana). I tre romanzi sono caratterizzati dalla presenza di almeno tre generazioni della stessa famiglia, in una narrazione dal respiro plurisecolare che abbraccia variazioni geografiche, temporali, linguistiche e culturali estremamente significative: dall’epoca coloniale all’età contemporanea, dai Caraibi agli Stati Uniti, dalla campagna sottosviluppata alla metropoli o dallo spagnolo all’inglese, solo per citare alcuni esempi. Le tre opere vengono esplorate attraverso un approccio comparativo e transatlantico, che non perde mai di vista la dimensione intercontinentale delle due Americhe e integra studi letterari, culturali, di genere ed etnici, attingendo sia alla tradizione europea, sia a quella americana. Quello che ne emerge è uno studio approfondito della dimensione umana e letteraria dei tre autori, che non esisteva prima di questo lavoro e che ha il pregio di illustrare l’esperienza minoritaria dei Latinos in tutta la sua complessità e senza ridurla a facili stereotipi. Trattandosi di autori poco noti sia al pubblico italiano cha a quello mainstream statunitense, tuttavia, prima di immergermi nell’analisi comparata 1 delle tre opere primarie ho ritenuto necessario delineare il contesto socioculturale in cui l’esperienza dei loro autori si inserisce, oltre che fornire una dettagliata analisi dei concetti chiave di genealogia, generazione, memoria e identità etnica. Interamente dedicato alla definizione del romanzo multigenerazionale, il primo capitolo mette a confronto questa tipologia narrativa con altri generi letterari affini (il romanzo genealogico, il Bildungsroman, il romanzo familiare) e individua due linee guida per l’analisi e l’interpretazione dei testi: quella dell’immaginazione genealogica e quella dell’identità generazionale. Entrambe si configurano come strategie di costruzione del sé da parte dei protagonisti e come ricerca continua di un senso per il proprio percorso esistenziale, in un panorama globale sempre più frammentato, delocalizzato, fluido e multiculturale. Ciò che ne risulta è dunque un romanzo ibrido in cui confluiscono inglese, spagnolo, Spanglish, dialetti di strada e afro-caraibici, oltre che diverse tradizioni letterarie, inclusa quella del realismo magico, del romanzo storico e del non-fiction novel. Dal punto di vista teorico-critico, nel primo capitolo ho fatto riferimento, in particolare, agli studi di Eviatar Zerubavel, Arjun Appadurai e Benedict Anderson per far emergere come le proiezioni genealogiche – personali e collettive – possano essere considerate delle narrative selettive e soggettive del passato, create secondo gli stessi meccanismi culturali di costruzione di “comunità immaginate”, da parte di individui e gruppi storicamente situati e sparsi in tutto il mondo. Per quanto riguarda la ricerca sociale sulle generazioni ho attinto invece a Karl Mannheim, Maurice Halbwachs, Ron Eyerman, Bryan Turner e Pierre 2 Bourdieu, approndando poi alla definizione di “identità generazionale” grazie al contributo dell’antropologa Aleida Assmann. Dopo questa messa a punto dei parametri necessari per l’analisi del romanzo multigenerazionale, nel secondo capitolo procedo a delineare l’universo sociale e letterario dei Latinos negli Stati Uniti: un gruppo etnico estremamente diversificato, in forte espansione e con una sempre maggiore ascendenza politica. È emblematica, a questo proposito, la scelta di un inaugural poet ispanico, per la prima volta nella storia, in occasione della cerimonia di insediamento del presidente Barack Obama, il 21 gennaio 2013. Si tratta del poeta cubanoamericano Richard Blanco che nella poesia “One Today”, composta per l’occasione, ha fatto riecheggiare il suono della propria lingua materna, così come delle tante lingue emblema dell’unità nella diversità su cui si fondano gli Stati Uniti: Hear: squeaky playground swings, trains whistling, or whispers across café tables, Hear: the doors we open for each other all day, saying: hello, shalom, buon giorno, howdy, namaste, or buenos días in the language my mother taught me—in every language spoken into one wind carrying our lives without prejudice, as these words break from my lips.1 I Latinos comprendono infatti sia gli immigrati – più o meno recenti – dai Caraibi e dall’America Latina, sia i discendenti dai territori messicani ceduti agli Stati Uniti nel Diciannovesimo secolo, per un totale di circa 50 milioni di persone, secondo le stime del censimento del 2010. È proprio oltrepassando il confine fisico e simbolico del Río Grande, nell’incontro/scontro tra il mondo anglo- 1 Il testo integrale della poesia “One Today” letta da Richard Blanco in occasione della seconda cerimonia d’insediamento del presidente Barack Obama del 21 gennaio 2013 è disponibile nella pagina dedicata del Los Angeles Times: <http://www.latimes.com/news/politics/la-pninauguration-2013-richard-blanco-poem-20130121,0,5626688.story>. Data di accesso, 21 gennaio 2013. 3 americano e quello ispanico che essi sembrano ritrovare un senso comune di Latinidad e un patrimonio culturale condiviso. Ed è la ricostruzione di una storia che precede e segue quell’incontro che segna indelebilmente anche la letteratura messico-americana, portoricana e cubano-americana – come emerge dal breve excursus storico con cui si conclude questo capitolo. A livello critico-teorico faccio riferimento ai maggiori esperti di letteratura dei Latinos (Nicolás Kanellos, Ilan Stavans, Harold Augenbraum, Juan BruceNovoa, Ramón Saldivar, Gustavo Pérez Firmat, Luis William, Juan Flores, solo per citare alcuni esempi), le cui teorie vengono rielaborate attraverso la lente degli studi culturali di Jurij Lotman, José Vasconcelos, Gilles Deleuze e Felix Guattari, Homi Bhabha e Itamar Even-Zohar. Cerco inoltre di far interagire teoria critica e produzione artistico-letteraria, includendo esempi rilevanti dalle opere di scrittori ispanici come Julia Álvarez, Lourdes Casal, Sandra María Esteves, Gloria Anzaldúa, Pedro Pietri, Miguel Algarín, Miguel Piñero, Piri Thomas o Abraham Rodríguez, tra gli altri. Nel terzo capitolo descrivo dunque l’esperienza umana e letteraria dei tre autori oggetto di questa tesi, cercando di portare alla luce le vicende biografiche più significative e il rapporto complesso con il passato della famiglia e con la comunità di origine, rielaborate nei romanzi e intessute nella Grande Storia. Nelle parti dedicate a Nash Candelaria emerge la peculiare identità dei New Mexican Hispanics, oltre che lo spiccato senso di appartenenza dell’autore a una delle più antiche famiglie di Albuquerque. La vita di Edward Rivera è invece emblematica della diaspora portoricana della metà dello scorso secolo e delle immani difficoltà affrontate dagli immigrati, nel tentativo di ritagliarsi un futuro migliore a partire 4 dai quartieri più poveri e multietnici di New York. Andrea O’Reilly Herrera fa invece emergere le profonde ferite che segnano l’esperienza degli esiliati cubani negli Stati Uniti. Per questo il recupero di un senso di cubanía che vada oltre i confini dell’isola, diventa una strategia fondamentale di sopravvivenza. Nel quarto capitolo, la memoria e la dimensione etnica dei tre autori viene ampliata ed esplorata nel respiro multigenerazionale e plurisecolare che caratterizza i loro romanzi. Attraverso l’analisi comparatistica delle tre opere (narratologica, linguistica e culturale) emerge infatti come i narratori-protagonisti si collochino all’incrocio tra genealogia e generazione, costantemente inquadrati da una doppia lente che li vede muoversi, allo stesso tempo, sia sul piano sincronico (come discendenti di una famiglia), sia su quello diacronico (come parte di una determinata epoca storica). Essendo membri di una comunità etnica minoritaria, le loro vicende sono inoltre emblematiche di un percorso identitario simultaneamente individuale e collettivo. Per l’analisi narratologica ho utilizzato prevalentemente l’approccio di Gérard Genette, ma ho attinto anche alle teorie di Monika Fludernik, Ansgar Nünning e Susan Sniader Lanser. Per l’analisi linguistica ho invece fatto riferimento, in primis, agli studi sul bilinguismo letterario di Gary Francisco Keller e, in seconda istanza, alle opere di Manuel Martín Rodríguez, Anna Scannavini e Shana Poplack. Attraverso l’analisi culturale ho invece rielaborato il concetto di transculturazione di Fernando Ortiz, Angel Rama e Antonio BenítezRojo, gli studi sulla diaspora di James Clifford e Stuart Hall, la critica femminista di Susan Sniader Lanser, Carol Gilligan e Marina Camboni, ma soprattutto gli 5 studi sulla trasmissione della memoria culturale di Marianne Hirsch, Astrid Erll e Jan Assmann. Il quinto capitolo è invece dedicato alle interviste con Nash Candelaria e Andrea O’Reilly Herrera, frutto dell’incontro con i due autori avvenuto nel 2011. La loro testimonianza diretta sul ruolo della scrittura e dei legami intergenerazionali, sul senso di appartenenza etnica e sulla dialettica tra conservazione, meticciato e trasformazione nei processi culturali mi permettono di chiudere il cerchio sul valore del romanzo multigenerazionale. Di fatto, nelle conclusioni evidenzio come le opere analizzate siano strumenti pulsanti di transculturazione, capaci di elevare l’esperienza minoritaria dei Latinos a paradigma universale di trasmissione e rielaborazione della memoria, del ricordo e di una coscienza culturale. Propongo inoltre che l’approccio utilizzato in questa tesi per analizzare i tre romanzi possa essere esteso ad altri ambiti artistici dei Latinos, in particolare alle arti visive. In ogni fase della mia scrittura ho cercato di far emergere il mio punto di vista di donna europea, la mia formazione linguistico-letteraria inglese e spagnola e la mia passione per l’universo culturale panamericano. Ho inoltre cercato di rielaborare i preziosi stimoli intellettuali, gli scambi di idee e i contatti umani di cui, negli anni, ho potuto far tesoro, in Italia, in occasione dei seminari del Centro Studi Americani di Roma o dei convegni dell’AISNA2, e all’estero, durante i miei soggiorni più significativi: presso la Universidad de León in Spagna, nel Clinton Institute for American Studies dello University College Dublin in Irlanda, nel Center for Inter-American Studies della Karl-Franzens Universitaet Graz in 2 L’Associazione Italiana di Studi Nord-Americani. 6 Austria e presso l’Hispanic Research Center (HRC) dell’Arizona State University negli Stati Uniti. È stata proprio quest’ultima esperienza ad aver maggiormente segnato la mia scrittura, in primis, per la scelta dei tre autori, individuati grazie alla guida del prof. Gary Francisco Keller. In secondo luogo, per la possibilità di approfondire la mia ricerca in un ambiente umanamente e intellettualmente ricchissimo, per di più circondata da migliaia di coloratissimi libri della Bilingual Press e dagli splendidi quadri di artisti ispanici che abbelliscono le pareti dell’HRC. Infine, per la possibilità unica di vivere in una zona di confine, percependone le tensioni politico-sociali ma anche la straordinaria storia, la fioritura culturale e la dirompente creatività espressiva che proprio da essa emerge, in un intreccio di colori, leggende, antiche divinità e razze, costantemente tradotto in due lingue, l’inglese e lo spagnolo. Infine, nella pagine di questa tesi rivivono la musica del programma radio di NPR Alt.Latino, i fumetti di Lalo Alcaraz e le conversazioni appassionate sulla letteratura, sulle Americhe e sull’incontro tra culture che ho potuto intessere con amici sparsi in tutto il mondo. Anch’io, come un’abile “giocoliera”, ho cercato di mantenere tutti questi elementi sempre sospesi in aria, per ricreare una mia immagine dell’universo umano e letterario di Nash Candelaria, Edward Rivera e Andrea O’Reilly Herrera. 7 8 Parte Prima Il Romanzo multigenerazionale e la letteratura Latina negli Stati Uniti 9 10 Capitolo 1 IL ROMANZO MULTIGENERAZIONALE 1.1 Verso una definizione La definizione di romanzo multigenerationale, all’interno della Latino Literature negli Stati Uniti, racchiude i concetti chiave di genealogia, generazione, memoria e identità etnica, particolarmente significativi all’interno delle società multiculturali – come quella statunitense – stratificate e strutturate simultaneamente sia in comunità etniche, sia in gruppi generazionali. Il termine inglese “multigenerational” è ampiamente usato in svariati campi, come nelle scienze applicate (in particolare in genetica e in biologia) e nelle scienze umane – soprattutto in riferimento all’antropologia sociale, all’economia, agli studi sui cambiamenti della forza lavoro, alle scienze della formazione e alle terapie familiari3. In ambito letterario, lo stesso aggettivo viene generalmente utilizzato in riferimento a film o a opere narrative che abbiano come protagoniste diverse 3 Citerò, solo a scopo esemplificativo, un titolo per ognuno degli ambiti menzionati: Elizabeth P. Lacey, et al. “Multigenerational Effects of Flowering and Fruiting Phenology in Plantago lanceolata” (Ecology 84.9, 2003), 2462-2475; Torsten M. Pieper, Mechanisms to Assure Longterm Family Business Survival (Frankfurt: Lang, 2007); Stephen A. Anderson, Family Interaction: a Multigenerational Developmental Perspective, (Boston: Allyn & Bacon, 2011); Diane Sue Piktialis, Bridging the Gaps: How to Transfer Knowledge in Today’s Multigenerational Workplace (S.l.: Conference Board, 2008); Donald R. Collins, Conducting Multi-generational Qualitative Research in Education (New York: Lang, 2011); David S. Freeman, Multigenerational Family Therapy (New York: Haworth Press, 1992). 11 generazioni di una o più famiglie. Inoltre, note compagnie di commercio elettronico di libri come Amazon.com e AllBookstores.com – solo per citare alcuni esempi – utilizzano le categorie “Multigenerational fiction” o “FamilyMultigenerational” per designare un gruppo molto variegato di opere letterarie che vanno dalla narrativa per ragazzi, ai libri di avventura, alle saghe familiari o alle cronistorie, che non trattano necessariamente le avventure di molteplici famiglie e sono “multi-generazionali” perché fruibili da lettori di diverse età, più che per la discendenza dei protagonisti. Eppure, ad oggi, non esiste una vera e propria definizione di Multigenerational Novel come genere letterario, e gli usi ambivalenti del termine, evidenti già dai pochi esempi citati finora, rendono necessaria un’analisi più approfondita delle sue implicazioni. L’aggettivo “multigenerational” è composto innanzitutto dal prefisso latino Multi-, riferito sia alla quantità (more than one) che alla frequenza (many times over) 4 , e dall’aggettivo anch’esso di origine latina “generational” riconducibile alle due accezioni semantiche del sostantivo “generazione – che può far riferimento allo stesso tempo ad una realtà familiare o sociale. Si può distinguere infatti, una “family generation” e una “social generation”. La “family generation” o genealogia, si riferisce alla successione diacronica dei membri di una stessa famiglia (nonno, padre, figlio, etc…), mentre la “social generation” o “generationality” indica la formazione sincronica di gruppi di individui che hanno approssimativamente la stessa età (coevals), vivono 4 Merriam Webster Dictionary: Multi- <http://www.merriam-webster.com/dictionary/multi>. Data di accesso 04 giugno 2012. 12 nella stessa epoca (contemporaries) o si identificano in un repertorio condiviso di esperienze o pratiche culturali5. Lo storico tedesco Jürgen Reulecke enfatizza il duplice significato di “generationality”: On the one hand it refers to characteristics resulting from shared experiences that either individuals or larger “generational units” collectively claim for themselves. On the other hand, it can also mean the bundle of characteristics resulting from shared experiences that are ascribed to such units from the outside, with which members of other age groups – and often also public opinion as expressed in the media – attempt, in the interest of establishing demarcations and reducing complexity, to identify presumed generations as well as the progression of generations.6 In entrambe le accezioni, le operazioni di classificazione o il senso di appartenenza ad una determinata categoria (ad esempio prima o seconda generazione, piuttosto che Baby Boomers o Generazione X) è di per sé un atto sociale e non univoco, al contrario di ciò che accade in ambito economico e in biologia, in cui il termine “generazione” denota un mero meccanismo di sostituzione (nel tempo) di organismi o merci considerati superati. Non è un caso che le aziende definiscano sempre più spesso i loro prodotti più innovativi, in termini di “generazioni”, studiate per rimpiazzare gli esemplari precedenti ad un 5 Per una maggiore chiarezza, all’interno di questo capitolo utilizzerò il termine “genealogia” in riferimento alla generazione familiare e “generazione” in riferimento alla generazione sociale. 6 “Da un lato è il risultato di caratteristiche derivate da esperienze condivise che sia gli individui sia unità generazionali più ampie rivendicano collettivamente per se stessi. Dall’altro lato, può anche indicare l’insieme di caratteristiche derivate da esperienze che sono attribuite a tali unità dall’esterno. Attraverso queste caratteristiche, i membri di altri gruppi di età – e spesso anche l’opinione pubblica espressa dai media – cercano di identificare presunte generazioni, così come la progressione delle generazioni, allo scopo di stabilire dei confini e di ridurre la complessità”. Jürgen Reulecke, “Generation/Generationality, Generativity and Memory”, Cultural Memory Studies: An International and Interdisciplinary Handbook, eds. Astrid Erll, Ansgar Nünning e Sara B. Young (Berlin: Walter de Gruyter, 2009) 119. Tranne ove indicato, le traduzioni italiane sono mie. 13 ritmo sempre più rapido, come confermano i sociologi Eyerman e Turner: “The ‘neo’ style replaces the ‘paleo’ with alarming speed”7. Questo modello biologico-funzionale di generazione non può quindi essere applicato alle famiglie o alle società nelle quali, in generale, il principio di successione dal vecchio al nuovo non è mai brusco o automatico, ma sempre dilazionato nel tempo e soggetto a sovrapposizioni complesse che richiedono ai singoli individui uno sforzo continuo di ridefinizione della propria posizione genealogica (family generation) e generazionale (social generation). Nell’analizzare quanto il legame con la propria famiglia e con altri gruppi (di coetanei o di contemporanei) influiscano sulla costruzione dell’identità individuale, è interessante mettere a confronto due approcci distinti ma complementari recentemente sviluppati in ambito anglo-americano ed europeo. Sul versante nordamericano, la psicologa Jean M. Twenge descrive lo stato d’animo dei giovani statunitensi nati nell’ultimo decennio del XX secolo (definiti “Generation Me”), sottolineandone l’individualismo spiccato, la perdita del senso del dovere nei confronti della famiglia, l’estrema concentrazione su se stessi, le maggiori possibilità di realizzazione personale; ma anche la conseguente competizione esasperata, l’isolamento e la malinconia che li farebbero vivere in un “Age of Anxiety (and Depression, and Loneliness)” 8 , individuata anche dall’acronimo “YO-YO (You Are On Your Own)” 9 . Sul versante europeo, la studiosa tedesca Aleida Assmann parla, al contrario, di “post-individual age”: 7 Ron Eyerman e Bryan Turner, “Outline of a Theory of Generations” (European Journal of Social Theory 1.1, 1998) 95. 8 “Età dell’ansia (e della depressione e della solitudine)”. Jean M. Twenge, Generation Me: Why Today’s Young Americans Are More Confident, Assertive, Entitled – and More Miserable than Ever Before (New York: Free Press, 2006) 104. 9 “YO-YO (Sei solo)”. Ibidem, 4. 14 People today no longer define themselves exclusively by what distinguishes them from all other people, but also by what connects them with other people. They no longer define themselves exclusively by what they have accomplished and created, but also by what they have experienced and suffered in common. Young persons – and this is also a new development – no longer focus exclusively on what they have consciously experienced and absorbed but are also more and more keenly interested in the history of the family into which they were born. Individuals are less and less given to conceive of themselves as autonomous entities and more and more as members of groups which they have not joined voluntarily, such as their family or their generation.10 Mentre Twenge descrive i lati oscuri e le contraddizioni del dilagante individualismo americano11, rafforzato da una diffusa “language of the self”12 e da un imperante culto del singolo (“we worship the altar of self-esteem and selffocus”13); l’epoca post-individualista delineata da Assmann poggia le sue basi su di un desiderio opposto: la costruzione del sé e la ricerca continua di un senso per il proprio percorso esistenziale attraverso l’appartenenza ad un “gruppo” (famiglia o gruppi generazionali in primis, ma anche comunità etniche, confraternite, etc.) con il quale ci si può identificare, di volta in volta, per un legame di sangue, per un passato comune, per affinità di interessi, o per un trauma condiviso. 10 “Le persone oggi non si definiscono più esclusivamente in base a ciò che le distingue dal resto della gente, ma anche da ciò che le mette in relazione con le altre persone. Non si definiscono più esclusivamente in base a ciò che hanno realizzato e creato, ma anche in base alle esperienze ed alle sofferenze comuni. I giovani – e anche questo è un nuovo sviluppo – non si concentrano più esclusivamente su ciò che hanno consapevolmente vissuto e assorbito, ma si appassionano sempre di più alla storia della famiglia nella quale sono nati. Gli individui tendono sempre meno a concepire se stessi come entità autonome e sempre più come membri di gruppi dei quali non sono entrati a far parte volontariamente, come la loro famiglia o la loro generazione”. Aleida Assman, “Limits of Understanding: Generational Identities in Recent German Memory Literature”, Victims and Perpetrators: 1933-1945. (Re)presenting the Past in Post-Unification Culture, eds. Laurel Cohen-Pfister and Dagmar Wienroeder-Skinner (Berlin: Walter de Gruyter, 2006) 31. 11 “Like McDonald’s and Coca-Cola, American individualism is spreading to all corners of the globe. / Come i McDonald’s e la Coca-Cola, l’individualismo Americano si sta diffondendo in ogni angolo del globo”. Twenge 7. 12 “Lingua del sé”. Ibidem, 2. 13 “Veneriamo l’altare dell’autostima e della concentrazione su noi stessi”. Ibidem, 60. Twenge sottolinea inoltre il ruolo della cultura dominante nell’incoraggiare il primato dell’individuo anche attraverso politiche educative istituzionali come i “Self-esteem Programs” di cui si occupa nel secondo capitolo di Generation Me. 15 Questa tendenza spiegherebbe il recente rinnovato interesse sia per le genealogie familiari, sia per lo studio dei cambiamenti sociali in termini di generazioni, sia per la formazione di nuove categorie identitarie, fondamentali per la definizione di Multigenerational Novel, come i concetti di “genealogical imagination” e di “generational identity”. 1.2 L’immaginazione genealogica Per arrivare ad una definizione esaustiva di “genealogical imagination” è bene soffermarsi sul recente boom di ricerche genealogiche e ricostruzioni degli alberi familiari che ha investito in particolar modo gli Stati Uniti, divenendo un fenomeno di massa. Lo dimostrerebbero il successo di serie televisive del tipo di “Who Do You Think You Are?”14, le centinaia di pagine web15 e softwares16 dedicati agli alberi familiari e alla ricerca di antenati ignoti, e il fitto numero di aziende che offrono i cosiddetti genetics ancestry tests, permettendo il calcolo dettagliato della 14 NBC Home Page: Who Do You Think You Are? <http://www.nbc.com/who-do-you-think-youare/>. Data di accesso 4 giugno 2012. 15 In ambito americano: Ancestry.com <http://www.ancestry.com/>, Familytreedna.com <http://www.familytreedna.com/>, Familysearch.com <https://familysearch.org/>. In ambito europeo: Tuttogenealogia.it <http://www.tuttogenealogia.it/>, Genea.net <http://it.geneanet.org/>, Roglo <http://roglo.eu/roglo> , MyHeritage <http://www.myheritage.it/>, Cindy’s List <http://www.cyndislist.com/>, Fil D’Ariane <http://www.entraide-genealogique.net/>. Data di accesso 4 giugno 2012. 16 Oltre a quelli elencati da Wikipedia <http://en.wikipedia.org/wiki/Comparison_of_genealogy_software>, Genealogica.it <http://www.genealogica.it/genealog.htm>, Geneweb <http://opensource.geneanet.org/projects/geneweb>, Ages <http://www.daubnet.com/en/downloads>, Gramps <http://www.gramps-project.org>, Generation X <http://sourceforge.net/projects/generationx/>, PhpGedView <http://www.phpgedview.net/>. Data di accesso 4 giugno 2012. 16 prossimità genealogica con parenti lontani 17 , oltre che la percentuale esatta di “africanità”, “asiaticità”, etc., presente nel DNA di chi lo richiede. Nel tentativo di dare un’interpretazione esaustiva e transdisciplinare al mondo della genealogia, il sociologo israeliano Eviatar Zerubavel utilizza espressioni estremamente efficaci come “[t]remendous fascination with genealogy” 18 , “obsession with ancestry”, “recreational genomics” o “thirst for tracing lineages”19. Lo stesso autore sottolinea inoltre quanto conoscere i nostri antenati e poter calpestare la terra in cui sono nati influisca sul nostro senso di identità, sulla percezione che abbiamo di noi stessi e sull’immagine che proiettiamo all’esterno, soprattutto nel panorama globale di “ethnoscapes […] in motion”20 delineato da Arjun Appadurai. Di fatto secondo l’antropologo indiano, in un’epoca di globalizzazione e migrazioni di massa, l’economia culturale non può più esser ridotta ad un semplice modello centro-periferia, ma andrebbe invece riorganizzata in “imagined worlds”21 dai confini estremamente labili, che si formerebbero transnazionalmente all’interno di flussi ininterrotti (di individui, comunità, tecnologie, merci, beni finanziari, informazioni e ideologie), da cui siamo inevitabilmente suggestionati, 17 Non a caso, in uno dei romanzi che verranno presi in considerazione nella parte di analisi comparativa di questa tesi (A Daughter’s a Daughter) è proprio attraverso un genetics ancestry test che viene rivelato un mistero sepolto nel passato della famiglia protagonista. 18 “Straordinario interesse per la genealogia”. Eviatar Zerubavel, Ancestors and Relatives: Genealogy, Identity, and Community (New York: Oxford University Press, 2012), xi. Zerubavel conferma inoltre che le ricerche genealogiche sono esistite fin dall’antichità e non sono quindi una pratica unicamente contemporanea o occidentale. Mentre prima riguardavano quasi esclusivamente le famiglie di ascendenza aristocratica, quella che si registra ora è una democratizzazione e massificazione inedita del fenomeno. 19 “Ossessione per gli antenati”, “genomica ricreativa”, “sete di delineare la stirpe”. Ibidem, 4. 20 “Etnoflussi in movimento”. Arjun Appadurai, “Disjuncture and Difference in the Global Cultural Economy”, Theorizing Diaspora: A Reader, eds. Jana Evans Braziel and Anita Mannur (Malden: Blackwell, 2003) 31. 21 “Mondi immaginati”. Ibidem, 31. 17 sia viaggiando in prima persona, sia indirettamente per l’esposizione ai mezzi di comunicazione di massa o per l’uso di tecnologie22. Alla luce del modello disgiuntivo introdotto da Appadurai per descrivere la dinamicità e la fluidità dei sistemi culturali contemporanei, le ricostruzioni genealogiche possono esser viste come un tentativo per ristabilire quella “transgenerational stability”23 su cui le famiglie non possono più fondarsi e che veniva invece data per scontata in un’epoca in cui “place, identity, culture and ancestry coincided”24. A partire da Darwin, che per primo ha teorizzato come l’intero sistema naturale sia basato sul principio di discendenza e ha parlato di evoluzione in termini di processi genealogici, i rapporti di sangue e le comunità che su di essi si basano (come le famiglie o i gruppi etnici) sono stati concepiti come naturali e organicamente delineati. In realtà, l’individuazione dei legami genealogici e di parentela va oltre la realtà biologica ed è fondamentalmente una costruzione culturale, basata su convenzioni socio-cognitive che determinano il modo in cui creiamo parentele, tradizioni, ricordi o lacune. Le genealogie quindi sono una pratica tipicamente umana (nessun altro animale ha percezione dei legami di parentela con i propri avi) e in quanto tale 22 In Modernity at Large, la sua opera più famosa, Appadurai delinea cinque “mondi immaginati”: gli ethnoscapes (persone che si muovono tra nazioni, come turisti, immigrati, esiliati, lavoratori o rifugiati), i technoscapes (che includono strumenti tecnologici, spesso legati alle multinazionali), i financescapes (ovvero il capitale globale, i mercati monetari, le borse), i mediascapes (che comprendono media elettronici e di ultima generazione), e gli ideoscapes (derivanti da ideologie dominanti e contro-ideologie). Arjun Appadurai. Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization. Minneapolis: University of Minnesota Press, 1996. Nella versione italiana l’opera è stata intitolata “Modernità in polvere” e i cinque mondi immaginati sono stati tradotti da Piero Vereni in “etnorami”, “tecnorami”, “finanziorami”, “mediorami”, e “ideorami”. Arjun Appadurai, Modernità in polvere, trad. di Piero Vereni (Roma: Meltemi, 2001). 23 “Stabilità transgenerazionale”. Arjun Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 42. 24 “Luogo, identità, cultura e discendenza coincidevano”. Catherine Nash, “‘They are Family’!: Cultural Geographies of Relatedness in Popular Genealogy”, Uprootings/Regroundings: Questions of Home and Migration, ed. Sara Ahmed (Oxford: Berg, 2003) 179. 18 non costituiscono il riflesso passivo di elementi naturali, né meri archivi storici; sono invece il frutto della cosiddetta “genealogical imagination”25, attraverso la quale i singoli individui costruiscono una narrativa selettiva e soggettiva del proprio passato, trasformando una serie di predecessori in antenati, in linea con logiche culturali di inclusione o esclusione che, di volta in volta, si considerano rilevanti. Ecco perché ci sentiamo più legati a determinati parenti (nel presente) o avi (nel passato), piuttosto che ad altri. Questo spiegherebbe il disagio con cui alcune comunità vivono la presenza di predecessori di origini meticcie all’interno della propria stirpe o la tendenza ad occultare i “mixed-blood” o gli “half-breed” dalle narrative di costruzione individuale e nazionale della propria identità. L’immaginazione genealogica si rivela inoltre particolarmente significativa per le comunità diasporiche, vista la loro necessità di ricostruire un patrimonio culturale e familiare simbolico che possa reggersi oltre i confini di appartenenza ad un luogo fisico. Ricopre un ruolo fondamentale anche per le popolazioni vittime di schiavitù o dei soprusi coloniali per le quali l’impossibilità di ricostruire la propria stirpe, inghiottita nell’oblio per le operazioni di cancellazione del passato operate dai bianchi, e lo scontro con il cosiddetto “genealogical brick wall”26, corrisponde spesso ad una dolorosa crisi esistenziale e ad un senso di disorientamento e deprivazione. 25 “Immaginazione genealogica”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 11. Nella nota 59 della stessa monografia, Zerubavel spiega l’origine del termine introdotto alla fine degli anni Novanta da Andrew Shyrock in Nationalism and the Genealogical Imagination: Oral History and Textual Authority in Tribal Jordan (Berkeley: University of California Press, 1997). Tra i riferimenti più recenti, Zerubavel cita inoltre: Catherine Tyler, “The Genealogical Imagination: The Inheritance of Interracial Identities” (The Sociological Review 53, 2005), 476-494; e Judith Shulevitz, “Roots and Branches”, The Book: An Online Review at the New Republic (2010) <http://www.tnr.com/book/review/roots-and-branches> . Data di accesso 4 giugno 2012. 26 “Muro di mattoni genealogico”. Henry Louis Gates, In Search of Our Roots: How 19 Extraordinary African Americans Reclaimed Their Past (New York: Crown, 2009) 374. 19 Poiché la memoria dei nostri avi e degli avvenimenti cruciali della storia continua ad animare il nostro vissuto e la realtà contemporanea in una condizione di “symbolic immortality”27 (consolidata da musei, banconote, monumenti, nomi di strade, tradizioni o cimeli di famiglia), ogni operazione di ricostruzione genealogica non è soltanto un tentativo retrospettivo di organizzare il passato, ma anche e soprattutto una strategia per dare un senso al presente e per prefigurare il futuro. Le proiezioni genealogiche personali e collettive rispondono quindi agli stessi meccanismi culturali attraverso i quali costruiamo nella nostra mente le cosiddette “Imagined Communities” 28 , termine con cui Benedict Anderson individua i molteplici mondi “costruiti” (includendo nazioni, etnicità, etc.) che prendono forma da immaginazioni storicamente situate di individui e gruppi, sparsi in tutto il mondo. Nell’ottica di relazioni familiari che diventano sempre più volatili per i continui flussi29 a cui sono esposti o di cui sono protagonisti i suoi membri, risulta ancora più comprensibile l’impulso a concepire “the family-as-microcosm of culture” 30 e il ricorso agli alberi genealogici, nel tentativo di fissare delle tradizioni (o delle etnicità, parentele, etc…) a cui potersi aggrappare, ristabilendo un illusorio e darwiniano principio genealogico di co-discendenza. La successione genealogica si basa infatti sulla più elementare delle relazioni: quella tra genitore e figlio. Eppure è la “Grandfatherhood”, ossia la capacità di riconoscere i nonni come nostri avi, nonostante non ci sia un nesso 27 Raymond L. Schmitt, “Symbolic Immortality in Ordinary Contexts: Impediments to the Nuclear Era” (Omega 13, 1982) 95-116. 28 “Comunità immaginate”. Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism (London: Verso, 2006). 29 Siano essi migratori, diasporici, determinati da motivi di lavoro, di studio o dalla circolazione globale delle informazioni, dei capitali o delle tecnologie. 30 “Famiglia come micro-cosmo di cultura”. Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 43. 20 diretto che ci unisca a loro, la chiave di volta per capire il modo in cui nella nostra mente creiamo relazioni con gli antenati. Diversamente dagli animali, infatti, l’essere umano è dotato di memoria genealogica ed ha la capacità di andare oltre il binomio genitore/figlio, sentendosi legato anche a membri di generazioni non consecutive o defunti molti anni prima della propria nascita o dei quali non si ha avuto una conoscenza diretta. Questa primordiale consapevolezza ci induce a concepire la nostra discendenza come un continuum di cui ci sentiamo parte e che rappresentiamo attraverso metafore come “line”, “river”, “thread”, “rope” o “chain” 31 , che rafforzano l’idea di unità, oltre che le modalità tipicamente occidentali di organizzazione lineare dello spazio e del tempo, secondo un principio di causalità32. Il senso di appartenenza a questa struttura dinastica ininterrotta fa sì che le generazioni più giovani sentano una certa pressione per la continuazione della stirpe, sia preservando la memoria degli antenati, sia dando alla luce futuri discendenti. Allo stesso tempo, come riflesso del legame mentale ricreato con i nostri avi, ciascuno di noi può prender parte alla cosiddetta “genealogical experience of history”33, percependo eventi storici lontani o traumi del passato come quasi auto-biografici ed ereditandoli quindi, simbolicamente, come patrimonio tacito, capace di influenzare la propria “identità generazionale” del presente. 31 “Linea”, “fiume”, “filo”, “corda”, “catena”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 20. Di fatto, il termine inglese lineage (stirpe), deriva proprio dal latino linea. 33 “Esperienza genealogica della storia”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 21. 32 21 1.3 L’identità generazionale Grazie alla pubblicazione del saggio “Das Problem der Generationem”34 del 1928, il sociologo tedesco di origini ungheresi Karl Mannheim viene oggi considerato il fondatore della ricerca sociale sulle generazioni. Da allora, con il declino del concetto marxista di classe nelle teorie dei cambiamenti sociali, lo studio delle dinamiche generazionali ha acquisito un ruolo sempre più strategico in molteplici discipline: non più solo in sociologia (dove si sta delineando una cosiddetta “Theory of Generations”35), ma anche nella critica letteraria (con la tendenza a rileggere le opere primarie, sottolineando il ruolo dei conflitti generazionali che in esse emergono36) e in economia (dove, dalla fine degli anni Novanta, si è diffuso il nuovo approccio del “Generational Marketing”37). La descrizione originaria che Mannheim fa di generazione sociale rimane ancora oggi un valido punto di partenza. Egli la definisce come un gruppo fisico e intellettuale di contraddistinguersi contemporanei, dalla accomunati generazione dal precedente, medesimo attraverso impeto a differenze volutamente marcate di stile di vita, attitudini e valori. Sempre secondo Mannheim, a delineare i confini di una generazione concorrerebbero simultaneamente sia le esperienze esplicite e il modo in cui vengono rielaborate 34 Karl Mannheim, “Das Problem der Generationen”, Wissenssoziologie Auswahl aus dem Werk: Auswahl aus dem Werk (Berlin: Luchterhand, 1964), 509-65. In italiano il saggio è stato tradotto come “Le generazioni”. Karl Mannheim, Le generazioni, trad. di M. Gagliardi e T. Souvan (Bologna: Il Mulino, 2008). 35 Ron Eyerman and Bryan Turner, “Outline of a Theory of Generations” (European Journal of Social Theory 1.1, 1998), 91–106. 36 In occasione dell’ultimo convegno annuale dell’American Comparative Literature Association, tenutosi a marzo 2012 presso la Brown University, un panel di tre giorni dal titolo “Breaking In, Out and Away: Generational Change” è stato proprio dedicato a questo tema <http://acla.org/acla2012/?page_id=1037>. Data di accesso 26 gennaio 2013. 37 Si vedano testi come: Walker J. Smith and Ann S. Clurman, Rocking the Ages: The Yankelovich Report on Generational Marketing (New York: HarperCollins, 2010); o Jane Ronnfeldt, Generational Marketing: Baby Boomers, Generation X and the Net Generation (San Bernardino: California State University, 2001). 22 dalla memoria, sia la cosiddetta “unbewussten Lebensfonds” 38 , vale a dire, un insieme implicito e incontestabile di convinzioni, ideali e predisposizioni che vengono acquisite e rafforzate inconsapevolmente. Visto il carattere tacito di questi valori, essi sono analizzabili solo a posteriori, dalle generazione successive. Il filosofo francese Pierre Bourdieu parla invece di habitus39 per definire un sistema sotteso di pratiche, abilità e modi di agire che determinano le scelte di un gruppo e la sua interazione con il contesto storico-culturale di riferimento. L’habitus viene codificato in primis dal corpo, concepito da Bourdieu come strumento mnemonico, che registra una serie di demarcatori culturali acquisiti fin dalla più giovane età, in un tacito processo di apprendimento e socializzazione a cui tutti siamo esposti. Il corpo può quindi fungere da indicatore esplicito dell’appartenenza ad una generazione40, divenendo specchio delle sue mode, del suo particolare stile di vita, delle sue aspirazioni professionali e dei suoi gusti in senso lato. Bourdieu arricchisce la definizione originaria di Mannheim integrandola anche con la teoria della chiusura sociale di Max Weber, in una sorta di politica economica delle generazioni. Il filosofo francese enfatizza infatti come ogni gruppo generazionale abbia accesso privilegiato a un insieme di opportunità e risorse collettive (culturali e materiali) che vengono preservate attraverso pratiche di esclusione nei confronti delle altre generazioni. Questo spiegherebbe, ad esempio, il manifestarsi tra le generazioni più mature di sentimenti “anti-youth”41 38 “Dimensione tacita dell’esistenza”. Mannheim 538. Pierre Bourdieu, The Logic of Practice (Cambridge: Polity Press, 1990) 53. 40 Il principio del corpo come demarcatore di identità/appartenenza ad un gruppo vale anche per le differenze di genere, etnia, sociali, etc. 41 “Anti-giovani”. Eyerman and Turner 95. 39 23 o il loro conservatorismo diffuso o il fenomeno del “credenzialismo” 42 per ostacolare l’ingresso dei più giovani nel mondo del lavoro. Nell’ottica di un’economia morale, Bourdieu sottolinea inoltre le modalità che regolano il circuito del dono e gli scambi intergenerazionali di beni (simbolici o materiali) dettati da logiche spesso ambigue di dovere ed obbligo, come nei casi delle eredità o dei cimeli di famiglia. I sociologi Ron Eyerman e Bryan Turner sottolineano invece come, per trasformare un gruppo di coetanei in una generazione, occorra sempre un evento significativo o traumatico comune (una guerra, una rivoluzione, una crisi economica, una catastrofe naturale, l’assassinio di un leader politico, etc.) che funga da spartiacque irrevocabile tra il prima e il dopo, tra chi lo ha vissuto e chi non lo ha fatto, come nel caso della Prima guerra mondiale che rappresentò “a watershed, a breaking point which clearly and cleanly divided ‘youth’ from ‘the elders’ in terms of outlook and experience, as it separated an old from a new world order”43. Aver avuto esperienza diretta di un trauma contribuisce in modo determinante alla formazione di un bagaglio culturale condiviso e di un mito delle origini che ciascuna generazione cerca di perpetuare nel tempo e nello spazio, attraverso rituali condivisi (che presuppongono anche immagini, canzoni, mode, luoghi di culto) e ideologie comuni; elementi, questi, oggi estremamente più semplici da conservare e far circolare, grazie all’uso di Internet, dei social networks e delle tecnologie. 42 Importanza data ai titoli (ad esempio le lauree) come prerequisito per l’accesso alle professioni, soprattutto le più remunerative. 43 “Uno spartiacque, un punto di rottura che ha chiaramente e nettamente diviso la ‘gioventù’ dagli ‘anziani’, in termini di aspetto esteriore ed esperienze, poiché ha separato un vecchio ordine del mondo da uno nuovo”. Eyerman and Turner 100. 24 Nonostante i numerosi criteri adottabili per demarcare una generazione, occorre sempre tener presente che ogni classificazione è comunque un atto sociale e un’esemplificazione; già Mannheim sottolineava questa idea, citando lo storico dell’arte Wilhelm Pinder che aveva parlato di “Ungleichzeitgkeit des Gleichzeitigen” 44 o “non-sincronicità del sincrono”, mettendo in discussione la nozione astratta di omogeneità temporale all’interno di una data epoca e sottolineando invece le innumerevoli differenze intra-generazionali e soggettive con cui ogni individuo rielabora lo stesso periodo storico, in linea o in disaccordo con le posizioni del proprio gruppo di riferimento. Di fatto, è solo a partire dagli anni ’80 – quando si comincia a dare maggior enfasi alla dimensione mnemonica ed esperienziale dell’individuo – che alcuni intellettuali45 iniziano ad occuparsi delle generazioni in termini di identità e memoria. Con il concetto di “Generational Identity”46, ad esempio, l’antropologa Aleida Assmann arricchisce le considerazioni dei maggiori sociologi delle generazioni che l’hanno preceduta, con un rinnovato interesse per le modalità con cui determinati traumi o eventi storici significativi vengono trasformati e tramandati dai singoli e dal gruppo. L’appartenenza ad una generazione si somma quindi agli altri “identity-markers” 47 per aggiungere la memoria e la sua trasmissione intergenerazionale alle implicazioni di razza, lingua, religione e genere48. 44 Citato in Mannheim 517. Soprattutto nel filone di area germanica che studia gli effetti della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto sulle generazioni successive 46 Assmann, “Limits of Understanding”, 30. 47 “Demarcatori di identità”. Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 42. 48 Precedentemente emerse sulla scia degli studi post-coloniali e dei movimenti in difesa dei diritti delle donne e delle minoranze etniche degli anni Settanta. 45 25 Assmann sottolinea in particolare l’influenza normativa e bidirezionale che lega il passato al presente. Partendo dalle teorie del sociologo francese Maurice Halbwachs che aveva definito la memoria “a reshaping operation […] under the influence of the present social milieu”49, Assmann conferma il condizionamento che la generazione di appartenenza ha sul modo in cui forgiamo e reinterpretiamo continuamente i nostri ricordi. Allo stesso tempo però riconosce anche la capacità del passato di proiettarsi sul presente, rimodellandolo a sua volta, soprattutto nel caso di memorie dolorose o cariche di sensi di colpa che possono gravare sulle generazioni successive, lacerandole con una carica negativa di “emotional discord and moral dilemma”50. Lo stesso filosofo americano Ralph Waldo Emerson sembrava avallare questa convinzione, quando parlava di “negative power” evidenziando come alcuni fattori determinanti della nostra vita non sono il prodotto di un disegno o di azioni consapevoli, ma il frutto di influenze tacite ed ancestrali: “Once we thought positive power was all. Now we learn that negative power, or circumstances, is half”51. 1.4 Linee guida Aver approfondito i concetti di “Genealogical Immagination” e di “Generational Identity” renderà ora possibile una comprensione più ampia del Romanzo Multigenerazionale come genere letterario, all’interno della Letteratura 49 “Operazione di rimodellamento, influenzata dal milieu sociale del presente”. Maurice Halbwachs, On Collective Memory (Chicago: University of Chicago Press, 1992) 49. 50 “Discordia emotiva e dilemmi morali”. Assmann, “Limits of Understanding”, 40. 51 “Prima pensavamo che il potere positivo fosse tutto. Ora abbiamo appreso che il potere negativo, o le circostanze, è la metà”. Ralph Waldo Emerson, The Collected Works (Cambridge: Wilson, 2003), 8. 26 Latina negli Stati Uniti. Esso si caratterizza infatti per la presenza di almeno tre generazioni della stessa famiglia, in una narrazione che abbraccia diversi secoli e include spostamenti geografici e variazioni temporali, linguistiche e culturali estremamente significative: dall’epoca coloniale all’età contemporanea, dai Caraibi agli Stati Uniti, dalla campagna sottosviluppata alla metropoli o dallo spagnolo all’inglese, solo per citare alcuni esempi. I suoi personaggi sono “inquadrati” simultaneamente da una doppia lente, che li vede muoversi sia sul piano sincronico sia su quello diacronico, come membri di una famiglia da un lato, e come parte di una determinata epoca storica dall’altro. Essi si collocano quindi all’incrocio tra genealogia e generazione e sono inevitabilmente descritti sia nel loro ruolo di discendenti (genitori, figli, fratelli, etc.) sia come protagonisti di eventi rilevanti del passato (flussi migratori, rivoluzioni, movimenti di protesta, guerre, etc.). Nel caso specifico dei tre romanzi presi in considerazione in questa tesi, i loro autori sono membri di comunità etniche minoritarie – la cubano-americana, la messico-americana e la portoricana – e le vicende narrate diventano emblema di un percorso identitario simbolico, allo stesso tempo individuale e collettivo. Uno dei maggiori pregi di questa tipologia di romanzo consiste proprio nell’abile intreccio di storiografia ufficiale e storie familiari spesso sconosciute, difficilmente accessibili o rimaste fino a quel momento inascoltate. Gli eventi più noti del passato vengono infatti mescolati e riletti alla luce della memoria dell’io narrante (spesso di ispirazione autobiografica) che fa emergere il “non detto”, ovvero gli aspetti impliciti o inconsapevoli della storia52, le tensioni tra memoria 52 Compresa la rete tacita di valori e pratiche indiscusse di cui parlava Karl Mannheim, che proprio grazie a testi come i Multigenerational Novels possono essere oggetto di maggiore riflessione. 27 collettiva e ricordi intimi, tra cultura ufficiale e leggende familiari tramandate di generazione in generazione. Ciò che affiora è proprio quella sottile “kognitive Dissonanz”53 tra voce pubblica e voce privata a cui oggi si riconosce un valore storico sempre maggiore, soprattutto per il carattere fortemente ibrido di questi romanzi in cui si amalgamano, non solo punti di vista inediti (in particolare quelli delle donne, delle classi disagiate e delle minoranza linguistiche o etniche) ma spesso anche molteplici tipologie di testi (lettere, articoli di giornali, diari) e di media (musica, arti visive, fotografie), che ricreano un’idea di verosimiglianza storica e mettono in discussione i confini di narrativa e opera documentaria54. Il narratore o la narratrice, sia in prima sia in terza persona, vengono spinti al racconto dall’impulso incombente di affermazione personale loro o dei protagonisti, che devono sciogliere un complesso nodo identitario e superare l’impasse dovuta proprio alla frizione creata dalla propria posizione genealogica, etnica e generazionale. Essi devono infatti trovare un delicato equilibrio tra continuità e cambiamento, attraverso un percorso di riscoperta delle proprie radici etniche e del legame con gli antenati, che richiederà un’ardua mediazione tra il passato e il “social framework”55 del presente di cui essi sono inevitabilmente il frutto. Provenendo da famiglie che hanno subito, a un certo punto della storia, un forte sradicamento culturale o un trauma (dovuto a circostanze molto diverse 53 “Dissonanza Cognitiva”. Claus Leggewie e Erik Meyer, Ein Ort, an den man gerne geht: das Holocaust-Mahnmal und die deutsche Geschichtspolitik nach 1989 (München: Hanser, 2005) 16. 54 Non è un caso che alcuni Multigenerational Novels siano stati etichettati come Non-fiction Novels. La nascita di questo genere (detto anche Faction dalla fusione di “fact” e “fiction”) risale alla pubblicazione di In Cold Blood (1965) di Truman Capote, ed è basato sulla descrizione di eventi di cronaca, o fatti e personaggi reali, attraverso tecniche tipiche della narrativa. 55 “Struttura sociale”. Halbwachs, On Collective Memory, 49. 28 come migrazioni, rivolte politiche, invasioni, carestie, etc.), essi devono inoltre fare i conti con le esperienze spesso ardue di acculturazione dei propri predecessori, con le ferite del passato e con le lacune della memoria, tutte convogliate in una narrazione che assume i tratti di un “post-memorial work”56, secondo la definizione di Marianne Hirsch. Sarà ricorrendo all’immaginazione57 e al potere creativo del racconto che essi potranno “‘prendere insieme’, integrandoli in una storia intera e completa, eventi molteplici e dispersi”58, ritrovando la propria posizione nella genealogia familiare e riscrivendo la propria identità generazionale nel presente, senza mai perdere di vista il legame con la storia. Infine, poiché i romanzi multigenerazionali di cui mi occuperò in questa tesi rientrano nell’ambito della “letteratura minore”59, essi hanno la capacità di operare come macchina collettiva di espressione, in cui l’esperienza dell’individuo nell’esiguità del suo spazio sembra essere ingrandita al microscopio divenendo emblema di una storia “altra”, fino a quel momento non raccontata. Ecco perché il Multigenerational Novel funge anche da “portable monument”60 e da racconto mitico, che ha il potere di legittimare e dare un senso alle vicende del singolo e del gruppo etnico che rappresenta, divenendo veicolo privilegiato della sua memoria culturale61. 56 “Opera di memoria postuma”. Marianne Hirsch, “The Generation of Postmemory” (Poetics Today 29, 2008), 103. 57 Nel senso più ampio del termine già visto con Anderson, Appadurai e Zerubavel. 58 Paul Ricoeur, Tempo e racconto. Trad. di Giuseppe Grampa. Vol. 1. (Milano: Jaca Book, 1986) 8. 59 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka: Per una letteratura minore (Milano: Feltrinelli, 1975). 60 Ann Rigney, “Portable Monuments: Literature, Cultural Memory and the Case of Jeanie Deans” (Poetics Today 25.2, 2004) 361-396. 61 La studiosa tedesca Astrid Erll definisce “Cultural Memory” quell’insieme di “cultural formations which shape individual memories and which build ‘cultures of memories’, with their rituals and media constructing and representing a shared past. / [F]ormazioni culturali che 29 1.5 Ibridità del genere Il Multigenerational Novel si colloca all’incrocio di vari generi letterari con i quali instaura un dialogo di analogie e differenze, alimentando la riflessione sulle caratteristiche intrinseche di ognuno di essi e sulla aleatorietà di ogni tentativo rigido di classificazione. Il primo riferimento di rilievo è quello al “Genealogical Novel” che A.E. Zucker nel 1928 definisce “a new type of fiction ruled by science […] a direct result of the widespread discussion of Evolution during the third quarter of the nineteenth century and the new interest aroused in the doctrine of heredity”62 . Nasce quindi sulla scia del determinismo biologico di Darwin e del Naturalismo francese e si caratterizza per l’approccio semi-scientifico ed oggettivo con cui gli autori intendono descrivere le vicende di diverse generazioni della stessa famiglia. Al contrario del romanzo biografico, il Genealogical Novel non ruota intorno alle avventure di un unico eroe e la sua narrazione non ha inizio necessariamente in corrispondenza (o subito prima) della nascita del protagonista, come nei più classici dei Bildungsromans. La trama vede invece interagire membri di molteplici generazioni, di cui si enfatizzano in particolare i caratteri ereditari, intesi sia in senso fisico (malattie, malformazioni, somiglianze, etc.) sia in senso modellano le memorie individuali e che costruiscono ‘culture delle memorie’ con i loro riti e media, costruendo e rappresentando un passato condiviso”. Astrid Erll, “Narratology and Cultural Memory Studies”, in Narratology in the Age of Cross-Disciplinary Narrative Research, eds. Sandra Heinen e Roy Sommer (Berlin: Walter de Gruyter, 2009) 216 (nota 8). 62 “Un nuovo tipo di narrativa, dominato dalla scienza […] un risultato diretto del dibattito allargato sull’Evoluzione nella seconda metà del XIX secolo e dell’interesse sollevato dalla dottrina dell’eredità”. A.E. Zucker, “The Genealogical Novel: A New Genre” (PMLA 43.2, 1928), 551. Lo stesso termine di “romanzo genealogico” è stato utilizzato anche a partire dagli anni Ottanta e Novanta del Novecento per definire le opere di scrittori di origine ebrea, provenienti da diversi Paesi, che ripercorrono la genealogia della propria famiglia alla riscoperta della propria “judéité”, ossia di quel patrimonio culturale ed etico che va al di là della fede religiosa. Si veda il saggio di Dominique Budor, “Il ‘romanzo genealogico’ ovvero la memoria viva dei morti”, in Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, eds. Raniero Speelman, Monica Jansen e Silvia Gaiga (Utrecht: Utrecht Publishing and Archiving Services, 2007) 115-128. 30 più astratto (nel carattere, nelle abilità innate o in alcune manifestazioni del proprio destino). I primi esempi di questo nuovo genere citati di Zucker sono Émile Zola con Les Rougon-Macquart, romanzo seriale che inizia nel 1868 e pubblica fino al 1893, e Samuel Butler con The Way of the Flesh, divulgato postumo nel 1903. In entrambi i casi, l’effetto artistico dato dal fato, tipico delle tragedie greche, viene sostituito con l’idea positivista di “eredità”, a indicare come il legame genealogico tra famiglie sia rafforzato da uno spirito dinastico unitario, capace di influenzare indelebilmente i discendenti, per generazioni e generazioni: Accidents which happen to a man before he is born, in the persons of his ancestors, will, if he remembers them at all, leave an indelible impression on him; they will have moulded his character so that, do what he will, it is hardly possible for him to escape their consequences.63 L’esempio più raffinato del genere, secondo Zucker, è l’opera Die Buddenbrooks (1901) di Thomas Mann, che riesce nell’ardua impresa di creare “a single unified work of art, comprising a thousand pages”64. La famiglia patrizia dei Lübeck, protagonista dell’opera, è infatti un monumento al cosiddetto “genetic optimism”65di Mann, e incarna la sua fede in un ordine genealogico e cronologico superiore, assicurato dalla successione coerente e continuativa di padri e figli. Scopo del romanzo è infatti dimostrare la concatenazione logica di passato e presente nel susseguirsi di quattro generazioni, attraverso una narrazione che esplicita sempre la linea dinastica maschile e la necessità di esser devoti agli 63 “Gli incidenti che capitano prima della nascita di un uomo, ai suoi antenati, anche se li ricordasse, lasceranno un marchio indelebile su di lui; avranno modellato il suo carattere a tal punto che, volente o nolente, gli sarà quasi impossibile sfuggire alle loro conseguenze”. Samuel Butler, The Way of the Flesh, Cit. in Zucker, “The Genealogical Novel”, 555. 64 “Un’opera d’arte unica e singolare, composta da mille pagine”. Ibidem, 556. 65 “Ottimismo genetico”. Cit. in Patricia Tobin, “García Márquez and the Genealogical Imperative” (Diacritics 4.2, 1974), 54. 31 eventi del passato e rispettosi degli obblighi morali nei confronti dei padri, dai quali dipende la legittimità stessa dei successori e delle loro azioni, come è evidente dal monito del capofamiglia dei Lübeck alla figlia smarrita: We are not free, separate, and independent entities, but like links in a chain, and we could not by any means be what we are without those who went before us and showed us the way by following the straight and narrow path, not looking to the right or left”.66 A distanza di un secolo il Multigenerational Novel aggiunge notevoli livelli di complessità al romanzo genealogico, così come lo aveva concepito Zucker, soprattutto perché la continuità rispetto al passato, il legame con gli antenati e il valore fondante della tradizione non vengono mai acquisiti tacitamente ma sono sempre il frutto di un arduo percorso di negazione, recupero e mediazione da parte dei protagonisti più giovani, che riscrivono e reinventano il proprio passato familiare, facendolo interagire con il presente. Quest’evoluzione è possibile anche grazie a generi intermedi come ad esempio la Erinnerungsliteratur, ovvero la “letteratura della memoria” di tradizione germanica, classificata da Assmann 67 nelle due sottocategorie di Väterliteratur (“letteratura dei padri”) e Familienroman 68 (“romanzo familiare”). La prima raggiunge il suo apice di popolarità negli anni ’70-’80 del Novecento, la seconda emerge invece a partire dagli anni ’90 ed è ancora ampiamente in voga. In entrambi i casi il fulcro della narrazione risiede nella tensione intergenerazionale tra rottura e continuità, innescata dalla ricerca di autoaffermazione di 66 “Non siamo entità libere, separate ed indipendenti, ma anelli di una catena, e non potremmo in nessun modo essere ciò che siamo senza coloro che ci hanno preceduti e che ci hanno mostrato il cammino, seguendo il percorso stretto e rettilineo, senza guardare a destra o a sinistra”. Ibidem, 53. 67 Assmann, “Limits of Understanding” , 33. 68 Il primo a coniare il termine fu Sigmund Freud con l’opera “Der Familienroman der Neurotiker”, in Gesammelte Werke, Hrsg. Anna Freud (Frankfurt: Fischer, 1966) 115-128. 32 io/personaggio in prima persona (e spesso di carattere autobiografico), che si pone in relazione sia alla propria famiglia, sia alla storia ufficiale tedesca. La “letteratura dei padri” si concentra solo sul rapporto binario genitore-figlio, descrivendone le rotture irreparabili, le dispute e i regolamenti dei conti che sembrano ricreare simbolicamente il dramma del senso di colpa e le accuse di complicità che hanno lacerato le generazioni tedesche successive al secondo dopoguerra. Nel “romanzo familiare” – che ha svariate caratteristiche in comune con il Multigenerational Novel – il racconto si estende invece retrospettivamente per svariati secoli e generazioni, all’interno delle quali l’io narrante viene descritto come un “searching, suffering, interpreting, and learning individual” 69 . Il protagonista interiorizza infatti i conflitti esterni ed esplora il proprio passato per ricucirne le ferite più dolorose, cercando sia una propria posizione (genealogica e storica), sia una comprensione transgenerazionale più ampia, che sembra mancare invece nella “letteratura dei padri”. Nonostante le analogie, il Multigenerational Novel aggiunge comunque ulteriori linee di riflessione rispetto sia al “romanzo familiare” sia alla “letteratura della memoria” nel suo complesso. Innanzitutto a livello di narrazione, dove non troviamo più necessariamente una prima persona autobiografica, ma una polifonia di voci che amplificano e rendono più problematici i punti di vista sulle vicende familiari e storiche descritte. In secondo luogo, a livello simbolico-culturale, perché alla già complessa identità genealogica e generazionale si va ad aggiungere la dimensione multietnica70, apparentemente non determinante nella “letteratura 69 “Un individuo che cerca, soffre, interpreta, apprende”. Ibidem, 34. 70 Di cui il prefisso “multi-”, in Multigeneratinal novel, rappresenta comunque un rimando. 33 della memoria”, che rifletterebbe la società tedesca del secondo Novecento, definita da Assman ancora “largely monocultural”71. Volendo mettere a confronto il Multigenerational Novel con una delle opere più popolari del secondo Novecento, soprattutto tenendo conto della sua natura di romanzo ibrido, postmoderno e di confine, non possiamo non metterlo in relazione con l’anti-romanzo genealogico per eccellenza: Cien años de soledad di Gabriel García Márquez. Di fatto, l’opera dell’autore colombiano si fonda proprio sulla rottura del cosiddetto “Genealogical Imperative” 72 , ovvero dell’assunto tipico del pensiero occidentale che lega il principio di causa-effetto con l’organizzazione spazio-temporale dell’esperienza umana e la discendenza genealogica. In base a questo approccio, l’identità del singolo acquisisce un senso proprio perché inseribile in una linea dinastica con un’origine (gli antenati) e uno scopo (la discendenza e la sua perpetuazione). Allo stesso modo, gli eventi storici e le azioni dei nostri predecessori sono ammantati di un valore ulteriore, proprio perché contengono in nuce il presente e ci fanno percepire la nostra vita come parte di una totalità più ampia e dotata di un fine ultimo. Il medesimo principio domina anche la narrativa più tradizionale basata sulla “linear pursuit of order”, in cui la trama stessa viene organizzata cronologicamente in una successione di sequenze che riveleranno il loro significato ultimo al termine della storia. 71 “Largamente monoculturale”. Ibidem, 29. Nella nota n.1 del suo saggio, Assman traccia una linea di demarcazione tra le società multiculturali (come quella statunitense o britannica) suddivise in identità etniche e quelle ancora prevalentemente monoculturali (come quella tedesca) che si suddividerebbero per sole linee generazionali. In realtà, in questo passaggio Assman tralascia la sovrapposizione simultanea e costante delle componenti etniche e generazionali implicite in ogni società multiculturale. Inoltre, alla luce della teoria disgiuntiva dei flussi di Appadurai, sembra poco giustificabile il riferimento ad una società monoculturale. 72 “Imperativo genealogico”. Tobin, “García Márquez and the Genealogical Imperative”. 34 In Cien años de soledad Márquez riesce a decostruire l’imperativo genealogico, nelle tre linee di coerenza interna che lo determinano: la linea familiare, la linea temporale e la linea della storia. Di fatto, la trama è un conglomerato di eventi e personaggi, senza continuità, senza un’apparente struttura generale, né un significato sovracostruito. La famiglia Buendía (protagonista dell’opera) vive in un presente sospeso e scollegato sia dal passato sia dal futuro, in assenza di memoria storica e in una condizione di prolungata amnesia, che impedisce ai personaggi di andare oltre l’immediatezza del “qui” e dell’“ora”. Così concepita, la trama decostruisce quindi sia il modello originario di romanzo genealogico di Zucker, sia quello del “romanzo familiare” di area germanica. Da un lato, infatti, il principio dinastico che dominava opere come Die Buddenbrooks e la “paternal promise”73 – ovvero la linea di continuità (morale, materiale e simbolica) tra padri e figli – su cui si fondavano vengono radicalmente messe in discussione. In Cien años de soledad la paternità, ad esempio, assume i tratti di un incidente biologico e non dà legittimità, né alcun tipo di eredità; la sessualità non è necessariamente finalizzata alla procreazione e i figli bastardi non sono rinnegati; i nomi, i tratti fisici e le caratteristiche comportamentali dei vari membri della famiglia riappaiono dopo generazioni ma in modo casuale e imprevedibile. Infine, mentre Mann riconosce soltanto la successione verticale maschile (padre-figlio) e non prende invece in considerazione i ruoli laterali di madri e figlie, le donne di Macondo (il villaggio dei Buendía), sono invece il cuore pulsante della comunità: come dimostra Ursula Iguarán Buendía, moglie del 73 “Promessa paterna”. Ibidem, 54. 35 patriarca e donna capace di operosità e generosità incondizionata, estesa anche ai figli illegittimi e a coloro che non sono parte della famiglia. Dall’altro lato, l’idea di memoria storica e la sua interazione con il presente tipica del “romanzo familiare” e del Multigenerational Novel viene totalmente negata dall’incapacità dei Buendía di sviluppare una consapevolezza storica. Vivendo in una condizione di atemporalità, essi non hanno bisogno di conoscere il loro passato perché non devono realizzare un destino familiare, né perpetuare un patrimonio culturale o materiale. Al pari di Cien años de soledad, anche i Multigenerational Novels rappresentano un superamento dell’imperativo genealogico in senso stretto, per l’uso esteso della “genealogical immagination” da parte dei suoi personaggi e la conseguente ricostruzione simbolica e soggettiva (più che patriarcale o basata su principi di sangue) della loro stirpe. Va inoltre riconosciuto il ruolo fondamentale ricoperto dalle donne che nel romanzo multigenerazionale acquisiscono una voce propria e decisiva sia nella perpetuazione del patrimonio culturale della famiglia, sia nella conservazione dell’identità etnica e nella rilettura della storia ufficiale a cui le loro vicende si intrecciano. Infine al pari di Cien años de soledad, il Multigenerational Novel ricrea un forte senso di straniamento nel lettore, anche se basato su una logica diversa dalla “accommodation of chaotic abundance”74 dell’opera di Márquez. Il superamento dell’“automatismo della percezione”75 e il recupero della realtà come “visione” e come “miracolo”, possibile secondo Viktor Šklovskij solo grazie all’arte ed alle 74 75 “Adattamento dell’abbondanza caotica”. Tobin, “García Márquez”, 65. Viktor Šklovskij, Teoria della prosa (Torino: Einaudi, 1976), 13. 36 sue tecniche di straniamento, nel romanzo multigenerazionale sono date dalla sua estrema ibridità linguistica e culturale. Chi legge deve infatti confrontarsi con una serie di termini stranieri (in spagnolo, nel caso dei testi che prenderò in esame) non tradotti, o addirittura inventati, mescolati a sottili giochi di parole o calchi da altre lingue. A tutto questo si aggiungono infiniti riferimenti culturali (culinari, musicali, religiosi, di costume, geografici, etc.) ad un universo (come quello caraibico o messicano) spesso estraneo o poco noto alla maggioranza dei lettori di lingua inglese, che devono quindi mettere in atto uno sforzo immaginativo ulteriore di ricostruzione dei significati (denotativo e connotativo) dell’opera. Essi sono quindi spinti a superare il confine lotmaniano 76 tra lo spazio del “noi” o spazio In (interno, organizzato e strutturato), in contrapposizione allo spazio del “loro” o spazio Es (esterno, apparentemente disomogeneo e senza limiti) per immergersi in una zona di confine e intraprendere lo stesso processo di “deterritorialization” e “reterritorialization” 77 da cui i Multigenerational Novels che prenderò in esame hanno origine. 76 Jurij M. Lotman, “Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura”, Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, (Milano, Bompiani, 1987), 145-181. 77 “Deterritorializzazione”, “Riterritorializzazione”. Gilles Deleuze e Félix Guattari, A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia (London: Athlone, 1988) 10. 37 38 Capitolo 2 LA LETTERATURA LATINA NEGLI STATI UNITI 2.1 Latino Social Force Is the next Latin music craze already on its way? Has the first Spanish-speaking astronaut already reached orbit? Will all taco lovers please stand up? There is no doubt about it, Latinos are a social force rapidly revolutionizing the texture of America. But who are they? A single homogenized group or a sum of minorities? Are they all linked through a common language and ancestry?78 Prendendo in prestito le parole di Ilan Stavans, la “forza sociale” che sta rapidamente rivoluzionando la struttura degli Stati Uniti è costituita dagli oltre cinquanta milioni di persone (il 16.3% della popolazione totale) che nel censimento del 2010 si sono autodefinite “of Hispanic, Latino or Spanish origins” 79 e che oggi costituiscono il secondo gruppo etnico del Paese (dopo i bianchi), e quello in maggiore espansione – con una crescita del 43% dal 2000 al 78 “E’ già emersa la nuova moda musicale latino-americana? Il primo astronauta ispanofono ha già raggiunto lo spazio? Gli amanti dei tacos si possono alzare per favore? Non ci sono dubbi, i Latinos sono una forza sociale che sta rapidamente rivoluzionando la struttura dell’America. Ma chi sono? Un gruppo unico ed omogeneo o una somma di minoranze? Sono tutti legati da una lingua e da un’eredità comune?”. Ilan Stavans, Latino U.S.A.: A Cartoon History (New York: Basic Books, 2000). La citazione è stata ripresa dal retro del libro di questo manuale di storia a fumetti, scritto da Stavans e illustrato da Lalo Alcaraz. 79 “Di origini ispaniche, latine o spagnole”. United States, Department of Commerce Economics and Statistics Administration, U.S. Census Bureau, Sharon R. Ennis, et al., “The Hispanic Population: 2010”. 2010 Census Briefs, May 2011 <http://www.census.gov/prod/cen2010/briefs/c2010br-04.pdf>. Data di accesso 26 giugno 2012. 39 2010 che supera di quattro volte l’aumento medio della popolazione globale statunitense, fissato al 10%, nello stesso periodo. Gli ispanici rappresentano quindi un gruppo etnico consistente ed estremamente diversificato, all’interno del quale si possono distinguere tre principali comunità, che corrispondono ai tre quarti del totale dei Latinos: i messico-americani (63%), i portoricani (9.2%) ed i cubani (3.5%)80; seguiti dai dominicani (2.8%) e da immigrati provenienti da altri Paesi del Centro e Sud America (principalmente salvadoregni, guatemaltechi, honduregni, colombiani, ecuadoriani e peruviani). La presenza degli ispanici è significativa in tutto il territorio statunitense ed in particolare negli otto stati in cui superano il milione, che sono nell’ordine: California, Texas, Florida, New York, Illinois, Arizona, New Jersey, e Colorado. Esemplari sono poi i casi del New Mexico in cui gli ispanici rappresentano il 46% dei residenti81, o di aree come East Los Angeles, El Paso, e San Antonio, in cui la loro concentrazione raggiunge picchi rispettivamente del 97%, 81% e 63%, rispetto al totale della popolazione. Ognuna delle tre maggiori comunità, inoltre, ha una sua capitale simbolica, per l’elevata densità di residenti: Los Angeles per i messico-americani, New York per i portoricani e Miami per i cubani. Altro dato significativo per cogliere la “forza sociale” dei Latinos, è che essi non solo rappresentano anagraficamente la minoranza più “giovane” del Paese, composta per la maggior parte da persone tra i 17 ed i 25 anni, ma anche quella che può vantare la più antica presenza sul territorio. Nonostante i continui flussi migratori che ne infoltiscono costantemente il numero, i Latinos non sono 80 Per una questione di rappresentatività, in questa tesi analizzerò tre opere primarie di autori appartenenti proprio alle tre principali comunità ispaniche appena citate. 81 La concentrazione più alta rispetto alla popolazione di ogni altro stato. 40 solo immigrati o figli di immigrati. In Florida e in tutto il Sud-ovest infatti, gli insediamenti della comunità messico-americana precedeno di quasi un secolo e mezzo l’arrivo dei puritani del Mayflower (del 1620) e risalgono ai tempi dell’incontro/scontro dei primi conquistadores spagnoli con le popolazioni indigene locali (maya ed azteche)82. A questo primo impatto hanno fatto seguito quattro secoli di usurpazioni coloniali, disuguaglianze sociali e squilibri socioeconomici che il poeta Miguel Algarín sintetizza in poche efficaci parole: “a very simple story of greed and amorality”83. Di fatto, l’esperienza dei Latinos è il frutto delle relazioni asimmetriche di potere che vedono il Sud-ovest degli Stati Uniti, i Caraibi e tutta l’America latina passare dal dominio degli spagnoli alla sfera d’influenza geo-politica degli Stati Uniti, avallata dalla Dottrina Monroe (1823) e dalla politica imperialista lanciata dal presidente Jackson tra 1829 ed il 1837. È in questo periodo dunque che gli Stati Uniti iniziano una penetrazione massiccia a Sud del Río Grande, volta a contrastare il dominio europeo ed a costruire la basi di nuova super potenza mondiale. Tappe fondamentali di questo processo di inglobamento sono il trattato Adams-Onis (1819), che trasferisce la proprietà della Florida dalla Spagna agli Stati Uniti; la guerra messico-americana, conclusa nel 1848 con il Trattato di Guadalupe-Hidalgo e la vendita da parte del generale messicano Antonio López de Santa Anna di due terzi del Messico alla Casa Bianca (gli attuali California, 82 Come dimostrano fin dagli inizi del Cinquecento le opere letterarie di esploratori, missionari e inviati imperiali come Fray Bartolomé de las Casas, Pánfilo de Narváez, Alvar Núñez Cabeza de Vaca, ed Hernando de Soto. 83 “Una storia molto semplice di avidità ed amoralità”. Miguel Algarín, “Nuyorican Literature”, The Norton Anthology of Latino Literature, ed. Ilan Stavans, et al., (New York and London: Norton, 2010), 1351. 41 Arizona, New Mexico, Utah, Nevada e parte del Colorado, in aggiunta al Texas, già annesso nel 1846); la guerra ispano-americana del 1898, che porta al definitivo sgretolamento della potenza coloniale spagnola e permette agli USA di trasformare Cuba in un proprio protettorato fino al 1902, oltre che di acquisire Guam, Filippine e Porto Rico, quest’ultimo trasformato in Commonwealth nel 1952, dopo la concessione della cittadinanza statunitense ai suoi abitanti, con il Jones Act del 1917. Le sorti dei territori a Sud del Río Grande, dell’America latina e dei Caraibi negli ultimi due secoli sono state quindi segnate, nel bene e nel male, dall’imperialismo degli Stati Uniti, legittimato da un senso di superiorità morale e politica. Questa superiorità è reclamata anche dal presidente Roosevelt nel messaggio annuale al congresso del 1904, in cui dice di voler frenare il dilagante “chronic wrongdoing” e il generale “loosening of the ties of civilized society”84 che affligge i cubani, i dominicani, gli haitiani, i nicaraguensi e tutti i popoli del cosiddetto “backyard” dell’America85. Corollario di questa dottrina saranno una serie di interventi militari, politici ed economici con cui gli Stati Uniti hanno consolidato la loro egemonia sul continente per tutto il Ventesimo secolo. Oltre agli interventi militari che sono seguiti ai moti indipendentisti dell’Ottocento, Alan West-Durán cita altre controverse azioni come: counterinsurgency warfare (in El Salvador, Guatemala, Nicaragua, and Colombia), CIA-engeneered coups (in Guatemala and Chile), military intervention (in Cuba, Haiti, Panama, and the Dominican Republic), or the propping up of military dictatorships in Chile, 84 “Iniquità croniche”, “allentamento dei vincoli di una società civilizzata”. Citato in Silvio TorresSaillant, “Vision of Dominicanness in the United States”, in Borderless Borders: U.S. Latinos, Latin Americans, and the Paradox of Interdependence, ed. Frank Bonilla (Philadelphia: Temple University Press, 1998) 139-141. 85 “Cortile”, termine dispregiativo con cui gli Anglos identificavano le aree a sud del Río Grande, l’America latina ed i Caraibi, che ritenevano parte della loro sfera d’influenza. 42 Bolivia, Brazil, Argentina, El Salvador, Guatemala, and Ecuador (in the 1960s, 1970s, and 1980s).86 Ma l’Eccezionalismo americano – con i connessi ideali di democrazia, libertà, individualismo e liberismo economico – ha rappresentato anche un impulso determinante nella rottura con il passato coloniale, apportando nuovi stimoli economici, culturali ed intellettuali, con cui l’America latina si è proficuamente confrontata. A tal proposito, Daniela Ciani Sforza sottolinea abilmente i proficui scambi economici, culturali, turistici ed industriali – facilitati dalla vicinanza geografica – che hanno legato Stati Uniti e Cuba (solo per fare un esempio) fin dal Diciannovesimo secolo: While North-America looked at Cuba as a prosperous source of economic income, political control over the Caribbean Sea and an ideal vacation resort, Cuba looked at the United States as a means for the development of its material and intellectual conditions.87 Esemplare è il caso di José Martí, poeta ed eroe nazionale cubano che proprio durante l’esilio a New York, dal 1881 al 1895, oltre a ricoprire un ruolo fondamentale nell’organizzazione del Movimento indipendentista cubano, ha potuto pubblicare alcuni dei suoi scritti più significativi, tra i quali la sua opera cardine “Nuestra America” apparsa sulla Revista Ilustrada nel 189188. Anche se negli ultimi anni del suo esilio prevalsero la disillusione ed i timori per la minaccia crescente rappresentata dall’imperialismo statunitense, il confronto con 86 “Interventi antiguerriglia (in El Salvador, Guatemala Nicaragua e Colombia), colpi di stato architettati dalla CIA (in Guatemala e Cile), interventi militari (a Cuba, Haiti, Panama e nella Repubblica dominicana), o il sostegno di dittature militari in Cile, Bolivia, Brasile, Argentina, El Salvador, Guatemala ed Ecuador (negli anni Sessanta, Settanta ed Ottanta)”. Alan West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders: Latino Identities and Writing”, Latino and Latina Writers, ed. Alan West (New York: Charles Scribner’s Sons, 2004) 27. 87 “Mentre l’America del Nord vedeva Cuba come una fonte prosperosa di introiti economici e di controllo politico sul Mare dei Caraibi, e come località vacanziera ideale; Cuba vedeva gli Stati Uniti come un mezzo per lo sviluppo delle sue condizioni materiali ed intellettuali”. Daniela M. Ciani Forza, “American-Cuban and Cuban-American”, Alma Cubana: Transculturación, Mestizaje e Hibridismo, ed. Susanna Regazzoni (Madrid: Iberoamericana, 2006) 64. 88 A New York l’opera fu pubblicata il primo gennaio 1891, mentre in Messico apparve su El Partido Liberal il 30 gennaio dello stesso anno. 43 gli ideali democratici di Walt Whitman e le discussioni con gli intellettuali sudamericani che come lui avevano trovato rifugio a New York e che poté incontrare nelle tertulias e nei circoli culturali della metropoli, fornirono uno stimolo costante e cruciale per la sua scrittura. Ancora oggi intellettuali da tutto il continente come Jaime Manrique, Luis Leal, Lourdes Casal, Franklin Gutiérrez, rispettivamente nati in Colombia, Messico, Cuba e Repubblica Dominicana, solo per citarne alcuni, continuano a trasferirsi negli Stati Uniti, alla ricerca di un’atmosfera intellettuale più aperta e favorevole allo scambio, o anche per trovare una via di fuga alle persecuzioni politiche nei Paesi di origine. Stavans non manca di evidenziare le contraddizioni che si celano in questo ribaltamento delle sorti quando afferma, nella sua introduzione alla Norton Anthology of Latino Literature: “Surely, Martí would have perceived the irony of this reversal of fortunes: The same ‘formidable neighbor’ supporting the tyrannical regimes that propel some writers out of their homelands also opens its doors as a safe haven”89. Eppure è proprio in questo complesso rapporto, definito da West-Durán “not an innocent relationship”, che ha origine il concetto di Latinidad e che prende forma sia il forte senso di usurpazione vissuto dai portoricani e dai messico-americani “derubati” delle proprio terre, sia il costante flusso da Sud a Nord di emigranti in cerca di migliori condizioni di vita, che rivendicano simbolicamente una parte di quello che Juan Gonzalez ha denominato “harvest of empire”: 89 “Martí avrebbe sicuramente colto l’ironia di questo ribaltamento delle sorti: lo stesso ‘nemico formidabile” sostenitore dei regimi tirannici che spingevano alcuni scrittori a lasciare le loro patrie, apriva anche le sue porte come un rifugio”. Ilan Stavans, “Introduction: The Search for Wholeness”, The Norton Anthology of Latino Literature, ed. Ilan Stavans et al., (New York and London: Norton, 2010) Ixv. 44 If Latin America had not been raped and pillaged by U.S. capital since its independence, millions of desperate workers would not now be coming here in such numbers to reclaim a share of that wealth; and if the United States is today the world’s richest nation, it is in part because of the sweat and blood of the copper workers of Chile, the tin miners of Bolivia, the fruit pickers of Guatemala and Honduras, the cane cutters of Cuba, the oil workers of Venezuela and Mexico, the pharmaceutical workers of Puerto Rico, the ranch hands of Costa Rica and Argentina, the West Indians who died building the Panama Canal, and the Panamians who maintained it.90 Nonostante le differenze storiche, razziali, linguistiche e di estrazione sociale che rendono unica e peculiare l’esperienza di ciascuno dei Latinos; e nonostante i messicani, i cubani o i portoricani diventino “comunità etniche” attraverso processi profondamente diversi, è proprio negli Stati Uniti che essi sembrano ritrovare un senso condiviso di Latinidad, ben oltre le loro diverse origini nazionali. Uniti da un comune senso di sradicamento, da secoli di subalternità coloniale, dall’estrema emarginazione vissuta nei grandi centri urbani e dalle discriminazioni spesso legate a sentimenti anti-ispanici da parte dell’élite WASP del Paese, riconoscersi come Latinos diventa una strategia di sopravvivenza e allo stesso tempo una necessità politica per ottenere maggiore visibilità, una più ampia mobilità sociale e un più elevato livello di istruzione, come confermano le parole di Silvio Torres-Saillant: they are bound by political imperatives to see themselves as one […] to lift the banner of their oneness despite differences in the circumstances under which each of the distinct groups came to the 90 “Se l’America latina non fosse stata violentata e saccheggiata dal capitale statunitense fin dalla sua indipendenza, milioni di lavoratori disperati non verrebbero così numerosi a reclamare una parte di quella ricchezza; e se gli Stati Uniti oggi sono la nazione più ricca del mondo, in parte è anche per il sudore ed il sangue dei lavoratori del rame del Cile, dei minatori di stagno della Bolivia, dei raccoglitori di frutta del Guatemala e dell’Honduras, dei tagliatori della canna da zucchero di Cuba, dei lavoratori del petrolio del Venuzuela e del Messico, dei lavoratori farmaceutici di Portorico, dei lavoratori dei ranch di Costa Rica ed Argentina, degli indios occidentali morti durante la costruzione del Canale di Panama ed dei panamensi che lo hanno mantenuto”. Juan Gonzalez, Harvest of Empire: A History of Latinos in America (New York: Viking, 2000) xviii. 45 United States. The language of unity functions as an instrument of survival.91 Ecco perché il termine Latinos viene oggi comunemente preferito dai membri della stessa comunità ad altre “etichette” come Hispanic, Hispano, iberoamericano, Spanish-speaking o Spaniard92 – un tempo maggiormente in uso – per il suo valore pan-etnico, neutrale ed inclusivo e per la memoria del passato coloniale che conserva. Esso deriva infatti da Latin American, aggettivo coniato all’inizio del Diciannovesimo secolo da Simón Bolívar, eroe delle lotte di liberazione dall’impero spagnolo, in riferimento ai popoli delle neonate repubbliche sudamericane che egli aveva cercato invano di fondere in un’unica federazione capace di contrastare le grandi potenze dell’epoca. In linea con il disegno del leader venezuelano, il termine Latinos rimanda quindi anche ad un’idea di unità culturale delle Americhe che, come sostengono diversi intellettuali tra i quali Gerald Torres, oggi potrebbe realizzarsi proprio grazie agli ispanici negli Stati Uniti93. Il censimento del 2010, in cui si utilizza l’espressione “of Hispanic, Latino or Spanish origins”94, dimostra come anche il governo nei suoi documenti ufficiali abbia modificato nel tempo le categorie-ombrello per definire coloro che provengono da Paesi ispanofoni, affiancando alle denominazioni di carattere 91 “Sono costretti da imperativi politici a considerarsi come un tutt’uno […] ad innalzare lo stendardo della loro unità, malgrado le differenti circostanze in cui ogni gruppo distinto è arrivato negli Stati Uniti. La lingua dell’unità funziona come strumento di sopravvivenza”. West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders”, 63. 92 In questa tesi il termine Latinos sarà giustapposto ad altri considerati di volta in volta pertinenti. 93 Diversi intellettuali, tra i quali Gerald Torres, sostengono che grazie al senso di unità che accomuna i Latinos, il sogno del patriota venezuelano Bolívar possa realizzarsi proprio negli Stati Uniti. Gerald Torres, “The Legacy of Conquest and Discovery: Meditations on Ethnicity, Race, and American Politics”, Borderless Borders: U.S. Latinos, Latin Americans, and the Paradox of Interdependence, ed. Frank Bonilla (Philadelphia: Temple University Press, 1998) 30. 94 “Di origini ispaniche, latine o spagnole”. United States, Department of Commerce Economics and Statistics Administration, U.S. Census Bureau, Sharon R. Ennis, et al., “The Hispanic Population: 2010”. 2010 Census Briefs, May 2011 <http://www.census.gov/prod/cen2010/briefs/c2010br-04.pdf> . Data di accesso 26 giugno 2012. 46 eurocentrico come “of Spanish origin” or “Spanish-speaking” utilizzate fino agli anni Sessanta, nuovi termini come “Hispanic” – introdotto nel 1969 dal presidente Richard M. Nixon in occasione dell’istituzione della prima “Hispanic Heritage Week” – o “Latino”, utilizzato per la prima volta nel censimento del 2000. In realtà, vista l’estrema eterogeneità di questa minoranza etnica e viste le sue origini multinazionali, non tutti si sentono rappresentati da queste “etichette” pan-etniche. Alcuni preferiscono infatti le designazioni “hyphenated” come Mexican-American o Cuban-American per indicare la loro “americanità” ed allo stesso tempo affermare le proprie radici culturali. Altri, come i portoricani, rifiutano polemicamente di adottare il trattino preferendo termini come Puertorriqueño, Puerto Rican o Boricua 95 , che denotano una certa resistenza all’idea di assimilazione culturale. Parallelamente, essi rilanciano anche la necessità di una “cross-group identification”96 che includa le altre minoranze nonispaniche, ugualmente vittime del passato coloniale, come gli afroamericani e gli indiani d’America. Non mancano inoltre designazioni con un valore generazionale e storicopolitico più marcato come Marielito97, Pachuco98 o Chicano99. Quest’ultimo, ad 95 Dal nome originario dell’isola di Portorico denominata Borikén dagli indios– le tribú degli igneri, i ciboney, gli arawak, i caribe, i taíno – e successivamete Borinquén dai conquistadores. 96 “Identificazione intergruppo”. Juan Flores, From Bomba to Hip-Hop: Puerto Rican Culture and Latino Identity (New York: Columbia University Press, 2000) 10. 97 Marielitos è il nome dato ai circa 125.000 Cubani che tra aprile e ottobre del 1980 lasciarono l’isola dal Puerto de Mariel per raggiungere le coste della Florida, grazie a un permesso temporaneamente concesso da Fidel Castro dopo le tensioni scaturite dall’irruzione di 10.000 persone all’ambasciata peruviava dell’Avana per richiedere asilo politico. Fidel fece imbarcare non solo prigionieri politici, operai o familiari di esuli già emigrati negli Stati Uniti, ma anche criminali dalle carceri e pazienti di ospedali psichiatrici. La diversa estrazione sociale dei Marielitos, rese estremamente complessa l’integrazione con gli esuli dei precedenti flussi migratori in Florida, principalmente di estrazione borghese e ben istruiti. 98 Pachucos è il nome dato ai giovani messico-americani poveri e violenti che appartenevano alle bande di strada nate nei barrios delle grandi città. Il fenomeno fu esacerbato dalla dura propaganda anti-messicana e dalla xenofobia alimentata dal governo statunitense negli anni della Seconda 47 esempio, implica da parte dei messico-americani sia un senso di orgoglio per l’appartenenza a La Raza100, sia un certo attivismo politico per il richiamo alle rivendicazioni portate avanti dal Chicano Movement negli anni Settanta. Molteplici sono inoltre i nomi che riflettono le esperienze di vita uniche e soggettive di chi li adotta. Per il loro carattere fortemente ibrido, queste definizioni mettono in discussione ogni classificazione semplicistica e stereotipata, restituendoci tutta la complessità e la fluidità dell’identità dei Latinos. L’autrice dominicana Julia Alvarez, ad esempio, si definisce innanzitutto una scrittrice e solo in seconda istanza una “Dominican Gringa” 101 . La poetessa cubanoamericana Lourdes Casal, trapiantata a New York all’età di 24 anni, rivela tutto il cosmopolitismo ma anche la marginalità ereditate nella metropoli americana, nei versi in cui si descrive: “too habanera to be newyorkina, / too newyorkina to be / – even to become again – anything else”102. guerra mondiale, in cui si consolida l’immagine del chicano come gangster, simbolo dell’ignoranza, della miseria, del risentimento e dell’oppressione delle minoranze etniche. 99 Il termine chicano si riferisce a tutte le persone di origine messicana che risiedono stabilmente negli Stati Uniti. L’origine del termine è incerta. Per Ricardo Sánchez deriverebbe da Meshicano, nome originale degli Aztechi, mentre per Tino Villanueva si tratterebbe di una palatalizzazione della velare x nel vocabolo Mexico (x in č) da cui mechicano che subendo un’aferesi produrrebbe chicano. Il termine è stato usato per designare, di volta in volta, gli Spanish-Americans, i LatinAmericans o i Mexican-Americans, ma nel tempo ha assunto anche altri significati, spesso dispregiativi, come Okie, Southerner o rebel: espressioni con cui si indicavano le popolazioni autoctone del Sud-ovest, mescolate con le razze dei conquistatori europei (Mestizos o Criollos). A partire dagli anni ’60 il suo valore cambia, assumendo una connotazione politica e sociale oltre che etnica. Diviene infatti emblema di orgoglio culturale e di coscienza politica per i militanti del Movement nella loro lotta contro l’emarginazione sociale e il sistema nord-americano. Nonostante ancora oggi sia rifiutato dal settore meno progressista di tale comunità, il termine rimane il più usato per designare storia, cultura e letteratura della comunità messico americana. Per maggiori approfondimenti si può far riferimento a Ricardo Sánchez, Canto y grito mi liberación (El Paso: Mictla Publications, 1971); Tino Villanueva, ed., Chicanos: Antología Histórica y Literaria (México, Fondo de Cultura Económica, 1980). 100 L’espressione La Raza designa l’identità collettiva e simbolica dei messico-americani, fatta risalire alle popolazioni indigene precolombiane. È composta da un misto di sentimento nazionalistico e rifiuto dell’egemonia yankee. 101 “Gringa dominicana”. Citato in West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders”, 22. 102 “Troppo habanera per essere newyorkese, / troppo newyorkese per essere / – o per diventare ancora – / qualsiasi altra cosa”. Lourdes Casal, “For Ana Veldford”, Bridges to Cuba / Puentes a Cuba, ed. Ruth Behar (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1996) 21-22. 48 L’intellettuale e accademico Alan West-Durán, nato a La Havana e vissuto a San Juan (Porto Rico) prima di stabilirsi negli Stati Uniti, si definisce “a Boston BoriCuban Latino” che cerca costantemente di spiegare e tradurre “(to Anglos and Latinos alike) the textures and transculturations of Latino identity and culture”103. A frantumare ogni categoria etnica rigida e monolitica contribuisce in modo significativo anche la poetessa Nuyorican 104 Sandra María Esteves – nata nel Bronx nel 1948 da padre portoricano e madre dominicana – quando nella poesia “Not Neither” 105 risponde alla domanda “Y qué Soy?” con un amalgama di aggettivi in inglese, spagnolo e slang che rendono quasi impossibile persino tradurre in un’unica lingua la sua esperienza di vita: Being Puertorriqueña-Dominicana Borinqueña-Quisqueyana Taina-Africana Born in the Bronx. Not really jíbara Not really hablando bien But yet, not gringa either Pero ni portorra Pero sí, portorra too Pero ni qué what am I? Y qué soy?106 Le testimonianze appena citate fanno emergere tutta la tensione vissuta dai membri di queste minoranze costantemente in bilico tra il desiderio di rivendicare l’unicità delle proprie esperienze e la tendenza del mainstream ad essenzializzare e vestire di folclore la loro cultura, riducendola a pochi tratti comuni, rassicuranti, facilmente catalogabili e soprattutto mercificabili. Per contrastare questo 103 “Un Latino BoriCubano di Boston”, “Sia agli Anglos sia ai Latinos, le strutture e le trasculturazioni dell’identità e della cultura latina”. West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders”, 63. 104 Dal nome del movimento di poeti di origini portoricane, nato nel Lower East Side negli anni Settanta. Si veda a questo proposito il paragrafo dedicato alla storia della letteratura portoricana. 105 “Né, neanche”. Sandra María Esteves, “Puerto Rican Discovery #3: Not Neither”, in The Anthology of Latino Literature, ed. Ilan Stavans et al., (New York and London: Norton, 2010) 1398. 106 “Essendo portoricana-dominicana / Borinqueña-Quisqueyana / Taina-Africana / Nata nel Bronx. Non proprio jíbara / Non proprio hablando bien / Eppure, neanche gringa / Ma neanche portorra / Ma si, anche portorra / Ma neanche che cosa sono? Y qué soy?”. Ibidem. 49 fenomeno che Manuel Martín-Rodríguez ha definito “Tacobellization of the Latino/a image” 107 è sempre maggiore il numero degli stessi membri della comunità ispanica che si oppongono polemicamente a un uso troppo semplicistico della “pan-ethnic Latino label”108. Il giornalista del Los Angeles Times Gregory Rodríguez, ad esempio, in un articolo del 2006 critica efficacemente l’uso indiscriminato dell’aggettivo Latino da parte della stampa e della classe dirigente, smascherando il pericolo di “disumanizzazione” degli individui ai quali questa etichetta viene applicata 109 . Rodríguez cita vari esempi, tra i quali anche il caso della star dell’NBA Kobe Bryant, accusato di stupro nell’estate del 2003. In un articolo comparso proprio sul Los Angeles Times che fa riferimento anche a Vanessa, moglie del cestista, quest’ultima viene definita in modo troppo riduttivo “Latina”. Rodríguez dimostra come in ambito giornalistico non si possa giustificare un uso così semplicistico del termine, che trascura discriminanti fondamentali per una comprensione più accurata dei fatti, come l’estrazione sociale della protagonista, da quale parte dell’America Latina provenga, se sia nata o no negli Stati Uniti, etc. D’altronde, come sottolinea lo stesso Rodríguez in riferimento al caso di Vanessa, “[t]here is no nation of Latinoland, and if her heritage is important to the story, then why not connect her (or her family) to a country with a unique culture and tradition”110. 107 “‘Tacobellizzazione’ dell’immagine dei Latinos”. Manuel M. Martín-Rodríguez, Life in Search of Readers: Reading (in) Chicano/a Literature (Albuquerque: University of New Mexico Press, 2003) 131. Dal nome della famosa catena di fast food, Taco Bell, dedicati alla cucina messicoamericana. 108 “Etichetta pan-etnica dei Latinos”. Juan Flores, From Bomba to Hip-Hop, 13. 109 Gregory Rodriguez, “Gregory Rodriguez: Look beyond the ‘Latino’ Label”, Los Angeles Times, 12 Nov. 2006 <http://www.latimes.com/news/la-op-rodriguez12nov12,1,1839578.column>. Data di accesso 26 giugno 2012. 110 “Non c’è una nazione di Latinolandia e se la sua eredità culturale è importante per la storia perché non mettere in relazione lei (o la sua famiglia) ad un Paese con una cultura ed una tradizione uniche”, Ibidem. 50 Rodríguez fa risalire l’origine controversa di questi termini generici e onnicomprensivi, entrati in voga negli anni Settanta, da un lato all’esigenza del Chicano Movement del Sud-ovest di far causa comune con i Portoricani di New York, acquisendo quindi maggior visibilità e peso politico; dall’altro lato, alla necessità del governo Nixon di attirare gli elettori ispanici, convogliandoli in una categoria etnica unica, da contrapporre con più facilità agli interessi della controparte Afro-americana. Ciò è confermato da un “memo” della Casa Bianca del 1971 scoperto dallo storico John D. Skrentny : “Spanish-speaking Americans will take what they can get from whomever will give it… We should exploit Spanish-speaking hostility to blacks by reminding Spanish groups of the Democrats’ commitment to blacks at their expense”111. Di fronte al rischio di facili strumentalizzazioni, acquisiscono quindi maggior significato posizioni provocatorie e radicali come quella dello scrittore portoricano Abraham Rodríguez Jr., autore di The Boy Without a Flag: Tales of the South Bronx (1992), che nega di essere “Hispanic”, rifiutando ogni meccanismo semplicistico di demarcazione di una “alterità”: Some Hispanics are white, some Hispanics are black, some Hispanics are even Asian. Hispanic is not a race… I grew up with the idea that I’m a minority, I’m Hispanic. I threw it off. I don’t need somebody else to define me. I don’t need someone else to tell me what I am or what my concerns are, or the concerns of Hispanics. I’m not Hispanic.112 111 “Gli americani ispanofoni prenderanno qualsiasi cosa possano prendere da chiunque gliela darà. Dovremmo sfruttare l’ostilità degli ispanofoni nei confronti dei neri, ricordando ai gruppi spagnoli dell’impegno dei democratici per i neri, a loro discapito”. Ibidem. 112 “Alcuni ispanici sono bianchi, alcuni ispanici sono neri, alcuni ispanici sono persino asiatici. Essere ispanico non è una razza... Sono cresciuto con l’idea di essere una minoranza. Me la sono levata di torno. Non ho bisogno che qualcun altro mi definisca. Non ho bisogno che qualcun altro mi dica chi sono o quali siano le mie preoccupazioni, o le preoccupazioni degli ispanici. Non sono ispanico”. Abraham Rodríguez Jr., “Abraham Rodríguez Jr.”, Puerto Rican Voices in English: Interviews with Writers, ed. Carmen Dolores Hernández (Westport, CT: Praeger, 1997) 143. 51 Rodríguez richiama l’attenzione anche su di un altro aspetto chiave degli ispanici: la loro diversità razziale, avvalorata anche dal Census Bureau che definisce “Hispanic” o “Latino”: “a person of Cuban, Mexican, Puerto Rican, South or Central American, or other Spanish culture or origin regardless of race” 113 , separando in due punti distinti del questionario, i concetti di origini etniche (ispaniche o non ispaniche) e razza114. Già nel 1925, l’intellettuale messicano e ministro dell’istruzione José Vasconcelos, aveva celebrato il miscuglio di razze che caratterizza il Messico e l’America latina, rivendicando la nascita di una “raza cósmica”115 dalla fusione delle allora quattro maggiori categorie razziali (nero, asiatico, indiano e bianco). La “raza de bronce” che secondo Vasconcelos avrebbe, in un futuro prossimo, dominato demograficamente e culturalmente le Americhe, si è incardinata nel Nuovo mondo fin dall’epoca coloniale, quando l’incrocio tra gli spagnoli e gli indigeni diede origine ad una terza categoria etnica: el mestizo. Nei secoli, soprattutto nella aree di snodo dei traffici commerciali europei e della tratta dei 113 “Una persona di origini o di cultura cubana, messicana, portoricana, del Centro o del Sud America o di altre origini culturali spagnole, a prescindere dalla razza”. Sharon R. Ennis et al., “The Hispanic Population: 2010,” 2010 Census Briefs, 2 May 2011 <http://www.census.gov/prod/cen2010/briefs/c2010br-04.pdf>. Data di accesso 26 giugno 2012. 114 Recependo le direttive introdotte dall’Office of Management and Budget (OMB) nel 1997, già dal censimento del 2000, a coloro che si definiscono Hispanics or Latinos (in base al proprio patrimonio linguistico, storico o culturale, alla nazionalità, all’origine dei propri antenati o al luogo di nascita) si richiede comunque un’ulteriore auto-classificazione all’interno di una o più delle sei categorie razziali individuate dagli standard federali: “White, Black or African American, American Indian or Alaska Native, Asian, Native Hawaiian or other Pacific Islander, and Some other race”, categoria quest’ultima, in cui confluiscono tutte le designazioni non ascrivibili alle voci precendenti come “Spaniard”, “Latin”, “Latin American”, “Mexican” “Salvadoran”, “Puertoriqueño”, “Boricua”, etc. La direttiva dell’OMB del 1997 (Revisions to the Standards for the Classification of Federal Data on Race and Ethnicity) è consultabile alla pagina <www.whitehouse.gov/omb/fedreg/1997standards.html>. 115 José Vasconcelos, La raza cósmica: misión de la raza iberoamericana (Madrid: Aguilar, 1966). 52 neri, il processo di mescolanza razziale ha prodotto ulteriori incroci generando i cosiddetti mulattos o zambos116. Questo processo incessante di meticciato, a partire dagli anni Ottanta del Novecento è stato rielaborato con orgoglio da scrittori come Gloria Anzaldúa o Richard Rodríguez, che lo hanno elevato a metafora del mestizaje fisico, sociale, linguistico, ideologico, religioso, politico e culturale, che caratterizzerebbe le popolazioni frontaliere in primis ma anche, in un’epoca di globalizzazione, la società contemporanea in generale. Se Anzaldúa si concentra sull’idea di inclusività, mobilità, fluidità e rigenerazione costante possibile proprio nella zone di confine (fisiche o simboliche) ed in particolare lungo le duemila miglia che separano il Messico dagli Stati Uniti, Rodríguez condensa invece nel concetto di “brownness” la forza dirompente che può sprigionarsi mettendo in discussione il sistema binario bianco/nero a favore di una posizionalità inclusiva, liminale ed ibrida, di cui gli Hispanic negli Stati Uniti sono un emblema. Esperienze come quella di Lourdes Casal (“a light-skinned china mulata”117) incarnano il crocevia di culture ed etnie che hanno segnato la storia dei Caraibi e di tutto il Nuovo Mondo e la rigenerano nel terzo spazio118 che i Latinos ridefiniscono costantemente con la loro identità pluralistica e cangiante, capace di amalgamare imprevedibilmente Nord e Sud, inglese e spagnolo, passato e presente, campagna e città, rock’n’roll e polka, etc… 116 Il mulatto nasce dell’incrocio di un africano e di un europeo. Lo zambo o sambo indica invece un africano nato nelle Americhe. 117 “Una cinese-mulatta dalla pelle chiara”. Susan Ware et al., Notable American Women: a Biographical Dictionary Completing the Twentieth Century (Cambridge: Belknap, 2004) 105. 118 Il concetto di “Third Space” è di Homi Bhabha, The Location of Culture (London: Routledge, 1994) 37. 53 Tanto più che la cultura ispanica viene costantemente consolidata e rivitalizzata dai flussi migratori da sud (continui e non limitati ad un unico periodo storico), dalla vicinanza con amici e parenti in Messico, dal pendolarismo con i Paesi di origine, oggi facilitato dai collegamenti aerei, e dall’alta concentrazione di hispanohablantes che caratterizza alcuni quartieri. A partire dagli anni Novanta dobbiamo inoltre considerare il ruolo fondamentale dei mass media e la nascita di un vero e proprio Latino market, oggi guardato con estremo interesse dal mondo dell’economia, che alimenta continuamente questa fetta di mercato con un proliferare di pubblicità, pubblicazioni, servizi dedicati. Da un lato, si registra il boom dei mezzi di comunicazione in lingua spagnola, ed in particolare il ruolo dei tre maggiori canali televisivi ispanici – Galavisión, nato nel 1979, Univisión Television e Telemundo Group, fondati nel 1987 – che hanno permesso la diffusione massiccia di musica in spagnolo, film, telenovelas, talk shows e programmi innovativi ormai entrati di diritto nella cultura popolare statunitense. Dall’altro l’uso sempre più diffuso delle nuove tecnologie, Internet e social networks, accorcia le distanze e facilita enormemente la conservazione del legame con la cultura d’origine. La dirompenza dei Latinos e della loro “social force” va dunque cercata nelle molteplici e mutevoli sovrapposizioni degli ethnoscapes, mediascapes, technoscapes, financescapes e ideoscapes119 che essi influenzano e da cui sono a loro volta influenzati. Allo stesso tempo, essa va individuata anche in quel miscuglio unico di elementi gringos e latinos, di tradizioni sudmericane, caraibiche ed angloamericane che possono far rivivere, proprio negli Stati Uniti, 119 Arjun Appadurai, “Disjuncture and Difference”, 31. 54 quell’idea di America “una en alma e intento” 120 , fondata sull’uguaglianza, la dignità e l’armonia delle razze, concepita da José Martí. Per carpire come questi -scapes si riflettono nella scrittura degli ispanici ed, in particolare, nel Multigenerational Latino Novel, è utile rivisitare la storia della letteratura dei tre gruppi etnici che prenderò in esame. 2.2 Latino Writing Force 2.2.1 La letteratura messico-americana: da Aztlán a Borderlands Si tende a identificare la letteratura messico americana o chicana con la produzione del Movement e con i suoi sviluppi successivi legati all’acquisizione di un’identità culturale e politica. Di fatto si tratta solamente della più recente manifestazione di un complesso processo evolutivo. Le sue radici più profonde risalgono infatti all’incontro-scontro tra popolazioni autoctone messicane di origine precolombiana e conquistadores europei. È su questa duplice eredità che nel 1848 si innesta violentemente la cultura angloamericana. Dopo più di due anni di combattimenti, infatti, il trattato di Guadalupe-Hidalgo pone fine alla guerra tra Stati Uniti e Messico sancendo la sconfitta di quest’ultimo e la cessione agli Anglos dei territori a nord del Río Grande: gli attuali stati della California, dell’Arizona, del New Mexico, dello Utah, del Nevada e parte del Colorado, oltre al Texas già annesso nel 1846. Le popolazioni di questi stati si vedono costrette da un giorno all’altro alla dolorosa scelta tra l’abbandono della propria terra, 120 “Una nell’anima e nell’intento”. José Martí, “Nuestra América”, Obras completas (La Habana: Editorial Nacional de Cuba, 1963, vol. 6) 22. 55 divenuta territorio statunitense, e la perdita d’identità nazionale con la conseguente acquisizione di elementi culturali anglosassoni. Il trauma della separazione e le difficoltà d’inserimento in un ambiente culturale ostico e estraneo danno vita, lungo tutto il confine, al fenomeno de La Raza: un misto di sentimento nazionalistico e rifiuto dell’egemonia yankee che si traduce nelle prime manifestazioni letterarie messico-americane, giornali, lettere, pamphlets e diari. Ma il lungo confine tra Stati Uniti e Messico non è mai stato invalicabile. Negli anni si è assistito a continui flussi migratori e contaminazioni culturali, tanto che oggi la comunità chicana ha dovuto reinventare sé stessa, mescolando elementi indigeni, spagnoli e angloamericani in una nuova identità, ibrida e priva di un centro. Il 1848 rimane comunque il punto di partenza di questa complessa letteratura, radicata da 150 anni nel limbo di due culture, quella messicana e quella angloamericana, e allo stesso tempo ricca di tutta l’eredità pre-colombiana e spagnola che si estende in un arco di cinque secoli. Felipe de Ortego y Gasca 121 divide questa esperienza letteraria plurisecolare in cinque grandi periodi. Il primo corrisponde al “Periodo coloniale spagnolo” (1542-1810) ed è caratterizzato da scritti di natura storica (cronache, annali, memorie e relazioni lasciate dagli esploratori) ma anche da un ricchissimo patrimonio di racconti: ballate, narrazioni, favole, canti e leggende di notevole valore antropologico e religioso in quanto sintesi originale di elementi indigeni e spagnoli. Sempre in questo periodo fanno la loro comparsa anche personaggi 121 Felipe de Ortego y Gasca, “An Introduction to Chicano Poetry”, in Modern Chicano Writers, eds. Tomás Ybarra-Frausto e Joseph Sommers (Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1979) 110111. 56 come la Llorona, la curandera, la bruja122 e altre figure religiose del pantheon azteco, ricettacolo di temi e simboli per i futuri poeti chicani. Il “Periodo nazionale messicano” (1810-1848) è segnato invece dall’instabilità politica e sociale dovuta a due grandi eventi: nel 1821 l’indipendenza del Messico dalla madre patria spagnola dopo undici anni di estenuante lotta; e nel 1848 il trattato di Guadalupe-Hidalgo con gli Stati Uniti. I conflitti spirituali e la precarietà economica di questi anni si ripercuotono sulla produzione letteraria, rappresentata soprattutto da opere di natura storico-politica e dalle numerose rappresentazioni teatrali di folklore religioso. Sempre in questo periodo ha inizio l’infiltrazione dei nordamericani nel territorio messicano, favorita dal governo di Città del Messico che, per le precarie condizioni economiche, rilascia concessioni terriere in loro favore. Dai primi insediamenti a San Felipe de Austin in Texas si passa ben presto a un progetto deliberato di conquista che culmina nel trattato di Guadalupe-Hidalgo. Da questo momento i messicani che decidono di rimanere nei nuovi stati divengono, di fatto, una minoranza diversa per razza, lingua, cultura, religione e modello di vita. In costante conflitto con gli angloamericani, vedono i loro diritti sanciti nel trattato continuamente violati, la loro lingua e la loro cultura negate e le loro terre gradualmente sottratte con la frode e la violenza. Il “Periodo di transizione” (1848-1912) riveste un ruolo fondamentale per la letteratura chicana che, pur ponendosi in aperto antagonismo con la cultura dominante, ne rivela anche i primi influssi. Agli scrittori si presenta per la prima volta il problema della lingua: inglese o spagnolo? Anche se la maggior parte 122 Letteralmente: colei che piange, la guaritrice, la strega. 57 sceglie lo spagnolo (Eusebio Chocón, F. Junípero Serra e altri), non mancano personaggi come Miguel Otero, integrati nella società angloamericana, che optano invece per l’inglese. Nel “Periodo moderno o di interazione” (1912-1942) si realizza un processo contrastante. Da un lato, il continuo flusso di immigrati dal Messico alla ricerca di migliori condizioni di vita rafforza la cultura e le tradizioni dalla madre patria, favorendo la formazione di una coscienza etnica. Dall’altro, si fa più evidente la convinzione che la sopravvivenza richieda un rinnovamento e un adattamento alla realtà degli Stati Uniti: una sorta di compromesso culturale con l’inevitabile perdita di messicanità di cui i pochos, i messicani divenuti cittadini statunitensi – loro malgrado – dopo il 1848, sono il simbolo più evidente soprattutto in relazione ai più recenti immigrati. È proprio in questo periodo che si formano numerose associazioni di carattere economico, sindacale e socioculturale, nel tentativo di tutelare i diritti della comunità e di rafforzarne i vincoli di solidarietà. Vengono pubblicate riviste, manifesti, periodici ricchi di racconti ma soprattutto poesia. Gli scrittori si propongono di creare una lingua rappresentativa della sintesi culturale, ritenuta inevitabile e necessaria. Incoraggiano il rispetto per le tradizioni e la lingua spagnola ma sostengono anche l’esigenza di apprendere l’inglese per motivi pratici e utilitaristici. L’avvento della Seconda guerra mondiale, oltre ad aprire il cosiddetto “Periodo chicano”, porta con sé un accelerato processo di urbanizzazione verso i grandi centri industriali e un arruolamento di massa: fenomeni che favoriscono sia l’immersione nella lingua e nel modello di vita nordamericano, sia aperte forme di intolleranza razziale enfatizzate dai mezzi di comunicazione di massa sempre 58 pronti a sottolineare l’analfabetismo, la delinquenza e l’elevato tasso di natalità della comunità chicana. Il forte sentimento anti-messicano porta a due gravi episodi, entrambi accaduti a Los Angeles nel 1943. Si tratta dello Sleepy Lagoon Case e degli Zoot-Suit Riots: un’ingiusta incriminazione nel primo caso e una spedizione punitiva nel secondo, sempre ai danni di giovani messico-americani123. In questi stessi anni la tensione razziale è aggravata dal diffondersi dei pachucos, bande di giovani poveri e violenti nate nei barrios delle grandi città che rispondono in questo modo alla dura propaganda anti-messicana e alla xenofobia alimentata dal governo statunitense negli anni della guerra. Si consolida così l’immagine del chicano come gangster, pachuco 124 o zoot-suiter 125 , simbolo dell’ignoranza, della miseria, del risentimento e dell’oppressione delle minoranze etniche. Il processo di autodeterminazione continua e si accresce negli anni ’60, quando la protesta diviene vera e propria militanza. Nel clima di generale scontento suscitato dalla guerra in Vietnam e sulla scia del Movimento per i diritti civili degli afro-americani la lotta dei messico-americani per il riconoscimento dei propri diritti si organizza nel cosiddetto Chicano Movement. La letteratura di questo periodo si articola in due fasi: una prima fase di attivismo pre-accademico in cui si utilizzano le forme della tradizione popolare per trasmettere i nuovi messaggi politici; e una seconda fase di sodalizio con gli ambienti universitari. È 123 Prendendo spunto da questi episodi, Luis Valdez ha scritto l’opera teatrale del 1979 Zoot Suit, poi trasformata in film nel 1981. Luis Valdez, Zoot Suit, Universal, 1981. 124 Variante dialettale con cui si indicava El Paso dove nacquero le prime gangs di immigrati messicani al principio degli anni ’30. 125 Termine coniato negli anni ’40 dal gangster e venditore di vestiti Harold C. Fox, per indicare l’abbigliamento insolito e vistoso dei giovani Latinos appartenenti alle bande di quartiere. Essi indossavano infatti lo zoot-suit, un completo caratterizzato da una giacca a tre quarti con spalle imbottite e da pantaloni color kaki con risvolto all’altezza della caviglia, solitamente portati su scarpe francesi a punta. Si distinguevano inoltre per i capelli tagliati a “coda d’anitra” e per il frustino. 59 il 1968 a fare da spartiacque, segnando il passaggio da opere letterarie scritte da e per un pubblico proletario a una produzione più matura e vicina ai valori accademici. Il primissimo impulso di questo processo si ha in California nel 1962 quando César Chávez, un ex-bracciante agricolo, crea lo United Farm Workers Organizing Committee: primo sindacato di campesinos ad organizzare uno dei più grandi scioperi del paese. L’iniziativa innesca una sorta di reazione a catena e nel 1965 porta Luis Valdéz (oggi considerato padre del teatro chicano) alla creazione de El Teatro Campesino. Sorto allo scopo di politicizzare i contadini itineranti della California attraverso brevi rappresentazioni di actos, il suo teatro in seguito si aprirà a nuove cause (lotte studentesche, movimento contro la guerra in Vietnam) elaborando strutture drammatiche più complesse legate al corrido e alla mitologia della cultura chicana. Nel 1968 il Movimento chicano accede al mondo accademico per iniziativa di un gruppo di intellettuali dell’Università della California a Berkeley. Essi animano le manifestazioni studentesche in favore di un rinnovamento radicale dei programmi che preveda l’apertura alla cultura messico-americana. Incontratisi a Denver, l’anno successivo, in occasione della prima National Chicano Youth Conference voluta dall’intellettuale Rodolfo “Corky” Gonzales, gli studenti del Movimento approvano il Plan Espiritual de Aztlán, primo manifesto del nazionalismo culturale chicano. Nucleo del documento è l’esigenza di far riferimento a una nuova nazione: Aztlán, termine ripreso dalla lingua Nahuatl che significa “terra del nord” e indica, secondo la leggenda, il luogo da cui erano venuti gli Aztechi. Nella nuova accezione Aztlán è il simbolo di una 60 patria spirituale; è un rifugio, un’utopia, una terra promessa senza frontiere, dove è possibile la sintesi di due realtà e culture. Gli sforzi sostenuti porteranno all’inserimento di corsi di storia e cultura chicana nelle università e nei college; alla fioritura di poeti, narratori, artisti e giornalisti; alla diffusione di quotidiani e periodici; e a un crescente potere politico, soprattutto locale. In generale si assiste a un interessamento inedito e repentino per la letteratura chicana che al contrario di quella afroamericana non aveva avuto nessuna Harlem Renaissance ed era rimasta ignorata fino a quel momento: seppellita negli archivi, nei vecchi giornali, nei manoscritti non pubblicati. Ben presto nascono le prime case editrici chicane come la Quinto Sol, fondata dall’organizzazione studentesca di Berkeley e promotrice della più influente rivista del Movimento, El Grito alla quale collaboreranno i futuri portavoce della letteratura messico-americana: Tomás Rivera, Rolando Hinojosa, Rudy Anaya, Estela Portillo, José Montoya, Alurista, Miguel Méndez. Sempre per iniziativa della Quinto Sol nel 1979 viene pubblicata la prima antologia di letteratura chicana, El Espejo/The Mirror, e viene introdotto un premio letterario per la miglior opera chicana dell’anno. Nel frattempo altri autori esterni al gruppo di Berkeley fondano piccole tipografie per pubblicare in proprio le loro opere. È il caso di Rodolfo Gonzales, Abelardo Delgado, Ray Barrio, Luis Valdés, Ricardo Sánchez. Nel 1970, con la pubblicazione di opere come Chicano di Richard Vázquez o Pocho di José Antonio Villareal (ignorate nel 1959), si apre quella che è stata definita Chicano Renaissance: il momento di massima fioritura e interesse 61 per la produzione messico-americana. Da allora, la Bilingual Review Press fondata nel 1973 ed ancora oggi diretta da Gary Francisco Keller (presso l’Hispanic Research Center dell’Arizona State University) e la Arte Público Press istituita nel 1979 e da allora diretta da Nicolás Kanellos (presso la University of Houston) continuano ad essere le più affermate case editrici nell’ambito della promozione e della diffusione della letteratura ispanica. Ad animare gli artisti di questi anni sono da un lato le rivendicazioni socio-politiche, dall’altro la drammatica ricerca di un’identità storica ed etnica di fronte al timore che il mondo chicano possa scomparire, assorbito dal grande melting pot nordamericano. Alurista, Montoya, Gonzales, De Hoyos, Tafolla e Delgado condividono infatti la convinzione che l’artista debba essere attivamente coinvolto nella lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia e che le sue opere debbano rappresentare la voce collettiva della Raza nella sua complessa natura. Nasce così l’esigenza di riesaminare il passato per creare uno sfondo storicomitologico alla nazione chicana. Mentre i poeti della generazione precedente avevano esaltato il passato spagnolo, in questo momento si riscoprono la storia precolombiana, le radici indigene, la cultura e la filosofia nahuatl, dalle quali trarre immagini e valori autentici contrapposti alla vacuità del modello angloamericano e occidentale. Aztlán, terra d’origine degli aztechi, diviene così simbolo di continuità culturale e di liberazione da un’oppressione inaccettabile. Si rivendica con orgoglio lo splendore delle culture indigene e si esalta l’identità meticcia come essenza stessa della natura chicana. Tutto questo viene legato saldamente al presente in una sorta 62 di processo storico-dinamico in cui rituali, personaggi e divinità aztechi divengono metafore della realtà chicana contemporanea. Verso la metà degli anni ’70 inizia per la letteratura chicana un periodo di profondi cambiamenti. Ci si allontana sempre di più dalla concezione dell’opera letteraria come strumento di trasformazione politica e sociale o dalla figura dello scrittore come attivista e apostolo di una comunità. Si inizia invece la ricerca di una letteratura più libera e aperta all’esperienza umana al di là di ogni provenienza etnica. La stessa critica chicana si spacca in diverse correnti, proponendo nuovi criteri di valutazione delle opere d’arte, che prendano in considerazione l’abilità e il talento reale di chi scrive e non più esclusivamente le sue origini chicane o il suo coinvolgimento politico. Questo permette, negli anni ’80, da un lato, la riscoperta di scrittori precedentemente ignorati perché poco rappresentativi del canone chicano, come il romanziere gay John Rechy. Dall’altro, la comparsa di nuove opere letterarie che ampliano i confini della letteratura messico-americana: come The Road to Tamazunchale di Ron Arias o Caras Viejas y Vino Nuevo di Alejandro Morales, che mostrano un’evidente apertura al realismo magico di Borges e García Márquez. Abbandonate le utopie del Movement e i programmi di conservazione culturale ci si rende conto che l’assimilazione con gli Stati Uniti è inevitabile e addirittura auspicabile e che il futuro della letteratura chicana dipenderà dalla sua capacità di essere una cultura di sintesi in un flusso costante e dinamico. Ma intanto gli anni ’70 si chiudono in un’atmosfera di generale pessimismo. La recessione economica, i tagli del governo ai fondi destinati alla cultura, la perdita di interesse nella ricerca d’identità e un diffuso conformismo agli standard della 63 società nordamericana influiscono negativamente sugli scrittori. La letteratura chicana sembra perdere il suo centro per approdare a un punto fermo dal quale uscirà solo grazie alla forza rinnovatrice delle nuove generazioni. Uno dei cambiamenti più significativi è l’apparizione di scrittrici fino a quel momento escluse dalla scena letteraria chicana. Esse cominciano pubblicando da sole i loro libri proprio come avevano fatto circa dieci anni prima i loro colleghi uomini, consapevoli però di dover affrontare una doppia discriminazione: quella delle case editrici americane e quella delle stesse tipografie chicane nate per promuovere un canone tutto al maschile. È il caso per esempio di Estela Portillo, Alma Luz Villanueva, Lucha Corpi, Lorna Dee Cervantes o di Bernice Zamora, che nel 1976 con Restless Serpents firma il primo manifesto del femminismo chicano. L’altra grande spinta al rinnovamento è data, ancor più in generale, da una nuova generazione di scrittori decisi ad abbandonare i vecchi clichés per una scrittura fresca, ironica, tecnicamente ineccepibile e capace di esaltare l’esperienza umana superando le frontiere del proprio gruppo etnico. Raccolti intorno alle nuove riviste letterarie, Mango e Cambios/Phideo, autori come Orlando Ramírez, José Saldívar, Gary Soto, Sandra Cisneros, Cherríe Moraga, Gloria Anzaldúa e Richard García amplieranno i confini della letteratura chicana. 2.2.2 La letteratura portoricana: dai jíbaros all’hip-hop The four-hundred-year plus history of Puerto Rico is really a very simple story of greed and amorality. The men who ventured to cross the great Atlantic arrived greedy for gold and the acquisition of land, and in their wake they left whole generations of people, whole tribes of people, dead and without any semblance of a history because all historical records were destroyed. And then, in 1917, we were all made United States citizens by Jones Law. By 1946 Puerto Rico was 64 allowed to have its first Puerto Rican-born governor, and there are reforms in the Jones Law that make it possible for Puerto Ricans from the lower classes to come to America looking for bread, land, and liberty. This maxim really is the thing under which the idealized trip up North is sold, and so, in 1948, the Department of Labor initiated the migration to the North that was to result in a mass evacuation of the island of Puerto Rico. What does it mean, then, to the New York Puerto Rican to have been moved to the North and to find once he gets to the North that there is no real hot opportunity going on – that the dollars are really hard to get to, that the jobs are demeaning, and that historical continuity has been totally severed?126 Denominata Borikén dagli abitanti originari – le tribú indigene degli igneri, i ciboney, gli arawak, i caribe, i taíno – e successivamete Borinquén dai conquistadores, Portorico è stata una delle più floride e pregiate colonie della corona spagnola, tanto da guadagnarsi il nome di “Ricco porto” e l’epiteto “isla del encanto”. Eppure, come confermano le crude parole di Miguel Algarín, dietro a questo “incanto” si sono celati quattro secoli di sofferenze e sfruttamento, che hanno visto il massacro della popolazione locale (e la cancellazione della sua storia), seguito dall’arrivo di altri gruppi etnici, in particolare gli schiavi neri africani, importati per lavorare nelle piantagioni di tabacco, caffè e canna da zucchero. 126 “I quattrocento e più anni di storia di Porto Rico sono veramente un racconto molto semplice di avidità ed amoralità. Gli uomini che si avventurarono nel Grande Atlantico, arrivarono avidi di oro e di terre da acquisire e, al loro passaggio, lasciarono intere generazioni di persone, intere tribù di popoli, morti e senza una parvenza di storia perché ogni sua traccia fu distrutta. Poi, nel 1917, siamo diventati tutti cittadini statunitensi, attraverso la legge Jones. Nel 1946 a Porto Rico fu concesso di avere il suo primo governatore portoricano di nascita, e si riformò la legge Jones per fare in modo che i portoricani dalle classi più basse andassero in America alla ricerca di pane, terra e libertà. Questa massima è veramente ciò per cui è venduto il viaggio idealizzato verso Nord, e così, nel 1948, il Dipartimento del Lavoro ha dato inizio alla migrazione verso Nord che ebbe come risultato un’evacuazione massiccia dell’isola di Portorico. Che cosa significa, dunque, per il portoricano di New York esser stato spostato a Nord per scoprire, una volta arrivato a Nord, che non c’è nessuna strepitosa opportunità reale – che i dollari sono difficili da ottenere, che i lavori sono degradanti, e che la continuità storica è stata totalmente interrotta?”. Algarín, “Nuyorican Literature” , 1351. 65 Nel 1898, al termine del conflitto ispano-americano, che Theodore Roosvelt ha definito “la splendida guerricciola”127, l’isola passa dalla condizione di colonia spagnola a quella di appendice degli Stati Uniti. Con il referendum democratico del 1952, Portorico diviene membro del Commonwealth e “Stato libero associato”: soggetto ai pieni poteri del Congresso statunitense e dotato di autonomia di governo e costituzione ma solo per le questioni locali128. A partire dall’annessione, l’incrocio di razze che ha caratterizzato per secoli il suo tessuto sociale viene quindi esasperato in maniera drammatica dall’inizio dell’esodo dei suoi abitanti verso gli Stati Uniti, una diaspora lunga ed ininterrotta che nel Ventesimo secolo diventerà un vero e proprio fenomeno di massa tanto che, in base al censimento del 2010, il numero dei portoricani negli Stati Uniti (4.623.716) ha superato quello degli abitanti dell’isola (3.725.789). I primi a lasciare Portorico sono i militanti indipendentisti (tra i quali Arturo Schomburg, Luis Muñoz Marín e Lola Rodíguez de Tío) che Mario Maffi definisce “un rivolo carsico che affiora nelle strade di New York seguendo i sentieri già aperti dall’eroe nazionale cubano José Martí”. Un esodo che aumenterà significativamente, incorporando ogni classe sociale129, in particolare dopo il 1917 con il Jones Act e l’acquisizione della cittadinanza statunitense, 127 Mario Maffi, Voci di frontiera: Scritture dei Latinos negli Stati Uniti (Milano: Feltrinelli, 1997) 12. 128 Per la mancanza di piena autonomia politica e vista la forte subordinazione economica agli Stati Uniti, alcuni intellettuali come Juan Flores sostengono che Portorico debba essere ancora considerata una colonia: “this island nation is still a colony by all indicators of International relations, its economic and political life fully orchestrated by its mighty neighbor to the north, the putative leader of world democracy and sovereignty / questa isola nazione è ancora una colonia in base a tutti gli indicatori delle relazioni internazionali, la sua vita economica e politica totalmente orchestrata dal suo potente vicino a nord, il leader putativo della democrazia e della sovranità mondiale”. Flores, From Bomba to Hip Hop, 9. 129 In particolare le classi più disagiate, tra cui gli operai di sigarifici e dell’industria di abbigliamento ed i jíbaros (o contadini), da impiegare come manodopera a basso costo nella fiorente industria di New York o come soldati da inviare al fronte della Prima guerra mondiale. 66 quando quello stesso rivolo iniziale “comincerà ad ingrossarsi, a scorrere in superficie, a divenire flusso permanente nelle due direzioni”130. Seguendo le alterne vicende dell’economia e della vita politica portoricana e di quella statunitense, le principali ondate migratorie hanno coinciso con il crollo del costo della canna da zucchero negli anni Trenta, con la Seconda guerra mondiale, con gli scompensi al tessuto economico e sociale causati dalla Operazione Bootstrap che si proponeva di industrializzare l’isola a “tappe forzate”, per raggiungere un picco negli anni Settanta quando i portoricani arrivano a costituire l’80% dei Latinos di New York. Parallelamente ai flussi migratori, le lotte indipendentiste diventano sempre più acute, culminando in due eventi che hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo sul nazionalismo portoricano: la manifestazione di Ponce del 1937 repressa nel sangue e l’attacco armato alla sede del Congresso nel marzo del 1954 al quale prese parte, tra gli altri, anche Lolita Lebrón, divenuta in seguito una figura quasi leggendaria alla quale anche la poetessa Sandra María Esteves, dedica i suoi versi: “We are a whole culture once romoved / Lolita alive for twenty-five years / Ni soy, pero soy Puertorriqueña cómo ella”131. Fin dalla metà dell’Ottocento, la letteratura dell’isola viene quindi plasmata dal suo status di subalternità. Se in opposizione all’egemonia spagnola, durante l’epoca coloniale, gli intellettuali avevano enfatizzato le proprie radici meticce e promosso la riscoperta della cultura indigena, il folclore e gli archetipi nazionali; come reazione al potere statunitense, scelgono di difendere tenacemente 130 Maffi, Voci di frontiera, 13. “Siamo un’intera cultura un tempo rimossa / Lolita viva per venticinque anni / Né sono, ma sono portoricana come lei”. Esteves, “Puerto Rican Discovery #3: Not Neither”, 1398. 131 67 l’uso dello spagnolo e di valorizzare il legame con la nascente estetica del modernismo sudamericano, nel tentativo di definire una propria identità nazionale. Luis Palés Matos è stato tra i primi a rendere omaggio al forte retaggio africano ed afro-caraibico dell’isola, sviluppando una stile poetico ispirato ai ritmi ed alle lingue del “Black Caribbean” in opere dal titolo quasi intraducibile come l’onomatopeico Tun tun de pasa y grifería (1937), in cui il primitivismo ed i versi liberi diventano veicolo della sua posizione critica verso Europa e Stati Uniti. Lo dimostrano poesie come “La Plena de Menéalo” (1952) in cui Porto Rico è impersonata da una mulata che traspira rum in una danza seducente, in cui si avvicina ed allo stesso tempo sfugge – senza mai farsi raggiungere – dalle mani di un divertito Uncle Sam. Gli scrittori dell’isola continuano per tutto il Novecento ad essere in buona parte influenzati dalla necessità di difendere l’integrità linguistica e culturale di Portorico dalle ingerenze degli angloamericani. Utilizzando uno spagnolo quanto più possibile standard, le loro opere ruotano intorno al tema del jíbaro come “buon selvaggio” – emblema di un passato edenico e del trionfo dei valori tradizionali – e alla descrizione satirica sia della borghesia portoricana “americanizzata” e compiacente, sia della fredda efficienza degli yankee. Altro topos ricorrente sono le disavventure dello “spic”132, ovvero dell’emigrato a New York – simbolo di perdizione e decadenza. In Spiks (1956) di Pedro Juan Soto, quest’ultimo viene descritto nella sua condizione di estrema povertà, oppressione 132 Il termine derogatorio “Spic” o “Spik”, con il quale si indicavano gli immigrati ispanici (in particolare i portoricani) a New York, deriva dalla loro pronuncia erronea del verbo “to speak”. Potrebbe inoltre derivare dal detergente universale Spic & Span, con un chiaro riferimento ai lavori di basso profilo che essi svolgevano nella metropoli. Altri termini denigratori simili sono “pachuco” per i messico-americani del Sud-ovest o “greaser” per gli italoamericani. 68 e sradicamento, come cittadino di serie B, irrimediabilmente inghiottito nella viscere della metropoli. A rompere lo stile spesso trito ed artificiale degli autori più conservatori, contribuisce il genio di scrittori come Luis Rafael Sánchez con La guaracha del Macho Camacho (1976), che conferisce dignità letteraria al vernacolo portoricano – ricco di idiosincrasie, espressioni dialettali ed anglicismi – dimostrando che la lingua “corrotta” dei colonizzati (più che lo spagnolo standard) può farsi veicolo di una pungente critica sociale ed evidenziare i lati oscuri del processo di “americanizzazione” di Portorico. Le prime manifestazioni letterarie dei portoricani emigrati a New York risalgono ai quotidiani pubblicati in lingua spagnola 133 fin dalla fine dell’Ottocento, in cui si possono trovare notizie, ma anche saggi, poesie, racconti e romanzi seriali. A partire dagli anni Trenta appaiono i primi articoli anche in inglese, come la rubrica che Jesús Colón cura sul Daily Worker, organo di stampa del partito comunista americano, in cui si fa portavoce delle condizioni disagiate e delle discriminazioni vissute dei portoricani di New York, ben diverse dalla vita agiata condotta dalla maggior parte degli intellettuali dell’isola, che proveniva da un’élite istruita e colta. Ad aprire la strada alle successive generazioni di poeti e drammaturghi, marcando una transizione simbolica tra la produzione “of the island” e “of the mainland”134 saranno due autori chiave della letteratura portoricana dell’isola che, 133 Alcuni esempi sono El Mensajero Semanal (1828-1830), El Mercurio de Nueva York (18281833), La Patria (1892-1898), La Voz de la América (1865-1867) e Las Novedades (1893-1918). 134 La dicotomia tipicamente portoricana tra “island” e “mainland” in italiano è stata tradotta da Mario Maffi in “isola” e “urbe”. Mario Maffi, “Ritratto dell’autore da scarafaggio”, Scarafaggi metropolitani e altre poesie, Pedro Pietri, trad. di Mario Maffi (Milano: Baldini & Castoldi, 1993) 7-22. 69 per diverse circostanze, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta sono attivi a New York: Julia de Burgos e René Marqués. Julia de Burgos, militante del partito nazionalista e del movimento per la difesa dei diritti civili delle donne e delle popolazioni afro-caraibiche, è oggi considerata tra le più grandi poetesse del Sud America. Dal 1940 la scrittrice soggiorna alternativamente a La Habana e a New York, città quest’ultima in cui si dedica alla scrittura creativa, collabora con il quotidiano progressista Pueblos Hispanos e infine muore tragicamente, dopo esser stata trovata in fin di vita, sul marciapiede di Spanish Harlem dove oggi sorge il Julia de Burgos Cultural Center. René Marqués, tra i più illustri commediografi portoricani, proprio a New York poté produrre nel 1953 la sua opera teatrale più famosa La carreta che mette magistralmente in scena i conflitti religiosi, morali e linguistici di una famiglia portoricana trapiantata nella “grande mela”, descrivendo lo smembramento ed il senso di profonda alienazione derivati dal continuo pendolarismo fra isola e metropoli. Sempre in questo periodo, mentre i flussi migratori verso la “mainland” si fanno sempre più intensi, si assiste a due fenomeni paralleli: “mentre la isla rinasce faticosamente nei ghetti di Manhattan e dintorni […] a Portorico dilaga irresistibile l’America”135. E così il Lower East Side, Spanish Harlem e il South Bronx si popolano di immigrati portoricani, ammassati negli angusti tenements e relegati ad una condizione di povertà e marginalità estrema. Nelle vie della città i jíbaros si uniscono ai grafiteros136 e nascono nuovi luoghi di incontro come le 135 136 Maffi, Voci di frontiera ,14. Il grafitero è l’artista di graffiti, tipica figura delle metropoli. 70 bodegas, le bótanicas137, le trattorie con specialità portoricane, i club di salsa e merengue. Di contro, a Portorico si moltiplicano i turisti angloamericani, i cartelloni pubblicitari, i grattacieli, le grandi banche e le multinazionali, i locali notturni e le luci al neon che stravolgono in breve tempo l’assetto tradizionalmente rurale e provinciale dell’isola in maniera così radicale da indurre il poeta-bandito del Lower East Side Miguel Piñero a scrivere “this is not the place where I was born”138. Intellettuali e poeti iniziano quindi ad incanalare nell’attivismo politico o nell’arte la rabbia e la frustrazione per il proprio senso di sradicamento e oppressione, per la disgregazione sociale e per i gravi fenomeni di alienazione giovanile che alimentano il gangsterismo e la violenza di strada139. Da un lato nascono quindi gli Young Lords (gruppo politico nazionalista ispirato alle Pantere nere) ed altre organizzazioni che portano la causa portoricana oltre i confini angusti del barrio, ricollegandosi al Movimento chicano ed alle manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam e per la difesa dei diritti fondamentali delle minoranze etniche, delle donne, e del Terzo mondo. Dall’altro lato, appaiono i primi bardi di strada come Jorge Brandon, detto anche “El coco que habla”140, che contribuisce a diffondere consapevolezza etnica per le vie di “Loisaida”141 e nella zona di Union Square, improvvisando versi ed 137 Erboristerie o drogherie di erbe medicinali. “Non è il posto in cui sono nato”. Miguel Piñero, “This Is Not the Place Where I Was Born”, The Norton Anthology of Latino Literature, 1394. 139 Descritte, se pur in forma edulcorata, in West Side Story (1961): musical epocale scritto da Jerome Robbins (regia e coreografia), Arthur Laurents (libretto), Leonard Bernstein (musiche) e Stephen Sondheim (testi), che fisserà per decenni nell’immaginario collettivo americano lo stereotipo del gangster portoricano di New York. 140 “Il pazzo che parla”. 141 Termine con cui i portoricani ribattezzano il “Lower East Side”, dalla loro pronuncia della nome. 138 71 opere teatrali 142 o leggendo poesie ed estratti per gli operai e la popolazione analfabeta del quartiere, che risponde con entusiasmo e partecipazione alle sue performance. Mentre il numero di intellettuali e poeti borinquen che danno voce alle problematiche del barrio continua a crescere, nel 1967 viene pubblicata l’opera simbolo del fermento culturale portoricano a New York: Down These Mean Streets di Piri Thomas. Descrivendo la condizione di estrema povertà, violenza, e razzismo vissuta in prima persona a Spanish Harlem e, ispirandosi alla propria esperienza di redenzione dal carcere e dalla criminalità, Thomas traccia un quadro crudo e disincantato dell’infrangersi dell’American Dream. Gli immigrati portoricani, esclusi dalle strutture simboliche dell’identità nazionale sia negli Stati Uniti che a Portorico, devono finalmente accedervi e sentirsi parte integrante della società in cui vivono. Così come era accaduto con The Autobiography of Malcolm X (1965) per la comunità afroamericana, il suo mémoir forgia un’identità etnica collettiva, ed allo stesso tempo fonda un genere letterario inedito, con uno strabiliante successo di vendite, che influenzerà tutta la successiva narrativa ambientata nei ghetti ispanici: dalle opere di Nicholasa Mohr (come Nilda del 1973 o Going Home del 1986), passando per Edward Rivera (Family, Installments: Memories of Growing Up Hispanic del 1982) ed Ed Vega (da The Comeback del 1985 a Casualty Report del 1986), fino a The Brief Wondrous Life of Oscar Wao (2007) dello scrittore dominicano Junot Díaz, vincitore del premio Pulitzer nel 2008. 142 Attraverso le opere sperimentali della compagnia El teatro ambulante. 72 Sul versante della poesia nel 1975 viene pubblicata Nuyorican Poetry: An Anthology of Puerto Rican Words and Feelings, opera-cardine di quella che Nicolás Kanellos ha definito “the true avant-garde of United States letters”143 . L’opera-manifesto a cura di Miguel Algarín e Miguel Piñero da il nome ai poeti Nuyorican, gruppo particolarmente attivo nel Lower East Side che si riappropria con orgoglio, attraverso quello che Anna Scannavini definisce un “gioco apertamente metalinguistico”144, del termine dispregiativo con cui gli intellettuali dell’isola si riferivano alla produzione letteraria dei loro compatrioti emigrati145. Dopo i primi incontri a casa di Miguel Algarín, divenuta subito troppo piccola, nel 1972 il gruppo fonda nel Lower East Side (quartiere multiculturale per eccellenza) il Nuyorican Poets Cafe: luogo simbolo della straordinaria fioritura culturale che vede protagonisti Miguel Piñero, Lucky Cienfuegos, Sandra María Esteves, Bimbo Rivas, Jesús Papoleto Meléndez e gli altri poeti e artisti che negli anni prenderanno parte all’esperienza Nuyorican. Il Cafe diviene fin da subito un laboratorio di sperimentazioni multietniche e multiculturali, aperto a performance di poesia, musica, hip hop, teatro, ed arti visive e frequentato da un vivacissimo pubblico di ogni estrazione sociale ed etnia, tra i quali anche i poeti beat Allen Ginsberg e William Burroughs e il commediografo Amiri Baraka che contribuiscono ad aumentarne la popolarità, oltre i confini del barrio146. 143 “La vera avanguardia della letteratura degli Stati Uniti”, Nicolás Kanellos, “Introduction”, Biographical Dictionary of Hispanic Literature in the United States: The Literature of Puerto Ricans, Cuban Americans, and Other Hispanic Writers (New York: Greenwood Press, 1989) xiii. 144 Anna Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti: osservazioni su ‘Family Installments’ di Edward Rivera”. (Letterature d’America: 47-48, 1992), 59. 145 Così come stavano facendo i messico-americani con il termine “chicano”. 146 Ancora oggi il Nuyorican Poets Café, nella sua sede in 3rd Street, sempre nel Lower East Side, continua ad essere gestito da Miguel Algarín e rappresenta un luogo di culto per la cultura alternativa di New York. 73 Di fatto, i Nuyoricans si inseriscono nello stesso scenario anticonformista ed altamente sperimentale creato della Beat Generation, che rendono ancor più drammatico per la reale condizione di marginalità e disagio da essi stessi provenivano. La maggior parte di loro ha infatti ha origini proletarie e non può permettersi una formazione universitaria 147 . Solo per citare due esempi: Pedro Pietri viene spedito come soldato in Vietnam, esperienza che segnerà tutta la sua produzione poetica, mentre Miguel Piñero finisce due volte in carcere per rapina e per furto a mano armata. La loro poesia è quindi “street-rooted”148 e composta da “liberated urban base verses”149 che fondono la tradizione orale dei trovatori portoricani150, con le ritmicità afro-americane, l’hip hop, e lo slang della strada, alternando e mescolando liberamente l’inglese e lo spagnolo fino a rigenerarli entrambi, come conferma il poeta Tato Laviera: “I am the grandson of slaves transplanted from Africa to the Caribbean, a man of the New World come to dominate and revitalize two Old World tongues”151. Il multilinguismo delle loro opere riflette un’identità marginale, ibrida e di frontiera – né portoricana, né statunitense – che non aveva mai avuto un proprio spazio letterario fino a quel momento. Ecco perché il ruolo dei Nuyoricans è così cruciale: attraverso una lingua radicata nella realtà vissuta essi fungono da collante dell’intera comunità etnica di cui riscrivono il passato, proiettandolo nel 147 Mentre Burroughs aveva studiato ad Harvard e Ginsberg e Kerouac alla Columbia University. “Radicata nella strada”. Miguel Algarín e Miguel Piñero, Nuyorican Poetry: An Anthology of Puerto Rican Words and Feelings (New York: William Morrow & Co, 1975) 16. 149 “Versi liberati a base urbana”. Pedro Pietri, “Telephone Booth number 654875”, Out of Order / Fuori Servizio, trad. di Mario Maffi (Cagliari: CUEC, 2001) 234. 150 Poeti di strada che intrattenevano i contadini con canti e poesie, spesso improvvisate. 151 “Sono il nipote di schiavi trapiantati dall’Africa ai Caraibi, un uomo del Nuovo mondo, venuto a dominare e rivitalizzare due lingue del vecchio mondo”. Citato in Kannellos, xi. 148 74 futuro. In definitiva, essi sono “responsible for inventing the newness. The newness needs words, words never heard before or used before152”. Il “nuovo”, evocato da Algarín, richiede un coinvolgimento diretto ed attivo proprio della comunità. Le loro opere sono infatti concepite per essere declamate e lette a voce alta, per catturare le emozioni del pubblico e provocare in loro una reazione, per dar vita ad un’esperienza collettiva e terapeutica, capace di diffondere consapevolezza etnica e provocare una trasformazione, un senso di riscatto in chi ascolta. Uno degli esempi più celebri della spiccata dimensione performativa dei Nuyoricans 153 è Pedro Pietri. Nelle numerose letture ancora disponibili su YouTube della sua poesia più famosa, “Puerto Rican Obituary”, il ritmo incalzante ed ipnotico delle parole ricorda da vicino il rap e l’hip-hop: a dimostrazione di quanto le avanguardie dei Nuyoricans abbiano influenzato non solo la cultura letteraria ma anche quella musicale e delle arti visive154 fino ai giorni nostri. 2.2.3 Letteratura cubano-americana: da Martí ai Mambo Kings L’isola [Cuba] divenne ben presto modello di sincretismo sociale, paradigma di confluenze europee, americane, africane ed asiatiche in assetto dinamico, di concezioni ideologiche, politiche e culturali globali. Aldilà di ogni canone prestabilito, all’isola, dunque, convergono le contraddizioni, e le analogie, del nord e del sud, dell’est e dell’ovest del mondo, tra civiltà e barbarie, erudizione e cultura. Una condizione che ne fa spesso definire l’identità ibrida, instabile, incerta. O forse, più propriamente, a nostro avviso “americana”.155 152 “Responsabili dell’invenzione del nuovo. Il nuovo ha bisogno di parole, parole mai ascoltate o usate prima”. Miguel Algarín e Miguel Piñero, Nuyorican Poetry, 9. 153 Non è un caso che la maggior parte dei poeti del gruppo, fossero anche attori (Piñero reciterà anche in serie televisive di successo come “Miami Vice”) o drammaturghi (ancora oggi Algarín è promotore del “Nuyorican Theater Festival” e del “Puerto Rican Playwrights’/Actors’ workshop”). 154 Basti pensare ai numerosi murales che ricoprono le strade di “Loisaida”. 155 Daniela M. Ciani Forza, America periferica: Letteratura cubano-americana (Venezia: Mazzanti, 2003) 30-31. 75 Cuba ha da sempre rappresentato un “singolare paradigma di ‘americanità’ all’interno del macrotesto nord-americano” 156 per la sua posizione strategica di “chiave dei caraibi” 157 che si infila simbolicamente nel Golfo del Messico, rappresentando il punto di unione tra Nord e Sud del continente, e tra Vecchio e Nuovo mondo. Fin dal 1509, quando – a diciassette anni dal primo sbarco di Cristoforo Colombo – il conquistador Diego Velázquez de Cuéllar vi ha stabilito una postazione speciale per il controllo dei traffici caraibici, sull’isola sono iniziati a confluire migliaia di schiavi africani per sopperire alla carenza di manodopera locale: gli indios taíno, siboney e guanajatabey, sterminati dalle malattie, dal lavoro forzato e dai genocidi. Nei secoli, mentre l’isola diviene sempre più appetibile per la ricchezza delle sue produzioni di zucchero, caffè e tabacco, sono poi approdati gli inglesi – che nel 1762 hanno occupato La Habana da marzo ad agosto, all’interno della Guerra dei Setti anni158 – i francesi in fuga da Haiti, i braccianti emigrati da altre isole dei Caraibi (i contrados), i cinesi e vari emigrati politici dal Sud America e dall’Europa. È a partire dal 1898, che il destino dell’isola si intreccia indelebilmente con quello degli Stati Uniti. Dopo l’intervento di questi ultimi nella Guerra di indipendenza cubana e la sconfitta della Spagna, l’isola diviene infatti un protettorato statunitense. Nel 1902 con la nascita della Repubblica Cubana essa riacquisisce la propria indipendenza formale ma gli Stati Uniti conservano 156 Ibidem, 17. Si veda la chiave presente nello stemma dell’isola, che chiude simbolicamente l’ingresso al Golfo dei Caraibi. 158 Che la Spagna combatté su due fronti (contro la Francia e contro l’Inghilterra) dal 1756 al 1763. 157 76 comunque la facoltà di interferire negli affari interni dell’isola 159 , attraverso ordinamenti specifici come il Platt Amendment (1901)160, o il Treaty of Relations (1934) 161 . Per tutta la prima metà del Novecento quindi Cuba viene inglobata nella sfera di influenza statunitense, subendo forti ingerenze sia economiche sia politiche, come l’alternarsi di regimi spalleggiati dagli Stati Uniti, l’ultimo dei quali, quello del generale Batista, verrà scalzato dalla rivoluzione di Fidel Castro del 1959, che spingerà centinaia di migliaia di cubani che ricoprivano posizioni di rilievo, a cercare rifugio sulle coste della Florida. L’esodo massiccio che inizia a partire da questo momento, non è che il culmine di una lunga tradizione di scambi politici, commerciali, economici, e culturali tra Cuba e gli Stati Uniti che Ciani Forza definisce una “lunga storia parallela e di reciprocità”162, meno conflittuale rispetto alle relazioni con gli altri stati del Sud America. Per la vicinanza, per la posizione strategica e per la ricchezza delle sue piantagioni Cuba ha sempre rappresentato una potenziale estensione del territorio statunitense. Dal canto loro, invece, i cubani erano stati a lungo attratti dagli Stati Uniti, soprattutto a partire dai primi dell’Ottocento, quando i rapporti con la 159 Il Trattato di Parigi aveva posto fine al conflitto Ispano-Americano nel 1898, ma era stato siglato senza concedere a Cuba il diritto di sedere al tavolo delle trattative. Nell’articolo IV stabiliva che Cuba poteva mantenere la sua sovranità e indipendenza ma gli Stati Uniti avrebbero conservato il diritto di intervento su di essa, qualora la pace dell’isola fosse messa a repentaglio. 160 Voluto dal Presidente McKinley per la sua convinzione che i cubani fossero incapaci di governarsi, l’Emendamento Platt sosteneva il diritto dell’isola ad amministrarsi liberamente, assegnando però agli Stati Uniti facoltà d’intervento diretto per preservare l’indipendenza di Cuba qualora fosse minacciata da forze interne o esterne. Gli Stati Uniti si riservavano inoltre il diritto di installare basi navali da poter gestire autonomamente, come quella di Guantánamo, creata nel 1902, per poter garantire un controllo continuativo dell’isola. L’emendamento fu abolito nel 1934 durante il breve mandato del presidente cubano Ramón Grau San Martín, che fu preceduto e seguito da governi dittatoriali e corrotti. 161 Il trattato con cui Cuba veniva fatta rientrare nella “Good Neighbor policy”: la strategia politico-diplomatica del presidente Franklin Delano Roosevelt nei confronti dei Paesi del Sud America. 162 Ciani, America Periferica, 17. 77 madre patria spagnola erano diventati sempre più critici per l’inasprirsi delle tasse e delle misure di controllo esercitate sull’isola. Molti sono i cubani che visitano la Florida per brevi periodi, per turismo, per studio o per affari e a decine di migliaia, appartenenti alle più svariate classi sociali, dagli agricoltori agli intellettuali, decidono proprio a partire dal 1959 di trasferirvisi, in particolare in città come Tampa e Key West, dove si moltiplicano gli hotel, le bodegas, le panetterie cubane e le fabbriche di tabacco. Parallelamente, gli Stati Uniti erano riusciti a penetrare nel tessuto economico e culturale dell’isola rilevando ingenti piantagioni di zucchero, caffè e tabacco, ma anche introducendo innovazioni tecnologiche – come la linea ferroviaria o il telegrafo163 – che avevano aumentato notevolmente la produttività dell’isola. Insieme alle opere di modernizzazione, essi esportarono anche uno stile di vita attraente e nuovi ideali di democrazia e libertà che offrono al popolo cubano, stimoli e spunti di riflessione per definire la propria identità nazionale. La sua posizione di crocevia dei Caraibi e la relazione complessa che ha unito a doppio filo Cuba agli Stati Uniti si riflette inevitabilmente nel dibattito culturale “on and off the island” ed in particolare, nella letteratura cubanoamericana degli ultimi centocinquanta anni. Lo dimostrerebbero intellettuali del calibro di José Martí che esprime più volte nelle sue opere il timore per “el desdén del vecino formidabile”164 e per il rischio che Cuba ne potesse essere inghiottita; o Fernando Ortiz, che introduce il concetto di transculturación come strategia adottata nei secoli dalle culture subalterne (come quella cubana) per incorporare, 163 Già nel 1830 a Cuba un sistema ferroviario di oltre seicento miglia collegava i maggiori snodi di produzione dello zucchero. Il telegrafo fu invece introdotto nel 1851 a soli cinque anni dalla sua invenzione. 164 “Lo sdegno del terribile nemico”. José Martí, “Nuestra América”, 22. 78 trasformare e sovvertire creativamente la cultura che gli viene imposta 165 ; o ancora José Lezama Lima, che nei suoi scritti dedicati all’identità cubana adotta un approccio inter-americano e richiama l’attenzione non solo sulle radici spagnole o sud-americane ma anche su quelle nord-americane ed europee in generale166. Infine è emblematica la posizione di Jorge Mañac, che critica l’isola per il suo cosmopolitismo caotico e dispersivo che l’avrebbe privata di un suo stile autoctono, rendendola una “patria sin nación” 167 . La sua posizione però è diametralmente opposta a quella di Gustavo Pérez Firmat, che attribuisce un risvolto positivo al “mundialismo” cubano, grazia al quale nell’isola si è sviluppata una spiccata “translation sensibiliy” 168 ovvero la capacità di creare forme autoctone nuove proprio a partire dalla necessità di distinguersi da un originale, da un precedente. Tema fondamentale della letteratura Cubana fuori dall’isola è poi quello dell’esilio, del destierro, dello sradicamento, condizione che accomuna sia gli esuli indipendentisti dell’epoca di José Martí, sia i dissidenti che hanno lasciato l’isola a partire dalla rivoluzione comunista 169 , scegliendo come destinazione preferenziale proprio gli Stati Uniti. Di fatto, come conferma il poeta e critico d’arte Ricardo Pau-Llosa, “exile – indeed displacement – has been a constant in the development of the Cuban 165 Fernando Ortiz, “Del fenómeno social de la ‘transculturación’ y de su importancia en Cuba”, (Revista bimestre cubana 46, 1940). 166 José Lezama Lima, El reino de la imagen (Caracas, Venezuela: Biblioteca Ayacucho, 1981). 167 José Mañac, Historia y estilo (La Habana: Minerva, 1944) 64. 168 “Sensibilità traduttiva”. Gustavo Pérez Firmat, My Own Private Cuba: Essays on Cuban Literature and Culture (Boulder: Society of Spanish and Spanish-American Studies, 1999) 11. 169 I flussi migratori sono stati principalmente tre: dal 1959 al 1962 (250.000 cittadini cubani in disaccordo con i principi della rivoluzione), dal 1965 al 1973 (400.000 persone con il consenso straordinario di Castro), e nel 1980 in concomitanza con l’episodio del porto di Mariel. 79 imagination for almost two centuries”170 e gli esuli cubani di ogni generazione hanno convogliato nella propria scrittura il forte vincolo mitico-simbolico171 che continua ad unirli a Cuba, facendoli sentire parte di una comunità diasporica più ampia e transnazionale, slegata dalla propria collocazione geografica o dalla cittadinanza e radicata invece nel comune senso di Cubanía 172 . Con questo termine Fernando Ortíz designa la consapevolezza di essere cubani e il desiderio/responsabilità di mantenere vivo il proprio legame con una patria interiore “que no se puede ni dejar ni perder” e per questo è fortemente sentita, sia dentro sia fuori dall’isola stessa. Non è un caso quindi che tra le prime testimonianze scritte della letteratura cubano americana, ci sia la raccolta di poesie patriottiche El laúd del Desterrado pubblicata a New York nel 1858 ad opera di poeti esiliati, come José María Heredia, autore dell’Himno del desterrado (1825), che prova la longevità della scrittura cubana negli Stati Uniti. Altri esempi significativi sono: il quotidiano El Habanero, papel político, científico y literario pubblicato a Philadelphia a partire dal 1824 dal prete-filosofo Félix Varela per esortare all’indipendenza cubana dalla Spagna; il romanzo abolizionista di Cirilio Villaverde Cecilia Valdés (1882), che ha avuto un ruolo di rilievo nella storia letteraria nazionale di Cuba ma è stato pubblicato durante gli anni che l’autore ha trascorso in esilio a New York; ed infine, il significativo corpus di opere che José Martí, padre fondatore della 170 “L’esilio – anzi lo spostamento – è stata una costante nello sviluppo dell’immaginazione cubana per quasi due secoli”. Ricardo Pau-Llosa, “Identity and Variations: Cuban Visual Thinking in Exile since 1959”, Outside Cuba: Contemporary Cuban Visual Artists = Fuera de Cuba: Artistas Cubanos Contemporaneos, eds. Ileana Fuentes-Pérez et al. (Miami: University of Miami, 1989) 41. 171 In particolare i figli degli esiliati, molti dei quali non hanno mai messo piede sull’isola. 172 Fernando Ortiz, “Los factores humanos de la cubanidad” (Revista Bimestre Cubana 46, 1940). 80 nazione cubana e creatore di forti legami di solidarietà tra i popoli del Sud America, ha scritto dal 1881 al 1895 durante gli anni del suo esilio a New York. Proprio nella metropoli nordamericana, Martí può conoscere Walt Whitman e leggere Leaves of Grass venendone profondamente influenzato, ma può anche entrare in contatto con altri intellettuali cubani, dominicani e portoricani con i quali pubblica saggi, storie, poesie ed articoli in numerose riviste in lingua spagnola come El Mensajero Semanal (1828-1830), El Mercurio de Nueva York (1828-1833), La Patria (1892-1898), La Voz de la América (18651867) e Las Novedades (1893-1918). In quell’epoca, gli Stati Uniti offrivano ai pensatori sudamericani nuovi stimoli intellettuali per poter gettare le basi dell’indipendenza dei propri paesi d’origine e forgiare una nuova identità nazionale, scaturita dal confronto con i concetti di civiltà, progresso e modernità colà elaborati. L’altro grande impulso alla letteratura cubano americana viene dalle ondate migratorie che, a partire dal 1959, proseguono ininterrotte fino ad oggi173. A differenze di ciò che avviene nella produzione portoricana, la letteratura degli esiliati cubani non è ossessionata dal rigetto per la cultura anglo-americana o dalla necessità di conservare lo spagnolo. Trattandosi di dissidenti politici con un livello medio-alto di istruzione174, o di persone che cercano di sfuggire al regime castrista in cerca di migliori condizioni di vita, essi hanno una maggiore 173 Centinaia di migliaia di persone cercano costantemente di raggiungere le coste degli Stati Uniti con mezzi di fortuna o a bordo di zattere (los balseros). Molti perdono tragicamente la vita proprio nella striscia di terra di novanta miglia (circa centoquarantacinque kilometri) che separano la Florida da Cuba. 174 Molti dei quali, soprattutto a seguito della prima ondata migratoria, concepivano la loro presenza negli Stati Uniti come un soggiorno temporaneo, in attesa della caduta del regime di Fidel Castro. 81 motivazione e preparazione per superare l’iniziale isolamento linguistico e sociale, e realizzare le proprie aspirazioni. La critica Isabel Álvarez Borland 175 suddivide gli scrittori cubani negli Stati Uniti in due grandi gruppi: una prima generazione di autori che hanno lasciato l’isola da adulti, dopo avervi studiato o lavorato; e una seconda generazione cha ha abbandonato Cuba con la propria famiglia in tenera età o è nata negli Stati Uniti da immigrati della prima generazione. Il primo gruppo scrive principalmente in spagnolo e nelle proprie opere dà voce al risentimento anticastrista, all’indignazione per le amare conseguenze della rivoluzione ed allo sradicamento politico e psicologico dovuto alla condizione di “desterrados”. Gli Stati Uniti per questi autori rappresentano soltanto uno sfondo temporaneo da contrapporre all’immagine nostalgica ed idealizzata dell’isola. Un esempio di questa produzione è la cosiddetta “poesía del presidio politico” ad opera di autori come Angel Cuadra, Heberto Padilla o Armando Valladeres. Per gli scrittori del secondo gruppo, l’inglese diviene invece la lingua predominante e la loro scrittura sembra riflettere la ricerca costante di un equilibrio tra il voler esser cubani (attraverso la Cubanía, intesa come patria “scelta” ed interiore) ed allo stesso tempo statunitensi. La mediazione tra una cultura “ricordata” ed una “presente” permette a questi autori di analizzare introspettivamente la storia di Cuba ma anche di affrontare con humour ed ironia temi spesso considerati tabù come la critica al modello di vita yankee o allo sfruttamento dei lavoratori immigrati. Figure chiave di questa generazione sono Virgil Suárez, Gustavo Pérez Firmat, Celedonio González, Dolores Prida, Roberto 175 Isabel Álvarez Borland, Cuban Literature of Exile: From Person to Persona (Charlottesville: University of Virginia Press, 1998) 1-13. 82 Fernández, ed Oscar Hijuelos, il primo autore Latino ad aver ricevuto un premio Pulitzer per la narrativa nel 1990 con il best seller The Mambo Kings Play Songs of Love. Sulla scia del successo di Oscar Hijuelos, alla fine degli anni Novanta si è assistito a un vero e proprio “boom” nella produzione degli autori cubano americani di seconda generazione, che non mostra segni di declino, come dimostra l’interesse costante per le loro opere, da parte delle case editrici – sia specializzate in letteratura ispanica, come Arte Público o Bilingual Press, sia mainstream come Doubleday, Farrar and Straus, e Knopf, solo per citarne alcune. L’apice di questa fioritura si è raggiunto tra il 1996 e il 1997, con la pubblicazione di sei romanzi di successo: Memory Mambo di Achy Obeja, Mango, Bananas and Coconut di Himilce Novás; The Agüero Sisters di Cristina García, Going Under di Virgil Suárez e il suo mémoir Spared Angola: Memory from a Cuban American Childhood; per finire con The Chin Kiss King di Ana Veciana Suárez. Sempre alla fine degli anni Novanta, tra il 1994 ed il 1996, sono state inoltre pubblicate cinque significative antologie che hanno dato spazio a ben settanta autori cubano-americani, consolidando quindi la loro “writing force” nell’editoria statunitense: Bridges to Cuba (1994) di Behar and León; Cuba la isla posible (1995) di Ballester, Escalona, e De la Nuez; Puentelibre: más allá de la isla (1995) di Barquet; Little Havana Blues: A Cuban-American Literature Anthology (1996) di Suarez and Poey; e A Century of Cuban Writers in Florida (1996) di Hospital and Cantera. Era dalla pubblicazione nel 1978 di Contra viento y marea, antologia di racconti ed estratti anonimi ad opera dei figli dell’esilio che 83 non si assisteva uno sforzo così notevole di definizione di un’identità collettiva cubano-americana in letteratura. 2.3 Dalla scrittura del sé al Multigenerational Novel My life as a writer, translator, and academic, then, embodies an ethnoscape that is becoming more common for Latinos in the U.S.: one that is carried on over vast geographical spaces, multiple languages, intricate and overlapping histories, and differing ideologies, religions and cuisines. We are fiercely nationalistic and local, and yet carry multiple loyalties that are global; in a country obsessed with racial definition we say, “None of the above” (or “all of the above”). We are Catholics, santeros, and believers in shamanism in a Protestant country. Within us coexist pre-Columbian beliefs, biblical commandments, West African practices of magic, and a collectivist ethos, tested daily in a market-drenched milieu of individualism, work at the expense of family, trivialization of sex and violence, and deification of money. With our rice and beans, we might have a spring roll, along with mashed potatoes and ham. In a country where the 1960s seems as remote (and misunderstood) as ancient Egypt, we carry within us the movements of history: its voluntary and involuntary displacements, migrations, political upheavals, and exiles (the fallout of loyalties and treasons).176 Le parole di West-Durán sono una testimonianza vivente dell’esperienza contrappuntistica ed ibrida vissuta dai Latinos negli Stati Uniti, che proprio nella scrittura, attraverso una costante “dialettica delle differenze”177, sembrano trovare il terreno ideale per mediare le tensioni culturali, razziali, religiose, storiche e linguistiche vissute quotidianamente. Rivendicando il diritto di esistere “tra” ed 176 “La mia vita da scrittore, traduttore e studioso, dunque, incarna un etnoflusso che sta diventando sempre più comune per i Latinos negli Stati Uniti, e si espande attraverso vasti spazio geografici, molteplici lingue, storie intricate e sovrapposte, e diverse ideologie, religioni e cucine. Siamo fortemente nazionalisti ed attaccati ad un luogo, eppure abbiamo uno spirito di appartenenza molteplice e globale; in un Paese ossessionato dalle definizioni razziali diciamo ‘Nessuna di queste’ (o ‘tutte’). Siamo cattolici, santeros, e fedeli dello sciamanesimo in un Paese protestante. Dentro di noi coesistono culti pre-colombiani, comandamenti biblici, pratiche magiche dell’Africa occidentale ed un’etica collettivista, messa alla prova quotidianamente da un individualismo intriso dalle leggi del mercato, dal lavoro che va a discapito della famiglia, dalla banalizzazione del sesso e della violenza, dalla deificazione del denaro. Con il nostro riso e fagioli, passiamo mangiare un involtino primavera, insieme ad un purè di patate e prosciutto. In un Paese in cui gli anni Sessanta sembrano tanto lontani (e fraintesi) come l’antico Egitto, portiamo in noi i movimenti della storia: i suoi spostamenti, le migrazioni, le agitazioni e gli esili (la ricaduta di fedeltà e tradimenti)”. West-Durán, “Crossing Borders, Creative Disorders”, 35. 177 Ramón Saldívar, Chicano Narrative: The Dialectics of Difference (Madison: University of Wisconsin Press, 1990). 84 “oltre” i confini dei molteplici orizzonti culturali di riferimento, essi possono maturare un punto di vista privilegiato, contemporaneamente interno ed esterno sia alla società anglo-americana, sia a quella messicana, portoricana, cubana o latino-americana di provenienza. Come dimostra, pur nella sua esiguità, l’excursus sulle tre letterature appena prese in esame, la spazio culturale dei Latinos può essere configurato secondo il modello lotmaniano di semiosfera178, in cui testi, codici e linguaggi si intrecciano continuamene dando vita ad un cosmo organico ed in perenne espansione. Ogni nuova opera entra di diritto in questo sistema, crea nuove tensioni, ne sposta il centro e lo costringe di volta in volta a ridefinire i confini tra passato e presente, campagna e metropoli, inglese e spagnolo, cristianesimo e culti afro-caraibici, jazz e salsa, fast food e cucina tradizionale, etc. Eliminare una di queste componenti significherebbe smettere di essere Latinos anche se ciascun individuo è libero di oscillare da un lato o dall’altro creando, in particolare nella pagina scritta, una sintesi continua di elementi contrastanti, uno spazio liminale ed estremamente fertile, in cui forgiare continuamente una nuova identità. Ecco perché la definizione che Juan Bruce-Novoa da di Chicanismo, può essere estesa a tutta la produzione letteraria dei Latinos: Chicanismo is the product/producer of ongoing synthesis, continually drawing from what seem to outsiders to be opposing cultural elements. Therefore, the literature proposes an alternative, an “inter” space for a new ethnic identity to exist.179 178 Jurij M. Lotman, La semiosfera: L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti. Venezia: Marsilio, 1985. 179 “Il chicanismo è il prodotto/produttore di una sintesi continua, costantemente generata da elementi che agli estranei sembrano culturalmente opposti. La letteratura propone dunque un’alternativa, un ‘inter’ spazio per l’esistenza di una nuova identità etnica”. Juan Bruce-Novoa, RetroSpace: Collected Essays on Chicano Literature, Theory, and History (Houston: Arte Público Press, 1990) 31. 85 L’“inter-spazio” costituito dalla Latino Literature nasce quindi all’incrocio tra Stati Uniti e America Latina: quest’ultima a sua volta frammentata in ventuno entità nazionali diverse180, ciascuna dotata di un proprio assetto geo-politico, con origini storiche peculiari ed un ricco e variegato passato culturale. Poiché nessuna di queste realtà è in sé monolitica e compatta, ogni tentativo di mediazione messo in atto attraverso un’opera letteraria non può che produrre un caleidoscopio di stili, generi e lingue altrettanto composito e polivalente, che amplifica e da forma alla tensione costante tra “nuestra América” e “América del Norte”181, simbolicamente divise (ed unite) dal Río Grande: una vena aperta di 1.800 miglia, dal Colorado al Golfo del Messico, che condensa nelle sue acque la storia travagliata dell’intero continente. Le guerre di cui è stato teatro ed i molteplici popoli che lo hanno attraversato, ciascuno con la sua lingua, il suo folklore ed il proprio sistema socioeconomico, si riflettono infatti nei settantotto modi diversi182 con cui il fiume è stato denominato nei secoli, tanto da conservare ancora oggi due diversi nomi: Río Bravo del Norte in spagnolo e Río Grande in inglese (o anche “Tortilla Curtain”183 secondo la definizione sarcastica di Stavans, dal titolo del romanzo omonimo di Tom Coraghessan Boyle). 180 Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Guyana Francese, Haiti, Honduras, Messico, Nicaragua, Panamá, Paraguay, Perù, Uruguay, Venezuela, più Porto Rico (stato libero associato degli Stati Uniti). 181 José Martí, “Nuestra América”, 16. 182 Tooh Baʼáadii, Kótsoi, Río Caudaloso, Río de Buenaventura del Norte, Río de la Concepción, Río Guadalquivir, Río de las Palmas, Río of May, Tiguex River, solo per citare alcuni esempi. A nessun altro fiume al mondo sono mai stati attribuiti così tanti nomi. 183 “Tenda tortilla”. Ilan Stavans, “Foreword”, Growing Up Latino: Memoirs and Stories, eds. Ilan Stavans e Harold Augenbraum (Boston and New York: Mariner Books, 1993) xi. 86 Gli scrittori Latinos sono quindi paragonabili a degli “hybrid vessel[s]”184 che navigano nelle acque turbolente delle due Americhe e, allo stesso tempo, nell’“oceano delle idee” 185 in cui secondo Salman Rushdie ogni autore è inevitabilmente immerso, in una fitta rete di influenze (consapevoli o inconsapevoli che li fa essere tutti parte di un “polisistema”186 globale. Ecco perché la mia definizione di Latino Multigenerational Novel inizia riconoscendo il contributo fondamentale di esperienze letterarie diversissime ed ambivalenti come quella di José Martí, influenzato tanto dall’estetica del Modernismo sudamericano quando dal verso libero di Walt Whitman; o quella di César Chávez, che nel difendere i diritti civili dei braccianti chicanos, raccoglie simultaneamente l’eredità di Martin Luther King e del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata; o quella di Pablo Neruda, che dal Cile prende a cuore la causa dei messico-americani e dei portoricani, dedicando versi indimenticabili ai martiri del Moviemento187; o ancora quella di Gabriel García Márquez che con Cien años de soledad ha composto un’“opera-mondo”188, segnando indelebilmente tutta la narrativa multi-generazionale successiva. Trattandosi di un romanzo incentrato sul processo di formazione di un personaggio o narratore attraverso la scrittura, il Latino Multigenerational Novel si ricollega inoltre alla tradizione europea del Bildungsroman, genere letterario 184 Ilan Stavans, “Introduction: The Search for Wholeness”, ixv. Salman Rushdie, Harun e il Mar delle Storie (Milano: Mondadori, 2003) 6. 186 Itamar Even-Zohar, “Polysystem Studies” (Poetics Today 11.1, 1990). 187 Tra gli esempi più noti vi sono l’opera teatrale ispirata al bandito e patriota ottocentesco messicano Joaquín Murrieta e la poesia “La tierra se llama Juan” dedicata a Juan de la Cruz, contadino sessantenne ucciso nel 1973 durante una delle manifestazioni dello United Farm Workers Union. Pablo Neruda, Fulgor y muerte de Joaquín Murieta, bandido chileno injusticiado en California el 23 de julio de 1853 (Santiago de Chile: Zig-Zag, 1967); Pablo Neruda, “La tierra se llama Juan”, Canto General (Fundación Pablo Neruda, 2010). 188 Franco Moretti, Opere mondo: Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine (Torino: Einaudi, 2003). 185 87 che Franco Moretti ha definito “forma simbolica della modernità 189 per la sua capacità di rappresentare la crisi dei valori che investe l’Europa a partire dal Settecento, dando voce ai dilemmi che le giovani generazioni – sempre più mobili, instabili, inquiete e disilluse – si trovano ad affrontare. A partire da quel momento, insieme ad altri generi narrativi affini, come il romanzo autobiografico, i mémoirs, i testimonios, le confessioni o i coming-ofage novels, il Bildungsroman ha offerto nei secoli delle soluzioni armoniche al conflitto tra individualità e socializzazione, ovvero tra l’aspirazione all’autodeterminazione (dettata dalla ricerca di felicità e dall’ideale di costruzione del proprio destino) e l’integrazione sociale (che richiede l’interiorizzazione delle contraddizioni e la loro legittimazione simbolica da parte del singolo). È sulla tradizione del Bildungsroman e sull’idea di crescita personale come conquista dall’“agio sociale” 190 che si innesta anche la scrittura del sé angloamericana – favorita da un diffuso culto dell’individuo, che crea un ambiente favorevole per la condivisione pubblica delle vicende private – con capisaldi che vanno da The Autobiography of Benjamin Franklin (1793), alle opere di ispirazione autobiografica di Harold Brodkey, come Stories in an Almost Classical Mode (1988) o The Runaway Soul (1991). Anche le minoranze etniche si riappropriano di questo genere come reazione alla propria condizione di invisibilità e subalternità, aggiungendo però ai tradizionali modelli narrativi di definizione del sé, la dimensione razziale ed i conflitti interiori derivanti dalla necessità di trovare un equilibrio tra assimilazione ad una cultura acquisita (o imposta) e conservazione delle proprie radici. 189 190 Franco Moretti, Il romanzo di formazione (Torino: Einaudi, 1999) 5. Ibidem, 15. 88 Attraverso la scrittura in questo caso, non solo si crea un “third path” 191 tra le due culture, ma si rende l’esperienza delle minoranze etniche più comprensibile ed accessibile per il pubblico anglo-americano tanto che, riferendosi in particolare alla “ethnic autobiography”, Nicolás Kanellos parla di “melting pot genre par excellence”192. I primi esempi di scrittura del sé da parte di minoranze etniche193 negli Stati Uniti risalgono alla pubblicazione di Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave (1845), seguita da Up from Slavery (1901) di Brooker T. Washington che, grazie anche alle riflessioni di W.E.B. Du Bois in The Souls of Black Folk gettano le basi per la nascita di un’identità e di una tradizione letteraria afro-americana. Se le narrative di auto-definizione dei Black Americans ruotano principalmente intorno all’esperienza della schiavitù, quelle degli ebrei americani che emergeranno di lì a poco, si incentrano soprattutto sull’esperienza dell’emigrazione e sulla dissoluzione dei valori tradizionali importati dall’Europa dell’Est. Mary Antin con The Promised Land (1912) e Abraham Cahan con The Rise of David Levinsky (1917) saranno i precursori di un filone di opere narrative semi-autobiografiche oggi ampliato e reso popolare da autori come Henry Roth, Saul Bellow, Philip Roth e Cynthia Ozick. Sul versante degli ispanici, invece, le due opere cardine delle “Latino coming-of-age stories”, scritte a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sono 191 “Terza via”. Harold Haugenbraum e Ilan Stavans, “Introduction: Soldiers of the Culture Wars growing up latino”, Growing Up Latino: Memoirs and Stories, ed. Ilan Stavans e Harold Augenbraum (Boston and New York: Mariner Books, 1993) xx. 192 “Il genere del melting pot per eccellenza”. Nicolás Kanellos et al.eds., Herencia: The Anthology of Hispanic Literature of the United States (Oxford: Oxford University Press, 2002) 11. 193 Definizione con cui, all’interno di questo paragrafo, mi riferirò indistintamente ai Bildungsroman, ai romanzi autobiografici, ai mémoirs, ai coming-of-age novels e alle opere narrative concepite come auto-definizione da parte di un personaggio o narratore. 89 Pocho romanzo di José Antonio Villareal (1959) e A Puerto Rican in New York and Other Sketches (1961), raccolta di saggi e racconti di Jesús Colón. Anche in questi casi emergono i drammi dell’esperienza migratoria e il senso di usurpazione, territoriale o psicologico, vissuto dai personaggi e fortemente legato all’esperienza autobiografica dell’autore. Nella prima opera, il protagonista messico-americano Richard Rubio esplora i sentimenti contrastanti che lo portano a rigettare sia la cultura dominante angloamericana, sia l’etica ispanica tradizionale dei genitori. Nella raccolta di Colón, invece si descrivono le dure condizioni di vita di un giovane portoricano emigrato a New York, nella prima metà del Novecento. Di lì a pochi anni, si assiste ad una vera e propria fioritura – che continua ininterrotta ancora oggi – di romanzi imperniati sul percorso di crescita di giovani Latinos. A New York si pubblicano Down These Mean Streets (1967) di Piri Thomas, El Bronx Remembered (1975) di Nicholasa Mohr e Family Installments (1982) di Edward Rivera. In California e nel Sud-ovest i primi esempi sono Bless me Ultima (1972) di Rudolfo Anaya, Barrio Boy (1971) di Hernesto Galarza e Hunger of Memory (1982) di Richard Rodríguez. L’urgenza di contrastare l’“invisibilità” rispetto alla cultura dominante che fa da filo conduttore a queste opere, nel prologo di Down These Means Streets si traduce nel grido irriverente che il protagonista Piri alza dai tetti di New York: YEE-AH! Wanna know how many times I’ve stood on a rooftop and yelled out to anybody: “Hey, World – here I am. Hallo, World – this is Piri. That’s me. “I wanna tell ya I’m here, you bunch of mother-jumpers – I’m here, and I want recognition, whatever that mudder-fuckin’ word means”.194 194 “Yee-ah! Voglio sapere quante volte, in piedi su di un tetto, ho gridato a chiunque: ‘Hey, Mondo – sono qui. Ciao, Mondo – questo è Piri. Sono io. ‘Voglio dirvi che sono qui, voi ammasso di maglioni della mamma – Sono qui, e voglio essere riconosciuto, qualsiasi cosa questa fottuta parola voglia dire’”. Piri Thomas, Down These Mean Streets (New York: Vintage Books, 1997) ix. 90 Sul “vascello” degli autori Latinos, grazie ad una spiccata “Translation sensibiliy”195, la scrittura del sé nata dai modelli narrativi tipici della tradizione Europea ed Anglo-americana, viene quindi rielaborata e rinnovata dal di dentro dagli scrittori Latinos ed utilizzata per esplorare le proprie radici etniche. Viene in questo modo forgiato un nuovo spazio culturale che, come conferma Rubén Martínez, “is much more than two. Because wherever I am now, I must be much more than two. I must be North and South in the North, and in the South”196. È da questa rigenerazione e trasformazione interna che nasce anche il romanzo multigenerazionale, attuando quella che Stavans definisce “Silent revolution” o “Moctezuma’s revenge”197. Il riferimento è alla leggenda popolare in base alla quale, non potendo sopraffare il nemico angloamericano con la forza o le armi, l’America Latina ha iniziato a contrastarlo con la creatività. Nel Multigenerationa Novel infatti, alla dimensione genealogica e generazionale della scrittura – approfondite nel primo capitolo – si aggiunge infatti la dimensione etnica, profondamente legata alla complessa storia dei Latinos negli Stati Uniti. Ognuno di questi aspetti (genealogico, generazionale ed etnico) viene ampliato ed esplorato nel respiro multigenerazionale e plurisecolare che caratterizza questo genere, ricreando un’interazione unica tra componenti diacroniche e sincroniche nel processo di definizione di un’identità, portato avanti dai personaggi. 195 “Sensibilità traduttiva”. Gustavo Pérez Firmat, My Own Private Cuba, 11. “E’ molto più di due. Perché, ovunque io mi trovi ora, devo essere molto più di due. Devo essere Nord e Sud a Nord, e a Sud”. Rubén Martínez, The Other Side: Fault Lines, Guerrilla Saints, and the True Heart of Rock’n’ Roll (London & New York: Verso, 1992) 5. 197 “Rivoluzione silenziosa”, “La vendetta di Moctezuma”. Ilan Stavans, “Foreword”, Growing Up Latino, xiii. 196 91 Sarà proprio questa interazione, calata nel contesto socio-culturale più specifico delle comunità etniche messico-americana, portoricana e cubana, che verrà presa in esame nei prossimi capitoli, attraverso le tre opere primarie scelte: A Daughter’s A Daughter (2008) di Nash Candelaria, The Pearl of the Antilles (2001) di Andrea O’Reilly Herrera e Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic (1983) di Edward Rivera. 92 Parte Seconda Gli autori e i loro romanzi 93 94 Capitolo 3 Nash Candelaria, Andrea O’ Reilly Herrera ed Edward Rivera 3.1 Nash Candelaria: A True Child of New Mexico Nash Candelaria is one of our most enduring U.S. Hispanic writers. He is not only personally enduring; his oeuvre is inextricably tied to the struggle to sustain Hispanic culture in the face of countless adversities, and both he and his works cross two centuries. Nash started before the full advent of Chicanismo and Chicano literature, when he and others, such as Aristeo Brito, Ana Castillo, Rodolfo “Corky” Gonzales, and Miguel Méndez, had to self-publish for their work to see daylight. Then his historical novels won major awards and recognition, and his writing began to appear in what eventually has become too many anthologies to mention.198 Le parole con cui Gary Francisco Keller 199 apre la sua introduzione a Second Communion – il mémoir che Candelaria pubblica nel 2010 – racchiudono due dei tratti distintivi dell’esperienza umana e professionale dell’autore: 198 “Nash Candelaria è uno dei più duraturi scrittori ispanici negli Stati Uniti. Non è soltanto una persona longeva; la sua opera è indissolubilmente legata alla lotta per sostenere la cultura ispanica di fronte ad infinite avversità, e sia lui che la sua narrativa attraversano due secoli. Nash ha iniziato prima del pieno avvento del Chicanismo e della letteratura chicana, quando lui e altri, come Aristeo Brito, Ana Castillo, Rodolfo ‘Corky’ Gonzales e Miguel Méndez, dovevano pubblicare in proprio le loro opere, affinché potessero vedere la luce. In seguito i suoi romanzi storici hanno vinto prestigiosi premi e riconoscimenti ed i suoi scritti sono apparsi in antologie, che alla fine sono diventate troppo numerose per essere citate. Gary Francisco Keller, “Introduction: Nash Candelaria in the Round”, Second Communion. Nash Candelaria (Tempe: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2010) xiii. 199 Nel 2008, dopo essersi convertito alla religione cattolica, Gary Keller aggiunge al suo nome il middle name Francisco, in onore a San Francesco di Assisi, per il quale nutre una profonda devozione. Per rendere omaggio al ruolo che il santo ha svolto e continua a svolgere nella storia della cristianità e in particolare nelle Americhe, dal 2010 Keller coordina anche il progetto di ricerca Saint Francis and the Americas/San Francisco y las Américas (SFA) i cui risultati sono pubblicati nella pagina web: <http://sanfrancisco.asu.edu/index.htm>. Data di accesso 27 gennaio 2013. 95 l’appartenenza alla comunità messico-americana e l’impegno con cui ha cercato di darne una rappresentazione letteraria quanto più possibile genuina e veritiera, attraverso la sua narrativa. Alla pubblicazione del suo primo romanzo storico – Memories of the Alhambra (1977), oggi considerato un caposaldo della letteratura chicana – seguono infatti le altre saghe familiari che compongono la tetralogia della famiglia New Mexican dei Los Rafas: Not by the Sword (1982) – con il quale si aggiudica l’American Book Award nel 1983 – Inheritance of Strangers (1985) e Leonor Park (1991). Nel frattempo, i suoi racconti vengono pubblicati in due raccolte: The Day the Cisco Kid Shot John Wayne (1988) e Uncivil Rights and Other Stories (1998) e, allo stesso tempo, appaino in numerose riviste ed antologie200. La sua carriere culmina quindi con le più recenti opere narrative: il romanzo multigenerazionale A Daughter’s a Daughter (2008) ed il mémoir Second Communion (2010) grazie al quale nel mese di maggio 2011 riceve due significativi riconoscimenti: una recensione nel New Mexico Magazine – fondato a Santa Fé nel 1923 ed oggi considerato la più antica rivista a tiratura nazionale – e una menzione d’onore in occasione dell’International Latino Book Award, tra le biografie in lingua inglese. 200 Tra le antologie più significative in cui appaiono le sue opere si vedano: Francisco Jiménez e Gary D. Keller eds., Hispanics in the United States: An Anthology of Creative Literature (Ypsilanti, MI: Bilingual Review Press, 1980); Nicolás Kanellos ed. A Decade of Hispanic literature: An Anniversary Anthology (Houston, TX: Revista Chicano-Riqueña, 1982); Gillan, Maria M., e Jennifer Gillan eds., Growing up Ethnic in America: Contemporary Fiction about Learning to Be American (New York: Penguin Books, 1999); Ilan Stavans ed., Wachale!: Poetry and Prose about Growing Up Latino (Chicago: Cricket Books/Marcato, 2001); Ilan Stavans et al., The Norton Anthology of Latino Literature (New York and London: Norton, 2010). I suoi racconti e saggi sono inoltre apparsi in numerose riviste letterarie come Aztlán: A Journal of Chicano Studies, Bilingual Review/Revista Bilingüe, De Colores, Hopscotch: A Cultural Review, Puerto del Sol, Revista Chicano-Riqueña e RiverSedge. 96 Nonostante sia nato a Los Angeles nel 1928 ed abbia trascorso la maggior parte della sua vita in California, Candelaria si è sempre considerato “by heritage and sympathy […] a Nuevo Mexicano” 201 per la sua appartenenza ad un’antichissima famiglia di coloni di Albuquerque e per i continui spostamenti tra la California e il New Mexico che hanno caratterizzato la sua infanzia. Dovuti sia al lavoro del padre (impiegato del servizio postale ferroviario – sulla linea che collegava Los Angeles a El Paso), sia alle frequenti visite estive a nonni e parenti (“our annual summer […] pilgrimage”202), questi viaggi gli hanno permesso di cogliere gli aspetti più salienti dell’identità degli ispanici del New Mexico. Come è emerso dalla meticolosa ricerca genealogica che lo stesso autore ha condotto negli anni Settanta con l’intento di trasmettere ai figli la propria genealogia di chicano (“Chicano heritage”203), i primi Candelaria di cui si ha una testimonianza storica, sono i sopravvissuti alla Rivolta Pueblo del 1680, che costrinse interi villaggi di coloni e missionari ad abbandonare l’allora provincia spagnola del Nuovo Messico204. Grazie ad una menzione nel libro del frate francescano Angélico Chávez, Candelaria scopre che Ana, vedova di Blas de Candelaria, fa coraggiosamente ritorno nei territori perduti tra il 1692 e il 1693, in occasione della riconquista, 201 “Per eredità ed affinità […] un Nuevo Mexicano”. Juan Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview” (De Colores 5.1-2, 1980) 116. 202 “Il nostro annuale pellegrinaggio estivo”. Nash Candelaria, Second Communion (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2010) 15. 203 “Eredità chicana”. Candelaria, Second Communion 180. Candelaria dedica ampie pagine del suo mémoir all’indagine genealogica sui primi antenati di famiglia. La sua fonte principale è stata l’opera di un frate francescano originario del New Mexico: Fray Angélico Chávez, Origins of New Mexico Families (Museum of New Mexico, 1992). 204 A seguito dell’insurrezione delle tribù indigene Pueblo, sollevatesi contro l’oppressione dei conquistatori. Per maggiori approfondimenti storici sulla Rivolta Pueblo, si veda Robert W. Preucel ed., Archaeologies of the Pueblo Revolt: Identity, Meaning, and Renewal in the Pueblo World (Albuquerque: University of New Mexico Press, 2002); in particolare il capitolo 1, scritto dallo stesso Preucel, “Writing the Pueblo Revolt”, 3-32. 97 insieme ai figli Feliciano e Francisco, che saranno tra i fondatori dell’allora Villa de Albuquerque, nel 1706. Da quel momento, la sua famiglia si stabilizza nella piccola comunità agricola dei Los Candelarias, a Nord di Albuquerque, dove avranno i natali la maggior parte dei suoi antenati, fino al padre José Ignacio (nel 1905). Tra questi spicca un avo con il quale Candelaria sembra identificarsi più di ogni altro: Juan Antonio, che intorno al 1776, superati gli ottanta anni, pubblica un manuale di storia del New Mexico. Il suo racconto però non sempre è attendibile e rigoroso, tanto da far scrivere al suo discendente che “Juan Antonio might have been described as a fiction writer than a historian, and perhaps it was from him that I inherited my inclinations”205. La fervida immaginazione genealogica di Nash Candelaria, avvalorata dalle ricerche condotte dallo stesso autore sarà determinante per la formazione della sua identità di “American of New Mexican Ancestry”206, oltre che per la sua sensibilità di scrittore. Da un lato, questa rafforza infatti la sua profonda passione per la storia e lo rende consapevole dell’influsso che essa proietta sulla realtà presente; dall’altro, accresce la sua identificazione con il passato della propria famiglia e con le vicende del Sud-ovest degli Stati Uniti, di cui l’autore si riappropria attraverso una spiccata “Genealogical experience of history”207, che permea tutta la sua opera letteraria: 205 “Juan Antonio potrebbe essere definito un romanziere, più che uno storico, e forse è da lui che ho ereditato le mie inclinazioni”. Candelaria, Second Communion, 26. 206 “Americano con origini New Mexican”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 121. 207 “Esperienza genealogica della storia”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, 21. La profonda consapevolezza storica di Candelaria è alimentata da quello che Raymond Smitt definisce uno stato di “Immortalità simbolica”, ovvero l’insieme di musei, banconote, monumenti, nomi di strade, tradizioni o cimeli di famiglia che rafforzano l’influsso del passato sul nostro presente. Questa condizione è particolarmente rilevante per Candelaria, basti pensare che, ancora oggi, Candelaria Road è una delle arterie principali di Albuquerque. Lo stesso autore lo ribadisce con orgoglio nel suo mémoir quando afferma: “Candelaria Road, named after my family. […] [E]nded 98 There is something in our genes that is an emanation of our history. For I swear that a thin umbilical connects me back through the generations to those pioneer settlers whose inscription on Morro Rock simply reads ‘pasó por aquí’. It connects me with pride in their courage and faith, in their toughness and tolerance, in spite of whatever cruelty and ignorance existed at the time. It connects me to what brought these strangers to this alien country long ago to help create this land of many cultures.208 Candelaria riesce quindi a ritrarre, come nessun altro aveva fatto prima, l’esperienza peculiare e minoritaria dei New Mexican Chicanos il cui passato – più che quello di altre minoranze ispaniche – è indelebilmente segnato da ripetute sconfitte ed espropriazioni. Come indios sono stata infatti vittime degli spagnoli nel XVI secolo, successivamente come mestizos sono stati invece vittime degli anglo-americani, nel XIX secolo. La colonizzazione dei conquistadores – a discapito degli indiani Pueblos che si erano insediati nelle alte valli del Río Grande ed in varie altre zone del New Mexico fin dall’Undicesimo e Dodicesimo secolo – inizia nel 1598 quando Juan de Oñate, su ordine di Filippo II di Spagna, avvia la spedizione che lo porterà a creare la provincia di Santa Fé de Nuevo México, di cui sarà il primo governatore. Dopo duecentoventitre anni di appartenenza al vicereame della Nuova Spagna, nel 1821, a seguito della Guerra di indipendenza messicana, il New Mexico si emancipa dalla madre patria divenendo parte del primo Impero Messicano di Agustín de Iturbide, trasformato – di lì a pochissimi anni – nella prima Repubblica Federale Messicana. L’annessione al Messico sarà però una parentesi breve, che si at the Río Grande / Candelaria Road, che prende il nome dalla mia famiglia. […] [T]erminava nel Río Grande”. Candelaria, Second Communion, 17. 208 “C’è qualcosa nei nostri geni che è un’emanazione delle nostra storia. Perché credo fermamente che un sottile nodo ombelicale mi ricollega alle generazioni passate, fino a quei coloni pionieri che scrissero nella Morro Rock ‘pasó por aquí’. Mi ricollega con orgoglio al loro coraggio e alla loro fede, alla loro forza e tolleranza, nonostante la crudeltà e l’ignoranza che potevano esistere al tempo. Mi ricollega a ciò che ha portato questi forestieri in questo paese sconosciuto tempo fa, per contribuire a creare questa terra di molte culture”. Candelaria, Second Communion, 11. 99 chiude nel l846 con lo scoppio della Guerra messico-americana e la successiva incorporazione ai territori degli Stati Uniti, sancita dal trattato di Guadalupe Hidalgo209. L’esser sopravvissuti a secoli di avversità e scorrerie, conservando con fermezza le proprie radici spagnole in una terra ostile, teatro di scontri con i nativi d’America ma anche di invasioni militari e “culturali” da parte degli angloamericani, conferiscono ai cosiddetti “old-time New Mexicans”210 – un forte orgoglio ed uno spiccato senso di identificazione con i propri antenati iberici. La loro fierezza li porta a prediligere la discendenza dai Conquistadores bianchi spagnoli, rinnegando ogni “disonorevole” forma di meticciato con i nativi d’America o con la popolazione messicana. Come conferma Juan Bruce-Novoa: “La historia justifica esta actitud: Nuevo México estuvo incorporado a México sólo durante unos veintisiete años y no participó en los proyectos y luchas nacionales que han llegado a forjar el México moderno”.211 Oltre al peso della storia, vanno considerati i pregiudizi razziali angloamericani, che condizionano tanti membri di minoranze etniche durante tutto il Novecento, come conferma anche l’esperienza del padre di Nash Candelaria. Ignacio prova infatti a farsi strada nella cultura dominante bianca del Sud-Ovest, 209 Per approfondimenti sui primi insediamenti indiani nel Sud-Ovest si vedano: il volume 1 di Bruce E. Johansen e Barry Pritzker eds., Encyclopedia of American Indian History (Santa Barbara, CA: ABC-CLIO, 2008), in particolare i “Chronological Essays”, 2-39; e Marc Simmons, New Mexico: An Interpretive History (Albuquerque: University of New Mexico Press, 1977), in particolare il capitolo 2 “The Pueblos” 45-77. Sulla storia del New Mexico tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo e sulla formazione dell’identità “novomexicana”, oltre al volume di Simmons appena citato, si veda: John M. Nieto-Phillips, The Language of Blood: The Making of SpanishAmerican Identity in New Mexico, 1880s-1930s (Albuquerque: University of New Mexico Press, 2004). 210 “New Mexican di altri tempi”. Candelaria, Second Communion, 23. 211 “La storia giustifica questo atteggiamento: il New Mexico è stato incorporato al Messico solo per ventisette anni e non ha partecipato ai progetti e alle lotte nazionali che hanno permesso di forgiare il Messico moderno”. Juan Bruce-Novoa, “Candelaria, novelista” (Plural 16. 191, 1987), 41. 100 in un’epoca di forti discriminazioni, in cui erano ancora frequenti cartelli come “No Mexicans or dogs allowed”212. Nonostante le origini meticcie, evidenti anche dal suo aspetto (“His dark face with a hint at the Pueblo”213) – Ignacio ha sempre rivendicato con orgoglio le proprie radici spagnole, arrivando a modificare la voce riguardante la razza sul certificato di nascita del figlio: “Color or race of father and mother were changed from Mexican to white Spanish American for father and white Spanish-Anglo American for mother”214. Grazie anche a questo “Game of self-identification as Spanish”215 – che Candelaria riconduce ad una strategia di sopravvivenza del padre – l’autore prende parte simultaneamente a due mondi: il meanstream angloamericano e la cultura tradizionale ispanica. Cresce infatti in un quartiere bianco e benestante di Los Angeles, appositamente scelto da Ignacio per garantire ai figli un’istruzione di qualità, in un ambiente adeguato 216 . Negli studi raggiunge sempre ottimi risultati, spinto anche da un certo “drive to excel” 217 che, a posteriori, Candelaria rileggerà come una reazione inconsapevole ai pregiudizi contro gli ispanici. L’inglese è fin da subito la sua lingua madre sia a scuola, sia in famiglia, poiché i genitori evitano volutamente di utilizzare lo spagnolo, per una più facile integrazione nella cultura dominante. 212 “Messicani e cani non possono entrare”. Candelaria, Second Communion, 30. “Il suo viso scuro con un accenno di Pueblo”. Ibidem, 28. Le origini meticcie di Ignacio sono evidenti anche dalle foto che arricchiscono il mémoir di Candelaria. 214 “Il colore o la razza di padre e madre furono cambiati da Messicano a Ispano-americano bianco per il padre e Ispano-angloamericana bianca per la madre”. Ibidem, 30. 215 “Gioco di auto-identificazione come spagnolo”. Ibidem. 216 Di fatto, la loro fu la prima famiglia ispanica a comprare una casa a 1247 West 59th Street, in un’epoca in cui “Los Angeles […] was a ghettoized city – as it probably still is. Housing may not have been overtly segregated by law, but in essence that’s the way things worked out / Los Angeles […] era una città ghettizzata – come forse è ancora. Le abitazioni non erano segregate per legge, ma in sostanza le cose funzionavano così ”. Ibidem, 62. 217 “Impulso ad eccellere”. Ibidem. 213 101 Contemporaneamente Nash può conoscere anche la realtà, rurale e periferica del New Mexico, grazie alle ripetute visite ai nonni ed ai numerosi parenti, che accolgono la sua famiglia con grande calore ed affetto. Ad Albuquerque Candelaria può immergersi nella cultura New Mexican: entra in contatto con la storia della propria famiglia e con le tradizioni cattoliche, gioca con i cugini (“who were tolerant of their city cousins’ inability to speak much Spanish”218) e interagisce con la nonna Eutemia, che gli fa provare un forte senso di inadeguatezza per l’incapacità di parlare spagnolo: “I often wondered what stories she would have told if I had seen her more often and could have understood Spanish better. She never learned English even though she was born in U.S. territory”219. Questa continua frizione tra universi culturali “Anglo” e New Mexican, sarà fondamentale per la definizione di una propria identità personale: There was Los Angeles and mainstream middle America where we were different and in the minority, making our way in the Anglo world. And there was New Mexico where family and friends were warm, receptive, and definitely like us. We faced difficult questions: Could we belong to both worlds, or must we, like others we knew, belong to only one? If so, which one? Or would we be like those rare tortured and alienated souls who belong to neither?220 Durante la sua infanzia Candelaria non è consapevole dello “schism” esistente tra questi due mondi e si muove “like a fish unconscious of the water in 218 “Che tolleravano l’incapacità di parlare spagnolo dei loro cugini dalla città”. Candelaria, Second Communion, 18. 219 “Mi chiedevo sovente quali storie avrebbe raccontato se l’avessi vista più spesso e se avessi potuto capire meglio lo spagnolo. Lei non imparò mai l’inglese, sebbene fosse nata in territorio statunitense”. Ibidem, 174. 220 “C’era Los Angeles e la cultura dominante in cui eravamo diversi e in minoranza, cercando di farci strada nel mondo ‘Anglo’. E c’era il New Mexico in cui la famiglia e gli amici erano calorosi, aperti e decisamente come noi. Affrontavamo quesiti difficili: potevamo appartenere ad entrambi i mondi o, come altri che conoscevamo, dovevamo appartenere solo ad uno? Se così fosse, a quale? O saremmo stati come quelle anime rare, torturate ed alienate che non appartengono a nessuno dei due?”. Ibidem, 22. 102 which it swam”221. Crescendo inizia però a prenderne gradualmente coscienza, soprattutto per i numerosi “ethnic incidents” che gli fanno percepire la sua diversità, da entrambe le parti. Durante il suo primo giorno di scuola elementare ad Albuquerque, ad esempio, alcuni compagni meticci come lui lo cacciano dalla classe chiamandolo “traitor” perché incapace di parlare spagnolo: Candelaria ricorda l’episodio come una delle sue “early lessons in intolerance”222. Più tardi, in una scuola di Los Angeles, si sentirà fortemente in imbarazzo durante una lezione di educazione artistica in cui gli viene richiesto di indossare un costume da Charro e di posare come modello mentre il resto della classe avrebbe fatto il suo ritratto: “I hated it! What did this Mexican cowboy suit have to do with me? My heritage was New Mexican. We were poor farmers who never wore charro suits. We had been American for a hundred years”223. Durante la nostra intervista invece, Candelaria ha ricordato il giorno in cui suo padre lo ha presentato agli amici come il figlio “americanizzato”, in un misto di imbarazzo ed orgoglio: “my father once took me when he visited friends – I was ten or eleven years old – and described me as ‘muy agringado’, very gringoized, with a mixture of apology and pride”224. Eppure, al contrario di suo padre Ignacio o di José – il protagonista del suo primo romanzo storico Memories of the Alahambra, che muore senza essersi mai riconciliato con le proprie origini meticcie – Candelaria accetterà fino in 221 “Scisma”; “Come un pesce inconsapevole delle acque in cui nuotava”. Ibidem, 63. “Traditore”, “Lezioni precoci di intolleranza”. Ibidem, 12. 223 “L’ho odiato! Che cosa c’entravo io con quest’abito da cowboy messicano? Le mie origini erano New Mexican. Eravamo contadini poveri che non hanno mai indossato un abito da charro. Eravamo americani da cent’anni”. Ibidem, 64. 224 “Mio padre una volta mi ha portato con lui durante una visita a degli amici – avevo dieci o undici anni – e mi ha descritto come ‘muy agringado’, molto aggringato in un misto di scuse e orgoglio”. Nash Candelaria e Mara Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”. Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera e Edward Rivera. Mara Salvucci. Tesi di Dottorato. Università di Macerata. 2013. Capitolo 5. 222 103 fondo le molteplici e contrastanti componenti culturali che forgiano la sua esistenza, trovando, in particolare nella scrittura, le risposte ai difficili quesiti che ogni ethnic American si trova a dover rispondere: I am a true child of New Mexico’s culture: the Spanish whose surname I bear, the Native American whom many in the family will not admit to and whose looks and complexion I share, and a dollop of Anglo, like a latter-day grace note, to remind me that I am part of the mainstream, no matter what anyone else may surmise from my physical appearance.225 Ecco perché la definizione di chicano con cui Candelaria si identifica maggiormente è quella fornita da José Antonio Burciaga in Drink Cultura: Chicanismo, che include tutti coloro che risiedono negli Stati Uniti ed hanno origini messicane (discendenti dagli indios del Sud-est, dal Messico stesso o da altri Paesi del Sud America), sottolineando in particolare che “[a] Chicano is both Hispanic and Indian. […] Our ancestors are not only the conquistadores, but the conquered. It is our vanquished heritage that has haunted us and been ignored”226. Ed ecco perché nel descrivere il matrimonio con la moglie Doranne Godwin, discendente dai primi immigrati inglesi e irlandesi che colonizzarono il Sud degli Stati Uniti, Candelaria ricorre ad un’efficace metafora fluviale, che rievoca la secolare fusione di razze al cuore della storia di tutto il Nord America: The daughter of the American Revolution meets one of Oñate’s orphans, while lurking dimly in both backgrounds are the first Americans who greeted both English and Spanish when they came ashore without visas or green cards. In another sense it was like the Mississippi River and the Río Grande joining to form the Great American Mainstream.227 225 “Sono un vero figlio della cultura del Nuovo Messico: lo spagnolo del mio cognome, l’indiano d’America che molti nella famiglia non riconoscono e di cui porto lo sguardo e la carnagione, e un pizzico di anglo, come un abbellimento dell’ultima ora, per ricordarmi che sono parte della cultura dominante, a prescindere da ciò che gli altri possano supporre dal mio aspetto fisico”. Candelaria, Second Communion, 11. 226 “Un chicano è sia ispanico sia indiano. […] I nostri antenati non sono solo i conquistadores, ma i conquistati. Sono le nostre origini da sconfitti che ci hanno perseguitato e sono state ignorate”. José Antonio Burciaga, Drink Cultura: Chicanismo (VNR AG, 1993) 49. 227 “La figlia della Rivoluzione Americana incontra l’orfano di Oñate, mentre celati oscuramente in entrambi gli ambienti vi sono i primi americani che accolsero sia l’inglese che lo spagnolo 104 Di fatto, Candelaria è totalmente immerso nel “Great American Mainstream” e quando Tom Clagett, nell’intervista per il New Mexico Magazine, gli chiede come si possano conciliare l’impegno nel descrivere le difficoltà di chi cresce messicano in California con l’importanza della competitività americana, Candelaria risponde: I’m American first and, culturally, New Mexican Spanish second. I can be called Hispanic, Latino, or Chicano, but I have to emphasize I’m American. […] I see myself as an American writer.228 Di fatto, fin dagli anni della scuola, la sua formazione è tipicamente angloamericana, come è evidente dalle sue prime letture che, oltre ai classici del teatro – i greci, Henrik Ibsen ed Eugene O’Neill – includono James Joyce, Ernest Hemingway, Scott Fitzgerald e William Faulkner. Il suo contatto con la letteratura ispanica avverrà invece molto più tardi, e sempre attraverso traduzioni in inglese delle opere originali, come conferma lo stesso autore: “My early reading did not include Spanish literature other than Don Quixote, nor material in Spanish. I was, for better or worse, an Anglicized Chicano”229. Sarà sempre attraverso le versioni tradotte che potrà leggere ed apprezzare sia le poesie azteche anonime dedicate alla Conquista, sia le opere di Octavio Paz o Carlos Fuentes, quest’ultimo definito “a marvelous writer of world class”230. quando sbarcarono senza visto, né carte verdi. In altre parole, era come se il fiume Mississippi ed il Río Grande si unissero per formare la Grande cultura americana”. Candelaria, Second Communion, 164. 228 “Sono in primo luogo americano e – in secondo luogo, culturalmente – uno spagnolo del New Mexico. Posso esser chiamato ispanico, latino o chicano, ma devo sottolineare che sono americano. […] Mi vedo come uno scrittore americano. Tom Clagett, “Bringing It Home. Featured Author: Nash Candelaria” (New Mexico Magazine 89.5, 2011) 67. 229 Le mie prime letture non includevano letteratura spagnola eccetto il Don Chisciotte, né materiale in spagnolo. Nel bene e nel male, ero un chicano anglicizzato”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 119. 230 “Uno scrittore straordinario di classe mondiale”. Ibidem, 121. 105 I suoi autori chicani di riferimento sono invece Raymond Barrio e Rudolfo Anaya. Il primo in particolare – autore di The Plum Plum Pickers (1969), romanzo che denuncia lo sfruttamento dei contadini messico-americani in California – sarà fondamentale per la sua carriera di scrittore. A metà degli anni Settanta, dopo aver cercato invano una casa editrice per Memories of the Alhambra, Candelaria decide di frequentare il corso universitario tenuto proprio da Raymond Barrio sulla pubblicazione in proprio di un’opera letteraria. Durante le lezioni, Barrio coglie le grandi potenzialità del manoscritto di Candelaria e lo sprona a fondare la Cíbola Press, attraverso la quale potrà stampare e distribuire il suo primo romanzo. La sua ammirazione per Rudolfo Anaya – autore di Bless Me Ultima, oggi considerato un classico del canone narrativo chicano – è invece rafforzata dal sostrato culturale comune dei due autori. Entrambi provengono infatti dal New Mexico e sono guidati da un comune desiderio di descrivere genuinamente le tradizioni rurali della propria terra, includendo figure leggendarie e mitologiche come la curandera o la llorona. Nonostante le affinità, le opere dei due autori si contraddistinguono però per una differenza cruciale: il punto di vista interno (per l’uno) ed esterno (per l’altro) sulla propria terra d’origine, come lo stesso Candelaria spiega: I read more of the work of another New Mexico Latino writer, Rudolfo Anaya, than of other Latinos. He grew up in a small town in New Mexico, didn’t speak English until he attended school (6 years old?), worked professionally as a public school and university teacher, and knows the culture from the inside. I know the culture from the outside growing up in urban California, had parents who did not speak Spanish to me and my sister, wanted us to be mainstream Americans, and I worked in advertising mostly for companies in Silicon Valley. I observed the New Mexico Latino Culture on summer vacations to Albuquerque visiting relatives who mostly lived on small farms. Rudy writes about the culture. I write as an ouside observer dealing more 106 with the history of Latinos in New Mexico and with making their way in an Anglo world.231 Candelaria mantiene questa posizione di “osservatore esterno” (ed interno allo stesso tempo) non solo relativamente alla cultura New Mexican, ma anche rispetto al mondo letterario in generale. Il suo approccio anti-accademico emerge in particolare dalla sua risposta alla domanda di Bruce-Novoa sull’utilità o meno dell’istruzione formale nell’attività di uno scrittore creativo: “My own bias is that too much formal education can hurt a creative writer. Some of the American writers I admire the most (Hemingway, Faulkner, O’Neill) are not college-trained people. But, if you go to college to study something other than writing in order to make a living – that’s fine”232. Questo atteggiamento deriva, in primis, dalla formazione non tradizionalmente umanistica dell’autore che, nel 1948, è stato tra i primi studenti di origini ispaniche a conseguire un titolo universitario, laureandosi in chimica 231 “Rispetto al resto degli autori Latinos, leggo maggiormente le opere di un altro scrittore ispanico del New Mexico, Rudolfo Anaya. Cresciuto in un piccolo paese del New Mexico, ha iniziato a parlare inglese a scuola (a circa 6 anni), ha lavorato da professionista come docente sia nella scuola pubblica sia all’università e conosce la cultura dal di dentro. Io conosco la cultura dal di fuori, essendo cresciuto in una California urbana, con genitori che non parlavano spagnolo né a me né a mia sorella e volevano che diventassimo Americani mainstream. Ho lavorato prevalentemente in ambito pubblicitario per aziende della Silicon Valley. Osservavo la cultura ispanica del New Mexico durante le vacanze estive ad Albuquerque, quando andavamo a trovare i parenti che vivevano principalmente in piccole fattorie. Rudy descrive la cultura. Io scrivo da osservatore esterno e mi occupo di più della storia dei Latinos del New Mexico e del loro farsi strada nel mondo Anglo”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5. 232 “La mia convinzione è che troppa istruzione formale possa danneggiare uno scrittore creativo. Alcuni degli scrittori americani che ammiro di più (Hemingway, Faulkner, O’Neill) non hanno avuto una formazione universitaria. Ma se vai all’università per studiare qualcosa di diverso dalla scrittura, per sopravvivere – allora va bene”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 119. Sempre nell’intervista condotta da Bruce-Novoa, Candelaria ribadisce ripetutamente il suo approccio anti-accademico alla scrittura e il suo essere esterno al mondo della critica letteraria, con espressioni come: “Not being very knowledgeable about Chicano literature, I find it hard to answer this question / Non essendo molto esperto di letteratura chicana, è difficile per me rispondere a questa domanda” (120); “I’m not familiar enough with Puerto Rican literature to comment on it other than briefly / Non conosco sufficientemente la letteratura portoricana, posso fare solo brevi considerazioni” (124); “I’m not well enough versed in Chicano literature / Non sono sufficientemente esperto di letteratura chicana” (125); “The outstanding qualities of the little Chicano literature I’ve read is its passion / Il pregio lampante della poca letteratura chicana che ho letto è la passione” (127); “I am not knowledgeable enough about Chicano literature to know the important milestones. I’ll live that to the professors. I’m only a writer / Non sono sufficientemente competente di letteratura chicana per conoscerne le pietre miliari. Lascerò questa [risposta] ai professori. Io sono soltanto uno scrittore (128)”. 107 presso la University of California di Los Angeles e iniziando a lavorare subito dopo per un’azienda farmaceutica californiana233. Durante l’attività da tecnico di laboratorio Candelaria porta avanti la carriera militare, arruolandosi nello U.S. Naval Reserve nel 1948 e prestando servizio attivo per l’aeronautica militare dal 1952 al 1953, anno in cui viene congedato, successivamente alla firma dell’armistizio che pone fine alla guerra in Corea. Dopo aver lavorato come redattore per le pubblicazioni scientifiche della North American Aviation, Candelaria viene assunto da un’agenzia pubblicitaria di Los Angeles, e continuerà ad occuparsi di questo settore, fino alla decisione di dedicarsi appieno alla scrittura, a partire dagli anni ottanta. Parallelamente ai suoi impegni lavorativi e familiari (sarà padre di due figli, David e Alex), Candelaria ha sempre nutrito una profonda passione per la scrittura che ha coltivato attraverso corsi serali di psicologia, filosofia, antropologia e scrittura creativa: “the desire to write was like a candle flickering in the dim recesses of my mind […] ready to become a bonfire at the proper time” 234 . Ma è durante il servizio prestato per l’aeronautica militare nel Mississippi che Candelaria inizia a dedicarsi in modo continuativo ai suoi esperimenti narrativi, scrivendo nei momenti liberi e leggendo in particolare Faulkner, al quale si appassiona profondamente, per lo stile asciutto ed oggettivo con cui descrive le popolazioni del Sud degli Stati Uniti. All’età di quarantanove anni, dopo sette tentati romanzi ed innumerevoli sforzi per trovare case editrici o riviste disposte a dare visibilità alle sue opere, 233 Candelaria testimonia la bassissima percentuale di studenti Latinos nel campus universitario dell’UCLA sia nell’articolo “Education in Gringoland: UCLA 1944-1948” (Aztlán: A Journal of Chicano Studies 30.1, 2005), 149-152; sia nel capitolo 28 di Second Communion, 110-113. 234 “Il desiderio di scrivere era come una candela tremolante nei recessi oscuri della mia mente […] pronta a diventare un falò al momento opportuno”. Candelaria, Second Communion, 178. 108 Candelaria pubblica Memories attraverso la Cíbola Press, che gestisce con l’aiuto della moglie Doranne. In questo modo riesce a superare sia le difficoltà derivanti dalla sua estraneità al mondo accademico e dell’editoria, sia i pregiudizi per la provenienza da una minoranza etnica, all’epoca ancora poco conosciuta. Come lo stesso autore osserva, in quegli anni: “publishers did not understand Chicano books because they didn’t know about the culture. This no doubt created a barrier to seeing any quality or sales potential in Chicano writing”235. Memories è la prima opera che Candelaria dedica all’identità di New Mexican, spinto dal desiderio di trasmettere ai figli la propria eredità culturale chicana, ma anche per l’ispirazione improvvisa che gli arriva ascoltando il brano “Recuerdos de la Alhambra”, interpretato dal chitarrista Andrés Segovia. Dopo aver condotto per anni una scrupolosa ricerca genealogica sulla propria famiglia (che si vede costretto ad interrompere per una lacuna nelle fonti), Candelaria capisce che è arrivato il momento di ricucire insieme la storia ufficiale del New Mexico e le vicende dei propri antenati, facendo emergere il nodo più problematico della loro identità: la cosiddetta “Mexicanness and the acceptance of it”236. Nasce in questo modo il suo progetto di scrivere una tetralogia di romanzi storici – Memories of the Alhambra (1977), Not by the Sword (1982), Inheritance of Strangers (1985) e Leonor Park (1991) – che potessero rendere omaggio all’esperienza minoritaria, e fino a quel momento inascoltata, delle popolazioni rurali del New Mexico, attraverso le avventure dei Los Rafas. Utilizzando una 235 “Le case editrici non apprezzavano i libri chicani perché non ne conoscevano la cultura. Indubbiamente questo ha impedito di vedere la qualità e le potenzialità di vendita della scrittura chicana”. Ibidem, 189. 236 “La messicanità e la sua accettazione”. Ibidem, 185. 109 narrativa quanto più possibile oggettiva e fedele ai fatti, Candelaria cerca dunque di calarsi nei panni dei propri avi, dando voce ai cosiddetti “losers”237: gli umili, gli analfabeti, i reietti, che erano stati esclusi sia dalla narrativa del mainstream, sia dalla storiografia ufficiale, entrambe appannaggio dei “vincitori” angloamericani: Memories è ambientato nel Ventesimo secolo e ruota intorno al viaggio intrapreso da José Rafa per ricostruire le proprie origini, spinto dall’illusoria convinzione di discendere dagli hidalgos: i conquistadores “bianchi” spagnoli. José cerca di dare un senso alla propria esistenza e soprattutto alle numerose discriminazioni razziali subite, rinnegando le proprie origini spurie indiane a favore di quelle spagnole. Decide quindi di abbandonare la famiglia senza alcun preavviso per condurre le proprie ricerche prima in Messico e poi in Spagna, dove si rivolge a un esperto genealogista, sempre continuando ad appigliarsi alla purezza delle proprie origini. Il suo viaggio termina però tragicamente quando – di fronte ad una statua di Hernán Cortés, conquistatore del Messico – José deve ammettere le proprie origini meticce e riconoscere la Malinche come madre simbolica di tutti i chicanos: “If Cortés was your father, José thought, then your mother was – He did not want to think the next words. They popped out anyway. Malinche. Never mind that the Spaniards called her Doña Marina. It was Malinche. An Indian. And you, child of the Old World and the New, are Mexican”.238 Dopo questa funesta presa di coscienza, José muore di infarto, lasciando al figlio Joe, protagonista della seconda parte dell’opera, l’arduo compito di 237 “Perdenti”. Nash Candelaria, Memories of the Alhambra (Palo Alto, CA: Cíbola Press, 1977), 181. 238 “Se Cortés fu tuo padre, José pensò, allora tua madre fu – non voleva pensare alle parole che seguivano. Spuntarono fuori comunque. Malinche. Non importa se gli spagnoli la chiamavano Doña Marina. Era la Malinche. Un’indiana. E tu, figlio del vecchio mondo e del nuovo, sei messicano”. Candelaria, Memories, 173. 110 risolvere il dilemma identitario che attanaglia i New Mexican Hispanics. Grazie ad un complesso percorso di assimilazione culturale, Joe può accedere all’università e sposare un’angloamericana, arrivando non solo ad accettare le origini messicane della propria famiglia, ma anche a riconoscere l’assimilazione al gruppo dominante ed il mestizaje come veicolo di rinnovamento culturale e di evoluzione storica. Not by the Sword è invece ambientato negli anni della guerra messicoamericana (1846-1848) e approfondisce le vicende storiche già evocate in Memories. Le parole iniziali con cui il protagonista José Antonio Rafa III annuncia l’arrivo dei nemici, “Well, Grandfather. They say that we are to become Yankees now”239, ci introducono fin da subito al tema generale dell’opera: la lotta per la conservazione dell’identità ispanica, affrontando gli inevitabili cambiamenti che l’incontro/scontro con una nuova cultura comporta. Inheritance of Strangers descrive invece i quarant’anni successivi al Trattato di Guadalupe Hidalgo, facendo emergere i casi di resistenza organizzata da parte degli ispanici, contro la potente elite angloamericana. Il protagonista è ancora una volta un membro dei Los Rafas, l’anziano Tercero, affiancato dalle nuove generazioni: il figlio ed il nipote, coinvolti nelle manifestazioni di dissenso contro le elezioni corrotte dell’ennesimo sceriffo bianco. La narrazione è intervallata da ampie digressioni sulla storia del New Mexico, attraverso i racconti che Tercero fa ai propri nipoti Leonardito e Carlos. Con Leonor Park la narrazione si sposta al 1928, nell’Albuquerque dei Roaring Twenties, alla vigilia della Grande depressione. Sullo sfondo delle lotte 239 “Bene, nonno. Dicono che siamo destinati a diventare Yankee ora”. Nash Candelaria, Not by the Sword (Ypsilanti, MI: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 1982) 3. 111 portate avanti dai fratelli protagonisti Magdalena Soto e Nicolás Armijo per conservare i terreni ereditati dal padre, si descrive il percorso di crescita della giovane Leonor, figlia di Nicolás. Con le raccolte di racconti – The Day the Cisco Kid Shot John Wayne (1988) e Uncivil Rights and Other Stories (1998) – e con A Daughter’s a Daughter Candelaria continua a concentrarsi sul New Mexico del Ventunesimo secolo, descrivendone le tensioni sociali ed esplorandone la complessa cultura di confine, sempre con un forte legame agli eventi storici reali. La sua narrativa vuole quindi rileggere e ampliare il concetto di identità chicana, ricollegandosi anche a una dimensione americana continentale e transnazionale. Candelaria individua infatti un particolare sodalizio tra le letterature meticcie del continente americano, unite da un comune sostrato culturale, religioso e linguistico: “[t]he Indo-Hispano brotherhood cuts across national boundaries from the U.S. south through Mexico to South America. And the literature reflects this. From Carlos Fuentes to Gabriel García Márquez”240. Candelaria è inoltre fermamente convinto del carattere universale della buona letteratura, che da voce alle esperienze peculiari di un gruppo o di un singolo e veicola l’unicità dello loro visione del mondo, ma è capace, allo stesso tempo, di trattare temi universali che possano arrivare ad ogni lettore, a prescindere dalla loro etnicità. 240 “Il sodalizio indo-ispanico oltrepassa i confini nazionali dagli Stati Uniti verso Sud, attraverso il Messico e verso il Sud America. E la letteratura lo riflette. Da Carlos Fuentes a Gabriel García Márquez”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 124. 112 3.2 Edward Rivera: The Pioneering Bilingual Persona Eddie Rivera, who was born in Orocovis, an internal island where the villagers did not know the sea on an island in a stream of islands. Eddie Rivera, who traveled to the island of Manhattan, to a new heart of darkness.241 Edward Rivera nasce ad Orocovis, Porto Rico, nel 1939, ma la sua vita è indissolubilmente legata a New York, dove si trasferisce all’età di sette anni e dove rimane fino al giorno della sua morte, avvenuta per infarto, nell’agosto del 2001. Sempre nella “grande mela”, il percorso scolastico ed educativo di Rivera inizia nelle scuole di Spanish Harlem (dove frequenta istituti pubblici e religiosi), e prosegue fino agli studi universitari, con un B.A. in Letteratura inglese presso il City College of New York ed un M.F.A. presso la Columbia University. Durante gli anni dell’adolescenza, Rivera svolge piccoli lavori impiegatizi o in fabbrica, che lo portano anche a trascorrere un breve periodo nella sede centrale della New York Public Library, prima di arruolarsi con le forze armate per sei mesi, all’età di diciannove anni, quando lavora come stenografo nel quartier generale dell’esercito statunitense di Heidelberg. A pochi anni dalla laurea, conseguita nel 1967, inizia a lavorare come professore di inglese sia presso il City College di New York, sia presso il Center for Worker Education della stessa università, dedicandosi all’insegnamento con grande passione, fino alla sua tragica scomparsa, all’età di sessantadue anni. Parallelamente all’attività accademica, Rivera si è sempre dedicato alla scrittura, ed i suoi racconti e saggi sono apparsi in antologie e riviste come la New American Review, la Bilingual Review ed il New York Magazine. Grazie al 241 “Eddie Rivera che nacque ad Orocovis, un’isola interna dove i paesani non conoscevano il mare, un’isola in un insieme di isole. Eddie Rivera, che si spostò sull’isola di Manhattan, verso un nuovo cuore di oscurità”. Gary D. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera” (Centro Journal 14.1, 2002) 128. 113 sostegno economico del National Endowment for the Arts, nel 1982 Rivera pubblica Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic (1982), il suo unico romanzo: opera ignorata per oltre venti anni dalla critica letteraria, ma non dai numerosi lettori – Latinos e non – come dimostrano le regolari ristampe, che proseguono fino ai giorni nostri. Al pari del suo romanzo, anche la sua vita è rimasta nell’ombra per anni, ed il suo talento letterario non è stato adeguatamente valorizzato né dal mondo accademico, né dalla comunità portoricana, tanto che, ad oggi, esiste un unico studio esaustivo sulla personalità e sull’opera di Rivera: il numero della primavera del 2002 della rivista specializzata Centro Journal, appositamente concepito come omaggio all’autore, a pochi mesi dalla sua morte. Lyn Di Iorio Sandín, critica letteraria e amica di Rivera, apre la sua introduzione alla rivista, con un domanda cruciale: Why has there been such a dearth of criticism on a book that many scholars of Puerto Rican diasporic literature recognize as an important achievement, and that some well-known younger Puerto Rican and Latino writers – Ernesto Quiñonez and Abraham Rodriguez, […] as well as Junot Díaz – cite as a significant influence? Why has such an important Nuyorican literary personage been relegated to relative oblivion by his Latino peers?242 Ciascuno degli autori dei contributi successivi – tra cui amici intimi come Gary Keller o suoi ex-studenti come Diana Vélez, Ernesto Quiñonez e Abraham Rodríguez – cerca di dare una riposta, enfatizzando aspetti diversi e problematici della sua vicenda umana e letteraria. Molti sottolineano l’unicità del suo romanzo 242 “Perché c’è stata una tale carenza di critica su di un libro che molti studiosi di letteratura diasporica portoricana riconoscono come un importante successo, e che alcuni noti scrittori Latinos o portoricani più giovani – Ernesto Quiñonez e Abraham Rodríguez, così come Junot Díaz – citano come influenza significativa? Perché un personaggio letterario Nuyorican così importante è stato relegato a un relativo oblio dai suoi pari Latinos?”. Lyn Di Iorio Sandín, “Introduction” (Centro Journal 14.1, 2002) 107. 114 non ascrivibile al modello dell’influente “crime-to-success street story genre”243 che ha monopolizzato per anni il mercato della narrativa dei Latinos, sulla scia del successo indiscusso di Down These Mean Streets, sottraendo però spazio e visibilità a tutti quegli autori che sperimentavano nuove modalità espressive o tematiche alternative. A conferma dei forti condizionamenti subiti, lo stesso Rivera si vede costretto a cedere alle pressioni della sua casa editrice, che promuove Family Installments come romanzo autobiografico – nonostante non fosse stato concepito come tale – per ambire al boom di vendite del mémoir di Piri Thomas. L’autore esprime tutta la sua amarezza per la scelta della sua redattrice sia in una lettera a Diana Vélez244, sia in un articolo pubblicato nel 1996 sul Massachusetts Review in cui conferma che: “Thomas’s belly-of-the-beast ‘memoir’ was what the times (and apparently, the N.Y.Times) wanted at the time, and what they got. And it seemed they wanted more of the same while the trend lasted”245. A dimostrazione di come neanche l’accademia abbia saputo cogliere le sue grandi potenzialità, Alfredo Villanueva-Collado ricorda con amarezza il momento in cui, a metà degli anni Ottanta, i suoi colleghi della City University of New York respingono la sua proposta di utilizzare Family Installments come testo di riferimento per il corso English as a Second Language, preferendo all’irriverenza 243 “Genere del racconto ambientato sulla strada, che narra il percorso dal crimine al successo”. Di Iorio Sandín, “Introduction”, 109. 244 Edward Rivera, “Letter to Diana Vélez” (Centro Journal 14.1, 2002) 125. 245 “Il mémoir da pancia-della-bestia di Thomas era ciò che i tempi (ed apparentemente anche il New York Times) volevano al tempo, e ciò che ottennero. E sembrava che ne volessero ancora, fino a che la tendenza durava”. Edward Rivera, “Stable Manners; or How the Publication of Family Installments Was Stalled for Three Years and $ 3,000”, (Centro Journal 14.1, 2002) 125. L’articolo è stato originariamente pubblicato in The Massachusetts Review 36.3 (1996), 377-385. 115 ed alla pungente ironia di Rivera, il conformismo stilistico ed il messaggio assimilazionista di Hunger of Memory di Richard Rodríguez246. Dopo aver utilizzato tre diversi motori di ricerca ed aver trascorso una notte intera su Internet, nel suo contributo “Looking for Ed Rivera”, Abraham Rodríguez lamenta invece la grave carenza di informazioni sull’autore, inspiegabilmente assente anche dalla rete247. L’ex-allievo di Rivera constata con rabbia la miopia della comunità portoricana, incapace di rendere omaggio ad uno dei suoi più abili testimoni (“[s]o it is that the self-satisfied Puerto Rican literary community failed to even note the passing of one of its princes”248), così come di onorare degnamente molti altri suoi bardi. It is a disgrace that this community I come from spares little time to pay tribute to its heroes, and writers who tell the story of this community are heroes, whether poets or rappers or dingy street talkers who chant for dimes. This is the worst reflection of us as a community?249 All’invisibilità di Rivera – in vita e postuma – potrebbe aver contribuito anche la sua profonda umiltà e il suo costante basso profilo, che si riflette sia nella percezione di se stesso, sia nella sua attività di insegnante e di scrittore. Come confermano amici e colleghi, la sua è stata una vita di “hardship and invisibility”250, in cui si è dedicato con passione all’insegnamento ed alla scrittura, rifuggendo sempre da facili elogi (“Ed couldn’t take a compliment let alone give 246 Alfredo Villanueva-Collado, “Edward Rivera’s Family Installments: An Agonistic Reading”, (Centro Journal 14.1, 2002), 160. 247 A dieci anni dalla ricerca di Abraham Rodríguez, ancora oggi il numero di pagine Internet con riferimenti all’autore è estremamente ridotto e non esiste ancora neanche una voce sulla popolare enciclopedia online, Wikipedia. 248 “E così accade che la comunità letteraria portoricana, compiaciuta di sé, non è riuscita neanche a notare il passaggio di uno dei suoi principi”. Abraham Rodríguez, “Looking for Ed Rivera”, (Centro Journal 14.1, 2002) 149. 249 “È una disgrazia che questa comunità da cui provengo, dedichi poco tempo a rendere omaggio ai suoi eroi, e gli scrittori che raccontano la storia di questa comunità sono eroi, siano essi poeti o rapper o oratori di strade sudice, che cantano per pochi centesimi”. Ibidem, 153. 250 “Difficoltà ed invisibilità”. Ibidem, 151. 116 himself one”) e ricorrendo ad una dose costante di modestia e autoironia: come dimostra la battuta ricordata da Quiñonez (“This book is good for wrapping fish”251) che Rivera pronuncia dopo aver visto il suo libro, Family Installments, sul banco dell’allievo. Anche Lyn Di Iorio Sandín ribadisce la sua spiccata remissività, ma è anche l’unica ad indagare più a fondo nella sua maschera di riservatezza, facendo emergere i lati più oscuri e contraddittori della sua personalità. Da amica e collega, Di Iorio Sandín cita i tratti distintivi del suo carattere che lo differenziava dai suoi pari: Contrary to most of his colleagues ‘Ed had no ego’. […] Ed’s personality was so different from his Latino – and non-latino – writing peers, young and old. […] The Ed I knew was gentle to the point of passivity. […] He never said anything during faculty meetings. […] [His] looking down and silence were signs of humility.252 Ma la stessa ricorda anche i suoi improvvisi scoppi d’ira; il suo essere – a volte – intrattabile, sfuggente e schivo; i suoi periodi di profondo malessere psichico e di insonnia; l’ansia per il suo non sentirsi mai all’altezza o per i prolungati blocchi della scrittura; la frustrazione di chi non si identifica negli stereotipi sui Latinos e non riesce a trovare un proprio spazio d’espressione. He was both passive and active, humble and proud. Hungry for intimacy, he often avoided it. His closest friends felt they did not really know him. He was driven by the tension between the thought that he wasn’t “good enough,” and the side that didn’t want to show the world how bright and gifted he really was because people would never understand or appreciate him.253 251 “Ed non riusciva a ricevere un complimento, figuriamoci a farselo da solo”, “Questo libro è buono per incartare il pasce”. Ernesto Quiñonez, “A Final Installment” (Centro Journal 14.1, 2002), 156 e 155. 252 “Al contrario della maggior parte dei suoi colleghi ‘Ed non aveva un ego’. […] La personalità di Ed era così diversa dai suoi colleghi scrittori – Latinos e non, giovani o vecchi. […] L’Ed che io conoscevo era gentile fino alla passività. […] Non diceva mai niente durante le riunioni accademiche. […] Il suo guardare in basso ed il suo silenzio erano segni di umiltà”. Lyn Di Iorio Sandín, “Latino Rage: The Life and Work of Edward Rivera”, Killing Spanish: Literary Essays on Ambivalent U.S. Latino/a Identity (New York: Palgrave Macmillan, 2004) 87. 253 “Era sia passivo sia attivo, umile ed orgoglioso. Affamato di intimità, spesso la evitava. I suoi amici più stretti sentivano che non lo conoscevano realmente. Era spinto dalla tensione tra il 117 Di Iorio Sandín interpreta quindi la sua apparente umiltà, come una corazza creata per reprimere la sua rabbia, per celare la sua identità frammentata e mettere a tacere le inquietudini più profonde che turbano e dividono gli animi di tutta la comunità dei Latinos. L’ironia caustica delle sue opere, alcune figure inquietanti che le animano, così come i suo improvvisi scatti d’ira in pubblico ed in privato, o l’acuto malessere che lo porterà all’alcolismo ed all’incapacità di continuare a scrivere, sarebbero quindi tutti il frutto di una “suppressed rage”254 che emerge con chiarezza ripercorrendo le sue vicende biografiche. Al contrario di Nash Candelaria, che compone un intero mémoir autobiografico e rilascia diverse interviste, o di Andrea O’Reilly Herrera, che parla apertamente della sua infanzia in diversi saggi, contributi creativi e conversazioni, Rivera non scrive in modo diretto della sua vita e le poche informazioni disponibili sull’autore – fatta eccezione per gli esigui trafiletti biografici che appaiono sulle copertine del suo libro o nelle recensioni critiche delle sue opere – provengono da suoi conoscenti ed, in ogni caso, non coprono gli anni trascorsi a Porto Rico, né la sua infanzia a New York. Da Family Installments possiamo intuire il contesto socio-culturale in cui è cresciuto, ma solo in forma indiretta e romanzata poiché l’opera, nonostante sia stata commercializzata come tale, per ammissione diretta dell’autore non è un romanzo autobiografico. Nel saggio “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, ad esempio, Gary Francisco Keller ricorda con toccanti parole la profonda pensiero che non era ‘sufficientemente bravo’, e il lato di sé che non voleva mostrare al mondo quanto fosse brillante e dotato, perché le persone non lo avrebbero mai capito e apprezzato”. Ibidem, 100. 254 “Rabbia repressa”. Ibidem, 84. 118 amicizia che lo legava all’autore, fin dall’epoca dei loro studi alla Columbia University, nel cuore degli anni Sessanta, quando “Eddie was not only urban but urbane, and he was so New York”255. Per Keller, che aveva studiato in una piccola università di Città del Messico e si sentiva un “fayuquero” cresciuto “around border dumps” 256 , Rivera rappresenta fin da subito un nutrimento intellettuale unico, anche grazie alla sua venerazione per le lettere ed al suo amore per Cervantes, Shakespeare e per i capisaldi della letteratura europea. Nonostante nessuno dei due provenisse da “book-buying families or backgrounds” 257 , Rivera ha sempre mostrato un vero culto per i libri, come confermerà anche Quiñonez, ricordando che: “[b]esides his family, books were his true loves. His apartment had more books than clothes or food because books were what sustained him”258. Dalle parole di Keller apprendiamo anche come i due scrittori ed amici in quegli anni fossero “busy intellectually sharing” e di come – malgrado le loro ristrettezze economiche – cercassero di prender parte alla vita teatrale, cinematografica, letteraria ed artistica di New York, che animava le loro appassionate “literary ruminations”259 e le loro lunghe conversazioni notturne. A Broadway assistono a numerose rappresentazioni di Shakespeare come lo storico Hamlet interpretato da Richard Burton, ma anche a Rosencratz and Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard. Al cinema sono colpiti da film come Zorba the Greek di Michael Cacoyannis e Dr. Strangelove di Stanley Kubrick. Le 255 “Eddie non era soltanto urbano ma raffinato, ed era molto New York”. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 128. 256 “Contrabbandiere”, “Discariche di frontiera”. Ibidem, 128. Keller si riferisce al confine tra Messico e Stati Uniti in cui è cresciuto. 257 “Famiglie o ambienti in cui si comprano libri”. Ibidem. 258 “Oltre alla sua famiglia, i libri erano il suo vero amore. Il suo appartamento aveva più libri che vestiti o cibo perché i libri erano ciò che lo sostenevano”. Quiñonez, “A Final Installment”, 156. 259 “Impegnati nella condivisione intellettuale”, ”Riflessioni letterarie”. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 129 e 131. 119 letture che più li segnano in questi anni sono Papa Hemingway di A.E. Hotchner, Slaughterhouse-Five di Kurt Vonnegut, Armies of the Night di Norman Mailer o Portnoy’s Complaint di Philip Roth260. Il loro interesse per una “Hispanic-focused literature” in questi anni è ancora lontano dalla produzione Chicana, Portoricana o di altre minoranze ispaniche degli Stati Uniti e si concentra invece sui grandi nomi della letteratura Spagnola e Sudamericana 261 . Di García Lorca, ad esempio, apprezzano sia il carattere urbano di Poeta en Nueva York, sia il multilinguismo ed il multiculturalismo ricreato in “Seis poemas gallegos” o Poema del cante jondo attraverso un abile uso del gallego, nel primo caso, o della voce poetica gitana, nel secondo262. Profonda è anche la loro ammirazione per Pablo Neruda (che proprio nel 1971 vince il Premio Nobel per la poesia), Carlos Fuentes, Julio Cortázar, Guillermo Cabrera Infante, Mario Vargas Llosa e soprattutto Gabriel García Márquez, le cui opere possono circolare facilmente negli ambienti universitari frequentati da Rivera e Keller, anche grazie alle traduzioni di El coronel no tiene quien le escriba e Cien años de soledad ad opera rispettivamente di Jerome 260 Gli spettacoli teatrali, i film ed i libri che influenzano maggiormente gli anni universitari di Rivera e Keller sono citati da quest’ultimo alle pagine 129 e 130 del suo contributo nel Centro Journal. 261 “Letteratura di stampo ispanico”. Ibidem, 130. Rivera e Keller in questo periodo non entrano ancora in contatto con scrittori cosiddetti Latinos, fatta eccezione per William Carlos Williams che i due autori leggono con spiccato interesse anche se – come conferma Keller – le origini portoricane di Williams, non venivano enfatizzate dalla critica letteraria di quegli anni. 262 Federico García Lorca, Libro de poemas, Primeras canciones, Canciones, Seis poemas gallegos (Buenos Aires: Editorial Losada, 1938); Poema del cante jondo (Madrid: Espasa-Calpe, 1986); Poeta en Nueva York (Madrid: Cátedra, 1987). 120 Bernstein, professore presso il City College di New York, e Gregory Rabassa, docente della Columbia University263. La profonda influenza che il romanzo multi-generazionale dello scrittore colombiano esercita su Rivera è confermata dallo stesso Keller, che inserisce Family Installments nel solco tracciato non solo da García Márquez, ma anche da William Faulkner e Rolando Hinojosa: The man from Aracataca created the world of Macondo, just as the man from Oxford, Mississippi, had created Yoknapatawpha County. Beginning in 1973, with the publication of Estampas del Valle y otras cosas, the man from the Rio Grande/Río Bravo valley, Rolando Hinojosa-Smith […] created Belken County, Texas. Over a decade later, Eduardo/Edward from New York City by way of Orocovis was to publish a book about El Barrio of New York, founded on the magical clay of the world of Bautabarro. […] This book was published in 1982, the year Gabriel García Márquez won the Nobel Prize in Literature.264 Secondo Di Iorio Sandín, Rivera definiva Márquez “the Master”265, mentre Quiñonez ricorda – in linea con il suo basso profilo e la sua modestia – che, in una delle sue lezioni di letteratura, l’autore si era definito “a second-rate García Márquez”266. Sempre Quiñonez, dopo aver riconosciuto l’influenza che Cien años de soledad aveva esercitato su Bautabarro (il nome del villaggio da cui ha origine la famiglia protagonista di Family Installments), elogia l’originalità di Rivera e la sua capacità di ricreare una saga familiare con un inedito “twist” portoricano267. 263 Gabriel García Márquez, One Hundred Years of Solitude. Trad. di Gregory Rabassa (New York: Harper & Row, 1970); No One Writes to the Colonel and Other Stories. Trad. di J. S. Bernstein (New York: Harper Perennial, 1979). 264 “L’uomo da Aracataca creò il mondo di Macondo, così come l’uomo da Oxford, Mississippi, aveva creato la contea di Yoknapatawpha. A partire dal 1973, con la pubblicazione di Estampas del Valle y otras cosas, l’uomo dalla valle del Rio Grande/Río Bravo, Rolando Hinojosa-Smith […] creò la contea di Belken, Texas. Dopo oltre una decade, Eduardo/Edward dalla città di New York, passando per Orocovis, avrebbe pubblicato un libro su El Barrio di New York, fondato sulla terra magica del mondo di Bautabarro. […] Questo libro fu pubblicato nel 1982, l’anno in cui Gabriel García Márquez vinse il Premio Nobel per la letteratura”. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 131. 265 “Il maestro”. Di Iorio Sandín,” Latino Rage”, 88. 266 “Un García Márquez di second’ordine”. Quiñonez, “A Final Installment”, 155. 267 Ibidem. 121 A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta cresce l’interesse che Rivera e Keller nutrono per la scrittura multilingue. A partire dalle sperimentazioni di James Joyce ed Ernest Hemingway, i due autori mirano a ricreare un nuovo linguaggio letterario bilingue, ispirato al mescolamento reale di inglese e spagnolo che caratterizza le comunità ispaniche negli Stati Uniti, di cui essi stessi si fanno portavoce, attraverso le proprie opere dal linguaggio ibrido, come il racconto di Rivera “Antecedentes”, pubblicato nel 1972 su New American Review268. E mentre i due autori cercano di dare una forma artistica alla lingua parlata da una nuova generazione di americani bilingue, si rendono anche conto che il mercato editoriale offriva ben poco spazio per le opere dei Nuyoricans, dei Chicani o di altre minoranze ispaniche, così come per la letteratura al femminile (scritta da donne o sulle donne). Per colmare questo vuoto, nel 1973, insieme ad un gruppo di altri intellettuali e studenti di vari atenei americani, decidono allora di fondare The Bilingual Review/La Revista Bilingüe, alla quale Rivera e Keller collaborano attivamente fin dagli esordi: “writing in tandem, consulting each other, and publishing like-minded writers who pioneered the bilingual medium of the late 1960s and early 1970s, including Emilio Díaz Valcárcel, Alurista, and Juan (Felipe) Herrera”269. 268 Eduardo Rivera, “Antecedentes”, New American Review 13, 1972. “Scrivendo in tandem, consultandosi a vicenda e pubblicando scrittori con le stesse idee, che sperimentavano il mezzo espressivo del bilinguismo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, compresi Emilio Díaz Valcárcel, Alurista e Juan (Felipe) Herrera”. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 133. Ancora oggi, The Bilingual Review/La Revista Bilingüe (insieme alla casa editrice che la pubblica, la Bilingual Review Press) continua ad essere diretta da Keller, affiancato dalla caporedattrice Karen S.Van Hooft, anch’essa tra le fondatrici della rivista, la cui finalità è rimasta la promozione di saggi e opere letterarie di autori Latinos o latinoamericani. Tra i fondatori citati da Keller nel suo saggio vi sono: Eugenio ChangRodríguez, Jerry Bernstein, José Luis Martín, Philip Silver, Irwin Stern, Elliot Glass, Hernán La Fontaine, Francisco “Pancho” Jiménez, Randolph Pope e Nicanor Parra. 269 122 Sempre in quegli anni Rivera si dedica appieno all’attività di docenza universitaria, che porta avanti con grande passione e coinvolgimento, come confermano i suoi ex-studenti, in particolare Quiñonez e Rodríguez, oggi scrittori affermati. Il primo ricorda come le sue lezioni riflettessero la sua personalità ed il suo approccio anti-accademico e anti-conformista alla letteratura: “Ed’s classes were extensions of himself – subtle, unpretentious, and humble, but with a hidden fire underneath”270. Come confermano i moniti con cui Rivera è solito minimizzare i saggi critici di Di Iorio Sandín (“you’re reading too much into it, Lyn” 271 ), più che concentrarsi su teorie critiche e rigidi schemi interpretativi, l’autore mira sempre a stimolare una reazione emotiva negli studenti, cercando di infondere in loro un nuovo senso di identità, anche a partire dalla riflessione su di un’opera letteraria. Rodríguez, ad esempio, trova in lui un mentor capace di cogliere le sue potenzialità di scrittore, instillandole di una rinnovata consapevolezza etnica: “He gave me the confidence to say, ‘I’m a writer’, and not only that, but a Puerto Rican writer”. Rivera lo incoraggia infatti a scrivere del Bronx e delle crudezze della realtà urbana da cui il giovane allievo proveniva, consapevole del profondo bisogno di dar voce alla diversità dei Latinos ed in particolare di far emergere un nuovo: “Puerto Rican Balzac”272. Parallelamente all’insegnamento, durante tutti gli anni Settanta, Rivera porta avanti la scrittura del suo unico romanzo, che conclude a distanza di dieci anni dai primi racconti ispirati alla famiglia Malánguez, apparsi singolarmente in 270 “Le lezioni di Ed erano un prolungamento di se stesso – acute, senza pretese ed umili, ma con un fuoco nascosto sotto”. Quiñonez, “A Final Installment”, 156. 271 “Stai interpretando troppo, Lyn”. Di Iorio Sandín, “Latino Rage”, 98. 272 “Mi ha dato la sicurezza di dire, ‘sono uno scrittore’, e non solo questo, ma uno scrittore portoricano”, “Balzac portoricano”. Rodríguez, “Looking for Ed Rivera”, 152. 123 riviste dell’epoca. Il lungo processo che porta alla pubblicazione dell’opera nel 1982, corrisponde anche alla fase più oscura e travagliata della sua vita: fatta di blocchi della scrittura, crolli di autostima, assunzione cronica di alcol e scontri con le case editrici che rifiutavano il suo manoscritto. Quando finalmente la William Morrow and Company si offre di pubblicare il romanzo, Rivera deve sottostare alla scelta della redattrice di commercializzare l’opera come mémoir autobiografico, nonostante fosse “full of fabrications”273. Solo a distanza di anni l’autore supererà il disagio di fronte alla sua “falsa” autobiografia, soprattutto nei confronti della propria famiglia; d’altronde, come ribadisce lo stesso Rivera: “I was in no position to argue, so all of a sudden I’d written an autobiography. Just like that. It makes no difference to me anymore, but at the time I was ready to jump into the Hudson (the pollution discouraged me)”274. La frustrazione per i diktat dall’industria libraria e per i clichés che mortificano quella che l’autore definisce sarcasticamente la “Latino stable” or “Hispanic pool”275, provocano in lui un rigetto categorico del mondo dell’editoria e lo spingono a rifugiarsi nell’insegnamento come autentica missione: “he had traded one way for another, […] teaching had become his mission. The book had brought him there, to that other revolutionary place where he quietly worked behind the lines, seeding young minds and opening new doors”276. 273 “Pieno di invenzioni”. Rivera, “Letter to Diana Vélez”, 125. “Non ero nella posizione di controbattere, così all’improvviso avevo scritto un’autobiografia. Proprio così. Ora non fa più alcuna differenza per me, ma all’epoca ero pronto a saltare nello Hudson (l’inquinamento mi ha scoraggiato)”. Ibidem. 275 “Scuderia latina”, “Riserva ispanica”. Rivera, “Stable Manners”, 123. 276 “Aveva scambiato una via per l’altra, […] l’insegnamento era diventato la sua missione. Il libro lo aveva portato a questo, all’altro luogo rivoluzionario in cui lavorava silenziosamente dietro alle linee, alimentando giovani menti ed aprendo nuove porte”. Rodríguez, “Looking for Ed Rivera”, 152. 274 124 Dopo Family Installments, questo rifiuto per la scrittura, unito alla sua morte precoce, lascia un vuoto significativo all’interno della sua biografia, poiché l’autore interrompe (almeno nella pagina scritta) il processo di rielaborazione genealogica e generazionale della sua esperienza umana e letteraria. Pochissimi sono infatti gli articoli che pubblica negli anni Ottanta e Novanta e, in ogni caso, non vi sono testimonianze non-romanzate o riflessioni di prima mano sulla sua relazione con il passato della propria famiglia, con la storia di Porto Rico o con la comunità boricua di New York. Questo atteggiamento fa emergere i lati più problematici dell’identità dei portoricani negli Stati Uniti, costantemente imbrigliati nel “vaivén” 277 , ovvero nella fluttuazione costante tra riferimenti culturali mutevoli e frammentari, intensificata dalla facilità di movimento tra il continente e l’isola; aspetto quest’ultimo che differenzia radicalmente la diaspora portoricana da quella cubana. L’inquietudine costante di Rivera, la sua ironia corrosiva, la sua maschera di umiltà ed il suo percorso incompiuto di ricostruzione del sé sembrano alludere al doppio processo di esclusione vissuto dai portoricani del continente, messi al margine, sia dal progetto di unità nazionale dell’isola, sia da quello statunitense. Infine, il silenzio dell’autore rievoca quella che Arcadio Díaz-Quiñones ha definito “La memoria rota”278: ovvero la strategia del silenzio messa in atto dalla storiografia ufficiale portoricana per occultare episodi non funzionali alla memoria collettiva dell’isola, celando, ad esempio, gli esodi massicci e costanti verso gli Stati Uniti ed il ruolo che i Nuyoricans ricoprono nella ridefinizione di un’identità portoricana. 277 “Viavai”. Jorge Duany, The Puerto Rican Nation on the Move: Identities on the Island & in the United States (Chapel Hill and London: University of North Carolina Press, 2002) 2. 278 Arcadio Díaz Quiñones, La memoria rota (Río Piedras, Puerto Rico: Huracán, 1993). 125 3.3 Andrea O’Reilly Herrera: Una cubanita pasada por agua But where, then, do I begin to explain the fact that even though my mother tongue is English and I was partly weaned on cheese steaks, soft pretzels, TastyKakes, and scrapple, the soft, sing-songy rhythm of Spanish pulses within me like a kind of inner cadence, and I can somehow find continuity between the past and the present in the ritual preparation of a “pie” de guayaba or a Catalán paella (al Avi)? Perhaps, I tell myself, my response represents some distant ancestral call or echo that manifests itself, […] in the three generations of Cuban women inhabiting my name and my person (Carmen for my grandmother, Andrea for my great-grandmother, and Teresa for my mother).279 Andrea O’Reilly Herrera ha svolto (e continua a svolgere) un ruolo cruciale per l’affermazione ed il consolidamento della cultura cubano-americana contemporanea negli Stati Uniti, grazie al suo instancabile impegno su molteplici fronti: accademico, critico, letterario ed artistico. In qualità di professoressa universitaria, a partire dal 1993, si è dedicata ininterrottamente all’attività di docenza mostrando, anche attraverso i suoi corsi, una spiccata sensibilità non solo per la letteratura cubano-americana, ma anche per le letterature minoritarie, caraibiche e post-coloniali in generale. Negli anni, ha sempre nutrito uno spiccato interesse per le questioni di genere e razza, come dimostra anche il suo ruolo di direttrice del Women’s and Ethnic Studies Program che attualmente ricopre presso la University of Colorado, Colorado Springs280. 279 “Da dove inizio a spiegare il fatto che, anche se la mia madre lingua è l’inglese e sono stata tirata su a bistecche di formaggio, salatini morbidi, TastyKakes e polpettone, il ritmo dolce e musicale dello spagnolo pulsa in me come una sorta di cadenza interiore, e posso in qualche modo ritrovare continuità tra il passato ed il presente nella preparazione rituale di una torta de guayaba o di una paella Catalán (al Avi)? Forse, mi dico, la mia reazione rappresenta un qualche richiamo o eco distante ed ancestrale che si manifesta, […] nelle tre generazioni di donne cubane che vivono nel mio nome (Carmen per mia nonna, Andrea per la mia bisnonna e Teresa per mia madre). Andrea O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora (Austin: University of Texas Press, 2001) 318. 280 Dopo aver conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Letteratura inglese presso la University of Delaware nel 1993, O’Reilly Herrera ha insegnato presso la University of New York in Fredonia e successivamente presso la University of Colorado, Colorado Springs (UCCS) dove continua a svolgere la sua attività di docenza. Tra i numerosissimi corsi da lei tenuti, i titoli che confermano 126 Come ricercatrice e critica letteraria ha curato le raccolte Cuba: Idea of a Nation Displaced (2007) e ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora (2001), e l’antologia di scrittrici sudamericane A Secret Weavers Anthology (1998). Ha inoltre pubblicato in volumi e riviste specializzate numerosi saggi sulle tematiche dell’esilio e della diaspora cubana, oltre che recensioni delle opere di Cristina García, Sandra Cisneros, Ron Arias ed innumerevoli altri autori. Sul versante delle arti visive e della fotografia, ha curato molteplici mostre e, in particolare, due edizioni di Café281 : lo show itinerante di artisti cubani e cubano-americani, culminato nel 2011 con la pubblicazione della monografia Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House (2011) e con le celebrazioni di Cuba Transnational: la manifestazione svoltasi in Colorado da maggio ad ottobre dello stesso anno, dedicata agli artisti della diaspora cubana ed articolata in mostre, conferenze, laboratori, tavole rotonde e reading, di cui O’Reilly Herrera è stata tra le principali organizzatrici282. Parallelamente alle attività accademiche e di ricerca, O’Reilly Herrera si è sempre dedicata anche alla scrittura creativa, con poesie e racconti apparsi in maggiormente il suo interesse accademico per le letterature minoritarie e per le questioni di genere e di razza sono: U.S. Latino/a Literature; Literature of the Cuban Diaspora; The Cuban-American Experience; Caribbean Literature; Latina Writers; Colonial & Post-Colonial Literature & Theory; The Ethnic Minority Experience; Race, Writing and Difference; Women of Color: Image and Voice; Introduction to Race & Gender. Per un elenco più esaustivo, si veda il suo curriculum accademico disponibile alla pagina: < http://www.uccs.edu/Documents/west/andreacurriculum%20vitae%20101909.pdf>. In qualità di docente universitaria, O’Reilly Herrera ha ricevuto numerosi riconoscimenti come il SUNY Chancellor’s Award for Excellence in Teaching nel 1997 ed il Chancellor’s Award for Excellence in Research, Scholarship and Service presso la UCCS nel 2004. E’ stata inoltre Fulbright Distinguished Chair in American Studies presso la Maria Curie-Sklodowska University a Lublin (Polonia) nell’a.a. 2005-2006. 281 Café II (nel 2003) e Café XII (nel 2011). 282 Il programma dettagliato di Cuba Transnational è disponibile alla pagina: <http://cubatransnational.blogspot.it/>. Si vedano inoltre le fotografie che ho avuto modo di scattare durante la mia visita alle quattro mostre in programma, fornite in appendice a questa tesi. Altra mostra significativa curata dall’autrice è stata Cuba: A Jewish Journey, dedicata al fotografo Errol Daniels e tenutasi presso la UCCS nel 2003. 127 svariate antologie e riviste, fino alla pubblicazione del romanzo The Pearl of the Antilles (2001), del quale nel 2004 ha curato anche l’adattamento teatrale283. Per passione, la scrittrice si dedica inoltre alla musica ed alla pittura: come dimostra l’acquarello che appare nella copertina del suo romanzo, realizzato sempre da lei. Quando in un’intervista per la newsletter della University of Colorado le chiedono come riesca a combinare gli impegni accademici con la vita contemplativa di un’artista, l’autrice risponde: It’s a little bit like balancing a hippopotamus on a laundry line. In the United States, virtually the only sanctuary for the writer and/or artist is academia. This is the path I chose consciously to follow long ago as both a writer and an artist; yet this choice has had its drawbacks. In the first place, academia rarely allows one the space or time for contemplation and solitude. In addition, at most universities creative expression is treated by most academics as something exclusive or unrelated to scholarly work. To my great fortune, I am a member of a unique academic community at UCCS that values and honors equally scholarship, teaching, creative expression and a commitment to community activism. It is most unusual to find a place that recognizes these multiple aspects of a single self.284 Durante il nostro incontro dello scorso anno, la sua personalità poliedrica e travolgente è emersa fin dall’inizio quando, vedendomi sorpresa per i molteplici ruoli che ricompre simultaneamente nella sfera culturale statunitense, O’Reilly Herrera mi ha spiegato con estrema spontaneità: 283 I suoi racconti e le sue poesie sono apparsi in numerose riviste letterarie come Caesura, Latino Stuff Review, Sugar Mule, Masthead, Literary Arts Magazine, The Seed, Mangrove. Il suo racconto “Homecoming” è stato inoltre pubblicato nella prima antologia di letteratura cubanoamericana: Poey, Delia, e Virgil Suarez eds., Little Havana Blues: A Cuban-American Literature Anthology (Arte Público Press, 1996) 192-199. 284 “È un po’ come far stare in equilibrio un ippopotamo su di un filo per stendere i panni. In pratica negli Stati Uniti l’unico santuario per gli scrittori e/o gli artisti è l’accademia. Questo è il percorso che ho scelto di seguire consapevolmente tempo fa, in qualità sia di scrittrice che di artista; eppure questa scelta ha avuto i suoi inconvenienti. In primo luogo, l’accademia ti lascia raramente lo spazio o il tempo per la contemplazione o la solitudine. In aggiunta, in gran parte delle università l’espressione creativa è considerata dalla maggior parte degli accademici come qualcosa di esclusivo ed estraneo al lavoro scientifico. Per mia grande fortuna, appartengo ad una comunità accademica unica presso la UCCS che apprezza e rende onore, in egual misura, alla cultura, all’insegnamento, all’espressione creativa e all’impegno nell’attivismo della comunità”. University of Colorado, Colorado Springs, Faculty and Staff Newsletter, “Five questions for Andrea O’Reilly Herrera” <https://www.cusys.edu/newsletter/2009/09-16/five-questions.html>. Data di accesso 16 agosto 2012. 128 The kind of positioning you are referring to is actually not unusual in Cuba, as opposed to the U.S. In fact, it’s typical. Many of the artists in CAFÉ, the art exhibit I write about in Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House are, in addition to being artists, musicians, writers, poets, and/or dancers. I don’t have any explanation for why this is true, but in this regard I am very Cuban. I’m also an amateur musician and an untrained artist. For me music and painting and writing are all linked together. Most Cubans I know understand this and think it’s perfectly normal, but for most Americans it’s not. Even though I was born in the U.S., I was not raised or acculturated like a typical American. Even though I was conceived in Havana, I was born the first week of January ’59 [in Philadelphia]; but I was raised in the United States like a Cuban, so my consciousness was always Cuban—something that took me a long time to figure out. As a result, I always feel like an outsider, even though I am an American.285 Concepita a L’Avana ma nata a Philadelphia, O’Reilly Herrera proviene da una famiglia cubana rifugiatasi in Pennsylvania a ridosso della rivoluzione castrista del 1959, a poche settimane dalla sua nascita. Da allora, non ha mai potuto mettere piede sull’isola e, nonostante il padre fosse di origini irlandesi e la madre si identificasse come americana, la sua vita è stata segnata da un senso di sradicamento che l’autrice definisce anche “second-hand exile”286: I […] grew up longing for and dreaming about a world that no longer exists and a physical place I have never seen, except in photographs, but somehow know. As a result, I am confronted with a sense of deep personal loss, which is at once ephemeral and haunting.287 285 “Il tipo di posizionamento a cui ti riferisci in realtà non è inusuale a Cuba, diversamente dagli Stati Uniti, anzi è tipico. Molti degli artisti di CAFÉ, la mostra di cui parlo in Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House , oltre a essere artisti, sono musicisti, scrittori, poeti e/o ballerini. Non so spiegare perché accada ma, rispetto a questo, sono molto cubana. Io sono anche una musicista amatoriale e un’artista senza una formazione specifica. Per me la musica, la pittura e la scrittura sono legate insieme. La maggior parte dei cubani che io conosco lo capiscono e pensano che sia perfettamente normale, ma per la maggior parte degli americani non lo è. Sebbene sia nata negli Stati Uniti, non sono cresciuta e non sono stata educata come una tipica americana. Anche se sono stata concepita a L’Avana, sono nata la prima settimana di gennaio del ’59 [a Philadelphia]; ma sono cresciuta negli Stati Uniti come una cubana, quindi la mia consapevolezza è sempre stata cubana – cosa che ho capito dopo molto tempo. Di conseguenza, mi sento sempre un’estranea, anche se sono americana”. Andrea O’Reilly Herrera e Mara Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”. Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera e Edward Rivera. Mara Salvucci. Tesi di Dottorato. Università degli Studi di Macerata. 2013. Capitolo 5. 286 “Esilio di seconda mano”. Andrea O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 319. 287 “Sono cresciuta desiderando e sognando un mondo che non esiste più ed un luogo fisico che non ho mai visto, eccetto in fotografia, ma che in qualche modo conosco. Di conseguenza, mi confronto con un profondo senso di perdita personale, che è allo stesso tempo effimero ed incancellabile. Ibidem, 318. 129 Nonostante il distacco fisico, Cuba ha sempre animato il suo mondo interiore, come dimostra il suo “ancestral yearning for all things Cuban”288 che l’ha spinta, fin dalla più tenera infanzia, a definirsi cubana (“calling myself an American never entered my mind”289) e ad ascoltare con curiosità insaziabile i racconti della vita sull’isola dei propri familiari, nei quali vedeva rivivere “a place – a world – none of them would ever revisit again, except in memory and imagination”290. L’autrice, insieme ai cinque fratelli, i genitori ed i nonni, è infatti cresciuta in una famiglia cubana allargata, che ospitava anche per lunghi periodi amici e parenti, ricreando una sorta di “Island unto themselves” 291 in cui si parlava spagnolo, si ascoltava Beny Morè, insieme a Frank Sinatra, ai Beatles e alla musica tradizionale irlandese, si cucinavano piatti caraibici ed angloamericani ed a tavola si discuteva animatamente di Cuba e della sua storia. Negli anni, questo ambiente ha contribuito a rafforzare la sua profonda nostalgia per Cuba, che l’ha portata a non identificarsi come bianca, segnando indelebilmente anche la sua coscienza politica e sociale: It wasn’t until adulthood that I came to the realization that my social and political consciousness was displaced, […] for it had been shaped not nearly as much by the Civil Rights Movement as by the historical events in Cuba, which were discussed every Sunday at my grandparents’ house.292 288 “Un desiderio ancestrale per ogni cosa cubana”. Andrea O’Reilly Herrera, “Preface”, ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora (Austin: University of Texas Press, 2001) xi. 289 “Non mi è mai passato per la mente di chiamarmi statunitense. O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 317. 290 “Un luogo – un mondo – che nessuno di loro avrebbe rivisto, eccetto nella memoria e nell’immaginazione”. Ibidem, 317. 291 “Isola di se stessi”. Ibidem, 319. 292 “Solo in età adulta, sono arrivata a capire che la mia coscienza sociale e politica era dislocata, […] perché era stata forgiata, più che dai Movimenti per i diritti civili, dagli eventi storici di Cuba che si discutevano ogni domenica a casa dei nonni”. O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 317. 130 L’impulso alla scrittura e all’esplorazione creativa ed intellettuale del suo rapporto con Cuba nascono quindi da un duplice desiderio: da un lato, di ricucire insieme gli elementi contrastanti della sua identità culturale; dall’altro, di custodire i preziosi ricordi di famiglia – un patrimonio culturale unico per le popolazioni diasporiche – seguendo quell’impulso ancestrale che l’aveva spinta fin da bambina, a chiedere ripetutamente al nonno di raccontargli del suo passato sull’isola: I used to beg to hear my grandparents repeat their stories about their lives on the Island – stories that fed my imagination and have since become the wellspring of my scholarly work and much of my fiction. At one point I even followed my grandfather, Pipa, around the borders of his beloved garden with a tape recorder, watching him pull the stubborn weeds from among the lavender and blue hydrangeas. We all knew he had been involved in some type of clandestine activity in Cuba following the revolution, but he persistently refused to talk about it. […] “In the first place”, he told me in his booming voice (which usually sent his grandchildren scattering in all directions), “I cannot tell you those stories – mostly because I am afraid”. “For whom?” I asked. “For those who are left behind”, he answered, lowering his voice. “In the second place”, he added, “no one would ever believe me if I told them what I knew”. Over the years, I have never forgotten his response – little did he know that his words had only sharpened my desire to act as the guardian of our stories, our history.293 Non a caso O’Reilly Herrera inizia ad occuparsi di Remembering Cuba, ed a scrivere The Pearl of the Antilles (la sua “creative counterpart” 294 ) successivamente alla morte della nonna e dopo un toccante incontro con le zie materne di Miami, Yoyín e Asela che le raccontano in spagnolo, dei cambiamenti 293 “Supplicavo i miei nonni di ripetere le storie della loro vita sull’isola – storie che alimentavano la mia immaginazione e che da allora sono diventate la fonte della mia ricerca scientifica e di gran parte della mia narrativa. Ad un certo punto ho iniziato a seguire mio nonno, Pipa, intorno al suo amato giardino con un registratore a cassette, osservandolo mentre toglieva le erbacce resistenti dalla lavanda e dalle ortensie blu. Sapevamo tutti che era stato coinvolto in qualche tipo di attività clandestina a Cuba, in seguito alla rivoluzione, ma rifiutava ostinatamente di parlarne. […] ‘In primo luogo’, mi disse con la sua voce tonante (che di solito faceva scappare i suoi nipoti in tutte le direzioni), ‘Non posso raccontarti quelle storie – principalmente perché ho paura’. ‘Per chi?’, chiesi. ‘Per coloro che sono rimasti là’, rispose abbassando la voce. ‘In secondo luogo’, aggiungeva, ‘nessuno mi crederebbe mai se raccontassi ciò che so’. Negli anni, non ho mai dimenticato la sua risposta – Non si era reso conto che le sue parole avevano acuito il mio desiderio di essere la guardiana dei nostri racconti, la nostra storia. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xii. 294 “Controparte creativa”. “Andrea O’Reilly Herrera” (Contemporary Authors 193, 2001) 192. 131 subiti da Cuba dopo il 1898, ma soprattutto dei traumi della Rivoluzione ed, in particolare, del giorno in cui i soldati hanno fatto irruzione nella loro casa, costringendole a sgombrare tutto in mezz’ora: “We had only half an hour to pack our bags, […] a lifetime of memories, […] in only one bag”295. Quando Asela – la matriarca della famiglia – muore all’età di centodue anni, O’Reilly Herrera non può fare a meno di pensare che la donna sarebbe stata seppellita in terra straniera e che la sua esistenza si era conclusa senza poter realizzare il sogno di rivedere la sua amata patria. E’ in quel momento che, per la prima volta, l’autrice percepisce il dramma più profondo dell’esilio: “Exile, for her, was a permanent mutilation, a wound that would not heal. Never before had the proportions of this loss, this tragedy, seemed so immediate and so great to me”296. Raccogliendo le testimonianze in prosa e poesia che formeranno Remembering Cuba, O’Reilly Herrera capisce che, nonostante le notevoli differenze – generazionali, di classe, di genere, di razza, etc. – gli artisti e la gente comune che avevano deciso di contribuire al progetto, erano tutti accomunati da un senso di sradicamento e frammentazione (fisica e psichica), derivanti dall’impossibilità di conoscere Cuba o di tornarvi. Alcuni di loro avevano trovato nel potere terapeutico dell’arte, uno spazio in cui esprimere creativamente le lacerazioni dell’esilio, rovesciando in positivo, il loro status nomadico: “several 295 “Avevamo solo mezz’ora per fare le valigie, […] una vita di ricordi, […] in una sola valigia”. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xii. 296 Per lei, l’esilio era una mutilazione permanente, una ferita che non si sarebbe curata. Le dimensioni di questa perdita, di questa tragedia, non mi erano mai sembrate così immediate ed immani prima di allora. Ibidem, xiii. 132 among us seem to enjoy the freedoms that our gypsy status allows – for like tricksters we can easily cross cultural borders”297. Per altri, l’esilio è stato inizialmente psicologico e poi fisico, in riferimento alla condizione di “insilio” 298 , o esilio interiore, che hanno vissuto prima di lasciare l’isola (e che molti cubani continuano ancora a oggi a subire), per le repressioni fisiche o emotive a cui sono stati sottoposti dal regime castrista, a causa del loro dissenso politico. Buona parte della comunità cubana insediatasi in Florida subito dopo il cinquantanove invece, tende a rifiutare il concetto di “diaspora” – che evocherebbe una dispersione caotica – e promuove l’idea che Miami sia il nuovo “autentico” centro di irradiazione della cultura cubana. Ad eccezione di quest’ultimo gruppo, tutti hanno vissuto una “lifetime of unbelonging and dislocation”299, sospesi in un limbo interculturale che li spinge a ridefinire quotidianamente una nuova patria simbolica, mediando il ricordo (diretto o indiretto) della Cuba del passato, con la contemporaneità statunitense, nel tentativo di ricreare una casa simbolica, come tante popolazioni diasporiche. Di fronte ad una tale eterogeneità di esperienze, O’Reilly Herrera sente innanzitutto l’esigenza di scendere in campo nella “war […] over labeling” 300 creando una nuova terminologia, elastica ed inclusiva, che possa ricomprendere la 297 “Molti di noi sembrano trarre giovamento dalla libertà che la nostra condizione di nomadi ci concede – perché, come prestigiatori, possiamo facilmente attraversare i confini culturali. O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 319. 298 Rifacendosi alle parole del poeta cubano Lezama Lima, Leandro Soto apre il suo contributo in Remembering Cuba, proprio con una definizione di “insilio”: “To be in exile is an interior feeling that you experience for the first time living inside Cuba, something which Lezama Lima, in a 1960 letter to Orbon, refers to as ‘insilio’ or interior exile. You begin by wishing that you were born in another place, that you spoke another language other than your native tongue / Essere in esilio è una sensazione interiore che vivi per la prima volta dentro Cuba, qualcosa che Lezama Lima, in una lettera ad Orbon del 1960, definisce ‘insilio’ o esilio interiore. Inizi con il desiderio di esser nato in un altro posto, di parlare un’altra lingua diversa dalla tua lingua madre”. Leandro Soto, “Testimonio de un artista”, in Remembering Cuba, 3. 299 “Una vita intera di non-appartenenza e dislocamento”. O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, 319. 300 “Guerra […] delle etichette”. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xxviii. 133 polifonia e la complessità delle voci cubane negli Stati Uniti. Se etichette come “Hispanics”, “Latinos” o “Cuban American” risultano troppo monolitiche e vuote di significato, alcuni dei collaboratori di ReMembering Cuba hanno osservato che gli stessi termini utilizzati dall’autrice nel questionario distribuito nella fase di raccolta delle testimonianze, erano troppo riduttivi e semplicistici, perché il ricorso a degli acronimi o a dei numeri, spersonalizza e svilisce la complessità di ogni identità culturale. O’Reilly Herrera aveva infatti ripreso le famose definizioni generazionali con cui Gustavo Pérez Firmat ha descritto lo status di sospensione tra due culture che caratterizzerebbe sia la “ABC generation (American-Born Cubans)”, sia la “1.5” o “one-and-a-half generation”, ovvero coloro che sono nati a Cuba ma hanno raggiunto la maturità ed hanno studiato negli Stati Uniti301. L’autrice conia allora l’espressione aperta “Cuband ‘presences’” 302 , rievocando l’isola come spazio allo stesso tempo reale ed immaginato, che esiste non solo come luogo fisico, ma anche e soprattutto come “transnation-space”303 , come mondo ricordato, sognato, perduto e frammentato, che rinasce continuamente e nell’immaginario collettivo di chi vive nella diaspora. La “d” finale rievoca invece le infinite sfumature culturali (oltre che di genere, di religione, di razza, di preferenze sessuali, di generazione, etc.) e le molteplici 301 “Generazione ABC (Cubani Nati in America)”; “Generazione uno e mezzo”. Pérez Firmat descrive queste categorie generazionali nell’introduzione alla celebre monografia Life on the Hyphen: The Cuban-American Way (Austin: University of Texas Press, 1994), 1-20. La definizione di “one-and-a-half generation” viene ripresa dall’opera del sociologo cubano Rubén Rumbaut, “The Agony of Exile: A Study of the Migration and Adaptation of Indochinese Refugee Adults and Children”, Refugee Children: Theory, Research, and Services, eds. Frederick L. Ahearn e Jean L. Athey (Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press, 1991), 61. 302 “‘Presenze’ Cuband “. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xxviii. 303 “Spazio transnazionale”. Andrea O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering: History, Imagination, and the Recovery of the Lost Generation”, Cuba: Idea of a Nation Displaced. (Albany, NY: SUNY Press, 2007) 179. 134 associazioni identitarie che ogni individuo è libero di scegliere, andando oltre l’“hyphen” e frantumando ogni logica binaria di appartenenza. Infine la parola “presence” richiama la stratificazione storica e le cicatrici lasciate da secoli di colonialismo, dai flussi migratori, dalla rivoluzione, dalle separazioni dell’esilio che ogni cubano porta dentro di sé, più o meno consapevolmente, in un “palimpsest of visible/invisible ‘inheritances’”304. In Cuba: Idea of a Nation Displaced O’Reilly Herrera amplia le sue riflessioni sulla diaspora cubana, descrivendo lo status ambiguo e marginale che ricopre la cosiddetta “Lost Generation”, di cui la stessa autrice si ritiene parte integrante305. In questa categoria si includono quei cubani nati o cresciuti fuori dall’isola che, pur non avendo vissuto direttamente i traumi dell’esilio, li hanno ereditati dalla propria famiglia. Essi concepiscono Cuba come un’entità transnazionale e dai confini porosi, si sentono parte di una comunità diasporica più ampia e sono accomunati dallo sforzo costante di ridefinire la propria cubanía, in uno spazio delocalizzato, ibrido, multilinguistico e pluriculturale. La loro è una generazione “dimenticata” perché inghiottita dai due “competing discourses of Cuban national identities”, entrambi basati su di una visione statica, totalizzante ed essenzializzata dell’identità cubana306. Da un lato, la politica ufficiale del governo cubano, volta a negare ogni affiliazione con la diaspora ed a screditare coloro che abbandonano l’isola, anche attraverso i termini derogatori e spersonalizzanti con cui vengono definiti, come gusanos, escorias, 304 “Palinsesto di eredità visibili ed invisibili”. O’Reilly Herrera, “Preface”, Remembering Cuba, xxx. 305 “Generazione perduta”. O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering”, 177. 306 “Discorsi concorrenti di identità nazionale cubana”. Ibidem, 184. 135 traidores, o balseros307. Dall’altro, l’enclave dei nazionalisti cubano-americani, che riproducono la logica binaria centro/periferia, spostandone il fulcro a Miami, concepita come nuovo epicentro dell’“eccezionalismo” cubano. Questo gruppo, che gode di grande visibilità nei mass media nordamericani, corrisponde in buona parte alla prima generazione di esiliati immediatamente successiva alla rivoluzione, composta principalmente da cubani bianchi, istruiti e provenienti dalle classi più agiate. In risposta alle logiche di esclusione della retorica castrista, essi elaborano un contro-discorso altrettanto rigido e centralizzato, basato sull’idealizzazione nostalgica del periodo repubblicano (pre-rivoluzionario) e sull’illusione di una comunità cubana omogenea ed univoca, che non contempla divergenze nelle posizioni politiche o ideologiche, e non si mette in relazione con le successive generazioni di esiliati cubani (molto diversi per età, estrazione sociale e razziale), né con le altre minoranze etniche del Paese308. Poiché la Lost Generation non rientra in questi estremi, e non è collocabile in nessuna “hierarchy of authenticity”, essa è stata vittima della “cultural and 307 “Vermi, scorie, traditori, rifugiati”. “Balsero” deriva dalle “balsas” le precarie zattere con cui alcuni cubani cercano di raggiungere la costa statunitense. Il termine è diventato così diffuso nel linguaggio comune, da essere addirittura tradotto sul vocabolario on-line Word Reference come “A name for Cubans who try to enter the U.S. by sailing to Florida in small boats and rafts / Nome dato ai cubani che cercano di entrare negli Stati Uniti via mare attraverso la Florida, in piccole barche o zattere”). WordReference, Online Language Dictionaries, “Balsero” <http://www.wordreference.com/es/en/translation.asp?spen=balsero>. Data di accesso 16 agosto 2012. 308 Il ruolo di questa prima generazione di esiliati cubani è molto controverso e spesso malvisto dalle altre minoranze etniche americane. Motivo di frizione con gli altri gruppi è stato innanzitutto l’appoggio politico ed il trattamento preferenziale – rispetto agli altri immigrati – ricevuto da Washington al loro arrivo, sulla scia della retorica della Guerra Fredda. In secondo luogo, va considerato il fatto che, nonostante abbiano tratto profitto dalle conquiste del Movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, hanno sempre rifiutato di essere identificati come “minoranza etnica”, in virtù dell’esemplarità con cui si sono ricostruiti una vita in esilio e del contributo fondamentale dato alla società americana (grazie soprattutto alla loro alto livello di istruzione). Questi aspetti sono approfonditi in diversi saggi di Cuba: Idea of a Nation Displaced, come ad esempio nei contributi di María Cristina García, “The Cuban Population in the United States: An Introduction”, 75-89; e di Susan D. Greenbaum e Linda M. Callejas “‘We All Lived Here Together’: The Hidden Topic of Race between White and Black Cubans in Tampa”, 132-140. Lo stesso tema viene trattato anche in Remembering Cuba da Enrique Patterson in “Sin Calcetines”, 34-42; e da Ileana Fuentes in “Portrait of Wendy at Fifty, With Bra”, 58-63. 136 historical nullification” messa in atto da entrambe le parti309. Alla luce di questa assenza, acquisisce un significato ancora più rilevante l’impegno con cui O’Reilly Herrera cerca di dar voce e di legittimare le “Cuband presences”, sia nella sua scrittura, sia attraverso le manifestazioni artistiche e culturali di cui si fa promotrice. L’autrice vuole valorizzare il ruolo del ricordo e della continuità culturale all’interno di una nazione frammentata, sparpagliata e minacciata dall’oblio, che cerca di ricomporre una propria identità, mescolando storia, memoria, sogno ed immaginazione. Ispirandosi al concetto di “Mnemohistory” elaborato da Jan Assmann 310 e consapevole delle distorsioni nella ricostruzione del passato, O’Reilly Herrera propone quindi un nuovo approccio critico per riconsiderare le dinamiche identitarie e le espressioni artistiche della Lost Generation, che enfatizzi i legami genealogici e la trasmissione multigenerazionale del senso di appartenenza culturale, sminuendo parallelamente il ruolo delle origini geografiche. Infine, in Cuban Artists Across the Diaspora, O’Reilly Herrera racchiude emblematicamente le dinamiche che caratterizzano l’identità in perenne divenire delle “Cuband ‘presences’”, nella descrizione della genesi di Café (acronimo per Cuban American Foremost Exhibitions), la mostra itinerante nata da un idea dell’artista cubano Leandro Soto (oggi trapiantato in Arizona). Soto rivede nel 309 “Gerarchia di autenticità”; “Nullificazione culturale e storica”. O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering”, 182 e 183. 310 “Mnemostoria”. Jan Assmann, “Mnemohistory and the Construction of Egypt”, Moses the Egyptian: The Memory of Egypt in Western Monotheism (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1997), 1-22. 137 rituale della preparazione e condivisione del caffè fatto in un “Cuban way”311, un atto di rigenerazione del proprio senso di “cubanità”, arricchito di volta in volta degli elementi innovativi (ingredienti, atmosfere, conversazioni, etc.) apportati dal luogo in cui lo stiamo prendendo o dalle persone con cui lo condividiamo. 311 “Secondo lo stile cubano”. Andrea O’Reilly Herrera “Repeating the Unrepeatable: CAFÉ and the journeys of Cuban Artists”, Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House (Austin: University of Texas Press, 2011) 15-25. 138 Capitolo 4 ANALISI COMPARATA DELLE OPERE PRIMARIE ANALISI NARRATOLOGICA 4.1 The Pearl of the Antilles, Andrea O’Reilly Herrera 4.1.1 Dall’acquarello alla pubblicazione La cosa es que yo siempre he querido escribir este libro, desde cuando era una niña siempre dije, “Voy a escribir una novela”. Y todo el mundo quería saber qué novela, y yo decía “I don’t know, pero va a salir, no sé cuándo”. Yo estaba muy cerquita de mis abuelos los cubanos. Mi abuelo murió cuando yo tenía 19 años y después mi abuela. En 1986 yo estaba embarazada de mi hijo y tres semanas después de su nacimiento, en marzo, ella murió. Me sentía muy triste. Tenía muchas fotos de cuando ella era joven y quería pintarlas, pues una noche me levanté y empecé con una foto de mi abuela, de cuando ella tenía 16 años. Al día siguiente mientras estaba sentada en una mecedora con mi hijo, empecé a escribir la novela, en ese momento. El cuadro de mi abuela (que ahora es la cubierta de la novela) fue la inspiración.1 L’impulso alla scrittura dell’unica opera in prosa di O’Reilly Herrera, nasce da un disegno ad acquarello, raffigurante una giovane donna dai capelli raccolti, con il viso reclinato verso il basso e lo sguardo apparentemente oscurato da un velo di tristezza. Ad illuminare le tonalità lilla dell’abito e dello sfondo, vi 1 “Io ho sempre voluto scrivere questo libro, fin da quanto ero bambina dicevo sempre ‘Scriverò un romanzo’. E tutti volevano sapere che romanzo e io dicevo ‘I don’t know, ma mi verrà, non so quando’. Io ero molto vicina ai miei nonni cubani. Mio nonno è morto quando avevo 19 anni e dopo di lui mia nonna. Nel 1986 ero incinta di mio figlio e, tre settimane dopo la sua nascita, a marzo lei è morta. Ero molto triste. Avevo molte foto di quando era giovane e volevo dipingerle, allora una notte mi sono alzata e ho iniziato con una foto di quando mia nonna aveva 16 anni. Il giorno successivo, mentre ero seduta su di una sedia a dondolo con mio figlio, ho iniziato a scrivere il romanzo, in quel momento. Il quadro di mia nonna (che ora è la copertina del romanzo) è stato l’ispirazione”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 139 sono due rose rosse cucite sullo scollo del vestito ed alcune chiazze di colore sul ventaglio che ha in mano. Il ritratto è stato realizzato dalla stessa autrice nel 1986, sulla base di alcune foto d’epoca della nonna cubana, alla quale voleva rendere omaggio a poche settimane dalla morte2. La visualità del disegno enfatizza il presentarsi del romanzo quale “modello finito di un mondo infinito”3. L’universo storico culturale che il quadro racchiude anticipa infatti la genesi dell’intera opera, che compone un susseguirsi di immagini, visioni, storie di famiglia e aneddoti in un insieme che diviene romanzo. Solo apparentemente frammentaria, la narrazione difatti ricostruisce “a portrait of that lost world and its attendant Weltanschauung – a world that many claim only exists in a cloud bank of nostalgia and memory or the realm of the vicarious imagination”4. La narratrice fa riferimento all’acquarello anche all’interno del racconto, quando descrive una foto della giovane Rosa, la protagonista denominata “The Pearl of the Antilles”, epiteto che rende omaggio alla sua bellezza ma anche alla storia di Cuba, conosciuta come “Perla delle Antille” fin dall’epoca coloniale, per lo splendore e la ricchezza delle sue risorse naturali5. 2 La foto dell’acquarello originale (incluso nella mostra itinerante CAFÉ) è fornita in appendice a questa tesi. 3 Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico (Milano: Mursia, 1980) 253. 4 “Un ritratto di quel mondo perduto e la relativa Weltanschauung – un mondo che, molti sostengono, esiste solo in una nube di nostalgia e memoria o nel regno dell’immaginazione vissuta di riflesso”. “Andrea O’Reilly Herrera”, Contemporary Authors 193 (2001): 191. 5 L’immagine della perla nella tradizione letteraria anglo-americana, richiama inevitabilmente anche la bellezza e il carattere di Pearl in The Scarlet Letter, che la madre Hester ama vestire con abiti riccamente decorati e con motivi floreali, nonostante la bambina fosse il simbolo del suo amore adultero. Nel capitolo 7, ad esempio, Hester porta la figlia dal Governatore Bellingham con indosso un vestito rosso: “abundantly embroidered in fantasies and flourishes of gold thread / abbondantemente decorato con fantasie floreali di filo dorato”. Il romanzo è disponibile in forma di e-book dal sito del Progetto Gutemberg: <http://www.gutenberg.org/ebooks/33>. Data di accesso, 20 gennaio 2013. La perla inoltre è notoriamente un simbolo di fertilità e femminilità, come conferma il dizionario dei simboli della University of Michigan: “The pearl is a symbol of perfection and incorruptibility; it is a symbol of long life and fertility, and because of its luster it is 140 Dopo un lungo processo di scrittura e dopo un passaggio da una casa editrice ad un’altra, lo stesso acquarello illustra anche la copertina del romanzo, pubblicato nel 2001 (a distanza di anni dalla realizzazione del disegno originale), suggellando in questo modo la trasformazione di un’immagine in un’opera compiuta. 4.1.2 Quadro sinottico L’opera si apre con la misteriosa descrizione di un’anziana donna – “the ancient one”6 – che contempla dall’alto di una montagna le celebrazioni per la festa della Vergine del Monte Carmelo del 16 luglio, che si stanno svolgendo nel paese sottostante. Mentre osserva la statua della Madonna portata in processione dai fedeli, la donna ha un’inquietante visione: dodici figure incappucciate con una veste bianca seguono un prete anziano e barbuto che impugna un bastone ricurvo in una mano ed una scopa nell’altra. Accompagnato dal suono dei tamburi batá, il gruppo raggiunge la cima della montagna dove si unisce a una folla di altre persone in una danza circolare, frenetica e convulsa, “like a serpent with its tail in its mouth” 7 . L’atmosfera festosa viene improvvisante rotta quando i dodici si sfilano il cappuccio, mostrando i loro volti mostruosi con sembianze da corvi. often considered a moon symbol. Buried within the oyster shell, the pearl represents hidden knowledge, and it is highly feminine. Many eastern philosophies (Buddhism, Taoism, Hindu) relate the ‘flaming pearl’ to wisdom and spiritual awareness. / La perla è un simbolo di perfezione e incorruttibilità, di lunga vita e fertilità e, per la sua lucentezza, è spesso considerata un simbolo della luna. Custodita all’interno del guscio dell’ostrica, la perla rappresenta la conoscenza nascosta ed è altamente femminile. Molte filosofie orientali (buddismo, taoismo, induismo) mettono in relazione la ‘perla fiammeggiante’ con la saggezza e la consapevolezza spirituale”. University of Michican, “Pearl”, Symbolism Dictionary <http://www.umich.edu/~umfandsf/>. Data di accesso, 20 gennaio 2013. 6 “L’anziana”. Andrea O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2001) s.n. 7 “Come un serpente con la coda in bocca”. Ibidem, s.n. 141 La folla li riconosce ma non ha il coraggio di pronunciare i loro nomi e tra tuoni e grandine si inginocchia, emettendo grida di rabbia e disperazione. Il prete li obbliga a gettare i loro figli in mare, facendoli rotolare dal fianco della montagna. Richiama poi uno stormo di uccelli neri che si accaniscono contro la folla disarmata, beccando i genitali degli uomini, strappando i gioielli alle donne e portando via con sé “their futures and their pasts” 8 . Mentre le persone all’improvviso si trovano con le mani ed i piedi incatenati l’uno all’altro nel mezzo di una voragine di fuoco, un terremoto spacca la montagna e ne fa staccare una parte, che si muove e si allontana nel mezzo del mare. Proprio da questo pezzo di isola i figli, precedentemente gettati in mare, riemergono a riva, lanciando grida altisonanti, “like a cloud of doves”9. Quando l’anziana donna rinviene, si rende conto di aver perso il senso del tempo, mescolando passato e presente. E mentre il suo sguardo ricade nuovamente sulla processione che si stava svolgendo in paese, viene trafitta dall’improvvisa consapevolezza che qualcosa è andato irrimediabilmente e drammaticamente perso: “He perdido una perla, la he perdido en el mar”. Una voragine inattesa – simile a una ferita – si apre in lei e la donna si rimette in cammino, nella pioggia e nell’oscurità. A questa inquietante scena iniziale, apparentemente isolata dal resto del romanzo – senza numerazione di pagine, né riferimenti di luogo o tempo, né titolo – segue un articolato albero genealogico della famiglia protagonista dell’opera, con nomi e cognomi di cinque generazioni, collocati graficamente tra i rami frondosi di un imponente arancio. Tra questi, spiccano soprattutto nomi femminili 8 9 “I loro futuri e i loro passati”. Ibidem, s.n. “Come una nube di colombe”. Ibidem, s.n. 142 – diciotto, contro i sei maschili – tutti di origine ispanica, tranne l’ultimo, quello di Lilly. Nella prima scena dell’opera che si svolge nel maggio del 1946, la narratrice in terza persona ci descrive il diverbio tra i coniugi Amargo: Rosa e Pedro. Quest’ultimo ha ereditato dalla madre Fina una casa in Calle Semilla, a L’Avana, e sta cercando di convincere la moglie a lasciare la tenuta periferica di Cienfuegos per trasferirvisi. Dopo essersi ripetutamente opposta per il forte legame con la tenuta che era stata fondata dal bisnonno Paolo, Rosa deve piegarsi alla volontà del marito, separandosi dall’amata serva nera Tata (che si era presa cura di lei fin dalla nascita) per andare a vivere con le sorelle di Pedro nella capitale, in cui le figlie Caridad e Margarita avrebbero avuto anche migliori opportunità di trovare un marito all’altezza del loro ceto sociale. Durante tutta la prima parte dell’opera, al racconto primo incentrato sulle vicende familiari di Rosa in una Cuba pre-rivoluzionaria, si alternano lunghe digressioni sulla vita dei bisnonni Mariela e Paolo Moro, emigrati sull’isola dalla Spagna, per rivendicare una concessione terriera ricevuta dal re, come riconoscimento della fedeltà e del servizio prestato per la corona spagnola. Dopo aver deforestato l’area remota e depressa di Cienfuegos e avervi costruito una sontuosa dimora in stile neoclassico (denominata Tres Flores), Paolo fa piantare nel cortile di casa un arancio portato direttamente dalla Spagna, come simbolo delle proprie origini iberiche (a cui allude anche l’albero genealogico iniziale). L’arancio viene più volte citato dalla narratrice e farà da salda linea di continuità per le successive generazioni. 143 Avvia quindi le piantagioni di zucchero e tabacco, servendosi della manodopera degli schiavi (stipati nei “barracones”10). Tra questi, un ruolo a parte è assegnato a Tata, comprata da un colono inglese che l’aveva denominata “the ancient one”11. Tata potrebbe essere quindi la misteriosa anziana che appare nella scena iniziale. Tata aveva vissuto da sempre a Cienfuegos e, grazie alle sue doti di guaritrice ed alle amorevoli cure con cui si occupa della famiglia Moro, negli anni rappresenterà un solido punto di riferimento emotivo ed educativo, in particolare per le generazioni più giovani. Mentre la ricchezza terriera dei Moro si va consolidando, Paolo conquista – attraverso laute donazioni – i favori di Padre Rabia, il parroco gesuita del villaggio, anch’egli venuto dalla Spagna con un gruppo di suore carmelitane. Grazie alla sua intercessione ed ai succulenti dolci preparati da Tata ed offerti agli abitanti del paese, la famiglia si integra gradualmente nella comunità locale, riuscendo anche a far accettare la presenza dell’anziana serva, inizialmente malvista dalla comunità locale ed accusata di essere un pericolosa “cimarrona” o una “bruja” 12 venuta dalle montagne. La narrazione si sposta quindi in avanti di cinque anni, rispetto alla scena iniziale, e ci mostra Rosa – ormai stabilitasi all’Avana con la sorella María e le figlie adolescenti Caridad e Margarita – incinta, dopo una serie di pericolosi aborti e nonostante l’ammonimento dei medici ad evitare ulteriori gravidanze. Pedro continua a recarsi con frequenza a Cienfuegos per controllare l’andamento delle 10 “Baracche”. Ibidem, 66. “L’anziana”. Ibidem, 13. 12 “Schiava fuggiasca”, “strega”. Ibidem. 11 144 piantagioni ereditate dal suocero Antonio e ormai coltivate da braccianti locali, estremamente devoti agli Amargo13. Proprio nelle settimane finali della sua gestazione, ignorando l’espresso divieto di Pedro, Rosa decide di raggiungerlo a Cienfuegos con le due figlie, intraprendendo un lungo viaggio in treno, scortata dal servo Manuel, per poter riabbracciare nuovamente l’amata Tata e ricongiungersi al marito. Quest’ultimo, offeso dall’irriverenza della moglie e seccato dalla sua intrusione che intralciava anche la messa in atto dei suoi abusi sulla serva mulatta Casandra, non accoglie favorevolmente la sua visita a sorpresa. La mattina successiva al suo arrivo, dopo aver contemplato la bellezza della moglie ancora addormentata, parte per visitare le coltivazioni della tenuta, senza svegliarla né salutarla. Nel frattempo, la figlia tredicenne Margarita, esce dal recinto della casa e si avventura da sola per le vie del paese, gremite di gente in occasione dei festeggiamenti della Vergine del Carmelo. Quando Rosa apre gli occhi svegliata da una “Mayan Goddess”14 che le si era presentata in sogno, inizia a sentire alcuni dolori e – mentre cerca di tranquillizzarsi – vede lo spirito della madre defunta Rafaela, seduta al tavolo della sua stanza. Rosa vive quest’apparizione con estrema naturalezza, anche grazie alla convinzione diffusa che le donne incinta siano più sensibili ai segnali dell’aldilà, e ne approfitta per chiedere alla madre quale sarà il sesso del nascituro, mossa dalla speranza di poter finalmente soddisfare le aspettative del marito, dando alla luce un figlio maschio. Rafaela evita però di risponderle e, per la prima 13 La schiavitù a Cuba viene abolita nel 1886, come conferma la cronologia curata da J.A. Sierra su “The Timetable of the History of Cuba” <http://historyofcuba.com/>. Data di accesso 04 novembre 2012. 14 “Divinità maya”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 131. 145 volta, le confida in lacrime le angherie subite in vita: prima dal padre Paolo e poi dal marito Antonio. Quest’ultimo, oltre ad esser stato estremamente freddo ed autoritario, non le aveva mai perdonato la morte prematura dell’unico figlio maschio che aveva messo al mondo. Di lì a poco, Rosa viene trafitta da un dolore lancinante che la fa cadere a terra, priva di vita. La serva Casandra, alla quale Tata aveva lasciato il compito di vigilare sulla donna in sua assenza, dal cortile della casa si accorge dell’accaduto e corre in suo soccorso. Quando Tata fa ritorno dai monti dove era solita recarsi, trova la giovane mulatta distesa sul corpo senza vita di Rosa nel tentativo di ripararla dalla pioggia battente. Casandra aveva inoltre già provveduto a lavare e proteggere i due gemelli che Rosa aveva messo al mondo – uno dei quali, era nato morto. Nel frattempo, Pedro cade da cavallo e si ferisce gravemente, durante la strada di ritorno dalle piantagioni; mentre Margarita, dopo aver assistito alla processione ed aver fatto visita alla chiesa del paese, rientra a casa sempre da sola, quando la mamma è ormai morta. La prima parte dell’opera di chiude proprio con le parole di Tata che accoglie la ragazzina al suo rientro, “I couldn’t help her, niña. There was nothing I could do”15. A fare da ponte tra la prima parte (denominata “Part One”) e l’ultima (denominata “Part Two”), vi sono una serie di lettere che María, la sorella di Rosa, scrive alla nipote Margarita, nel frattempo trasferitasi negli Stati Uniti. Queste epistole coprono un arco temporale di circa venti anni, dal febbraio del 1964 al marzo del 1982 e si differenziano dal resto del romanzo sia per il carattere 15 “Non sono riuscita ad aiutarla niña. Non ho potuto fare niente”. Ibidem, 193. 146 tipografico utilizzato sia per lo sfondo su cui sono stampate, che vuole imitare, anche graficamente, una corrispondenza reale. Nelle sue lettere María descrive alla nipote la dura situazione storicopolitica della Cuba post-rivoluzionaria, alludendo alle ristrettezze alimentari, alla drastica perdita di libertà d’espressione, alle inique azioni della polizia politica, ai campi di lavoro per gli omosessuali e alle espropriazioni messe in atto dai seguaci della rivoluzione, nel tentativo di realizzare l’ideale castrista di una società senza classi. Le racconta anche di come Pedro, il padre, avesse perso la lucidità e stesse degenerando in uno stato di malattia mentale, per il dolore legato alla perdita di Rosa e per l’incapacità di accettare le scelte di vita della figlia, che rinnega fermamente, chiedendone addirittura la cancellazione dai registri parrocchiali. Pedro si rifugia in un cieco sostegno delle ideologie rivoluzionarie che, ad un certo punto, gli si ritorceranno però contro, facendolo sprofondare in una voragine di disillusione. La sua casa di Calle Semilla all’Avana, viene infatti posta sotto sequestro, costringendolo a tornare dalla cognata e da Tata nella tenuta di Cienfuegos. Alcune delle lettere non sono né firmate né datate, altre sono solo frammenti, altre ancora sono ripetute ed in ogni caso non appaiono in progressione cronologica. La voce della zia María si alterna di tanto in tanto a quella di Tata che, essendo analfabeta, chiede aiuto a Checha o ad altre serve, per scrivere a Margarita. Nelle sue rare lettere anche Tata racconta il suo punto di vista su Cuba e sulla situazione della sua famiglia, fornendo sempre una visione alternativa e più profonda, come quando le rivela che si è messa in contatto con lo spirito di Rosa, anticipandole la morte imminente del padre. Proprio mentre la 147 morte di Pedro si avvicina, l’uomo cambia idea sulla figlia e comincia a chiedere ripetutamente di lei e del figlio che la donna ha messo al mondo nel frattempo. Poiché le lettere non ricevono nessuna risposta da Margarita – anche se sappiamo da due riferimenti della zia, che la donna ha fatto arrivare sue notizie a Cienfuegos (“we haven’t heard from you in over three years”; “he makes me read your letters over and over again” 16 ) – l’ultima parte dell’opera (“Part Two”) sembra proprio colmare il vuoto di informazioni amplificato da questa corrispondenza a senso unico. La protagonista dell’ultima parte è infatti una Margarita quarantacinquenne, descritta nel marzo del 1986 mentre riapre per le vacanze di Pasqua la casa di famiglia sulla costa del New Jersey. Attraverso i ricordi della donna, ora sposata con Joey e madre di due figli – Lilly e Peter – si ricompongono i tasselli mancanti della narrazione, in particolare le parti che seguono la morte della madre, le circostanze che hanno portato Margarita ad abbandonare l’isola, il suo adattamento alla vita negli Stati Uniti ed infine la sua nuova dimensione coniugale e familiare. Apprendiamo quindi che dopo tre settimane trascorse a letto per lo shock dovuto alla perdita della madre, quando la piccola Margarita si riprende scopre che il padre l’aveva abbandonato a Cienfuegos. Era infatti tornato nella casa della capitale, dopo aver disposto che le figlie fossero affidate tutte e tre (includendo la neonata, battezzata Violeta) alle suore carmelitane del villaggio. Margarita è l’unica che viene sottratta a questo destino, grazie al fermo diniego di Tata, che impedisce a Pedro di consegnarla al convento. 16 “Non sappiamo niente di te da tre anni”, “mi fa rileggere le tue lettere continuamente”. Ibidem, 194, 215. 148 Il giorno del suo quindicesimo compleanno il padre, pentito, riappare a Cienfuegos per riportarla con sé nella casa de L’Avana, dove Margarita può rientrare nella stanza della mamma (rimasta ancora sorprendentemente intatta, a distanza di due anni), riscoprendo alcuni suoi preziosi cimeli: come lo specchio decorato, la valigia personale, il porta cipria di pelle, ed in particolare il suo diario. Spinta da Tata che l’aveva più volte incoraggiata a non dimenticare il passato della propria famiglia, né i sogni che animavano le sue notti, Rosa aveva infatti trascritto per anni i suoi pensieri nel suo “green Morocco note book”17, su cui anche Margarita scriverà fino al 1964. Nel frattempo, attanagliato dai sensi di colpa per non aver svegliato e salutato Rosa l’ultima mattina in cui l’ha vista in vita, e vivendo nell’angoscia di perdere anche sua figlia, Pedro preso da un forte spirito di protezione, la educa con rigore e severità, scoraggiando ogni vanità femminile fino al punto da impedirle di usare l’amato specchio decorato della mamma. Dopo diversi anni, le annuncia di averla promessa in sposa a Raúl Casagrande – figlio di un suo collega d’affari. La ragazza tuttavia non accetta la proposta e rivela al padre di essere incinta di un altro uomo, Pedro reagisce con estrema durezza e la caccia di casa. Nonostante la fiducia riposta in lui, la ragazza viene allontanata crudamente anche dal suo compagno, un fervente seguace degli ideali rivoluzionari. Questi di fatto, non può accettare di vedersi associato a lei e al passato colonialista della sua famiglia. La abbandona quindi in mezzo ad una 17 “Taccuino verde in pelle marocchina”. Ibidem, 145. 149 strada, gridandole contro parole spietate: “words [that] stung her like a sharp thorn in her side […]: ‘Go back to your rich father. Eres una puta’”18. Dopo essersi vista negare ospitalità anche dalla zia María, che non accetta la vergogna di un nipote illegittimo, Margarita trova finalmente rifugio dai cugini Ignacío e Lucía. In seguito alla nascita del bambino e alla presa di potere da parte delle milizie rivoluzionarie, Margarita comincia a temere ripercussioni contro di lei e del figlio. In uno stato di forte incertezza politica e sociale, decide allora di prendere contatti con il consolato americano, per poter lasciare l’isola. Le viene quindi spiegato che per ottenere un visto sarebbe dovuta partire da sola, lasciando il figlio ad un’abbiente famiglia americana sull’isola, per poi chiedere il ricongiungimento, non appena avesse ottenuto la cittadinanza statunitense. Pur tra laceranti titubanze Margarita accetta la proposta e parte per Miami stringendo tra le mani la foto del figlio. Al suo arrivo la donna trova lavoro come inserviente per una famiglia cubana, i Maradona, ma è subito scioccata dalla superficialità e dal materialismo della cultura che la circonda e decide di racimolare al più presto possibile il denaro necessario per poter tornare dal figlio. Passa quindi da un lavoro all’altro, fino al giorno in cui riceve un telegramma che spezza definitivamente in due la sua vita: il consolato americano la informa della tragica morte del figlio, a seguito di un attentato messo in atto dal gruppo antirivoluzionario “The Freedom Fighters”19. Sentendosi tradita da ogni parte (dalla famiglia, dal compagno sostenitore della rivoluzione e persino dai seguaci della libertà), decide allora di tagliare drasticamente i ponti con il proprio passato. Si trasferisce ad Atlanta, lontano dalla 18 “Parole [che] la punsero come una spina acuminata nel fianco […]: ‘Tornatene dal tuo ricco padre. Eres una puta’”. Ibidem, 278. 19 “I lottatori della libertà”. Ibidem, 283. 150 comunità cubano-americana di Miami, cambia il suo nome in Daisy ed inizia a studiare ossessivamente inglese, pur di dimenticare la sua lingua materna. Sempre in Georgia conosce e sposa Joey, con il quale si trasferirà nel Nord-est senza mai far menzione della propria vita precedente. Quando dopo dieci anni di matrimonio rimane incinta, la donna crede finalmente di poter riscattare la perdita del figlio, mettendo al mondo un “sostituto”. Ma le sue illusioni si frantumano di fronte alla nascita di una bambina – Lilly, che ha nel viso gli stessi tratti somatici della mamma: “Rosa’s features had been repainted onto her granddaughter’s face”20. Dopo appena otto mesi, Margarita rimane nuovamente incinta, ma questa volta il suo desiderio viene esaudito e la donna partorisce un figlio maschio, Peter, che sarà fin da subito il suo favorito. Lilly cresce dunque all’ombra del fratello, sentendosi trascurata dalla madre, ma soprattutto incapace di penetrare il muro di silenzio sul passato della famiglia, che Margarita ha eretto tra sé e la figlia. Frugando tra i cassetti della madre, Lilly ritrova il prezioso diario che la mamma aveva ereditato da Rosa e comincia ad esplorarlo, cercando di intuire il significato dei misteriosi scritti in spagnolo, o di immaginare l’identità delle persone dai visi familiari che appaiono nelle foto in bianco e nero che conteneva. Ad un certo punto la ragazza sente l’impulso di trascrivere nello stesso diario alcune visioni esotiche e suggestive che avevano iniziato a popolare la sua mente, dal giorno del ritrovamento. Contemporaneamente, Margarita si rende conto della lontananza che la stava irrimediabilmente isolando dalla figlia e sente l’urgenza di fare i conti con il proprio passato. Decide allora di aprire il pacco di lettere che negli anni aveva 20 “I tratti di Rosa erano stati ridipinti sul viso della nipote”. Ibidem, 258. 151 ricevuto da Cuba e che aveva consapevolmente deciso di non leggere (ad eccezione della prima), per evitare il dolore del ricordo. Margarita aveva risposto alla zia soltanto due volte, per annunciare la nascita del nipote e per accertarsi delle condizioni di salute di Tata, di cui presentiva la morte. Mentre si trova con tutta la famiglia nella casa estiva sulla costa del New Jersey, trascorre allora un’intera notte a leggere le parole della zia e di Tata. Apprende dunque che cosa era successo nei ventisei anni in cui era stata lontana dall’isola, venendo a conoscenza anche delle drammatiche condizioni di vita dei cubani e della morte del padre che, fino all’ultimo, aveva chiesto di lei. Si rende conto allora che è giunto il momento di perdonarlo, liberandosi dalla sofferenza che l’aveva imbrigliata in sé stessa per anni. Dopo essersi punta con le spine di un cactus del proprio giardino, Margarita emette un grido profondo che le permette di rielaborare il proprio dolore e di liberarsi dalla rabbia che aveva covato fino a quel momento. Raggiunge quindi la figlia nella sua stanza e la trova circondata dalle foto, dai ritagli a dagli scritti del “green Morocco notebook”. È il giorno del suo compleanno e Margarita, dopo averle fatto gli auguri, asseconda il desiderio della ragazza che le chiede di raccontarle di Cuba. Inizia così un lungo racconto che Lilly ascolta (e forse trascriverà) “like a disciple”21. 4.1.3 Intrecciando voci e prospettive L’opera è caratterizzata da un’architettura romanzesca corposa e non lineare che, andando avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mescola scene della Cuba coloniale, precomunista e post-rivoluzionaria, a episodi ambientati a 21 “Come una discepola”. Ibidem, 353. 152 Miami, Atlanta, e nel New Jersey, fino a coprire un arco temporale di due secoli (dal XIX al XX), ed una geografia che va dai Caraibi alle coste del Nord Est degli Stati Uniti. Il romanzo si configura quindi come un trittico (“Parte One”, lettere e “Part Two”) sorretto da un’unica voce narrante in terza persona, femminile, onnisciente e in posizione eterodiegetica, con una focalizzazione variabile, da zero a interna, che assume di volta in volta il punto di vista delle tre protagoniste dell’opera: Rosa (la prima generazione), Margherita (la seconda) e Lilly (la terza). Non è soltanto la focalizzazione a cambiare ma anche il linguaggio (fortemente condizionato dall’età delle protagoniste e dal tempo della narrazione), che contribuisce a ricreare le modalità espressive dei personaggi e, più in generale, la loro prospettiva, ovvero “everything that exists in the mind of a character, […] the sum of all the models he/she has constructed of the world, of others and of herself”22. Nella prima parte, ad esempio, nonostante i tempi verbali siano tutti al passato, si ricrea un effetto di immediatezza e di assenza di filtri nella narrazione, grazie all’universo puerile di una Margarita poco più che tredicenne, reso attraverso un linguaggio infantile, semplice e diretto, puntellato di immagini vivissime, con le quali spesso si compensano le carenze lessicali o le difficoltà di comprensione dei fatti. E così ad esempio, mentre nella casa di Calle Semilla assiste alle chiacchiere da salotto delle zie, costretta a stare in silenzio perché la buona 22 “Tutto ciò che esiste nella mente dei personaggi, […] la somma di tutti i modelli che essi hanno costruito del mondo, degli altri e proprio”. Ansgar Nünning, “On the Perspective Structure of Narrative Texts: Steps towards a Constructivist Narratology”, New Perspectives on Narrative Perspective, eds. Peer, Willie Van e Seymour Benjamin Chatman (Albany: State University of New York Press, 2001) 211. 153 educazione prescrive che “girls should be seen and not heard unless they’re invited to speak” 23 , Margarita non può fare a meno di notare la corporatura pasciuta di una delle zie (tanto dissimile da quella esile e aggraziata della sorella Rosa), descrivendola con le immagini che le erano più familiari: “[h]er fingers were like chorizos. How can one be so slim and the other such a gordita?”24. Allo stesso modo, il mondo degli animali è un prezioso serbatoio di immagini per la sua candida fantasia e quando osserva i facchini neri che spostano freneticamente le pesanti valige della mamma, li paragona a delle “giant ants”25. Il giorno della sua prima Comunione invece, Margarita è talmente emozionata con non osa neanche cantare per la paura che “a cloud of yellow butterflies would escape from her churning stomach and fly through the air above her head”26. In un’altra occasione, dopo aver ascoltato di sfuggita una conversazione su di una certa “condizione” in cui si trovava Rosa, la piccola inizia subito a preoccuparsi per la salute della madre (“Can you die from a condition?”27) ma le sue insistenti richieste di spiegazioni sono eluse dalle zie imbarazzatissime, che non hanno il coraggio di parlare della gravidanza di Rosa, e finiscono per definirla misteriosamente un sacrificio: “it’s a small sacrifice, dear niece, that all of us, must learn to accept”28. Grazie ad un occhio interno sul suo stato d’animo, apprendiamo che la piccola – scoraggiata e confusa dalle risposte sibilline delle adulte – non desidera 23 “Le ragazze si devono vedere ma non sentire, a meno che non siano invitate a parlare”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 44. 24 “Le sue dita erano come chorizos. Come può una essere così magra e l’altra una tale gordita”. Ibidem, 32. 25 “ Mosche giganti”. Ibidem, 108. 26 “Una nube di farfalle gialle potesse fuoriuscire dal suo stomaco in subbuglio, volando nell’aria sopra la sua testa”. Ibidem, 76. 27 “Si può morire per una condizione?”. Ibidem, 28. 28 “È un piccolo sacrificio cara nipote, che tutte noi dobbiamo imparare ad accettare”. Ibidem, 30. 154 altro che poter tornare nel suo rifugio prediletto: Tres Flores (il nome dato alla loro casa di Cienfuegos), per ascoltare, senza complicazioni né orpelli, le amate storie di Tata e della zia Marta e potersi finalmente liberare delle sue scarpe scomode, tanto rigide quanto l’educazione imposta dalle zie: Now, sitting among the circle of women, who insisted upon talking in riddles, Margarita felt more confused than ever, and Tata wasn’t there to explain. Imprisoned in her stiff shoes and her starched dress, Margarita could not help but think how miserable she was, and how much more she preferred the long, balmy evenings at Tres Flores when she and Caridad, along with Tía María and her mother, would sit in a circle listening to her great-aunt, Tía Marta, tell stories.29 E poiché nessuna le aveva mai spiegato dei cambiamenti del corpo femminile, il giorno della sua prima mestruazione la povera Margarita è convinta di essere stata ferita: “somehow she had been wounded during the night. […] She was certain that she had contracted the very same condition her mother and aunt had spoken about in whispers”30. O ancora è attraverso gli occhi candidi e privi di artifici della piccola protagonista, che il narratario apprende della povertà che dilaga nell’isola e di cui il padre inspiegabilmente sembra non accorgersi, quando sfoggia la sua scintillante auto cromata americana, nei sobborghi de L’Avana: Despite her father’s insistence that there was no poverty in Cuba – “it’s a paradise”, he would insist whenever she questioned him – Margarita could not shake herself free of the memory of the children by the side of the road – with their bare feet and large, distended bellies – though they seemed to be invisible to everyone but her.31 29 “Ora, seduta in mezzo al cerchio di donne che continuavano a parlare per enigmi, Margarita si sentiva più confusa che mai e Tata non era lì a darle spiegazioni. Imprigionata nelle sue scarpe rigide e nel vestito inamidato, Margherita non poté fare a meno di pensare a quanto fosse triste e a quanto preferisse le lunghe e tiepide serate a Tres Flores, quando lei e Caridad, insieme a Tía María e a sua madre, sedevano in cerchio ad ascoltare la prozia, Tía Marta, che raccontava storie”. Ibidem, 30. 30 “In qualche modo era stata ferita durante la notte. […] Era sicura di aver contratto la stessa condizione di cui la mamma e la zia avevano parlato bisbigliando”. Ibidem, 67. 31 “Nonostante il padre insistesse che non c’era povertà a Cuba – ‘è un paradiso’, ripeteva ogniqualvolta lei glielo chiedesse – Margarita non riusciva a liberarsi dal ricordo dei bambini sul bordo della strada – a piedi scalzi e con grandi pance dilatate – che sembravano invisibili agli occhi di tutti, tranne i suoi”. Ibidem, 128. 155 Quando le posizioni degli adulti e le loro costruzioni culturali vengono filtrate dagli occhi della bambina, si rivelano assurde e prive di fondamento. Per questo la sua ottica infantile ed estraniata viene spesso usata per portare alla luce i temi tabù dell’educazione femminile dell’epoca, i cliché della cultura tradizionale e le ipocrisie dell’aristocrazia terriera. Nell’ultima parte del romanzo, quando la focalizzazione interna torna su Margarita – ormai donna di mezza età, disillusa e sfiorita, che ricorda il proprio passato sull’isola, attraverso frequenti analessi – l’effetto che si ricrea è quello di una narrazione “ulteriore”32 ed estremamente lontana dal tempo in cui si suppone si siano svolti i fatti. La voce narrante stessa assume quindi toni più maturi e consapevoli, mentre a livello di immagini scompare il linguaggio altamente figurato, ricco di sinestesie (“a white electric pain”; “red chaos”33) e di vivide descrizioni del paesaggio rigoglioso dei Caraibi, per lasciare spazio a figure retoriche più cupe e spente: come in una transizione simbolica del personaggio dall’eterna primavera di Cuba, all’autunno degli Stati Uniti. Nella prima parte abbondano i riferimenti ai colori, ai profumi ed alla natura lussureggiante: “while she spoke, the fabric sprouted and bloomed beneath her needle like a tropical garden” (30); “an anarchy of colors and smells that drowned Rosa’s senses” (130); “the women […] balanced baskets filled with succulent, exotic fruits and brightly colored flowers upon their heads” (140); “they formed a riot of shapes and colors (182)”.34 Nell’ultima parte, al contrario, prevalgono le immagini spente e asfittiche in cui si concretizza lo stato d’animo di Margarita. Ciò accade, ad esempio 32 Gérard Genette, Figure III: Discorso del racconto (Torino, Einaudi, 1986) 264. “Un bianco dolore elettrico”, “caos rosso”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 183, 188. 34 “Mentre parlava, il tessuto sbocciò e fiorì sotto il suo ago, come un giardino tropicale” (30); “un’anarchia di colori e odori che inondò i sensi di Rosa” (130); “le donne [...] tenevano in equilibrio sulla testa ceste piene di frutti esotici e succulenti, e fiori variopinti” (140); “Formavano un tripudio di forme e colori” (182). Ibidem. 33 156 quando riceve la notizia della morte della zia María (“something had snapped within her like a branch caught underfoot on an autumn day […], the life she had kept so tightly wrapped, like the leaves of her father’s thick black cigars, had come undone”35); o quando la donna si guarda allo specchio e descrive il suo avvilimento: “the person who stared back at her from the glass looked like a faded flower” (272); “The years had gutted her like the deer that Joey brought home from the mountains during hunting season on the roof of his car, […] the years had lacquered and sealed her up like one of the polished Chinese boxes on her mother’s dressing table” (273).36 Quando lo sguardo di Margarita si rivolge al passato, la voce narrante fa invece emergere chiaramente la frizione tra l’“io” che ricorda” e l’“io” che ha vissuto 37 , con commenti che rivelano come la percezione del vissuto sia rimodellata in base alla consapevolezza presente del personaggio. Lo dimostrano le riflessioni più meditate e fatte a posteriori con cui vengono descritti alcuni episodi della vita a Cuba di Margarita, nell’ultima parte dell’opera; come quando nel raccontare il funerale della madre, la donna realizza che quel giorno ha segnato la fine della sua infanzia: “Now, in retrospect, she realized that in a single afternoon the world as she had known it had simply vanished and her childhood 35 “Qualcosa si era spezzato dentro di lei come un ramo pestato in un giorno di autunno [...], la vita che aveva tenuto così strettamente avvolta, come le foglie degli spessi sigari neri di suo padre, si era srotolata”. Ibidem, 248. 36 “La persona che la fissava dal vetro sembrava un fiore appassito” (272); “Gli anni l’avevano sventrata come il cervo che Joey portò a casa dalle montagne durante la stagione della caccia sul tetto della sua auto, [...] gli anni l’avevano laccata e sigillata come una delle scatole cinesi lucide sul tavolino di sua madre” (273). Ibidem. 37 Erll li definisce “remembering I” e “experiencing I”. Astrid Erll, “Narratology and Cultural Memory Studies”, Narratology in the Age of Cross-Disciplinary Narrative Research, eds. Heinen, Sandra e Roy Sommer (Berlin: Walter de Gruyter, 2009) 223. 157 abruptly ended” 38 , una considerazione che non poteva appartenere ad una Margarita tredicenne. La parte centrale, quella delle lettere, segna invece il passaggio da una voce narrante eterodiegetica ad una omodiegetica, in particolare nelle epistole di María, in cui la donna prende personalmente la parola per dare a Margarita la sua testimonianza sulla condizione della famiglia e sugli accadimenti della Cuba postrivoluzionaria. Il tempo della narrazione in questo caso è “intercalato”39, ma non secondo lo standard canonico del romanzo epistolare, per la totale assenza di risposte da parte del destinatario – fatta accezione per i due riferimenti indiretti a delle lettere che Margarita sembra aver spedito ma che, in ogni caso, non vengono fornite nel testo. Le voce di María si dilata quindi fino ad assumere quasi le sembianze di un monologo, che conserva una delle maggiori peculiarità di questa forma di narrazione, ovvero la lieve discordanza temporale tra la simultaneità assoluta nell’esposizione dei pensieri (o il “quasi monologo interiore”) ed il resoconto successivo allo svolgimento dei fatti. Prendendo in prestito il linguaggio radiofonico, Genette descrive questo sfasamento come la distinzione tra il “collegamento in diretta” e la “trasmissione in differita”40. Pur considerando la vicinanza e la quasi simultaneità tra la storia ed il racconto nelle lettere di María, ci troviamo comunque di fronte a due protagoniste successive (quella che vive i fatti e quella che li racconta), in cui solo la seconda corrisponde in pieno alla narratrice delle epistole. Di fatto, le considerazioni e gli avvenimenti esposti, sono in ogni caso mediati e rispecchiano il punto di vista 38 “Ora, in retrospettiva, si rese conto che in un unico pomeriggio il mondo, così come lo aveva conosciuto, era semplicemente svanito e la sua infanzia era terminata all’improvviso”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 252. 39 Genette, Figure III, 264. 40 Ibidem, 265. 158 ponderato di una María che ha potuto riflettere su ciò che è accaduto (anche solo poche ore prima) e che negli anni ha acquisito un occhio critico più disincantato, soprattutto alla luce delle esperienze precedenti. E così, se nelle prime lettere, scritte dopo aver assistito a detenzioni ingiuste da parte del governo, María continua a farsi portavoce della convinzione, diffusa in quel momento, che tutto sarebbe tornato alla normalità nel giro di un anno (“in a year or so things will get back to normal”); nelle ultime missive non solo non cita più questa possibilità, ma si appella alla nipote affinché invii viveri (“If you can, send us some Lipton Chicken Noodle”) o affinché possa attivarsi per accedere al piano di ricongiungimento familiare (“The government has inaugurated the family reunification program. Por favor, nena, ven con tu hijo”) 41. La comunicazione con la nipote – comunque a senso unico – è inoltre ostacolata da una serie di “rumori” che intralciano la trasmissione del messaggio. Si tratta di interferenze fisiologiche (come l’artrite o la vecchiaia della zia) o di evidenti interferenze esterne, come la forte censura del regime castrista ed il terrore dei cubani di essere intercettati e detenuti, che induce María a non firmare molte delle sue lettere, a omettere i cognomi o i nomi dei luoghi, a riscrivere più volte le stesse missive, pur di farle arrivare alla nipote etc.: Fear keeps me from signing my letters or using the last names of our relatives and friends. We are told that the revolution has guaranteed all Cubans freedom of speech – qué chiste – so I trust that with a little help from a few friends here and there, my letters will reach your hands. […] You know my arthritis bothers me, but I promise to write whenever I can.42 41 “In un anno o poco più, le cose torneranno alla normalità”, “Se puoi, mandaci la minestra di pollo Lipton”, “Il governo ha inaugurato il programma di riunificazione familiare. Por favor, nena, vieni con tuo figlio”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 195, 219, 229. 42 “La paura mi impedisce di firmare le mie lettere o di usare i cognomi dei nostri parenti e amici. Dicono che la rivoluzione ha garantito a tutti i cubani la libertà di parola – qué chiste– così credo che con un piccolo aiuto da alcuni amici qua e là, le mie lettere arriveranno nelle tue mani. [...] Sai che la mia artrite mi dà fastidio, ma prometto di scrivere tutte le volte che potrò”. Ibidem, 197. 159 A posteriori apprenderemo poi attraverso Margarita, che molte lettere sono comunque andate perse, vista l’irregolarità delle date d’arrivo e i riferimenti confusionari che esse contengono, mentre l’ultima arriva priva di contenuto: “with this letter María had failed, for the envelope was empty and the bottom had been sliced open with a sharp object like a bloodless wound”43. L’altro tipo di rumore che ostacola la comunicazione tra le due donne è invece di carattere psicologico e consiste nel blocco interiore e nel rifiuto che Margarita oppone al suo passato. Questo atteggiamento la porterà a rigettare ogni collegamento con Cuba (a cui niente sembra legarla dopo il ripudio del padre e della stessa zia María, oltre che dell’uomo che aveva amato). Questa resistenza si trasforma nel vuoto di scambio e comunicazione delle lettere morte. Margarita sembra chiudere le orecchie della mente, del cuore e dell’immaginazione come Ulisse, rifiutandosi di cedere alla voce delle sirene di Cuba per ventisei anni. Tanti infatti ne passano dall’apertura delle lettere, fatta accezione per la prima: Though she had continued to write to Tata and her aunt, Margarita had never bothered to open up the letters that arrived from time to time. Fearing that if she read them, she’d be tempted to return to Cienfuegos – something she had vowed she’d never do – she had left them untouched and forgotten in the top drawer of her writing desk. She had read the first only to be sure that Tata had recovered. The others remained sealed in their envelopes and arranged in the order in which she’d received them”.44 Per le poche lettere scritte da Tata invece, nonostante l’uso della prima persona e l’inevitabile sfasamento temporale tra storia e racconto, va considerato anche un altro fattore: poiché l’anziana donna è analfabeta, le sue parole vengono 43 “Con questa lettera María aveva fallito, poiché la busta era vuota e il fondo era stato aperto con un oggetto appuntito, come una ferita senza sangue”. Ibidem, 343. 44 Anche se aveva continuato a scrivere a Tata e alla zia, Margarita non si era mai preoccupata di aprire le lettere che arrivavano di tanto in tanto. Temendo che, se le avesse lette, avrebbe avuto la tentazione di tornare a Cienfuegos – cosa che aveva giurato di non fare mai – le aveva lasciate intatte e le aveva dimenticate nel cassetto più alto della sua scrivania. Aveva letto la prima solo per esser sicura che Tata fosse guarita. Le altre rimasero sigillate nelle loro buste, ordinate nell’ordine in cui le aveva ricevute. Ibidem, 325. 160 trascritte da Checha, aggiungendo quindi un filtro ulteriore al suo discorso (“Checha has offered to write for me, corazón”45). In ogni caso, grazie ai poteri soprannaturali di Tata e alla speciale sintonia che la lega istintivamente e telepaticamente a Margarita, l’anziana è al corrente di ciò che le sta accadendo ed è più volte in grado di predirne il futuro, mostrando quindi i tratti tipici di un narratore onnisciente. Lo confermano le parole di María, sorpresa dal fatto che Tata sapesse già della nascita del figlio di Margarita, prima ancora che arrivasse la lettera con cui la donna lo annunciava: “She knew you had given birth to a son even before your father’s letter arrived” 46 ; o le prolessi in cui Tata anticipa a Margarita il tragico futuro del figlio o la morte imminente del padre: “In time you will learn to live without him”; “Don’t worry about your father, m’ija. He has talked with your mother and soon they will be together again”47. 4.1.4 Women’s Language Nonostante il carattere variabile della focalizzazione ed i cambiamenti nel linguaggio con cui si ricrea l’universo interiore ed esteriore dei vari personaggi, c’è una elemento della voce narrante che rimane invariato: il suo farsi veicolo di personaggi di sesso femminile. Dall’inizio alla fine dell’opera, a tenere le redini del racconto è sempre e comunque una narratrice donna, presumibilmente identificabile con una Lilly adulta divenuta scrittrice. 45 “Checha si è offerta di scrivere per me, corazón”. Ibidem, 198. “Sapeva che avevi partorito un bambino prima che arrivasse la lettera di tuo padre”. Ibidem, 195. 47 “Col tempo imparerai a vivere senza di lui”, “Non ti preoccupare per tuo padre, m’ija. Ha parlato con tua madre e presto saranno di nuovo insieme”. Ibidem, 198, 216. 46 161 La prospettiva predominante del narratore – intesa come “the system of preconditions or the subjective worldview of a narrating instance” 48 – è infatti tutta costruita al femminile. All’interno delle 353 pagine che compongono l’opera, ascoltiamo prevalentemente voci di donne, di diverse generazioni, età ed estrazioni sociali. Gli uomini sono presenti, ma prendono la parola solo nelle circostanze emblematiche della cultura patriarcale dell’epoca (per pianificare il matrimonio delle figlie, per discutere di affari, per dettare le norme di comportamento che si confanno ad una donna, etc.), sono autoritari, poco sfaccettati, non disposti al dialogo e sempre presentati o attraverso una focalizzazione zero, o tramite il punto di vista di una donna49. È lo spirito di Rafaela, ad esempio, a ricordare le prevaricazioni subite dal padre Paolo e dal marito Antonio nella sua conversazione con Rosa; mentre di Joey sappiamo ben poco, se non dalle parole di Margarita, che lamenta la sua superficialità, la mancanza di empatia e la profonda incomunicabilità che li separa. Seguendo l’approccio della narratologia femminista di Susan Sniader Lanser che coniuga identità sociale e forme narrative e analizza il sesso di una voce e la sua autorevolezza a partire dalla “conjunction of social and rethorical properties”50, quello che emerge è il discorso tipicamente femminile, frutto degli stereotipi codificati fin dalla scrittura vittoriana. 48 “Il sistema di condizioni preliminari o la visione soggettiva del mondo di un’istanza narrativa”. Nünning, “On the Perspective Structure of Narrative Texts”, 212. 49 Solo il personaggio di Pedro, in alcuni limitati episodi, viene descritto attraverso una focalizzazione interiore. 50 “Combinazione di caratteristiche sociali e retoriche”. Susan Sniader Lanser, Fictions of Authority: Women Writers and Narrative Voice (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1992) 6. 162 Questo si riflette in quella “women’s language, […] polite, emotional, enthusiastic, gossipy, talkative, uncertain, dull, and chatty”51 comune alla maggior parte dei personaggi femminili dell’opera, nel loro ruolo primario e quasi obbligato di mogli devote. Ma emerge anche nella costruzione del racconto, con l’abbondanza di pause, di scene descrittive, di analessi e di mises en abîme associate all’universo femminile, che rallentano notevolmente il ritmo della narrazione; contro i sommari, l’azione e le scene più rapide che caratterizzano il discorso maschile. Da qui i lunghi passaggi, soprattutto nella prima parte, dedicati alle conversazioni da salotto tra donne, su tematiche ricorrenti, come l’ossessione per l’erede maschio, la necessità impellente di trovare un marito (per non morire come la zia María, sola e senza figli) o il rispetto del decoro. Ma anche l’ampio spazio dedicato alla sfera dell’irrazionale e alle visioni, inserite come mises en abîme, e frequenti in particolare durante la gravidanza, secondo la convinzione comune che “pregnancy […] heightened women’s intuitions and dreams and made them more receptive to visions and visitations”52; o ancora i numerosi e dettagliati racconti dei sogni notturni delle protagoniste, spesso talmente reali da essere percepiti come veri (“Rosa opened her eyes and looked around in disbelief. It had all been so real, she was certain that it couldn’t have been a dream”53). Il mondo del sogno, sembra infatti più ricco di quello vissuti da svegli. 51 “Lingua delle donne, […] educata, emotiva, entusiasta, pettegola, loquace, incerta, tenue e chiacchierona”. Questa descrizione delle caratteristiche stereotipate attribuite alla voce femminile appartiene a Cheris Kramarae ma è citata da Lanser in Fictions of Authority, 10. 52 “La gravidanza […] intensificava le intuizioni e i sogni delle donne, rendendole più ricettive alla visioni e alle apparizioni”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 160. 53 “Rosa aprì gli occhi e si guardò intorno incredula. Era stato tutto così reale, che era sicura non potesse essersi trattato di un sogno”. Ibidem, 131. 163 La “women’s language” della narratrice emerge anche a livello di scelte lessicali, con immagini che prediligono campi semantici tipicamente femminili: i fiori, le perle, le gemme, i ricami, ed altri elementi che caratterizzano la quotidianità di una donna. Le figure retoriche che rimandano al mondo dei fiori sono sicuramente le più numerose; e così, le anziane zie di Margarita, “looked like a garish bunch of knotted flowers”; le madri prendono i loro figli in braccio “like broken flowers” per salvarli da una violenta scorreria di banditi, che dopo aver trucidato tre uomini “left the three men tied together like a bloody bouquet”; Rafaela, costretta al silenzio e alla sottomissione dal marito, viene descritta come un “curio case, a vase of cut flowers”; mentre, poco prima di morire, Rosa si piega “like a cut orchid” e le sue mani si chiudono “like night flowers”54. Sempre Rosa annota le sue memorie sul diario “stringing them together like pearls on a string”; le parole del servo Tomás si perdono nell’aria “like unstrung pearls in the wind”. O ancora la pioggia penetra nei vestiti “like cold needles”, mentre il sole sbuca inaspettatamente tra le nuvole “[l]ike an unexpected wedding guest”55. Osservata più da vicino, l’architettura femminile costruita con minuzia dalla narratrice, rivela però degli elementi di disturbo e dei tratti contraddittori, che sembrano “incrinarla”, mostrandone il rovescio. I riferimenti lessicali ai fiori, alle perle o ai ricami, ad esempio, vengono utilizzati anche per descrivere scene sanguinose o inquietanti, non appropriate all’“ingenuity” 56 che si confà ad una 54 “Sembravano un mazzo sgargiante di fiori annodati” (16); “come fiori rotti” (143); “li lasciarono legati insieme come un bouquet sanguinante” (145); “come un cofanetto di rarità, un vaso di fiori tagliati” (174); “come un orchidea tagliata” (183); “come fiori notturni” (189). Ibidem. 55 “Infilandole insieme come perle su di un filo” (146); “come perle sciolte al vento” (187); “come aghi freddi” (185); “[c]ome un invitato inatteso ad un matrimonio” (191). Ibidem. 56 “Ingenuità”. Lanser, Fictions of Authority, 9. 164 donna. Allo stesso modo, i cliché dell’educazione patriarcale, apparentemente indiscussi ad un livello più superficiale del discorso, vengono in realtà più volte “decostruiti” proprio da altre donne, in particolare da Tata e da Margarita, con il loro linguaggio scarno e privo di sovrastrutture, che mette a nudo “la dimensione propriamente simbolica del dominio maschile”57. Quando l’anziana donna (che al contrario delle zie, non si tira indietro di fronte alle domande di Margarita) deve spiegare alla piccola perché le donne non siano ammesse nei cimiteri, le fa capire che “men like your father believe that women are too delicate to handle la muerte […], [w]hat he doesn’t realize is that every woman who has carried a child has ridden on La Pelona’s shoulder”58. Tata trasmette a Margarita l’arbitrarietà culturale di alcuni preconcetti sulla donna (come appunto la sua fragilità), utilizzando un linguaggio semplice e diretto, e soprattutto riferito ad una sfera femminile e familiare per la bambina, che può quindi coglierne con più facilità il messaggio. Di fatto, all’interno della stessa conversazione, Tata paragona la consuetudine di non far entrare le donne nel cimitero, all’abitudine delle cuoche di casa di friggere il pesce tagliandone sistematicamente la testa e la coda. In origine, questa pratica era stata introdotta da Manola che aveva a disposizione una padella troppo piccola e doveva quindi necessariamente ridurre le dimensioni del pesce. Oggi che le cuoche utilizzano padelle il doppio più grandi, continuano a ripetere lo stesso gesto in maniera meccanica, senza neanche chiedersi il motivo. 57 Pierre Bourdieu, Il dominio maschile (Milano: Feltrinelli, 2009) 9. “Uomini come tuo padre credono che le donne siano troppo fragili per gestire la morte […], [c]iò che non capisce è che ogni donna che abbia partorito ha cavalcato la spalla della Pelona”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 51. 58 165 Con le sue parole, Tata fa emergere il lato illogico ed irrazionale degli automatismi culturali, mettendo quindi in discussione il valore assoluto di quelle consuetudini, in realtà contingenti, su cui si basano le società androcentriche. La sua critica sottile viene elaborata proprio utilizzando la stessa “women’s language” (familiare a Margarita e a ogni altra donna), questa volta però per veicolare una messaggio nuovo. Più che imporre il suo punto di vista, Tata mira a spingere la piccola a farsi delle domande, per poter un giorno essere libera di scegliere. E così, in una loro conversazione successiva, quando Margarita le chiede come mai avesse scelto di rimanere a Cienfuegos una volta finita la schiavitù, l’anziana risponde proprio: I chose to stay at Tres Flores. No one forced me to stay here. […] The trick is to know the difference between when you are choosing for yourself and when you are allowing others to choose for you. Always remember, only you can choose to be happy, m’ija”.59 La stessa logica e lo stesso linguaggio essenziale e legato alla sfera del femminile vengono estesi anche alla religione, che Tata reinterpreta dalla sua ottica lucida ed estraniata, stimolando sempre Margarita a non dare nulla per scontato. Per questo, quando la piccola le domanda perché si rifiutasse sistematicamente di accompagnarla a messa, attraverso le parole della narratrice, Tata paragona le chiese a delle zucche svuotate, e spiega quindi di preferire gli elementi della natura (e quindi lo spazio aperto), come sue cattedrali simboliche: “she preferred to pray at her place on the mountain, rather than in a building carved out by human hands like a hollow gourd. The clouds were her cathedrals, she insisted”. E quando la piccola intimorita le dice che così facendo, in base agli 59 “Ho scelto io di restare a Tres Flores. Nessuno mi ha costretto a stare qui. [...] Il trucco è sapere la differenza tra quando si sceglie per se stessi o quando si lascia che siano gli altri a scegliere per noi. Ricordalo sempre, solo tu puoi scegliere di essere felice, m’ija”. Ibidem, 81. 166 insegnamenti di Padre Rabia, sarebbe finita “laggiù”, l’anziana risponde serenamente: “[b]ut maybe down there is really up there or over here. […] Who’s to say m’ija?” 60. Infine, il ribaltamento della “women’s language” e dei ruoli che essa rafforza, non avviene solo a livello di linguaggio e di tematiche, ma anche al livello del discorso, come dimostrano diversi passi che riguardano Pedro, l’unico personaggio maschile ad essere presentato con una focalizzazione interna. La narratrice dedica infatti ampio spazio ai suoi ricordi, con delle analessi che rallentano notevolmente il ritmo della narrazione, come quando l’uomo ricorda il suo primo incontro con Rosa61. Pedro è inoltre protagonista di quelle visioni a metà strada tra sogno e realtà, di norma attribuite alle donne. Ad esempio, nell’ultimo giorno di vita di Rosa, mentre si trovava nelle piantagioni sotto a un sole rovente, l’uomo ha infatti un’allucinazione funesta in cui vede la moglie sanguinare e cadere a pezzi, proprio mentre la donna stava morendo. Perché, dunque, dopo aver costruito un discorso in apparenza tradizionalmente e impeccabilmente femminile, l’autrice decide di farlo “traballare”? La sua strategia potrebbe rientrare nelle “Fictions of authority” 62 utilizzate per acquisire autorevolezza e mettere in discussione le stesse retoriche dominanti che sembra, solo apparentemente, rafforzare. 60 “Preferiva pregare nel suo posto in montagna, piuttosto che in un edificio simile a una zucca vuota, scavata da mani umane. Le nuvole erano la sua cattedrale, insisteva”, “[m]a forse quel laggiù in realtà è lassù o forse qui. […] Chi può dirlo m’ija?”. Ibidem, 134. 61 Da pagina 117 a 120 del romanzo. 62 “Narrative/finzioni di autorevolezza”. Lanser, Fictions of Authority, 8. 167 4.2 Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic, Edward Rivera 4.2.1 Sul solco dell’Underclass Lit One of the editors who got in touch with me thought the manuscript was “okay in its own way”, but not fictional enough. Another editor suggested I make it less fictional, more “sociological”, more “ethnic”, more like the saga of an “oppressed minority” instead of the “inbred, self-absorbed family” I had cooked up. What they were looking for was something more like an “updated” version of what Piri Thomas’s ground-breaking Down These Mean Streets, an El Barrio version of Claude Brown’s Manchild in the Promised Land, had done for what I called to myself “Underclass Lit”: Spanglish to spare, racism, drug dealing and addiction, violence, Sing Sing, deliverance, Jesus Saves. Thomas’s belly-of-the-beast “memoir” was what the times (and apparently, the N.Y.Times) wanted at the time, and what they got. And it seemed they wanted more of the same while the trend lasted.63 Come ho già illustrato nel capitolo 3, l’ombra che Piri Thomas proietta sulla scrittura di Rivera, gli interessi commerciali della case editrici che spremono fino all’ultima goccia i clichés di successo della “scuderia Latina”64, uniti alla rabbia a lungo repressa dell’autore, al suo carattere schivo e a quella che è stata definita “internalized ethnic shame” 65 sono essenziali per capire il lungo e travagliato processo di scrittura dell’opera (durato oltre dieci anni), ma anche il 63 “Uno dei redattori che era in contatto con me pensava che il manoscritto fosse ‘accettabile, a modo suo’, ma non sufficientemente romanzato. Un altro redattore mi ha suggerito di renderlo meno romanzato e più ‘sociologico’, più ‘etnico’, più simile alla saga di una ‘minoranza oppressa’, invece che a quella della famiglia di consanguinei assorta nei propri affari, che avevo inventato. Cercavano una versione ‘aggiornata’ di quella che io chiamo tra me e me ‘letteratura del sottoproletariato’, così come era stato fatta dall’innovativo Down These Mean Streets di Piri Thomas, una rivisitazione ne El Barrio di Manchild in the Promised Land di Claude Brown: Spanglish in abbondanza, razzismo, spaccio e tossicodipendenza, violenza, canzoncine, assoluzione, ‘Gesù è la salvezza’. Il mémoir da pancia-della-bestia di Thomas era ciò che i tempi (e apparentemente anche il New York Times) volevano al tempo, e ciò che ottennero. E sembrava che ne volessero ancora, fino a che la tendenza durava”. Rivera, “Stable Manners”, 123. 64 Nello stesso articolo, Rivera si riferisce infatti agli autori Latinos commerciali di questo periodo come “Latino stable”. Ibidem, 123. 65 “Vergogna etnica interiorizzata”. Alfredo Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating: Edward Rivera’s ‘Family Installments’”, in U.S. Latino Literature: A Critical Guide for Students and Teachers, eds. Augenbraum, Harold, e Margarite Fernández Olmos (Westport, CT: Greenwood Press, 2000) 76. 168 rigetto per la narrativa che investe l’autore subito dopo la pubblicazione di Family Installments. Rivera sente infatti sulle proprie spalle, il peso dei diffusi stereotipi negativi sui latinos, ribaditi da espressioni ampiamente in uso fino agli anni Novanta come “HisPANIC Causing Panic” 66 , che si riversano in particolare contro i Portoricani di New York. Nell’immaginario collettivo, alimentato anche da rappresentazioni di enorme successo come il musical West Side Story, i Nuyoricans continuano infatti ad essere identificati come gangsters, forieri di tensioni sociali, che tendono a non assimilarsi e sono restii a cercare un riscatto dalla loro condizione di marginalità. Quelle che in sintesi sono state definite “the social pathologies of the ‘Puerto Rican problem’” 67 , vengono però controbilanciate dallo strabiliante successo della narrativa che a esse attinge, culminato nel boom di vendite di Down These Mean Streets. È dunque nel difficile solco tra il mémoir etnico e le forme spesso sclerotizzate della “Letteratura del sottoproletariato” che Rivera deve dar forma alla sua voce autoriale, cimentandosi in un’impresa di fronte alla quale autori a lui vicini per età e per origini come Ed Vega, si sono tirati indietro: I started thinking about publishing a book, a novel. Then it hit me. I was going to be expected to write one of those great American immigrant stories like Studs Lonigan, Call It Sleep, or Father, which was written by Charles Calitri, one of my English teachers at Benjamin Franklin High School. Or maybe I’d have to write something like Manchild in the Promised Land or a Piri Thomas’ Down These Mean Streets […]. I suppose I could do it if forced to, but I can’t imagine writing a great autobiographical novel about being an immigrant. In fact, I don’t like ethnic literature all that much except when the language is so good that you forget about the immigrant writing it.68 66 “IsPANICO causa panico”. Flores, “Pan-Latino/Trans-Latino: Puerto Ricans in the ‘New Nueva York’”, From Bomba to Hip-Hop, 150. 67 “Le patologie sociali del ‘problema portoricano’”. Ibidem, 155. 68 “Ho iniziato a pensare alla pubblicazione di un libro, un romanzo. Poi mi è venuto in mente che si sarebbero aspettati che scrivessi una di quelle grandi storie americane di immigrati come Studs 169 4.2.2 Quadro sinottico Seguendo una traiettoria circolare, il racconto autobiografico di Santos Malánguez – che nasce a Portorico ma cresce negli Stati Uniti continentali – si apre e si chiude a Bautabarro, il villaggio sperduto tra le montagne dell’isola, da cui ha origine tutta la sua famiglia. In linea con la tradizione delle biografie eroiche, l’azione inizia però diversi anni prima della nascita del protagonista che, nei primi due capitoli, ricostruisce in chiave eroicomica la genealogia dei propri antenati e i luoghi in cui sono vissuti, descrivendo l’estrema miseria, l’analfabetismo, la bigotteria e la precarietà che caratterizzavano le aree rurali e più sperdute dell’isola, all’inizio del Novecento. Il romanzo si apre con il suicidio dell’eclettico bisnonno paterno Xavier, “itinerant school teacher, part-time painter, poetaster, guitar-picker, and Mariolater”69 che getta vergogna sull’intera famiglia. Poiché la moglie Sara era morta pochi mesi prima per una misteriosa malattia, i tre figli – Elias, Mitos e Gerán (il futuro padre del protagonista) – rimasti orfani, vengono adottati da Santos Malánguez, suocero di Xavier e uomo dall’infinita bontà d’animo, da cui il protagonista riprenderà il nome. L’uomo è sposato con Josefa (“a loca”70), una donna violenta ed in preda alla pazzia, che grida di notte e semina terrore per la Lonigan, Call It Sleep, o Father scritta da Charles Calitri, uno dei miei insegnanti di inglese alla Benjamin Franklin High School. O forse avrei dovuto scrivere qualcosa come Manchild in the Promised Land o Down These Mean Streets di Piri Thomas […]. Suppongo che avrei potuto farlo se fossi stato costretto, ma non riesco a immaginare di scrivere un grande romanzo autobiografico sull’esperienza di immigrato. Difatti, non mi piace più di tanto la letteratura etnica salvo se la lingua è così ben riuscita, da farti dimenticare dell’immigrato che l’ha scritta”. Ed Vega, “Introduction”, The Comeback (Houston: Arte Público Press, 1985) xix. 69 “Insegnante di scuola itinerante, pittore part-time, poetastro, strimpellatore di chitarra e adoratore di Maria”. Edward Rivera, Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic (New York: Penguin books, 1983) 13. 70 “Una matta”. Ibidem, 16. 170 casa durante il giorno, lasciando escrementi sul pavimento o cercando ripetutamente di uccidere i figliastri, armata di machete. Alla morte del padre adottivo, Gerán poco più che adolescente, inizia a lavorare come bracciante per Gigante Hernández: proprietario terriero, rozzo, tirannico e bigotto, che sfrutta i suoi lavoratori e maltratta moglie e figlie (“las hermanas humildes”71). Sarà proprio una di queste, la devota ed ubbidiente Lilia, a diventare moglie di Gerán e madre del protagonista. Stanco di essere schiavizzato da Gigante 72 e aspirando ad una vita più dignitosa per sé e per la moglie, Gerán inizia a pensare ad una via d’uscita dalla situazione di estrema indigenza in cui vivono. Un giorno, decide di chiedere una mula in prestito al suocero, per vendere una parte in eccedenza del raccolto al mercato di Jayuya e poter guadagnare una buona somma di denaro. L’iniziativa si converte però in un’impresa disastrosa: Gerán raggiunge infatti troppo tardi il paese, si addormenta per la stanchezza una volta arrivato sul posto e quando si sveglia, a mercato finito, è costretto a svendere le verdure per pochi centesimi. Come se non bastasse, durante la strada del ritorno, Mafofa – la mula anziana e malmessa datagli in presto dal suocero – muore, costringendolo a indebitarsi con Gigante al quale dovrà subito ripagare l’animale, dandogli come prima rata i pochi centesimi appena guadagnati73. Quando anche il tentativo di entrare in affari con il fratello Mito, convertendo una baracca abbandonata in una piccola drogheria (un “colmado”), si rivela un autentico fallimento, capisce che a Bautabarro non avrebbe avuto 71 “Le sorelle umili”. Ibidem, 23. Gerán si definisce infatti un “hired slave / schiavo assunto”. Ibidem, 28. 73 La parola “installment”, che sarà poi ricorrente in tutta l’opera, appare per la prima volta in occasione di questo episodio, a pagina 41. 72 171 nessuna possibilità di risollevarsi dalla miseria. Eppure è proprio in quel momento, grazie ad un prestito della moglie di Mito, che gli si presenta l’occasione per potersi trasferire negli Stati Uniti, la terra che tanto aveva sognato per la possibilità di ottenere un lavoro dignitoso, guadagnando abbastanza da poter mettere i risparmi in banca, come aveva sentito raccontare da parenti ed amici di chi vi era già emigrato. Parte quindi da solo per New York con un “one-way, shopping-bag, cardboard-suitcase, late-night flight to the North”74 con l’intento di racimolare il denaro necessario per poter far arrivare la famiglia nel minor tempo possibile. L’inizio del terzo capitolo coincide con l’apparizione del piccolo Santos, il narratore e protagonista che, a partire da questo momento, abbandona le memorie genealogiche della propria famiglia per dare spazio, con un tono sempre ironico e caustico, alla cronistoria del suo presente. Dopo la partenza di Gerán, Santos è rimasto a Bautabarro insieme alla madre, al fratello maggiore Tego ed al cugino Chuito, l’orfano quattordicenne che la famiglia aveva accolto in casa pochi mesi prima. In assenza del padre, Chuito era diventato l’uomo di casa, ricoprendo questo ruolo fino al punto di iniziare i piccoli Malánguez al voyeurismo ed al sesso con gli animali. Nel frattempo, per Gerán la vita a New York si rivela fin da subito “[w]orse than the infierno”75 per le ristrettezze economiche, le umiliazioni subite e le difficoltà di trovare un lavoro dignitoso, che lo obbligano a rimandare di mese in mese il riavvicinamento della famiglia. L’uomo invia frequentemente sull’isola pacchi regalo e lettere per la moglie e i figli, in cui descrive la propria nostalgia e 74 75 “Volo notturno con borsa della spesa e valigia di cartone, solo andata verso nord”. Ibidem, 51. “Peggio dell’infierno”. Ibidem, 54. 172 il proprio malessere con toni accorati e patetici. Eppure i suoi tentativi di contatto non sortiscono nessun effetto sul piccolo Santos che diventa sempre più diffidente e distaccato nei confronti del padre e delle sue parole altisonanti: “But none of that meant much to me, […] none of that was the same as the man himself, the slanted, meticulous calligraphy and the snapshots made flesh. All his assurances of amor and ansiedad for us were second-rate substitutes, just words”76. Quando finalmente Lilia riceve la busta con i biglietti per New York, scopre che il marito è riuscito ad acquistarne soltanto tre e che Chuito sarebbe dovuto rimanere da solo sull’isola per alcuni mesi, aspettando che Gerán potesse avere i soldi necessari per il suo riavvicinamento. Inizia a questo punto il percorso scolastico del protagonista che, dopo aver frequentato un anno di elementari a Bautabarro con l’amata maestra “Mees Lugones” 77 , una volta trasferitosi a New York, viene iscritto alla Saint Misericordia’s Academy di East Harlem: la scuola cattolica (gestita da suore e frati gesuiti di origini irlandesi), in cui vige una rigida disciplina, che comprende punizioni corporali e offese dirette agli alunni più poveri, indisciplinati, scarsi o con difficoltà linguistiche. Mentre Gerán ribadisce più volte ai figli il valore degli studi e l’importanza di padroneggiare l’inglese (la loro “adopted language”78) per poter avere un futuro migliore, i maestri non perdono occasione per umiliare gli studenti stranieri deridendoli per la loro lingua “broken and mispronounced” ed infierendo contro di loro con vocaboli altisonanti (come “dawdle” o “tardy” 79) o 76 “Nulla di tutto questo significava un granché per me, […] niente era come l’uomo in sé, la calligrafia meticolosa e inclinata e le istantanee fatte di carne. Tutte le sue rassicurazioni di amor e ansiedad per noi erano sostitute di seconda qualità, soltanto parole”. Ibidem, 53. 77 “Signoora Lugones”. Ibidem, 70. 78 “Lingua adottiva”. Ibidem, 130. 79 “Lingua frammentata e mal pronunciata”, “bighellonare”, “ritardatario”. Ibidem, 84. 173 con testi al di sopra della loro portata. Il più emblematico è l’“incomprensibile” Giulio Cesare di Shakespeare, la “tradegy”80 che darà adito ad esilaranti giochi di parole, storpiature e interpretazioni erronee da parte degli alunni, mandando su tutte le furie il frustrato maestro Bro’Leary. È in questo ambiente che Santos entra in contatto per la prima volta con la storia – sistematicamente reinterpretata in chiave cattolica – e con la religione, anch’essa utilizzata (come la lingua) per rimarcare le differenze razziali e di classe. Anche il giorno della sua Prima comunione si converte in un autentico disastro, quando l’ostia si spezza e cade dalle mani del prete, mentre Santos per l’emozione si fa la pipì addosso in chiesa, sporcando l’abito comprato a loro spese dalle suore per gli alunni meno abbienti e provocando le ire di Sister Felicia: “Ssantoss Malánguezzz, […] you are not fit for First Communion, and maybe never will be”81. Sempre ne El Barrio, il quartiere latino di New York, Santos vive in prima persona anche le prime infelici esperienze di razzismo inverso. Una domenica, dopo aver deciso di saltar messa, rivendicando la libertà di poter scegliere, senza le pressioni di frati e suore (“out of their clutches […]. I was beginning to feel like a real grown up”82), si perde in una zona poco nota di Central Park, finendo “In Black Turf”: nel territorio “ostile” di una gang afro-americana. Vedendo un ragazzo bianco, per di più perfettamente in grado di parlare inglese, i membri della banda difendono la loro area gettandolo in una pozza di letame. Umiliato e in lacrime, Santos viene salvato dall’arrivo dell’amico Panna, portoricano come 80 “Tradegia”. Ibidem, 116. “Ssantoss Malánguezzz, […] non sei adatto per la Prima Comunione e forse non lo sarai mai”. Ibidem, 105. 82 “Fuori dalle loro grinfie […]. Iniziavo a sentirmi come un vero adulto”. Ibidem, 147. 81 174 lui ma di colore e con un forte “East Harlem accent”83, che conosceva uno dei gangsters e viene quindi accolto favorevolmente. Una dura lezione per il povero Santos, che aveva sempre cercato di nascondere il proprio accento e le proprie origini, coltivando con grande orgoglio la lingua appresa a suon di punizioni e con grandi sacrifici nella scuola cattolica, per poter finalmente: “melting smoothly and evenly into the great Pot”84. Nel frattempo Gerán racconta al figlio delle immani difficoltà e delle mortificazioni subite nei primi mesi dal suo arrivo nella metropoli quando, posto di fronte alla scelta tra “hard cash and swallowing his self-respect”85 opta per la seconda via, accettando i lavori più umilianti e vivendo nei più squallidi SRO (che denomina sarcasticamente “Single Cave Occupancy” 86 ). La sua unica consolazione in quei momenti era la musica che ascoltava dalla vecchia radio ricevuta in regalo dal fratello Mito e che avrebbe portato con sé di casa in casa, fino alla fine. Quando la famiglia lo raggiunge, Gerán deve fare i conti anche con il risentimento di Lilia, che fa fatica ad accettare di aver lasciato l’amato villaggio natale, per immergersi nello squallore della metropoli e, per di più, gli rinfaccia continuamente di aver abbandonato Chuito. Dopo ripetuti litigi tra i due e numerose notti che Gerán passa misteriosamente fuori casa, quando finalmente riescono a far arrivare anche Chuito, il ragazzo è molto sfuggente, cova astio nei confronti della famiglia e, anche dopo esser stato arruolato per diversi mesi nell’esercito, continua a mancare 83 “Accento di East Harlem”. Ibidem, 148. “Fondersi senza intoppi e in modo uniforme nel grande Calderone”. Ibidem. 85 “Soldi contanti e ingoiarsi il rispetto per se stessi”. Ibidem, 187. 86 “Cantina uso singola”. Ibidem, 181. In realtà SRO sta per “Single Room Occupancy”. 84 175 sistematicamente di rispetto a Gerán e Lilia. Il loro rapporto migliora solo quando Chuito lascia la casa per sposarsi e metter su famiglia. Nel frattempo, i sacrifici dei Malánguez e i loro problemi economici rimangono una costante, tanto che Gerán deve pagare tutto in interminabili rate: la casa in cui vivono, lo specchio che compra per coprire una vistosa crepa sul muro, l’enciclopedia che un venditore ambulante appioppa a Lilia, etc. Per far sopravvivere l’intera famiglia, l’uomo deve inoltre ricorrere a continue trovate tutt’altro che legali (le cosiddette “maromas”87): come attingere agli Home Funds (che, in realtà, erano destinati solo a chi non aveva lavoro) o rubare la corrente elettrica con un marchingegno di suo creazione, “El Pícaro”88. Nonostante una quotidianità fatta di stenti, Gerán non rinuncia alle sue passioni più grandi: la musica e l’oratoria. Passa infatti molto del suo tempo a suonare con la chitarra canzoni nostalgiche, allietato dalla sua inseparabile radio, perennemente sintonizzata su “La voz hispana del aire” 89 : la stazione di sola musica portoricana che trasmette continuamente “El Lamento”, il suo inno nazionale preferito, tra i quattro che possiede Porto Rico. Trascorre inoltre ore e ore declamando i discorsi altisonanti dei grandi maestri di oratoria, che legge dal suo amatissimo Manual del Orador. Un giorno, Santos riceve dal vicino di casa Iñigo Boluchen un’antologia di poesia inglese, insieme ad un libro di folclore e a un dizionario (“The real bona fide Webster’s”90). Iñigo, anch’egli di origini portoricane ma nato a New York, aveva deciso di lasciare gli studi di teologia e di tornare sull’isola per condurre 87 In italiano le “maromas” sono “salti mortali, trucchetti, stratagemmi”. Ibidem, 202. “Il Picaro”. Ibidem, 214. 89 “La voce ispanica in onda”. Ibidem, 231. 90 “Il vero e genuito Webster”. Ibidem, 229. 88 176 una ricerca genealogica (“‘a little digging’ into his forefathers and mothers”91). Dopo che il padre era stato ucciso per errore in una sparatoria, avendo preso la decisione di partire, aveva quindi regalato i tre volumi al giovane Santos, incoraggiandolo a leggerli per potersi sollevare dall’ambiente asfittico e deprimente del quartiere: “if you read this one, Santos, you’ll be miles ahead of everyone else on this gloomy block”92. Santos si appassiona a tal punto ai poeti dell’antologia (“from Chaucer to Eliot” 93 ), da lasciare il lavoro part-time che stava svolgendo – aggravando ulteriormente le condizioni economiche della famiglia – per passare ore ed ore immerso nella lettura dei classici inglesi, mosso dalla convinzione di poter posporre i propri doveri: “I was not pulling my share of the load, and justified it by telling myself that this was the way it had to be for a while. ‘First the books, then the real responsibilities’” 94 . Ma lo scarto tra la desolante realtà che lo circonda e il mondo aulico della letteratura in cui si rifugia è tale, che il ragazzo deve ricorrere alle cosiddette “disparity walks”95: le frequenti passeggiate notturne e solitarie per le vie della metropoli, che lo aiutano ad ossigenarsi e a smorzare la propria insofferenza. In una di queste camminate, passando per Central Park, Santos viene fermato ed umiliato dalla polizia, che lo perquisisce come se fosse un criminale, avendo scambiato la penna che gli sbuca dalla tasca per un’arma impropria. La sera stessa, in preda alla rabbia e alla frustrazione, getta l’antologia nel cestino 91 “Un po’ di scavo tra i suoi antenati e antenate”. Ibidem, 228. “Se leggi questo, Santos, starai miglia avanti a tutti gli altri in questo cupo quartiere”. Ibidem, 229. 93 “Da Chaucer a Eliot”. Ibidem. 94 “Non stavo portando la mia parte del carico e mi giustificavo dicendo a me stesso che sarebbe stato così per un po’. ‘Prima i libri, poi le responsabilità vere’”. Ibidem, 232. 95 “Passeggiate della disparità”. Ibidem, 235. 92 177 dell’immondizia di casa, per poi recuperarla pentito il giorno seguente: “looking for odes and sonnets of self-pity”96. Anche Gerán incappa in una simile disavventura con la polizia. Viene infatti erroneamente scambiato per un pedofilo ed arrestato in malo modo davanti ad una folla di persone, tra cui molti suoi conoscenti. Anche se, di lì a poco, l’uomo viene liberato, “it took him a while to get over the humiliation, helplessness, and depression”97. Nel frattempo Santos ricomincia a lavorare e si iscrive all’università serale frequentando, tra le altre, lezioni di sociologia e di letteratura con cui alimenta la sua passione per la poesia, ma anche la tendenza ad isolarsi e a rigettare lo squallore che lo circonda. Durante il periodo degli studi universitari di Santos, il padre scopre di essere affetto da sclerosi multipla. Le sue condizioni di salute degenerano rapidamente e l’uomo decide di tornare a Porto Rico, per poter morire in patria. Gerán e Lilia si trasferiscono quindi sull’isola, ospiti di Tego: il figlio maggiore che, dopo aver abbandonato gli studi, si era sposato ed aveva fatto ritorno a San Juan per lavorare come croupier in hotel di lusso. Mentre si sta preparando per gli esami finali, Santos riceve il telegramma del fratello che gli annuncia l’aggravarsi delle condizioni di salute del padre, prende quindi il primo volo disponibile e raggiunge la famiglia sull’isola. Ma al suo arrivo, Gerán è già morto, lasciando al giovane l’amarezza di non esser riuscito a laurearsi prima: “he should have waited until I’d finished with my finals. I had planned on making a photocopy of my diploma and sending it to them as 96 97 “Alla ricerca di odi e sonetti di autocommiserazione”. Ibidem, 239. “Gli ci volle un po’ per superare l’umiliazione, l’impotenza e la depressione”. Ibidem, 239. 178 proof of something”98. Santos trascorre alcuni giorni sull’isola, durante i quali ha modo di parlare con il fratello Tego che gli propone di restare definitivamente a Porto Rico, allettandolo con le nuove opportunità di lavoro che l’isola offre, in particolare grazie al turismo, e con il rinnovato stile di vita che si sta infiltrando nella cultura tradizionale (“This place is becoming more American all the time”99). Ma Santos non è interessato a rimanere e, prima di tornare a New York, fa una breve visita all’amata zia Celia – la più ribelle ed anticonformista delle sorelle della madre – nel villaggio di Bautabarro. La zia lo accoglie amorevolmente e gli racconta dei profondi cambiamenti che l’isola sta subendo: le capanne sono state gradualmente sostituite da edifici moderni e hotel, le spiagge sono ormai solo appannaggio dei turisti, mentre la gente locale continua a vivere in una condizione di indigenza: “We cannot afford our own food anymore. Most of it is sold to the North, and then they sell it back to us for twice the price”100. Santos osserva i segni del progresso e chiede alla zia di accompagnarlo sulla tomba del nonno Xavier, il maestro, poeta e trovatore frustrato 101 morto suicida, di cui il padre gli aveva accennato. La donna lo accompagna quindi in cima alla collina dove le tombe dei defunti, nel tempo, venivano inghiottite dalla vegetazione incolta della zona, fino a scomparire: “that’s not the kind of thing we keep track of around here” 102 . Di fatto, indicando un piccolo cumulo di terra vicino ai due alberi che Gerán aveva piantato in occasione della nascita dei due 98 “Avrebbe dovuto aspettare che terminassi i miei esami finali. Avevo programmato di fare una fotocopia del mio diploma e di spedirgliela per dimostrare qualcosa”. Ibidem, 287. 99 “Questo posto diventa sempre più americano”. Ibidem, 291. 100 “Non possiamo più permetterci il nostro stesso cibo. La maggior parte viene venduto al Nord, e poi ce lo rivendono al doppio del prezzo”. Ibidem, 295. 101 Santos lo definisce infatti “frustrated troubadour”. Ibidem, 298. 102 “Non è il genere di cose di cui teniamo traccia da queste parti”. Ibidem, 297. 179 figli, Celia gli spiega: “you’re almost standing on him”103. Chiudendo il cerchio intorno alla propria genealogia, Santos capisce dunque che le sue radici sono andate perse, ma allo stesso tempo corrispondono con l’isola intera, e termina il romanzo cercando di ricordare i versi dedicati alla sepoltura, di una poesia che sembra avere in testa. 4.2.3 Il narratore autocratico Come l’autore rivela nell’articolo “Stable Manners”, pubblicato nel 1996 sul Massachusetts Review, o nella lettera scritta nel 1986 a Diana Vélez104, Family Installments non è un romanzo autobiografico ma venne commercializzato come tale dalla casa editrice che ne curò la prima edizione, allo scopo di aumentarne le vendite. Lo confermano le parole dell’allora caporedattrice che Rivera riferisce alla sua ex-allieva: “she said it would sell better as an autobiography”105. Eppure molte delle recensioni e delle critiche dedicate a Family Installments, alimentano più o meno consapevolmente l’idea di una corrispondenza tra autore reale, autore implicito e narratore. Il carattere pseudo-reale dell’opera ha infatti dato vita ad una scala di classificazioni che spaziano da “frankly autobiographical fiction” 106 e “autobiographical text” 107 , a “semifictional ‘memoir’” 108 e “superb novelized 103 “Sei quasi in piedi sopra di lui”. Ibidem. Gli articoli a cui faccio riferimento sono “Stable Manners” (Centro Journal 14.1, 2002) – originariamente pubblicato in The Massachusetts Review 36.3 (1996): 377-385 – e “Letter to Diana Vélez” (Centro Journal 14.1, 2002). 105 “Disse che avrebbe venduto meglio come autobiografia”. Rivera, “Letter to Diana Vélez”, 125. 106 “Romanzo apertamente autobiografico”. Earl Shorris, “In Search of the Latino Writer” (New York Times, 1990): 4. 107 “Testo autobiografico”. Juan José Cruz, “Edward Rivera and American Mythology: A Reading of ‘Family Installments’”, Nor Shall Diamond Die: American Studies in Honour of Javier Coy, eds. Carme, Manuel e Paul Scott Derrick (Valencia: Universitat de Valéncia, 2003): 79. 104 180 autobiography”109 a “romanzo autobiografico a carattere etnico”110. Philip Lopate, ad esempio, pur riconoscendo il distacco di Rivera dalla narrazione, reso esplicito dalla scelta del nome fittizio del protagonista, nella sua critica su The New York Times sfalda il confine tra diegetico ed extradiegetico, incappando in quelle che Fludernik ha definito “narratologically infelicitous phrases” 111 , con espressioni come: “Mr. Rivera starts his family saga with a fictional reconstruction of events before his own birth. […] Mr. Rivera rises to the artistic demands of the occasion by documenting his father’s last illnesses and death in a manner that is honest, simple, classical and true. […] In Family Installments, when Mr. Rivera is being a showoff the writing falters, but when he settles down and lets the natural life of the story happen, he sings”.112 Nonostante l’ambiguità che posizioni come quella di Lopate possono aver accresciuto, la scelta di Santos Malánguez come narratore fittizio in prima persona, permette all’autore implicito di prendere le distanze dal testo, rinunciando al cosiddetto “authorial privilege”113 che avrebbe conferito autenticità alle vicende del protagonista a partire dall’esperienza reale di Rivera. In questo caso invece si costruisce un discorso più ampio e diversificato, instaurando un diverso tipo di contratto con il lettore implicito che deve ricreare la sua “truth”, associando liberamente il sottotitolo Memories of Growing up Hispanic al protagonista Santos, all’autore reale o alla comunità etnica di cui si fanno portavoce, secondo un gioco di rimandi (dal singolo alla collettività) che caratterizza tutta la 108 “Mémoir semiromanzato”. Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating”, 71. “Superba autobiografia romanzata”. Irvine Stark, “To the Editor” (New York Times, 1982): 31. 110 Anna Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, 66. 111 “Frasi narratologicamente infelici”. Monika Fludernik, An Introduction to Narratology (New York: Routledge, Taylor & Francis, 2009) 144. 112 “Il signor Rivera inizia la sua saga familiare con una ricostruzione romanzata di eventi antecedenti alla sua nascita. […] Il signor Rivera risponde alle esigenze artistiche dell’occasione documentando la malattia terminale del padre e la sua morte in modo onesto, semplice, classico e veritiero. […] In Family Installments quando il signor Rivera è esibizionista la scrittura vacilla, ma quando si stabilisce e lascia che la storia accada secondo la sua vita naturale, canta”. Phillip Lopate, “From Puerto Rico to El Barrio” (New York Times, 1982): 5. 113 “Privilegio autoriale”. Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating”, 72. 109 181 letteratura minore o deterritorializzata. Pur nell’esiguità del suo spazio e del suo tempo, l’esperienza della famiglia Malánguez opera quindi come macchina collettiva di espressione di una minoranza etnica, tanto marginale (e inascoltata) quando centrale per la storia degli Stati Uniti. A tenere le redini della narrazione durante tutti e tredici i capitoli in cui si struttura è la voce apparentemente unica del protagonista bilingue Santos, definito da Marta Sánchez un “autocratic narrator” che “does not permit characters to speak in their own defense, allowing only his own voice to be heard”114. Di fatto, la sua narrazione omodiegetica, assume una focalizzazione prevalentemente zero o interna su Santos, che si fa portavoce della sua storia e di quella della propria famiglia, attraverso un racconto realistico e con un andamento prevalentemente cronologico, che riduce però al minimo la presenza dei dialoghi. Se il protagonista appare per la prima volta soltanto nel terzo capitolo, l’azione inizia però molto prima della sua nascita, con le vicende dei bisnonni e gli aneddoti di paese tramandati oralmente e rielaborati dal narratore in chiave eroicomica. È sempre attraverso il filtro di Santos, quindi, che vengono riportate le voci dei genitori (i suoi maggiori informatori), con un’abbondanza di espressioni che richiamano in modo esplicito le modalità del racconto orale o del ricordo, come “That was Papi’s version, and my mother’s” o “According to Papi’s cloudy recollection”115, solo per citare alcuni esempi. È inoltre evidente un’abbondanza di discorso indiretto libero che controbilancia la quasi totale assenza di dialoghi ben evidenziata dall’analisi e 114 “Narratore autocratico”, “Non permette ai personaggi di parlare in loro difesa, facendo ascoltare solo la propria voce”. Marta Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family Installments’” (American Literary History 1.4, 1989): 855. 115 “Quella era la versione di papà e di mia madre”, “Secondo il vago ricordo di mio padre”. Rivera, Family Installments, 13, 16. 182 dagli esempi di Anna Scannavini, quando osserva che nel primo capitolo: “Le marche del discorso diretto non arrivano ad una decina e, il più delle volte, si riferiscono a vere e proprie citazioni estrapolate dal contesto conversazionale. […] Oppure a commenti a posteriori da parte di chi racconta gli eventi”116. Le parole dei personaggi e le loro memorie vengono tutte “inghiottite” dal narratore, che le orchestra abilmente decidendo spazi e tempi da dare al punto di vista di ciascuno. È emblematico a questo proposito il passo in cui si mettono a confronto le diverse vedute di Gerán e Lilia sulla possibilità di trasferirsi negli Stati Uniti, sempre manipolate dal narratore: How could he possibly save up when he was just barely keeping his stomach fed on the wages Don Gigante paid him? Unless God worked a miracle on his behalf, he would either remain a hired slave all his life, or – something he’d been giving serious thought to lately – move north to Los Estados. […] He was convinced, as she was, as most Bautabarreños were, that man is put on earth to suffer. But unlike her, he believed that men and women are entitled to some felicity, that life doesn’t have to be totalmente un martirio. […] She could see him wanting to leave the village, moving to San Juan, Santurce, Ponce, Mayagüez, or any other of the “big” cities and towns on the island where someone with ambition (and he seemed to have a good deal of that) could go into business for himself or find a decent world. But Los Estados Unidos de América? No. […] She was suspicious.117 Siamo molto lontani dall’immediatezza e dall’apparente assenza di filtri, con cui invece la narratrice di The Pearl of the Antilles ricrea le diverse vedute dei coniugi Amargo, nella scena del litigio iniziale sull’opportunità o no di trasferirsi a L’Avana. In questo caso, non solo i personaggi si esprimono attraverso il 116 Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, 72. “Come avrebbe potuto risparmiare quando riusciva appena a riempirsi lo stomaco con i salari che Don Gigante gli pagava? A meno che Dio non avesse compiuto un miracolo in suo favore, sarebbe rimasto o uno schiavo assunto per tutta la vita, o – cosa a cui aveva pensato sul serio ultimamente – si sarebbe trasferito a nord, verso Los Estados. […] Lui era convinto, come lei e come la maggior parte dei Bautabarreños, che l’uomo è messo sulla terra per soffrire. Ma diversamente da lei, credeva che gli uomini e le donne avessero diritto a un po’ di felicità, che la vita non dovesse essere totalmente un martirio. Lei poteva capire che lui volesse lasciare il villaggio per trasferirsi a San Juan, Santurce, Ponce, Mayagüez o in qualsiasi altra ‘grande’ città o paese sull’isola, dove chi aveva delle ambizioni (e lui sembrava averne molte) poteva entrare in affari o trovare un mondo decente. Ma Los Estados Unidos de América? No. [...] Era sospettosa”. Rivera, Family Installments, 28-29. 117 183 discorso diretto ma i loro punti di vista vengono riportati in parallelo anche nella disposizione grafica della pagina: (Rosa) “It doesn’t matter what you think. I couldn’t leave her. Besides, you and I know perfectly well that Nélida could have taken care of your mother without your help. She’s more than capable when she wants to be. And don’t try to tell me that she had other responsibilities, either. Por Dios, Pedro. She was over fifty years old when your father died. It still amazes me how helpless your sisters can be when they want to be”118. (Pedro) “Your mother has been gone for almost six months now, Rosa. Stop using her as an excuse for why you won’t move to Havana. If it’s not one thing, it’s another. What is it with you? I turn myself inside out trying to please you and this is all the thanks I get. Maybe I made a mistake. Maybe I should have stayed with Mother and the girls. At least they appreciate all that I have done for them”. La tendenza del narratore ad inglobare la parola altrui è particolarmente significativa nei primi due capitoli in cui – come sottolinea Anna Scannavini – alla “multi-vocalità”119 nel rapporto tra Santos ed i personaggi rappresentati, si sovrappone anche il multilinguismo, per l’alta concentrazione di ingerenze dallo spagnolo (commutazioni di codice, calchi, inserimento di parole mal scritte o mal pronunciate, di termini dialettali o in Spanglish). Queste forme ibride hanno sicuramente una funzione di caratterizzazione dei personaggi ma, come vedremo meglio nei prossimi paragrafi, segnano anche il rapporto tra il narratore e l’acquisizione della lingua seconda, in un sottile gioco di rimandi tra inglese e spagnolo. La voce del narratore non rinuncia alla sua “inclusività” neanche quando deve caratterizzare i personaggi femminili che, al pari di quelli maschili, vengono 118 (Rosa) “Non importa quello che pensi. Non potevo lasciarla. E poi, io e te sappiamo perfettamente che Nélida avrebbe potuto prendersi cura di tua madre senza il tuo aiuto. Lei è più che in grado, quando vuole esserlo. E non provare neanche a dirmi che aveva altre responsabilità. Por Dios, Pedro. Aveva più di cinquanta anni quando tuo padre è morto. Mi stupisce quanto possano essere impotenti le tue sorelle quando vogliono esserlo”; (Pedro) “Tua madre non c’è più da quasi sei mesi, Rosa. Smetti di usarla come una scusa per non volerti trasferire a L’Avana. Se non è una cosa, è un altra. Che ti succede? Faccio di tutto per compiacerti e questa è tutta la riconoscenza che ottengo. Forse ho sbagliato. Forse avrei dovuto restare con mia madre e le ragazze. Almeno loro apprezzano tutto quello che ho fatto per loro”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 9. 119 Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, 75. 184 sempre presentati con un linguaggio scarno e pungente, come quello utilizzato per introdurre le due donne che più spiccano dal primo capitolo: Socorro, moglie sottomessa dell’ignobile Gigante (“a kitchen martyr and a bedroom madonna”) e Josefa la pazza (“[she] added much misery to Papá Santos hard-luck life. She was a loca”120). I ritmi del racconto orale, i tempi della reiterazione e l’indeterminatezza del ricordo – che caratterizzano l’incipit dell’opera e la ricostruzione della genealogia familiare – si affievoliscono gradualmente nei capitoli successivi, in cui l’ambientazione passa dal villaggio alla metropoli, e l’apparizione del protagonista-narratore in prima persona segna due importanti scarti stilistici: una maggiore presenza di drammatizzazione e di dialogo, da un lato, e il passaggio da una focalizzazione zero ad una interna dall’altro. Quest’ultimo è sicuramente l’aspetto più rilevante se si considera che, prima del terzo capitolo, l’“I” e il punto di vista personale del protagonista sono totalmente assenti, mentre da questo momento balzano in primo piano grazie a una focalizzazione interna su Santos bambino, resa attraverso una voce infantile e disincantata, che continua comunque a mediare le parole dei personaggi, senza mai perdere il tono ironico caratteristico di tutta l’opera. È da un’ottica evidentemente puerile che Santos ci racconta della sua iniziazione sessuale con la mucca La Manca (“the cow with a broken horn”121), proprio nel capitolo (il terzo) intitolato “Chuito and La Manca”, con un eco ironico al più famoso eroe tragicomico della letteratura spagnola: El ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha. Sempre dal suo punto di vista infantile e 120 “Una martire della cucina e una Madonna della camera da letto”, “[lei] aggiungeva molta infelicità alla vita sfortunata di Papá Santos. Era a loca”. Rivera, Family Installments, 23, 16. 121 “La mucca con un corno rotto”. Ibidem, 56. 185 parziale apprendiamo degli inspiegabili litigi tra Gerán e Lilia nei primi mesi del loro ricongiungimento a New York, quando il padre, che non avevano visto per mesi, torna a casa incomprensibilmente stanco: “But way did he always come home looking so tired, half-corpse, half-human?”122. Santos bambino continua inoltre a costruire la multi-vocalità e il multilinguismo dei personaggi, con le continue commutazioni di codice o esplicitando la lingua dei dialoghi che sta mediando, come nello scambio di battute con il padre a cui sta nascondendo la scarpa destra: “‘So there’s no sense in inspecting that one for the size of your foot, is there?’ I said no, there wasn’t. ‘Maybe a mouse stole it last night’, he said in Spanish. ‘When you was sleeping’. That came out in English”123. La sua narrazione arriva addirittura ad inglobare le lettere dei personaggi, a cui non riserva uno spazio a parte, integrandole invece nel testo in un miscuglio di lingue, virgolette, mispellings, discorso pseudo-diretto e marche del narratore. Ne sono un esempio le missive che Gerán scrive alla moglie ed ai figli, rimasti sull’isola dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti: “My dear wife”, they usually began, and the rest went usually like this: As he took pen in hand he was full of the impedimentos, importunidades, and tropiezos, the stumbling blocks, of life, and the ansiedades of an absent husband and father.124 O lo scambio di lettere tra Santos e Tego quando quest’ultimo si stava occupando del padre malato, tornato a Porto Rico: 122 “Perché tornava sempre a casa con un aspetto così stanco, mezzo-cadavere, mezzo-umano?”. Ibidem, 189. 123 “‘Quindi non ha senso controllare quella per la misura del tuo piede, no?’ Ho detto di no, non ne aveva. ‘Forse un topo l’ha rubata la notte scorsa’, ha detto in spagnolo. ‘Quando tu stava dormendo’. Quello gli è uscito in inglese”. Ibidem, 86. 124 “‘Mia cara moglie’, di solito iniziavano, e il resto normalmente continuava così: Dal momento in cui prendeva la penna in mano era pieno di impedimentos, importunidades, e tropiezos, i grandi ostacoli, della vita, e le ansiedades di un marito e di un padre assente”. Ibidem, 53. 186 In his letter he told me he had pebbles on his lawn. “Its cheaper than keeping up grass, Santos. I don’t have time for grass”. […] His son and both girls were enrolled in a parochial school. […] “They have good sports and dicsipline. Thats what I needed more of myself, dicsipline, instead of playing cards all the time with the guys”. “You didn’t do too badly, Tego”, I wrote back.125 Anche in questo caso, la complessa mediazione del narratore è in netto contrasto con la scelta dell’autore implicito di The Pearl of the Antilles, che alle lettere scritte da Tía María e da Tata dedica tutta la parte centrale dell’opera, lasciando i personaggi liberi di esprimersi in prima persona ed addirittura simulando, anche a livello grafico, la calligrafia e la carta utilizzata dalla donne. Mano a mano che Santos cresce, portando avanti il suo percorso di acculturazione negli Stati Uniti, anche la sua voce diventa più matura e meditata, come quando riflette sulla sua decisione di tagliare i ponti con la religione: Giving up the Holy Ghost and the rest of the religious business was a serious decision, the most serious I’d made to date. I was beginning to feel like a real grown-up. But because it was a critical decision, I couldn’t bring myself to make it all at once; growing up, I knew, was a slow process, and I was in no hurry to become a fullgrown man before my time.126 Allo stesso tempo, la sua voce si fa anche più onnisciente, aumenta l’incidenza delle prolessi e lascia più spazio ad altri personaggi, come nei capitoli 10 e 11 incentrati sul rapporto tra Santos e il padre: sicuramente il personaggio più sfaccettato (dopo lo stesso protagonista) e quello che suscita maggiore empatia nel narratario. Gerán viene descritto come un uomo poliedrico e sensibile, che coltiva svariate passioni, dalle canzoni tradizionali portoricane alla lavorazione della pelle, 125 “Nella sua lettera mi ha raccontato che aveva dei ciottoli sul prato. ‘É più economico di tenere l’erba, Santos. Non ho tempo per l’erba’. [...] Suo figlio ed entrambe le ragazze frequentavano una scuola religiosa. [...] ‘Hanno del buono sport e dicsiplina. Questo è ciò di cui io stesso avevo più bisogno, dicsiplina, invece di giocare tutto il tempo a carte con i ragazzi’. ‘Non hai fatto troppo malamente, Tego’, gli ho risposto”. Ibidem, 285. 126 “Rinunciare allo Spirito Santo e al resto dell’attività religiosa era una decisione impegnativa, ad oggi, la più impegnativa da prendere. Stavo cominciando a sentirmi un vero e proprio adulto. Ma poiché era una decisione critica, non riuscivo a prenderla una volta per tutte: crescere, lo sapevo, era un processo lento e io non aveva fretta di diventare un uomo adulto prima del tempo”. Ibidem, 147. 187 e non si lascia ingrigire dalla vita, nonostante le innumerevoli difficoltà e le umiliazioni di cui è vittima. La sua voce viene costruita attraverso le due arti che più lo appassionano: la musica (che ascolta alla radio, compone e suona per ore mentre Santos studia) e l’oratoria (con le sue infinite esercitazioni di eloquenza, che legge a voce alta e talvolta ripete inconsapevolmente anche di notte). Padre e figlio sembrano dunque aver trovato, ciascuno a suo modo, il proprio rifugio dallo squallore della vita che li circonda, eppure le loro voci sono solo giustapposte, i due personaggi non interagiscono in un dialogo costruttivo e in occasione di una delle tante declamazioni di Gerán: “Oh, my country! Sublime Eve, hosts the soul, chalice of life…”, il narratore si limita a far seguire le parole del padre, direttamente dai versi della propria antologia: “My anthology: ‘A hand that can be clasped no more…’”127. Nonostante l’opera mantenga fino alla fine una spiccata ibridità linguistica, il numero di inserti in spagnolo e di alternanze va diminuendo mano a mano che Santos cresce padroneggiando sempre meglio la lingua inglese, quasi ad indicare che la maturità del narratore procede di pari passo con l’acculturazione negli Stati Stati Uniti e l’acquisizione di una nuova lingua. 4.2.4 Tra generi letterari e marginalità A quale genere letterario appartiene Family Installments? Secondo Marta Sánchez l’opera potrebbe essere considerata “a composite of an ethnography, a bourgeois autobiography, and a rite-of-passage-through-literature novel” 128 ; 127 “Oh, il mio paese! Eva Sublime, ospita l’anima, calice della vita”, “La mia antologia: una mano che non può più essere afferrata”. Ibidem, 233. 128 “Una combinazione tra un romanzo etnografico, un’autobiografia borghese e un romanzo d’iniziazione”. Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family Installments’”, 855. 188 presenta infatti evidenti analogie con ognuno di questi generi e, allo stesso tempo, se ne discosta creando punti di tensione e discordanze. Per la sua descrizione della realtà portoricana da narratore “autocratico”, che non permette ai personaggi di parlare con la propria voce, Santos sembra infatti vestire i panni dell’etnografo, tipici delle narrazioni antropologiche. In realtà sarebbe più giusto considerarlo un etnografo indigeno perché il narratore non solo non è un osservatore esterno ma è anche parte integrante di entrambe le dimensioni culturali che sta descrivendo. Se è vero, come avviene nella “bourgeois autobiography”, che nell’opera assistiamo alla crescita intellettuale e spirituale di un io, è anche vero che nei primi due capitoli questi è totalmente assente, mentre predomina la dimensione collettiva della sua comunità d’origine, descritta in retrospettiva seguendo il ritmo dello storytelling e delle memorie di famiglia. Proprio questa coralità della dimensione genealogica sembra vanificare la concezione individualistica della soggettività borghese comunemente descritta nei Bildungsromans o in generi simili. Neanche la tipica organizzazione del “rite-of-passage-through-literature novel” sembra esser rispettata, poiché Santos non solo non si riappacifica con la sua cultura d’origine, ma il suo percorso identitario sembra ancora del tutto in fieri alla fine del romanzo. Infine, proprio per la natura “autocratica” del narratore e per la sua ironia caustica, l’opera si scosta anche da The Pearl of the Antilles e da A Daughter’s a Daughter in cui si privilegiano le focalizzazioni interne e la polifonia dei personaggi. 189 Perché dunque si creano apparenti analogie con altri generi familiari al lettore Anglo che a livello più profondo vengono però smentite? Perché si crea l’illusione di una voce inclusiva (ad esempio attraverso lo spiccato ibridismo linguistico) quando poi nessuno dei personaggi dell’opera può totalmente svincolarsi dal filtro della voce di Santos? Inoltre, perché il narratore costruisce un’architettura multilingue così articolata, dando l’illusione di “inclusività”, quando invece un’ampia fetta di lettori dovrà fare i conti con un profondo senso di estraniamento e alterità, non potendo cogliere le molteplici sfumature del racconto (virtualmente accessibili solo a una lettrice o un lettore bilingue e che abbia un’approfondita conoscenza di entrambe le culture)? Nel suo tentativo di integrazione e nel suo sforzo costante per appianare le differenze tra cultura anglosassone e cultura portoricana, Santos porta infatti alla luce tutte le difficoltà insite nei processi di negoziazione culturale, comprese le barriere linguistiche, le incomprensioni o le frustrazioni costanti di chi lotta per avere un proprio spazio d’espressione e deve comunque sottostare alle regole prestabilite dal sistema in cui vorrebbe integrarsi – proprio come fanno i personaggi, le cui voci sono comunque assorbite e rimodellate da quella del narratore. Santos compie dunque un’intensa operazione di demistificazione, defamiliarizzazione e distorsione sia della cultura d’origine sia di quella acquisita, reinterpretando la realtà che lo circonda in chiave ironica e tragicomica. Così facendo, il protagonista mette in discussione la centralità e i capisaldi di entrambe le culture (in particolare le due istituzioni che ne rafforzano l’egemonia: la scuola 190 e la Chiesa) e, allo stesso tempo, ne fa emergere la complessità e la disomogeneità interna. Insieme a Santos, anche i lettori devono quindi fare i conti con gli aspetti più assurdi e paradossali delle due sfere culturali e vengono chiamati a compiere un’intensa operazione di mediazione sia a livello di tecniche narrative (mettendo in discussione i genere letterari dominanti) sia a livello linguistico (per la necessità di una costante negoziazione del significato)129. 129 Sono emblematiche, a questo proposito, le parole di Marta Sánchez secondo la quale: “This text calls for a reader who will self-consciously negotiate the cultural divide at the level of language and narrative technique / Questo testo reclama una lettrice che deve consapevolmente negoziare il divario culturale sia a livello di lingua sia a livello di tecnica narrativa”. Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family Installments’”, 857. 191 4.3 A Daughter’s a Daughter, Nash Candelaria 4.3.1 Un romanzo di strong women Nash Candelaria pubblica A Daughter’s a Daughter dopo il successo della sua tetralogia di romanzi storici, con cui si è guadagnato il titolo di “historical novelist of the Hispanic people of New Mexico”130 per la sua narrativa credibile, onesta e ricca di autenticità storica 131 . Subito dopo A Daughter’s a Daughter Candelaria pubblica il suo mémoir. Come nasce l’idea di un romanzo al femminile, nel mezzo di questi due importanti traguardi? Quando in occasione della nostra intervista gli ho chiesto come avesse avuto l’idea di scrivere un’opera interamente dedicata a tre donne della stessa famiglia, l’autore ha subito ricordato il suo desiderio sia di descrivere i forti cambiamenti del New Mexico, sia di rendere omaggio alle donne della sua famiglia: la capostipite dei Candelaria, la nonna, la madre, la sorella e la moglie: I wanted to write about the change of New Mexico Latinos’ situations and attitudes over three generations. […] To me the change in the roles of women was one of the biggest and more important changes in this country during my lifetime. The examples of strong women I knew or knew of in the family occurred to me.132 130 “Romanziere storico della popolazione ispanica del New Mexico”. Candelaria, Second Communion, 201. 131 Lo confermerebbero diversi saggi critici e recensioni. Trujillo, ad esempio, elogia la sua prosa affermando: “he has a basic mastery of the craft that makes the narrative and the characters believable, that causes the reader to care about them. […] Candelaria’s prose is honest. His characters are not gilded stereotypes mouthing platitudes and/or rhetoric. They are individuals. / Ha una padronanza basilare dell’arte, che rende la narrativa e i personaggi credibili, e coinvolge i lettori. […] La prosa di Candelaria è onesta. I suoi personaggi non sono stereotipi dorati che riproducono banalità e/o retoriche. Sono individui”. David F. Trujillo, “Memories of the Alhambra”, De Colores 5.1-2 (1980): 130-32. Márquez definisce invece la sua narrativa ricca di “historical authenticity / autenticità storica”. Antonio C. Márquez, “Algo viejo y algo nuevo: Contemporary New Mexico Hispanic Fiction”, Pasó por aquí: Critical Essays on the New Mexican Literary Tradition, ed. Erlinda Gonzales-Berry (Albuquerque: University of New Mexico Press, 1989) 263. 132 “Volevo descrivere il cambiamento delle condizioni e degli atteggiamenti dei Latinos del New Mexico attraverso tre generazioni. […] Per me, il cambiamento nel ruolo delle donne è stato uno dei più significativi e importanti avvenuto in questo Paese durante la mia vita. Mi sono venuti in mente gli esempi delle donne forti che conoscevo o di cui avevo sentito nella mia famiglia”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5. 192 4.3.2 Quadro sinottico Nella scena d’apertura del primo capitolo intitolato “Veterans Day” la protagonista più giovane, Irene (avvocato con anni di esperienza alle spalle), sta guidando verso casa della nonna Liberata a sud di Albuquerque, in direzione del Río Grande. Il tragitto rappresenta per la donna un simbolico “journey back in time”133 durante il quale riflette sui profondi cambiamenti della città ma anche sugli elementi di continuità, rispetto all’infanzia di sua nonna. Rafas Road, ad esempio, era stata asfaltata ed i campi di grano erano scomparsi, ma c’erano ancora delle enclave di “adobe houses” 134 che avevano resistito all’avanzata di case costose e ultra moderne. Sempre mentre guida, la donna ricostruisce mentalmente la genealogia della propria famiglia (Los Rafas), dalla capostipite Magdalena fino alla nonna Liberata. La prima a stabilirsi nella zona era stata proprio la vedova Magdalena Gutiérrez Rafa sopravvissuta insieme ai figli alla Rivolta Pueblo del 1680. Grazie ad una concessione del re di Spagna i suoi discendenti acquisirono 9.000 acri di terreno in cui fondarono la comunità agricola dei Los Rafas, dando vita all’allora villaggio di Albuquerque. A distanza di trecento anni, nonostante la famiglia avesse perduto gran parte dei possedimenti originari, Liberata ne possedeva ancora alcuni e guardava con disprezzo l’insediarsi degli “Anglos” con il loro stile di vita tanto distante dalla cultura agricola tradizionale della zona: “Anglos with 133 “Viaggio all’indietro nel tempo”. Nash Candelaria, A Daughter’s a Daughter (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2008) 2. 134 “Case di adobe”. Ibidem, 2. 193 their money and their cars and hacienda-style houses who now inhabited much of what she still viewed as family property”135. Giunta a casa della nonna, Irene vi trova anche la madre María, che si occupa di Liberata (ormai quasi ottantenne e a malapena autosufficiente) nei momenti liberi dal lavoro. Mentre le due parlano, l’anziana si addormenta e nel sonno sembra rivivere a voce alta un abuso subito (“I was too frightened. If I came out he might still – Oh, God!”136) che María tende più volte a minimizzare di fronte alla figlia (“You shouldn’t listen to her foolishness […]. She wasn’t molested. It’s just her imagination”137). La scena successiva si svolge durante il Veterans Day, giorno in cui Irene accompagna la madre María al Santa Fe National Cemetery per visitare la tomba del padre Daniel, morto per malattia a 43 anni, dopo aver combattuto nella guerra in Vietnam. In questa occasione Irene ricorda con affetto le parole di stima e incoraggiamento del padre, il giorno in cui si era laureata in giurisprudenza (“You can be anything you want, honey […] Don’t let anything stop you”138). La sintonia e l’affiatamento che la univa al padre contrasta fin da subito con la diversità di vedute rispetto alla madre (“She was […] more her father’s child than her mother’s”139). Il loro rapporto è segnato infatti da incomprensioni e divergenze – in particolare sul ruolo della donna – dovute sia a differenze generazionali sia a filosofie di vita contrastanti. Mentre María si attiene alla 135 “Anglosassoni con i loro soldi e le loro auto e le case in stile hacienda che ora occupavano gran parte di ciò che lei vedeva ancora come proprietà di famiglia”. Ibidem, 2. 136 “Ero troppo spaventata. Se uscissi potrebbe ancora – Oh, Dio!”. Ibidem, 5. 137 “Non dovresti dar retta alla sua pazzia […]. Non ha subito molestie. È solo la sua immaginazione”. Ibidem, 13 138 “Puoi diventare chi vuoi tu, tesoro […] Fa in modo che nulla ti fermi”. Ibidem, 9. 139 “Era […] la figlia di suo padre, più che di sua madre”. Ibidem, 10 194 cosiddetta “holy trinity” della donna (“church, kitchen, and children”140), Irene è emancipata e indipendente e non condivide la fissità dei ruoli delle famiglie patriarcali ispaniche, in cui la priorità dell’uomo era arruolarsi nell’esercito, mentre quella della donna era essere totalmente devota alla famiglia ed alla Chiesa: “La raza men were definitely defined by war. As the women were defined by their men”141. Mentre discutono sulle condizioni di salute della nonna e su come potersi occupare al meglio di lei – ad esempio vendendo i suoi possedimenti per permettere a María di lasciare il lavoro e occuparsi a tempo pieno della madre142 – Irene va su tutte le furie quando apprende che la donna, insieme al fratello minore Daniel, si era rivolta a Henry López, un avvocato-uomo ed esterno al nucleo familiare, per gestire la situazione, dimostrando in questo modo di non riporre fiducia in lei (nonostante gli anni di esperienza che aveva alle spalle), per il fatto di essere donna. Il secondo capitolo, intitolato “Liberata”, è dedicato alla storia della più anziana delle tre protagoniste femminili, cresciuta nella comunità agricola dei Los Rafas nella prima metà del Novecento. Liberata proviene da una famiglia amorevole e benestante, rispettata da tutto il villaggio come esempio di onestà, devozione religiosa e generosità. La madre Gabriela e il padre Carlos – quest’ultimo in particolare, colonna portante e paladino delle tradizioni – la educano secondo le virtù femminili che erano state tramandate di generazione in generazione e che prevedevano il rispetto dei propri doveri domestici e religiosi e 140 “Santa trinità”, “chiesa, cucina e figli”. Ibidem, 8 “Gli uomini de la raza venivano sicuramente definiti dalla guerra. Così come le donne venivano definite dai loro uomini”. Ibidem, 15 142 María le dice infatti “I’m going to do my duty to my mother / Farò il mio dovere con mia madre”. Ibidem, 3. 141 195 “a recognition that men were the stronger, superior beings. Thus the role of a woman was circumscribed as it had been passed down through the generations”143. Liberata cresce anche insieme a Eduardo (Eddie), il cugino rimasto orfano e preso in affidamento dalla sua famiglia, con il quale instaura fin da subito un rapporto di profonda complicità e affiatamento. Quando la ragazza inizia a frequentare Benito Sánchez – un uomo estremamente attraente ma proveniente da una famiglia povera e poco raccomandabile – sia i genitori sia Eddie cercano di metterla in guarda e di dissuaderla, provocando però in lei una reazione opposta: “The more people objected to Benito, the more determined Liberata became in her desire to be his sweetheart”144. Nonostante le obiezioni dei genitori e nonostante la cattiva impressione che la famiglia di Benito aveva fatto sulla ragazza – (“How could my beautiful Benny be their son?” 145 ) per i modi rozzi e poco rispettosi del padre Arturo, soprattutto nei confronti della moglie Paciencia – Liberata è sempre più convinta di voler sposare l’uomo e riesce a far accettare l’idea anche a Gabriela e Carlos. Subito dopo il matrimonio, la donna deve però fare i conti con un brusco e inatteso cambio nel comportamento di Benito che diventa dedito all’alcool, scontroso e violento. Non solo l’uomo abusa di lei sessualmente e la tratta come se fosse un mero oggetto (“You’ll do what I tell you. I own you!”146), ma sfrutta a proprio piacimento la ricchezza e la generosità della famiglia Rafa (che aveva 143 “Quindi il ruolo di una donna era circoscritto così come era stato tramandato per generazioni”. Ibidem, 30. 144 “Più le persone si opponevano a Benito, più Liberata era determinata nel suo desiderio di essere la sua amata”. Ibidem, 26. 145 “Come poteva il mio splendido Benny essere figlio loro?”. Ibidem, 37. 146 “Farai quello che ti dico. Sei mia!”. Ibidem, 65 196 donato loro la casa e una macchina), oltre che lo stipendio della donna che lavorava come cassiera in un bar. Un giorno Liberata riceve una visita inattesa e sconvolgente: una donna incinta (Rachel) le piomba in casa accompagnata dal fratello, per reclamare dei soldi che Benito le doveva per le spese mediche del figlio che portava in grembo: “Our baby. Mine and Benny’s”; Rachel le rivela anche che l’uomo non l’aveva mai amata: “He just married you for your money. […] He never loved you. It was always me. He should have married me”147. In preda alla disperazione Liberata – che fino a quel momento aveva vissuto nel terrore, continuando a chiedersi se stesse sbagliando qualcosa, senza avere il coraggio di raccontare nulla ai genitori per la vergogna – decide allora di confessarsi e di rivelare il suo “terrible, dark secret” 148 a Father López. Quest’ultimo non solo ignora la sua richiesta di aiuto, ma la congeda rapidamente ricordandole il dovere di ogni donna di compiacere il proprio marito (“This sounds no worse than many marriages I hear about. […] The important thing is that you must try to please your husband”149). Il giorno stesso, mentre torna a casa furibonda ed esasperata (“She was furious! […] Was there anybody who would listen to her!”), Liberata incontra Eddie e trova il coraggio di raccontargli cosa stava succedendo. L’uomo si offre di aiutarla ma Liberata lo dissuade: “It’s my problem, […] I don’t want you to get 147 “Il nostro bambino. Il mio e di Benny”, “Ti ha sposato solo per i soldi. […] Non ti ha mai amato. Sempre me. Avrebbe dovuto sposare me”. Ibidem, 68-69. 148 “Terribile, oscuro segreto”. Ibidem, 71. 149 “Non è peggio di molti altri matrimoni di cui sento. […] La cosa importante è cercare di compiacere tuo marito”. Ibidem, 72. 197 mixed up in it”150 . Più tardi al rientro dal lavoro, Benito va su tutte le furie quando scopre che la moglie non ha ubbidito alla sua richiesta di chiedere un prestito al padre Carlos. Mentre l’uomo le si scaglia contro minacciandola (“I’ll kill you!”151) la scena si chiude. Il terzo capitolo è invece dedicato a María, figlia di Liberata e futura madre di Irene, che nasce nel 1942 e cresce in una Albuquerque in grande espansione, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, quando un’ondata di ottimismo e modernità invade l’intera area. Insieme a nuove imprese e strade asfaltate, arrivano anche nuovi abitanti di origini anglosassoni, specialmente dal Texas, che si vanno ad aggiungere e mescolare alle comunità ispaniche locali. Anche María eredita i valori della cultura tradizionale e condivide in pieno le pietre miliari di una donna (battesimo, prima comunione, maturità, matrimonio e maternità), convinta che la vita fosse “an endless cycle of generations” in cui si fa tesoro degli insegnamenti degli antenati poiché “when it came to day-to-day living, the old ways were the best”152. María cresce senza aver mai conosciuto il padre che, secondo i racconti di Liberata, era morto in guerra dopo sei mesi dalla sua nascita. Lo aveva però visto nella foto del matrimonio dei genitori che la mamma conservava in camera. In sala, la donna aveva invece appeso una foto in uniforme dello zio Edoardo, anche questi morto in guerra nel 1942. Poiché la mamma non era molto propensa a parlare del passato, María cerca di saziare la propria curiosità sul padre e sulla giovinezza di Liberata, facendo ripetutamente domande alla nonna (Nana). Dai 150 “Era furiosa! […] C’era qualcuno che l’avrebbe ascoltata?”, “È un problema mio, […] non voglio che ti immischi”. Ibidem, 76. 151 “Ti ammazzo!”. Ibidem, 79. 152 “Un ciclo infinito di generazioni”, “Quando si trattava della vita di tutti i giorni, i modi di una volta erano i migliori”. Ibidem, 128, 100. 198 suoi sguardi e dai suoi silenzi (“María could sense coolness in her lack of response”) María intuisce la presenza di ricordi conturbanti, nel passato della famiglia (“Nana’s eyes narrowed, reminded of something that she might not have wanted to remember”153). Al termine della scuola superiore María non è intenzionata a proseguire con gli studi universitari convinta che siano inutili per una donna (“higher education for girls was a waste”154). Seguendo gli insegnamenti della madre che l’aveva sempre messa in guardia sull’inaffidabilità degli uomini, accetta con entusiasmo la proposta di matrimonio di Daniel, un ragazzo di origini ispaniche e proveniente dalla stessa comunità agricola155. Ma Daniel, che è molto devoto alla propria famiglia e vorrebbe contribuire ad un futuro più dignitoso sia per i propri genitori sia per María, decide di arruolarsi nell’esercito, subito prima del matrimonio. Attraverso le lettere che l’uomo invia alla futura moglie, raccontando dei diversi luoghi che visita e degli accampamenti militari in cui viene inviato, anche gli orizzonti culturali e geografici di María si espandono ben oltre i ristretti confini della comunità dei Los Rafas. In una di queste lettere, Daniel informa María di esser stato scelto per una missione speciale oltreoceano e, prima di partire, avendo alcune settimane di congedo, i due giovani si sposano. Subito dopo le nozze, Daniel parte per il Vietnam dove viene però gravemente ferito in un attentato, a seguito del quale gli 153 “María percepiva una certa freddezza nella sua mancata risposta”, “La nonna socchiuse gli occhi, ricordando qualcosa che non avrebbe voluto ricordare”. Ibidem, 107. 154 “Gli studi universitari per le ragazze sono uno spreco”. Ibidem, 99. 155 Memore dell’esperienza di Benito, Liberata infatti le diceva continuamente: “Men are not worth fighting over, and the better looking they are, the more you’ll have to fight. / Non vale la pena lottare per gli uomini, e più sono belli, più dovrai lottare”. Mentre Daniel viene descritto positivamente come “a nice old-fashion boy / un ragazzo bravo e all’antica”. Ibidem, 99, 126. 199 viene amputato il piede e parte della gamba. Una vota tornato ad Albuquerque, l’uomo non si perde d’animo e con gran determinazione, continua gli studi frequentando un istituto tecnico che gli permette di lavorare e sentirsi utile (“a useful member of society”156). Nel frattempo la loro famiglia cresce: María mette al mondo cinque figli (Irene, Marta, Daniel, Lisa e Samuel) e Irene, la maggiore, sarà la preferita del padre. Nello stesso periodo però muoiono anche Carlos, il padre di Liberata, e Matías, il padre di Daniel, lasciando i giovani coniugi con la sensazione di essere: “caught between the mortality of the older generations and the demanding innocence of the new”157. Quando all’età di quarantatre anni muore all’improvviso anche Daniel per un tumore, María si sente completamente persa per la rottura di quel ciclo generazionale e genealogico che aveva sempre reso solida la sua vita: “Her life was shattered. […] The lessons from the past no longer applied. The cycle was broken”158. Il terzo capitolo è quindi dedicato a Irene, la prima delle tre protagoniste a rinnegare la sua eredità femminile, lasciando Albuquerque “and the way of life her family had lived for generations” 159 per realizzare le proprie aspirazioni personali e professionali. Dopo aver gradualmente preso le distanze dalla religione e dalla Chiesa durante la sua adolescenza, una volta terminata la scuola, Irene decide di frequentare l’università in California, dove viene coinvolta in 156 “Un utile membro della società”. Ibidem, 143. “Intrappolati tra la mortalità delle generazioni più anziane e l’impegnativa innocenza delle nuove”. Ibidem, 144. 158 “La sua vita era a pezzi. […] Le lezioni del passato non funzionavano più. Il ciclo era stato rotto”. Ibidem. 159 “E il modo di vivere che la sua famiglia aveva perpetuato per generazioni”. Ibidem, 159. 157 200 prima persona nelle lotte femministe e nel Movimento per i diritti civili delle minoranze etniche. Grazie al suo attivismo, al confronto con le amiche chicane e ai suggestivi murales messico-americani che ricoprono le pareti dell’università, Irene prende coscienza delle proprie origini meticcie (che i Rafa avevano sempre rinnegato) e della propria condizione di Latina. Capisce inoltre che, nonostante le sue umili origini e nonostante si sentisse penalizzata in un mondo prettamente maschile e bianco, proprio grazie agli studi avrebbe potuto rendersi utile nella società e realizzare il suo sogno di diventare avvocato160. Le sue ambizioni e il suo senso di immortalità vengono però stroncati dalla morte improvvisa del padre che l’aveva sempre sostenuta e che, proprio sul letto dell’ospedale in uno dei suoi ultimi giorni di vita, le aveva chiesto di essere comprensiva con la madre, nonostante la radicale diversità di vedute che le divideva: “Be kind to your mother. […] Sometimes she’s hard to take but she really wants the best for you”161. Forse memore di queste parole, dopo il fallito matrimonio con Paul Mizrahi, figlio di una ricca famiglia del Nord Est che l’aveva fin da subito trattata con superiorità – Irene decide di lasciare la California e tornare nel New Mexico, riavvicinandosi alla sua famiglia. Deve quindi riadattarsi, non solo alla società più chiusa ed arretrata di Albuquerque – in cui le persone sembravano imbrigliate nel passato (“stuck in the same place, trapped in old ways that prevented them from 160 Irene dice infatti di sentirsi una “underdog in a male, Anglo world / una svantaggiata in un mondo maschile e anglosassone”. Ibidem, 189. 161 “Sii buona con tua madre. […] A volte è difficile da trattare, ma lei vuole veramente il meglio per te”. Ibidem, 190. 201 moving forward”162) – ma anche alle forti divergenze con la madre, che non riesce ad accettare la sua indipendenza, né tanto meno il suo divorzio: “it was better to remain a true daughter of the Church in a miserable marriage than to defy the Pope and commit the damning sin of divorce”163. Negli anni, nonostante le pressioni esasperanti di María perché si trovi un marito e nonostante avesse una relazione stabile con Robert (che descrive come un ragazzo all’antica) Irene decide di non risposarsi, consapevole di essere ormai troppo emancipata per seguire “[her] Mother’s mold”164. L’ultimo capitolo, “The Skeleton in the Cornfield”, si ricollega direttamente al primo e riporta l’attenzione sull’anziana Liberata e sui suoi ultimi giorni di vita. Non essendo più autosufficiente e soffrendo di demenza senile, la famiglia ha deciso di vendere la sua proprietà ad un’impresa edile per poter così pagare una casa di cura che si potesse occupare di lei. María vive con un forte senso di colpa questa decisione, sentendo di aver rotto quella continuità genealogica che proprio quel terreno, tramandato di generazione in generazione per quasi trecento anni, sembrava racchiudere. Un giorno, durante i lavori di scavo, gli operai dell’impresa edile trovano uno scheletro umano intero nel campo di grano adiacente a quella che era stata la casa di Liberata. La polizia inizia a fare delle indagini per capire a chi appartenesse il corpo senza però arrivare a nessun risultato, soprattutto perché si trattava di uno scheletro che nessuno aveva reclamato, risalente ad oltre sessanta anni prima. Irene invece si insospettisce e decide di condurre da sola delle 162 “Bloccate nello stesso posto, intrappolate in abitudini antiche che impedivano loro di andare avanti”. Ibidem, 200. 163 “Era meglio rimanere una vera figlia della Chiesa in un matrimonio infelice, piuttosto che sfidare il Papa commettendo il palese peccato del divorzio”. Ibidem, 147. 164 “Il modello di sua madre”. Ibidem, 146. 202 indagini. Un giorno si reca nel laboratorio di analisi in cui lavorava un vecchio amico (Charlie Carrillo) per cercare di avere maggiori informazioni sullo scheletro. Scopre quindi che apparteneva a un uomo di circa vent’anni di origini New Mexican e acconsente a fare un test del DNA per verificare se si trattasse di un loro parente. Contemporaneamente inizia a prestare più attenzione alle strane frasi sul marito Benito che la nonna continua a pronunciare (e che tutti considerano frutto della sua demenza): “Have me put somewhere far, far away from Benito”, “I’m going to meet Benito in hell, and I don’t look forward to that”165. Chiede inoltre alla madre di farsi raccontare tutto quello che aveva appreso sulla misteriosa scomparsa dell’uomo, avvenuta proprio sessant’anni prima. Mettendo insieme ricordi di famiglia, dicerie di paese e intuizioni personali, Irene capisce dunque che Liberata, probabilmente aiutata da Eddie, aveva ucciso il marito Benito per difendersi dalle sue violenze e continuava ad essere perseguitata dal ricordi di quel tragico gesto. Solo nel suo ultimo giorno di vita Irene trova la nonna completamente rasserenata, forse per esser stata assolta durante la sua ultima confessione. Dopo i funerali di Liberata, Irene e la madre rimangono a lungo da sole e finalmente riescono ad aprirsi l’una all’altra, accettandosi pur nella loro diversità, come fanno intuire la parole di Irene: “I’m sorry I’m such a worry for you. […] I can’t help being who I am and thinking what I think”166. Nei giorni successivi la donna riceve una telefonata dal suo amico del laboratorio Charlie che la informa 165 “Fatemi mettere da qualche parte lontano, lontano da Benito”, “Incontrerò Benito all’inferno, e non lo aspetto con impazienza”. Ibidem, 213, 225. 166 “Mi dispiace di farti preoccupare così tanto. […] Ma non posso fare a meno di essere così come sono e di pensare ciò che penso”. Ibidem, 245. 203 del legame di parentela tra lei e il misterioso scheletro, emerso dal test del DNA. Irene a questo punto sa che le sue intuizioni sul tragico segreto rimasto sepolto per anni sono vere. E mentre contempla il Río Grande e i profondi cambiamenti a cui il fiume ha assistito nei secoli, si chiede se sarà possibile progredire quando anche i migliori esseri umani sono indotti a compiere gesti terribili. 4.3.3 Il matriarcato narrativo L’opera è suddivisa in cinque capitoli, di cui il primo e l’ultimo – ambientati nel presente – fungono da cornice per i capitoli centrali, dedicati in successione alla vita di ciascuna delle tre protagoniste femminili: Liberata, María e Irene. Le loro vicende sono presentate da una voce narrante in terza persona che ripercorre la storia della famiglia Rafa mettendola in relazione con i principali eventi storici che hanno segnato gli Stati Uniti, negli ultimi quattro secoli. La continuità genealogica e culturale della famiglia viene enfatizzata dal forte legame con la terra d’origine: il New Mexico e in particolare la comunità agricola dei Los Rafas, nell’area di Albuquerque, in cui i primi antenati si stabilirono nel Diciassettesimo secolo e in cui tutti i successivi membri della famiglia hanno vissuto per trecento anni, fino alla protagonista più giovane, Irene. Quest’ultima spezza la stabilità geografica e culturale dei Rafa quando decide di lasciare la “land of enchantment”167 per studiare in California168. Già dal primo capitolo, sempre attraverso la voce narrante in terza persona, l’autore mette a nudo i tratti salienti del romanzo che verranno poi sviluppati con 167 “La terra d’incanto”, soprannome del New Mexico. Ibidem, 249. Di fatto la voce narrante si chiede più volte: “Was California where her troubles began? / È stato in California che sono iniziati i suoi problemi?”. Ibidem, 159. 168 204 varie sfumature nelle 249 pagine che compongono l’opera: il forte peso della storia e la predominanza di voci femminili. Dopo una breve descrizione del viaggio in macchina di Irene verso casa della nonna – in direzione del Río Grande – si fissano infatti fin dalla scena d’apertura le coordinate spazio-temporali in cui si innesta il racconto, ricostruendo la genealogia della famiglia Rafa a partire dalla capostipite: la vedova Magdalena Gutiérrez Rafa, la prima a stanziarsi con i figli nell’area in cui nascerà Albuquerque. Le vicende di Magdalena sono avvalorate fin da subito dal riferimento a due eventi storici reali che la donna vive in prima persona: la Rivolta Pueblo del 1680 e la fondazione di Albuquerque nel 1706169. Di fatto, durante tutta l’opera le storie delle tre protagoniste verranno continuamente intrecciate a fatti noti e concreti, come la Grande depressione, la Prima e Seconda guerra mondiale, la guerra in Vietnam, le proteste studentesche degli anni Settanta, i movimenti civili per i diritti delle minoranze etniche e delle donne, fino ai nostri giorni. Come prefigura la stessa genealogia della famiglia (insolitamente fondata da una donna), si tratta però di un excursus storico alternativo perché elaborato da un punto di vista doppiamente minoritario ed escluso per secoli dalla storiografia ufficiale: quello delle tre protagoniste, tutte donne ed appartenenti ad una comunità etnica minoritaria negli Stati Uniti. È attraverso la loro prospettiva, marginale e fino a quel momento inascoltata, che l’autore ricostruisce la quotidianità dei villaggi rurali e periferici del New Mexico, così come le ripercussioni che su di essi ebbero i grandi eventi storici dello scorso secolo. 169 Lo stesso stemma ufficiale della città riporta al centro la data del 1706. 205 Gli anni Sessanta, ad esempio, vengono introdotti attraverso lo sguardo di una María preoccupata per i possibili rischi che il marito, da poco arruolatosi nell’esercito, potrebbe correre: After Daniel enlists, María became more aware of the outside world. There were sit-ins in the South protesting segregation. Fidel Castro confiscated U.S. property in Cuba, and in retaliation the United States embargoed exports to the island. The presidential election was hotly contested, with John F. Kennedy and Richard Nixon debating on television. For her the world was suddenly a dangerous place, threatening her Daniel. She had been living a dream before, thinking that Los Rafas was isolated from the rest of the world.170 E mentre rilegge la storia ufficiale da un’ottica femminile (quindi anche attenta alla dimensione sociale e al mondo interiore della donna), Candelaria non incappa negli stereotipi della voce prettamente femminile descritti da Susan Sniader Lanser. È invece sempre attento a investire di autorevolezza e credibilità la voce delle protagoniste, attraverso un linguaggio poco figurato e asciutto, che adotta uno stile realistico e segue un andamento prevalentemente cronologico nella presentazione degli eventi, con un ridottissimo numero di anacronie – così come vorrebbe proprio la scrittura storiografica. L’effetto di realtà è inoltre fortemente rafforzato nell’ultimo capitolo, in cui Irene assume i panni di una detective, altro ruolo (insieme a quello dello storico) tipicamente maschile. Eppure anche in questo caso, l’autore riesce a reinterpretare il personaggio standard dell’investigatore attraverso la prospettiva tutta al femminile di Irene. Nonostante il coinvolgimento diretto della famiglia, grazie alla sua formazione da avvocato, la donna conduce infatti le indagini con 170 “Dopo l’arruolamento di Daniel, María divenne sempre più consapevole del mondo esterno. Al Sud c’erano occupazioni di protesta contro la segregazione. Fidel Castro confiscava le proprietà statunitensi a Cuba e, per rappresaglia, gli Stati Uniti avevano imposto l’embargo sulle esportazioni verso l’isola. Le elezioni presidenziali erano fortemente contestate, con John F. Kennedy e Richard Nixon che discutevano in televisione. Per lei il mondo era improvvisamente un luogo pericoloso, che minacciava il suo Daniel. Aveva vissuto in un sogno prima, quando pensava che Los Rafas fosse isolato dal resto del mondo”. Ibidem, 130. 206 competenza e lucidità, ricorrendo anche agli strumenti scientifici più appropriati (come l’analisi del DNA). Di fronte ai racconti confusi e deliranti della nonna e dopo aver ascoltato le versioni discordanti sul passato di Benito dei parenti o le dicerie di paese riportate dalla madre, la donna mette insieme i vari pezzi e risolve l’enigma dello scheletro con grande intuito, ricorrendo anche all’immaginazione per colmare le lacune della memoria. Anche in questo caso, l’autore riesce a trovare un equilibrio tra l’autorevolezza dell’investigatore e la sensibilità della voce femminile, soprattutto a livello di focalizzazione. Di norma nei gialli o nei non-fiction novels al detective si applica una “‘camera’s eye’ or ‘fly on the wall’ perspective – recounting actions without giving us access to characters’ thoughts”171. Nei momenti chiave in cui riveste il ruolo di investigatrice, Irene continua invece ad essere presentata attraverso una focalizzazione interiore, che permette al narratario di comprenderne meglio le difficoltà, i dubbi, i timori con cui conduce le sue ricerche: “Irene connected disparate bits of information, a jumble of memories, never quite sure if the things she was hearing had truly happened or if they were her grandmother’s senile imaginings”172. Inoltre, durante lo pseudo-interrogatorio a cui Irene sottopone la madre per carpire i suoi ricordi sul rapporto tra la nonna e il marito scomparso, Candelaria riesce a dosare con grande equilibrio narrazione e dialogo. Dà infatti ampio spazio 171 “Punto di vista da ‘macchina fotografica’ o ‘da mosca sul muro’ – raccontando le azioni senza farci accedere ai pensieri dei personaggi”. Jonathan Culler, Literary Theory: A Very Short Introduction (Oxford: Oxford University Press, 2000) 89. 172 “Irene collegava pezzi diversi di informazioni, un miscuglio di ricordi, mai sicura se le cose che sentiva fossero realmente accadute o se si trattasse delle fantasie senili della nonna”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 234. 207 sia alle voci e alle dicerie ricordate da María attraverso il discorso indiretto (“María began. […] There were rumors, […] her cousin told her. […] Another cousin from the Sánchez side of the family said […]. But there were other rumors”173), sia al rapido scambio di battute tra le donne, con il discorso diretto. Anche in quest’ultimo caso, emerge sempre la sensibilità e la difficoltà delle protagoniste nel portare a galla un passato famigliare così scomodo e intricato, ma spicca anche la perseveranza di Irene, che non demorde e continua a fare domande come una vera detective: “This is not about courts”, María said angrily. “Why do you have to say that?” Irene sighed. “I’m sorry, Mother. It’s just that it’s so – so nothing. Just talk. Was there anything you knew for certain?”.174 La prospettiva femminile è sicuramente quella predominante in tutta l’opera, che si configura come una sorta di matriarcato narrativo, in cui gli uomini sono quasi del tutto assenti a livello del discorso anche se non a livello di storia (fatta eccezione, come vedremo successivamente, per Daniel il padre di Irene). I personaggi maschili sono infatti tutti presentati con una focalizzazione zero, o attraverso le parole delle loro mogli o figlie. Sono figure monolitiche e sclerotizzate che si attengono rigidamente ai ruoli imposti dalla cultura tradizionale ispanica, senza mai metterla in discussione. Tutti muoiono comunque prima delle loro mogli – non a caso nell’opera ci sono moltissime vedove – e tutti si arruolano nell’esercito: scelta realmente comune tra gli ispanici nella prima metà del Novecento, come confermano le parole di Irene: 173 “María iniziò. […] C’erano voci, […] sua cugina le aveva ditto. […] Un’altra cugina dal lato Sánchez della famiglia diceva […]. Ma c’erano altre voci”. Ibidem, 227-8. 174 “‘Non si tratta di tribunali’, María disse con rabbia. ‘Perché lo devi dire?’ / Irene sospirò. ‘Mi dispiace, mamma. Solo che è così – quindi niente. Si fa per parlare. C’era qualcosa che sapevi con certezza?’”. Ibidem, 228. 208 What was it about these men? she thought. Then she remembered her ex-husband and nearly laughed. No way would Paul ever have served in the military. He’d have found a way out, one way or another. But then he wasn’t Hispanic New Mexican with roots on the farm, raised to obey and to die for his country if need be.175 L’autorevolezza del discorso storico, sembra quindi voler avvalorare costantemente la prospettiva femminile e minoritaria che l’autore porta avanti. Tuttavia questa stessa autorevolezza e verosimiglianza di fondo, viene più volte smentita e messa in discussione sia a livello di discorso, sia di storia. A una lettura più attenta, emergono infatti numerosi casi in cui la narrazione passa dalla prima alla terza persona, in maniera quasi impercettibile, facendo scomparire le virgolette del discorso diretto, espediente quest’ultimo non riconducibile alla scrittura storiografica e che sembra annullare la distanza tra la voce narrante e i personaggi: “As María approached, she thought, if Mother lost a few pounds, she and I would look like sisters. But we would never be sisters under the skin”(10); “Yes, Irene thought. What she thinks is best. Which is what she would do, not what I would do. I can’t live her life over again” (190).176 Inoltre, ai numerosi riferimenti storici reali, nella narrazione si affiancano anche elementi fittizi, apparentemente presentati come autentici. Ne è un esempio la “Humane Organization for Women Lawyers” 177 , l’organizzazione che invita Irene a parlare della propria esperienza di avvocato in un mondo prettamente maschile. Poiché vi si fa allusione dopo aver citato le più note lotte per i diritti civili, non è facile per il narratario intuire che si tratta di un’organizzazione 175 “Che cosa gli succedeva a questi uomini? Pensò. Poi si ricordò del suo ex-marito e quasi scoppiò a ridere. Paul, non avrebbe mai fatto il militare. Avrebbe trovato una scappatoia, in un modo o in un altro. Del resto, non era un New Mexican ispanico con radici in campagna, cresciuto per obbedire e morire per il suo Paese, se necessario”. Ibidem, 15. 176 “Mentre María si avvicinava, pensò, se la mamma perdesse qualche chilo, io e lei sembreremmo sorelle. Ma non saremmo mai sorelle sotto la pelle”(10); “Sì, Irene pensò. Quello che lei pensa sia meglio. Che è quello che farebbe lei, non quello che farei io. Non riesco a rivivere la sua vita da capo” (190). Ibidem. 177 “Organizzazione umanitaria in favore delle donne avvocato”. Ibidem, 203. 209 totalmente inventata. O ancora, ad un certo punto della sua storia Liberata racconta le vicende della santa cui deve il nome (Santa Liberata, figlia del re di Portogallo che riesce a farsi crescere barba e baffi pur di non sposare l’uomo che il padre le aveva imposto) come se fosse un fatto storico. In realtà, come accade spesso per i racconti agiografici, esistono molteplici versioni della sua vita, mescolate a leggende e folclore ed alcuni storici mettono addirittura in discussione la sua esistenza. Perché, dunque, Candelaria crea una voce autorevole che sembra però vacillare inaspettatamente in diversi punti dell’opera? Se è evidente che l’intero romanzo viene costruito sul sottile confine tra “factual” e “imaginable” 178 , spingendo i lettori a non dare mai nulla per scontato, è anche vero, però, che la scoperta finale dello scheletro riporta alla luce la cosiddetta “inemendabilità”179 del reale. Ciò che emerge è il fatto nella sua cruda realtà, quanto non può essere corretto né trasformato, il carattere saliente del reale, come lo scorrere del Río Grande o il permanere della terra, nonostante gli stravolgimenti che il progresso ha inflitto sul terreno: “no longer being a farm, like it had been for generations. It was going to become a development”180. Di fatto, nonostante i cambiamenti inesorabili, l’opera si chiude proprio con la contemplazione che Irene fa dei punti fermi e inemendabili della storia della sua famiglia: West of the farthest extent of the property was the Rio Grande, which fed this high desert land and had supported past generations of farmers. Land of enchantment, she thought. Land of my ancestors. 178 “Reale” e “immaginabile”. Hayden White, “The Historical Text as Literary Artifact.” Tropics of Discourse, Essays in Cultural Criticism (Baltimore: John Hopkins University Press, 1978) 98. 179 Maurizio Ferraris, “Il ritorno al pensiero forte”. La Repubblica, 8 agosto 2011, 37. 180 “Non più di campagna, come era stato per generazioni. Era destinato a diventare un’area di sviluppo urbano”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5. 210 Generations come and go. We come to terms with a world that moves too fast. We change. Earth abides.181 A livello di generi letterari, dunque, l’opera è in bilico tra le modalità del romanzo storico e quelle del New Realism, così come viene descritto nel Manifesto di Ferraris182. 181 “A ovest della parte più lontana della proprietà c’era il Río Grande, che ha irrigato questa alta terra desertica e ha dato sostentamento alle generazioni passate di agricoltori. Terra di incanto, pensò. Terra dei miei antenati. Le generazioni vanno e vengono. Veniamo a patti con un mondo che si muove troppo velocemente. Noi cambiamo. La terra resta”. Nash Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 249. 182 Maurizio Ferraris, Il manifesto del nuovo realismo (Bari: Laterza, 2012). 211 212 ANALISI LINGUISTICA 4.4 Surface, Deviant English vs Latent, Underlying Spanish My parents belonged to a generation that wanted to move out to the mainstream and to the broader world. They did not speak Spanish to me or my sister at all when we grew up in Los Angeles. They did speak it among themselves occasionally when they wanted to keep a secret from us. As a result I grew up ‘1.1 lingual’ as I call it, I handle a little Spanish.183 Candelaria è di madre lingua inglese ma conosce lo spagnolo (nonostante i genitori non lo utilizzassero in casa) grazie ai ripetuti soggiorni in New Mexico – per il lavoro del padre o per visite ai parenti più stretti – che hanno caratterizzato la sua infanzia. Per le sue insicurezze con la sua seconda lingua e per la limitata capacità di parlarla, in occasione della nostra intervista l’autore si è definito “1.1 lingual”, collocandosi nello spazio intermedio e fluido di chi è più di un monolingue, senza essere propriamente bilingue. Anche per O’Reilly Herrera la prima lingua è l’inglese, ma l’autrice ha sempre nutrito una forte passione per lo spagnolo che ha ascoltato e imparato in casa, fin da bambina, grazie alla presenza di amici e parenti ispanofoni ospitati anche per lunghi periodi dalla sua famiglia: My mother didn’t speak Spanish to us, but we had lots of different people living with us from Pedro Pan for example [Operation Peter Pan] and relatives who didn’t speak English. So we learned Spanish from everyone but my mother, although she would talk to the others in Spanish.184 183 “I miei genitori appartenevano ad una generazione che voleva fare ingresso nella cultura dominante ed in un mondo più ampio. Non parlavano per niente spagnolo con me e mia sorella mentre crescevamo a Los Angeles. Lo parlavano tra di loro, occasionalmente, quando volevano mantenere un segreto. Di conseguenza sono cresciuto ‘1.1-lingue’ come dico io, conosco solo un po’ di spagnolo”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5. 184 “Mia madre non parlava spagnolo con noi, ma c’erano molte persone che vivevano con noi, ad esempio da Pedro Pan [Operazione Peter Pan] e parenti che non parlavano inglese. Quindi 213 O’Reilly Herrera ha quindi un’ottima padronanza dello spagnolo e una spiccata propensione a utilizzarlo ogni volta che se ne presenti l’occasione, come dimostra la nostra stessa intervista, iniziata in castigliano per iniziativa dell’autrice e proseguita in inglese, dopo fasi intermedie di mescolamento delle due lingue che O’Reilly Herrera alterna con estrema naturalezza. Come confermano le parole di Keller, Rivera era invece pienamente bilingue: Eddie was bilingual. Eduardo/Edward Rivera was bilingual at full strength, with all that goes with it. He was this plenitude in his creative writing, in his professional life, and in his social and community constructs.185 Il complesso rapporto tra identità linguistica ed etnica dei tre autori, che verrà qui sviluppato, evidenzia fin da subito l’impossibilità di individuare un idioma letterario unico e riconoscibile per tutti i Latinos. A questi si possono invece estendere le stesse considerazioni che Juan Bruce-Novoa aveva formulato, già alla fine degli anni Settanta, in riferimento alla letteratura chicana: The instinctual use of one’s personal native idiom is, however, much more complex than a simple preference for English over Spanish. It is interlingualism – not bilingualism. Chicanos blend Spanish and English, at times in obvious ways, such as juxtaposing words from both languages, but more often in such subtle fusions of grammar, syntax or cross-cultural allusions that monolingual readers will hardly notice. […] This interlingual form of expression is the true native language of Chicano communities, even though some members speak only English or only Spanish – as a whole, the language spectrum covers these and every potential blend.186 abbiamo imparato spagnolo da tutti meno che da mia madre, anche se lei parlava in spagnolo con gli altri”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 185 “Eddie era bilingue. Eduardo/Edward Rivera era bilingue alla massima potenza, con tutto ciò che ne consegue. Questa abbondanza si rifletteva nella sua scrittura creativa, nella sua vita professionale e nelle sue costruzioni sociali e di comunità”. Gary D. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 128. 186 “L’uso istintivo del proprio idioma nativo è, tuttavia, molto più complesso di una semplice preferenza per l’inglese o per lo spagnolo. È interlinguismo, non bilinguismo. I chicani mescolano spagnolo e inglese, a volte in modo ovvio, ad esempio giustapponendo parole da entrambe le lingue ma, più spesso, in una fusione sottile di grammatica, sintassi e allusioni interculturali che i lettori monolingui difficilmente notano. […] Questa forma d’espressione interlingue è la vera lingua nativa delle comunità chicane, anche se alcuni membri parlano solo spagnolo o solo inglese 214 Sulla base delle interviste condotte a quattordici autori chicani e in contrasto con ogni sorta di sistema binario, Bruce-Novoa non riconduce la lingua adottata dagli scrittori messico-americani ai soli standard dell’inglese o dello spagnolo ma parla piuttosto di interlinguismo, considerando i due codici come un patois, un impasto molteplice e fluido, modellato e arricchito di volta in volta in base alle esigenze espressive e alla libera creatività artistica. Se in molti casi infatti i due idiomi vengono semplicemente giustapposti, ancor più spesso si creano fusioni profonde (a livello grammaticale, morfologico o sintattico) o allusioni interculturali così sottili da essere difficilmente captabili dall’ascoltatore/lettore monolingue. A prescindere dal grado o dalla modalità di ibridazione del vernacolo dei Latinos, nella comunicazione letteraria esso avrà sempre un valore aggiunto fondamentale: quello di condurre i lettori WASP in una zona di contatto in cui lingue e culture diverse interagiscono, rendendo necessario un decentramento del punto di vista e uno sforzo “to stretch la imaginación”187, così come auspicavano già nel 1983 le curatrici dell’antologia bilingue Cuentos: Stories by Latinas. Ogni parola o struttura linguistica percepita come anomala richiede infatti una compensazione immaginativa che rende evidente la parzialità dei processi di interpretazione (non possiamo capire tutto) e l’ambivalenza del significato: “termine intermedio tra due parti, il risultato di una costruzione che procede per prova ed errore, lungo il confine che separa gli interlocutori”188. – nel suo insieme, la gamma delle lingue comprende questi e ogni potenziale fusione”. Juan BruceNovoa, RetroSpace: Collected Essays on Chicano Literature, Theory and History (Houston: Arte Público Press, 1990) 50. 187 “Estendere l’immaginazione”. Alma Gómez, Cherríe Moraga, Mariana Romo-Carmona, eds., Cuentos: Stories by Latinas (New York: Kitchen Table/Women of Color, 1983) 10-11. 188 Anna Scannavini, Giochi di giochi (Roma, Nuova Arnica, 2003) 14. 215 Estendendo agli autori Latinos le osservazioni che Ernst Rudin elabora in riferimento agli scrittori messico-americani, possiamo quindi definirli “translator[s] between cultures”, portando in evidenza che “the Spanish-language elements in their texts constitute one of the most salient and revealing markers of these processes of translation”189. Candelaria, O’Reilly Herrera e Rivera quindi, ciascuno attraverso diversi livelli di fusione di spagnolo e inglese, non solo rompono l’ordine default della comunicazione, ma intraprendono un’operazione costante e spesso impercettibile di negoziazione culturale, che la stessa Andrea O’Reilly Herrera cerca sempre di rendere esplicita per i suoi lettori, frustrati di fronte alla complessità di opere multilingua: When my readers come across the Spanish passages in Pearl (in the green Morroco notebook), many get annoyed and frustrated. […] In response, I ask people to consider who’s reading the notebook. Who’s looking at it in the novel? It’s Lilly, of course. So imagine, what would you be feeling if you were her, facing this impenetrable wall of language? […] So as a reader you need to ask yourself why writers incorporate foreign languages into their works. It’s not gratuitous, it’s not to make you angry. […] [Y]ou cannot always translate everything – especially when it comes to experience and culture. As a reader-outsider, you are always in the act of translating. Ultimately what you are translating becomes something different and new. Metaphorically, this act of translating represents a way of negotiating cultures linguistically.190 Come si può evincere anche dai titoli, in A Daughter’s a Daughter, Family Installments e The Pearl of the Antilles la lingua dominante è sicuramente 189 “Traduttori tra culture”, “gli elementi della lingua spagnola nei loro testi sono uno dei più rilevanti e significativi indicatori di questo processo”. Ernst Rudin, Tender Accents of Sound: Spanish in the Chicano Novel in English (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 1996) xxi. 190 “Quando i miei lettori si imbarcano nei passi in spagnolo di Pearl (nel taccuino verde in pelle marocchina), molti sono seccati e frustrati. […] In risposta io chiedo alle persone di considerare chi sta leggendo il taccuino. Chi lo sta guardando nel romanzo? Naturalmente è Lilly. Quindi immaginate come vi sentireste nei suoi panni, ad affrontare questa barriera impenetrabile della lingua? […] Chi legge si deve chiedere perché gli scrittori incorporino lingue straniere nelle loro opere. Non è gratuito, non è per farli arrabbiare. […] [N]on si può sempre tradurre tutto – specialmente se si tratta di esperienza e cultura. Nel ruolo di lettori-estranei, ci si trova sempre a tradurre. In definitiva ciò che si sta traducendo diventa qualcosa di diverso e nuovo. Metaforicamente, questo atto di traduzione rappresenta un modo per negoziare le culture linguisticamente”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 216 l’inglese e il monolinguismo rimane un forte vincolo. I testi sono però costellati di termini in spagnolo che, a colpo d’occhio, non sono immediatamente individuabili nell’opera di Candelaria e di O’Reilly Herrera (dove vengono lasciati in tondo), mentre risaltano sicuramente con più facilità nell’opera di Rivera sia perché più numerosi, sia perché segnalati tipograficamente dal corsivo. In tutti e tre i casi, le alternanze con lo spagnolo sono distanziate abbastanza da non impedire la comprensione del testo, pur impegnando pienamente l’attenzione di chi legge. Volendo classificare i tre romanzi per il loro ibridismo linguistico, nel livello più basso potremo collocare A Daughter’s a Daughter dove le commutazioni allo spagnolo sono più limitate e controllate per quantità, scelta lessicale e ortografia. L’autore predilige infatti la trascrizione in inglese anche per termini ripresi da un contesto ispanico, come “El Santuario de Chimayo” o “piñon” (anziché “El Santuario de Chimayó” o “piñón”) 191. Quando sceglie lo spagnolo spesso non vengono rispettate le regole d’ortografia, come in “Que suave” (anziché “Qué suave”, trattandosi di un’esclamazione) 192 . Per questi esempi si può parlare di “spelling variations for literary purposes”193 fenomeno a cui Gary Keller riconduce tutte le variazioni di ortografia che rivelano le interferenze profonde tra inglese e spagnolo nelle società bilingui. In questo caso, la propensione dell’autore per la grafia inglese sembra evocare l’assimilazione culturale del New Mexico moderno e l’esperienza biografica dello stesso Candelaria, segnata proprio da una formazione Anglosassone, nonostante il forte 191 Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 149. Ibidem, 54. 193 “Variazioni ortografiche per scopi letterari”. Gary D. Keller, “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano Writer”, The Identification and Analysis of Chicano Literature, ed. Francisco Jiménez (New York: Bilingual Press, 1976) 309. 192 217 legame con la cultura ispanica e con l’amato New Mexico dove tutt’oggi l’autore vive. La tendenza a prediligere l’inglese sembra confermata anche dal fatto che molte delle parole apparentemente in castigliano sono in realtà prestiti dallo spagnolo ormai ampiamente riconosciuti e diffusi nel vocabolario inglese, come “hacienda”, “fiestas […] plazas”, “Anglos”, “guerrillas”, “pueblo”, “macho”, o “Hispanos”194. Infine, va segnalato anche che le commutazioni di codice – ben distribuite tra voce narrante e dialoghi – si limitano a singoli sintagmi lessicali, fenomeno riconducibile all’importanza delle informazioni pragmatiche e semantiche che essi contengono, ma anche alla maggiore libertà e facilità con cui possono essere inseriti all’interno dell’inglese, anche da un autore non propriamente bilingue come Candelaria. Includo alcuni esempi a scopo esemplificativo: “she was his princesa” (30); “Ah, Señora Rafa, that was delicious” (37); “You are católicos, of course?” (39); “Pagaron cash?” (38); “Oh, Mamacita, she thought” (169); “Tell that cabezón that you can’t paint this church red” (198); “She would gobble down the bizcochitos Grandmother had baked” (244); “Irene turned toward the nicho with the photograph” (245).195 The Pearl of the Antilles si colloca invece in un livello più alto di ibridismo linguistico soprattutto considerando il maggior numero di ingerenze dello spagnolo che si estendono a intere frasi, esclamazioni e detti peraltro sempre accurati sia dal punto di vista ortografico, sia per la punteggiatura come: “¡No me diga!”, “¿Qué les parece, señores? […] ¡Qué barbaridad!”, o “En boca cerrada 194 Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 2, 107,127, 149, 137, 161, 200. “Lei era la sua princesa” (30); “Ah, Señora Rafa, era delizioso” (37); “Voi siete católicos di certo?” (39); “Pagaron in contanti?” (38); “Oh, Mamacita, pensò” (169); “Dì a quel cabezón che non si può pitturare questa chiesa di rosso” (198); “Lei si ingozzava con i bizcochitos che nonna aveva cotto al forno” (244); “Irene si girò verso il nicho con la fotografia” (245). Ibidem. 195 218 nunca entran moscas”, “Rey muerto. Rey puesto” 196 . Questi inserimenti fanno intuire la competenza in entrambe le lingue della voce narrante e, indirettamente, dell’autrice. In tutte e tre le parti dell’opera, incluse le lettere, vi sono esempi delle tre tipologie di commutazione individuate dalla linguista Shana Poplack, con numerosi casi di “intrasentential switching” o mescolanza, “intersentential switching” e “tagswitching”197, come si evince dai seguenti esempi: [Intrasentential switching] “she picked a sprig of hierbabuena from her iced tea” (43); “Por qué a next world? Let me tell you something, m’hija” (53); “convinced that my sister had poured an extra gotita or two of rum” (53); “The old man was already on his eighth tasita of café” (109); “only Lobo (el tercero) know him” (203); “they were given only a cup of water and un pedazo de pan” (207); “Agua sucia, and they call it café” (307).198 [Intersentential switching] “We are told that the revolution has guaranteed all Cubans freedom of speech – qué chiste” (197); “Go back to your rich father, eres una puta” (278).199 [Tagswitching] “Forgive me, mi amor” (8); “¡Ay Dios mío! I’ll remember that day as long as I live” (36); “I insulted your wife, Señor?” (39); “Life is only a thin skin, corazón” (50); “we are nearly starving to death and she has a car, sin vergüenza! […] Menos Mal. He died the next morning, el pobre” (232); “They live their children to the nuns, m’hija” (257); “Watch what you say to him, nena” (264); “Gracias a Dios, José later told his friends at the bar” (287).200 196 “Non mi dica!” (24); “Che cosa vi sembra, signori? […] Accidenti!” (41); “Nella bocca chiusa non entrano mai le mosche” (44); “Morto un papa se ne fa un altro” (201). O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. 197 “Commutazione intrafrastica”, “commutazione interfrastica”, “commutazione emblematica”. Shana Poplack, “Sometimes I’ll Start a Sentence in Spanish ‘y Termino en Español’: Toward a Typology of Code-Switching” (Working Paper 4, 1979) 16. L’intrasentential switching si ha quando l’alternanza avviene all’interno di una frase, l’intersentential switching avviene al confine tra due frasi, mentre il tagswitching riguarda elementi slegati dalla frase (esclamazioni, riempitivi, espressioni coda, frasi idiomatiche) o parole molto connotate etnicamente. Quest’ultima è sicuramente la tipologia più facile da governare e la meno influente a livello grammaticale, a meno che essa non funga da trigger innescando cioè, a sua volta, un passaggio di lingua. L’intrasentential e l’intersentential switching, invece, richiedono un adattamento costante alle regole sintattiche di entrambe le lingue. 198 “Prese un ramoscello di hierbabuena dal suo tè freddo” (43); “Por qué un mondo a venire? Fammiti dire qualcosa, m’hija” (53); “convinto che mia sorella avesse versato un gotita o due di rum in più” (53); “L’anziano era già alla sua ottava tasita di café” (109); “solo Lobo (el tercero) lo conosceva” (203); “gli diedero solo una tazza d’acqua e un pedazo de pan” (207); “Agua sucia, e la chiamano caffè” (307). Ibidem. 199 “Ci dicono che la rivoluzione ha garantito a tutti i cubani libertà di parola – qué chiste” (197); “Ritornatene dal tuo ricco padre, eres una puta” (278). Ibidem. 200 “Perdonami, mi amor” (8); “¡Ay Dios mío! Ricorderò quel giorno fin quando vivo” (36); “Ho insultato sua moglie, Señor?” (39); “La vita è solo una buccia sottile, corazón” (50); “noi stiamo quasi morendo di fame e lei ha un’auto, sin vergüenza! […] Menos Mal. Morì la mattina dopo, el 219 La tipologia predominante è il Tagswitching o commutazione emblematica che riguarda elementi slegati dalla frase (connettori, espressioni coda, frasi idiomatiche) e abitudini verbali fossilizzate e stereotipate che difficilmente vengono “spezzate” da un’alternanza, come “sin vergüenza!”, “gracias a Dios”, “Menos Mal” etc. In generale, il Tagswitching coinvolge parole molto connotate etnicamente, spesso con un valore prettamente simbolico come “Señor”, “m’hija”, “mi amor”, “corazón”. Questo tipo di alternanza è dunque ascrivibile ai cosiddetti “identity markers”201 utilizzati per dare maggiore autenticità al testo ed anche per creare un contatto diretto con i lettori di origine ispanica. In The Pearl of the Antilles abbondano però anche casi più complessi di alternanza come quella intrafrastica, tra l’altro sempre riconducibile ai due vincoli principali che governano il code-switching: l’“equivalence constraint” e il “freemorpheme constraint”202. In base al primo vincolo l’alternanza può verificarsi in un determinato punto solo se gli elementi che la precedono e che la seguono sono sintatticamente equivalenti in entrambe le lingue, mentre il free-morpheme constraint stabilisce che la commutazione non è consentita tra due morfemi indivisibili (ad esempio la radice e il suffisso all’interno di una parola) o tra elementi fortemente legati semanticamente (ad esempio le formule di saluto o i connettori come you know). pobre” (232); “Lasciano i loro figli alle suore, m’hija” (257); “Attenta a cosa gli dici, nena” (264); “Gracias a Dios, José più tardi disse ai suoi amici al bar” (287). Ibidem. 201 “Demarcatori di identità”. Keller, “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano Writer”, 284. 202 “Vincolo dell’equivalenza”, “vincolo del morfema libero”. Poplack, “Sometimes I’ll Start a Sentence in Spanish”, 17-18. La radicale novità nell’approccio di Poplack è l’aver descritto il code-switching come una capacità verbale che implica un ampio grado di competenze in più lingue e non un’anomalia derivante da una scarsa conoscenza dell’una e dell’altra, smentendo l’atteggiamento generalmente negativo dei monolingui nei confronti della commutazione di codice, considerata una mistura senza grammatica e definita da peggiorativi diffusi come franglais, italiese o Tex-Mex. 220 L’universo multiculturale e multilinguistico dei Caraibi viene evocato anche attraverso l’inserimento di detti, versi, canzoni e filastrocche in lingua spagnola. Si tratta di materiale inventato o ripreso dai ricordi d’infanzia dell’autrice o dalla tradizione folclorica e letteraria cubana. Non esiste, ad esempio, nessun riscontro immediato sull’origine della filastrocca dedicata all’anatroccolo “araquitico”203 nato senza ali, né zampe, né becco e citato dalla zia María (in una delle sue lettere alla nipote), come metafora della generazione di giovani cubani venuti al mondo senza libertà, subito dopo la rivoluzione. Mentre la preghiera “Cuatro Angelitos” che Margarita recita insieme a Tata – e di cui la narratrice trascrive i primi due versi – è una formula molto comune per far addormentare i bambini e appare tra i canti popolari dell’opera di Francisco Rodríguez Marín con delle lievi varianti, tipiche dei testi tramandati oralmente204. La canzone “Sambala, culembe, sambala, culembe” 205 – che Tata canta alla piccola Rosa ogniqualvolta le racconta di quando ha ucciso un serpente in giardino – è invece un omaggio al grande poeta cubano Nicolás Guillén, che la cita ricordando il giorno in cui compone la poesia afrocubanista “Sensemayá”. Malato e costretto in una stanza di hotel il 6 gennaio del 1932, lo scrittore mescola infatti gli echi ancestrali di questo canto, con le parole del padre dell’antropologia cubana Fernando Ortiz e le suggestioni dell’Epifania della Cuba coloniale: one of the black people’s songs had kept resounding in my ears, a popular song composed for killing a snake: “Sambala culembe; sambala culembe…”. How, and why, did that song come to me then? Perhaps because I had been reading the pages of Fernando Ortiz, the 203 O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 235. Francisco Rodríguez Marín, Cantos populares españoles (Sevilla: Editorial Renacimiento, 1948) 141. 205 O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 143. 204 221 ones about black sorcerers, maybe it was the spirit of that day, the evocation of what had existed in colonial Cuba, the Día de Reyes.206 Con quelli che in apparenza sembrano semplici richiami alla spagnolo, l’autrice non solo rievoca le memorie della propria infanzia e le storie ascoltate da nonni e parenti, ma riesce anche a rendere omaggio ai capisaldi della cultura cubana a cui si sente profondamente legata, pur nella sua condizione di “esilio indiretto” (perché ereditato dalla propria famiglia). Family Installments si colloca invece nel livello più alto di ibridismo linguistico tra i tre romanzi presi in esame. Come in The Pearl of the Antilles, l’opera è infatti intessuta di commutazioni allo spagnolo che non si limitano mai alle forme stereotipate e che avvengono sempre laddove sono sintatticamente consentite, facendo quindi intuire che – pur scrivendo in inglese – non solo il narratore Santos, ma anche l’autore è competente in ambedue le lingue207. Family Installments ricrea infatti la dimensione multiculturale di Spanish Harlem attraverso un intreccio ancora più complesso di codici e registri, uniti a mispellings, doppi sensi, riferimenti interculturali e giri di parole difficilmente traducibili e che, nella maggior parte dei casi, possono essere colti pienamente soltanto da un lettore bilingue. Si va dalla contrapposizione dell’inglese colto delle suore, degli insegnanti irlandesi o di Santos maturo, allo slang del quartiere, con un massiccio ricorso allo Spanglish e al Black English : 206 “Continuava a risuonarmi nelle orecchie una delle canzoni della gente di colore, una canzone popolare composta per ammazzare un serpente: ‘Sambala culembe; sambala culembe…’. Come e perché quella canzone mi è rivenuta in mente? Forse perché avevo letto le pagine di Ferando Ortiz, quelle relative agli stregoni di colore, forse era lo spirito di quel giorno, l’evocazione di ciò che era esistito nella Cuba coloniale, il Día de Reyes”. L’intervista originale è di Angel Augier ma viene citata da Antonio Benítez-Rojo in The Repeating Island: The Caribbean and the Postmodern Perspective (Durham, NC: Duke University Press, 1996) 296. 207 Per un’analisi accurata e approfondita della lingua in Family Installments, si potrà far riferimento al saggio di Anna Scannavini, “Per un contributo al bilinguismo letterario negli Stati Uniti”, in particolare le pagine 66-76. 222 [Inglese colto] “‘Don’t dawdle on the way home’. They actually used words like that. Sometimes they even said ‘tardy’” (84); “A tiny tumulus, I thought, pulling out another Lit I word” (297).208 [Slang] “It’s gotta have a fatal flaw” (119); “It’s my ass, Tego. Whatchu worried about?” (132); “Some kinda jelly bean?” (138); “‘Thataway, partnuh’. He pointed” (152); “I’ll betchu” (153); “Whatchu doin’ in there, white boy?” (154).209 [Spanglish] “‘Fakerías, Santos’. Fake furniture […] junkerías” (209); “I never went inside any of those ‘bakerías’” (234).210 Numerose sono inoltre le trascrizioni fonetiche dei difetti di pronuncia dell’inglese parlato da ispanici o dagli insegnanti irlandesi, così come gli errori di ortografia, le sillabe invertite o gli accenti mal posti che riguardano sia l’inglese, sia lo spagnolo: [Trascrizione fonetica di difetti di pronuncia dell’inglese] “That’s why is so funny, you esnob” (112); “It’s gonna be chit, with all that focken homework” (118); “It’s a Roman empruh” (119); “They are more esmart, that is why. Very ambishows” (165); “Should be sended away or gasséd to dead […] ‘in the place where they are stuckéd’” (168).211 [Misspellings in inglese e/o spagnolo] “‘Absolutelymente, Sister’” (81); “‘he will give to you a free cruficixion claps’ […] ‘It’s cruci-fix, Mr. Mercado’, she corrected. ‘And clasp. Claps is a verb, sir.” (83); “THOU SHALT NOT COMMIT ADULTREY” (112); “Get your dirty, filthy hands off of me, you aminal!” (113); “Caesar and the Bruteses: A Tradegy” (116); “Dandy’s Inferno” (117); “That is absolute-lily what it is” (126); “He had let the blond alemánes from the north inside” (128); “Porqué, mija? Why?” (176); “We house the Classics in Accecsible Editions” (252).212 208 “‘Non bighellonare nel tornare a casa’. Usavano realmente parole come questa. A volte dicevano addirittura ‘bighellone” (84); “Un piccolo tumulo, pensai, sfoderando un’altra delle mie parole da corso di letteratura” (297). Rivera, Family Installments. 209 Gli esempi forniti nelle note che seguono evidenziano aspetti legati all’uso dialettale, gergale, etnico e ibrido della lingua di Family Installments e sono perciò difficilmente traducibili in altri idiomi. Mi limito dunque a evidenziarne la tipologia e il senso, senza però fornire una vera e propria traduzione. “Deve avere un difetto fatale” (119); “È il mio culo, Tego. Di che ti preoccupi?” (132); “Un tipo di caramella gommosa?” (138); “Da quella parte, amico. Indicò” (152); “D’accordo” (153); “Che ci fai qui ragazzo bianco?” (154). Ibidem. 210 “‘Falserías, Santos’. Mobili falsi […] cianfrusaglierías” (209); “Non sono mai entrato dentro a una di quelle ‘fornerías’” (234). Ibidem. 211 “Ecco perché è così strambo, tu esnob” (112); “Sarà un incubo, con tutti quei fottuti compiti” (118); “È un imperato’ romano” (119); “Sono più furbos, ecco perché. Molto ambishowsi” (165); “Dovrebbe essere cacciato o ammazzato con il gas […] ‘nel posto dove si sono ficcati’” (168). Ibidem. 212 “Absolutelymente, Sorella” (81); “‘Le darà un applaude di croficissione gratis’ […] ‘È crocifisso, Signor Mercado’, lei lo corresse. ‘E fermaglio. Applaude è un verbo signore’” (83); “NON COMMETTERE ADULTRERIO” (112); “Toglimi di dosso le tue mani sporche e luride, aminale!” (113); “Cesare e i bruti: una tradegia” (116); “L’Inferno del Dandy” (117); “È assolutamente ciò che è” (126); “Aveva fatto entrare i biondi alemánes dal nord” [la parola alemanes 223 La sperimentazione linguistica e l’ironia di Family Installments raggiunge però il suo acme in quelle espressioni in cui questi espedienti vengono combinati, ricreando esilaranti giochi di parole, doppi sensi e connotazioni molteplici, praticamente intraducibili, come nei seguenti esempi in cui tanto l’inglese quando lo spagnolo vengono ingegnosamente storpiati e reinventati: [Giochi di parole e doppi sensi] “the dark-haired Latins had been brunette ‘in-cog-knee-toes’ in disguise, boys’” (126); “The plommers, they get good pega […]. And they don’t have to estudy this Chekspier chit” (143).213 Basti pensare agli inattesi riferimenti al corpo che genera la parola “incognito” trasformata in ‘in-cog-knee-toes’”, o alla comicità che si innesca sostituendo la parola spagnola “paga” con il colloquiale “pega” (bega, rogna, bastonata). I virtuosismi linguistici di Rivera ricordano da vicino il bilinguismo di Hemingway e la sua capacità di creare “a manifest, surface, deviant English that evoked latent, underlying Spanish”214, puntellando i suo romanzi di termini che richiamano lo spagnolo a livello sia semantico sia sintattico. Conoscendo quanto Rivera ammirasse le tecniche di Hemingway, Gary Keller afferma che non solo l’amico Edward eguaglia il maestro, ma lo supera “by fusing Spanish and English in novel ways”215. Oltre a combinare parole estranianti come “rare name” o “much woman” emulando sottilmente i modi dello spagnolo, Hemingway ricorre infatti (tedeschi) al plurale in spagnolo non richiede l’accento] (128); “‘Porqué, mija? Perché?’” [La grafia corretta sarebbe ¿Por qué?] (176); “Offriamo i Classici in edizioni accecsibili” (252). Ibidem. 213 “I latini dai capelli neri si erano mascherati in ‘inc-occhi-to’ da ragazze more” [Ho cambiato ‘knee’ (ginocchio) della parola originale in ‘occhi’ per mantenere il riferimento ad una parte del corpo] (126); “Gli idraulici, si prendono delle belle beghe/paghe […]. E non devono estudiare questo schifo di Chekspier” (143). Ibidem. 214 “In superficie un inglese manifesto e deviante che rievoca uno spagnolo latente e sottostante”. Keller, “The Pioneering Bilingual Persona of Eduardo/Edward Rivera”, 132. 215 “Fondendo spagnolo e inglese in modo innovativo”. Ibidem. Per uno studio approfondito del bilinguismo in Hemingway si potrà far riferimento al saggio di Gary D. Keller “The Analysis of Hispanic Texts: Current Trends in Methodology” (New York: Bilingual Press, 1976), in particolare alle pagine 133-136. 224 anche a frequenti “rodeos”: giri di parole e circonlocuzioni con cui andava incontro al lettore monolingue, fornendogli degli indizi connotativi per intuire il significato dei termini in spagnolo. Rivera, al contrario, non solo combina inglese e spagnolo senza forme di compensazione o spiegazioni per il lettore monolingue (a parte rare eccezioni che vedremo in seguito), ma mescola liberamente anche registri non-standard di ciascuna lingua, forme colloquiali e persino idioletti – come in “Tough tetas”, “tossing florecitas” o “hard-up jíbaros” 216 – intensificando ulteriormente la complessità sintattica e semantica del testo. In sostanza, quella che viene creata nella pagina scritta è una zona di contatto marcatamente transculturale, che va ben oltre il bilinguismo e si alimenta di costanti contrasti interculturali217. La sottile tensione tra commutazione di codice e di registro, si esplica anche attraverso le varianti regionali dello spagnolo che intensificano il livello di espressività intralinguistica delle tre opere: il messicano per A Daughter’s A Daughter, il cubano per the Pearl of the Antilles e il portoricano per Family Installments: [Spagnolo messicano] “Qué suave” (40); “New Mexico was part of the Mexican nation before the Manifest Destiny gabachos stole it” (168).218 216 “Tough (‘duro’, ma anche ‘energumeno’) tetas (‘tette’, ma anche ‘da sballo’)”; “Tossing (“lanciando” ma anche “masturbando”, “rovistando”), florecitas (‘fiorellini” ma anche “complimenti” o “verginità”) (25); “Un burino al verde” (20). Rivera, Family Installments. 217 Il concetto di “contact zone” è stato coniato da Mary Louise Pratt nell’articolo “Arts of the Contact Zone” in riferimento alle aree “where cultures meet, clash, and grapple with each other, often in contexts of highly asymmetrical relations of power / in cui le culture si incontrano, si scontrano e lottano le une con le altre nell’ambito di relazioni di potere fortemente asimmetriche”. Mary Louise Pratt, “Arts of the Contact Zone” (Profession 91, New York: MLA 1991), 34. 218 Nelle note che seguono ho tradotto in italiano anche le espressioni che nel testo originale sono in castigliano, poiché si tratta di varietà regionali meno accessibili ai non-madrelingua spagnoli o a chi non abbia familiarità con le rispettive culture. “Che figo!” (40); “‘Il New Mexico era parte della nazione messicana prima che gli americanacci del Manifest Destiny lo rubassero’” (168). Candelaria, A Daughter’s a Daughter. 225 [Spagnolo cubano] “Eventually, even the calambucas grew tired” (26); “Oye muchacha, your father was really a majadero” (56); “‘¿Ya, Caballero?’ the mulata asked” (92); “he would return to Cienfuegos from the city for the zafra” (120); “It’s people like him […] who put el cura in power, Margarita, not the guajiros or the negritos, […]. He’s as bad as the ‘come candelas’” (199); “the official rhetoric which denounces jineteras” (228); “the pinchos are buying all the food that they want” (239); “The plan to reunite the exiles – the gusanos” (230).219 [Spagnolo portoricano] “Papa Santos Malánguez was a poor hillbilly, a jíbaro desgraciado” (16); “‘los cucubanos’ – the fireflies” (165).220 Il sostrato spagnolo sommerso delle tre opere, si insinua nel testo inglese anche attraverso una sottile distorsione sintattica che a tratti sembra deformare sia la narrazione sia i dialoghi in inglese dei personaggi. In Family Installments questo fenomeno emerge da espressioni come “a wild herb called ‘good grass’”221 che ricalca lo spagnolo “yerba buena” ma allude anche alla forma colloquiale inglese per marijuana. Nel leggere alcuni passi di The Pearl of the Antilles, invece, ho avuto istintivamente l’impressione di ascoltare alcuni intercalari tipici dello spagnolo parlato: [per lo spagnolo ‘¡imagínate!’] “Tata traveled the city alone (imagine!)” (199), “he was afraid I was trying to poison him – imagine!” (213), “I’m an old lady now (almost sixty-two years old – imagine!)” (241); [per lo spagnolo ‘¡te puedes imaginar!’] “Can you imagine that?” (236); [per lo spagnolo ‘¿no?’] “You must wear a blindfold, no? (199); [per lo spagnolo ‘¿Sabes qué…?’] “Do you know that they were arrested for organizing an ‘unauthorized gathering?’” (227); [per lo spagnolo ‘fíjate’] “Who didn’t have the nerve to defend him in public, mind you” (232).222 219 “Alla fine anche le credenti più fanatiche si stancarono” (26); “Ascolta ragazzina, tua padre è veramente un idiota” (56); “‘¿Sì, signore?’ chiese la mulata” (92); “sarebbe tornato a Cienfuegos dalla città per il raccolto della canna da zucchero” (120); “Sono persone come lui […] che hanno dato potere al prete, Margarita, non i contadini o i neri, […]. È marcio quanto i fanatici della rivoluzione” (199); “la retorica ufficiale che denuncia le prostitute” (228); “i dirigenti si comprano tutto il cibo che vogliono” (239); “Il progetto di riunire gli esiliati – i vermi” (230). Andrea O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. 220 “Papa Santos Malánguez era un povero montanaro, un burino disgraziato” (16); “le lucciole” (165). Rivera, Family Installments. 221 “Un’erba selvatica chiamata mentuccia [letteralmente “erba buona”]. Rivera, Family Installments, 17. Keller definisce questo fenomeno “direct transfer / trasferimento diretto” e ne descrive gli effetti in “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano Writer”, 278. 222 “Tata attraversò la città da sola (immaginati!)” (199); “aveva paura che stessi provando ad avvelenarlo – immaginati!” (213); “Sono una vecchia signora ora (quasi sessantadue anni – 226 Non essendo di madre lingua né inglese né spagnola ho quindi chiesto una conferma direttamente all’autrice, in occasione della nostra intervista. Quando le ho fatto notare che alcune frasi del romanzo, pur essendo in inglese, rievocano il suono e la struttura dello spagnolo, O’Reilly Herrera ha confermato le mie osservazioni e mi ha raccontato del suo sforzo immaginativo per cercare di ricordare e ricreare – sempre attraverso l’inglese – lo spagnolo ascoltato durante la sua infanzia o il ritmo delle molteplici e colorite conversazione a cui ha assistito da bambina: It’s amazing, nobody has ever said that to me. When I was writing the dialogues as well as the letters in Pearl, I kept saying the lines out loud because I wanted to imitate the conversations I had heard growing up, as well as the letters that were read to us from relatives who had remained in Cuba. I was very consciously trying to figure out how all of the women at the Havana Yacht Club would have spoken to each other and what they would have said, for instance. […] I recalled our own dinner table. Everyone would be talking at the same time; I was passionate and emotional. So as I was writing I just opened my ears and I could hear the conversations and the debates. Even in English I was trying to imagine, “How would so-and-so phrase this? What words would they use to say this?” So, what you have observed is just wonderful!223 Proprio queste animate conversazioni familiari hanno segnato indelebilmente sia la sua identità linguistica, sia la sua coscienza politica e sociale: Each Sunday afternoon, as we gathered at my grandparents’ home, I listened in silence to the sometimes fantastic stories my relatives and our family friends would recount, in counterpoint, about their lives in Cuba. I was also privy to painful and passionate discussions regarding immaginati!)” (241); “Te lo immagini?” (236); “Devi indossare una benda, no? (199); “Sai che furono arrestati per aver organizzato un ‘incontro non autorizzato’” (227); “Che non ha avuto il coraggio di difenderlo in pubblico, intendiamoci” (232). O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. 223 “È sorprendente, nessuno me lo aveva mai detto. Quando scrivevo i dialoghi e anche le lettere in Pearl, continuavo a ripetere le righe a voce alta perché volevo imitare le conversazioni che avevo ascoltato crescendo, così come le lettere dei parenti che erano rimasti a Cuba e che ci venivano lette. Ho cercato intenzionalmente di immaginare cosa avrebbero detto le donne dell’Havana Yacht Club parlando tra di loro, ad esempio. […] Mi sono rivenute in mente le nostre cene in cui tutti parlavano contemporaneamente; io ero appassionata ed emotiva. Quindi mentre scrivevo ho semplicemente aperto le mie orecchie per ascoltare le conversazioni e le discussioni. Anche in inglese cercavo di immaginare ‘Come avrebbe formulato questo il tal dei tali? Quali parole avrebbero usato per dirlo?’. Quindi quello che mi dici è fantastico”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 227 the persecution they had been subjected to, the unbearable losses and separations they had sustained, and their struggle to start life over again, and survive and adapt – both psychically and physically – in what was to them ultimately a foreign land (despite the formidable presence of the United States in Cuba before the revolution). As a result, both my consciousness and my imagination were indelibly marked by their experience of exile and loss.224 L’autrice descrive infatti l’ambiente multiculturale in cui avvenivano queste conversazioni e l’atmosfera contemporaneamente caraibica ed angloamericana che si respirava in casa nell’intervista per la newsletter della University of Colorado in cui dice: We had strangers—who didn't speak a word of English—living with us for extended periods of time. We listened to Beny Morè, Frank Sinatra and the Beatles. We somehow learned to participate in five simultaneous conversations at the dinner table while eating an assortment of dishes, including scrapple, cheese steaks, macaroni and cheese, maduros (fried plantains), empanadas, arroz con pollo (chicken and rice), pie de guayaba (guava pie), and malanga con mojito (a tropical tuber adorned with oil and garlic).225 Ma il sottotesto spagnolo dei romanzi analizzati emerge anche attraverso le intrusioni con cui il narratore informa chi legge – in inglese – della lingua realmente usata dai personaggi: 224 “Ogni domenica pomeriggio, quando ci riunivamo a casa dei miei nonni, ascoltavo in silenzio le storie a volte fantastiche che i miei parenti e i nostri amici di famiglia raccontavano, in contrappunto, sulle loro vite a Cuba. Assistevo anche a discussioni dolorose e appassionate sulle persecuzioni che avevano subito, sulle perdite e sulle separazioni insostenibili che avevano patito e sulla lotta per rifarsi una vita, sopravvivere e adattarsi – sia psicologicamente sia fisicamente – in quella che per loro era una terra straniera (nonostante la massiccia presenza degli Stati Uniti a Cuba prima della rivoluzione). Di conseguenza, sia la mia consapevolezza sia la mia immaginazione sono state segnate in modo indelebile dalle loro esperienze di esilio e perdita”. O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-ReMembering”, 177-8. 225 “Avevamo estranei – che non parlavano una parola di inglese – che vivevano con noi per lunghi periodi. Ascoltavamo Beny Morè, Frank Sinatra e i Beatles. In qualche modo, abbiamo imparato a partecipare a cinque conversazioni simultanee a tavola, la sera, mentre mangiavamo un misto di piatti che includevano polpettoni, bistecche al formaggio, maccheroni e formaggio, maduros (platano fritto), empanadas, arroz con pollo (pollo con riso), torta de guayaba (torta di guava) e malanga con mojito (un tubero tropicale condito con olio e aglio)”. University of Colorado, Colorado Springs, Faculty and Staff Newsletter, “Five questions for Andrea O’Reilly Herrera” <https://www.cusys.edu/newsletter/2009/09-16/five-questions.html>. Data di accesso 16 agosto 2012. Inoltre, come la stessa autrice spiega nella sua introduzione a Remebering Cuba, molti dei cubano-americani che hanno contribuito alla realizzazione dell’opera hanno citato come patrimonio culturale condiviso proprio i modi coloriti e animati di interazione dei cubani, caratterizzati dal “choteo” (humor) e dalla capacità di portare avanti molteplici conversazioni simultaneamente. O’Reilly Herrera, “Introduction”, ReMembering Cuba: Legacy of a Diaspora, xxvi. 228 [A Daughter’s a Daughter] “The girl rattled off rapidly in Spanish. When Irene said that her Spanish wasn’t too good, the girl laughed derisively. Then in English, ‘You’re from New Mexico? You’ve got a lot to learn’” (161).226 [Family Installments] “‘It’s not only the odor’, he said in Spanish. ‘[…] It’s also the condition it’s in’” (86); “‘So there’s no sense in inspecting that one for the size of your foot, is there?’ I said no, there wasn’t. ‘Maybe a mouse stole it last night’, he said in Spanish. ‘When you was sleeping’. That came out in English” (87); “Those ‘collector’s item’, as he called them in Spanish, were my introduction to the eye-popping varieties of sexual intercourse” (109).227 Questo espediente, insieme a altre tecniche specifiche individuate da Manuel Martín Rodríguez, rivelerebbe la volontà degli autori di scrivere non solo per “la marketa” (ovvero per la propria comunità etnica d’origine) ma anche per “the market”228, andando incontro ad un pubblico di lettori non necessariamente bilingue o multiculturale. Le numerose ingerenze dello spagnolo nelle opere prese in esame vanno dai semplici demarcatori di identità (“a sprinkling of Spanish […] used to provide the reader with a sense of ‘authenticity’”229) a riferimenti molto elaborati che instaurano un canale preferenziale con i lettori appartenenti alla stessa comunità etnica e richiedono una spiccata competenza linguistica e culturale per la costruzione del significato230. 226 “La ragazza parlò rapidamente in spagnolo. Quando Irene le disse che non sapeva benissimo lo spagnolo, la ragazza rise derisoriamente. Poi in inglese, ‘Sei del New Mexico? Hai tanto da imparare’” (161). Candelaria, A Daughter’s a Daughter. 227 “‘Non è l’odore’, disse in spagnolo. ‘[…] È anche la condizione in cui si trova’” (86); “‘Quindi non ha senso controllare quella per la misura del tuo piede, no?’ Ho detto di no, non ne aveva. ‘Forse un topo l’ha rubata la notte scorsa’, ha detto in spagnolo. ‘Quando tu stava dormendo’. Quello gli è uscito in inglese” (87); “Quei ‘pezzi da collezionista’, come li chiamava in spagnolo, erano la mia iniziazione alla strabiliante varietà di rapporti sessuali” (109). Rivera, Family Installments. 228 “Market” e “Marketa” sono i termini usati da Martín Rodriguez per differenziare le due tipologie di pubblico in Life in Search of Readers, 138. 229 “Una spruzzatina di spagnolo […] utilizzata per dare a chi legge un senso di ‘autenticità’”. Ibidem, 118. 230 Uno dei casi che più mi ha messo in difficoltà è stata la traduzione del termine cubano “pincho” con cui si indicano tutti coloro che ricoprono una posizione di potere in ambito militare. Non ho trovato fonti scritte per risolvere l’enigma del significato e solo la possibilità di confrontarmi con due miei cari amici cubani mi ha permesso di cogliere il senso del termine, che in spagnolo standard significa “spina” o “stuzzichino”. 229 Allo stesso tempo, però, è evidente il tentativo degli autori impliciti e dei narratori di coinvolgere anche i cosiddetti “potential ‘distant readers’” 231 , smorzando e mediando per loro quelle differenze linguistiche e culturali che potrebbero alienarli e allontanarli. Ecco perché, accanto ai riferimenti storici e linguistici inclusi nei testi senza alcuna spiegazione, vi sono anche numerose spiegazioni linguistiche e transculturali, che si esplicano sia attraverso traduzioni dirette, sia attraverso perifrasi del narratore: [A Daughter’s a Daughter] “Oh, pecado, pecado. The Spanish word for sin was the more vigorous cousin of its diminutive, the English word ‘pecadillo’” (171).232 [The Pearl of the Antilles] “‘¿Qué pasó?’ Nélida asked. ‘Tell us what happened’” (37); “Dirty water, she thought to herself […]. Agua sucia, and they call it café” (307); “the barracones – the slave quarters” (66); “Tata placed the tinajones, the ceramic jars that were used to catch the rain” (69); “‘Demasiado’ he said […]. ‘Too much’, he repeated” (115); “he screams that it isn’t his fault – no es mi culpa” (213); “Your father is crazy, vieja, completamente loco” (214); “Somos completamente limpios, Margarita, so clean that we have lost even our most basic freedoms” (228); “los gusanos se convirtieron en mariposas ricas – the worms have all transformed into wealthy butterflies” (230); “doing as best as they can to resolver – a fancy name, mi cielo, for stealing” (237).233 [Family Installments] “to the point sometimes of committing the sin of orgullo, pride”(109); “Papi and his conniving brother would pull any stunt – ‘cualquier maroma’” (51); “‘los cucubanos’ – the fireflies” (166); “‘Porqué, mija? Why?’” (176); “What he called a little ‘maroma’, a caper, an acrobatic stunt” (205); “‘Fakerías’ […] ‘Todo is fake’” (209).234 231 Ibidem, 117. “Oh, pecado, pecado. La parola spagnola per ‘peccato’ era la cugina più vigorosa del suo diminutivo, la parola inglese ‘pecadillo’ [che significa “peccato minore”]” (171). Candelaria, A Daughter’s a Daughter. 233 “‘¿Qué pasó?’ Nélida chiese. ‘Dicci che cosa è successo’” (37); “Acqua sporca, pensò tra sé e sé […]. Agua sucia, e la chiamano caffè” (307); “le barracones – i quartieri degli schiavi” (66); “Tata sistemò le tinajones, le giare di ceramica che venivano usate per raccogliere la pioggia” (69); “‘Demasiado’ disse […]. ‘Troppo’, ripetette” (115); “grida che non è colpa sua – no es mi culpa” (213); “Tuo padre è matto, vieja, completamente loco” (214); “Somos completamente limpios, Margarita, così puliti che abbiamo perso persino le nostre libertà più basilari” (228); “los gusanos se convirtieron en mariposas ricas – i vermi si sono trasformati tutti in ricche farfalle” (230); “facevano il meglio che potevano per resolver – un nome fantasioso, mi cielo, per ‘rubare’” (237). O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. 234 “A volte fino al punto da commettere un peccato di orgullo, orgoglio”(109); “Papi e il suo infido fratello avrebbero fatto ricorso a qualsiasi trovata – ‘cualquier maroma’” (51); “‘los cucubanos’ – le lucciole” (166); “Porqué, mija? Perché?” (176); “Ciò che lui chiamava una 232 230 Anche ricorrere a protagonisti o narratori bambini che filtrano gli eventi attraverso il loro punto di vista ingenuo, senza dare nulla per scontato, risponderebbe a questa stessa strategia di inclusione. Il lettore è infatti indotto a identificarsi con il loro percorso di crescita e di scoperta del mondo, accorciando notevolmente la potenziale distanza rispetto alla cultura narrata. Questi espedienti non fanno che rendere esplicita l’operazione di mediazione culturale messa in atto dagli autori, impegnati in processi di transculturazione, che Angel Rama – ispirandosi a Fernando Ortiz – definisce tipici della narrativa sudamericana ma anche di tutte quelle aree di contatto in cui molteplici culture coesistono e si modificano a vicenda, creando di volta in volta forme e significati nuovi. I loro romanzi quindi non fanno che innescare fenomeni di “neoculturación” in cui tanto chi scrive quando chi legge diventa parte attiva di una negoziazione incessante, che permette la scoperta e la valorizzazione di un patrimonio culturale – spesso minoritario e marginale – ma anche il suo rinnovamento, attraverso “una nueva instancia del desarrollo, ahora modernizado” 235 . La lingua diventa dunque lo strumento privilegiato di questa triplice operazione di conservazione, mediazione e rinnovamento. A livello superficiale del discorso, nei tre romanzi presi in esame, il rapporto tra inglese e spagnolo sembrerebbe segnato dalla cosiddetta “traditional bilingual dichotomy”236 che assegnerebbe domini distinti (e talvolta stereotipati) a ciascuna lingua. In generale, infatti, l’inglese viene associato alla vita pubblica, piccola ‘maroma’, una bravata, una prodezza acrobatica” (205); “‘Falserías’ […] ‘Todo è finto’” (209). Rivera, Family Installments. 235 “Neoculturazione”, “attraverso un nuovo grado di sviluppo, ora modernizzato”. Ángel Rama, Transculturación narrativa en América Latina (Romero de Terrero, Mexico: Siglo XXI, 1987) 3233. 236 “La tradizionale dicotomia bilingue”. Keller, “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano Writer”, 291. 231 all’ambiente lavorativo, alle situazioni formali e ai doveri. È una lingua necessaria, pratica, che bisogna imparare per avere accesso al mondo lavorativo e riservarsi la possibilità di far carriera. Sono emblematici a questo proposito i moniti di Gerán al figlio Santos: “mastering my adopted language, what Papi, with good intentions, had been telling me and Tego to do for our own good, our ‘futures’” 237 . Lo spagnolo, al contrario, è considerato un “edenic realm of familial bonding”238; rimanda alla sfera più privata e intima, all’emotività, alla famiglia, agli affetti, spesso viene messo in relazione con l’infanzia e idealizzato nostalgicamente come ultima traccia di un passato perduto. L’equazione più efficace per sintetizzare questa dicotomia è quella di Richard Rodríguez che contrappone “hard English” e “soft Spanish”239. Keller conferma questa suddivisione in riferimento all’opera di Rivera quando afferma che “Spanish is used sparingly and strategically. […] [It is] taken from the vernacular – the language is emotional, intimate, popular”240. Di fatto, anche nei romanzi di Candelaria e di O’Reilly Herrera ho trovato elementi che lo provano e che vanno dalle dichiarazioni esplicite dei personaggi, ai campi semantici di utilizzo delle due lingue. In A Daughter’s a Daughter, ad esempio, i nomi o le espressioni che denotano affetto, empatia o senso di appartenenza da parte di chi sta parlando sono sempre in spagnolo. Il cane tanto amato da María si chiama Bonito; il ragazzo per il quale si prende una cotta a scuola, anch’egli di 237 “Padroneggiare la mia lingua adottata, cosa che Papi, in buona fede, aveva sempre detto a me e Tego di fare per il nostro bene, il nostro ‘futuro’”. Rivera, Family Installments. 238 “Regno edenico del legame familiare”. Martha J. Cutter, Lost and Found in Translation: Contemporary Ethnic American Writing and the Politics of Language Diversity (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 2005) 191. 239 Richard Rodríguez, Hunger of Memory: The Education of Richard Rodríguez (New York: Bantam, 1983) 17. 240 “Lo spagnolo è usato moderatamente e strategicamente. […] [È] ripreso dal vernacolo – la lingua è toccante, intima, popolare”. Keller, “The Literary Stratagems Available to the Bilingual Chicano Writer”, 291. 232 origini ispaniche, è positivamente definito “one of the few raza boys with ambition”; la nonna di María esprime la sua compassione verso una famiglia in difficoltà dicendo “Pobres”; e infine, quando le due lingue vengono messe a confronto, lo spagnolo risulta comunque più pregnante: “Oh, pecado, pecado. The Spanish word for sin was the more vigorous cousin of its diminutive, the English word ‘pecadillo’”241. In The Pearl of the Antilles Tía Nelida afferma con insistenza che l’inglese è “one of the ugliest, not to mention most difficult, languages in the world”242. Mentre in Family Installments Santos ha premura di specificare che i genitori “never spoke English to each other. It would have been insulting, almost unforgivable, pretentious, in bad taste”243; infine, dopo essere sfuggito alle grinfie della banda di Central Park correndo a gambe levate, il protagonista rallenta e si tranquillizza solo quando sente “the reassuring sound of Spanish”244. Anche i sei principali campi semantici di utilizzo dello spagnolo, che Keller individua nell’opera di Rivera e che si applicano anche ai romanzi di Candelaria e O’Reilly Herrera, confermano la dicotomia tra le due lingue 245 . 241 “Uno dei pochi ragazzi de La Raza con delle ambizioni” (103); “Poveretti” (112); “Oh, pecado, pecado. La parola spagnola per ‘peccato’ era la cugina più vigorosa del suo diminutive, la parola inglese ‘pecadillo’” (171). Candelaria, A Daughter’s a Daughter. 242 “Una delle lingue più brutte e più difficili del mondo”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 281. 243 “Non parlavano mai inglese tra di loro. Sarebbe stato un insulto, quasi imperdonabile, presuntuoso e di cattivo gusto”. Rivera, Family Installments, 87. 244 “Il suono rassicurante dello spagnolo”. Ibidem, 160. 245 Le sei aree semantiche individuate da Keller sono: “1. Kinship relations, customs & mores; 2. Social statuses, professions, ethnic designations; 3. Foodstuffs, plants, currency & other objects autochthonous or typical of a Spanish-speaking region; 4. Emotional words that Hispanicize a foreign reality; 5. Religious terms; 6. Highly emotional terms, including obscenities, blasphemies, dysphemisms. / 1. Relazioni di parentela, costumi e abitudini; 2. Status sociale, professioni, designazioni etniche; 3. Cibo, piante, monete e altri oggetti autoctoni o tipici di una regione ispanofona; 4. Parole toccanti che ispanizzano una realtà straniera; 5. Termini religiosi; 6. Termini altamente legati alle emozioni che includono oscenità, blasfemie e disfemismi”. Gary D. Keller, “Toward a Stylistic Analysis of Bilingual Texts: From Ernest Hemingway to 233 Eppure l’equazione che oppone “hard English” e “soft Spanish” nel livello superficiale del discorso, viene poi smentita a livello della storia. Ciascuno dei protagonisti ha infatti un rapporto altamente conflittuale con lo spagnolo e sarà proprio per sanare questo contrasto irrisolto sia con la lingua, sia con le proprie radici etniche, che intraprenderanno un percorso di ridefinizione della propria identità. In The Pearl of the Antilles Margarita “swallow[s] her tongue”246 perché – rifiutata dalla propria famiglia – decide a sua volta di rinnegare la lingua simbolo della sfera famigliare e del patrimonio genealogico e culturale che attraverso di essa si era perpetuato per generazioni. Quando poi decide di riallacciare il proprio legame con il passato, lo spagnolo riemerge a partire dalla sfera onirica: “Joey shook her from her sleep. He said that she was screaming something in Spanish” 247 . Lilly, invece, lo spagnolo lo studia a scuola, eppure non riesce a padroneggiare la lingua della madre e continua a sentirsi una straniera nei luoghi esotici e labirintici in cui si ritrova durante i sogni notturni: “I’ve just begun to study Spanish in school – but maybe I’ll never be able to speak your language well enough to defend myself in this place”248. Di fronte al diario incomprensibile della nonna – non essendo in grado di capire il palinsesto indecifrabile che si trovava di fronte ai suoi occhi – Lilly innesca dei meccanismi cognitivi e immaginativi di compensazione che la spingono a ricostruire, proprio attraverso il romanzo, la storia della famiglia. Così Contemporary Boricua and Chicano Literature”. The Analysis of Hispanic Texts: Current Trends in Methodology. Eds. Mary A. Beck, et al. New York: Bilingual Press, 1976, 141. 246 “Ingoia la sua lingua”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 285. 247 “Joey la svegliò scuotendola. Disse che stava gridando qualcosa in spagnolo”. Ibidem, 323. 248 Ho appena iniziato a studiare spagnolo a scuola – ma forse non sarò mai capace di parlare la tua lingua sufficientemente bene da difendermi in questo luogo”. Ibidem, 330. 234 facendo, la ragazza sembra dimostrare che, anche indirettamente, la costruzione della propria identità genealogica, passa sempre attraverso lo spagnolo. In A Daughter’s a Daughter il distacco di Irene dalla famiglia e l’arrivo in California, coincide anche con la sua presa di coscienza di un nodo problematico e paradossale da sciogliere. Di fronte alle amiche chicane, infatti, la ragazza si definisce con orgoglio “spagnola” (rifiutando le origini meticcie messicane) senza neanche essere in grado di parlare spagnolo. Si sente quindi a disagio quando non riesce a capirle e ammira invece profondamente la capacita di Emma di parlare non solo lo spagnolo, ma anche il ladino: Emma not only spoke Spanish, but she used some of the peculiar ancient words that Irene thought belonged only to New Mexico. […] Emma spoke Ladino, a remnant language of the Sephardic Jews who had been driven from Spain […]. The same language that early Spanish conquistadors brought with them when they colonized New Mexico. Oh, why were things never simple?249 Eppure la sua riconciliazione con le proprie origine etniche non passerà direttamente attraverso la lingua ma richiederà invece la riscoperta della storia del New Mexico. Anche Irene, come accade a Lilly, si troverà a dare una nuova voce ed una nuova lingua al passato della propria famiglia: come conferma la sua conversazione immaginaria con Sor Juana Inés de la Cruz, la santa e erudita messicana che le si rivolgerà in inglese. Ad un certo punto della storia, inoltre, Irene lavora volontariamente come insegnante di inglese per i Latinos, suggellando simbolicamente il lungo e complesso percorso di integrazione dei New Mexicans negli Stati Uniti, iniziato nella metà del Diciannovesimo secolo e 249 “Emma non parlavano solo spagnolo, ma usava alcune delle parole peculiari e antiche che Irene pensava appartenessero solo al New Mexico. […] Emma parlava Ladino, una lingua residuale degli ebrei sefarditi che erano stati cacciati dalla Spagna […]. La stessa lingua che i primi conquistatori spagnoli portarono con loro quando colonizzarono il New Mexico. Oh, perché le cose non erano mai semplici?”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 168. 235 sicuramente più consolidato rispetto a quello delle comunità cubano-americane e portoricane. In Family Installments, invece, Santos parte da una base linguistica opposta rispetto a quella delle protagoniste più giovani delle opere di O’Reilly Herrera e Candelaria. La sua crescita e la sua acculturazione a New York, corrisponde infatti con l’acquisizione dell’inglese e la conseguente graduale perdita dello spagnolo: “my shrinking Spanish, which Saint Misery’s was helping me lose fast for good” 250 . Dopo essere stato bilingue per anni, alla fine del romanzo Santos confessa al fratello che la sua competenza linguistica “it’s down to one and a half”251, ovviamente a discapito dello spagnolo. D’altronde non poteva essere altrimenti visto che l’inglese durante tutta l’opera viene utilizzato come strumento di oppressione e demarcazione delle differenze razziali e di status sociale, soprattutto dalle suore e dai frati della scuola per i quali: Correctness in the dominant language of the United States […] becomes not so much a desirable goal as an instrument with which these characters remind their hapless students of their inferior condition. […] The process of education becomes a process of subordination.252 Eppure, nonostante il suo rapporto controverso con lo spagnolo (che in alcuni passi tende a inglobare nella narrazione, mentre in altri sembra distanziarsene), Santos troverà una sua lingua per esprimere il proprio senso non 250 “Il mio spagnolo che si riduceva e che Saint Misery mi stava aiutando a perdere in fretta”. Rivera, Family Installments, 130. 251 “È scesa a una lingua e mezza”. Ibidem, 291. 252 “La correttezza nella lingua dominante degli Stati Uniti [...] diventa non tanto un obiettivo desiderabile, quanto uno strumento attraverso il quale questi personaggi ricordano ai loro sfortunati studenti la loro condizione di inferiorità. [...] Il processo di formazione diventa un processo di subordinazione”. Alfredo Villanueva-Collado, “Adapting, Not Assimilating”, 74. 236 risolto di identità. Lo farà storpiando e manipolando sia l’inglese sia lo spagnolo, entrambi piegati al servizio della sua caustica e pungente ironia: Santos fetishizes language, he repeats words in both Spanish and English, holds on to them, plays with them and distorts them in ways that can frustrate the readers who thought they were getting a simpler story about the vicissitudes of growing up in Spanish Harlem.253 Attraverso livelli diversi di ibridismo linguistico, i tre romanzi presi in considerazione riflettono il desiderio degli autori di forgiare una nuova lingua, superando la bipolarità tra inglese e spagnolo: tra l’altro entrambi idiomi del “chingón”, dei conquistatori 254 . La complessa storia dei Latinos – nella sua matrice india, spagnola, afro-caraibica, meticcia e anglosassone – viene ricreata all’interno dell’inglese, attraverso strategie di ibridazione che fanno emergere costantemente un sottotesto sommerso: “a subtext that constantly subverts this hegemonic message from within its own ideological and lexical boundaries”255. Lo spagnolo, nucleo di questo sottotesto, innesca quindi nell’inglese un processo di “dialogizzazione” che lo fa diventare “relativized, de-privileged, 253 “Santos feticizza la lingua, ripete le parole sia in spagnolo sia in inglese, si sofferma su di loro, gioca con loro e le distorce in modo potenzialmente frustrante per i lettori, che pensavano di trovare una storia più semplice sulle peripezie di chi cresce a Spanish Harlem”. Di Iorio Sandín, “Latino Rage”, 93. 254 Nel suo percorso di esplorazione delle radici precolombiane del Messico, Octavio Paz porta alla luce il nodo più problematico della stirpe messicana: il fatto di nascere da una vessazione, dallo scontro tra il conquistatore spagnolo e le culture indigene sopraffatte. L’autore rintraccia nella parola tabù chingar e in particolare nel modo di dire popolare “Viva il Messico, figli della Chingada!” la più intima essenza della condizione messicana: il sentimento comune di essere stati disonorati fin dalla nascita. Chingar significa infatti ferire, penetrare con la forza, distruggere, far violenza, con una chiara connotazione sessuale. La Chingada è allora la femmina, la madre violata, umiliata e offesa dal maschio, il Chingón conquistatore. Se per lo spagnolo il disonore più grande consiste nell’essere figlio di una donna che si concede volontariamente (hijo de puta), per il messicano l’offesa più umiliante sta nell’essere figlio di una donna violentata (hijo de la Chingada), strettamente associata alla conquista: una violazione in senso storico e fisico nella carne delle indie. Donna Marina o la Malinche, la schiava che fu amante e interprete di Cortés prima di essere da questi abbandonata, è il simbolo di questa sopraffazione storica e linguistica. Octavio Paz, El laberinto de la soledad (México, Fondo de Cultura Económica, 1987) 18. 255 “Un sottotesto che sovverte costantemente questo messaggio egemonico, all’interno dei suoi confini ideologici e lessicali”. Cutter, Lost and Found in Translation, 179. 237 aware of competing definitions” 256 coinvolgendo quindi chi legge in una complessa operazione di negoziazione linguistica e culturale, che si sviluppa a più livelli. I lettori dovranno infatti intuire il significato di parole non tradotte, cogliere i doppi sensi e l’ironia della scrittura, interagire con la lingua e la cultura rappresentate e risolvere i dilemmi genealogici e generazionali dei protagonisti, fino ad immergersi completamente in una “interlingual zone of meaning”257. Poiché lo spagnolo si configura come “sosia linguistico” dell’inglese e come presenza spettrale e ossessiva nella storia degli Stati Uniti258, la mia analisi continuerà con l’osservazione del percorso identitario messo in atto dai protagonisti delle tre opere, per riconciliare la propria posizione generazionale nel presente, con le proprie origini etniche e genealogiche. 256 “Relativizzato, de-privilegiato, consapevole di definizioni concorrenti”. Michail Bachtin, The Dialogic Imagination: Four Essays (Austin: University of Texas Press, 1981) 426. 257 “Zona interlinguistica di significato”. Cutter, Lost and Found in Translation, 178. 258 Questa teoria è stata formulata da Di Iorio Sandín che definisce lo spagnolo “Linguistic double of English in the Americas” e sottolinea come la sua presenza riesca a turbare sottilmente sia gli ispanici sia gli anglosassoni fino a diventare lo “spettro” della storia statunitense”. Di Iorio Sandín, “Latino Rage”, 93. 238 ANALISI CULTURALE 4.5 Los nadies della storia I quesiti con cui si è conclusa l’analisi narratologica delle tre opere sono riconducibili al tentativo dei tre autori di creare una voce autorevole per le esperienze marginali e minoritarie delle famiglie e delle comunità etniche ritratte nei romanzi, ricalcando (solo a un livello superficiale) le strategie retoriche con cui negli ultimi due secoli si è andata rafforzando la “author-function” 259 predominante della narrativa occidentale: quasi esclusivamente appannaggio di autori uomini, bianchi e provenienti da classi privilegiate. Quando ad appropriarsi di queste strategie sono scrittori “socially unauthorized” o “non hegemonic” 260 , l’acquisizione di autorevolezza narrativa diventa una questione esteticamente e politicamente cruciale per la possibilità – abilmente sottolineata da Luce Irigaray – di plasmare non solo una propria voce (“voix”) ma anche una propria via (“voie” 261 ): un’identità e un percorso di autoaffermazione che è allo stesso tempo individuale e collettivo. Ciascuno a suo modo, i tre autori sembrano quindi voler conferire alla proprie opere credibilità intellettuale, validità ideologica e valore estetico, attraverso espedienti narrativi e linguistici volti a coinvolgere il lettore in un’esperienza narrativa “accomodante” e accessibile, che rimanda a forme 259 “Funzione di autore”. Michel Foucault, Language, Counter-Memory, Practice: Selected Essays and Interviews (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1977) 113. 260 “Socialmente svantaggiati”, “non egemonici”. Lanser, Fictions of Authority, 6-7. 261 Luce Irigaray, This Sex Which is Not One (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1985) 209. 239 letterarie già note, come il discorso storiografico per il romanzo di Candelaria, la voce tipicamente femminile della narratrice di O’Reilly Herrera o il narratore autocratico di Rivera. In realtà, attraverso un sottile processo di “mimicry”262 e camouflage, gli autori decostruiscono dal di dentro le convezioni sociali e testuali che i lettori si aspettano, trasformando la propria voce narrativa in un catalizzatore simbolico di tensioni, contraddizioni e interrogativi dalla forte valenza ideologica. Si tratta di espedienti letterari presenti in tutti e tre i romanzi, con diverse declinazioni e sfumature, che hanno il potere di far emergere la memoria sommersa e la voce fino a quel momento inascoltata dei Rafas, dei Maláguez e delle donne di Cienfuegos le cui vicende vengono intrecciate ai maggiori eventi storici degli ultimi quattro secoli, costruendo per loro uno spazio narrativo inedito. Attraverso i loro personaggi e le loro storie, gli autori “seek to write themselves into Literature, without leaving Literature the same”263. E mentre preservano dal caos e dall’oblio l’esperienza minoritaria e frammentata dei personaggi proiettandola nella dimensione atemporale dell’arte, Candelaria, Rivera e O’Reilly Herrerautori rielaborano e legittimano anche la loro esperienza storica, delineando per se stessi e per le comunità ispaniche che rappresentano una nuova identità genealogica, generazionale ed etnica. Ad essere riscattati dal silenzio sono generazioni e generazioni di quelli che Gloria Anzaldúa chiama “huérfanos” della propria lingua 264 o, ancora, di 262 Bhabha sostiene infatti che “the epic intention of the civilizing mission […] often produces a text rich in the traditions of trompe-l’oeil, irony, mimicry and repetition / l’intento epico della missione civilizzatrice […] produce spesso un testo ricco delle tradizioni del trompe-l’oeil, dell’ironia, della mimica e della ripetizione”. Bhabha, The Location of Culture, 85. 263 “Cercano di iscriversi nella Letteratura, senza lasciarla inalterata”. Lanser, Fictions of Authority, 8. 264 “Orfani”. Gloria Anzaldúa, Bordelands/La frontera (San Francisco: Aunt Lute Books 1987) 58. 240 coloro che Eduardo Galeano definisce i “nessuno”, gli invisibili della storia universale, coloro che valgono meno di una pallottola: Los nadies: los hijos de nadie, los dueños de nada. Los nadies: los ningunos, los ninguneados, corriendo la liebre, muriendo la vida, jodidos, rejodidos. Que no son, aunque sean. Que no hablan idiomas, sino dialectos. Que no profesan religiones, sino supersticiones. Que no hacen arte, sino artesanía. Que no practican cultura, sino folklore. Que no son seres humanos, sino recursos humanos. Que no tienen cara, sino brazos. Que no tienen nombre, sino número. Que no figuran en la historia universal, sino en la crónica roja de la prensa local. Los nadies, que cuestan menos que la bala que los mata.265 I “nessuno” per Andrea O’Reilly Herrera sono i membri della Lost generation cubano-americana di cui lei stessa si sente parte e che, nel romanzo, sono incarnati sia da Margarita sia da Lilly. Costantemente coinvolti in un processo di ridefinizione della propria cubanía in uno spazio diasporico, fluido e delocalizzato, queste “Cuband presences” non si identificano nelle logiche binarie ed essenzializzate di appartenenza culturale, consolidate sia dalle politiche ufficiali dell’isola, sia dall’enclave nazionalista di Miami. Con le loro testimonianze cercano invece di interrompere quell’operazione di cancellazione storica e culturale con cui le si vorrebbe ridurre al silenzio, perché non inquadrabili in nessuna delle due gerarchie di sofferenza, autenticità e legittimità. 265 “I nessuno: i figli di nessuno, i padroni di niente, / I nessuno: i niente, gli annientati, rincorrendo la lepre, morendo la vita, fottuti, fottutissimi. / Che non sono, nonostante siano. / Che non parlano lingue, ma dialetti. / Che non professano religioni, ma superstizioni. / Che non fanno arte, ma artigianato. / Che non praticano cultura, ma folclore. / Che non sono esseri umani, ma risorse umane. / Che non hanno viso, ma braccia. / Che non hanno un nome, ma un numero. / Che non figurano nella storia universale, ma nella cronaca nera della stampa locale. / I nessuno, che costano meno della pallottola che li uccide”. Eduardo Galeano, El libro de los abrazos (Ediciones La Cueva, 52). Disponibile in rete su: <http://www.cronicon.net/paginas/Documentos/paq2/No.9.pdf>. Data di accesso 25 gennaio 2013. 241 Per Edward Rivera i “nessuno” sono i Nuyoricans, figure scomode che popolano i quartieri latini di New York e che Abraham Rodríguez definisce sarcasticamente “lower case people”: all those shadows, they were tiny pins on a map, they hardly registered at all. Their kind came and went. They didn’t write about them or direct plays or paint murals about their lives. They were all walking shit. Whether they lived in the South Bronx or Bed-Stuy or Harlem or Los Sures. It didn’t matter. They didn’t exist. They were all lowercase people.266 D’altronde Family Installments è popolato proprio di personaggi “minuscoli” che sembrano voler rompere la propria “invisibilità” agli occhi degli Anglo ma anche dei portoricani dell’isola, riemergendo prepotentemente dalle crepe di quella “memoria rotta” delineata da Arcadio Díaz-Quiñones per descrivere le lacune strategiche con cui la storiografia ufficiale portoricana tende a ignorare l’esistenza delle comunità diasporiche, quasi fossero una minaccia al progetto di costruzione di un’illusoria identità nazionale, omogenea e territorialmente radicata sull’isola. Per Candelaria invece, i “nessuno” sono i perdenti della storia degli Stati Uniti: i messico-americani, gli indiani d’America, i neri e i sudisti: “the rainbow of humanity as losers: red Indian, brown Spanish-Indian, black African, white Anglo”267. Sono proprio questi perdenti, insieme agli umili, agli analfabeti e ai reietti – secondo Candelaria – a reclamare con maggior forza uno spazio letterario che possa riscattare la loro lunga assenza sia dalla narrativa del mainstream, sia dalla storiografia ufficiale, entrambe appannaggio dei “vincitori” angloamericani: 266 “Tutte quelle ombre, erano piccole puntine su una mappa, quasi non venivano rilevate. Del loro tipo andavano e venivano. Non scrivevano su di loro, né dirigevano commedie o dipingevano affreschi delle loro vite. Erano tutte merde deambulanti. Sia se vivevano nel South Bronx o BedStuy o Harlem o Los Sures. Non importava. Non esistevano. Erano tutte persone minuscole”. Abraham Rodríguez, Spidertown (New York: Penguin, 1993) 288. 267 “L’arcobaleno dell’umanità dei perdenti: gli indiani pellerossa, gli indo-ispanici marroni, i neri africani, i bianchi anglosassoni”. Candelaria, Memories of the Alhambra, 181. 242 It is this void that contemporary Chicano Fiction writers can fill in order to help balance the distortions of history. It is a task that challenges writers to imagine themselves into the past in order to give voice to the voiceless, claim their rightful place in American history, and give perspective on barriers that still must be overcome. There are stories that still cry out to be told.268 La sua narrativa vuole quindi rileggere e ampliare sia il concetto di identità chicana – arricchita con l’esperienza ancor più specifica dei New Mexican Hispanics – sia i confini della storiografia ufficiale – di cui rivela la parzialità e le assenze, mettendo quindi in discussione: “primero, la base mexicana del chicanismo, y segundo – y mucho más significante – la función de la historia de Estados Unidos y el papel de los chicanos en esa historia” 269. Guidato dall’intento di scrivere storie oneste e toccanti270, in A Daughter’s a Daughter l’autore cerca infatti di ricreare nuovi punti di vista sugli eventi storici, per arrivare ad un comprensione più ampia e dialettica della verità storica, che riporti in primo piano anche la prospettiva femminile. Così facendo, Candelaria dà un contributo fondamentale per rendere l’esperienza messico-americana nella sua complessità, accessibile anche a un pubblico non Latino, a cui fornisce una visione della realtà storica che facilita e amplia la comprensione dell’esperienza chicana da parte di chi legge. Consapevole che ogni scrittore Latino ha davanti a sé due potenziali tipologie di pubblico – Hispanic e non-Hispanic – Candelaria, 268 “È questo vuoto che i romanzieri chicani contemporanei possono colmare, per controbilanciare le distorsioni della storia. È un compito che spinge gli scrittori a immaginarsi nel passato per dar voce a chi non ha voce, rivendicando il loro posto legittimo nella storia e dando visibilità a barriere che devono ancora essere superate. Ci sono storie che chiedono ancora a gran voce di essere raccontate”. Nash Candelaria, “Literature About Nineteenth-Century Chicanos: One Writer’s Viewpoint” (Bilingual Review/Revista Bilingüe 21.1, 1996): 34. 269 “Prima di tutto la base messicana del chicanismo, e in secondo luogo – e in modo molto più significativo – la funzione della storia degli Stati Uniti e il ruolo dei chicani in questa storia”. Juan Bruce-Novoa, “Candelaria, novelista”, 41. 270 Quando Bruce-Novoa, nella nota intervista del 1980, gli chiede se le sue opere avessero una finalità politica, Candelaria risponde infatti affermando che: “If you are interested in literature, write the best, most honest, emotional story you know how. And let the political chips fall where they may / Se sei interessato alla letteratura, scrivi la storia migliore, più onesta e toccante che possa. E lascia che i frammenti politici cadano dove possono”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview”, 122. 243 così come O’Reilly Herrera e Rivera, decide di rivolgersi a entrambi, legittimando quindi l’aspirazione della propria comunità ad avere maggiore visibilità e peso sociale, e fornendo allo stesso tempo anche nuove risorse letterarie per rafforzare le basi della “American poly-cultural society”271. Candelaria riconosce le forti affinità tra la letteratura Chicana e quella di altri gruppi etnici (tutti emblema del punto di vista degli emarginati della società americana) e coglie le forti potenzialità che scaturiscono proprio dalla posizione minoritaria: “Chicano writers are in the process of becoming, while majority group writers already are. The future is on our side. And nobody can write our stories except ourselves”272. Di fatto, non solo in A Daughter’s a Daughter ma anche in The Pearl of the Antilles e in Family Installments, l’effetto che si ricrea è quello di una pluralità di voci e prospettive che i lettori stessi devono armonizzare, mettendo quindi in discussione l’approccio monologico della scrittura storiografica tradizionale. Quella che emerge è infatti la dimensione polifonica del romanzo delineata da Bachtin, in cui visioni subalterne e conflittuali della realtà possono coesistere, costantemente immerse in “a dialogically agitated and tension-filled environment of alien words” in cui vengono “entangled, shot through with shared thoughts, points of view, alien value judgments and accents”273. L’immaginazione dialogica su cui si fondano i tre testi, sembra infatti rivendicare le analogie che legano sottilmente romanzo e opera storiografica e, in 271 “Società poli-culturale americana”. Ibidem, 128. “Gli scrittori chicani sono ancora in evoluzione, mentre il gruppo maggioritario si è già formato. Il futuro è dalla nostra parte e nessuno può scrivere le nostre storie, eccetto noi stessi”. Ibidem, 123. 273 “Ambiente di parole aliene, dialogicamente agitato e carico di tensione”, “intrecciato, attraversato da pensieri comuni, punti di vista, giudizi di valore e accenti alieni”. Bachtin, The Dialogic Imagination, 276. 272 244 particolare, il potere della narrativa di infiltrarsi nella storia, permettendo una comprensione più profonda e articolata dell’esperienza umana, così come aveva già affermato lo storico White nel 1978: The older distinction between fiction and history, in which fiction is conceived as the representation of the imaginable and history as the representation of the actual, must give place to the recognition that we can only know the actual by contrasting it with or likening it to the imaginable.274 La complessa interazione tra reale e immaginabile e le prospettive spesso contrastanti che movimentano le vicende dei protagonisti nei tre romanzi, agiscono simultaneamente sia sull’asse diacronico (per l’ampio arco temporale in cui le vicende familiari vengono inserite), sia su quello sincronico (per i conflitti etnico-culturali e tra diversi sistemi di valori, costantemente innescati). La tensione stratificata e bidirezionale che ne risulta, riconduce la mia analisi ai due concetti chiave del romanzo multigenerazionale presi in esame all’inizio di questo lavoro: quello di genealogical imagination e di generational identity che gli autori ricostruiscono per i loro personaggi, sul solco di un nuovo concetto di storia: quello della mnemohistory. 4.6 Dalla storia alla “mnemostoria” I protagonisti più giovani dei tre romanzi – Irene, Lilly e Santos – intraprendono un percorso di crescita e di definizione della propria identità riconducibile al movimento dialettico di tesi, antitesi e sintesi dello “spirito” 274 “La vecchia distinzione tra narrativa e storia, in cui la narrativa viene concepita come rappresentazione dell’immaginabile e la storia come rappresentazione del reale, deve cedere il posto al riconoscimento che possiamo solo conoscere il reale, contrastandolo o paragonandolo all’immaginabile”. Hayden White, “The Historical Text as Literary Artifact”. Tropics of Discourse: Essays in Cultural Criticism (Baltimore: John Hopkins University Press, 1978) 98. A conferma delle forti analogie che legano indissolubilmente storiografia e narrativa, Bruce-Novoa le definisce entrambe “symbolic representations of perceived truth / rappresentazioni simboliche di verità percepite”. Juan Bruce-Novoa, “History as Content, History as Act: the Chicano Novel” (Aztlán: A Journal of Chicano Studies 18.1, 1987): 42. 245 hegeliano, che arriva a un equilibrio “giungendo a sé nel proprio altro”. Superano, cioè, la logica binaria iniziale in cui l’identità è data dal solo principio di diversità e decidono di ritrovare se stessi attraverso un percorso individuale più complesso che Hegel chiama Er-innerung 275 giocando sulla polisemia del termine tedesco che significa “ricordo” e allo stesso tempo allude all’interiorizzarsi, all’andar dentro: innen. Lo “spirito” intraprende dunque un viaggio bidimensionale: all’indietro verso le proprie radici più remote e all’interno verso una maggiore autocoscienza. Il percorso culminerà nella sintesi finale in cui le contraddizioni, le differenze, gli opposti rintracciati durante il cammino vengono mantenuti e riconciliati. La ricerca dei protagonisti inizia dunque sul piano diacronico. Essi ritrovano difatti la propria posizione nella genealogia familiare e riscoprono quel legame mentale con i propri avi che renderà possibile un’esperienza genealogica della storia. Mentre rielaborano il passato dei propri antenati percependo eventi e traumi lontani nel tempo come quasi autobiografici, i personaggi definiscono le proprie radici etniche, intrecciando abilmente storiografia ufficiale e storie familiari, e ricreando una continua “dissonanza cognitiva” tra il detto e il non detto. La loro immaginazione genealogica li porterà inoltre a ricostruire gli aspetti impliciti della storia sia pubblica sia privata, colmando le lacune strategiche o inconsapevoli che intaccano sia la memoria collettiva sia i ricordi più intimi. Il percorso identitario di Irene, ad esempio, passa attraverso una serie di incidenti etnici e viene innescato da un’opera d’arte realmente esistente: “The Last Supper of Chicano Heroes” dell’artista texano José Antonio Burciaga, che copre 275 “Interiorizzazione rammemorante”. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Trad. di Vincenzo Cicero (Milano: Rusconi, ,1996) 986, 1062. 246 le pareti della Stern Hall nella residenza Casa Zapata della Stanford University276. Nata come reinterpretazione de “L’ultima cena” di Leonardo Da Vinci, l’opera rappresenta oltre quaranta eroi della cultura chicana – scelti in base a un sondaggio condotto dall’artista nel 1988, tra cento studenti messico-americani e cento attivisti chicani della fine degli anni Sessanta. Il dipinto fa parte di un ciclo di murales dedicato alla storia e alla mitologia del mais, per questo – come spiega Burciaga in un articolo del Los Angeles Times – la sua idea originale era di ritrarre Cristo e i dodici apostoli secondo il modello di Leonardo, ma sostituendo pane e vino con tortillas, tamales e tequila 277 . Visto il disaccordo di alcuni studenti che non gradiscono l’accostamento di humour e religione, l’artista decide allora di sostituire le figure bibliche con i tredici eroi della storia messico-americana che avessero ricevuto più consensi dal campione scelto, collocando invece tutti gli altri personaggi alle loro spalle. Considerando l’eterogeneità dei candidati indicati da studenti e attivisti – un totale di 240 personaggi, spesso controversi, appartenenti alla tradizione ispanica e non – “[t]he selection process brought into question the very definition of a hero or heroine as a mythical, historical, symbolic, military or popular culture figure”278. Per questo accanto a generali e rivoluzionari come Ignacio Zaragoza, Emiliano Zapata, Ricardo Flores Magón ed Ernesto “Che” Guevara, appaiono eroi del movimento Chicano come César Chávez e Luis Valdez; scrittori messico- 276 L’immagine dell’affresco di Burciaga è fornita in appendice a questa tesi. Jose Antonio Burciaga, “Cinco de Mayo – Some Uncommon Heroes for a Day: Commemorating Heroism”, Los Angeles Times, 5 May 1988, <http://articles.latimes.com/198805-05/local/me-3285_1_chicano-hero>. Data di accesso 23 gennaio 2013. 278 “Il processo di selezione ha messo in discussione la definizione stessa di eroe o eroina come figura mitica, storica, simbolica, militare o della cultura popolare”. Ibidem. 277 247 americani come Tomás Rivera e Ernesto Galarza; avvocati e politici del mondo sia anglo-americano sia messicano, come Benito Juárez, Martin Luther King e John Fitzgerald Kennedy; il muralista Diego Rivera; insieme a personaggi della cultura popolare come gli attori comici Tin-Tan e Cantinflas, fino a Carlos Santana (“who helped revolutionize North American music with Latino sounds”279). Da poco arrivata nella residenza, Irene è subito colpita dall’affresco che scruta con curiosità, chiedendosi, in particolare, come mai sulla tovaglia con frange a forma di crocifisso apparisse la scritta “and to all those who died, scrubbed floors, wept and fought for us”280 e perché la Vergine di Guadalupe, protettrice del Messico e vera anima del cattolicesimo popolare chicano, sovrastasse la tavola imbandita. Irene si interroga anche sul significato dello scheletro che appare al centro del dipinto: “la Muerta, death wearing a headband. What did it all mean?”281. La sua osservazione viene interrotta dopo pochi istanti dal commento tagliente dell’amica Emma, infastidita dalla netta predominanza di figure maschili nel dipinto: 279 “Che ha contribuito a rivoluzionare la musica nord americana con suoni ispanici”. Ibidem. “E a tutti coloro che sono morti, che hanno lavato i pavimenti, pianto e lottato per noi”. Nello stesso articolo, l’artista spiega l’origine di questa citazione, ispirata dalla risposta di uno degli studenti, che ha racchiuso nelle sue parole il forte senso di appartenenza e lo spirito di unione della comunità chicana: “In the survey, the group-oriented focus came through time and again in votes for mothers, fathers, grandparents, Vietnam veterans, ‘braceros’, ‘campesinos’ and ‘pachucos’. But it was best expressed by one student who chose as his heroes ‘all the people who died, scrubbed floors, wept and fought so that I could be here at Stanford’ / Nel sondaggio, l’attenzione rivolta alla comunità appariva, di tanto in tanto, nei voti per le madri, i padri, i nonni, i veterani del Vietnam, i ‘braceros’, i ‘campesinos’ e i ‘pachucos’. Ma è stata espressa al meglio da uno studente che ha scelto come eroi ‘tutte le persone che sono morte, che hanno lavato i pavimenti, pianto e lottato affinché io potessi essere qui a Stanford”. Ibidem. 281 “La Muerta, la morte che indossa una fascia. Che cosa significava tutto questo?”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 161. Nello stesso articolo del Los Angeles Times Burciaga definisce lo scheletro: “‘La muerte’, so popular in Mexico, is a heroine, a great avenger and savior from la vida / ‘La muerte’, così popolare in Messico, è un’eroina, una grande vendicatrice a salvatrice dalla vita”. Burciaga, “Cinco de Mayo”. 280 248 “Same old macho crap”, Emma said, “I’m surprised they didn’t show the women eating in the kitchen. Only three of them at the table are female. Irene was shocked. “But there’s the Virgin of Guadalupe”, she protested. “Not at the table. Besides, she’s a myth. The same old virgin myth. She doesn’t count”. Emma leaned forward scrutinizing the mural again. “Of course, maybe that skeleton is a woman. Probably worked herself to death cooking, getting pregnant, and raising kids”.282 Nei giorni successivi, Irene continua a esser rapita dalle figure del dipinto che, ai suoi occhi, sembrano prender vita e interagire con i visitatori: “It seemed that they came alive, became three-dimensional, as if they were moving and breathing” 283 . La ragazza è particolarmente affascinata dalla uniche tre figure femminili sedute al tavolo: la suora e poetessa Sor Juana Inés de la Cruz, la pittrice Frida Kahlo e l’attivista, cofondatrice dello United Farm Workers, Dolores Huerta. Un giorno assorta nella contemplazione dell’affresco, Irene inizia una conversazione silenziosa con una delle eroine: Sor Juana, religiosa e intellettuale messicana del Diciassettesimo secolo, oggi nota anche come “Fénix de América” o “décima musa” e considerata una delle figure di maggior rilievo del mondo coloniale spagnolo e della cultura di tutti i tempi. Irene la ammira, in particolare, per la sua scelta di sottrarsi al giogo della società maschilista dell’epoca, abbracciando la vita monastica per esser libera di dedicarsi agli studi e alle Lettere. Eppure, intorno al 1693, la suora smette di scrivere per dedicarsi quasi esclusivamente all’attività religiosa. Nel suo dialogo intimo con la donna, Irene 282 “‘Le solite cazzate da maschio’, Emma disse, ‘Sono sorpresa che non abbiano mostrato le donne che mangiano in cucina. Solo tre di loro al tavolo sono femmine’. Irene ne fu scioccata. ‘Ma c’è la Vergine di Guadalupe’, protestò. ‘Non al tavolo. E poi, lei è un mito. Il solito mito della purezza. Non conta’. Emma si sporse in avanti scrutando nuovamente l’affresco. ‘Certo, forse lo scheletro è donna. Probabilmente è morta per la fatica cucinando, rimanendo incinta e crescendo i figli’”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 165. 283 “Sembrava che prendessero vita e diventassero tridimensionali, come se si muovessero e respirassero”. Ibidem, 164. 249 immagina i pensieri che l’hanno indotta alla rinuncia: “[w]hile not a word was spoken, Irene imagined what the nun was thinking at the time of her downfall”284. Anche se a livello storico non vi sono ragioni certe sul motivo del suo cambiamento e diversi intellettuali sostengono che derivasse da una sua accresciuta dedizione mistica, la Sor Juana a cui la voce narrante dà vita confessa invece di averlo fatto per sfuggire al potere dell’Inquisizione che l’accusava di blasfemia, non tollerando che una donna, per di più religiosa, si potesse dedicare ad attività secolari come la scrittura285: If I had been a man, they would have applauded and encouraged my intellectual pursuits. […] But I was a woman, a woman poet at that. For a woman that was the highest form of blasphemy. Instead of a life of the mind I was supposed to dedicate myself to obedience and service. Especially as a member of the Church.286 Riportando in vita la figura di Sor Juana attraverso la sua immaginazione, Irene sembra cogliere tutto il dramma della sua rinuncia e le difficoltà che anche le antenate donne della sua famiglia dovevano aver vissuto. Di fatto, la ragazza crea un parallelo tra la santa e la coeva Magdalena, vedova e matriarca della famiglia Rafa, che sopravvive alla Rivolta Pueblo del 1680 ma perde la casa ed è costretta a rifugiarsi a El Paso del Norte, dove vive per anni in esilio, affrontando la miseria e il clima ostile del deserto. Con grande coraggio la donna non solo 284 “Mentre non veniva pronunciata parola, Irene immaginò ciò che la suora pensava nel momento della sua caduta”. Ibidem, 165. 285 Tra gli storici che sostengono la tesi di una sua accresciuta dedizione mistica, confermata dal suo rinnovo dei voti religiosi del 1694, vi sono: Alfonso Méndez Plancarte (“Introducción”, Juana Inés de la Cruz: Obras completas, México: Fondo de Cultura Económica, 1951: 31-33) e Alberto G. Salceda (“Introducción”. Juana Inés de la Cruz: Obras completas. México: Fondo de Cultura Económica, 1957: 39-45). Di opinione opposta sono invece Octavio Paz e Elías Trabulse che sostengono invece la tesi di una cospirazione misogina con la quale le autorità ecclesiastiche la costrinsero ad abbandonare la scrittura. Si vedano Octavio Paz, Sor Juana Inés de la Cruz o las trampas de la fe, México: Fondo de Cultura Económica, 1982 e Elías Trabulse, Los años finales de Sor Juana. México: Condumex, 1995. 286 “Se fossi stata un uomo avrebbero applaudito e incoraggiato la mia attività intellettuale. […] Ma ero una donna e poetessa. Per una donna era la forma più alta di blasfemia. Invece che a una vita della mente, avrei dovuto dedicarmi all’obbedienza e al servizio. In particolare come membro della Chiesa”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 165. 250 riuscirà a tornare con i figli nel New Mexico ma, in età avanzata, raggiungerà Città del Messico su di un asino, percorrendo quindicimila miglia di territori ostili, per reclamare una concessione di terra appartenente al padre, che il governo non voleva riconoscerle. È su quella stessa terra che i Rafas vivranno poi per generazioni. Resasi conto della forza e dell’eroismo dimostrati da Magdalena, Irene chiede alla suora le ragioni della sua resa: “‘Why was that your only choice? Was life more precious than the truth?’ With eyes downcast the nun seemed to answer ‘That’s easy for you to say’” 287 . Fissando ancora una volta l’immagine nell’affresco, Irene finisce col rivedere il suo stesso volto in quello Sor Juana (“It was like peering into a mirror”288, e si sente quindi parte di un continuum di voci al femminile, che possono rivivere intimamente in lei, con tutta la loro forza e fragilità, con i loro silenzi e con il sudore, con le loro gesta eroiche e con le sofferenze subite. La sua esperienza genealogica della storia le permette ora di vedere le grandi protagoniste della storia universale e le umili antenate della famiglia Rafa, tutte sullo stesso piano, tutte indistintamente parte del suo patrimonio culturale di donna emancipata del Ventesimo secolo. Fondendo eventi storici, folclore, leggende di famiglia e immaginazione, Irene riesce dunque a rielaborare il suo passato riconciliandosi sia con le sue radici New Mexican sia con il suo ruolo di Latina. La linea di continuità che ristabilisce tra la Muerta, la Virgen de Guadalupe, Sor Juana, Magdalena, Frida Kahlo e Dolores Huerta, rappresenta infatti la discendenza simbolica, ricostruita dalla sua 287 “Perché quella fu la tua unica scelta? La vita era forse più preziosa della verità? Con gli occhi abbassati, la suora sembrò rispondere ‘È facile per te dirlo’”. Ibidem, 166. 288 “Era come guardare uno specchio”. Ibidem. 251 immaginazione genealogica, sulla quale potrà innestare la sua identità etnica e generazionale nel presente. A partire da questo momento, forte del coraggio delle sue antenate e ben intenzionata a non perpetuare l’ethos della società patriarcale, Irene riuscirà infatti a trovare un equilibrio tra “breach and continuity” 289, proiettando le sue radici etniche nel futuro, attraverso il suo coinvolgimento attivo nel Chicano Movement e l’impegno nel sociale che la porterà, da avvocato, a difendere persone indigenti o donne che hanno subito abusi. Inoltre, la rielaborazione di storia pubblica e privata che Irene innesca a partire da un’opera d’arte, sembra richiamare in modo paradigmatico il ruolo dell’arte nella costruzione di un’eredità simbolica e, insieme, il processo di scrittura creativa messo in atto da Nash Candelaria. Nel caso del suo primo romanzo Memories of the Alhambra ad esempio, l’autore stesso trae ispirazione dall’ascolto del brano “Recuerdos de la Alhambra” interpretato da Andrés Segovia. Come l’acquarello per l’opera di Andrea O’Reilly Herrera, anche in questo caso arti diverse interagiscono e fungono da stimolo, sottolineando ancora una volta la capacità del romanzo – già evidenziata da Lotman – di configurarsi come rappresentazione di un mondo potenzialmente senza confini ma reso visibile proprio dal confinamento entro lo spazio limitato della cornice. Nell’intervista a Juan Bruce-Novoa Candelaria conferma l’immediatezza della sua ispirazione e la volontà di condensare nell’opera le molteplici esperienze di vita della famiglia e della sua comunità,: A mood, a feeling came over me and the idea for the story came to me in a flash. It was a chilling, exhilarating experience – like having a visitation from the archangel. The book would be a culmination of 289 “Rottura e continuità”. Assmann, “Limits of Understanding”, 33. 252 much I had gone through myself and much that I saw in my own family and others from New Mexico. It would be about “mexicanness” and the acceptance of it.290 Di fatto, l’intera esperienza letteraria di Candelaria è un gioco continuo di rimandi tra storia del New Mexico ed episodi biografici, rielaborati dalla sua forza creativa che gli permette di “reshaping ‘true’ incidents into fiction” 291 per esplorare la sottile interazione tra eventi storici e destini individuali, rievocando il suo trionfo personale e quello della sua comunità sulle molteplici avversità superate nei secoli. Il suo percorso di ricostruzione inizia, simbolicamente, proprio quando deve interrompere la ricerca genealogica sulla propria famiglia, avviata negli anni Settanta, per una lacuna nelle fonti. È esattamente in quel momento che la sua immaginazione genealogica deve attivarsi: “So I gave up the genealogical search. I had read New Mexico history. I would add to what was known by imagining myself into the past and what it must have been like for those generations of New Mexicans to become Americans292. Se molti degli episodi dei suoi romanzi sono ispirati alla sua biografia (i Rafas rappresentano infatti la controparte creativa dei Candelaria, a partire dalla capostipite Magdalena, che rende omaggio ad Ana Candelaria), nel suo mémoir l’autore ricorre emblematicamente a passi dei suoi romanzi, per spiegare episodi 290 “Sono stato sopraffatto da uno stato d’animo, una sensazione e la storia mi è venuta in un lampo. È stata un’esperienza da brivido ed esaltante – come ricevere una visita da un arcangelo. Il libro sarebbe stato la culminazione di quanto avevo attraversato e di quanto avevo visto nella mia famiglia e in altre del New Mexico. Sarebbe stato sulla ‘messicanità’ e sulla sua accettazione”. Bruce-Novoa, “Nash Candelaria: An Interview” , 119. 291 “Rimodellare eventi veri nella narrativa”. Ibidem, 117. 292 “Quindi ho abbandonato la ricerca genealogica. Avevo letto la storia del New Mexico. Avrei accresciuto ciò che si sapeva già, immaginandomi nel passato e immaginando come è stato diventare americani per quelle generazioni di New Mexicans”. Candelaria, Second Communion, 184. 253 della sua vita, come quando racconta della presa di distanza dalla Chiesa citando un’esperienza analoga di Irene: I don’t remember exactly when I made my final break with the Church. It must have been sometime between my twenty-first and twenty-second birthdays. What I remember is that it ended not with a whimper but with an act of defiance, one that was not unlike the experience of the character Irene Bustamante in my novel A Daughter’s a Daughter .293 Nell’intrecciare abilmente factual e imaginable, Candelaria sembra richiedere ai lettori di partecipare attivamente alla ricostruzione genealogica dei Rafas e alla rilettura della storiografia ufficiale, invitandoli alla stesso tempo a intrecciare il proprio vissuto – a prescindere da distanze o differenze – a quello dei protagonisti (come ha fatto Irene contemplando gli eroi del dipinto), per riportare alla luce quelle “reliquie viventi” della storia, che ognuno di noi conserva: One premise of my own writing is that each of us carries history within us – some of it like recessive genes – that makes change slow and difficult. We are all in a sense walking living relics of history, carrying within us the marks of past generations whether we know it or not. Carrying within us attitudes, scars, pains, and the desire for revenge that can take generations to dispel.294 In The Pearl of the Antilles, invece, il percorso identitario di Lilly si rende necessario come reazione al mausoleo di solitudine e silenzio creato dalla madre, che aveva deciso di seppellire il proprio passato e la propria lingua materna, fino a diventare negli Stati Uniti “a stranger without family, or country, or past” 295 , 293 “Non ricordo esattamente quando è avvenuta la mia rottura definitiva con la Chiesa. Deve essere stato intorno al mio ventunesimo e ventiduesimo compleanno. Quello che mi ricordo è che è finita non con un lamento, ma con un atto di sfida, simile all’esperienza del personaggio Irene Bustamante nel mio romanzo A Daughter’s a Daughter”. Ibidem, 139. 294 “Una premessa della mia scrittura è che ognuno di noi porta dentro di sé la storia – alcune sue parti come geni recessivi – che rendono il cambiamento lento e difficoltoso. Siamo tutti in un certo senso reliquie viventi di storia, e portiamo in noi i segni delle generazioni passate, che lo sappiamo o no. Portiamo in noi atteggiamenti, cicatrici, dolori e il desiderio di vendetta che può richiedere generazioni per disperdersi”. Candelaria, “Literature About Nineteenth-Century Chicanos”, 36. 295 “Una straniera senza una famiglia, una patria e un passato”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 284. 254 come unico rimedio al doloroso ricordo del figlio ucciso in un attentato e ai rifiuti subiti dal padre, dalla zia e dal suo amato. Il suo silenzio impenetrabile le impedisce di istaurare una relazione con la figlia che cresce all’ombra del fratello Peter (figlio prediletto di Margarita) e negli anni diventa distaccata, sentendosi ingiustamente deprivata della propria memoria familiare e culturale – “orphaned, betrayed, emotionally abandoned” – come se ci fosse “an ocean between them”296. Di fatto, con questa metafora acquea si rievoca una lacerazione più profonda: quella tra due mondi (il passato di Cuba e il presente degli Stati Uniti) e quella interiore vissuta nella diaspora da generazioni e generazioni di cubani che convivono con un profondo senso di sradicamento e privazione, per l’impossibilità di metter piede sull’isola e di ritrovare la proprie origini simboliche. La frammentazione interiore di Lilly e l’oblio che minaccia di inghiottire le sue radici etniche, la spingono dunque ad andare oltre il velo di silenzio di Margarita, ricercando un legame con il passato della propria famiglia nel diario appartenuto alla nonna, prima, e alla mamma, poi. Fin dai primi istanti in cui contempla le affascinanti foto in bianco e nero, le incomprensibili memorie in spagnolo e gli indecifrabili ritagli di giornale contenuti al suo interno, Lilly sente istintivamente il riattivarsi di quella memoria che le era stata negata e che aveva già iniziato a prender forma nel suo inconscio. Durante il sonno, infatti, i volti, i paesaggi esotici e le oscure parole che osserva di giorno nel diario si ricompongono in un misterioso “mosaic of dreams”297 che la ragazza cerca invano di interpretare, fino al momento in cui capisce che solo attraverso 296 297 “Orfana, tradita ed emotivamente abbandonata”, “un oceano tra di loro”. Ibidem, 366, 340. “Mosaico di sogni”. Ibidem, 327. 255 l’immaginazione avrebbe potuto decodificare l’indecifrabile palinsesto del suo passato. Ricorrendo a quella che O’Reilly Herrera definisce “reconstructive imagination” 298 , Lilly inizia dunque a ricrearsi una propria memoria culturale, mescolando la storia di Cuba con i frammenti visibili e invisibili del vissuto dei propri antenati, fino al punto da riscrivere di proprio pugno la storia della famiglia. Lilly inizia infatti ad annotare i suoi sogni notturni e i suoi pensieri più intimi sul diario, confessando anche alla madre il desiderio di diventare una scrittrice: Mother, I’ve never told you this before, but when I grow up I want to be a writer. Maybe you’ll think I’m crazy but ever since I found this notebook I’ve had the strangest dreams (this already reads like something out of an amateur novel, doesn’t it?).299 Redigendo un proprio diario sullo stesso notebook appartenuto a Rosa e Margarita, la ragazza si ricongiunge simbolicamente con le esperienze sommerse delle sue antenate, ristabilendo con loro un legame ancestrale e terapeutico, tutto al femminile, che ricuce il suo senso di perdita e le fa superare l’incomunicabilità che la separa dalla madre. Di fatto, nell’ultima delle visioni che Lilly trascrive, la ragazza entra nella tenuta di Cienfuegos tenendo per mano Margarita. Lilly riesce quindi a dar corpo alla “living presence” 300 di un passato doloroso che non può essere seppellito o ridotto al silenzio e rivendica anzi un suo spazio nel presente, attraverso le voci dei suoi antenati: “I feel as though the voices of my ancestors have begun to speak through me, Mommy, to push this 298 “Immaginazione ricostruttiva”. O’Reilly Herrera, “The Politics of Mis-Remembering”, 185. “Mamma, non te l’ho mai raccontato prima, ma quando sarò grande voglio essere una scrittrice. Forse penserai che sono pazza ma da quando ho trovato questo taccuino ho avuto i sogni più strani (questo sembra già uscito da un romanzo amatoriale, non è vero?)”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 329. 300 “Presenza vivente”. Ibidem, 336. 299 256 pen across the page, only because their voice cannot be silenced forever” 301. La ragazza da voce non solo alle proprie inquietudini identitarie ma anche ai traumi della madre e al passato denso di sofferenze della propria famiglia che traduce, reinterpreta e armonizza nel processo di scrittura dell’intero romanzo, di cui intuiamo – proprio nell’ultima pagina – lei stessa è stata la narratrice. L’opera si configura dunque, retrospettivamente, come ricostruzione simbolica di “homes away from home” 302 , secondo l’impulso ancestrale delle comunità diasporiche a contrastare il proprio senso di sradicamento restaurando una “imaginary coherence on the experience of dispersal and fragmentation”303 attraverso un’opera d’arte. Il recupero del passato rappresenta infatti una strategia di sopravvivenza per ostacolare “the natural process of forgetting, assimilating, and/or distancing”304, ricostruendo quella continuità genealogica e culturale sulla quale poter forgiare una nuova identità nel presente. Poiché a Lilly viene negato il contatto, sia fisico sia psichico, con Cuba, la ragazza non può che ricostruirlo all’interno del romanzo, nell’interstizio tra storia, sogno e immaginazione, attraverso un’operazione che O’Reilly Herrera definisce “ReMembering”, ad indicare “the multiple ways in which a ruptured and scattered nation, and consequently Cuban Identity, can be reassembled”305. 301 “Sento che le voci dei miei antenati hanno cominciato a parlare attraverso di me, mamma, spingendo questa penna sulla pagina, solo perché la loro voce non può essere messa a tacere per sempre”. Ibidem, 337. 302 “Case, lontano da casa”. James Clifford, “Diasporas” (Cultural Anthropology 9.3, 1994): 302. 303 “Coerenza immaginaria sull’esperienza di dispersione e frammentazione”. Stuart Hall, “Cultural Identity and Diaspora”. Theorizing Diaspora: A Reader. Eds. Evans Braziel, Jana e Anita Mannur (Malden, MA: Blackwell, 2003) 226. 304 “Il processo naturale di perdita del ricordo, assimilazione e/o allontanamento”. Clifford, “Diasporas”, 255. 305 “I molteplici modi in cui una nazione frammentata e sparpagliata, e di conseguenza un’identità cubana, può essere riassemblata”. O’Reilly Herrera , The Politics of Mis-ReMembering, 188. 257 Nell’ottica allargata dei cubani della diaspora di cui l’autrice si fa portavoce, l’isola rappresenta infatti una patria in viaggio e immaginata 306 che rivive nella casa simbolica della memoria e viene tramandata di generazione in generazione, ben oltre i suoi confini geografici: I dwell in this house of memory – caught eternally in the indigo twilight between history and dreams. […] I inherited a world built upon the shifting sands of nostalgia – a phantom world without scapulars and monuments – without ruins and sacred stones. In the frame of such oblivion, there are those who seek refuge in shadows. Others attempt to wrest immortality from the Janus-like embrace of history and memory. […] Burdened and blessed by this history – these dreams and visions that I have somehow received – I write and record with the knowledge that the shadows we cast into the future are only as long as our memories. And thus, in some uncanny act of discursive midwifery, I beg to defy oblivion and thereby re-member a place that I have seen without seeing – an impossibly palpable world that has all but ceased to exist except in memory and, perhaps, imagination. 307 Proprio come Lilly, dunque, la stessa autrice ricorre alla scrittura (creativa e accademica) per erigere monumenti simbolici di Cuba anche negli Stati Uniti, sollevando l’isola dalle sabbie mobili della nostalgia e trasformandola in un “prismatic site of rupture, displacement, and continuity”308. Anche il percorso identitario di Santos in Family Installments inizia dalla ricostruzione del passato della propria famiglia che avviene nei primi due capitoli, prima ancora dell’apparizione del protagonista. Il narratore rielabora infatti la storia dei propri antenati nel villaggio di Bautabarro, mescolando i ricordi dei genitori, le leggende di paese e gli aneddoti tipici della tradizione orale e 306 O’Reilly Herrera la definisce “traveling nation”. Ibidem, 184. “Io abito in questa casa della memoria – eternamente imbrigliata nel crepuscolo blu indaco tra storia e sogni. [...] Ho ereditato un mondo costruito sulle sabbie mobili della nostalgia – un mondo fantasma senza scapolari e monumenti – senza rovine e pietre sacre. Nella cornice di tale oblio, vi sono coloro che cercano rifugio nelle ombre. Altri tentano di strappare l’immortalità dall’abbraccio bifronte di storia e di memoria. [...] Oppressa e benedetta da questa storia – questi sogni e visioni che ho ricevuto in qualche modo – scrivo e registro con la consapevolezza che le ombre che proiettiamo sul futuro sono lunghe solo quanto i nostri ricordi. E così, in un atto straordinario di ostetricia discorsiva, mi permetto di sfidare l’oblio e, quindi, di ricordare un luogo che ho visto senza vedere – un mondo incredibilmente palpabile che non ha cessato di esistere nella memoria e, forse, nell’immaginazione”. Ibidem, 176. 308 “Luogo prismatico di rottura, dislocamento e continuità”. Ibidem. 307 258 dimostrando in questo modo che “the most fundamental scene of all narrative is oral storytelling”309. Il racconto orale è infatti l’anello di congiunzione tra memoria e narrazione, poiché in esso si mettono in atto gli stessi processi di selezione, strutturazione e amplificazione degli eventi che caratterizzano sia il ricordo sia la narrativa: “oral narratives […] cognitively correlate with perceptual parameters of human experience and […] these parameters remain in force even in more sophisticated written narratives”310. L’intero romanzo viene quindi costruito sulla sottile interazione tra passato e presente, nel contesto socioculturale specifico di Porto Rico e degli Stati Uniti ma sfruttando le potenzialità creative che scaturiscono dalla combinazione di “reproductive memory and productive imagination”311 di Santos. Eppure, quello che in apparenza è un romanzo di formazione incentrato sulla crescita di una soggettività, inizia proprio in sua assenza, anteponendo all’“I” di Santos (che farà la sua comparsa solo nel terzo capitolo) la dimensione collettiva e orale tipica della cultura ispanica tradizionale. Con la sua strategia, Rivera sembra rivelare fin da subito il peso delle radici etniche sul percorso di autoformazione di Santos, anticipando in questo modo che “his identity is partially communal, not solely conceived as some autonomous bourgeois self”312. Di fatto, solo dopo aver ricostruito il passato dei propri avi, segnato in particolare 309 “Lo scenario fondamentale di ogni narrativa è il racconto orale”. Erll, “Narratology and Cultural Memory Studies”, 212. 310 “La narrazione orale […] è cognitivamente in correlazione con i parametri percettivi dell’esperienza umana e […] questi parametri rimangono in vigore anche nelle più sofisticate narrazioni scritte”. Fludernik, Towards a ‘Natural’ Narratology, 12. 311 “Memoria riproduttiva e immaginazione produttiva”. Frank K. Stanzel, A Theory of Narrative, Trad. di Charlotte Goedsche (Cambridge: Cambridge University Press, 1986) 215. 312 “La sua identità è in parte comunitaria, non concepita esclusivamente come un io borghese autonomo”. Sánchez, “Hispanic and Anglo-American Discourse in Edward Rivera’s ‘Family Installments’”, 855. 259 dai due modelli antitetici di papà Santos (con la sua perseveranza, la generosità, la dedizione, lo spirito di sacrificio e il forte attaccamento alla terra) e di Gigante (con la sua crudeltà, la misoginia, il bigottismo e gli abusi), il protagonista inizia il racconto del suo percorso di acculturazione negli Stati Uniti. Una volta arrivato a New York, Santos si immerge in un “terzo spazio”, in una zona liminale in cui si sente costantemente escluso e marginale sia nella cultura dominante anglosassone (rafforzato dalle istituzioni scolastiche e religiose), sia in quella degli immigrati ispanici o afro-americani (che monopolizzano la strada). Due episodi, in particolare, fanno emergere il suo senso di inadeguatezza nei confronti di entrambi i gruppi. Da un lato, la scena in cui viene spinto in una pozza di letame dalla banda afroamericana di Central Park che lo scambia per un Anglo, visto il suo inglese impeccabile e il suo incarnato pallido. Ironia della sorte, Santos viene salvato proprio dall’amico Panna, portoricano nero e con un forte accento ispanico. Dall’altro lato, il passo in cui durante una delle sue passeggiate notturne viene fermato e perquisito in malo modo dalla polizia che lo scambia per un malintenzionato confondendo la sua penna per un’arma impropria. Il suo profondo disagio viene corroborato anche dalle esperienze del padre, sul quale rivede perpetuarsi ingiustizie e soprusi legati alla propria umile estrazione sociale, alle origini etniche e alle insicurezze con l’inglese, che gli si riversano addosso in tutte quelle occasioni (sul lavoro, in banca, etc.) in cui il suo cognome spagnolo viene mal pronunciato dai madrelingue inglese (“Mr. Malanguéss”, “Mr. Malánguish”313). Santos dedica ampio spazio ai racconti del padre 313 Rivera, Family Installments, 180, 186. 260 Gerán sulle umiliazioni subite nei primi tempi dal suo arrivo e descrive ripetutamente anche i malumori che si respiravano in famiglia per le costanti difficoltà economiche. A controbilanciare le durezze vissute in casa e sulla strada Santos ha come unico rifugio gli studi e la poesia: palliativo solo apparente poiché ogni volta che chiude la sua amata antologia, le sue frustrazioni e la disparità tra Lettere e vita reale gli appaiono ancora più pungenti. Quando alla fine del romanzo, tornato a Porto Rico per la morte del padre, crede di poter trovare una risposta al suo senso di inadeguatezza culturale visitando la sua terra natale, scopre che l’isola ha subito una profonda metamorfosi ed è ben lontana dalla dimensione rurale in cui l’aveva lasciata. La tomba del nonno Xavier (poeta e “frustrated troubadour” 314 morto suicida) per il quale sente una particolare affinità, è stata invece inghiottita dalla vegetazione incolta della collina dove erano seppelliti tutti i suoi antenati. Le sue radici etniche dunque non sono più neanche a Porto Rico, o meglio, si sono evolute e trasformate, generando nuova vita come le ceneri dei suoi avi. Prendendo in prestito le parole di O’Reilly Herrera, Santos capisce che “You are rooted nowhere and everywhere”315. La sua esperienza, quindi, non è riconducibile a nessuno dei due poli culturali (né anglo-americano né portoricano) ma li ingloba e li reinventa entrambi iscrivendoli in uno spazio liminale e mutevole che ha comunque il potere di ricreare un continuum tra passato e presente 316 . Attraversando continuamente 314 “Trovatore frustrato”. Ibidem, 298. “Le tue radici non sono in nessun posto e sono dappertutto”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 316 Bhabha lo definisce “contingent ‘in between’ space, which is on a continuum with the past and the present / spazio liminale e contingente, in continuità con il passato e il presente”. Bhabha, The Location of Culture (London: Routledge, 1994), 7, 225. 315 261 confini linguistici e culturali Santos può mediare spinte contrastanti e mettere in atto “politics of freedom and resistance”317, portando alla luce tutta la creatività e la forza dirompente che scaturisce dalla trasgressione di un limite, così come evidenziato da Foucault: transgression […] is like a flash of lightning in the night which gives a dense and black intensity to the night it denies, which lights up the night from the inside, from top to bottom, and yet owes to the dark the stark clarity of its manifestation.318 Inoltre, pur sapendo che l’opera non è un romanzo autobiografico, viste le forti analogie con la vita reale dell’autore, il lettore è comunque indotto (più che negli altri due romanzi) a vedere dietro al percorso di Santos quello di Rivera, per il quale possiamo ipotizzare un analogo percorso identitario, collocando quindi il suo romanzo nel “realm of the ‘undecidable’” 319 tra narrativa e mémoir. Quest’ambiguità rimane ancora oggi aperta poiché Rivera non ha lasciato altri scritti sulla sua concezione della letteratura o sul suo rapporto con la propria comunità d’origine. Saranno dunque i lettori di Family Installments a rielaborare creativamente il percorso identitario, forse incompiuto, dell’autore. Infine, il processo di ricostruzione di una propria identità etnica e genealogica da parte dei protagonisti più giovani dei tre romanzi, fa si che ciascuno di essi ricrei quella che Jan Assmann definisce “mnemohistory”320 della propria famiglia, incentrata sulla continua interazione tra memoria, immaginazione e storia. Lo studioso tedesco allarga infatti i confini della storiografia ufficiale per integrarla con la tradizione orale, i ricordi tramandati 317 “Politiche di libertà e resistenza”. Flores, From Bomba to Hip Hop, 55. “La trasgressione […] è come un lampo nella note che dà un’intensità densa e nera alla notte che nega, che illumina la notte dal suo interno, da cima a fondo e, tuttavia, deve al buio la netta chiarezza della sua manifestazione”. Foucault, Language, Counter-Memory, Practice, 34. 319 “Reame dell’‘indecidibile’”. Paul De Man, “Autobiography as De-facement” (MLN Comparative Literature, 94. 5, 1979): 921. 320 “Mnemostoria”. Assmann, Moses the Egyptian, 9. 318 262 all’interno delle famiglie, il ruolo delle fotografie o dei diari privati, delle opere d’arte, della musica o delle produzioni letterarie emblematiche di una generazione, fino a comprendere tutto quel “repertoir”321 di conoscenza implicita, che rivive quotidianamente nella memoria culturale di ogni individuo ed è invece assente dagli archivi storici ufficiali. A partire da una visione sinergica di passato e presente in cui il primo proietta costantemente la sua ombra sui posteri, mentre il secondo ricostruisce e reinventa ininterrottamente ciò che è stato, la memoria individuale e collettiva non può essere concepita come un deposito statico ma come un flusso incessante in cui eventi, manifestazioni artistiche e ricordi vengono costantemente mescolati dalla reconstructive imagination di ognuno. Il processo messo in atto dai personaggi dei tre romanzi, dunque, non fa che richiamare uno dei principi fondanti del pensiero di Assman. Se è vero che “[w]e are what we remember”322 possiamo dunque anche affermare che le verità storiche, pur mutevoli e in perenne evoluzione, acquisiscono un senso proprio nelle identità che forgiano, di volta in volta: the truth of memory lies in the identity that it shapes. This truth is subject to time so that it changes with every new identity and every new present. It lies in the story, not as it happened but as it lives on and unfolds in the collective memory. If “We Are What We Remember”, we are the stories that we are able to tell about ourselves.323 321 “Repertorio”. Diana Taylor, The Archive and the Repertoir: Performing Cultural Memory in the Americas (Durham, NC: Duke University Press, 2003). 322 “Siamo ciò che ricordiamo”. È la tesi del neuropsichiatra premio nobel Eric R. Kandel, secondo il quale dalla memoria e dall’apprendimento deriva la nostra capacità di sviluppare nuove idee, condizionando anche il modo in cui concepiamo noi stessi, il mondo e la civiltà. Kandel ha illustrato la sua teoria anche nella conferenza alla Royal Society tenutasi il 22 aprile 2008 e disponibile sul web. Eric R. Kandel, “We Are What We Remember: Memory and the Biological Basis of Individuality”, Public Lecture at the Royal Society < http://royalsociety.tv/rsPlayer.aspx?presentationid=287>. Data di accesso, 26 gennaio 2013. 323 “La verità della memoria risiede nell’identità che modella. Questa verità è condizionata dal tempo, quindi cambia a ogni nuova identità e a ogni nuovo presente. Si trova nella storia, non come è accaduta, ma come rivive e si dispiega nella memoria collettiva. Se ‘siamo ciò che 263 In questo magma fluido di ricostruzione della propria storia e della propria posizione genealogica e generazionale, ricoprono un ruolo fondamentale i diari, i cimeli di famiglia, le foto o le opere d’arte che sono determinanti anche all’interno dei tre romanzi. In The Pearl of the Antilles ad essere tramandato di donna in donna fino al presente, non è solo il diario di Rosa ma anche la sua valigia e il suo porta cipria dai quali Margarita non vorrà più separarsi: Over the years […] Margarita would sneak back into the room and confiscate her mother’s belongings, including the green Morocco notebook and the compact, both of which she eventually carried with her to Havana and then to the States in Rosa’s old valise (271); Margarita could not bring herself to leave behind the photographs or her mother’s few belongings, and so she packed them in Rosa’s valise once again. When she stepped onto the plane that would take her to Atlanta (285). 324 Quando Lilly entra in contatto con questi cimeli, quel passato a cui non aveva mai avuto accesso sembra riprendere improvvisamente vita, proiettandosi su di lei. Lo dimostra la scena in cui, mentre la ragazza fa roteare il portacipria fra le dita, due misteriosi occhi verdi si materializzano sullo specchietto al posto dei suoi, permettendole un’identificazione simbolica con la nonna mai conosciuta: At first she saw only her own reflection, but as she tilted the mirror from side to side, a pair of eyes that were not her own suddenly gazed out at her – then the bridge of a nose and then the curve of a mouth came into view. […] Startled at the sight of the unblinking green eyes that flashed up at her in the mirror, she dropped the compact on the floor. […] Lilly guessed by the obvious age of the woman in the daguerreotype that she was probably her great-grandmother.325 ricordiamo’, siamo le storie che riusciamo a raccontare di noi stessi”. Assmann, Moses the Egyptian, 14. 324 “Negli anni [...] Margarita si intrufolava nella stanza, confiscando gli effetti personali di sua madre, trai quali il taccuino verde di pelle marocchina e il portacipria, che alla fine portò con sé a L’Avana e poi negli Stati Uniti, nella vecchia valigia di Rosa (271)”; “Margarita non riusciva a lasciarsi alle spalle le fotografie o i pochi effetti personali di sua madre e, così, li mise ancora una volta in valigia. Quando salì sull’aereo che l’avrebbe portata ad Atlanta (285)”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. 325 “In un primo momento vide solo la sua immagine riflessa, ma inclinando lo specchio da un lato all’altro, un paio di occhi che non erano i suoi, improvvisamente la fissarono – poi il ponte di un naso e poi la curva di una bocca. […] Spaventata alla vista di quegli impassibili occhi verdi sullo specchio che si proiettavano su di lei, lasciò cadere il porta cipria sul pavimento. […] Lilly 264 Questo processo di identificazione ricorda da vicino la sovrapposizione degli sguardi tra Sor Juana e Irene che, dopo la conversazione immaginaria con la santa, rivede il suo stesso volto nell’affresco “The Last Supper of Chicano Heroes”. O ancora, l’episodio sembra richiamare la riabilitazione che Santos fa del nonno morto suicida e considerato dai suoi avi come la vergogna di famiglia. Quando si ritrova in piedi sul cumulo di terra ed erbacce che coprono la sua tomba, Santos non può fare a meno di riscattare la sua memoria ricordando gli aspetti più onorevoli della sua esistenza, in cui egli stesso – con la sua passione per le Lettere – sembra identificarsi: “he had also been some kind of poet, the plus sides of him; […] and a teacher, doing his best to spread the literacy around”326. Il diario, il portacipria, l’affresco o la tomba fungono quindi da “testimonial objects that carry memory traces from the past and embody the process of its transmission”327. Essi hanno infatti un forte “valore di legame”328 e sono intrisi di un molteplice hau329 ovvero dello spirito degli antenati, ma anche di una memoria collettiva, di un nucleo vivo di esperienze, lingue e immagini del popolo messico-americano, cubano e portoricano che le generazioni più giovani dovranno custodire e reinventare. Si tratta quindi di oggetti che esprimono l’identità dei proprietari e di un’intera comunità, entrambe tormentate da eventi dolorosi e nefasti che sembrano ricercare, proprio attraverso Irene, Lilly e Santos, suppose, dalla chiara età della donna nel dagherrotipo, che potesse essere la sua bisnonna”. Ibidem, 327. 326 “Era stato anche una sorta di poeta, i suoi lati positivi; […] e un insegnate, che faceva del suo meglio per diffondere l’istruzione”. Rivera, Family Installments, 298. 327 “Oggetti testimoniali che portano con sé tracce della memoria del passato e incarnano il processo della sua trasmissione”. Marianne Hirsch e Leo Spitzer, “Testimonial Objects: Memory, Gender and Transmission” (Poetics Today 27.2, 2006): 353–383. 328 Jacques Godbout, Lo spirito del dono (Bollati Boringhieri: Torino, 1993) 215-225. 329 Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forme e teorie dello scambio nelle società arcaiche (Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002) 17. 265 un significato per ciò che altrimenti rimarrebbe “una sequenza intollerabile di eventi” 330 per dirla con Hannah Arendt. Gli autori stessi sembrano concepire i tre romanzi come contro-dono emblematico dell’eredità culturale giunta a loro dai propri antenati. Per mezzo della scrittura, essi la rimettono in circolo e la legittimano nel quadro organico e dialogico della “mnemostoria”. Le loro opere racchiudono infatti depositi emblematici di genealogie e voci dal passato, che vengono mescolate al ricordo, rielaborate dall’immaginazione e immerse nel tessuto plurisecolare della storia. Non a caso, dopo il successo dei suoi romanzi storici, la carriera di Candelaria culmina con la pubblicazione del suo mémoir, interamente dedicato al percorso di auto-definizione dell’autore e della propria comunità; mentre O’Reilly Herrera trae ispirazione per la scrittura di The Pearl of the Antilles dal diario realmente esistente dalla nonna irlandese e, attraverso l’intero romanzo, sublima il desiderio irrealizzato della donna di diventare una scrittrice: As for the notebook, there is a real one, though I’m not quite sure where it is. It is in green Morocco leather and it belonged to my Irish grandmother, who died in childbirth at a very young age. I never had the chance to meet her, nevertheless she comes into my dreams quite frequently and my father always said that I reminded him of her. My grandmother kept the notebook like a journal and filled it with sketches and poems she had clipped from the newspaper. When I was younger, I always loved to look at it. My father said that she dreamed of being a writer, but was so busy caring for the children that she rarely had time for herself. My grandparents were extremely poor. They left Ireland (separately) because there were no economic prospects there and, then, ended up getting caught up in the Great Depression in the U.S. They actually met in Philadelphia and were so poor that they could never afford to return to Ireland again so, like my Cuban family, they were in a kind of exile in the U.S. and never saw their families again.331 330 Hannah Arendt, “Isak Diesen: 1885-1962” (Aut aut 239-240, 1990) 169. “Per quanto riguarda il taccuino ne esiste uno vero, sebbene non sia totalmente sicura di dove si trovi. È verde e in pelle marocchina e apparteneva alla mia bisnonna irlandese che morì di parto molto giovane. Non ho mai avuto l’occasione di incontrarla, ma mi appare spesso in sogno e mio padre mi ha sempre detto che io gli ricordo lei. Mia nonna teneva il taccuino come un diario e lo riempiva con disegni e poesie che ritagliava dal giornale. Fin da quando ero piccola mi è sempre piaciuto guardarlo. Mio padre mi ha detto che lei sognava di essere una scrittrice, ma era così 331 266 La nonna irlandese (da cui eredita la vocazione di scrittrice), quella cubana (da cui trae ispirazione per l’acquarello e per la scrittura del romanzo), insieme a tutte le antenate di O’Reilly Herrera, rivivono dunque nella sua esperienza di “Inhabited woman” 332 . È così infatti che l’autrice si definisce nella poesia omonima in cui rende omaggio alle tre generazioni di donne che hanno contribuito a forgiare la sua personalità, attraverso un gioco di parole sofisticato e intraducibile: “three women reside within me / grandmothergreatgrandmothermother”. Quasi fosse un dono simbolico, dunque, la consapevolezza delle proprie radici etniche permette agli autori di ristabilire un contatto con un’identità ulteriore e originale ma è anche, “più radicalmente la soglia d’accesso a un codice di reinterpretazione della realtà […], è sempre una promessa, ossia l’apertura di un senso che abita il futuro e alla cui luce possiamo rileggere il reale” 333 . La rilettura del presente a cui allude Mancini fa da raccordo con la seconda dimensione del percorso identitario dei protagonisti, quella sincronica che richiama la loro posizione generazionale, nella contemporaneità. occupata a prendersi cura dei bambini che aveva a malapena tempo per se stessa. I miei nonni erano estremamente poveri. Hanno lasciato l’Irlanda (separatamente) perché non c’erano prospettive economiche lì e, poi, sono stati investiti dalla Grande Depressione qui negli Stati Uniti. Difatti si sono incontrati a Philadelphia ed erano così poveri che non si sono mai potuti permettere di tornare in Irlanda; quindi, come la mia famiglia cubana, erano in una sorta di esilio negli Stati Uniti e non hanno più rivisto le loro famiglie”. Questa testimonianza diretta proviene da uno scambio di email che ho avuto con la scrittrice. Andrea O’Reilly Herrera, “Email a Mara Salvucci del 24 marzo 2012”. Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’Reilly Herrera e Edward Rivera. Mara Salvucci. Tesi di Dottorato. Università di Macerata. Capitolo 4. 332 “Donna abitata”. Andrea O’Reilly Herrera, “Inhabited Woman”, Remembering Cuba, 151. 333 Roberto Mancini, “Il dono dell’origine”, Il codice del dono: verità e gratuità nelle ontologie del novecento, Ed. Giovanni Ferretti (Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2003) 202-203. 267 4.7 La post-memoria: tra genealogia e generazioni I protagonisti più giovani dei tre romanzi appartengono a quella che Marianne Hirsch ha definito “generation of postmemory”334, per indicare coloro che ereditano il peso di una dramma, di una perdita o di esperienze dolorose che precedono la loro nascita ma sono così potenti e significative da costituire ricordi a tutti gli effetti, pur non avendole vissute in prima persona. Dal tessuto narrativo dei tre romanzi emergono infatti numerosi traumi del passato: come la perdita del figlio per Margarita o le ferite aperte dalla rivoluzione del ‘59 in The Pearl of the Antilles; la vergogna del nonno suicida, la miseria o le umiliazioni subite in quanto immigrati in Family Installments; gli abusi inflitti a Liberata dal marito o la mutilazione del padre di Irene in A Daughter’s a Daughter. La trasmissione intergenerazionale di questi episodi dolorosi avviene in primis nello spazio della famiglia, anche attraverso la lingua del corpo fatta di “nonverbal and non-cognitive acts of transfer, […] often in the form of symptoms” 335 come sospiri, pianti, incubi, discussioni, malumori o silenzi che instillano nelle generazioni più giovani la gravità di un “horrific, unknown, and unknowable past” 336 . Basti pensare alla frustrazione di Lilly di fronte all’incomunicabilità che la separa dalla madre; agli interrogativi costanti di Santos sulle liti tra i genitori; o al desiderio di Irene di scavare più a fondo nei reiterati flashbacks della nonna. Questi comportamenti – apparentemente inspiegabili – dimostrerebbero come, anche inconsapevolmente, 334 le persone possano “Generazione della post-memoria”. Marianne Hirsch, “The Generation of Postmemory” (Poetics Today 29.1 Spring 2008): 103. 335 “Atti non verbali e non-cognitivi di trasferimento, […] spesso sotto forma di sintomi”. Ibidem, 112. 336 “Passato orribile, sconosciuto e inconoscibile” . Ibidem. 268 “sanguinare” di storia, come reclama il sottotitolo del romanzo illustrato di Art Spiegelman, “Maus I: A Surivor’s Tale. My Father Bleeds History”337. Le generazioni più giovani sentono dunque l’urgenza di capire e dare un senso a quelle tracce di passato che rivivono nei predecessori, rielaborandole attraverso un “imaginative investment, projection, and creation”338 che porta alla luce traumi indicibili e fornisce loro, allo stesso tempo, strumenti per ridefinire la propria identità nel presente. Da questo deriverebbe il bisogno di Lilly di penetrare nel silenzio della madre, reinventando il passato della propria famiglia, a partire dal diario; o lo slancio di Irene a risolvere l’enigma dell’identità dello scheletro, dando così una spiegazione al dramma inenarrabile della nonna; o ancora la spinta di Santos a ricostruire la quotidianità fatta di miseria e vessazioni dei propri antenati, prima, e del padre, poi, sui quali si innesta anche il proprio senso di inadeguatezza. Si tratta, in tutti e tre i casi, di un “post-memorial work”339 inevitabilmente influenzato dall’immaginario collettivo e dall’epoca in cui è immersa la persona che lo mette in atto, chiamata a mediare tra conservazione della memoria e rinnovamento culturale, lingua degli antenati e lingua della contemporaneità, continuità delle tradizioni e aspirazioni personali. Ecco perché i continui scontri tra padri e figli all’interno dei romanzi avvengono sempre all’incrocio tra la posizione genealogica e quella generazionale, ovvero nei momenti in cui i protagonisti sono chiamati a riconciliare l’eredità culturale della propria famiglia con l’ethos della generazione di cui fanno parte nel presente. Dopo aver messo in 337 Art Spiegelman, Maus: a Survivor’s Tale. My Father Bleeds History (New York: Pantheon Books, 1986). Questo esempio viene citato da Hirsch in “The Generation of Postmemory”, 112. 338 “Un investimento, una proiezione e una creazione immaginativa”. Ibidem, 107. 339 “Lavoro di post-memoria”. Ibidem, 103. 269 discussione entrambi i versanti, demistificando prima i valori del passato e successivamente i cardini della cultura dominante (in particolare istruzione e religione), i protagonisti arrivano ad accettare il carattere ibrido, instabile ed eterogeneo della propria identità culturale proprio attraverso il filtro della memoria. Gli autori stessi attraverso i tre romanzi, sembrano portare avanti una complessa operazione di post-memoria, ricreando un “intergenerational memorial fabric” 340 su cui innestare non solo la propria identità individuale, ma anche, potenzialmente, quella di un’intera generazione di coetanei e contemporanei. Le loro narrazioni hanno infatti il potere di “reactivate and reembody more distant social/national and archival/cultural memorial structures by reinvesting them with resonant individual and familial forms of mediation and aesthetic expression”341, permettendo anche a chi non ha partecipato (né direttamente, né indirettamente) a quel passato, di coglierne il significato e di esservi coinvolto, oltre i confini di appartenenza nazionale e anche a distanza di secoli. Rispetto agli archivi pubblici o alla storiografia ufficiale, le strutture di mediazione e rappresentazione del passato elaborate in ambito famigliare (come i romanzi genealogici o le foto d’epoca) hanno infatti il potere di costruire una rete di trasmissione organica e condivisa del passato, in cui non solo i membri di una famiglia ma tutti coloro che vi siano interessati, possono riconoscersi. Di fatto, quella che si ricrea è la sovrapposizione di “familial” e “affiliative 340 “Tessuto intergenerazionale di memoria”. Ibidem, 110. “Riattivare e reincarnare strutture di memoria sociale/nazionale e archivistica/culturale più lontane, reinvestendole con forme individuali e famigliari risonanti di mediazione ed espressione estetica”. Ibidem, 111. Per la classificazione delle tipologie di memoria Hirsch fa riferimento alle categorie introdotte da Jan e Aleida Assmann e descritte a pagina 110 e 111 del suo saggio. 341 270 postmemory”342 in cui l’identificazione intergenerazionale e verticale tra genitori e figli all’interno di un nucleo familiare, facilita anche l’identificazione intragenerazionale e orizzontale che rende la posizione dei figli più ampiamente accessibile agli altri contemporanei. Questo spiegherebbe quindi “the pervasiveness of family pictures and family narratives as artistic media in the aftermath of trauma” 343 ma anche l’enorme diffusione di romanzi multigenerazionali in comunità che temono lo sfaldamento della propria identità culturale o che sentono la propria memoria minacciata dall’oblio. La narrativa rappresenta infatti il perno del processo di consolidamento di un’identità individuale o collettiva, ricostruita attraverso atti di memoria che acquisiscono organicità all’interno di una trama, dando vita a miti o “founding stories”344 dal valore normativo (forgiano un’identità e ci rivelano da dove veniamo) e formativo (consolidano un’etica e forniscono un orientamento futuro). I romanzi multigenerazionali fungono quindi da “portable monuments”345 e confermano la capacità della letteratura di costruire la memoria e di osservarla allo stesso tempo, dandole un ordine e un senso compiuto, destinato però a mutare nel tempo. Così come la memoria culturale di un popolo evolve e il suo passato viene costantemente riscritto, anche gli schemi narrativi utilizzati per legittimarlo subiscono una costante trasformazione, sul piano sia della forma sia del contenuto. La trama, l’intreccio, le anisocronie, la voce, etc. rappresentano infatti il 342 “Postmemoria familiare e affiliativa”. Ibidem, 114. “La diffusione delle foto di famiglia e delle narrazioni di famiglia come espressioni artistiche, in seguito a un trauma”. Ibidem, 115. 344 “Storie fondanti”. Erll, “Narratology and Cultural Memory Studies”, 223. 345 “Monumenti portatili”. Ann Rigney, “Portable Monuments: Literature, Cultural Memory and the Case of Jeanie Deans» (Poetics Today 25.2, 2004): 361-396. 343 271 paradigma della triade memoria/narrativa/identità e detengono, per questo, un duplice potere: quello di “preform experience as well as reshape memory”346. Di fatto, questi espedienti narrativi sono il frutto dei contesti socio-culturali in cui vengono prodotti ma possono anche influenzarli a loro volta sotto forma di “fenomeni transmediali” ovvero tropi e forme ricorrenti di una determinata epoca storica che circolano attraverso diversi canali e media, in un complesso gioco di rimandi tra arti (dal teatro alla poesia, dalla pittura alla fotografia, dal fumetto alla musica, etc.). Come esempi della transizione transmediale degli schemi narrativi di costruzione di un’identità, Astrid Erll cita la diffusione del monologo interiore in concomitanza con le teorie della memoria di Freud o Bergson; o gli studi dello psicologo sociale Harald Welzer che, intervistando alcuni veterani della Seconda guerra mondiale, ha rilevato come alcuni degli episodi raccontati dagli ex-soldati assomigliassero a scene di famosi film di guerra dell’epoca, che avevano influenzato inconsciamente gli schemi della loro memoria autobiografica. È dunque a questo processo trasversale di “remediation”347 della narrativa multigenerazionale che potremo ricondurre la “‘linguistically visual’ or ‘painterly quality’” 348 dell’opera di O’Reilly Herrera o, più in generale, il riferimento a opere d’arte, foto e brani musicali all’interno dei tre romanzi. Sempre allo stesso processo possiamo ricondurre anche quella “[t]remendous fascination with genealogy”349, “obsession with ancestry”, o “thirst for tracing lineages”350 con cui 346 “Preformare l’esperienza e anche rimodellare la memoria”. Erll, “Narratology and Cultural Memory Studies”, 224. 347 “Ri-mediazione”. Ibidem, 222. 348 “Carattere ‘linguisticamente visivo’ o ‘pittorico’”. O’Reilly Herrera descrive con queste parole il suo romanzo in Contemporary Authors, 191. 349 “Straordinario interesse per la genealogia”. Zerubavel, Ancestors and Relatives, xi. 272 si è aperto il primo capitolo di questa tesi. Attraverso la narrativa e le ricostruzioni genealogiche, tanto il singolo quanto una comunità, aspira infatti a una comprensione più ampia e condivisa della propria storia, nel continuum dinastico e culturale di cui ci si vuole sentir parte. Nel caso di gruppi etnici minoritari, inoltre, quello che si ricerca è anche il coinvolgimento di un pubblico di lettori allargato ed esterno alla famiglia o alla comunità, abilmente attratto in una zona ibrida e multilingue di mediazione del significato, ricostruita attraverso le “Fictions of authority” prese in esame all’inizio dell’analisi testuale. 4.8 La loca, la mulata, la mestiza e la loro ombra sul presente Nonostante l’intenso lavoro di post-memoria portato avanti dagli autori, i tre romanzi sono puntellati di personaggi inquietanti e misteriosi, che fanno riaffiorare i traumi di un passato ancora più lontano rispetto a quello delle tre generazioni descritte. In Family Installments Josefa la pazza, che lascia escrementi nel cibo e sfoga la sua violenza sui figli adottivi, sembra ribellarsi proprio al ruolo della donna come angelo del focolare, ricordando da vicino altre figure inquietanti della tradizione letteraria femminile. Prima fra tutte Bertha, la creola ricreata dalla penna di Charlotte Brontë in Jane Eyre che nella sua follia e nel suo aspetto ferino sembra materializzare la violenza patriarcale e coloniale inflitta per secoli alle donne. Bertha è infatti vittima dell’avidità della borghesia coloniale inglese, in questo caso di Antigua, che la costringe ad un matrimonio forzato, garanzia di ricchezza e di stabilità economica per il marito, imprigionandola poi in una stanza occulta del palazzo di Thornfield Hall (da cui la 350 “Ossessione per gli antenati”, “sete di delineare la stirpe”. Ibidem, 4. 273 famosa definizione The Madwoman in the Attic351), nel vano tentativo di occultare la sua pazzia, la sua lascivia, la sua brutalità, emblemi sconcertanti del fallimento dell’impresa pedagogica coloniale e della sua missione civilizzatrice. Eppure i tratti animaleschi di Bertha (paragonata ad una “clothed hyena”) e il suo viso gonfio e tumefatto (“that purple face – those bloated features”352), contrastano profondamente con l’affascinante rappresentazione che la narratrice di The Pearl of the Antilles fa di una delle figure più enigmatiche dell’opera di O’Reilly Herrera: Casandra la mulata, amante di Pedro e serva della famiglia, descritta da una prospettiva, in questo caso, indissolubilmente partecipe dell’alterità etnica. Fin dalla scena misteriosa che precede l’inizio della storia apprendiamo infatti che Casandra è destinata a non essere ascoltata (“she should have listened to the mulata after all”; “she had ignored the mulata’s warning”353) esattamente come l’omonima veggente dell’Orestea di Eschilo, da cui l’autrice ha tratto ispirazione per questo personaggio: In The Oresteia, Cassandra is a very important figure as she is the one who is telling the truth, but her curse is that no one can understand her. That’s where her name comes from. In Pearl, Casandra is Pedro’s mistress, which is very common in this historical context.354 351 Sandra M. Gilbert, The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the NineteenthCentury Literary Imagination (London: Yale University Press, 2000). 352 “Iena vestita”, “Quel viso violaceo – quei lineamenti gonfi”, Charlotte Brontë, Jane Eyre (London: Penguin, 1996) 328. 353 “Avrebbe dovuto dare ascolto alla mulata dopo tutto”, “aveva ignorato gli avvertimenti della mulata”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles. s.n. 354 “Nell’Orestea Cassandra è una figura molto importante perché è colei che dice la verità ma la sua maledizione vuole che nessuno la possa capire. Da qui viene il suo nome. In Pearl, Casandra è l’amante di Pedro, cosa molto comune in questo contesto storico”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. Nel romanzo il nome del personaggio viene riportato secondo la grafia spagnola “Casandra”. 274 Nella Part One del romanzo invece, la narratrice la paragona a una “Mayan goddess carved like sacred inscriptions on some ancient stone”355 per la sua bellezza nobile e imponente. Il suo sguardo è talmente penetrante che, quando abusa di lei, Pedro deve coprirle il volto con una zanzariera per non dover fare i conti con quegli occhi capaci di risvegliare in lui un disagio profondo e ancestrale: “the look in her eyes made him feel as though he owed her some age-old debt which he had somehow overlooked or failed to pay […]. It was a look that he could never quench or satisfy”356. Il silenzio a cui viene relegata Casandra durante tutta l’opera sembra richiamare la vergogna e il rifiuto per il meticcio, ma anche le modalità di perpetuazione del dominio maschile e coloniale, rafforzato nei secoli da una “violenza simbolica, violenza dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime, che si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza” 357 . Eppure, il debito inestinguibile che la narratrice fa percepire a Pedro, rappresenta il suo atto di denuncia delle profonde violenze e delle vessazione che il colonialismo, la schiavitù e la società patriarcale hanno inflitto alle donne, segnalando anche la necessità di interrompere le strutture storiche dell’ordine maschile. Nonostante la mulata non prenda mai la parola 358 , è infatti insolente e sfrontata nei confronti di Pedro, cosa che lo irrita enormemente (“Her insolence 355 “Scolpita come una dea maya sulle iscrizioni sacre di qualche pietra antica”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 91. 356 “Lo sguardo nei suoi occhi gli faceva sentire di avere un antico debito nei suoi confronti, che aveva ignorato o non era riuscito a pagare […]. Era uno sguardo che non avrebbe mai potuto estinguere o soddisfare”. Ibidem, 91. 357 Bourdieu, Il dominio maschile, 7, 8. 358 A parte brevissimi intercalari come “¿Ya, Caballero? / Sì, signore?”. O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles, 93. 275 made him flush with anger. Thinking that she ought to be domesticated”359). Con Rosa, invece, la mulata si dimostra solidale e devota, come quando si prodiga per proteggere il corpo della donna e i bambini che aveva dato alla luce, dopo il malore che la porterà alla morte. In occasione della nostra intervista, la stessa autrice mi ha confermato la volontà di non ricadere nel cliché dell’antagonismo tra donne e, nonostante tutti si aspettassero una rivalità tra Rosa e Casandra, O’Reilly Herrera preferisce invece enfatizzarne la solidarietà e l’alleanza simbolica perché, in fondo, entrambe ricoprono il ruolo di vittime: She is a victim of her circumstances; but Rosa is a victim, too, though clearly not in the same way. All the women are victims of a postcolonial, patriarchal system, though race and class divides them.360 L’autrice vuole quindi indagare le modalità di trasmissione dell’eredità culturale tra donne (“I was also interested in taking a look at what women are doing to women”361) e la complessa rete di relazioni che esse instaurano, facendo quindi leva sulla loro capacità di “networking” e su quella forza emotiva e relazionale che le ha portate, nei secoli, ad alimentare proficuamente anche il mondo della cultura ufficiale, senza che il loro ruolo venisse mai riconosciuto362. In A Daughter’s a Daughter questa solidarietà intergenerazionale manca, come dimostrano le difficoltà di Irene a tracciare un proprio cammino al di fuori della “Santa Trinità” della donna (Chiesa, cucina e figli) a cui la madre, nel pieno 359 “La sua insolenza lo faceva infervorare di rabbia. Pensando che dovesse essere addomesticata”. Ibidem, 93. 360 “Lei è una vittima delle circostanze; ma anche Rosa è una vittima, anche se evidentemente non nello stesso modo. Tutte le donne sono vittime di un sistema post-coloniale e patriarcale, anche se la razza e la classe sociale le dividono”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 361 “Ero interessata anche a osservare che cosa fanno le donne alle altre donne”. Ibidem. 362 Il modello relazionale che valorizza il contributo “non riconosciuto” delle donne nella storia, nella letteratura e nelle arti in genere è stato sviluppato da Marina Camboni in “Networking Women: A Research Project and a Relational Model of the Cultural Sphere”, Networking Women: Subjects, Places, Links Europe-America: Towards a Re-writing of Cultural History, 1890-1939. Ed. Marina Camboni (Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2004) 2-26. 276 rispetto della cultura tradizionale, vorrebbe relegarla. Poiché la ragazza non segue il percorso canonico di formazione dell’identità femminile basato sull’identificazione con la madre, ma anzi cresce in forte contrasto con essa e in profonda sintonia con il padre, viene etichettata come “deviant”363, snaturata e poco credibile. Di fatto, fin dalle prime pagine, sua madre non ripone fiducia nelle sue capacità di svolgere il mestiere di avvocato, mentre è evidente l’affinità che Irene prova nei confronti del padre, a cui si ispira anche per la sua scelta di andare all’università, proprio “come un uomo”: Yet she could not help wonder about the rift between herself and her mother. María had maintained that it was because she had gone to college. Like a man, her mother said. Just like a man. Going out into the world and forgetting her womanly heritage. If heritage meant being like her mother, Irene thought, no thanks. Times change. People change. Why stay in the same old rut generation after generation? Which was something she had learnt from her father, not overtly but by his example and his encouragement.364 All’incrocio tra genealogia e generazione, la sua autoaffermazione le richiede dunque un’ardua mediazione tra continuità e rinnovamento, per poter armonizzare l’eredità culturale della famiglia, con lo slancio a realizzarsi nella contemporaneità. La risoluzione di questo nodo identitario avverrà attraverso la riscoperta e la riconciliazione con i miti delle origini della cultura messicoamericana che si realizza nell’episodio dell’affresco, ma anche e soprattutto nell’identificazione simbolica con la Vergine di Guadalupe e con la Malinche. 363 “Deviante”. Secondo Gilligan, infatti, mentre l’identità maschile viene forgiata fin dall’infanzia a partire dal distacco rispetto al padre, quella femminile è invece basata sull’identificazione con la madre. Le esperienze femminili non riconducibili a questi schemi vengono quindi etichettate come devianti e conflittuali. Carol Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1993) 6. 364 “Eppure non poteva fare a meno di interrogarsi sulla frattura tra lei e sua madre. María sosteneva che derivasse dal fatto che lei fosse andata all’università. Come un uomo, diceva sua madre. Proprio come un uomo. Esponendosi al mondo e dimenticando la sua eredità femminile. Se l’eredità significava essere come sua madre, Irene pensò, no grazie. I tempi cambiano. Le persone cambiano. Perché rimanere nello stesso, vecchio solco, generazione dopo generazione? Lo aveva imparato da suo padre, non apertamente, ma con il suo esempio e il suo incoraggiamento”. Candelaria, A Daughter’s a Daughter, 147,148. 277 Se la Vergine – patrona del Messico – è la prima delle figure del dipinto che Irene ammira, la Malinche – amante e schiava traduttrice di Cortés – viene rievocata nel momento in cui la ragazza si adopera come volontaria per insegnare inglese agli immigrati ispanici e, a livello più ampio, nel suo “colpevole” assimilazionismo alla cultura angloamericana. Eppure, dopo il coinvolgimento attivo nel Movimento Chicano, la scelta della donna di tornare ad Albuquerque, per portare avanti la sua professione di avvocato proprio nella sua terra d’origine, insieme alla tenace volontà di svelare l’enigma del misterioso scheletro dissepolto dalle ruspe, denotano proprio la sua volontà di mediare il divario tra tradizione e modernità, ma anche di superare la dicotomia virgen/puta incarnata proprio dall’opposizione della Vergine di Guadalupe e della Malinche. Facendo proprie entrambe le figure della mitologia femminile messicoamericana, Irene dimostra infatti di volersi ricongiungere alla coscienza ancestrale della cultura azteca, retta dal principio di contrapposizione equilibrata tra i sessi, in cui le dualità di maschio e femmina, natura e cultura, luce e tenebra, vita e morte erano contenute e bilanciate da Coatlicue, Signora dalla Gonna di serpente e divinità creatrice antichissima da cui discende la stessa Vergine di Guadalupe. È proprio questo il primo passo verso l’acquisizione della “conciencia de la mestiza”365 nel percorso delineato da Gloria Anzaldúa, che vede il ritrovamento di un’unità retrospettiva da parte della donna, attraverso il riconoscimento delle proprie origini meticcie, ma anche la riappropriazione della Virgen de Guadalupe riconciliata con il suo opposto: la Malinche, ora trasformata da traditrice a 365 “Coscienza della meticcia”. Anzaldúa, Bordelands/La Frontera, 77. 278 simbolo della forza femminile nella lotta contro l’oppressore, la stessa forza, d’altronde, che avevano dimostrato anche le antenate di Irene. Il quadro degli elementi inquietanti che popolano i tre romanzi non può non concludersi con un riferimento alla lingua spagnola che Di Iorio Sandín ha definito il “linguistic double of English in the Americas […]. An aural/oral ghost of U.S. history” 366 . Essendo la prima minoranza etnica a sfaldare il grande progetto culturale di assimilazione e costruzione di un monolingual space, i Latinos stessi occuperebbero per gli angloamericani un territorio fantasma, scomodo e indefinito, collocato “between black and white”367. Sarebbero dunque i portavoce di quella “silent revolution” o “Moctezuma’s revenge” 368 in corso, proprio attraverso la spinta creativa e la dirompenza dello spagnolo, che sembra riecheggiare sottilmente dietro ai loro discorsi, a prescindere dalla lingua usata manifestamente: “Even when U.S. Latinos do not speak it properly or at all, Spanish muffles our speaking voice. […] [T]here is a ghostliness attached to what we say, a doubling effect in language, which pure English speakers would rather not hear”369. Il sottotesto spagnolo che ho fatto emergere nella mia analisi linguistica delle opere è dunque l’emblema della trasmissione della memoria, ma anche della resistenza alla sua soppressione. D’altronde, il forte attaccamento al passato dello spagnolo, secondo Stavans è intrinseco già nella stessa morfologia della lingua: 366 “Sosia linguistico dell’inglese nelle Americhe [...]. Un fantasma sonoro e verbale della storia degli Stati Uniti”. Sandín, “Latino Rage”, 83. 367 “Tra il nero e il bianco”. Ibidem. 368 “Rivoluzione silenziosa”, “La vendetta di Moctezuma”. Stavans, “Foreword”, Growing Up Latino, xiii. 369 “Anche quando i Latinos negli Stati Uniti non lo parlano correttamente o per niente, lo spagnolo soffoca la nostra voce. [...] [C]’è un elemento spettrale in ciò che diciamo, un effetto di sdoppiamento nel linguaggio, che i monolingue inglese preferirebbero non sentire”. Sandín, “Latino Rage”, 84. 279 “Spanish, labyrinthine in nature, has at least four conjugations to address the past; the lone future tense, is hardly used. […] The fact is symptomatic: Hispanics, unable to recover from history, are obsessed with memory”370. Nella sua interazione con l’inglese, lo spagnolo dunque non si sottrae al processo mnemostorico portato avanti nei tre romanzi. Viene dunque conservato e, allo stesso tempo, reinventato nel contatto continuo con la storia, la memoria e l’immaginazione, dando vita a quello che Pedro Pietri definisce “Broken English dreams”371 o all’impasto ibrido e “saporito”, abilmente sintetizzato dalle parole dell’artista portoricano Antonio Martorell: Nuestra lengua, querrámoslo o no, está mechada y requetemechada con otras lenguas y con imágenes soñadas, recordadas, olvidadas, compatidas, rendidas, victoriosas y subversivas que versadas o en verso, prosáicas o procaces, silentes o sin lentes, encarnadas o bernejas, berrendas o virulentas dan sabor y grosor a nuestro apetito, estensión a nuestra ansias, caricia a nuestra hambre.372 Infine, con la ricostruzione genealogica e generazionale delle vicende dei Rafas, dei Malánguez e delle donne di Cienfuegos, i romanzi di Candelaria, O’Reilly Herrera e Rivera ricreano un “punctum” dell’esperienza proteiforme e transculturale dei Latinos negli Stati Uniti che, come le foto descritte da Roland Barthes, ha il potere di ristabilire “a sort of umbilical cord”373, un legame vivente tra chi scrive e chi legge, tra il passato che viene riportato alla luce e la 370 “Lo spagnolo, labirintico per natura, ha almeno quattro coniugazioni per far riferimento al passato; l’unico tempo futuro viene usato raramente. [...] Il fatto è sintomatico: gli ispanici, incapaci di riprendersi dalla storia, sono ossessionati dalla memoria”. Stavans, “Forward”, Growing Up Latino, xi. 371 “Sogni dell’inglese rotto”. Pedro Pietri, Puerto Rican Obituary (New York: Monthly Review Press, 1973): 12-16. 372 “ Che ci piaccia o no, la nostra lingua è ripiena e stra-ripiena di altre lingue e di immagini sognate, ricordate, dimenticate, condivise, arrese, vittoriose e sovversive che, versate o in verso, prosaiche o procaci, silenti o senza lenti, incarnate o incomplete, docili o virulente danno sapore e spessore al nostro appetito, estensione alle nostre ansie, carezze alla nostra fame”. Antonio Martorell, “Imalabra II”, Coloquio internacional sobre el imaginario social contemporáneo. Eds. Nydza Correa de Jesús, Heidi Figueroa Sarriera e María Milagros López (Río Piedras, PR: University of Puerto Rico Press), 161-164. 373 “Una sorta di cordone ombellicale”. Roland Barthes, Camera Lucida: Reflections on Photography (New York: Hill and Wang, 1981), 59, 81. 280 contemporaneità di chi lo rielabora, contribuendo di volta in volta a forgiare significati e identità nuove, sia negli autori sia nei lettori, al di là dei loro confini geografici o linguistici. 281 Capitolo 5 INTERVISTE CON GLI AUTORI 5.1 Introduzione Ho avuto la fortuna di incontrare due dei tre autori oggetto di questa tesi, durante il mio soggiorno presso l’Hispanic Research Center (HRC) dell’Arizona State University, da gennaio a giugno del 2011. L’intervista con Nash Candelaria si è svolta nella sua casa di Santa Fe (New Mexico), dove l’autore mi ha accolto con la moglie Doranne, il 31 maggio 2011. Insieme a me c’erano il prof. Gary Francisco Keller e due dei suoi collaboratori dell’HRC. Questa visita infatti è stata possibile grazie all’impagabile supporto del prof. Keller, che mi ha permesso di prender parte alla missione svoltasi in varie località del New Mexico (Acoma, Albuquerque, Chimayó, Santa Fe, Taos e Zuni, tra le altre) dal 28 maggio al 5 giugno 2011, nell’ambito del progetto di ricerca San Francis and the Americas/San Francisco en las Américas1. Quest’esperienza mi ha permesso di visitare alcuni tra i luoghi più antichi e suggestivi del Nord America, di conoscere pueblos millenari come Taos e Acoma, di entrare in contatto con gli adobe e con le prime chiese costruite dai missionari francescani nel Sedicesimo secolo, toccando con mano una storia 1 Il progetto è dettagliatamente documentato nel <http://sanfrancisco.asu.edu/index.htm> Data di accesso, 6 gennaio 2013. 283 portale dedicato: densa di rimandi al Vecchio continente e, in particolare, al mio paese d’origine, a meno di cento chilometri da Assisi. Le prime tre domande dell’intervista a Nash Candelaria gli sono state anticipate per email. L’autore ha apprezzato di poter avere più tempo per riflettere sulle risposte che mi ha consegnato, in un foglio stampato, il giorno dell’incontro. Tutte le altre domande, invece, gli sono state poste nel salotto di casa. L’autore ha risposto con un tono di voce pacato e flebile – che tradisce la sua età e la sua salute cagionevole, ma conferisce anche un’aura di autorevolezza alle sue parole. L’intervista a Andrea O’Reilly Herrera si è invece svolta in un bar del centro di Phoenix (Arizona), il 21 aprile del 2011. L’autrice era venuta in macchina dal Colorado e si trovava in città per prelevare dei quadri di artisti cubano-americani destinati alla manifestazione Cuba Transnational2, di cui è stata una delle principali promotrici. La fortuna ha voluto che io l’avessi contattata per proporle un incontro esattamente il giorno prima del suo arrivo nella città (Phoenix) in cui mi trovavo da quattro mesi. Tanto che, nella sua risposta alla mia email, l’autrice ha accettato con entusiasmo di incontrarmi, colpita anche dalla fortuita coincidenza: “This is an amazing and uncanny coincidence, but I am heading to Phoenix very early tomorrow morning by car to pick up some artwork for an exhibition of Cuban diasporic art, which I am curating here in Colorado!”3. Più che un’intervista, la nostra è stata una lunga e piacevole chiacchierata alla quale hanno partecipato anche il prof. Jeffrey Rubin-Dorsky e la moglie, che 2 Informazioni dettagliate sulla manifestazione sono disponibili nel sito dedicato: <http://cubatransnational.blogspot.it/> . Data di accesso, 6 gennaio 2013. 3 “È una coincidenza sorprendente e straordinaria, ma arriverò a Phoenix domani mattina molto presto in auto, per prendere alcune opere d’arte per una mostra di arte diasporica cubana che sto curando qui in Colorado”. Andrea O’ Reilly Herrera, “Email a Mara Salvucci del 20 aprile 2011”. Il romanzo multigenerazionale di Nash Candelaria, Andrea O’ Reilly Herrera e Edward Rivera. Mara Salvucci. Tesi di Dottorato. Università di Macerata. 2013. Capitolo 5. 284 si sono aggiunti al nostro tavolo in un secondo momento. Appena incontrate, l’autrice mi si è rivolta spontaneamente in spagnolo e, di fatto, la nostra intervista è iniziata in questa lingua. Subito dopo però O’Reilly Herrera è passata all’inglese, inserendo comunque nel suo discorso frasi e termini in castigliano che ho mantenuto nella mia trascrizione. Con grande solarità ed entusiasmo, alla fine dell’incontro l’autrice mi ha invitato a farle visita in Colorado, dove l’ho raggiunta nel mese di giugno. Ho quindi potuto visitare le mostre di Cuba Transnational, ma anche trascorrere con lei due giorni indimenticabili nella sua casa immersa nel verde di Colorado Springs. Non posso fare a meno di ricordare il momento in cui (durante una nostra chiacchierata pomeridiana) mentre le raccontavo della capacità unica di mia madre di cucinare, decorare, cucire, aggiustare, ricamare, sempre con immensa precisione e amore, l’autrice ha esclamato: “è un’artista!”. Da quel giorno non ho più smesso di considerare ciò che è frutto del sudore e della sapiente abilità di mia madre e di tante altre donne nel mondo, come un’opera d’arte. 285 5.2 Intervista con Nash Candelaria 5.2.1 Versione originale SANTA FE (NEW MEXICO), 31 MAGGIO 2011 1) In my dissertation I will analyze and compare three different novels that I defined “multigenerational” because they illustrate the lives of at least three generations of the same family. Together with A Daughter’s a Daughter I will study two other works, one by a Andrea O’Reilly Herrera – a Cuban American contemporary writer, and another by the Puerto Rican author Edward River who died in 2001. My aim is to find common traits and differences among these novels and, thereby, among literatures by different US Latino groups. Do you see any relationship between your writing and the works of other Latino writers in the U.S.? I read very little of other Latinos work. I don’t, even unconsciously, want to borrow ideas. What I am aware of in general is a common second language, the religion of many (Catholicism), meeting prejudice, and making their way in an Anglo world, the mainstream. As for differences, American Latinos have ancestries from different countries with different histories: Cuba, Mexico, Puerto Rico and others, including the long-term Americanization of old-time Latinos in New Mexico. I read more of the work of another New Mexico Latino writer, Rudolfo Anaya, than of other Latinos. He grew up in a small town in New Mexico, didn’t speak English until he attended school (6 years old?), worked professionally as a public school and university teacher, and knows the culture from the inside. I know the culture from the outside growing up in urban California, had parents who did not speak Spanish to me and my sister, wanted us to be mainstream Americans, and I worked in advertising mostly for companies in Silicon Valley. I observed the New Mexico Latino Culture on summer vacations to Albuquerque 286 visiting relatives who mostly lived on small farms. Rudy writes about the culture. I write as an ouside observer dealing more with the history of Latinos in New Mexico and with making their way in an Anglo world. For example, my father once took me when he visited friends – I was 10 or 11 – and he described me as “muy agringado”, very gringoized, with a mixture of apology and pride. 2) You started writing your first novel to impart some Chicano heritage into your children. What is the role of memory in determining individuals’ identity, in a world that “moves too fast” (quoting the final sentence of A Daughter’s a Daughter)? It’s very important to know where we come from in order to see ourselves in the present and then move forward into the future. Looking to the past and learning family history gives us a greater sense of what we come from than the individual memories of one person’s life. Too often what we are told by family and current social attitudes is false, either negative or positive. For example, it was the propensity of many New Mexicans in the past to describe themselves as Spanish, ignoring their mestizo identity. Whatever the source, memory is important in determining identity but must be examined with a hard eye for the truth. 3) It is fairly unusual for a male writer to focus very closely on female characters and make them the principals in a novel. Could you tell me how you came to conceive A Daughter’s a Daughter in this way? I wanted to write about the change of New Mexico Latinos’ situations and attitudes over three generations. My first attempt featured one young female and two males of older generations. After finishing it I found that it didn’t work for many reasons, but I still wanted to tell the story of three generations. To me the change in the roles of women was one of the biggest and more important changes 287 in this country during my lifetime. The examples of strong women I knew or knew of in the family occurred to me. The widow of the first Candelaria in New Mexico survived the 1680 Pueblo Revolt when the Spanish settlers were driven out of New Mexico to exile in El Paso-Juarez. When she was in her 60s she rode a burro from Albuquerque to Mexico city to verify a grant of land that her father had received from the Spanish government – a tough lady. In my genealogical research I found reference to a document sent to the United States government signed by my Candelaria grandmother. She signed it to establish ownership of family land after the Mexican War of 1846-1848. She was 19 years old. Evidently her husband could not write and probably read and she took over. When we lived for a short time in Albuquerque in the early 1930s my mother used to drive my sister and me to visit her mother. Her sisters-in-law were astounded. Women weren’t supposed to go out unescorted by a man. And they didn’t drive cars or smoke cigarettes in public. Shameful. My father worked for the U.S. Postal Service as a mail clerk, handling mail on trains. When he was on a trip for 3 days my mother took over as head of the household – an independent woman. I grew up with a sister a year and five months younger than me. We were very close when growing up. And, of course, I’ve been married to my wife for 55 years. I learned that we had much more in common than we had differences. From all of this I saw that women could be independent and strong even in a macho Latino male culture. Putting that all together I saw that the story of three generations of women was the right way to tell the story. Women and men were 288 members of the same species after all, though some male writers didn’t seem to understand that. 4) Juan Bruce-Novoa died only about a year ago. What memories do you have of your interview with him, over 30 years ago? What I remember of that interview is, one, that I got it into print – which is always nice for a writer. Second, that I talked a little bit about the history of my family, plowing up the Río Grande. They were farmers, as opposed to any other type of profession or workload, whatever you want to call it. I’m not sure – sometimes my memory starts to fail – but it seems to me that I talked a little bit about culture towards the end and, I don’t remember the specifics, but I’m sure my attitude is pretty much still the same. 5) When someone (like me) interviews you, what attracts you most about the experience? As a writer you have a certain amount of public, maybe a small readership, and you always want to be read. You can always write for yourself, if you want to, but it is nice to be read and I particularly feel good about being interviewed for someone working in the academic area, doing their work. One of the most surprising and pleasant aspects of my writing is when someone from the university, who is interested in some aspect of it, writes to you and asks a question. 6) Just this month, you have been the featured author of one of the most popular New Mexico’s magazine. Isn’t it amazing for you to compare the reception of your latest works with the difficulties that you endured to selfpublish your first novel in 1977? Getting recognition in New Mexico takes a little doing. It takes time to know the people and for the people to know you and my writing is not quite well 289 known here in the state. So to be interviewed for the New Mexico Magazine was a big pleasure and was really important, because the magazine is part of New Mexico Tourist Bureau and it gets out not only to people here in the state but also to people outside, in the rest of the country, who are interested in the culture and in what goes on in aspects of New Mexico life. 7) Would you say that your literary career reflects the general development of the Chicano literature and its entry in the U.S. mainstream system? I’m not sure, I still think that Mexican-American literature has a long way to go to be recognized, as much as I think it should be. Of course that is why I wrote the kind of things that I did, because so many people don’t know about the long history of Latinos here, in this state and in this country. When the focus is on people and activities so much of it is on recent migrants, which is fine, someone might say we are manitos (little brothers). As a matter of fact, while doing some genealogical research I found that back in 1700, at the end of the Pueblo Revolt when the Native Americans rose up against the Spanish settlers, some of them went to Mexico and the father of the first Candelaria widow went back to live in Northern Mexico too. So we are very closely related by blood but not by history: so much has happened to Mexico and to this state, I should say, in its time that has been part of Spain, part of Mexico (most recently) and then part of the United States by what I call a “conquest”. 8) When interviewed by Juan Bruce-Novoa in 1980, you stated that any good piece of literature is revolutionary and universal in itself. Do you think your works transcend ethnic boundaries and speak of universal values and aspirations? 290 I write with the intent to be read by everyone, though my works have not been widely read yet. I think any good piece of literature should be universal, it should speak to things at the heart and of things that every human has in common. I think whatever you read that is good stuff, in my opinion, touches on that. Some of my favorite writers are like that and they are non-Latinos, like William Faulkner and Ernest Hemingway. I think the universality is very important, as opposed to trying to find the popular mood, the popular attitude and worrying about becoming a best seller. I can recall reading sometime ago in a magazine, that someone had looked at the best sellers of previous 25 years or so and they didn’t recognize any of the books or of the authors, they did not live and last. Hopefully, my work will, at least for a little while. 9) In your memoir Second Communion you write: “we are all walking living relics of history. Carrying within us attitudes, scars, pains and the desire for revenge that can take generations to dispel” (109). How has your writing helped you process past traumas and cope with the inevitable march of history? I’m not sure about today, things are going so fast. You look at Twitter, Facebook, iPhones, they are all getting beyond me, they are moving too fast, we forget things and people don’t really know what happens. I think knowing where you come from is important, particularly if you belong to a group that had to suffer racial prejudice. Unfortunately, I’ve known some New Mexicans (family and others) whose feelings have been such that they take on what other people try to identify them with instead of having their own true identity. I find that sad, I think you should know where you come from, it gives you a solid foundation of where you are now and allows you to move forward into the future. 291 One of the interesting things in these days is that you read so much on the news about the Hispanic vote, about the politics, about the increase in the population, but the Hispanic vote has been here in New Mexico for a hundred and fifty years. We have now a governor who is a female Hispanic, the first in this country. When you look at people around here, it always amazes me to see the spread of what I call the color identity, that ranges from someone like me, with my dark look, to some first cousins I have blond and pale like what I call Anglos here. When you see photographs of someone with a Spanish last name in the news, sometimes it turns out that they look like everybody else. That’s happening except inside, they still have their memories I’m sure, their family lore, their family pride. 10) Would you define your literary voice “interlingual” borrowing Juan Bruce-Novoa’s famous definition of the Chicano language? I think languages are very important. Unfortunately, I don’t fit them all myself. My parents belonged to a generation that wanted to move out to the mainstream and to the broader world. They did not speak Spanish to me or my sister at all when we grew up in Los Angeles. They did speak it among themselves occasionally, when they wanted to keep a secret from us. As a result I grew up “1.1 lingual”, as I call it, I handle a little Spanish. I have been too busy in my life to ever delve into it in any greater depth although I do have great sympathy for those who can speak it well. 11) What literary genre do you think A Daughter’s a Daughter belongs to? I never really thought about it. When I write I have a general idea of what I want to say. I don’t work from close outlines, I only have a good idea of what the story is and generally how it would end, and then it just happens. I’m not 292 conscious when I write, it is almost like meditating at times, it just flows and comes from wherever. As for A Daughter’s a Daughter, I didn’t think of it as a historical novel but as a contemporary novel, particularly in the last part of it with the granddaughter. What I really was looking for was the change that is going on in the Hispanic New Mexican people, as well as throughout the South West and the Mexican Americans. So I looked at it as a Hispanic and Mexican-American story, first. Maybe, second, as a feminine story, because of my appreciation and knowledge of several really strong important women in my life, that triggered the idea. To begin with, when I had the idea of doing three generations and their changes, I wrote another novel which never got published. It has a young woman as the modern woman, then two males of older generations. When I put that together it didn’t work for a lot of reasons, so I had to rethink what I wanted to write. That is when it occurred to me that I knew of these strong women that were involved. The first Candelaria woman, who was a widow, left with her children and run a family household who led them (after the Pueblo Revolt) to El Paso, Texas, to exile. Then she came back and resettled with her sons. Then there is my grandmother Candelaria, whom I saw when I was a small boy, during our visits. She signed an official paper of some kind to get permission from the American U.S. government for a land they had lived on for 200 years. She signed it in a time when women probably didn’t write and her husband obviously or apparently didn’t write. She was the brain, she was a strong woman. 293 My mother was a very liberated woman for her time, she was a Chicana flapper back in the 20s, she smoked cigarettes in public and she drove a car, while her sisters-in-law thought: “Wow, what a hussy this woman is!”. Also, my father worked in the railway Postal Service, which meant he would go on a train to work between Los Angeles and either Tucson or Phoenix. He would be gone for maybe three days at the time. While he was gone, she was the head of the household and she took over the responsibility. Then of course I grew up with a sister who is a year and five months younger than me. So I knew what women were like as real people not as some writers write about them. One of the sad things about one of my favorite writers, Hemingway, is that he couldn’t write women characters worth a damn. He just didn’t understand women. He probably had the old macho attitude that a lot of Latinos had and some still do have. 12) Burciaga’s famous mural “The Last Supper of Chicano Heroes” appears in your novel. What does it do for it? How do you think visual art and literature interact in A Daughter’s a Daughter? The mural that the young protagonist sees on the wall of the dining room, actually exists at Stanford University. I knew it thanks to a fellow who is a kind of house father for the dormitory, who showed me around one time. I guess like everything you see hereabout, it flows into your mental hard drive and it is stored there and it comes out sometimes, without you realizing that you have seen it or thought about it. I like painting and I’m interested in good art, although I think music moves me more. I identify or feel the emotional impact of music more. The idea of my first novel came to me while listening to “Recuerdos de la Alhambra”, being 294 played on the guitar. It just touched me. When I wake up some mornings, and I’m not talking or doing anything, our popular music comes into my mind and I can’t turn it off sometimes. It usually goes back to history, looking at various stages of my life as are reminded by certain songs. 13) In your essay “Literature of the 19th Century Chicanos” you urge Chicano fiction writers to imagine themselves into the past, in order to fill in the gaps of U.S. history and to give voice to the voiceless, making room for the “losers”. Is there still the same need today? Would you still use the imaginative potentials of fiction to fill in any historical gap? I think so, that is why I wrote the historical books that I did write. When you look around in Santa Fe there are still in some places some antagonism between old time New Mexican “Spanish” (some of them would say), versus the more recent migrants from Mexico. That is a problem at times that shows a lack of understanding, because we are really related, we are part of the same race, we are just the lucky ones that happened to be on the north side of the border. 14) The mysterious skeleton at the end of the novel intrigued me. What do you think about it now that your novel is published? That is probably something for a critic to look at and decide. I thought of it like the necessity to finally come around to the secret of this buried man, who had been killed by his abused wife when he was assaulting her. I guess there could be some kind of a connection to the land itself, no longer being a farm, like it had been for generations. It was going to become a development, which is what happened to a lot of the property that my own family owned, one time. That is just another part of change: history gets buried, not always dug up, and it gets overlaid with new things whatever they happen to be. Unfortunately, 295 sometimes we don’t save things that need to be saved, that is why I admire so much some European cities. They go back for hundreds of years and still have some of the things and the buildings that could get bulldozed and paved over in this country, because of a general attitude and lack of real sensitivity towards art, I think. There are people who really appreciate it, but this country, in general, is run by money. It is more materialistic and writers feel that. In Europe, authors probably get attention even though they don’t get much money; while in this country, unless you make a lot of money on a book, you get ignored or can be. You are not read by many. 15) The protagonists of all your novels struggle to find a balance between tradition and renewal, past and progress. Do you think that the recurrent image of the Río Grande – which you depict as a symbol of change but also as a connection across generations – can effectively illustrate this struggle? What is your relationship with this river that has been so meaningful for many other Chicano writers, such as Rolando Hinojosa? I don’t know what the feeling exactly is but, to me, it represents my identity. I have always thought that when my bones get taken care of, maybe they should be cremated and allowed to flow in the Río Grande, which, as you know, flows to the Gulf of Mexico and kind of seems universal to me: the flow of the river, the water and the rain when it comes back to this country. 296 5.2.2 Versione tradotta 1) Nella mia tesi farò un’analisi comparativa di tre diversi romanzi che ho definito “multigenerazionali” perché descrivono le vite di almeno tre generazioni della stessa famiglia. Insieme a A Daughter’s a Daughter prenderò in esame altre due opere, una di Andrea O’Reilly Herrera – una scrittrice cubano-americana contemporanea – e un’altra dello scrittore portoricano Edward Rivera, morto nel 2001. Il mio scopo è trovare tratti comuni e differenze tra questi romanzi e, quindi, tra letterature di diversi gruppi ispanici negli Stati Uniti. Che relazione c’è tra la sua scrittura e le opere di altri scrittori Latinos negli Stati Uniti? Leggo molto poco opere di altri scrittori Latinos. Non vorrei, neanche inconsciamente, prendere in prestito idee. Ciò di cui sono consapevole, in generale, è una seconda lingua in comune, la religione di molti (il cattolicesimo), pregiudizi comuni, e il farsi strada in un mondo Anglo, la cultura dominante. Per quanto riguarda le differenze, i Latinos in America hanno antenati da Paesi diversi e con storie differenti : Cuba, Messico, Porto Rico e altri, compresa la lunga americanizzazione degli antichi Latinos del New Mexico. Rispetto al resto degli autori Latinos, leggo maggiormente le opere di un altro scrittore ispanico del New Mexico, Rudolfo Anaya. Cresciuto in un piccolo paese del New Mexico, ha iniziato a parlare inglese a scuola (a circa 6 anni), ha lavorato da professionista come docente sia nella scuola pubblica sia all’università e conosce la cultura dal di dentro. Io conosco la cultura dal di fuori, essendo cresciuto in una California urbana, con genitori che non parlavano spagnolo né a me né a mia sorella e volevano che diventassimo Americani mainstream. Ho lavorato prevalentemente in ambito pubblicitario per aziende della Silicon Valley. Osservavo la cultura ispanica del New Mexico durante le vacanze estive ad Albuquerque, quando andavamo a trovare i parenti che vivevano principalmente in piccole fattorie. Rudy descrive la cultura. Io scrivo da 297 osservatore esterno e mi occupo di più della storia dei Latinos del New Mexico e del loro farsi strada nel mondo Anglo. Ad esempio, mio padre un giorno mi ha portato con sé a visitare degli amici – avevo 10 o 11 anni – e mi ha descritto come “muy agringado”, molto aggringato, in un misto di scuse e orgoglio. 2) Ha iniziato a scrivere il suo primo romanzo per trasmettere un’eredità chicana ai suoi figli. Qual è il ruolo della memoria nel definire l’identità degli individui, in un mondo che “si muove troppo in fretta” (citando la frase finale di A Daughter’s a Daughter)? È molto importante sapere da dove si venga per collocarci nel presente e quindi avanzare nel futuro. Guardare al passato e apprendere la storia della famiglia ci da una maggiore consapevolezza delle nostre origini rispetto alle memorie di vita individuali. Troppo spesso ciò che ci viene detto dalla famiglia e dagli atteggiamenti sociali del presente è falso, in positivo o in negativo. Ad esempio, molti New Mexicans in passato tendevano a definirsi spagnoli, ignorando le loro origini meticcie. Qualsiasi ne sia la fonte, la memoria è importante nel determinare l’identità ma deve essere esaminata con un occhio attento alla verità. 3) È piuttosto inusuale che uno scrittore tratti così accuratamente di personaggi femminili, fino a renderli protagonisti di un romanzo. Potrebbe dirmi come è arrivato a concepire A Daughter’s a Daughter in questo modo? Volevo descrivere il cambiamento delle condizioni e degli atteggiamenti dei Latinos del New Mexico attraverso tre generazioni. Il mio primo tentativo aveva come protagonista una giovane donna e due uomini di generazioni precedenti. Dopo averlo terminato mi sono reso conto che non funzionava per una serie di motivi, ma volevo comunque raccontare la storia di tre generazioni. Per 298 me, il cambiamento nel ruolo delle donne è stato uno dei più significativi e importanti avvenuto in questo Paese durante la mia vita. Mi sono venuti in mente gli esempi delle donne forti che conoscevo o di cui avevo sentito nella mia famiglia. La vedova del primo Candelaria del New Mexico, sopravvissuta nel 1680 alla Rivolta Pueblo quando i coloni spagnoli furono cacciati dal New Mexico e costretti in esilio a El Paso-Juarez. All’età di circa 60 anni, cavalcò un asino da Albuquerque a Città del Messico per farsi assegnare una concessione di terreno che suo padre aveva ricevuto dal governo spagnolo – una donna forte. Durante la mia ricerca genealogica ho trovato un riferimento a un documento firmato dalla mia bisnonna Candelaria e inviato al governo degli Stati Uniti. Lo firmò per confermare la proprietà delle terre di famiglia dopo la guerra messico-americana del 1846-1848. Aveva 19 anni. Evidentemente suo marito non poteva scrivere e probabilmente neanche leggere e lei prese il controllo. Nei primi anni Trenta, quando siamo vissuti per un breve periodo ad Albuquerque, mia madre ci portava in macchina – me e mia sorella – a trovare sua madre. Le sue cognate erano sbalordite. Le donne non potevano uscire non accompagnate da un uomo. Non guidavano la macchina e non fumavano in pubblico. Una vergogna. Mio padre lavorava per il Servizio postale ferroviario statunitense come impiegato e gestiva la posta sui treni. Quando era in viaggio per tre giorni mia madre subentrava al controllo della famiglia – una donna indipendente. Sono cresciuto con una sorella che ha un anno e cinque mesi meno di me. Eravamo molto affiatati da piccoli. E naturalmente sono sposato con mia moglie 299 da 55 anni. Ho imparato che abbiamo più cose in comune che differenze. Da tutto questo ho visto che le donne potevano essere indipendenti e forti anche all’interno della cultura maschilista ispanica. Mettendo tutto questo insieme ho capito che il modo più giusto per raccontare la storia era attraverso tre generazioni di donne. In fondo donne e uomini sono membri della stessa specie, sebbene alcuni scrittori sembra che non lo capiscano. 4) Juan Bruce-Novoa è morto da circa un anno [11 giugno 2010]. Che cosa ricorda dell’intervista che avete fatto più di trenta anni fa? Di quell’intervista, in primo luogo, ricordo che è stata pubblicata – cosa che è sempre interessante per uno scrittore. In secondo luogo, che ho parlato un po’ della storia della mia famiglia, intenta ad arare le terre del Río Grande. Erano contadini, cosa che li contraddistingue rispetto a ogni altra professione o carico di lavoro, in qualsiasi modo lo si voglia chiamare. Non ne sono sicuro – a volte la mia memoria viene meno – ma mi sembra che verso la fine ho parlato anche un po’ della mia idea di cultura e, anche se non ricordo i dettagli, la mia posizione è ancora sostanzialmente la stessa. 5) Quando qualcuno (come me) la intervista, che cosa la affascina di più dell’esperienza? Da scrittori si ha un certo pubblico, anche solo un piccolo gruppo di lettori, e si vuole sempre esser letti. Si può sempre scrivere per se stessi, se lo si vuole, ma è bello essere letti e a me fa particolarmente piacere essere intervistato da chi lavora in ambito accademico e porta avanti la sua ricerca. Uno degli aspetti più sorprendenti e gratificanti della mia scrittura è l’interesse che alcune sue 300 caratteristiche possono destare in chi lavora all’università, che mi scrive e mi fa una domanda. 6) Proprio questo mese [maggio 2011] è stato l’autore in primo piano di una delle riviste più famose del New Mexico. Non è sorprendente per lei paragonare la ricezione delle sue ultime opere con le difficoltà che ha affrontato per pubblicare in proprio il suo primo romanzo nel 1977? Ottenere un riconoscimento nel New Mexico richiede un po’ di sforzo. Ci vuole tempo per conosce la gente e alla gente occorre tempo per conoscerti, e la mia scrittura non è ancora molto nota in questo stato. Quindi essere intervistato per il New Mexico Magazine è stato un grande piacere e un fatto veramente importante, perché la rivista è parte del New Mexico Tourist Bureau e arriva, non solo alle persone di questo stato, ma anche quelle al di fuori (nel resto del Paese) interessate alla cultura e ad alcuni aspetti della vita nel New Mexico. 7) Direbbe che la sua carriera letteraria riflette lo sviluppo generale della letteratura chicana e il suo ingresso nella cultura dominante statunitense? Non ne sono sicuro, continuo a pensare che la letteratura messicoamericana abbia ancora una lunga strada da percorrere per ottenere il riconoscimento che penso dovrebbe avere. Naturalmente è per questo che continuo a scrivere, perché tante persone (in questo stato e in questo Paese) non conoscono la lunga storia dei Latinos. Quando l’attenzione è rivolta alle persone e alle attività, in gran parte ricade sugli immigrati recenti e questo va bene, qualcuno direbbe che siamo manitos (fratellini). Di fatto, durante una ricerca genealogica ho scoperto che nel 1700, alla fine della Rivolta Pueblo, quando i nativi d’America si ribellarono contro i coloni spagnoli, alcuni di questi andarono in Messico e anche il padre della prima vedova 301 Candelaria tornò a vivere nel nord del Messico. Quindi c’è un forte legame di sangue ma non siamo legati dalla storia: sono successe così tante cose al Messico, e direi anche a questo stato che è appartenuto alla Spagna, al Messico (più di recente) e agli Stati Uniti, a seguito di ciò che io chiamo una “conquista”. 8) Durante l’intervista con Juan Bruce-Novoa, nel 1980, affermò che ogni buona opera letteraria è, in sé, rivoluzionaria e universale, ritiene che le sue opere trascendano i confini etnici e parlino di valori e aspirazioni universali? Io scrivo con l’intento di arrivare a tutti, nonostante i miei libri non siano ancora molto letti. Penso che ogni buona opera letteraria debba essere universale, che debba parlare di cose vitali, che ogni essere umano ha in comune. Qualsiasi cosa ben scritta, secondo me, è collegata a questo. Alcuni dei miei scrittori preferiti, come William Faulkner e Ernest Hemingway, lo fanno e non sono Latinos. Penso che l’universalità sia molto importante, piuttosto che inseguire la tendenza del momento o preoccuparsi di diventare un best-seller. Tempo fa ricordo di aver letto in una rivista, di qualcuno che aveva ripercorso i best-sellers degli ultimi venticinque anni, o giù di lì, senza riconoscere nessuno dei libri o degli autori, che non erano né sopravvissuti né durati. Spero che le mie opere sopravvivano, almeno per un po’. 9) Nel suo mémoir Second Communion ha scritto che: “siamo tutti reliquie viventi di storia che camminano, portando dentro atteggiamenti, cicatrici, sofferenze e un desiderio di vendetta che può richiedere generazioni e generazioni per estinguersi” (109). Che ruolo ha avuto la sua scrittura nel rielaborare traumi del passato e affrontare “l’avanzare inevitabile della storia”? Oggi non ne sono più sicuro, le cose sono così veloci. Basta guardare Twitter, Facebook e gli iPhones che vanno oltre la mia comprensione, avanzano 302 troppo in fretta, dimentichiamo le cose e le persone non sanno realmente cosa stia accadendo. Penso che conoscere da dove si provenga sia importante, soprattutto se si appartiene a un gruppo che è stato vittima di pregiudizi razziali. Sfortunatamente ho conosciuto alcuni New Mexicans (parenti e non) che hanno accettato di identificarsi in ciò che gli altri volevano da loro, invece di perseguire una propria vera identità. Lo trovo triste, dovremmo conoscere da dove veniamo, per avere una solida base nel presente che ci permetta di andare avanti nel futuro. Una delle cose interessanti di questi giorni è leggere così tante notizie sul voto ispanico, la politica e l’aumento della popolazione, ma il voto ispanico nel New Mexico esiste da 150 anni. Ora abbiamo una governatrice ispanica, la prima di questo Paese. Trovo sempre sorprendente, guardando le persone qui intorno, il diffondersi di quella che chiamo identità di colore, che va da quelli come me, scuri d’aspetto, ad alcuni miei cugini biondi e pallidi come coloro che qui io chiamo Anglos. Quando nel notiziario ci sono foto di persone con un cognome spagnolo, a volte scopri che hanno lo stesso aspetto di tutte le altre. Eppure sono diverse interiormente, sono sicuro che hanno ancora i loro ricordi, le loro tradizioni di famiglia, il loro orgoglio. 10) Definirebbe la sua voce letteraria “interlingue”, prendendo in presti la famosa definizione della lingua chicana di Juan Bruce-Novoa? Penso che le lingue siano molto importanti. Sfortunatamente io non le rispecchio tutte. I miei genitori appartenevano a una generazione che voleva fare ingresso nella cultura dominante e in un mondo più ampio. Non parlavano per niente spagnolo con me e mia sorella mentre crescevamo a Los Angeles. Lo 303 parlavano tra di loro, occasionalmente, quando volevano mantenere un segreto. Di conseguenza sono cresciuto “1.1-lingue” come dico io, conosco solo un po’ di spagnolo. Ho avuto una vita troppo impegnata per approfondirlo, anche se ho una grande simpatia per coloro che lo parlano bene. 11) A quale genere letterario pensa che appartenga A Daughter’s a Daughter? Non ci ho mai pensato. Quando scrivo ho un’idea generale di cosa voglio dire. Non parto da schemi dettagliati, ho soltanto un’idea della storia e, solitamente, di come finirà, poi la storia si dispiega da sé. Non sono consapevole quando scrivo, a volte è come una meditazione, che si sviluppa e viene da qualsiasi parte. Non ho concepito A Daughter’s a Daughter come un romanzo storico ma come un romanzo contemporaneo, soprattutto nell’ultima parte con la nipote. Ciò che realmente mi interessava era il cambiamento che sta investendo la popolazione ispanica del New Mexico, così come tutto il Sud-ovest e i messicoamericani. Quindi l’ho concepita, in primo luogo, come una storia ispanica e messico-americana. Forse in secondo luogo come una storia femminile, per la mia stima e conoscenza di diverse donne veramente forti e importanti della mia vita, che hanno alimentato quest’idea. Per iniziare, dopo aver avuto l’idea di trattare tre generazioni e il loro cambiamento, ho scritto un altro romanzo, mai pubblicato, in cui c’è una giovane protagonista come donna moderna, poi due uomini di generazioni precedenti. Quando ho messo tutto insieme non ha funzionato per molte ragioni. Quindi ho dovuto riconsiderare cosa volevo scrivere ed è stato a questo punto che mi sono venute in mente queste donne forti, che ho coinvolto. 304 La prima Candelaria, una vedova, andata in esilio con i suoi figli a El Paso, Texas (dopo la Rivolta Pueblo), prendendo le redini della famiglia. Successivamente è tornata e si è ristabilita con i suoi figli. Poi c’è mia nonna Candelaria, che vedevo quando ero piccolo, durante le nostre visite. Lei ha firmato una sorta di documento ufficiale per ottenere il permesso dal governo statunitense di occupare un terreno su cui erano vissuti per 200 anni. Lo ha firmato in un’epoca in cui le donne probabilmente non scrivevano e suo marito, ovviamente o apparentemente, non scriveva. Lei era la mente e fu una gran donna. Mia madre era una donna molto emancipata per il suo tempo, era una flapper 4 chicana negli anni Venti, fumava sigarette in pubblico, portava la macchina, mentre le sue cognate pensavano: “Wow, che sgualdrina questa donna!”. In più, mio padre lavorava per il Servizio postale ferroviario sulla linea tra Los Angeles e Tucson o Phoenix. Si assentava anche per tre giorni in quel tempo. Quando lui non c’era, lei era a capo della famiglia e si assumeva le responsabilità. Poi, naturalmente, sono cresciuto con una sorella che ha un anno e cinque mesi meno di me. Quindi conoscevo le donne in carne e ossa, non come alcuni scrittori le descrivono. Una cosa triste di uno dei miei scrittori preferiti, Hemingway, è che i sui personaggi femminili non valevano un bel niente. Non riusciva a capire le donne. Forse aveva quel vecchio atteggiamento maschilista che molti Latinos avevano e che alcuni hanno ancora. 12) Nel romanzo appare il famoso affresco di Burciaga, “The Last Supper of Chicano Heroes”. Secondo lei che ruolo ha? Come interagiscono arti visive e letteratura in A Daughter’s a Daughter? 4 Termine con cui si indicavano le ragazze emancipate negli anni Venti. 305 Il murales che la giovane protagonista vede sulla parete della mensa esiste veramente presso la Stanford University. L’ho conosciuto grazie a un amico, una sorta di custode della residenza, che un giorno me lo ha mostrato. Direi che, come ogni cosa che vediamo intorno a noi, confluisce nel tuo disco fisso mentale, viene immagazzinata e a volte riemerge, senza che ci si renda conto di averla vista o contemplata. Mi piace la pittura e mi interessa l’arte, ma penso che la musica mi coinvolga di più. Mi identifico e sento maggiormente l’impatto emotivo della musica. L’idea del mio primo romanzo mi è venuta ascoltando “Recuerdos de la Alhambra”, suonata con la chitarra. Mi ha colpito. Quando mi sveglio, alcune mattine, senza parlare o fare nulla, mi riviene in mente la nostra musica popolare e a volte non riesco a spegnerla. Di solito ripercorre la storia, alcune canzoni mi ricordano diverse tappe della mia vita. 13) Nel suo saggio “Literature of the 19th Century Chicanos”, incoraggia i romanzieri chicani a immaginarsi nel passato, per riempire le lacune della storia statunitense e dare voce a chi non l’ha avuta, creando uno spazio per i “perdenti”. Occorre ancora oggi? Userebbe ancora le potenzialità immaginative della narrativa per colmare i vuoti della storia? Penso di sì, per questo ho scritto romanzi storici. Guardandosi intorno a Santa Fe ci sono ancora, in alcuni posti, degli antagonismi tra vecchi New Mexican “spagnoli” (come alcuni di loro direbbero) e gli immigrati più recenti dal Messico. A volte può essere un problema che dimostra una mancanza di comprensione. Perché siamo davvero legati, apparteniamo alla stessa razza, noi siamo soltanto i fortunati che incidentalmente si sono trovati sul lato nord del confine. 306 14) Il misterioso scheletro alla fine del romanzo mi ha incuriosita. Che cosa ne pensa ora che il suo romanzo è stato pubblicato? Probabilmente dovrebbe dirlo un critico. Per me rappresenta la necessità di svelare il segreto di quest’uomo sepolto: ucciso dalla moglie maltrattata, durante una sua aggressione. Direi che potrebbe esserci un qualche legame con la terra stessa, non più di campagna, come era stato per generazioni. Era destinata a diventare un’area di sviluppo urbano come è avvenuto a molte delle proprietà un tempo appartenute alla mia famiglia. Questo è un altro aspetto del cambiamento: la storia viene seppellita (non viene fatta riemergere) e viene ricoperta di cose nuove, qualsiasi esse siano. Purtroppo a volte non conserviamo ciò che dovrebbe essere preservato, ecco perché ammiro così tanto alcune città europee. Hanno una storia millenaria, eppure conservano ancora alcuni elementi e costruzioni che verrebbero rasi al suolo e ricoperti in questo Paese, a causa di una atteggiamento generalizzato e per la mancanza di vera sensibilità nei confronti dell’arte. Ci sono persone che la apprezzano veramente ma, in generale, in questo Paese predomina il denaro, si è più materialisti e gli scrittori lo percepiscono. In Europa, probabilmente gli autori ricevono attenzioni anche se non guadagnano molto; mentre in questo Paese, a meno che non si facciano un sacco di soldi con un libro, potresti essere ignorato e non molto letto. 15) I protagonisti di tutti i suoi romanzi lottano per trovare un equilibrio tra tradizione e rinnovamento, passato e progresso. Pensa che l’immagine ricorrente del Río Grande – descritto come simbolo del cambiamento ma anche come legame transgenerazionale – possa essere l’emblema di questa lotta? Qual è il suo rapporto con questo fiume che è stato così significativo per molti altri scrittori chicani come Rolando Hinojosa? 307 Non so esattamente quale sia il senso ma, per me, rappresenta la mia identità. Ho sempre pensato che le mie ossa dovrebbero essere cremate e sparse nel Río Grande che, come sai, sfocia nel Golfo del Messico e mi sembra universale: lo scorrere del fiume, l’acqua e la pioggia che tornano su questo Paese. 308 5.3 Intervista con Andrea O’Reilly Herrera 5.3.1 Versione originale PHOENIX (ARIZONA), 21 APRILE 2011 1) Leí que la inspiración del libro salió del dibujo, esto es muy interesante para mí. La cosa es que yo siempre he querido escribir este libro, desde cuando era una niña siempre dije, “Voy a escribir una novela”. Y todo el mundo quería saber qué novela, y yo decía “I don’t know, pero va a salir, no sé cuándo”. Yo estaba muy cerquita de mis abuelos los cubanos. Mi abuelo murió cuando yo tenía 19 años y después mi abuela. En 1986 yo estaba embarazada de mi hijo y tres semanas después de su nacimiento, en marzo, ella murió. Me sentía muy triste. Tenía muchas fotos de cuando ella era joven y quería pintarlas, pues una noche me levanté y empecé con una foto de mi abuela, de cuando ella tenía 16 años. Al día siguiente mientras estaba sentada en una mecedora con mi hijo, empecé a escribir la novela, en ese momento. El cuadro de mi abuela (que ahora es la cubierta de la novela) fue la inspiración. 2) How long did it take to you to write the whole novel? It took me about two years to complete the first draft. I was never formally trained as a writer, but I had been writing fiction and poetry since childhood and had wanted to be a writer for as long as I could remember. I didn’t know in advance what the plot of the novel would be. I could see certain images, so I just started writing out these moments or scenes. Before long, the story began to take shape. Originally I had thought that Lilly and Margarita would return to Cuba at the end of the novel, but somehow this ending didn’t make sense, in part because I 309 had not been back to Cuba. One night I went to bed thinking about the ending and I found the solution in my dream. While I was in graduate school working on my PhD, I entered excerpts from the novel in a literary competition. They invited well-known writers to judge the entries and two years in a row my excerpts were selected for the fiction award. Until then, no one knew about the novel. Winning those awards gave me confidence, so I began looking for a literary agent, but had no luck as most agents told me that they already had their “quota” of Latina writers. So I decided to send my manuscript out on my own. Eventually a small independent press in western New York expressed interest in publishing Pearl; however, there was a catch: the press relied on grants to publish new work. After waiting for more than two years, I began to grow frustrated, so I contacted the editor at the press. He wanted me to wait, but there was no telling when they would secure the funding to publish my book and several others, so I asked for permission to send my manuscript to another press for review. He agreed reluctantly and recommended that I send Pearl to Bilingual Review Press. It took Bilingual Review almost two years to get back to me; I can still remember what I was doing when I received the phone call letting me know that they had decided to publish my novel. While we were negotiating my contract, I asked them if they would consider using the painting of my grandmother for the cover and explained that it was the genesis of the novel. To my great happiness, they agreed! The way you wrote the novel reminds me a lot of the youngest character Lilly who finds her grandmother’s notebook, puts together words and pictures and finally rewrites or maybe invents her family’s story. 310 Esa es la cosa. Claudia Sadowsky-Smith, a literary critic who has written on Pearl, was the first to figure out que Lilly puede haber inventado todo el cuento. En verdad, su madre Margarita, nunca le habló de Cuba; pero hay cosas que Lilly sabe. Many of the readers want to know if this is true (i.e. That Lilly invented the story), and I always say, “No sé, I have no idea.” So Lilly might be the narrator of the whole book. It’s possible. If this is true, Lilly is accessing certain information, which turns out to be accurate, through her imagination and intuition. Maybe an adult, grown up Lilly. Sí, puede ser. It is not that important to know. But it’s important to believe this is possible. There are certain kinds of knowledge that we all possess and can access, but that cannot be explained empirically. 3) Your positioning in the American cultural context is multifaceted because you are a professor, a literary critic, an editor, a poet, a novelist, a play writer, a curator of art exhibitions, plus an ethnic woman writer. ¡Y un poco loca! [laugh] It is a very complex positioning in the U.S. mainstream. Do you think it affects your writing and your work? I can answer your question in a couple of ways. The kind of positioning you are referring to is actually not unusual in Cuba, as opposed to the U.S. In fact, it’s typical. Many of the artists in CAFÉ, the art exhibit I write about in Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House are, in addition to being artists, musicians, writers, poets, and/or dancers. I don’t have any 311 explanation for why this is true, but in this regard I am very Cuban. I’m also an amateur musician and an untrained artist. For me music and painting and writing are all linked together. Most Cubans I know understand this and think it’s perfectly normal, but for most Americans it’s not. Even though I was born in the U.S., I was not raised or acculturated like a typical American. Even though I was conceived in Havana, I was born the first week of January ’59 [in Philadelphia]; but I was raised in the United States like a Cuban, so my consciousness was always Cuban—something that took me a long time to figure out. As a result, I always feel like an outsider, even though I am an American. My desire to know about everything Cuban reaches back to my earliest childhood. In the introduction to my edited collection of testimonials expressions Remembering Cuba: Legacy of a Diaspora I recall following my grandfather around his garden, begging him to tell me stories about life on the island. I could never hear enough stories about Cuba. When Pearl finally came out in print, a very dear friend of mine, a Cuban poet and critic, read it and said, “Andrea, how did you know?”, “How do I know what?” I asked. “You know something that I can’t explain,” she said. “Well,” I responded, “We all heard so many stories about Cuba and I saw photographs”. “No, no, no,” she replied, “you don’t understand... you are the only writer I know outside of Cuba who has written about that Cuba – la Cuba del pasado – a past world that has disappeared, but you were never there”. “I don’t understand it either”, I said, “all I know is that ever since I was a child, I could see these moments; so I just wrote about what I ‘knew’”. I tend to be very visual, so I was just painting with words what I could ‘see’. I didn’t know if Pearl would ever get published, but I had to write this book, if only for myself. I 312 thought about it for years, but as it turned out, I couldn’t actually write it until my grandparents died. No sé por qué, it wasn’t a conscious decision. A long time ago I made the choice between either becoming an academic or an artist. I decided very consciously that I didn’t want to make my living as a writer or as a visual artist. I didn’t want to be pressured to have to produce work according to popular demand or taste. So I write freely and don’t worry about the reception of my work. I’m not concerned about how successful my novel is or how many people are reading it. Para mí no importa, en verdad. All I care about is being part of what I see as a larger dialogue regarding Cuba and its diaspora, so my focus is on people like you who are interested in my work and the ideas and questions I am struggling with in my writing. In some sense then my decision to become an academic was útil, although I must say that I love teaching and feel privileged to work with young people. Many of my peers and mentors in graduate school told me that the kind of writing and creative work I hoped to do would not be regarded as rigorous or academic, and that most English departments didn’t value creative work if you weren’t hired as a creative writer. Early in my career a press expressed interest in publishing my dissertation, but my heart wasn’t in that project. I wanted to write about Cuba and the diaspora. As it turned out, I was very fortunate because the university where I now teach values and supports all of the work that I do on Cuba, including my creative writing. Wasn’t your doctoral dissertation about nunnery? Yes...oh my God, you know more about me than I know about me! After the press offered me a preliminary contract, I began revising my dissertation, but I 313 was miserable. A very good friend and colleague asked me, “What do you really want to be doing?” I told her that I wanted to work on Remembering Cuba, but everyone was telling me to publish my dissertation and put this project on the back burner. Most of my colleagues insisted that it was an opportunity I shouldn’t pass up and that my work on Cuba wouldn’t have any currency in academic circles. In response, my friend encouraged me to follow my instincts. It was exactly what I needed to hear, so I turned down the opportunity to publish my dissertation and began to focus all of my attention on gathering testimonials. So I consider myself to be very lucky to be where I am because I can do all of these crazy things, including curating art exhibits and producing my play, and my colleagues support me. I’m exactly where I should be. I am completely content where I am because I love my students and colleagues, and I am supported in doing work that is meaningful for me. 4) As your friend told you, you depicted Cuba in a better way than a Cuban could have done, maybe this is because you have a privileged insight of the Cuban and U.S. culture, as you are an insider and an outsider at the same time. I’m not certain that I can depict Cuba better than other Cubans, however as I mentioned early on, I believe that it’s possible to intuitively access a body of knowledge that you can’t access in any other way. In the past I referred to it as a kind of ancestral memory, but a colleague reminded me that this has negative connotations in other contexts. But it’s like drawing knowledge from some collective consciousness, rather than empirically. For example, I hadn’t read a lot of Cuban literature at the time that I was writing Pearl. I had read the work of some Spanish and Latin American authors, but my primary influences when I was working on the novel were William Faulkner, Virginia Woolf and Emily Brontë. 314 Quite awhile after Pearl was completed, I read something by Nicolás Guillén for the first time, and I discovered that I had used some of the exact same images that were in his work. The same thing happened as I read other Cuban writers such as Alejo Carpentier – there were clear connections with other Cuban writers who preceded me, but whom I had never read. It was very strange. I like to think it was a sign that I was on the right path. To me this is something similar to transculturation, transculturación by Fernando Ortiz, a contemporary version of it. Maybe this is part of our collective consciousness or our collective inheritance. I don’t know how to explain it because it doesn’t make sense in a traditional western context. Clearly, it is not a western approach to knowledge. Rather, it is about giving currency to your dreams, your intuition and your imagination. Some days ago, while teaching my Latino/a literature course, I was trying to explain the concept of magical realism to my students. I was telling them that there is a type of magical realism that occurs in certain political situations, such as a massacre at a train station and then the next day in the newspaper it officially didn’t occur. This is the form of political magical realism that Gabriel García Márquez described in his speech when he won the Nobel Prize for literature. But in a lot of Mexican or Chicano writing or in Caribbean literature what critics refer to as magical realism is something different. It is accessing a different kind of knowledge or consciousness that, as I mentioned before, can only be accessed through intuition. My mother, for example, is Cuban, but after having lived in the United States for over 50 years, she has also become very American in many ways. However, when I talk to her about my dreams or even visions or premonitions, 315 she takes this very seriously and completely accepts the possibility that you see things ahead of time, or you have the same dream as somebody else. She accepts these possibilities as completely natural or normal. So that’s what this is about; it is not political. So I encourage my students to read this literature with an open mind, even if they don’t believe that what they are reading is possible, and I encourage them, as the British poet Coleridge said, to “suspend” their “disbelief.” Only in that way you can believe that Lilly is accessing information that she has not acquired in any ordinary manner. 5) Apart from the magical realism moments there are disquieting sections, like in the beginning, this ancient woman on the mountain, looking at the celebration in the town. This creates a gloomy atmosphere for the reader. That scene was the first one that I could “see.” As I was telling you, I had no idea what the plot or story was before I began writing Pearl. I had to allow the story to unfold, and this moment turned out to be the first scene. I sketched it out years before I started the novel. It is a kind of parable that traces the history of Cuba and the revolution, through its different waves. So there is some historical truth in the vision. For example, when the rebel soldiers came out from the mountains, the Sierra Maestras, they were dressed like monks, with these long beards and rosaries around their necks. Only later does the reader realize that Tata is the old woman on the mountain. Everybody wants to know when Tata was born. I usually reply, “I have no idea, you have to ask her”. Clearly, Tata is a visionary; she sees nearly everything. This scene was always at the beginning of the novel, but somebody who read my manuscript later suggested that it was confusing; he encouraged me to move it to the end of part one when Rosa is dying. I followed his advice even 316 though deep inside I felt certain that it was the wrong decision. Then I dreamed that I needed to move it back to where it was originally. Much later, while reading the writing of other Latin American authors, I learned that the dream sequence at the beginning of a work is a common convention in Latin American fiction, so I felt validated. A lot of people still tell me that they don’t understand the dream sequence and find it confusing, so explain that it foreshadows what will eventually unfold. Of course if you don’t know Cuba’s history, it will be mysterious. Nevertheless, I still feel certain that this sequence had to remain at the beginning of the novel; then the narrative becomes more chronological and there are more identifiable events, dates, etc. This form, therefore suggests that the two worlds – the ordinary and the world on the mountain top—are something distinct and sometimes collide. 6) And what about Casandra, the mulata? Tell me what you think of Casandra. I relate her to figures that I have found in other novels, representing the “otherness”, the Indian side that everybody wants to suppress and hide. She, like Tata, is indigenous, so she represents a race of people who were virtually eliminated in Cuba by the Spaniards; however, she also references two important literary models: The Odyssey and The Oresteia, the Greek trilogy recounting the fall of the house of Atreus. In The Oresteia, Cassandra is a very important figure as she is the one who is telling the truth, but her curse is that no one can understand her. That’s where her name comes from. In Pearl, Casandra is Pedro’s mistress, which is very common in this historical context. It is unclear 317 who is the father of her child. In fact, it is probably not Pedro, I didn’t want to decide. Obviously, Casandra is exploited and harassed. She is a victim of her circumstances; but Rosa is a victim, too, though clearly not in the same way. All the women are victims of a post-colonial, patriarchal system, though race and class divides them. When I first began to give life and volume to Casandra, she was cast in an adversarial role with Rosa. That they would be enemies was predictable, so I later decided to overturn this paradigm of women in adversarial positions and thereby comment on this structure that turns women against each other at the same time that they are all being victimized and oppressed. Even though Casandra has almost no power, I wanted to draw connections between her and Rosa. So Casandra had to be something different, even though she was part of a world that is still haunted by the legacy of colonialism, patriarchy, and slavery. I very much wanted to look at women and their positions in this kind of culture and situation, in this kind of society, remnants of which still exist. 7) I was very intrigued by this multigenerational frame in which women are connected to each other. Of course I am not the only writer who has implemented this structure or framework. Many writers have investigated the manner in which traditions are passed down through generations. Many writers have explored this theme – the transmission of gender roles. When you talk about gender and patriarchy, it is always about what men are doing to women, but I was also interested in taking a look at what women are doing to women. Take for example Rosa and Rafaela’s relationship. Rosa doesn’t really talk to her mother when the latter is alive; it’s only after Rafaela has died that they have an open conversation, even though the 318 reader is aware that Rafaela continues to withhold information from Rosa and fib to her daughter. So, even in death, Rafaela is perpetuating or advocating a traditional patriarchal mode of gender behavior. History books are written by men. Yes, primarily, and I’m interested in looking at women’s lives and of course the ways that their lives parallel the “big” history. So you need the multigenerational approach to convey the wider picture. Absolutely...and to see what is transmitted through all these generations. My critical work also focuses on this subject. While I was collecting testimonial expressions for ReMembering Cuba, I discovered that Cubans continue to transmit their cultural mores through different generations in the diaspora; in over fifty years not much has changed. For instance, during one of his classes Jeffrey [Rubin-Dorsky] had six contemporary female writers – including me and another Cuban writer [Ana Menéndez] – come to campus and work with the students in his class. We also brought in Isabel Álvarez Borland, who is a well known Cuban American literary critic. The three of us [Isabel, Andrea and Ana] had dinner together one evening. I was ten years older than Ana and Isabel was ten years older than me; we were all raised in middle-class families. Ana was born and raised in the United States; I was conceived in Cuba but born in Philadelphia; and Isabel grew up in Cuba and then came to the U.S. as an adolescent. At that dinner we realized that we were raised or socialized as females in the exact same way. We could hardly believe it and were laughing from the start. Nothing about our upbringing was significantly different despite a twenty year span. So as a Cuban American woman, across 319 borders and across generations, I’m very interested in the way women teach other women how to behave, and how they inadvertently become the guardians of systems that actually oppress them. 8) I’m not sure if this is my impression or if it is true: I have noticed that some sentences in the novel are in English but sound Spanish. That is very interesting. Especially in the letters, when tía writes “imagine!” I have Cuban friends and they use that a lot: “¡imagínate!” It’s amazing, nobody has ever said that to me. When I was writing the dialogues as well as the letters in Pearl, I kept saying the lines out loud because I wanted to imitate the conversations I had heard growing up, as well as the letters that were read to us from relatives who had remained in Cuba. I was very consciously trying to figure out how all of the women at the Havana Yacht Club would have spoken to each other and what they would have said, for instance. Some of the words or expressions wouldn’t work in English, such as “¡Qué barbaridad!” (which in English would literally translate as “What a barbarity!”). Sandra Cisneros wrote that: “What a barbarity!” Yes, in Caramelo, I love that book! She was trying to express the same idea – that some things just cannot be translated. Some things just sound ridiculous when you translate them! But I was also trying to imitate as faithfully as possible how these women would speak. I recalled our own dinner table. Everyone would be talking at the same time; I was passionate and emotional. So as I was writing I just opened my ears and I could hear the conversations and the debates. Even in English I was trying to imagine, “How would so-and-so phrase 320 this? What words would they use to say this?” So, what you have observed is just wonderful! 9) Did you speak Spanish with your family when you were a child? My mother didn’t speak Spanish to us, but we had lots of different people living with us from Pedro Pan for example [Operation Peter Pan] and relatives who didn’t speak English. So we learned Spanish from everyone but my mother, although she would talk to the others in Spanish. I asked her about this once, when she was visiting me after I had moved to Colorado. We were sitting outside on the porch and our Colombian neighbor came over and started speaking to my mother in Spanish. She replied in Spanish and afterward my daughter said, “I never heard Nana speak Spanish before”. It was the first time I actually realized that she never spoke Spanish to us either. My mother first came to the U.S. as an adolescent during Machado’s violent regime in the 1930s, and she had a horrible time because she didn’t speak English. It occurred to me some time later that her decision to speak to us in English (as opposed to Spanish) may have been a result of her experience. I suggested this to her recently and she replied, “I had never thought about that, but it is probably true”. So we all learned Spanish by ear. My father, pobrecito, learned Spanish in the same way. He was Irish American and he would say things in Spanglish like, “quiero un poco de juicy”. His parents had died and most of his relatives were still in Ireland, so he learned Spanish out of self-defense because almost everyone in the house spoke Spanish. Even many of my mother’s relatives in Miami didn’t speak English. They came and they never learned English. So we all learned Spanish by listening to their conversations. 321 10) Do your sons or daughters speak Spanish too? One of my daughters loves Spanish and taught it for three years. My son and my other daughter took Spanish classes after they graduated from college and they love it too. They can understand a lot, in part because their paternal grandfather only spoke Spanish – he was catalán. My former husband grew up speaking Spanish too, so my children would hear Spanish all the time in our house. When my readers come across the Spanish passages in Pearl (in the green Morroco notebook), many get annoyed and frustrated. Some of the passages actually come from my grandmother’s grammar school notebook, which I transcribed, or they come from newspaper articles from El diario de la marina, which she clipped and saved. In response, I ask people to consider who’s reading the notebook. Who’s looking at it in the novel? It’s Lilly, of course. So imagine, what would you be feeling if you were her, facing this impenetrable wall of language? If you can’t understand it, then you can identify with Lilly, and then you can begin to imagine what it would be like to discover that the door of your past is locked too. So as a reader you need to ask yourself why writers incorporate foreign languages into their works. It’s not gratuitous, it’s not to make you angry. As I mentioned earlier, you cannot always translate everything – especially when it comes to experience and culture. As a reader-outsider, you are always in the act of translating. Ultimately what you are translating becomes something different and new. Metaphorically, this act of translating represents a way of negotiating cultures linguistically. So in some sense incorporating Spanish into the novel represents Lilly’s attempt to negotiate two languages and two worlds. 322 Immigrants usually experience the same thing, the other way around, with the English language. Yes, language is essential not only to identity formation but to the struggle to assimilate into a foreign culture, so for immigrants it can represent one of the ways they are caught between two worlds, two cultures. 11) In Cuba: Idea of a Nation Displaced you mention the concept of “mnemohistory” by Jan Assmann. He says that “we are what we remember” and that memory is a constant interplay of history, imagination, dreams and nostalgia. How do you think individual and collective memory interact in a novel or in the real world? What I love about Assmann is that he is not so much interested in determining the “truths” of history but rather in what ideas or memories are embraced and passed on. When I was teaching in Lublin as a Fulbright scholar I realized, after talking with my students, that Poland “disappeared” or was erased as a nation for something like a hundred and twenty-seven or a hundred and twenty-eight years. There was a diaspora and groups of Poles scattered all over Europe or immigrated to the United States. A huge community settled in France, and a lot of my students were the grandchildren or great-grandchildren of those people. What is amazing is that they carried their culture with them and preserved some collective consciousness (which incorporated individual ideas and a sense of collective memory). In the introduction to my new book, Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House, I drew inspiration from quantum physics as well as Assmann’s concept of mnemohistory, such as the concept that the focus isn’t so much on where an object is, physically, but rather on where it could be. So I’m not terribly concerned with whose story is true or who has the “strongest” story. I’m more interested in the stories that travel across time...the collective 323 “truths”, which are sometimes in contradiction, that are embraced by the community and preserved from generation to generation. In effect, I am rejecting a linear or binary way of thinking or knowing. I am also unconcerned about finding definite or conclusive answers. In fact, I am never concerned with what “the answer” is, but rather with all the possible answers and all the possible answers could be in contradiction. Does this make sense? Absolutely. This last idea reminds me of the CAFÉ exhibit, inspired by a conversation among three Cuban diasporic artists—Leandro Soto, Yovani Bauta, and Israel León—who realized that you can perpetuate the ritual of making a coffee, wherever you are in the world, and it is still a Cuban way of having coffee. Yes, absolutely, but the ingredients and the environment in which the café is made are subject to change, so there is always something new and something old, something that moves or changes and something that remains constant or stable. It is a balance of multiple things that are frequently in a paradoxical relationship, and you are contemplating all of them in motion, everything that is there. In that moment and in that place. Exactly! So the central metaphor informing CAFÉ makes perfect sense to me. Years ago I studied with the Cuban theorist Antonio Benítez-Rojo – he was my mentor and guide, he supported everything that I did. He was the first person who articulated the possibility of paradox and harmony. One day, when I was studing with him in a workshop at the University in Miami, he was discussing this topic and he described it as a particularly Caribbean sensibility. I raised my hand and said that it reminded me of juggling. You have all these notions and ideas in the air at the same time and they can be contradictory or paradoxical; they don’t 324 always go together. But they are all in the air and the trick is to just keep them there, without trying to separate out one thing or the other. The most important thing is that they are all suspended in the air, at the same time. He replied, “That’s it. You got it!”. Two of my closest Cuban friends corroborated this idea. They are physicists and as we discussed literature, they would talk about quantum physics and draw parallels. Through them I began to see the beauty of physics and how literature resonated with the principles and tenets they described. Our conversations influenced me a lot as well. In effect, they articulated a way of expressing not an identity (because I don’t use that word) but a consciousness or “way of being” that according to Antonio was particularly Caribbean. What I hoped to do in my last book on Cuban Diasporic art is try to propose a much more inclusive and open way of thinking about who belongs, and what constitutes Cubanness or a Cuban consciousness and, in this particular instance, a Cuban artist. It is a theoretical framework that you could use to analyze Pearl. Of course a lot of people are uncomfortable with this idea, in part because it’s safer to think in a binary manner. But when you think in binaries, you immediately politicize these questions for you either belong or you don’t belong, you are either here or you are there. 12) How is your relationship with the Cuban community in Miami right now? It depends on who I am with and where. The reception to my work in Europe is completely different than the reception here. Some Americans and Cubans are very uncomfortable with my work, especially my theoretical perspective. Americans tend to read Cuba from a position that is informed by race, 325 class and gender politics in the United States, or they tag my work as too politically conservative and extol the regime with little first-hand knowledge or experience of life under a totalitarian regime. Other people – including some Cubans – think I don’t have the right to speak about Cuba because I wasn’t born there. This raises the issue of what I refer to as the hierarchy of authenticity, which questions who can speak about Cuban culture, who can claim the pain or the sense of loss or displacement. When I put out the call for submissions for ReMembering Cuba, the immediate responses I received were from people born outside Cuba—the “lost generation” that I speak of in one of my essays in Cuba: Idea of a Nation Displaced. Yet, some Cubans have told me that I have no right to “appropriate” their culture. So if you raise these kinds of questions and if this is your criteria for determining who is authorized to speak, I already know you are missing the point. 13) Have you ever been to Cuba? You know, any effort I have made to go to Cuba has been thwarted; I’m guessing it’s because of my books. But some day – when the time is right – I will get there. Couldn’t you go there as a tourist? I don’t want to go illegally. More fundamentally, I don’t want to go to Cuba as a tourist. I want to go as I am – una cubanita pasada por agua – and present my work. I hope, considering some of the changes that are occurring now, that it is going to happen one day soon. 326 I heard that Cristina García is censored in Cuba. Is it the same for your works? Can you buy your books in Cuba? Honestly, I don’t think you can. 14) What does the Cuban diaspora mean for you? Many of the artists I interviewed for my last book see the creative possibility in the diasporic condition. They have used their art to create a space in diaspora that reflects a history of movement, integration, synthesis and transformation, things that have always characterized Cuba – beginning with the Spanish colonization, the immigration, out-migration and multiple exiles, before Martí and until now. Movement has always informed Cuban history and has shaped the Cuban consciousness. So when you talk about absorbing new cultural elements, all of these artists see that as natural because Cuban culture is receptive and eclectic, it is an ajiaco (to use Ortiz’s metaphor). To understand this you first have to know the history of the Caribbean. You are rooted nowhere and everywhere. A close Cuban friend of mine often says, “Home is my family and my friends.” Yes, I agree; I would add that home is like a tent – you can make your home wherever you are. In this sense, the journey is the thing in itself. 327 5.3.2 Versione tradotta 1) Ho letto che l’ispirazione del libro le è venuta dal disegno, lo trovo molto interessante. Io ho sempre voluto scrivere questo libro, fin da quanto ero bambina dicevo sempre “Scriverò un romanzo”. E tutti volevano sapere che romanzo e io dicevo “I don’t know, ma mi verrà, non so quando”. Io ero molto vicina ai miei nonni cubani. Mio nonno è morto quando avevo 19 anni e dopo di lui mia nonna. Nel 1986 ero incinta di mio figlio e, tre settimane dopo la sua nascita, a marzo lei è morta. Ero molto triste. Avevo molte foto di quando era giovane e volevo dipingerle, allora una notte mi sono alzata e ho iniziato con una foto di quando mia nonna aveva 16 anni. Il giorno successivo, mentre ero seduta su di una sedia a dondolo con mio figlio, ho iniziato a scrivere il romanzo, in quel momento. Il quadro di mia nonna (che ora è la copertina del romanzo) è stato l’ispirazione. 2) Quanto ci ha messo per scrivere l’intero romanzo? Ho impiegato circa due anni per completare la prima bozza. Non ho mai fatto corsi specifici di scrittura creativa, ma avevo scritto narrativa e poesia fin dall’infanzia e, da quanto ricordo, ho sempre voluto essere una scrittrice. Non sapevo in anticipo quale sarebbe stata la trama del romanzo. Potevo visualizzare alcune immagini, quindi ho semplicemente iniziato a scrivere questi momenti o scene. In poco tempo, la storia ha iniziato a prendere forma. Inizialmente avevo pensato che Lilly e Margarita sarebbero tornate a Cuba alla fine del romanzo, ma per qualche motivo questo finale non aveva senso, in parte perché io stessa non sono tornata a Cuba. Un giorno sono andata a letto pensando alla fine e ho trovato la soluzione nel mio sogno. 328 All’università mentre lavoravo al mio dottorato, ho inviato estratti del romanzo a un concorso letterario. Avevano invitato scrittori molto noti per giudicare le opere e, per due anni di fila, sono stati scelti i miei brani per il premio della narrativa. Fino a quel momento, nessuno sapeva del romanzo. Vincere quei premi mi ha dato sicurezza, quindi ho iniziato a cercare un agente letterario, ma non ho avuto fortuna poiché la maggior parte degli agenti mi ha detto che avevano esaurito la loro “quota” di scrittrici ispaniche. Quindi ho deciso di inviare il manoscritto per conto mio. Alla fine una piccola casa editrice indipendente nella parte ovest di New York ha espresso interesse per la pubblicazione di Pearl; tuttavia c’è stato un problema: la casa editrice aspettava delle sovvenzioni per pubblicare nuove opere e, dopo aver atteso per più di due anni in preda alla frustrazione, ho contatto il caporedattore. Lui voleva che io aspettassi ancora ma non mi diceva quando avrebbero garantito il finanziamento per pubblicare il mio libro e diversi altri, quindi ho chiesto il permesso di inviare e far valutare il manoscritto a un’altra casa editrice. Lui ha accettato con riluttanza e mi ha suggerito di invare Pearl alla Bilingual Review Press che mi ha risposto dopo quasi due anni. Ricordo ancora che cosa stavo facendo quando ho ricevuto la telefonata con cui mi informavano che avevano deciso di pubblicare il mio romanzo. Mentre discutevamo del contratto ho chiesto loro se si potesse prendere in considerazione il dipinto di mia nonna per la copertina e ho spiegato che era stato la genesi del romanzo. Con mia grande felicità hanno accettato! Il modo in cui ha scritto il romanzo mi ricorda molto del personaggio più giovane, Lilly, che trova il diario della nonna, mette insieme parole e immagini e infine riscrive o forse inventa la storia della sua famiglia. 329 Esa es la cosa. È stata Claudia Sadowsky-Smith5 a capire che Lilly puede haber inventado todo el cuento. En verdad, su madre Margarita, nunca le habló de Cuba; pero hay cosas que Lilly sabe. Molti dei lettori vogliono sapere se questo è vero (ossia che Lilly ha inventato la storia) e io dico sempre “No sé, non ne ho idea”. Quindi Lilly potrebbe essere la narratrice dell’intero libro. È possibile. Se questo è vero, Lilly sta accedendo ad alcune informazioni che si rivelano accurate, attraverso la sua immaginazione e intuizione. Forse una Lilly cresciuta e adulta. Sí, puede ser. Non è così importante saperlo. Ma è importante credere che sia possibile. Ci sono alcune tipi di conoscenza che tutti possediamo e a cui tutti possiamo accedere, ma che non possono essere spiegate empiricamente. 3) La sua posizione nel contesto culturale americano è poliedrica in quanto professoressa, critica letteraria, poetessa, autrice di romanzi e sceneggiature, curatrice di mostre e in più scrittrice con un’origine etnica. ¡Y un poco loca! [risate] È una posizione molto complessa nella cultura dominante statunitense. Pensa che si rifletta nella sua scrittura e nelle sue opere? Posso rispondere alla tua domanda in un paio di modi. Il tipo di posizionamento a cui ti riferisci in realtà non è inusuale a Cuba, diversamente 5 Claudia Sadowsky-Smith è una docente di letteratura inglese presso il College of Liberal Arts and Sciences della Arizona State University e autrice di un’esaustiva analisi di The Pearl of the Antilles. Durante il mio soggiorno presso la stessa università ho potuto incontrarla e le sono molto riconoscente per la disponibilità e gli stimolanti spunti dati alla mia ricerca. 330 dagli Stati Uniti, anzi è tipico. Molti degli artisti di CAFÉ, la mostra di cui parlo in Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House6, oltre a essere artisti, sono musicisti, scrittori, poeti e/o ballerini. Non so spiegare perché accada ma, in questo, sono molto cubana. Io sono anche una musicista amatoriale e un’artista senza una formazione specifica. Per me la musica, la pittura e la scrittura sono legate insieme. La maggior parte dei cubani che io conosco lo capiscono e pensano che sia perfettamente normale, ma per la maggior parte degli americani non lo è. Sebbene sia nata negli Stati Uniti, non sono cresciuta e non sono stata educata come una tipica americana. Anche se sono stata concepita a L’Avana, sono nata la prima settimana di gennaio del ’59 [a Philadelphia]; ma sono cresciuta negli Stati Uniti come una cubana, quindi la mia consapevolezza è sempre stata cubana – cosa che ho capito dopo molto tempo. Di conseguenza, mi sento sempre un’estranea, anche se sono americana. Il mio desiderio di sapere tutto di Cuba risale alla mia prima infanzia. Nell’introduzione alla raccolta di testimonianze che ho curato Remembering Cuba: Legacy of a Diaspora ricordo di quando seguivo mio nonno nell’orto, implorandolo affinché mi raccontasse le storie della sua vita sull’isola. Non ne avevo mai abbastanza di ascoltare storie di Cuba. Quando Pearl alla fine è stato pubblicato, una mia carissima amica, una poetessa e critica cubana, lo ha letto e mi ha detto, “Andrea, come lo conoscevi?”, “Come conoscevo cosa?” ho chiesto. “Conosci qualcosa che non riesco a spiegarti”, ha detto. “Beh”, ho risposto, “Tutti abbiamo ascoltato così tante storie su Cuba e ho visto delle foto”. “No, no, no” ha risposto, “non capisci…sei l’unica scrittrice che io conosco fuori da Cuba ad aver 6 Andrea O’Reilly Herrera, Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House (Austin: University of Texas Press, 2011). 331 scritto di quella Cuba – la Cuba del pasado – un mondo del passato che è scomparso, ma tu non ci sei mai stata”. “Neanche io lo capisco” ho detto, “tutto ciò che so è che da quando ero bambina potevo visualizzare questi momenti; quindi ho solo scritto ciò che ‘conoscevo’”. Di norma sono molto visiva, quindi ho semplicemente dipinto con le parole ciò che potevo ‘vedere’. Non sapevo se Pearl sarebbe mai stato pubblicato, ma dovevo scrivere questo libro, anche solo per me stessa. Ci ho pensato per anni ma, alla fine, sono riuscita a scriverlo solo dopo la morte dei miei nonni. No sé por qué, non è stata una decisione consapevole. Molto tempo fa mi si è presentata la scelta di diventare un’accademica o una scrittrice. Ho deciso in modo molto consapevole che non volevo vivere da scrittrice o da artista. Non volevo esser costretta a produrre un’opera in base alle richieste o ai gusti più in voga. Quindi scrivo liberamente e non mi preoccupo della ricezione delle mie opere. Non mi interessa il successo di un romanzo o quante persone lo leggano. Para mí no importa, en verdad. Mi interessa di più esser parte di ciò che vedo come un dialogo più ampio riguardo Cuba e la sua diaspora, quindi mi concentro sulle persone come te che sono interessate al mio lavoro, alle idee e alle questioni che affronto nella mia scrittura. In un certo senso dunque, la mia decisione di diventare un’accademica è stata útil, ma devo dire che amo insegnare e mi sento privilegiata per la possibilità di lavorare con i giovani. Molti dei miei colleghi e mentori all’università mi dicevano che il tipo di scrittura e lavoro creativo che speravo di fare non sarebbe stato considerato rigoroso o accademico e che la maggior parte dei dipartimenti di inglese non tiene in gran conto il lavoro creativo, a meno che tu non sia stata assunta come scrittrice. 332 All’inizio della mia carriera una casa editrice ha manifestato interesse a pubblicare la mia tesi di dottorato, ma il mio cuore non era in quel progetto. Volevo scrivere di Cuba e della diaspora. Alla fine sono stata molto fortunata perché l’università dove insegno ora apprezza e incoraggia tutto il lavoro che faccio su Cuba, inclusa la mia scrittura creativa. La sua tesi di dottorato non era sui conventi di suore7? Si…oh mio Dio! Ne sai più tu di me, di quanto non ne sappia io stessa! Dopo che la casa editrice mi aveva offerto un contratto preliminare, ho iniziato a rivedere la mia tesi ma ero abbattuta. Una carissima amica e collega mi ha chiesto, “Che cosa vuoi fare veramente?” le ho risposto che volevo lavorare a Remembering Cuba ma tutti mi dicevano di pubblicare la mia tesi e di mettere questo progetto nel cassetto. La maggior parte dei miei colleghi ripetevano che si trattava di un’occasione da non perdere e che il mio lavoro su Cuba non avrebbe avuto alcun valore in ambito accademico. Al contrario la mia amica mi ha incoraggiato a seguire il mio istinto. Era esattamente ciò che avevo bisogno di sentire, quindi ho rifiutato l’opportunità di pubblicare la mia tesi e ho iniziato a concentrare tutta la mia attenzione sulla raccolta delle testimonianze. Dunque mi considero molto fortunata a essere dove sono perché posso fare cose pazzesche, come curare una mostra o produrre la mia opera teatrale, e i miei colleghi mi sostengono. Sono esattamente dove dovrei essere. Sono completamente soddisfatta di dove sono perché amo i miei studenti e i colleghi e sono incoraggiata a fare il lavoro che ritengo più significativo. 7 O’Reilly Herrera ha conseguito il titolo di Doctor of Philosophy in English, presso la University of Delaware, nel 1993, con una tesi intitolata “Nuns and lovers: Tracing the development of idyllic conventual writing”. 333 4) Come le ha detto la sua amica, ha descritto Cuba meglio di come lo avrebbe fatto una cubana, forse per la sua prospettiva privilegiata sulla cultura cubana e statunitense, interna ed esterna allo stesso tempo. Non sono sicura di poter descrivere Cuba meglio di altri cubani, ma come ho accennato prima, credo che sia possibile accedere intuitivamente a un bagaglio di conoscenza altrimenti inaccessibile. In passato l’ho chiamata memoria ancestrale ma un mio collega mi ha ricordato che può avere connotazioni negative in altri contesti. È l’acquisizione di conoscenza da una consapevolezza collettiva, piuttosto che empiricamente. Ad esempio, io non avevo letto molta letteratura cubana all’epoca in cui stavo scrivendo Pearl. Avevo letto le opere di alcuni scrittori spagnoli e latinoamericani, ma i miei riferimenti principali mentre lavoravo al romanzo erano William Faulkner, Virginia Woolf ed Emily Brontë. Diverso tempo dopo aver terminato Pearl, ho letto qualcosa di Nicolás Guillén per la prima volta e ho scoperto di aver usato alcune immagini identiche a quelle che erano nella sua opera. La stessa cosa è successa quando ho letto altri autori cubani come Alejo Carpentier – c’erano evidenti collegamenti con altri scrittori cubani che mi avevano preceduto, ma che non avevo mai letto. È stato molto strano. Mi piace considerarlo un segno del fatto che mi trovavo sulla giusta strada. A me sembra una versione contemporanea della transculturazione, transculturación, di Fernando Ortiz. Forse questo è parte della nostra consapevolezza collettiva o della nostra eredità collettiva. Non so come spiegarlo perché non ha molto senso in un contesto occidentale tradizionale. Chiaramente non si tratta di un approccio occidentale alla conoscenza. Piuttosto, riguarda il dar valore ai propri sogni, alle intuizioni e all’immaginazione. Alcuni giorni fa, insegnando nel mio corso di Latino/a literature, cercavo di spiegare ai miei studenti il concetto di realismo 334 magico. Gli raccontavo che c’è un tipo di realismo magico che si verifica in determinate situazioni politiche, come un massacro in una stazione dei treni che poi, il giorno successivo, nella stampa ufficialmente non è accaduto. Questa è la forma di realismo magico politico che Gabriel García Márquez ha descritto nel discorso fatto quando ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Ma in molte opere messicane o chicane o nella letteratura caraibica ciò che i critici definiscono realismo magico è qualcosa di diverso. È accedere a un diverso tipo di conoscenza e consapevolezza a cui, come ho detto prima, si può giungere solo con l’intuizione. Mia madre, ad esempio, è cubana ma avendo vissuto negli Stati Uniti per più di 50 anni è diventata anche molto Americana. In ogni caso, quando le parlo dei miei sogni o anche delle visioni e premonizioni le prende molto sul serio e accetta totalmente la possibilità di prevedere le cose o di avere lo stesso sogno che ha avuto qualcun altro. Lei considera queste possibilità come completamente naturali o normali. Ecco di cosa si tratta; non è politica. Quindi io incoraggio i miei studenti a leggere questa letteratura con la mente aperta, anche se non credono che ciò che leggono sia possibile e li incoraggio, come disse il poeta britannico Coleridge, a “sospendere” la loro “incredulità”. Solo così si può credere che Lilly stia accedendo a delle informazioni che non ha acquisito in modo ordinario. 5) Oltre i momenti di realismo magico ci sono scene inquietanti, come all’inizio, l’anziana sulla montagna che guarda le celebrazioni del paese. Questo immerge i lettori in un’atmosfera cupa. Questa scena è stata la prima che ho “visto”. Come ti ho detto, non avevo idea di come sarebbe stata la trama o la storia prima di iniziare a scrivere Pearl. Dovevo far dispiegare la storia e questo momento è stato la prima scena. Ne stesi 335 una prima bozza diversi anni prima di iniziare il romanzo. È una sorta di parabola che traccia la storia di Cuba e della rivoluzione, attraverso le sue diverse ondate. Quindi c’è della verità storica nella visione. Ad esempio, quando i soldati ribelli sono scesi dalle montagne, dalla Sierra Maestra, erano vestiti come monaci, con lunghe barbe e rosari intorno al collo. Solo dopo chi legge si rende conto che Tata è l’anziana sulla montagna. Tutti vogliono sapere quando è nata Tata. Di solito rispondo “Non ne ho idea, dovreste chiederlo a lei”. Chiaramente Tata è una visionaria; vede quasi tutto. Questa scena è sempre stata all’inizio del romanzo, ma qualcuno che ha letto il mio manoscritto successivamente mi ha fatto capire che era confusionaria e mi ha incoraggiato a spostarla alla fine della prima parte, quando Rosa muore. Io ho seguito il suo consiglio anche se, dentro di me, ero sicura che fosse la decisione sbagliata. Poi ho sognato che dovevo riportarla a dove era originariamente. Molto più tardi, leggendo opere di altri autori latinoamericani ho scoperto che la scena del sogno all’inizio di un’opera è una convenzione comune nella narrativa latinoamericana e mi sono sentita legittimata. Molte persone mi dicono ancora che non capiscono la scena del sogno e la trovano confusionaria, allora spiego che prefigura ciò che verrà in seguito. Certamente se non si conosce la storia di Cuba risulterà misteriosa. Eppure sono ancora sicura che questa scena dovesse rimanere all’inizio del romanzo; poi la narrativa diventa più cronologica e ci sono eventi più identificabili, date, etc. Questa struttura, quindi, suggerisce che i due mondi – l’ordinario e il mondo in cima alla montagna – siano qualcosa di distinto e a volte in contrasto. 336 6) E cosa mi dice di Casandra, la mulata? Dimmi cosa pensi tu di Casandra. Io la ricollego a figure di altri romanzi che rappresentano l’alterità, l’elemento indiano che tutti vogliono sopprimere o nascondere. Come Tata lei è un’indigena, quindi rappresenta una razza che è stata praticamente eliminata a Cuba dagli spagnoli; tuttavia richiama anche due importanti modelli letterari: l’Odissea e l’Orestea, la trilogia greca che racconta la caduta della casa di Atreo. Nell’Orestea Cassandra è una figura molto importante perché è colei che dice la verità ma la sua maledizione vuole che nessuno la possa capire. Da qui viene il suo nome8. In Pearl, Casandra è l’amante di Pedro, cosa molto comune in questo contesto storico. Non è chiaro chi sia il padre di suo figlio. Di fatto, probabilmente non è Pedro, non ho voluto decidere. Ovviamente Casandra è sfruttata e maltrattata. Lei è una vittima delle circostanze; ma anche Rosa è una vittima, anche se evidentemente non nello stesso modo. Tutte le donne sono vittime di un sistema post-coloniale e patriarcale, anche se la razza e la classe sociale le dividono. La prima volta in cui ho iniziato a dar vita e spessore a Casandra l’ho messa in una posizione antagonistica rispetto a Rosa. Era prevedibile che fossero nemiche quindi, successivamente, ho deciso di rovesciare questo paradigma di donne in posizione antagonistica, contestando la struttura che mette le donne le une contro le altre, mentre le rende tutte vittime e oppresse allo stesso tempo. Anche se Casandra non ha quasi potere, volevo creare dei legami tra lei e Rosa. Quindi Casandra doveva essere qualcosa di diverso, anche se è parte di un mondo ancora ossessionato dall’eredità del colonialismo, 8 Nel romanzo il nome del personaggio è Casandra (grafia spagnola). Nella trascrizione ho mantenuto la grafia spagnola in riferimento al personaggio, mentre ho riportato quella inglese (Cassandra) per indicare la figura della mitologia greca. 337 del patriarcato e della schiavitù. Volevo realmente osservare le donne e le loro posizioni in questo genere di cultura e di situazioni e in questo tipo di società, di cui esistono ancora i resti. 7) Mi ha incuriosito molto questa struttura multigenerazionale in cui le donne sono collegate le une alle altre. Naturalmente non sono l’unica scrittrice che ha implementato questa struttura o quadro. Molti scrittori hanno indagato il modo in cui le tradizioni vengono tramandate di generazione in generazione. Molti scrittori hanno esplorato questo tema – la trasmissione dei ruoli di genere. Quando si parla di sesso e patriarcato, ci si chiede sempre che cosa facciano gli uomini alle donne, ma io ero interessata anche a osservare che cosa fanno le donne alle altre donne. Prendi ad esempio la relazione tra Rosa e Rafaela. Rosa non parla realmente con la madre quando questa è viva; solo dopo che Rafaela è morta hanno una conversazione aperta, anche se chi legge è consapevole del fatto che Rafaela continua a celare delle informazioni a Rosa e a mentire alla figlia. Quindi, anche da morta, Rafaela continua a perpetuare e consolidare una prassi del comportamento femminile, legato alla tradizione patriarcale. I libri di storia sono scritti dagli uomini. Sì, prevalentemente, e io sono interessata alla vita delle donne e naturalmente ai modi in cui le loro vite sono parallele alla Grande Storia. Quindi ha bisogno dell’approccio multigenerazionale per dare un quadro più ampio. Certo…e per vedere cosa si tramanda di generazione in generazione. Anche il mio lavoro critico è imperniato su questo argomento. Mentre raccoglievo 338 le testimonianze per ReMembering Cuba, ho scoperto che i cubani continuano a trasmettere le loro tradizioni culturali per diverse generazioni nella diaspora; in più di cinquanta anni non è cambiato molto. Ad esempio, Jeffrey [Rubin-Dorsky]9 ha fatto partecipare sei scrittrici contemporanee – compresa me e un’altra scrittrice cubana [Ana Menéndez] – a una delle sue lezioni all’università, per interagire con gli studenti in aula. Abbiamo anche portato Isabel Álvarez Borland, una critica letteraria molto nota. Una sera noi tre [Isabel, Andrea e Ana] abbiamo fatto cena insieme. Io avevo dieci anni di più di Ana e Isabel aveva dieci anni più di me; siamo tutte cresciute in famiglie borghesi. Ana era nata e cresciuta negli Stati Uniti, io sono stata concepita a L’Avana ma sono nata a Philadelphia; e Isabel è cresciuta a Cuba ed è venuta negli Stati Uniti da adolescente. Durante quella cena ci siamo rese conto che eravamo state educate e formate come donne esattamente allo stesso modo. Quasi non ci potevamo credere e abbiamo riso fin dall’inizio. Nell’arco di venti anni non c’era stato nessun cambiamento significativo nella nostra educazione. Da donna cubano-americana, attraverso confini e generazioni, sono molto interessata al comportamento che le donne insegnano alle altre donne e a come diventino, inavvertitamente, le guardiane di sistemi che, in realtà, le opprimono. 8) Non so esattamente se è un’impressione o se è vero: ho notato che alcune frasi nel romanzo sono in inglese ma richiamano lo spagnolo. Questo è molto interessante. 9 Andrea O’Reilly Herrera fa riferimento al corso “Recent American Women’s Fiction: First Efforts” che il prof. Jeffrey Rubin-Dorsky (ora in pensione) ha tenuto nel 2002 presso la University of Colorado, Colorado Springs. Durante il semestre sono state invitate a parlare delle loro esperienze sei giovani autrici: Erika Krouse, Dana Spiotta, Laura Glen Louis, Jenny McPhee, Ana Menéndez e la stessa Andrea O'Reilly Herrera, come si evince dall’articolo “First-time novelists in the literary spotlight at UCCS”, pubblicato sul Colorado Springs Independent il 21 febbraio 2002: <thttp://www.csindy.com/coloradosprings/first-editions/Content?oid=1113944> . Data d’accesso 3 gennaio 2013. 339 Soprattutto nelle lettere, quando tía scrive “imagine!”. Ho degli amici cubani che lo usano molto: “¡imagínate!”. È sorprendente, nessuno me lo aveva mai detto. Quando scrivevo i dialoghi e anche le lettere in Pearl, continuavo a ripetere le righe a voce alta perché volevo imitare le conversazioni che avevo ascoltato crescendo, così come le lettere dei parenti che erano rimasti a Cuba e che ci venivano lette. Ho cercato intenzionalmente di immaginare cosa avrebbero detto le donne dell’Havana Yacht Club parlando tra di loro, ad esempio. Alcune delle parole o delle espressioni non funzionerebbero in inglese, come “¡Qué barbaridad!” (che in inglese si tradurrebbe letteralmente come “What a barbarity!”). Sandra Cisneros lo ha scritto: “What a barbarity!”. Sì, in Caramelo, adoro quel libro! Lei cercava di esprimere la stessa idea – che alcune cose semplicemente non possono essere tradotte: sarebbero ridicole! Ma cercavo di imitare il più fedelmente possibile il modo in cui queste donne avrebbero parlato. Mi sono rivenute in mente le nostre cene in cui tutti parlavano contemporaneamente; io ero appassionata ed emotiva. Quindi mentre scrivevo ho semplicemente aperto le mie orecchie per ascoltare le conversazioni e le discussioni. Anche in inglese cercavo di immaginare “Come avrebbe formulato questo il tal dei tali? Quali parole avrebbero usato per dirlo?”. Quindi quello che mi dici è fantastico. 9) Parlava spagnolo con la sua famiglia da piccola? Mia madre non parlava spagnolo con noi, ma c’erano molte persone che vivevano con noi, ad esempio da Pedro Pan [Operazione Peter Pan] e parenti che non parlavano inglese. Quindi abbiamo imparato spagnolo da tutti meno che da 340 mia madre, anche se lei parlava in spagnolo con gli altri. Una volta le ho chiesto di questo, durante una sua visita dopo che mi ero trasferita in Colorado. Eravamo sedute fuori sotto al portico e il nostro vicino colombiano si è avvicinato e ha iniziato a parlarle in spagnolo. Lei ha risposto in spagnolo e in seguito mia figlia ha detto “Non avevo mai sentito nonna parlare in spagnolo”. È stata la prima volta in cui mi sono resa conto che non aveva mai parlato in spagnolo neanche con noi. Mia madre è venuta negli Stati Uniti per la prima da adolescente durante il violento regime di Machado, negli anni Trenta, ed è stato tremendo perché non parlava inglese. Più tardi mi è venuto in mente che la sua decisione di rivolgersi a noi in inglese (invece che in spagnolo) può esser stata il risultato della sua esperienza. Glielo ho riferito qualche tempo fa e lei mi ha risposto “Non ci avevo mai pensato, ma probabilmente è vero”. Quindi abbiamo tutti imparato spagnolo a orecchio. Mio padre, pobrecito, lo ha imparato nello stesso modo. Era irlandeseamericano e diceva cose in Spanglish come “quiero un poco de juicy”. I suoi genitori erano morti e la maggior parte dei suoi parenti era ancora in Irlanda, quindi ha imparato spagnolo per legittima difesa perché quasi tutti in casa lo parlavano. Persino i parenti di mia madre a Miami non parlavano inglese. Sono venuti e non lo hanno mai imparato. Quindi abbiamo tutti imparato lo spagnolo ascoltando le loro conversazioni. 10) Anche i suoi figli parlano spagnolo? Una delle mie figlie ama lo spagnolo e lo ha insegnato per tre anni. Mio figlio e l’altra figlia sono andati a lezione di spagnolo dopo la laurea e anche loro lo amano. Lo capiscono molto bene, in parte perché il loro nonno paterno parlava 341 solo spagnolo – era catalán. Anche il mio ex marito è cresciuto parlando spagnolo, quindi ascoltavano lo spagnolo continuamente in casa. Quando i miei lettori si imbarcano nei passi in spagnolo di Pearl (nel taccuino verde in pelle marocchina), molti sono seccati e frustrati. Alcuni dei brani provengono, in realtà, dal quaderno di scuola elementare di mia nonna che ho trascritto, o vengono da articoli di giornale de El diario de la marina, che lei ritagliava e conservava. In risposta io chiedo alle persone di considerare chi sta leggendo il taccuino. Chi lo sta guardando nel romanzo? Naturalmente è Lilly. Quindi immaginate come vi sentireste nei suoi panni, ad affrontare questa barriera impenetrabile della lingua? Se non riuscite a leggerlo, allora vi potete identificare con Lilly e potete iniziare a immaginare come sarebbe scoprire che anche la porta del vostro passato è chiusa a chiave. Chi legge si deve chiedere perché gli scrittori incorporino lingue straniere nelle loro opere. Non è gratuito, non è per farli arrabbiare. Come ho detto prima, non si può sempre tradurre tutto – specialmente se si tratta di esperienza e cultura. Nel ruolo di lettori-estranei, ci si trova sempre a tradurre. In definitiva ciò che si sta traducendo diventa qualcosa di diverso e nuovo. Metaforicamente, questo atto di traduzione rappresenta un modo per negoziare le culture linguisticamente. Quindi, in un certo senso, inserire lo spagnolo nel romanzo rappresenta il tentativo di Lilly di negoziare due lingue e due mondi. Gli immigrati di solito hanno un’esperienza simile al contrario, con l’inglese. 342 Sì, la questione della lingua è fondamentale, non solo per la formazione di un’identità ma per lo sforzo d’integrazione in una cultura straniera; quindi per gli immigrati può rappresentare uno dei modi in cui sono imbrigliati in due mondi e due culture. 11) In Cuba: Idea of a Nation Displaced cita il concetto di “mnemostoria” di Jan Assmann, secondo il quale noi “siamo ciò che ricordiamo” e la memoria è un’interazione costante di storia, immaginazione, sogno e nostalgia. Come pensa che la memoria individuale e collettiva interagiscano in un romanzo o nel mondo reale? Ciò che amo di Assmann è che non è interessato tanto a trovare le “verità” della storia, quanto alle idee e alle memorie che vengono accolte e tramandate. Mentre insegnavo a Lublin come docente Fulbright10 mi sono resa conto, dopo aver parlato con i miei studenti, che la Polonia è “scomparsa” o è stata cancellata come nazione per circa centoventissette o centoventotto anni. C’è stata una diaspora e gruppi di polacchi si sono sparpagliati in tutta Europa o sono emigrati negli Stati Uniti. Una folta comunità si è stabilita in Francia e molti dei miei studenti erano nipoti o pronipoti di quelle persone. La cosa sorprendente è che hanno portato con loro la cultura e hanno preservato una coscienza comune (che comprendeva idee individuali e un senso della memoria collettiva). Nell’introduzione al mio nuovo libro Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House, oltre che al concetto di mnemostoria di Assmann, mi sono ispirata alla fisica quantistica che non si preoccupa di dove sia un oggetto, fisicamente, ma piuttosto di dove potrebbe essere. Quindi non mi interessa particolarmente di chi sia la storia vera o la più “forte”. Mi interessano di più le storie che viaggiano nel tempo, le “verità” collettive – talvolta in 10 O’Reilly Herrera è stata Fulbright Distinguished Chair in American Studies presso la Maria Curie-Sklodowska University di Lublin (Polonia), nell’a.a. 2005-2006. 343 contraddizione – che sono accolte dalla comunità e preservate di generazione in generazione. Difatti, io rifiuto la concezione lineare o binaria del pensiero e della conoscenza. E non mi preoccupo di trovare risposte certe e conclusive. In realtà non mi interessa mai qual è “la risposta”, ma piuttosto tutte le possibili risposte, che potrebbero anche essere in contraddizione. Ha senso? Sì, assolutamente. Quest’ultima idea mi ha ricordato dell’origine della mostra CAFÉ, ispirata da una conversazione tra tre artisti diasporici cubani – Leandro Soto, Yovani Bauta e Israel León – che si erano resi conto della possibilità di perpetuare il rituale del caffè, alla cubana, ovunque ci si trovi nel mondo. Sì, certo, e gli ingredienti cambiano e l’ambiente in cui il caffè è fatto è soggetto a cambiamento, quindi c’è sempre qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio, qualcosa che si muove o cambia e qualcosa che rimane costante o stabile. È un equilibrio di molteplici elementi che sono spesso in un rapporto paradossale e li prendiamo in considerazione tutti, in movimento, ogni cosa che si trovi lì. In quel momento e in quel luogo. Esattamente, per questo la metafora centrale di CAFÉ ha perfettamente senso per me. Anni fa ho studiato con il teorico cubano Antonio Benítez-Rojo – che è stato il mio mentore e la mia guida e ha appoggiato ogni cosa che ho fatto. È stato il primo a concepire la possibilità del paradosso e dell’armonia. Un giorno, mentre studiavo con lui in un laboratorio all’Università di Miami, ha trattato questo argomento e lo ha descritto come una sensibilità peculiare dei Caraibi. Io ho alzato la mano e ho detto che mi ricordava la giocoleria. Hai tutte queste nozioni o idee in aria simultaneamente e possono essere contraddittorie o paradossali; non vanno sempre insieme. Ma sono tutte in aria e il trucco è semplicemente di mantenerle lì, senza cercare di separarne una o l’altra. La cosa 344 più importante è che esse siano tutte sospese in aria, simultaneamente. Lui ha risposto “È proprio questo. Hai capito!”. Due dei miei migliori amici cubani hanno corroborato questa idea. Sono fisici e quando discutevamo di letteratura, loro parlavano di fisica quantistica e facevano dei paralleli. Attraverso di loro ho iniziato a vedere la bellezza della fisica e come la letteratura richiami i principi e i fondamenti che loro descrivevano. Anche le nostre conversazioni mi hanno influenzato molto. Difatti, essi hanno formulato una modalità per esprimere non un’identità (perché non uso questa parola) ma una consapevolezza o un “modo di essere” che secondo Antonio era peculiare dei Caraibi. Nel mio ultimo libro sull’arte della diaspora cubana ho cercato di proporre un modo molto più aperto e inclusivo di concepire il senso di appartenenza e ciò che costituisce la cubanità o una consapevolezza cubana e, in questo caso particolare, un artista cubano. È un quadro teorico che potresti usare per analizzare Pearl. Naturalmente questa idea mette a disagio molte persone, perché è più sicuro pensare in modo binario. Ma se si adotta un pensiero binario, immediatamente queste questioni vengono politicizzate perché o appartieni o non appartieni, sei qui o lì. 12) Che relazione ha, in questo momento, con la comunità cubana di Miami? Dipende con chi sono e dove sono. La ricezione del mio lavoro in Europa è completamente diversa da quella che ho qui. Alcuni americani e cubani si sentono a disagio per le mie opere e in particolare per il mio punto di vista teorico. Gli americani tendono a interpretare Cuba influenzati dalle politiche razziali, di classe e di genere negli Stati Uniti; o etichettano il mio lavoro come politicamente troppo conservatore, ed esaltano il regime pur avendo una scarsa conoscenza 345 diretta o esperienza di vita all’interno di un sistema totalitario. Altre persone – compresi alcuni cubani – ritengono che io non abbia il diritto di parlare di Cuba perché non vi sono nata. Questo solleva la questione che io chiamo gerarchia di autenticità, che mette in discussione chi può parlare della cultura cubana e chi può reclamare il dolore o il senso di perdita e sradicamento. Quando ho diffuso l’invito a presentare proposte per Remembering Cuba, le risposte immediate che ho ricevuto sono state da persone nate fuori da Cuba – la lost generation di cui parlo in uno dei miei saggi in Cuba: Idea of a Nation Displaced. Eppure, alcuni cubani mi hanno detto che non ho il diritto di “appropriarmi” della loro cultura. Se si sollevano queste questioni o si usano questi criteri per stabilire chi è autorizzato a parlare, io so già che non si centra il punto. 13) È mai stata a Cuba? Sai, ogni tentativo che ho fatto per andare a Cuba è stato ostacolato. Credo che sia per i miei libri. Ma un giorno – al momento giusto – ci andrò. Non potrebbe andare come turista? Non voglio andare illegalmente. E fondamentalmente, non voglio andare a Cuba da turista. Voglio andare per quello che sono - una cubanita pasada por agua11 – e presentare il mio lavoro. Spero, considerando alcuni dei cambiamenti che stanno accadendo ora, che accadrà presto. 11 Uno dei saggi che O’Reilly Herrera ha scritto per Remembering Cuba si intitola proprio “Una cubanita pasada por agua”. Al suo interno l’autrice spiega che “After overhearing me tell a Puerto Rican shopkeeper, in Spanish, that I was Cuban, my mother affectionately began referring to me as una cubanita pasada por agua – a little Cuban girl “passed” through water / Dopo avermi sentito dire a un negoziante portoricano, in spagnolo, che ero cubana, mia madre ha iniziato affettuosamente a chiamarmi una cubanita pasada por agua – una piccola cubana passata sotto l’acqua”. Andrea O’Reilly Herrera, “Una cubanita pasada por agua”, Remembering Cuba, 317. 346 Ho sentito che Cristina García è censurata a Cuba. È lo stesso anche per le sue opere? Si possono comprare i suoi libri a Cuba? Onestamente, penso di no. 14) Come concepisce la diaspora cubana? Molti degli artisti che ho intervistato per il mio ultimo libro concepiscono la diaspora come una possibilità creativa. Hanno usato la loro arte per ricreare uno spazio nella diaspora che riflette una storia di movimento, integrazione, sintesi e trasformazione, processi che hanno sempre caratterizzato Cuba – a partire dalla colonizzazione spagnola, l’immigrazione, l’emigrazione e i molteplici esili, prima di Martí e fino a ora. Il movimento è stato sempre parte integrante della storia cubana e ha forgiato la consapevolezza cubana. Quando si parla di assorbire nuovi elementi culturali, tutti questi artisti lo vedono come qualcosa di naturale, perché la cultura cubana è ricettiva ed eclettica, è un ajiaco 12 (usando la metafora di Ortiz). Per capire questo si deve prima conoscere la storia dei Caraibi. Le tue radici non sono in nessun posto e sono dappertutto. Un mio caro amico cubano dice spesso che “la casa è la famiglia e gli amici”. Sì sono d’accordo; aggiungerei che la casa è come una tenda – e la si può ricreare ovunque ci si trovi. In questo senso, è il viggio in sé. 12 Uno stufato tipico dei Caraibi e del Sudamerica in cui si mescolano ingredienti molto eterogenei. Fernando Ortiz preferisce la metafora panamericana dell’ajiaco per descrivere l’ibridismo e l’ecletticità culturale delle Americhe, piuttosto che l’immagine statunitense del melting pot. Fernando Ortiz, “Del fenómeno social de la ‘transculturación’ y de su importancia en Cuba” (Revista bimestre cubana 46, 1940): 161-186. 347 348 Conclusioni La mia analisi narratologica, linguistica e culturale delle tre opere prese in esame è stata condotta attraverso le coordinate dell’immaginazione genealogica e dell’identità generazionale, concepite come linee guida per far affiorare quel palinsesto di eredità visibili e invisibili con cui ciascuno dei narratori-protagonisti si è confrontato 13 . A partire dall’impulso post-individualista a concepire la famiglia come microcosmo di cultura, essi ricostruiscono infatti – attraverso la narrazione – un tessuto transgenerazionale di memorie, traumi, lingue e voci del passato, sottoposti a una complessa operazione di assimilazione, traduzione, trasformazione e sintesi, che permette a ciascuno di rinnovare continuamente la propria identità nel presente. Nonostante le significative differenze storiche e socioculturali delle tre comunità ispaniche da cui provengono le famiglie protagoniste delle opere, le loro vicende ci restituiscono un’immagine allargata e proteiforme dell’identità dei Latinos negli Stati Uniti, costantemente ridefinita in un interspazio ibrido e contrappuntistico in cui riferimenti culturali contrastanti, lingue sommerse e tradizioni secolari vengono contaminate e reinventate. La loro esperienza eterogenea e fluida si configura, di volta in volta, come un “ajiaco de contradicciones” 14 o un “sancocho”15: metafore culinarie in cui rivive il processo 13 O’Reilly Herrera descrive la sua eredità cubana come “palimpsest of visible/invisible inheritances” nella sua prefazione a Remembering Cuba, xxx. 14 “Ajiaco di contraddizioni”. Nel paragonarsi al famoso stufato della cucina cubana, lo scrittore e accademico cubano-americano Pérez Firmat rende omaggio alla famosa immagine con cui 349 ininterrotto di transculturazione attraverso il quale le due Americhe, ormai da secoli, collidono e si rigenerano allo stesso tempo16. Quando l’identità magmatica dei Latinos viene descritta attraverso le coordinate spazio-temporali del romanzo multigenerazionale, essa può emergere in tutta la sua dirompenza come “poly-rhytmic […] ensemble” 17 come nel modello di trasmissione culturale elaborato da Benítez-Rojo in cui continuità e trasformazione, differenza e ripetizione possono convivere. Grazie al respiro multisecolare e alla frizione costante tra elementi diacronici e sincronici che caratterizzano questo genere di romanzo, anche all’interno di un apparente caos possono infatti emergere quelle dinamiche culturali costanti che vengono tramandate di generazione in generazione e costantemente rinnovate, pur nella loro ciclicità18. Riprendendo una delle immagini più vivide che mi ha lasciato O’Reilly Herrera in occasione della nostra intervista, immagino i tre autori presi in esame l’etnologo Fernando Ortiz aveva descritto Cuba. Gustavo Pérez Firmat, “Carolina Cuban”, Bilingual Blues: Poems, 1981-1994 (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 1995) 164. 15 Il sancocho è una zuppa a base di carne, tuberi e verdure tipica di tutto il Sudamerica. Le sue origini si fanno risalire alla cucina Taina, contaminata con quella spagnola e di altre tradizioni culinarie europee. Flores, From Bomba to Hip-Hop, 58. 16 Bronislaw Malinowski, nella sua introduzione all’opera di Ortiz, sintetizza efficacemente il concetto di trasculturazione affermando che: “Todo cambio de cultura, o [...] toda transculturación, es un proceso en el cual siempre se da algo a cambio de lo que se recibe; es un ‘toma y daca’, come dicen los castellanos. Es un proceso en el cual ambas partes de la ecuación resultan modificadas. Un proceso en el cual emerge una nueva realidad, compuesta y compleja; una realidad que no es una aglomeración mecánica de carácteres, ni siquiera un mosaico, sino un fenómeno nuevo, original e independiente. / Ogni cambiamento di cultura, o [...] transculturazione, è un processo in cui si da sempre qualcosa in cambio di ciò che si riceve; è un ‘dare e avere’ come dicono gli spagnoli. È un processo in cui emerge una realtà nuova, composta e complessa; una realtà che non è un agglomerato meccanico di caratteri e neanche un mosaico, bensì un fenomeno nuovo, originale e indipendente”. Bronislaw Malinowski, “Introducción”, Contrapunteo cubano del tabaco y el azúcar, Fernando Ortiz (Caracas: Biblioteca Ayacucho, 1978) 5. 17 “Insieme poliritmico”. Antonio Benítez Rojo, The Repeating Island: The Caribbean and the Postmodern Perspective (Durham, NC: Duke University Press, 1992) 27-28. 18 Di fatto, secondo Benítez Rojo: “Within this chaos of difference and repetitions, of combinations and permutations, there are regular dynamics that co-exist. / All’interno di questo caos di differenza e ripetizioni, di combinazioni e trasformazioni, ci sono dinamiche regolari che coesistono”. Ibidem, 81. 350 in questa tesi come “giocolieri” intenti a mantenere costantemente in aria i molteplici elementi etnici, genealogici e generazionali che animano l’identità delle proprie comunità d’origine e sopravvivono al passaggio della storia, rafforzati da pratiche sociali e artistiche che ne garantiscono la continuità e la trasformazione, oltre ogni confine di appartenenza geografica. Le loro opere sono dunque strumenti pulsanti di transculturazione, capaci di elevare l’esperienza minoritaria dei Latinos a paradigma universale di trasmissione e rielaborazione della memoria, del ricordo e di una coscienza culturale, assumendo in questo modo i tratti di una “impossible science of the unique being”19, di un modello allo stesso tempo unico e plurale, specifico e generale. Il romanzo multigenerazionale può dunque veicolare un nuovo approccio critico per riconsiderare le dinamiche identitarie e le espressioni artistiche delle minoranze etniche e dei popoli che temono la minaccia dell’oblio, per la sua capacità straordinaria di enfatizzare i legami genealogici e la trasmissione transgenerazionale del senso di appartenenza culturale, che lascia in secondo piano e sminuisce parallelamente il ruolo delle origini geografiche. Di fronte a una modernità frammentata e caratterizzata da flussi ininterrotti in cui siamo tutti sempre più immersi in uno spazio delocalizzato, ibrido e pluriculturale, il romanzo multigenerazionale può dunque racchiudere depositi emblematici di significato, attraverso i quali rileggere il proprio vissuto, per dare un senso a ciò che è stato e prefigurare il futuro di ciascuno. Ci permette infatti di riscoprire una sorta di corrispondenza vivente tra passato e presente in cui rielaborare traumi e ferite, facilitando l’identificazione anche con una storia che 19 “Scienza impossibile dell’essere unico”. Barthes, Camera Lucida, 71. 351 non abbiamo vissuto in prima persona20. Risponde, in definitiva, al bisogno di organizzare lo scorrere del tempo, dandogli una forma, un ritmo e un senso, seppur fittizio e soggetto a continue metamorfosi, così come avviene, secondo Frank Kermode, nel momento in cui ricostruiamo un inizio e una fine immaginarie per il tic-tac dell’orologio: The clock’s “tick-tock” I take to be a model of what we call a plot, an organization which humanizes time by giving it a form; and the interval between “tock” and “tick” represents purely successive, disorganized time of the sort we need to humanize.21 Se le Americhe e i Caraibi sono sempre stati un luogo di convergenza, di flussi migratori, di scambi economici e di impollinazioni incrociate, la loro cultura stratificata e in perenne movimento trova il suo simbolo più potente nelle metafore acquee del Río Grande e dell’Oceano Atlantico che affiorano dalle pagine dei romanzi analizzati e che rivivono, in tutta la loro potenza, nell’esperienza letteraria dei tre autori. Il Río Grande è per Candelaria emblema universale di ciclicità, della marcia inevitabile della storia, ma anche del cambiamento incessante e del legame transgenerazionale. Rappresenta inoltre una sorta di ferita aperta tra passato e presente, inglese e spagnolo, Primo e Terzo 20 In riferimento alle foto di famiglia, ai romanzi genealogici e a tutti quegli oggetti o forme espressive attraverso le quali si rielabora il passato, Marianne Hirsch afferma infatti che “they function as screens that absorb the shock, filter and diffuse the impact of trauma, diminish harm. In forging a protective shield particular to the postgeneration, one could say that, paradoxically, they actually reinforce the living connection between past and present, between the generation of witnesses and survivors and the generation after. / Fungono da schermo che assorbe lo shock, filtrano e attutiscono l’impatto del trauma, diminuiscono il dolore. Forgiando uno scudo protettivo specifico della post-generazione, paradossalmente, si potrebbe dire che in realtà rinforzino la corrispondenza vivente tra passato e presente, tra la generazione dei testimoni e dei sopravvissuti e la generazione successiva”. Hirsch, “The Generation of Postmemory”, 125. 21 “Considero il ‘tic-tac’ dell’orologio un modello di ciò che chiamiamo trama, un’organizzazione che umanizza il tempo dandogli una forma; e l’intervallo tra ‘tic’ e ‘tac’ rappresenta un tipo di tempo disorganizzato e semplicemente in successione che abbiamo bisogno di umanizzare”. Frank Kermode, The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction with a New Epilogue (New York: Oxford University Press, 2000) 45. 352 mondo, Nord e Sud che gli autori Latinos cercano incessantemente di ricucire con la propria scrittura22. È sull’Oceano Atlantico, invece, e sulla memoria del middle passage che esso racchiude, che si iscrive l’identità in perenne movimento della diaspora portoricana e cubana, nella loro matrice afrocaraibica, ispanica, meticcia e, oggi, anche angloamericana. L’esperienza portoricana, nello specifico, è caratterizzata dalla possibilità di andare sull’isola e ritornare negli Stati Uniti ininterrottamente. Questo costante via vai fisico e mentale spesso si traduce nell’impossibilità di gettare un’ancora in nessuno dei porti, come avveniva ne “El barco que nunca atraca”23 di Lorna Dee Cervantes, e come sembra trapelare dal disagio profondo dell’esperienza di Edward Rivera. Forse per questo la coscienza della diaspora portoricana non risiederebbe né sull’isola, né sul continente, ma piuttosto 22 La metafora della “ferita aperta” appartiene a Gloria Anzaldúa che l’ha usata per descrivere il fecondo e complesso meticciato culturale che si ricrea sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti e, in generale, in tutte le zone di confine: “The U.S.-Mexican border es una herida abierta where the Third World grates against the first and bleeds. And before a scab forms it hemorrhages again, the lifeblood of two worlds merging to form a third country – a border country. / Il confine tra Stati Uniti e Messico è una ferita aperta in cui il Terzo mondo sfrega contro il Primo e sanguina. E prima che si formi una crosta, perde ancora sangue, la linfa vitale di due mondi si fonde per formare un terzo Paese – un paese di frontiera”. Anzaldúa, Borderlands: La Frontera, 25. 23 “La barca che non attracca mai”. Si tratta del verso finale della famosa poesia “Refugee Ship” della poetessa chicana Lorna Dee Cervantes. “Like wet cornstarch, I slide / past my grandmother’s eyes. Bible / at her side, she removes her glasses. / The pudding thickens. / Mama raised me without language. / I’m orphaned from my Spanish name. / The worlds are foreign, stumbling on my tongue. I see in the mirror / my reflection: bronzed skin, black hair. / I feel I am a captive / Aboard the refugee ship. / The ship that will never dock. / El barco que nunca atraca”. In italiano la poesia è stata tradotta da Franca Bacchiega: “Come amido bagnato sguscio via / sotto gli occhi della nonna. La bibbia / a lato, lei si toglie le lenti. / Il budino s’addensa. // Mamma m’ha allevato senza lingua. / Sono orfana del mio nome spagnolo. Le parole sono forestiere, tartagliano / sulla mia lingua. Vedo nello specchio / la mia immagine riflessa: pelle di bronzo, capelli neri. // Mi sento prigioniera / su una nave di emigranti. / La nave che non attraccherà mai. / El barco que nunca atraca”. Lorna Dee Cervantes, “Refugee Ship”, Sotto il Quinto Sole: Antologia di poeti chicani, ed. Franca Bacchiega (Firenze, Passigli, 1990) 106. 353 nell’immagine dell’aereo ricreata da Luis Rafael Sánchez, che fluttua e trasporta costantemente i portoricani da un lato all’altro24. Lo stesso oceano separa e unisce Cuba dalle coste della Florida e dal resto del mondo e appare alternativamente come chiusura e limite invalicabile, ma anche come immagine perenne di fluidità e movimento. Con la loro scrittura, Candelaria, Rivera e O’Reilly Herrera si trovano quindi a navigare nelle acque turbolente delle due Americhe e, allo stesso tempo, nell’oceano delle idee in cui secondo Salman Rushdie ogni autore è inevitabilmente immerso, in una fitta rete di rimandi interstestuali e multiculturali (più o meno consapevoli) che rendono ogni opera letteraria parte di un complesso ed eterogeneo polisistema globale25. La loro immaginazione è dunque: non come un continente ma come un oceano. Lo scrittore galleggia su questo mare sconfinato, in una libertà tremenda, e con le mani nude cerca di compiere la magica opera della metamorfosi: come il personaggio della fiaba, costretto a filare la paglia per trasformarla in oro, lo scrittore deve trovare un trucco per comporre insieme la trama delle acque finché divengano terra; finché subentri, all’improvviso, la solidità laddove c’era solo flusso, e la forma dove tutto era informe, fino a sentire il terreno sotto i suoi piedi.26 A Daughter’s a Daughter, Family Installments e The Pearl of the Antilles sono dunque il terreno che i tre autori ricostruiscono componendo insieme storia, memoria, nostalgia e immaginazione fino a dare solidità alla mnemostoria della propria famiglia e della propria comunità. Il romanzo multigenerazionale è il mezzo attraverso il quale essi possono “simultaneously expurgate and capture [their] inner vision – a vision that is driven, in part, by unseen and inexplicable 24 “La guagua aérea” o “l’aereo passeggeri” è il titolo del racconto di Luis Rafael Sánchez divenuto emblematico per descrivere il pendolarismo che caratterizza la diaspora portoricana. Luis Rafael Sánchez, La Guagua Aerea/ The Airbus. Editorial Cultural, 1994. 25 Itamar Even-Zohar, “Polysystem Studies” (Poetics Today 11.1, 1990). 26 Salman Rushdie, “Scrittori: ecco quali ho preferito fra tutti”, La Repubblica, 10 marzo 1999, 36. 354 ancestral forces”27, le stesse forze che Candelaria riconduce al flusso ininterrotto di una meditazione: “I’m not conscious when I write, it is almost like meditating at times, it just flows and comes from wherever”28. Essi riportano dunque alla luce il legame intenso e inestricabile tra arte e vita, così come la rete sottile che collega invisibilmente scrittori, pittori e musicisti, tutti accomunati dallo stesso tentativo di costruire cartografie alternative, in risposta a una modernità discontinua 29 . Sarebbe interessante a questo punto esplorare come il lavoro di post-memoria di cui sono frutto i tre romanzi multigenerazionali oggetto di questa tesi, venga trasposto ad altre forme artistiche, sempre nel contesto socio-culturale degli Stati Uniti. Ad avvalorare questa nuova linea di indagine contribuisce l’attuale fioritura culturale da parte dei Latinos, in ogni campo artistico e in particolare nelle arti visive 30 . Non è un caso che due degli accademici ai quali ho 27 “Simultaneamente espurgare e catturare la [loro] visione interiore – una visione guidata, in parte, da forze invisibili, inspiegabili e ancestrali”, “Andrea O’Reilly Herrera” (Contemporary Authors 193, 2001), 192. 28 “Non sono consapevole quando scrivo, a volte è come una meditazione, che si sviluppa e viene da qualsiasi parte”. Candelaria e Salvucci, “Intervista con Nash Candelaria”, Capitolo 5. 29 L’immagine suggestiva dell’arte come cartografia alternativa è stata ripresa da O’Reilly Herrera, secondo la quale gli artisti cubano-americani oggetto della sua ultima monografia producono “alternative cartographies as they re-create or reimagine space in response to a nonlinear modernity. / Cartografie alternative, poiché ricreano e ri-immaginano lo spazio in risposta a una modernità non lineare”. Andrea O’Reilly Herrera, “Introduction”, Cuban Artists Across the Diaspora, 3. 30 Un esempio originale di questa fioritura è l’ironia pungente dei fumetti di Lalo Alcaraz, il disegnatore messico-americano autore del primo fumetto-politico a tiratura nazionale dedicato ai Latinos, La Cucaracha (Kansas City: Andrews McMeel Publishing, 2004). Alcaraz è anche autore di Migra Mouse: Political Cartoons on Immigration (New York: RDV Books, 2004), e illustratore dell’esilarante manuale di storia dei Latinos a fumetti di Ilan Stavans: Latino U.S.A.: A Cartoon History (New York: Basic Books, 2000). Per maggiori informazioni su Lalo Alcaraz si può far riferimento al suo sito web: <http://laloalcaraz.com/>. Data di accesso, 16 gennaio 2013. In campo musicale, invece, è di particolare rilievo il programma “Alt.Latino” della radio nazionale statunitense NPR, interamente dedicato alla diffusione della Latin Alternative Music del Nord e Sud America; dai grandi classici della salsa come José “Cheo” Feliciano o della Nueva Trova Cubana come Silvio Rodríguez, fino ai gruppi più dirompenti dell’indie rock e dell’hip hop contemporaneo come Calle 13, Carla Morrison e Ana Tijoux. In ogni puntata del programma la playlist musicale viene integrata da approfondimenti sui fenomeni storico-culturali di maggior rilievo per i Latinos, spesso con l’intervento di personaggi popolari come gli scrittori Sandra 355 maggiormente fatto riferimento per la scrittura di questa tesi, Andrea O’Reilly Herrera e Gary Francisco Keller, negli anni abbiano spostato il focus della loro ricerca dalla critica letteraria alle arti visive dei Latinos, sempre attraverso la lente degli studi culturali. Con la monografia Cuban Artists Across the Diaspora: Setting the Tent Against the House (2011) e attraverso le celebrazioni di Cuba Transnational, O’Reilly Herrera si è infatti contraddistinta come una delle maggiori promotrici dell’arte cubano-americana contemporanea; mentre Gary Francisco Keller è stato tra i principali curatori di tre opere monumentali per il riconoscimento e la diffusione dell’arte messico-americana degli ultimi quaranta anni, con i volumi: Contemporary Chicana and Chicano Art I-II (2002), Chicano Art for Our Millennium: Collected Works from the Arizona State University Community (2004) e Triumph of Our Communities: Four Decades of Mexican American Art (2005). Alcuni dei movimenti artistici e delle opere descritte in questi volumi si sono rivelate ai miei occhi come tentativi di ricostruzione, a livello grafico-visivo, di una mnemostoria e di un tessuto identitario intergenerazionale, del tutto simile a quello a cui hanno dato vita gli autori oggetto della mia tesi, attraverso la scrittura. Cisneros o Junot Díaz, o l’attore e regista Gael García Bernal (solo per citare alcuni esempi), chiamati a esprimere la loro idea di Latinidad. È significativo il modo in cui i presentatori del programma, Jasmine Garsd e Felix Contreras, definiscono la musica di “Alt.Latino”: “Borders and boundaries mean nothing to us. Latin Alternative is a little bit of everything from everywhere mixed into a completely new Latino soundscape. / Frontiere e confini non significano nulla per noi. La musica alternativa ‘Latina’ racchiude un po’ di tutto, da ogni luogo, mescolato in un paesaggio sonoro ‘Latino’, completamente nuovo”. Jasmine Garsd e Felix Contreras, “What Is Latin Alternative Music? And Who Are We?”, NPR Music, Alt. Latino, <http://www.npr.org/blogs/altlatino/2010/08/03/128963147/who-we-are>. Per informazioni generali sul programma si può far riferimento all’home page: <http://www.npr.org/series/altlatino/> . Data di accesso 12 gennaio 2013. 356 Ne sono un esempio le affascinanti opere dell’artista messico-americano Alfredo Arreguín, nato in Messico nel 1935 e trasferitosi a Seattle nel 1956, dove continua a portare avanti una carriera artistica, consolidata da premi e riconoscimenti illustri da parte sia del governo messicano sia di quello statunitense31. In un tripudio di colori, i suoi quadri rendono omaggio alla cultura precolombiana, messicana e chicana, rappresentandone i simboli più potenti, le figure mitologiche, gli eroi della storia, la fauna e la flora lussureggiante, attraverso una tecnica pittorica elaboratissima e stratificata che richiede un’osservazione molto attenta per essere decifrata in toto. I personaggi illustri rappresentati in primo piano nelle sue opere (Emiliano Zapata, César Chávez, Diego Rivera, Frida Kahlo, San Francesco, La Virgen de Guadalupe, solo per citarne alcuni) vengono infatti composti attraverso la sovrapposizione complessa di miniature (piccoli disegni di fiori, stelle, croci, spirali, figure geometriche e frattali), che ricreano una moltiplicazione di immagini e di visioni a strati. Sarà l’osservatore a ricomporre questa rete complessa di simboli, nel dettaglio e nella visione d’insieme, ricostruendo in tal modo la mnemostoria veicolata da Arreguín. In “La Malinche” 32 ad esempio, la figura della schiava e traduttrice di Cortés viene ricreata attraverso una miriade di piume, maschere, ventagli, animali 31 Per maggiori informazioni sul pittore, si può far riferimento al suo sito internet ufficiale <http://www.alfredoarreguin.com/>. Ho trovato molto utili anche le seguenti pagine web: l’archivio di artisti chicani della Evergreen State College Library <http://chicanolatino.evergreen.edu/artists/alfredo_arreguin/bio.php>, che comprende anche una galleria virtuale delle sue opere: <http://chicanolatino.evergreen.edu/displayArtwork.php?artistId=alfredo_arreguin&currImageNu m=1>; e la notizia apparsa sul sito della University of California, Riverside, su di un importante riconoscimento ricevuto dall’artista <http://newsroom.ucr.edu/1790>. Data di accesso 12 gennaio 2013. 32 L’opera è disponibile in appendice a questa tesi e sul catalogo virtuale che integra il libro Chicano Art for Our Millennium, <http://latinoartcommunity.org/community/Gallery/Millennium/06CulturalIcons/Cultural3Lrg1.ht ml>. Dall’home page del sito si può accedere all’introduzione e al catalogo completo del volume: 357 esotici e geometrie tribali da cui emerge, quasi magicamente in primo piano, la figura della donna in abiti regali, con il volto coperto da due maschere, quella europea bianca e quella marrone meticcia. Alle sue spalle appare il dio della fertilità Tlaloc, a ricordare la sua natura di madre del Messico, nazione fondata sul meticciato di cui la Malinche è il simbolo per eccellenza. Con questa tela, l’autore non solo ricostruisce i miti delle proprie origini, ma riabilita anche la figura di Doña Marina per le future generazioni: “I hope her apparition on my canvas transcends the negativism against her, and that future generations will celebrate her as our mom. Que viva La Malinche, Nuestra Madre!”33. Sul versante cubano-americano, invece, mi ha particolarmente colpito un’istallazione all’interno di Cuba Transnational dell’artista cubano Leandro Soto, trapiantato dall’età di 33 anni in Arizona34. Si tratta di “Kachireme’s Visit in Arizona”: una tela ondulata e coloratissima che si srotolava lungo le pareti della stanza a lui dedicata, mostrando infinite sovrapposizioni di volti, divinità tribali afro-caraibiche, note musicali, tamburi, vegetazione tropicale, cactus e rocce del deserto. Mi ha incuriosito, in particolare, la rappresentazione dell’isola di Cuba attraverso una miriade di tazzine di caffè. Da alcune di esse, disposte sul lato <http://latinoartcommunity.org/community/Gallery/Millennium/index.html>. Data di accesso 12 gennaio 2013. 33 “Spero che la sua apparizione sulla tela trascenda la negatività contro di lei e che le future generazioni la celebrino come nostra madre. Que viva La Malinche, Nuestra Madre!”. Alfredo Arreguín, “Artist Directory”, Latino Art Community: <http://latinoartcommunity.org/community/ChicArt/ArtistDir/AlfArr.html>. Data di accesso 12 gennaio 2013. 34 Durante le manifestazioni di Cuba Transnational (da maggio a ottobre del 2011) il Sangre de Cristo Arts Center di Pueblo (Colorado) ha ospitato quattro mostre: “CAFÉ XII: The Journeys of Writers and Artists of the Cuban Diaspora”, “Woman.embodied”, “FACES: 100 Cuban Artists”, “Cuba in the Southwest: The Art of Leandro Soto”. L’istallazione a cui faccio riferimento apparteneva proprio a quest’ultima mostra, dedicata esclusivamente all’artista. In appendice a questa tesi, includo delle foto di “CAFÉ XII” e di “Cuba in the Southwest”, con dei primi piani dell’opera di Soto “Kachireme’s Visit in Arizona”. Per maggiori informazioni sull’artista si può far riferimento anche al suo sito internet ufficiale: <http://www.leandrosoto.com/>. Data di accesso 12 gennaio 2013. 358 nord, fuoriesce del fumo che assume la forma di tanti corpi umani che sembrano distaccarsi dall’isola. Quando ho letto l’iscrizione fatta da Soto sull’opera, ho capito che la costellazione di simboli apparentemente slegati che la tappezzavano, altro non erano che la mnemostoria dell’artista: “In 2005, living in Phoenix, AZ, I had a dream (all in colors) where my father was asking me to work with my Cuban traditions…in my art” 35. Quest’opera diventa ancora più emblematica se letta in correlazione con la genesi della mostra itinerante CAFÉ, ideata dallo stesso Soto durante un viaggio nello Yucatán36. Prendendo un caffè alla cubana con gli artisti Yovani Bauta e Israel León, i tre cominciano a parlare del loro passato a Cuba e delle strategie che ognuno di loro aveva messo in atto per conservare la propria cubanidad e la propria identità artistica, incorporando allo stesso tempo nuovi elementi culturali acquisiti nei Paesi in cui, di volta in volta, erano vissuti. Soto capisce, in quel momento, che il caffè era stato lo stimolo intellettuale per le loro conversazioni, oltre che un rituale per preservare la propria identità cubana a prescindere dal luogo fisico del mondo in cui lo si realizzava. Ai suoi occhi, il caffè diventa quindi una metafora della condizione della cultura cubana in esilio, tramandata di generazione in generazione attraverso dei rituali e delle pratiche familiari, e allo stesso tempo riadattata e rinnovata, incorporando nuovi elementi culturali del posto. Il caffè come simbolo per eccellenza di trasculturazione diventerà quindi l’ispirazione per CAFÉ, la mostra itinerante in cui i quadri, le sculture e le 35 “Nel 2005, vivendo a Phoenix, Arizona, ho avuto un sogno (tutto a colori) in cui mio padre mi chiedeva di rielaborare le mie tradizioni cubane…nella mia arte”. Le foto di questa installazione sono disponibili in appendice alla tesi. 36 Andrea O’Reilly Herrera descrive la genesi di questa mostra in “Repeating the Unrepeatable: Café and the Journeys of Cuban Artists”, Cuban Artists Across the Diaspora, 27. 359 istallazioni di artisti cubani e cubano-americani vengono selezionate e modificate di volta in volta, in base agli spazi espositivi a disposizione dal curatore Leandro Soto, che crea allestimenti sempre diversi, a seconda dei luoghi, proprio come avviene quando si ripete il rituale del caffè, in qualsiasi posto del mondo ci si trovi: the ingredients and the environment in which the café is made are subject to change, so there is always something new and something old, something that moves or changes and something that remains constant or stable. It is a balance of multiple things that are frequently in a paradoxical relationship, and you are contemplating all of them in motion, everything that is there.37 Solo per citare alcuni esempi, lo stesso quadro può apparire con una cornice diversa da un’edizione all’altra; i gruppi tematici in base ai quali vengono suddivise le opere non sono mai uguali; a ogni edizione ci sono istallazioni nuove realizzate con il coinvolgimento delle comunità locali. Nell’edizione proposta all’interno di Cuba Transnational nel Sangre de Cristo Arts Center, ad esempio, sul pavimento all’ingresso dello spazio espositivo erano state collocate centinaia di barchette di carta, che formavano l’isola di Cuba ed erano state realizzate dagli alunni di una scuola del posto. Alla luce degli esempi proposti e sulla scia degli studi critici di Andrea O’Reilly Herrera e di Gary Francisco Keller, sarebbe dunque interessante dare un seguito alla mia ricerca sul Latino multigenerational novel negli Stati Uniti, indagando come la trasmissione transgenerazionale della propria coscienza culturale possa avvenire attraverso le arti visive. 37 “Gli ingredienti cambiano e l’ambiente in cui il caffè è fatto è soggetto a cambiamento, quindi c’è sempre qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio, qualcosa che si muove o cambia e qualcosa che rimane costante o stabile. È un equilibrio di molteplici elementi che sono spesso in un rapporto paradossale e li prendiamo in considerazione tutti, in movimento, ogni cosa che si trovi lì”. O’Reilly Herrera e Salvucci, “Intervista con Andrea O’Reilly Herrera”, Capitolo 5. 360 Appendici: Foto, opere d’arte e immagini 361 FOTO DEGLI AUTORI INTERVISTATI Figura 1 Nash Candelaria (Santa Fe, 31 maggio 2011) Figura 2 Andrea O’Reilly Herrera (Phoenix, 21 Aprile 2011) 362 OPERE PRIMARIE ANALIZZATE Figura 3 Compertine delle tre opere: Nash Candelaria, A Daughter’s a Daughter (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2008). Andrea O’Reilly Herrera, The Pearl of the Antilles (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2001). Edward Rivera, Family Installments: Memories of Growing Up Hispanic (New York: Penguin Books, 1986; la prima edizione dell’opera è del 1982). 363 OPERE D’ARTE SIGNIFICATIVE Figura 4 José Antonio Burciaga, “The Last Supper of Chicano Heroes”, Casa Zapata, Stanford University, 1999. Immagine estratta da Gary D. Keller, Triumph of Our Communities: Four Decades of Mexican American Art (Tempe, AZ: Bilingual Press/Editorial Bilingüe, 2005) 301. In A Daughter’s a Dautgher, contemplando questo affresco la protagonista inizia la ricostruzione della “mnemostoria” della propria famiglia. Figura 5 Andrea O’Reilly Herrera, “The Pearl of the Antilles”. Foto dell’acquarello da cui l’autrice ha tratto ispirazione per la scrittura del romanzo. 364 MNEMOSTORIE GRAFICO-VISIVE Esempi di ricostruzione di un tessuto identitario multigenerazionale da parte di artisti Latinos. Figura 6 Alfredo Arreguín, “La Malinche”. L’opera è inclusa nel volume di Gary D. Keller et al., Chicano Art for Our Millennium: Collected Works from the Arizona State University Community (Tempe, AZ: Bilingual Press, 2004). È inoltre disponibile sul catalogo virtuale che integra il libro: http://latinoartcommunity.org/community/Gallery/Millennium/06Cultural Icons/Cultural3Lrg1.html 365 Figura 7 Leandro Soto, “Kachireme’sVisit in Arizona”, Cuba in the Southwest: The Art of Leandro Soto, 14 Maggio-8 ottobre 2011, Sangre de Cristo Arts Center: Hoag Gallery. Pueblo, Colorado (USA). L’opera è realizzata su carta artigianale e si presenta come una lunga tela ondulata (circa 20 metri). La mostra di Leandro Soto è stata organizzata all’interno della manifestazione Cuba Transnational. 366 Figura 8 Leandro Soto, “Kachireme’s Visit in Arizona”, altri particolari dell’opera. In alto, risaltano l’isola di Cuba (formata da tante tazzine di caffè) e i cactus (tipici del deserto dell’Arizona in cui l’artista vive attualmente). 367 Figura 9 CAFÉ XII: The Journeys of Writers and Artists of the Cuban Diaspora, 28 maggio-10 settembre 2011, Sangre de Cristo Arts Center: White Gallery. Pueblo, Colorado (USA). Anche questa edizione della mostra è stata organizzata all’interno della manifestazione Cuba Transnational. 368 Figura 10 CAFÉ XII. In ogni edizione di questa mostra itinerante, gli allestimenti delle opere vengono reinventati dal curatore Leandro Soto, che le adatta ai nuovi spazi espositivi e cerca sempre il coinvolgimento della comunità locale. Ne sono un esempio queste barchette di carta che formano l’isola di Cuba, poste all’ingresso della mostra e realizzate da alunni di una scuola locale. 369 FUMETTI SUI LATINOS Figura 11 Ilan Stavans, Latino U.S.A.: A Cartoon History. Illustrato da Lalo Alcaraz. New York: Basic Books, 2000. Dettaglio del manuale di storia dei Latinos a fumetti da cui ho ripreso la citazione iniziale del Capitolo 2 di questa tesi. 370 Figura 10 Due esempi dei fumetti dedicati al Latinos di Lalo Alcaraz, tratti da Migra Mouse: Political Cartoons on Immigration (New York: RDV Books/Akashic Books, 2004) 49; e da La Cucaracha (Kansas City, MO: Andrews McMeel Publishing, 2004) 10. 371 372 BIBLIOGRAFIA 1. Volumi, articoli e saggi Ahmed, Sara ed. Uprootings/Regroundings: Questions of Home and Migration. Oxford: Berg, 2003. Alcaraz, Lalo. Migra Mouse: Political Cartoons on Immigration. New York: RDV Books/Akashic Books, 2004. -----. La Cucaracha. Kansas City, MO: Andrews McMeel Publishing, 2004. 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