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I VENTOTTO
RACCONTI
Percorso
sul
racconto breve
Presentazione
di Lucio Sisana
Prefazione
di Margherita Ianniello
Enzo Noris
Collegio
Vescovile
S. Alessandro
Bergamo
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Un grazie sentito ad Armando Belotti
titolare della Casa Editrice San Marco
che ha reso possibile la pubblicazione di questo quaderno
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PRESENTAZIONE
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Pagine leggere, come soffi, quelle che si possono leggere in
questo volume; pagine scritte semplicemente per il gusto di
scrivere, per rendere omaggio a un genere letterario, quello del
racconto breve, in cui si sono cimentati grandissimi autori e in
cui ognuno può misurarsi liberamente e spontaneamente; non si
tratta di grandi costruzioni di trame o di intrecci elaborati e
complessi, semplicemente si tratta di cogliere un attimo, un’idea,
un personaggio, un respiro appunto, e di dargli corpo e voce.
Smisurata e senza freni la varietà che percorre questo piccolo
libro: i narratori si sono cimentati in esperienze e idee
diversissime tra loro, scegliendo ora approcci di realismo ora di
fantasia, toni talvolta crudi talvolta impalpabili, personaggi tratti
dalla vita comune o usciti da una favola; insomma, c’è di tutto, in
un mix affascinante e coinvolgente, che ti porta a procedere nella
lettura senza pause che non siano quelle dell’unità narrativa.
Il rischio della disomogeneità dovuto alla mancanza di un unico
autore è compensato in larga parte dal puzzle che, racconto
dopo racconto, si compone sotto gli occhi del lettore; ma qual è
l’immagine finale del puzzle?
Qui sta la meravigliosa scoperta: è l’immagine di un mondo
giovane, che ha già conosciuto pericoli e delusioni ma che ancora
ha fiducia nell’uomo e nel futuro; sono molto presenti tra le
righe di questi racconti la sofferenza, la sconfitta, l’emarginazione, la morte, sono molto presenti, si toccano, te le senti
addosso; poi volti pagina e ti invade l’entusiasmo e la serenità di
chi è capace di sorridere e di amare; meravigliosa scoperta, come
meravigliosi sono i giovani, misteriosi e imprevedibili capolavori
di umanità.
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Grazie, sinceramente grazie ai ragazzi che hanno accettato di
scoprirsi e di farsi sfogliare, personale riconoscenza ai professori
che li hanno guidati in questa esperienza didattica e si sono fatti
contagiare dalla medesima passione.
Pagine leggere, come soffi… Pagine di vita.
Lucio Sisana
Preside
Collegio Vescovile
Sant’Alessandro
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PREFAZIONE
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Raccontami, o Dea, l’uomo...1
… le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.2
Come a parlare si impara ascoltando, così a scrivere si impara
leggendo.
L’idea di dedicare alcune ore delle attività integrative al
racconto breve è nata un po’ per caso. Sembrava bello prendersi
del tempo per leggere e per leggere testi che avessero una loro
compiutezza, vale a dire un inizio e una fine, senza l’affanno di
verifiche ed interrogazioni, solo per il piacere della lettura.
Già, perché leggere prima di tutto è un piacere.
Decidere per il racconto breve è stato facile, non solo per una
questione di tempi e di organizzazione (ogni incontro durava
poco più di un’ora e mezza), ma anche perché nel programma di
Italiano dell’ultimo anno si incontrano numerosi autori, specie
del Novecento, che si cimentano con questo genere di scrittura
ed hanno lasciato intere raccolte. Impossibile leggerli tutti.
Insieme a questi autori – per intenderci, i famosi Buzzati,
Morante, Calvino, Moravia, Gadda, ecc. – abbiamo pensato che
fosse il caso di selezionare anche qualche autore più recente e
non ancora inserito nelle antologie scolastiche. La scelta è caduta
su Stefano Benni ed Erri De Luca.
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Omero, Odissea, I, v. 1
Foscolo Ugo, Dei Sepolcri, vv. 232 ss.
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A sostegno dell’idea iniziale ha giocato anche l’esperienza
denominata “L’officina del lettore”, abbinata alla rassegna del XXV
Premio Bergamo Narrativa, alla quale abbiamo aderito lo scorso
anno con un paio di classi. L’entusiasmo “contagioso” e
l’amabile competenza della conduttrice del laboratorio, la
Dottoressa Adriana Lorenzi, ci ha convinto che leggere e
riflettere sulla lettura sia un’occasione unica, preziosa, anche – o
forse, soprattutto – per la scuola.
Avevamo a disposizione sette incontri, dall’8 ottobre al 19
novembre 2009.
I primi quattro incontri sono stati dedicati alla lettura, a voce
alta, alternando le voci, di alcuni racconti d’autore.
In un incontro “speciale” abbiamo avuto la presenza di un
esperto di Buzzati, l’ex collega Prof. Don Pietro Biaggi, autore
del saggio Buzzati. I luoghi del mistero3. Da lui abbiamo imparato
quanto sia importante leggere a fondo e con rigore metodologico
i testi di un autore, per evitare letture superficiali o peregrine ed
interpretazioni arbitrarie. Abbiamo toccato con mano la
vulnerabilità del testo scritto ma anche la sua profonda
semanticità, vale a dire la capacità di porre ogni volta la questione
del significato.
Un incontro lo abbiamo dedicato ad un vero e proprio
laboratorio di scrittura. Ci siamo detti: dopo aver letto numerosi
racconti brevi d’autore ora proviamo a scriverne uno.
Il compito, dopo le perplessità iniziali ci ha coinvolti e ci ha
trascinati, tutti quanti – prof. compresi – nel vortice della
scrittura, un’esperienza avvincente nella quale abbiamo avvertito
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Biaggi Pietro, Buzzati. I luoghi del mistero, Edizioni Messaggero Padova, 2001
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il potere affascinante della parola che da pensata si fa scritta,
quasi materializzandosi sotto i nostri occhi.
Nell’ultimo appuntamento ci siamo regalati il piacere della
lettura di alcune nostre produzioni, scelte a caso e lette a voce
alta in una atmosfera di magico raccoglimento e di attesa stupita.
Al termine di ogni lettura apprezzamento e tanta meraviglia:
come è possibile aver scritto racconti così belli da sembrare
“veri”?
Ancora una volta si è ripetuto il miracolo della parola che dice
la verità dell’uomo, della vita, del mondo.
Margherita Ianniello
Enzo Noris
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IL PROGETTO
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PERCORSO SUL RACCONTO BREVE
Progetto a cura di Margherita Ianniello ed Enzo Noris
L’Idea
Il libro e la lettura hanno a che fare con la vita di ciascuno, a
condizione che si tratti di opere letterarie di qualità.
Leggere sviluppa competenze sociali (vitali).
Il racconto breve è il “format” che si adatta meglio di altri al
tempo e allo spazio a disposizione (2 ore scolastiche, le ultime
due del giovedì; aula; classe formata da 29 studenti).
Gli aspetti organizzativi
Il percorso si articola in 7 incontri della durata di 2 ore
ciascuno. In ogni incontro si leggerà a voce alta un racconto
breve di un autore italiano del 1900, scelto dagli insegnanti tra
quelli che solitamente non rientrano nei programmi scolastici.
Prima di iniziare la lettura l’insegnante curerà una breve
presentazione dell’autore e della raccolta.
Terminata la lettura si darà spazio al dibattito, a partire da ciò
che il testo ha suscitato nei lettori.
Si è scelto di non impostare l’analisi del racconto secondo i
criteri della narratologia, perché a questo approccio si dedicano
già molte ore di lezione nei programmi disciplinari (italiano,
greco, latino, inglese).
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Si preferisce un approccio meno tecnico, meno strutturato, più
libero ed esperienziale (vista anche l’età dei partecipanti e il
contesto dell’iniziativa).
Alcuni incontri saranno organizzati in forma di lavoro di
gruppo:
•
•
•
•
•
la classe si divide in due gruppi (14 e 15 partecipanti
ciascuno)
ogni gruppo legge (mentalmente) un racconto fornito in
fotocopia
ogni gruppo discute sulla base della scheda predisposta
dagli insegnanti
un rappresentante di ogni gruppo è chiamato a fare
all’altro gruppo il riassunto del racconto letto
un rappresentante di ogni gruppo riferisce ai presenti
quanto emerso dalla discussione.
La scheda da utilizzare per l’analisi del racconto prevede i
seguenti punti:
1. Che cosa ha suscitato in te la lettura del racconto, quali
emozioni hai provato? (IO)
2. Quali sono le tematiche, gli argomenti che emergono dal
racconto? (IL TESTO)
3. Individua tutti i possibili agganci che puoi fare a partire
dal racconto a film, letture, citazioni, opere d’arte,
canzoni, ecc. (IL MONDO)
Ad un incontro è prevista la partecipazione di un esperto.
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Un incontro sarà dedicato alla scrittura individuale di un
racconto breve.
Alcuni racconti, scelti a caso, verranno letti in occasione
dell’ultimo incontro in programma.
Tutti i racconti verranno raccolti e pubblicati in un fascicolo a
stampa.
Gli autori ed i titoli dei racconti letti
Erri De Luca
Il pannello.
Da: In alto a sinistra, Feltrinelli, 1994
Stefano Benni
Frate zitto
I due pescatori.
Da: La grammatica di Dio, Feltrinelli, 2007
Dino Buzzati
Il colombre
Da: Il colombre, Mondadori, 1966
Racconto di Natale
Da: Sessanta racconti, Mondadori, 1994
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I VENTOTTO
RACCONTI
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PLAYBOY
Silvia Arena
“Sai, è morto Playboy.”
“Non ci posso credere… Come è successo?”
“L’hanno trovato ieri sera, sotto il portico della chiesa. Han
detto che aveva un tumore. Pover’uomo”.
Era una mattina grigia e, come tutte le mattine, Mimmo si
apprestava ad alzare la saracinesca del suo ristorante, uno dei più
rinomati nella provincia bergamasca. Era un uomo di circa
quarant’anni e da quasi cinque anni gestiva il suo locale con
ottimi risultati. Ma ancora non ne era soddisfatto: i guadagni per
lui non erano mai abbastanza. Aveva una bella casa, una moglie
che lo adorava, un figlio che avrebbe potuto renderlo fiero, se
solo a lui fosse importato. Il lavoro era diventato la cosa più
importante della sua vita, un’ossessione che lo aveva allontanato
dalla famiglia.
Quel giorno, mentre preparava i tavoli come di consueto, si
presentò alla porta un cliente inaspettato. Un uomo curvo entrò
con passo affaticato, parlando a voce molto bassa. “Non ho
molti soldi – disse a Mimmo – ma oggi è un giorno di festa,
vorrei mangiar un piatto di pasta e bere un buon bicchiere di
vino”. Aveva il viso scavato, ma gli occhi di un azzurro lucente;
portava abiti logori e sembrava scomparire sotto il peso della
borsa sporca che portava sulle spalle.
Mimmo rimase stupito di fronte a quella figura, così oscura e
allo stesso tempo attraente. Chi era quest’uomo, da dove veniva?
Mimmo non era solito dare confidenza ai suoi clienti, soprattutto
se si presentavano in modo trasandato: da questi, sicuramente,
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non avrebbe ottenuto alcun tipo di vantaggio. Eppure
quell’uomo, che aspettava il permesso di sedersi a un tavolo,
aveva qualcosa che lo incuriosiva a tal punto da accontentarlo. Al
momento non c’erano ancora clienti, ma Mimmo preferì
comunque farlo accomodare in un angolo del locale, sapendo
che la vista di quell’uomo avrebbe destato qualche perplessità.
Gli servì un piatto di maccheroni al ragù. “Era da tanto che non
mangiavo un sugo così buono” esclamò dopo il primo boccone
“da quando mi sono ritrovato a dormire dove capitava”. Mimmo
stava in silenzio, ma la curiosità ebbe il sopravvento.
“Come si chiama?” chiese un po’ timidamente. “Sono Playboy.
Mi chiamavano tutti così, in comunità – disse ridendo – eh
ragazzo mio, un tempo avevo tutto ciò che desideravo.
Macchine, donne, lussi di ogni genere! Vivevo come un principe,
avevo due maggiordomi a mia disposizione, pensi, mi servivano
la colazione a letto”. Fece girare delicatamente il vino nel
bicchiere. “Qualche volta andavo al casinò: me lo potevo
permettere dopotutto! Mi piaceva quella sensazione che provavo
nell’attesa di vedere quella piccola pallina fermarsi sul numero
che avevo puntato.. la fortuna era dalla mia parte. Ma un giorno
mio padre.. mio padre si ammalò. Cancro, mi dissero dopo la sua
morte”. Il suo sguardo si fece buio, abbassò gli occhi e fece
silenzio. Finì il suo piatto di pasta senza dire una parola di più.
Mimmo non se la sentì di fare altre domande; entrarono dei
clienti e rivolse loro la sua attenzione. Quando ebbe finito, lanciò
un’occhiata nella direzione di quell’uomo. Playboy se n’era
andato, lasciando quel che aveva sul tavolo. Subito si ricordò di
un vecchio amico che lavorava come assistente sociale presso
una comunità locale. Quella sera decise di chiamarlo e chiedergli
qualche informazione in più riguardo Playboy. Il suo amico gli
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raccontò che l’uomo che aveva mangiato nel suo ristorante quel
giorno era l’unico figlio di un ricco industriale, morto vent’anni
prima lasciando al suo unico erede un grosso patrimonio. Non si
ricordava più il suo nome: da sempre l’aveva conosciuto con quel
soprannome, datogli perché, prima di cadere in disgrazia,
riscuoteva un enorme successo tra le donne. Con la morte del
padre era impazzito, aveva iniziato a bere e la sua frequentazione
dei casinò era diventata assidua. Aveva sperperato tutto e dopo
essere stato per qualche tempo in comunità di recupero si era
ritirato in qualche luogo sconosciuto della città.
Mimmo vide Playboy altre volte dopo quell’incontro. Si
fermava sempre a scambiare qualche parola con lui; quel vecchio
senza un soldo e solo come un cane non sembrava mai
lamentarsi della sua situazione, anzi, gioiva ogni volta di più per
quel poco che poteva assaporare dalla vita. Gli raccontava senza
alcuna vergogna le esperienze vissute e gli errori commessi nella
sua vita, malediva l’alcol ogni volta che, costretto dalla sua
dipendenza, ne beveva un sorso. Eppure il sorriso non gli
mancava mai. Mimmo vedeva in quest’uomo così diverso da lui
una forza indescrivibile; di fronte alla vita di Playboy i suoi
problemi sembravano nulla e rimpicciolivano ogni giorno di più.
“Sai, mi fa male la gola da qualche settimana ormai” gli raccontò
Playboy un giorno “sono andato in ospedale ieri, ma mi hanno
liquidato dicendomi che non è nulla. Prendo freddo di notte, han
detto! Prendo freddo da anni e questo dolore così forte non
l’avevo mai avuto. Sai come sono i medici di oggi, ti prestano
attenzione solo se hai denaro per pagarli”.
La sua voce si era fatta più bassa e rauca. Mimmo lo vedeva
peggiorare man mano che i giorni passavano; aveva cercato di
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rassicurarlo, di consolarlo, gli aveva pure suggerito il nome di un
suo amico medico ed egli, forse per la prima volta, ringraziando
accettò di essere aiutato. Mimmo telefonò al dr. Carlo, come lo
chiamava lui, suo grande amico e compagno dai tempi delle
medie e prese un appuntamento per quell’uomo verso cui
sentiva, ogni giorno che passava, sempre più tenerezza. A
quell’appuntamento Playboy non si presentò mai, non fece in
tempo; lo trovarono, due giorni dopo il loro ultimo incontro,
rattrappito sul marciapiede sotto il portico della chiesa, in un
angolo al riparo dal freddo e dalla pioggia, ma da quel momento
niente avrebbe potuto più aggredirlo. Aveva il volto disteso,
sereno e gli occhi socchiusi: sembrava dormisse, tranquillo, il
sonno della morte.
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L’ULTIMO CALICE
Andrea Baronchelli
È seduto sulla sua comoda poltrona in pelle marrone,
consumata appena sui braccioli; gli occhi ormai vecchi e stanchi
di un azzurro vacuo guardano le evoluzioni del fuoco
scoppiettante appena acceso. In mano l’ultimo bicchiere di
Chianti.
I ricordi sono sempre vividi nella sua memoria. Nella
vita di un uomo tanti avvenimenti possono essere dimenticati e
accantonati, ma non le sue azioni: certo, pagavano bene, ma la
giovinezza non considerava il prezzo ben più alto da pagare, che
ora era richiesto dal suo creditore. Questo conto in sospeso non
è con il mandante né con la vittima né con gli amici, conoscenti,
mogli, figli.
Ora, quando i capelli sono canuti, la pelle rugosa e le ossa fragili
tutto prende forma.
“Cosa c’è di sbagliato in quello che ho fatto?”: questa
probabilmente è la domanda che continua a serpeggiare nella sua
testa; mai come ora, così prossimo alla fine, i rimorsi, come tarli,
divorano l’interno dell’uomo.
“Il perdono non è umano, ma posso io perdonare me stesso?”
“Dio, tu mi perdonerai?”
“Quanto tempo ho vissuto lontano da te, pensando di esserti
vicino?”
Sono solo troppe domande destinate a rimanere senza risposta.
Quando il fisico era giovane, non era interessato a tutti questi
interrogativi, ma il terrore di morire ecco che finalmente si
palesa. Ma la paura non è quella della morte, è un sentimento
molto più profondo: il pensiero che forse tutte le preghiere non
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siano servite a niente, che il Male portato sia stato troppo grande,
che il perdono non sia ciò che gli spetta.
Ecco che si porta alla bocca il calice e fa un piccolo sorso, quasi
solo bagnandosi le labbra. Il fuoco comincia a farsi meno caldo e
la sensazione di potenza e di vita che dava poco prima ora era
scomparsa, lasciando spazio ad un fuoco malinconico, morente,
freddo.
Ora appoggia il calice sul tavolino di ciliegio, gli occhi si aprono
sbarrati e si girano lentamente verso il crocifisso appena sopra la
porta d’ingresso.
Lo stomaco si appesantisce, come quando svolgeva il suo
lavoro, ma questa volta voleva che fosse così, era giusto.
È scoccata la mezzanotte, il fuoco si è spento, una lacrima
solca la guancia fredda e rugosa, un sorriso si allarga sulle labbra
livide.
Questo bastava.
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SENZA PAROLE
Marina Belotti
Sergio era un ragazzo di diciotto anni, come tanti. Amava
ascoltare l’i-pod, uscire con gli amici e giocare a calcio. Ma, come
molti, non sopportava la scuola e soprattutto lo studio. Odiava i
libri ed in modo particolare quei tomi troppo pesanti da caricarsi
sulle spalle di storia e filosofia.
Quel giorno non li aveva neppure aperti, sebbene sapesse che la
mattina seguente avrebbe dovuto affrontare interrogazioni sia
nell’una sia nell’altra materia. E non poteva neppure affidarsi alla
sorte, perché, con il consenso di tutti, gli orali erano
programmati e domani toccava a lui. Se poi non si fosse
presentato a scuola, alternativa che aveva preso seriamente in
considerazione, si sarebbe trovato contro tutti i compagni di
scuola, in particolare i malcapitati interrogati al suo posto.
Disperato, decise di affidarsi alla fantasia e, strofinando una
vecchia lampada, giocattolo d’infanzia, non si accontentò di
desiderare che le interrogazioni fossero rimandate, ma che tutti
gli odiati libri sparissero dal pianeta e dalla circolazione.
Si addormentò così con il sorriso sulle labbra, all’idea di come
sarebbe stato un mondo senza libri.
Il giorno dopo si presentò a scuola pronto a prendere due e a
dichiararsi impreparato, ma, dopo aver varcato la soglia, si fermò
impietrito: tutti i suoi compagni erano chini a consultare pc
portatili con l’espressione ferma e seria.
Da quando in classe erano in dotazione computer per tutti? Nel
corso delle ore scoprì dai suoi amici, che erano diventati
espertissimi di rete e irriconoscibili, che già da un po’ si era giunti
a possederli. Era stato forse proiettato nel futuro?
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Prese il proprio computer, ma, senza libretto d’istruzioni – non
se ne trovava più nemmeno uno – non sapeva come passare da
Word ad Excel.
Disorientato, tornò a casa e trovò la propria camera sottosopra:
i suoi fumetti preferiti e anche i pochi libri che adorava, fra i
quali le mitiche barzellette di Totti, si erano volatilizzati dagli
scaffali. Era sparito persino il vocabolario di inglese, unica
materia che lo affascinava, e al suo posto erano apparse centinaia
di chiavette USB. E ora come avrebbe potuto scoprire termini
nuovi e soprattutto cosa se ne sarebbe fatto di tutti quei
dispositivi di memoria?
D’improvviso lo colpì un timore: di scatto aprì il cassetto della
scrivania e come temeva non vi trovò il suo libretto per gli
assegni regalatogli dal padre per il suo diciottesimo anno.
Affranto distese le braccia sulla scrivania e questa
scricchiolando si ribaltò. Non credeva ai suoi occhi: perfino
l’atlante di geografia, che utilizzava per bilanciare la gamba rotta
del tavolo, non c’era più. E il regalo di sua sorella? È vero,
ammise a sé stesso, non sapendo cosa comprarle, era entrato in
una libreria. Ma la carta da regalo ora conteneva un mouse
scollegato. Pentito della portata delle sue azioni prese la lampada
per cancellare il proprio desiderio e tornare indietro e, dopo
pochi secondi, tutto ritornò come prima e Sergio, per la prima
volta nella sua vita, fu contento di studiare storia e filosofia.
Appena Luca lesse la parola fine sullo schermo del televisore fu
sollevato. Anche lui non amava i libri però si accorse che erano
indispensabili nella vita di ogni giorno.
Poiché era ancora presto si mise a letto e aprì il suo vecchio
annuario di classe con un pizzico di nostalgia ma nello scorrerlo
impallidì e iniziò a tremare: le pagine erano diventate
completamente bianche.
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IL QUADRO
Laura Bergamo
Paolo era un trentenne con un problema: si innamorava in
continuazione di donne bellissime e riceveva ogni volta rifiuti da
queste. La sua analista gli aveva consigliato di provare a
frequentare una donna meno affascinante per riuscire a fondare
la sua attrazione non solo su presupposti fisici ma anche
interiori.
Un giorno come tanti altri, alla fermata della metropolitana,
consapevole del suo errore ma spinto da una fatua speranza,
stava rincorrendo l’ennesima donna, che cercava di allontanarlo
con coloriti insulti, quando si scontrò con una persona.
Era una donna imbacuccata nel cappotto, avvolta nella sciarpa,
goffa, spettinata e non truccata. Paolo mentre si scusava per la
disattenzione si ricordò le parole della analista e decise di
accompagnare a casa la donna.
Paolo non provava attrazione per lei, e sembrava che a lei non
importasse per nulla uscire con un uomo. Tuttavia nei giorni
successivi decisero di vedersi ancora. I sentimenti si
trasformarono; l’indifferenza diventò simpatia, la simpatia
affetto, l’affetto amore. Ormai erano una coppia, Paolo aveva
perso la “dipendenza dalle belle donne” e lei aveva incominciato
a curare il suo aspetto.
L’amore li aveva resi due persone migliori. Nonostante ciò la
donna rimaneva misteriosa riguardo la sua occupazione.
Un giorno, a distanza di parecchi mesi dal primo incontro, la
donna decise di far entrare Paolo in casa sua.
L’abitazione era piccola ma piena zeppa di quadri, il suo lavoro,
la sua passione, la sua vita. Dal mestiere di pittrice non riusciva a
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guadagnare molto, era costretta quindi a lavorare in un call center
part-time.
I quadri che quel giorno Paolo vide erano molto particolari,
raffiguravano uomini e donne in contesti astratti, erano
bellissimi. La donna non aveva più segreti.
La relazione continuava, si rafforzava, a discapito dei quadri
però. Il tempo che prima lei dedicava alla sua passione ora era di
Paolo, ormai per finire un dipinto impiegava mesi.
Quando si rese conto di ciò decise di riprendere in mano il
pennello, sacrificando le uscite con lui, ma questa scelta
comportò la nascita di numerosi problemi all’interno della
coppia. La donna si trovava così divisa tra due amori: Paolo e la
pittura. E questa scissione interiore man mano crebbe, diventò
insopportabile, fino a culminare nel suicidio.
L’avvenimento sconvolse moltissimo Paolo, che come rimedio
cercò quasi subito un’altra donna, per non pensarci.
Dopo qualche mese insieme la nuova fidanzata regalò a Paolo,
in occasione del suo compleanno, un quadretto, comprato al
mercatino occasionale tenutosi in città.
Il quadro rappresentava un uomo in uno sfondo astratto,
quell’uomo assomigliava terribilmente a Paolo.
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VENDETTA
Chiara Bronzieri
Vendetta. Ormai era tutto ciò a cui Elena pensava da giorni, da
quando quelle quattro ragazze l’avevano messa in ridicolo
davanti all’intera scuola solo per il suo modo di vestire.
“Bambina” le avevano detto “sei scappata dall’asilo?”.
Era il primo giorno delle superiori e gliel’avevano rovinato.
Aveva già immaginato come sarebbero stati quei cinque anni:
pieni di feste fantastiche e di nuovi amici.
Invece grazie a quelle ragazze tutte le sue fantasie erano state
infrante in un attimo; ora tutti la consideravano “quella strana”,
“la mocciosa”.
Inizialmente aveva pensato ad un modo per renderle ridicole
agli occhi dei compagni, ma loro erano adorate da tutti. Chi
avrebbe mai accettato di aiutarla?
Dunque aveva capito che il modo migliore per vendicarsi era
quello di diventare loro amica, di costruirsi una reputazione e poi
di mostrare a tutti che razza di streghe fossero.
Aveva iniziato a vestirsi come loro, a frequentare gli stessi locali
e ad entrare nel loro giro.
Dopotutto era appena arrivata in quella scuola; poteva essere
chiunque lei volesse, trasformarsi a seconda delle compagnie.
Con i vecchi amici era la Elena di sempre, timida e pacata,
mentre con la nuova compagnia era una persona totalmente
diversa, era spigliata e coraggiosa.
Finalmente un sabato sera era uscita con quelle ragazze che si
stupirono del vederla trasformata.
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La nuova Elena piaceva a quelle ragazze, era una di loro e
quindi le proposero di entrare nel gruppo.
C’era un’unica cosa che la separava dall’essere una di loro: una
prova.
“È una cosa semplice” le avevano detto “devi solo tirare un
paio di uova contro la macchina e la casa del preside. Voleva
sospenderci e ora la pagherà”.
Elena era sempre stata una brava studentessa, ottimi voti e
sempre rispettosa.
La stavano mettendo davanti a una scelta difficile: rifiutarsi e
rimanere isolata o accettare e diventare amica delle ragazze più
popolari?
“Sono solo delle stupide uova, che importa? Non fanno male a
nessuno” disse tra sé.
Dopo aver tirato le uova tutti la trattavano come un’eroina e lei
si sentiva importante.
Da quel giorno passava tutto il tempo con i suoi nuovi amici e a
scuola la guardavano con occhi diversi.
Usciva con loro, i ragazzi più famosi, e quindi lo era diventata a
sua volta.
Inizialmente era divertente avere una doppia vita. Il che voleva
dire il doppio degli amici e il doppio delle uscite.
Ben presto però dovette scegliere. La nuova vita aveva iniziato
a rubarle sempre più tempo costringendola anche a trascurare le
vecchie amicizie.
La sera del ballo della scuola si era preparata con le nuove
amiche ed era pronta a divertirsi.
Quando all’entrata alcuni del suo vecchio gruppo l’avevano
salutata aveva fatto finta di non sentirli.
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Ora era popolare e non voleva essere vista con gli sfigati della
scuola; le avrebbero rovinato la reputazione e chissà cosa gli altri
avrebbero detto di lei.
Ignorarli sarebbe stata la cosa migliore.
Verso l’una era seduta su un divanetto esausta e non si era
nemmeno accorta che in un angolo c’era una folla di ragazzi che
ridevano.
Avvicinatasi aveva visto che nel mezzo c’era Paola, la sua
vecchia migliore amica.
Quello era il suo turno di essere umiliata davanti a tutti da parte
del nuovo gruppo.
La deridevano per il vestito, per la pettinatura o forse anche per
le scarpe.
Non ne aveva idea, ma l’unica cosa che sapeva era che la
ragazza con cui aveva passato tanti bei momenti stava piangendo
in un angolo per colpa di quelle arpie.
In un attimo tutti i suoi desideri di popolarità svanirono e si
avvicinò a Paola per difenderla.
Le altre ragazze le dissero: “Ma cosa fai, stai dalla parte dei
perdenti?”
Tutto l’odio che aveva in corpo stava per esplodere, voleva
farle soffrire come loro facevano soffrire gli altri, ma aveva
capito che facendo così sarebbe diventata davvero come loro.
Decise quindi di prendere sotto braccio Paola, di portarla fuori
e di non ascoltare le chiacchiere alle sue spalle.
Per la prima volta nella sua vita non le importava il giudizio
degli altri né di essere famosa.
L’unica cosa importante era la sua amica con il suo dolore.
“Scusami per tutto” le disse “e ricordati che io ci sarò sempre per
te”.
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SOSPESO NEL TEMPO
Francesca Calegari
Una luce sottile filtra in una stanza; ne accarezza le pareti
spoglie, sfiora i profili di mobili spaiati, illumina un vecchio
orologio che ormai non funziona più.
Nella stanza, però, la luce è catturata dalla presenza di qualcosa,
un qualcosa di così impalpabile e ineffabile che sembra conferire
profondità ad un locale che pare aver perso la sua normalità.
La luce si avvicina sempre più, raggiunge il profilo austero di un
pianoforte aperto, si posa sui tasti sfiorati da agili mani, e
interrompe la sua corsa, sospesa nel contemplare lo spettacolo
potente che le si è presentato davanti. Rimane così, ferma, fino a
quando il tempo le sussurra all’orecchio e la avvisa del
sopraggiungere della notte.
Una figura esile e incerta si alza lentamente dal proprio letto, e
con gli occhi opachi getta uno sguardo alla finestra, dove la luce
non è ancora entrata. Si porta al viso una mano stranamente
forte e si allontana i capelli dagli occhi.
La figura entra in una sala poco tenuta, con un orologio fermo
e mobili spaiati, e si ferma davanti ad un pianoforte nero, posto
al centro di quella stanza circolare. L’uomo contempla
quell’oggetto per un momento che potrebbe essere un istante,
ma anche eterno, e prima dell’arrivo dell’alba è già seduto e ha
già cominciato a suonare.
Suona, suona, suona; le sue mani plasmano melodie, saggiano
esercizi, ripercorrono arie; placano l’animo tormentato
dell’uomo. Il musicista suona ad occhi chiusi nel silenzio,
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lontano dalla normalità; ed è qui che entra in contatto con il
potere della musica, ne coglie i particolari, ne ha quasi timore.
Gli occhi velati gli impediscono di accorgersi della luce e della
sua meraviglia.
Il silenzio gli fa compagnia, si riveste di commozione nella
consapevolezza di ciò che lo sta riempiendo.
E l’uomo continua a suonare.
Un ragazzo apre gli occhi imprecando contro la sveglia, la luce
che ha in fronte, la vita, gli adulti. Si alza in fretta dal letto,
guarda l’ora, corre in cucina a mangiare qualcosa, si carica uno
zaino in spalla ed esce nella brezza mattutina con un cipiglio
disgustoso e disgustato. Nelle orecchie ha delle cuffie, e la
musica che ascolta è solo rumore.
Corre, corre, corre; mentre corre getta occhiate all’ora e passa
davanti ad una casa mal tenuta proprio mentre la batteria del suo
mp3 decide di prendersi una pausa.
Ed è in quel momento che capisce cosa sia la musica, ma l’ora
che segna il suo orologio di plastica gli martella quanto gravoso
sia il suo ritardo.
Il tempo gli sussurra, e il suo sussurro non è benevolo.
L’uomo del pianoforte, ignaro di tutto, ferma le sue mani.
L’uomo, la luce e il silenzio rimangono sospesi nel desiderio di
catturare l’ultima nota, che ancora vive attorno a loro.
In quell’istante, il tempo torna a sussurrare.
Alla luce, sussurra di allontanarsi per fare posto all’oscurità della
notte.
Al silenzio, sussurra il ricordo e la potenza che può assumere il
contatto fra musica e silenzio.
Al musicista, il tempo sussurra una cosa sola.
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A NOI
Andrea Caldiani
Il suono acido e fastidioso della campanella, il rumore
nauseabondo e assordante delle moto e un intenso odore di
Marlboro in grado di suscitare il commenti negativi dei
santarellini e gli apprezzamenti degli accaniti viziati,
caratterizzava l’inizio del V anno di liceo di Andrea. Ancora
lievemente colorito per l’abbronzatura conquistata dopo ore ed
ore di letterale scioglimento al sole, procedeva diritto
consapevole che all’ingresso avrebbe ritrovato l’allegra
compagnia pronta ad offrirgli l’accendino per la sigaretta più
gustata della giornata.
Tutto andava secondo la consuetudine: perfino il rosso
sgargiante dell’Honda Jazz non era cambiato e nemmeno il
fantastico zainetto di quel geniale quattrocchi, che puntuale
come un orologio svizzero saliva le scale con una grazia degna
della migliore show girl. Era un ritorno a casa per Andrea.
Troppo tempo era trascorso dalle sclerate di quella professoressa
il cui nome ricordava tanto quello di un fiore, troppo tempo da
quei muri orrendi e da quei banchi altrettanto orrendi, ma l’attesa
era giunta al termine, era arrivato il momento di riunirsi ai
compagni, di rivedere gli amici, di riaffrontare i tanto odiati ma
stimati professori.
Un brusio stimolante lo accompagnava per le scale e, scavalcato
l’ultimo gradino, un brivido percorse la sua schiena: era
faticosamente giunto all’ultimo anno. Ma qualcosa lo frenava dal
voler lasciare quella scuola che l’ha cresciuto, “sano” nel corpo e
nella mente. Non ci faceva caso e proseguiva sicuro con passo
felpato; aula nuova ma allo stesso tempo sempre la stessa. Per lui
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era stato riservato il posto più vicino alla lavagna, quello da cui è
più facile apprendere, quello da cui è più difficile farsi gli affari
propri. Gli bastò uno sguardo a capire che la maggior parte di
loro era disposta a ripartire con le solite risate e i soliti litigi ormai
annoverati nella cosiddetta routine quotidiana. Non poteva
iniziare meglio: prima ora, lezione di scienze, l’eccentrica e
singolare insegnante sedutasi alla cattedra domandò: “Sono da
voi in quest’ora?”. Inizio folgorante tipico degli anni migliori:
Andrea abbozzava il primo sorriso dell’anno accademico, seguito
dalla risata di colui che per rispetto occorre non nominare. In
breve tempo si compose il silenzio e il racconto delle rispettive
vacanze servì a mettere una pezza a quei mesi di distanza.
Le chiacchiere non mancavano e nemmeno i primi rimproveri
dell’insegnante, eppure qualcosa era diverso, qualcosa che
Andrea non riusciva a definire e a spiegare. Le persone erano
cresciute? NO, troppo banale. Era cresciuto lui? NO, altrettanto
banale. Sentiva come un vuoto da colmare, amicizie da rifare e
lacrime da versare, ma l’ansia e la paura prendevano il
sopravvento e lui taceva, taceva. Nessuno lo poteva aiutare se
non la sua più grande forza d’animo, la sua pazienza e la sua
volontà.
I giorni passavano, il suo entusiasmo era quello di sempre, ma
continuava a riaffiorare, ogni tanto e specialmente nei momenti
di solitudine, un pensiero: sentiva l’esigenza di prendere e
scappare lontano. Però una triste realtà lo opprimeva. Troppo
semplice sfuggire dai “problemi” e inoltre sapeva benissimo che
non avrebbe avuto la forza di lasciare tutti i suoi amici, tutti i
luoghi a lui comuni, tutta la sua vita.
Come lievi ferite sulle ginocchia, superficiali ma incancellabili, i
suoi problemi non davano fastidio, ma restavano li in attesa di
essere chiamati con il loro nome.
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Chissà quanti altri prima di lui avevano vissuto situazioni
analoghe, chissà quali sentimenti avevano provato e dove tutto
ciò li aveva portati… Avrebbe forse voluto avere il conforto di
qualcuno che gli dicesse cosa fare, quale fosse la scelta migliore.
ma c’era una scelta? C’era una domanda? O forse era quella
l’unica.
Domande, domande, sempre domande… Se le portava dietro
da una vita, e da una vita intera cercava risposte. Forse quel
brivido non significava altro che il termine dei quesiti e l’inizio
dei responsi.
Era il primo di una lunga serie di passi avanti che da lì in poi si
susseguirono, e ogni volta rimaneva sorpreso da quello che
poteva imparare dagli altri e da tutto ciò che lui stesso poteva
offrire loro. Non sapeva a che meta l’avrebbe portato la sua
crescita, non aveva neanche una meta ben precisa, non faceva
progetti per il futuro, se non quello di riuscire ad essere davvero
felice. Ma ciò aveva un prezzo da scontare, come tutte le cose
belle, inevitabilmente. Eccola quella maledettissima frase che
aveva sempre sentito da bambino e mai aveva capito “il gioco
vale la candela?”. Gioco, perché la vita è un gioco, o è solo il
sinonimo di rischio? Ma il gioco è rischio e il rischio è gioco. A
noi la scelta.
Ed eccola che torna, la scelta. Puntuale, immancabile, come i
migliori amici. E proprio loro, gli amici, stavano capendo cosa gli
passava per la mente? Voleva il loro aiuto, ma sapeva che in
realtà lui doveva vivere la situazione, non loro e qualunque
consiglio si sarebbe rivelato gradito, ma inutile. Per la prima volta
in vita sua, nonostante fosse circondato da milioni di persone, si
sentiva solo. E in quel momento più che mai serviva lui, ma lui
non c’era. O meglio, c’era, ma come c’era sempre stato, stolto
osservatore di uno spettacolo senza inizio e senza fine, povero di
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contenuti e pieno di domande, incapace di smuovere minimamente l’animo di chi lo sta osservando.
Ma nell’immenso buio della sala una luce chiara e limpida lo
liberò dalla sue paure; gli mostrò il cammino che non aveva mai
intrapreso per davvero, gli mostrò quelle mete che lui stesso
sosteneva di non avere e attraverso di lei cominciarono ad
arrivare le risposte.
Voi vi chiederete cos’è o chi è… Beh… Io ci sono arrivato
dopo diciannove anni e dopo diciannove milioni di domande.
Adesso è il vostro turno…
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IL MILITARE
Umberto Cappellini
Daniele Tessaglia era un giovanotto di circa vent’anni, alto,
magro, uno di quei giovani sani e con il sorriso sempre stampato
sulla faccia. Per le stradine del suo paese lo conoscevano tutti: si
vestiva sempre in modo semplice ma elegante e da lontano lo si
riconosceva sempre perché portava i capelli rasati, alla militare.
Il militare, era quella la sua vera passione: era uno di quei
ragazzi che fin da piccini hanno già ben fissato in mente cosa
vogliono fare da grandi. Già da piccolissimo Daniele era sempre
stato attorniato da giocattoli che rispecchiavano la sua vocazione:
carri armati, aerei, pistole ed i fedelissimi soldatini, compagni di
mille avventure.
Daniele nutriva una vera e propria adorazione per i suoi
soldatini: ogni pomeriggio, dopo la scuola, lui ed il suo migliore
amichetto, Marco Scandi, che abitava a cento metri di distanza, si
ritrovavano nel cortile di casa sua, per inscenare le più fedeli
riproduzioni delle battaglie più famose.
Marco e Daniele erano gli unici in tutta la loro classe che alla
domanda della maestra: “Cosa volete fare da grandi, bambini?”,
rispondevano con serietà, senza campare in aria i soliti lavori
ideali, come ad esempio l’astronauta, da sempre il mestiere più
gettonato.
Loro erano diversi; sapevano che sarebbero stati insieme, si
sentivano come fratelli, uniti da una scelta di vita.
Quando arrivò l’adolescenza entrambi non misero da parte i
propri sogni d’infanzia, come spesso succede; anzi, li prese
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quell’esaltazione e quell’impazienza proprie soltanto dei giovani;
sentivano il momento sempre più vicino.
Il combattere per la patria era per loro la più nobile scelta di
vita si potesse avere: non concepivano di poter fare altro che
difendere la loro nazione contro i nemici, ogni altra cosa
sembrava inutile.
Quando i due giovani avevano circa vent’anni finalmente si
arruolarono come volontari: erano sorte tensioni che
richiedevano uomini sui confini orientali, una missione
apparentemente tranquilla, ma un’occasione imperdibile per
l’entusiasmo delle due reclute.
Ed ecco arrivare l’addestramento, la dura vita dei commilitoni,
la severa disciplina che i due giovani avevano sempre desiderato
seguire. Le notti al fronte trascorrevano quasi spensierate e
Daniele e Marco, felici della propria scelta si sentivano realizzati.
“Non è fantastico?” sussurrava una notte Daniele a Marco che
riposava nella branda vicino alla sua, “stiamo finalmente
servendo il nostro paese”; “sì, però, che noia”, rispondeva
Marco, “ci siamo tanto addestrati ma non ci siamo ancora
confrontati contro nessuno; qual è il bello se...”
Daniele d’un tratto non udì più alcuna delle parole di Marco.
La vista gli si era annebbiata, gli fischiavano le orecchie.
Buio.
Riaprì a rilento e con fatica le palpebre; lo investì il bagliore del
fuoco che lo circondava. A qualche metro gli occhi spenti di
Marco incrociavano in qualche modo i suoi. Non capiva cosa era
successo, gli risuonavano in testa le ultime parole sentite
dall’amico.
Fu allora che capì che non c’era niente di bello nella guerra.
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LONG SHADOW
Giovanni Cavalleri
Quando Eric Mellor morì non aveva ancora realizzato il suo
sogno. Ma d’altronde nessuno è ancora riuscito a cambiare il
mondo completamente. Eric questo lo sapeva, sapeva che la sua
era un’utopia, ma era anche certo che puntare all’obiettivo più
alto sia il modo migliore per avvicinarcisi. Questo, con la
consapevolezza che il tempo a nostra disposizione non sarà mai
abbastanza per vedere i frutti del nostro impegno e che i dubbi
che derivano da ciò potranno essere superati solo con una
grande fiducia.
Cinquanta anni prima, nel 1952, Eric nasceva a Casablanca, in
Marocco, dove suo padre aveva un impiego all’ambasciata
Inglese. Peter Mellor era un uomo molto ligio al dovere, umile ed
intelligente; aveva sempre svolto bene il suo incarico, per il quale
spesso era chiamato a spostarsi da una nazione all’altra,
coinvolgendo l’unico figlio e la moglie Greta, Italiana, conosciuta
quando lui viveva stabilmente a Birmingham, sua città natale.
Vivendo i primi 12 anni della sua vita tra Marocco, Turchia,
Italia e Grecia, Eric imparò quanto le persone siano diverse tra
loro e quanto ogni cultura abbia da insegnare se viene avvicinata
senza troppi pregiudizi e con la voglia di ascoltare.
Negli anni successivi i Mellor si stabilirono definitivamente in
Grecia, ma Eric preferì completare gli studi a Londra, attirato dal
fascino di quell’Inghilterra conosciuta solo attraverso i racconti
del padre, che, nonostante avesse deciso di separarsene, vi era
sempre molto legato.
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A Londra Eric si trovò subito bene, dopo i primi anni passati in
un collegio si stabilì in un appartamento a Chelsea messogli a
disposizione da una zia, Marie, anziana vedova che aveva
ereditato una discreta fortuna dal marito. I contatti con i genitori
erano sporadici e la zia pretendeva solo una visita al mese alla sua
casa di Notting Hill, così gli era concessa ampia libertà,
supportata dal sussidio dei genitori e da lavoretti occasionali. Si
iscrisse ad un istituto d’arte, che completò senza difficoltà né
soddisfazioni e che gli permise di vivere con serenità gli anni più
spensierati della sua vita. Terminata la scuola si trovò a dover
pensare al suo futuro, una cosa che lo lasciò spiazzato al
momento. Prese in considerazione l’opzione di seguire la carriera
del padre, a cui avrebbe avuto accesso in modo relativamente
facile, ma, sebbene ritenesse Peter un grande esempio ed un
uomo di alti principi, riconosceva in lui il difetto di saper solo
lamentarsi di come nessun altro sembrasse condividerli.
Eric, voleva esprimersi, voleva far sapere al mondo quello che
pensava, e l’ambiente in cui si trovava glielo permetteva. Non
aveva nessun talento particolare, solo quello di riuscire bene in
tutto quello che facesse, seppur senza eccellere in niente. Decise
così di darsi alla pittura, l’espressione artistica che più gli era
accessibile, e per mantenersi svolse diversi lavori occasionali, in
modo da non annoiarsi mai e potersi dedicare ai quadri con
serenità.
Si rese conto che le sue opere non erano particolarmente belle,
ma di sicuro avevano significato. Con il tempo riuscì a conciliare
al contenuto anche la forma, creando opere di protesta e
denuncia verso tutte le ingiustizie ed atrocità che solitamente
giustifichiamo solo per pigrizia. Fece un discreto successo e
molto rumore nell’ambiente locale e poco dopo riuscì ad esporre
in varie gallerie nelle più importanti città Europee. Divenne un
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personaggio di rilievo nel campo artistico, ma s’accorse di avere
in parte lo stesso atteggiamento riconosciuto errato nel padre: si
stava esprimendo, scuotendo la coscienza intorpidita del suo
pubblico, ma non stava dando una soluzione.
Si accorse anche di essere diventato di moda, il pubblico si
rivolgeva a lui non perché realmente interessato, ma quasi per
dovere. Così a trentatré anni prese la decisione di mollare tutto.
Tornò a viaggiare, come non faceva dall’infanzia, allargò i suoi
orizzonti e per dieci anni girò il mondo. Conobbe persone e
culture differenti e capì come sia solo la politica a creare odi
razziali e ad allontanare i popoli. Vide la bellezza della vita, il lato
che fino ad allora anche lui non aveva saputo cogliere. Cominciò
allora una nuova serie di opere, opposte, conseguenti e
necessarie a quelle distruttive del passato. Voleva costruire una
nuova coscienza collettiva, ora che l’aveva risvegliata.
Distribuì le sue opere in piccole gallerie e non le pubblicizzò
molto, così che venissero interpretate adeguatamente da persone
disposte a farlo, a mettersi in gioco. Questi quadri sono un inno
alla vita, al mondo e alla diversità che contiene, un inno che Eric
avrebbe voluto si levasse all’unisono. Non sarà riuscito a
cambiare il mondo, ma di sicuro ha cambiato molte vite ed ora
che, suo malgrado, ci ha passato il testimone, sta a noi
innamorarci della vita e sognare l’impossibile.
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NUMBERS
Paolo Ceresoli
Erano gli ultimi 2000 €. Dovevo puntarli tutti insieme. Era la
mia ultima speranza. Perdendo, la mia vita sarebbe finita quel
giorno. Tutto dipendeva dalle mie ultime parole. E quella
maledetta roulette non perdonava.
Tutto era cominciato in un’uggiosa giornata d’autunno, quando
due persone dall’aria sospetta si avvicinarono a me. Da tempo
ormai la mia vita aveva perso ogni significato per colpa sua; non
avevo ancora mandato giù la sua scomparsa. La mia piccola e
dolce Daniela se n’era andata a causa di quel fatidico incendio
che era divampato in casa mentre ero al lavoro. E da quel giorno
mi ero chiuso in me stesso, abbandonandomi all’alcol e ad altri
vizi di cui fino a quel momento non avevo avuto bisogno. Da
solo. E in quella giornata d’autunno qualcosa cambiò.
Ricominciai ad avere contatti con altre persone: purtroppo
erano quelle sbagliate. Inizialmente mi piaceva, ogni tanto
uscivamo e capitava di giocare, ma era solo un’occasione per
svagarsi. Ma un giorno tutto cambiò. Quella sera a casa di Marco
sembrava tutto normale quando all’improvviso le puntate del
gioco si alzarono vertiginosamente.
Decisi di tirarmi fuori da quella giocata pensando fosse l’effetto
dell’alcol di quella sera ma la stessa situazione si ripeté la sera
dopo e quella dopo ancora. Era diventata ormai un’abitudine e
decisi di adeguarmi anch’io. La fortuna era dalla mia parte: mi
bastava scegliere il numero e lei faceva il resto. In pochi giorni
raggiunsi la considerevole somma di 52000 €.
Mi sembrava fin troppo facile per essere vero. Non avevo mai
visto tanti soldi tutti insieme. E speravo durasse ancora. Il giorno
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dopo tornai a casa con 5000 € di meno ma questo non mi
preoccupava. Ne avevo abbastanza per vivere.
Tanti avevano già ipotecato la casa e io mi sentivo in netto
vantaggio. Ma la fortuna è cieca e non mi toccò più. Quella sera
decisi di giocare 5000 € a puntata. Dopo le prime nove partite mi
ritrovai con soli 2000 €. Il gioco d’azzardo mi aveva dato alla
testa con tutti quei numeri, quei soldi… Era come una droga,
non riuscivo più a farne a meno. I miei “amici” decisero una
giocata mortale: si puntava tutto, anche la vita.
Mi resi conto subito di quanto stavo per fare ma pensavo fosse
uno scherzo anche perché gli altri accettarono immediatamente
questa novità. Dovevo scegliere un solo numero, un
insignificante numero che valeva la mia vita. I numeri avevano
sempre avuto un ruolo importante nel corso della mia vita, nel
lavoro, nei soldi, ma mai come in quel momento.
Tra quei numeri, uno solo… Ma quale? Le mie probabilità di
successo erano scarsissime. La mia vita era appesa ad una
percentuale insignificante di possibilità. Decisi di giocare il 29
nero come il giorno in cui avevo conosciuto il mio amore.
Puntarono anche gli altri. Il croupier segnò tutte le puntate, girò
la roulette e lanciò la pallina. Inquietudine. La mia vita mi passò
davanti. Quel dannato 29 nero… Avrebbe deciso la mia sorte.
La roulette cominciò a rallentare e si fermò. I miei occhi erano
chiusi. Non volevo guardare. Il silenzio era terrificante. Aprii gli
occhi…
34 rosso.
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INSIEME PER SEMPRE
Federica Cortinovis
Sara si svegliò ansimando, sperò che fosse solo un brutto
sogno! Chiuse per un momento gli occhi, poi aprendoli capì che
era la realtà. Seduta accanto al letto della madre, ricoverata in
ospedale, aveva ancora la pelle del viso bagnata dalle lacrime che
aveva versato nell’osservarla inerme e ormai prossima alla morte.
Dal giorno in cui era entrata in coma, i dottori le avevano dato
un mese di vita. Sara aveva sempre avuto tutto dalla vita, ma ora
non le importava più nulla perché le stavano portando via la cosa
più importante di tutte: sua madre. La faceva soffrire il pensiero
di non parlare più con lei, di non sentire quella voce, che trovava
sempre la giusta parola per consolarla e incoraggiarla a realizzare
i suoi sogni.
Aveva sempre pregato e ringraziato Dio per tutto quello che le
aveva sempre dato, e continuava a farlo ora affinché potesse
evitare quello che tutti avevano ormai dato per certo: la morte.
Ma quel giorno arrivò, in una fredda, piovosa e taciturna notte di
gennaio, si sentì il disperato grido di Sara che aveva visto morire
la madre tra la sue braccia senza nemmeno averle potuto dire
addio. Si sentiva abbandonata dal mondo intero, ma soprattutto
da Dio! Perché non l’aveva aiutata e non aveva impedito che
tutto ciò accadesse? Si rinchiuse nella sua camera. Il solo
pensiero di incontrare bambini che ridevano e abbracciavano le
loro mamme le faceva venire una grande rabbia. Le sembrava
che la sua vita non avesse più senso.
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Eppure un giorno mentre in lacrime e lamentandosi della sua
situazione, sistemava i fiori sulla tomba della mamma, le si
avvicinò un vecchietto che le disse: “Non piangere la perdita di
tua madre! Hai un grande privilegio: lei è sempre con te e ti
protegge più di quanto non avrebbe fatto se fosse stata viva!”
Sara non conosceva quel signore, e sdegnata per le parole
pronunciate lo cacciò. Tuttavia non riusciva a smettere di
pensare a quelle frasi e più ci rifletteva e più si convinceva della
illogicità di quanto le aveva detto quello strano vecchietto,
eppure era stato il solo a non commiserarla per quanto stava
passando, ma l’aveva rimproverata per il suo comportamento
invitandola a considerare meglio la sua situazione. Così
nonostante non capiva il significato di quelle parole iniziò a
credersi più fortunata degli altri e riprese la sua vita cercando di
risollevarsi pian piano dalla caduta. Solo quando ritornò ad
essere la Sara di sempre comprese le parole del vecchietto! Sua
mamma era sempre con lei, sempre riusciva a percepirne la
presenza. Poteva parlarle e senza spiegarsi il perché riceveva
tutte le volte una risposta o un consiglio che le dava la forza di
andare avanti. Anche se non poteva dimostrarlo era come se sua
madre le stesse sempre vicino.
Ringraziò Dio perché le aveva permesso di ritrovare la mamma
che pensava di avere perso per sempre, e comprese che a volte
nella vita non bisogna vedere per credere ma credere per vedere!
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PEPPINO APPETITO, IL BECCHINO IETTATORE
Mirco Costa
In quella piccola cittadina nei dintorni di Napoli abitava
Peppino Appetito, di professione becchino. Quando passava per
le vie del paese, la gente si lasciava andare ad ogni forma di
scongiuro, da quelli civilmente ammissibili a quelli che è meglio
non citare: c’era chi si limitava alla semplice indicazione con le
dita, al classico sciò, sciò, chi si attaccava al classico ferro di cavallo
o ad un qualunque altro ferro, non verniciato e non lavorato,
disponibile nei paraggi. C’erano anche quelli che si stringevano
angosciosamente in mano il corno rigorosamente rubato, trovato
o ricevuto in regalo, chi cercava nelle tasche il suo mazzo di
chiavi, c’era anche chi disponeva trecce d’aglio al balcone come
aveva visto nei film sui vampiri. I giocatori di carte del bar vicino
al negozio di Peppino si alzavano frettolosamente dal luogo di
lavoro scappando, mentre gli uomini che non avevano potuto
porsi tempestivamente in salvo provvedevano con quel
inosservato “movimento grattatorio” che era stato loro
tramandato dai padri.
Figurarsi quale fu la sorpresa della gente, quando si sparse la
voce che Peppino avrebbe tenuto un pubblico comizio per
presentarsi come candidato alle prossime elezioni amministrative! I dirigenti del suo partito erano assolutamente
contrari a questa sorta di suicidio pubblico, ma l’uomo, di fronte
a questo rifiuto, aveva minacciato che sarebbe stato costretto a
provvedere in modo diverso. Di fronte ad una tremenda
prospettiva, i responsabili della lista avevano ceduto, nella
speranza che la sfortuna potesse invece spargersi sugli avversari.
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La sera del discorso, la maggior parte delle balconate e delle
finestre che si affacciavano sulla piazza erano vuote o addirittura
sprangate per evitare gli effluvi della iella che sarebbe
inevitabilmente arrivata sulla zona. C’era stato addirittura un
fuggi-fuggi generale, perché molti avevano scelto di recarsi fuori
paese nell’imminenza della catastrofe. Il notevole afflusso di
traffico e la fretta con cui tutti tentavano di scappare avevano
però provocato, come c’era da aspettarsi, tutta una serie di
incidenti grandi e piccoli, che erano stati inequivocabilmente
attribuiti alla maledizione che doveva essere stata lanciata da
Peppino contro chi intendeva abbandonarlo. Per questo motivo,
i compaesani si erano dovuti rassegnare ad assistere al
temutissimo comizio, naturalmente però non senza premunirsi di
ferri di cavallo e di cose simili. Si dice, addirittura, che, per
l’occasione, siano stati svuotati i negozi di ferramenta di tutti i
paesi vicini.
Stranamente, però, la sera del discorso pareva proprio che le
cose dovessero mettersi per il meglio: il cielo era stellato, la luna
piena illuminava a giorno la piazza e l’aria, fredda e pungente
fino a qualche giorno prima, si era fatta dolce e piacevole. In
fondo, non poteva trattarsi soltanto di calunnie che avevano
colpito quel povero uomo? In effetti, qualcuno cominciò a
rivelare agli altri che quella fama di iettatore era stata attribuita a
quella brava persona, oltre dalla sua professione, anche dalla sua
abitudine di parlare di cose tristi, ma, alla fine, non c’era nessuna
prova concreta che quello portasse disgrazia.
Così, man mano, la gente cominciò a rasserenarsi ed a seguire
con sempre maggiore interesse il discorso di Peppino, che aveva
una buona vena oratoria e stava parlando con competenza di
argomenti interessanti.
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Ad un certo punto, addirittura, accadde che la maggioranza
degli ascoltatori prendesse a concordare con le tesi dell’oratore e
stesse considerando se fosse il caso di affidare il suo voto
proprio a Peppino, che, da come ora si capiva, era stato vittima
della calunnia della gente. Sul più bello, però, improvvisamente
avvenne un fatto doloroso: il palco, su cui, passata la paura della
iella, si stava radunando tanta gente, senza nessun preavviso
crollò addosso agli spettatori che stavano intorno, provocando
numerosi feriti.
Come accertarono le successive indagini della polizia, la
responsabilità del fatto era di quelli che avevano costruito il
palco: naturalmente, costoro, prevedendo che non ci sarebbe
stato nessuno accanto al predicatore sfortunato, avevano
realizzato una struttura alquanto debole, che poi non aveva retto
al peso eccessivo.
Ma chi avrebbe tolto dalla mente della gente che la storia dello
iettatore, in fondo, era perfettamente vera?
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XIII - TREDICI
Francesco Danesi
Pioveva, pioveva come poche volte, pioveva che Dio la
mandava. Quel sabato 7 dicembre era cominciato da appena due
ore e nel buio della notte, completamente infradiciato, giunsi
finalmente a casa.
Via Legionari in Polonia era abbandonata alla solitudine di una
fredda giornata invernale e dopo una serata passata in compagnia
mi sentivo un po’ impaurito lì da solo davanti alla porta del
condominio, intento come al solito alla disperata ricerca del
mazzo di chiavi.
Appena le trovai mi fiondai nell’atrio e a passi svelti dentro
l’ascensore. Premetti il numero 7 diverse volte, come se il
continuare a schiacciare il tasto potesse rendere meno lenta e
noiosa l’”ascesa” verso il tepore caldo del mio letto che mi
attendeva.
Con uno struscio sordo le porte si aprirono e mi diressi verso la
porta di casa mia; c’era qualcosa di strano tuttavia. Chi cavolo ha
scritto in pennarello un XIII sulla porta!? Bah...
Senza farci tanto caso aprii la porta girando la serratura tre volte
e penetrai nelle tanto amate mura domestiche; è sempre bello
d’altronde arrivare infreddoliti a casa e sapere che, una volta
varcata la soglia, ci sarà la piacevole accoglienza del
riscaldamento... Grande invenzione il termosifone, lo dico sempre!
Buttai il cappotto verde militare in terra e mi resi conto di non
avere la forza, o forse la voglia, di mettermi in pigiama, così mi
lanciai sul letto e mi lascia andare tra le braccia di Morfeo.
–––––––
“Ehi! Geeeeeorge! Signor Geeeeorge! Sveglia! Suvvia!”
54
A fatica spalancai gli occhi ancora gonfi dal sonno e con la vista
un po’ annebbiata cercai di riconoscere, piuttosto inquietato, il
viso barbuto di un signore che mi guardava da così vicino da
sfiorarmi il naso.
“Eh... Aspetta...” Cercai di blaterare qualcosa di sensato, prima
di rendermi conto di non trovarmi a casa mia, bensì in un
appartamento alquanto ristretto dal gusto retrò; cercai di
rialzarmi di scatto, ma caddi dalla poltrona rossa in pelle su cui
mi ero probabilmente addormentato. Poi mi rialzai davvero e
sentii che la testa mi girava vorticosamente, peggio che su una
giostra.
“E chi sei tu scusa!” Esclamai sorpreso e smarrito.
Il vecchio signore barbuto, che indossava una specie di
impermeabile al quanto trasandato, scoppiò a ridere di gusto.
“Chi sono io? Chi sono io vuoi sapere?” Poi si fece
incredibilmente serio e con un tono quasi teatrale mi allungò la
mano: “Mi presento dunque. Sono il signor Desìo... E tu sei il
signor George!”
Poi riprese a guardarmi divertito. “Beh... Ehm... Io cosa faccio
qui signor Desìo allora?” Dissi, sottolineando particolarmente il
suo nome. Che nome è poi Desìo?
“Oh signor George, vedi, ieri sera ti ho trovato sdraiato fuori da
casa mia e ho pensato che fosse meglio darti un posto comodo
per dormire.” Rispose il vecchio con tono saccente.
Sdraiato per terra... Ieri sera?
“Scusi ma... Sdraiato per terra?”
“Oh sì, sì! Credo tu fossi completamente ubriaco... Anzi lo eri
sicuramente!” Esclamò scoppiando di nuovo a ridere.
“Ubriaco... A dir la verità non ricordo molto. Beh, grazie per
l’ospitalità dunque ma ora credo sia meglio che io vada eh!”
55
“Oh no, no! Datti una risciacquata prima signor George! Il
bagno è in fondo a destra, prego prego!” disse dandomi un
colpetto sulla schiena e indirizzandomi verso il bagno.
Questo qua non è a posto... Adesso mi lavo e poi scappo via.
Entrai in una stanza striminzita e girando la manopola del
lavandino diedi un’occhiata alla mia immagine riflessa nello
specchio tondo appeso al muro... Emisi un urlo che subito
soffocai chiudendo le labbra in modo serrato. Ma che ca...!
Ero invecchiato! Ero invecchiato? Ero irrimediabilmente
invecchiato! Avevo una leggera barba sulle guance, i lineamenti
più affilati e lo sguardo di un povero quarantenne che aveva
perso tutti i sogni in cui credeva nella sua adolescenza!
“Come fa a sapere che mi chiamo George?” Esplosi uscendo
dal bagno di corsa.
“Oh beh beh, la carta d’identità serve a questo, credo.” Mi
rispose ghignando il signor Desìo con in mano il mio
portafoglio.
Lo guardai torvo e me lo feci immediatamente ridare; poi mi
diressi verso la porta di casa per andarmene, un po’ troppo
sconvolto per continuare a conversare con quel vecchio pazzo.
“Oh aspetta signor George. Penso sia meglio che io venga con
te, oh sì, sì!”
Io feci finta di niente, uscii di casa e scendendo a velocità
supersonica due rampe di scale abbandonai l’abitazione.
“Il mio non era un consiglio signor George. Ti accompagno a
casa!” Pronunciò il vecchio che mi aspettava subito fuori
dall’edificio.
Ma come diavolo fa ad esser già qui!?
“Va-va bene! Allora… Andiamo.” Dissi io con la voce un po’
tremante.
56
Scendemmo per via S.Alessandro alta a passo svelto, io davanti
e il signor Desìo dietro, il quale, un po’ zoppicante, mi seguiva in
silenzio con un’espressione che potrei definire quasi da “ebete”.
“C’è qualcosa che non va signor George?” Domandò poi col
suo tono scherzoso.
“Ehm, no no. Sono solo un po’... Perso ecco.”
“Beh chi non lo sarebbe al posto tuo!” Rise lui.
Che cosa ride sempre?
Stavamo scendendo le scalette che portavano su Via Nullo
quando in lontananza, all’inizio dei gradini, vidi una figura
familiare; strinsi gli occhi, a causa della mia miopia mai presa sul
serio, e riconobbi in quella donna che indossava un elegante
tailleur blu scuro una vecchia amica: era Vera! Invecchiata anche
lei ma impossibile per me da dimenticare.
Le corsi incontro sbracciando, lasciandomi alle spalle il vecchio
e urlai: “Veraaaa!! Veraaaa! Sono George!!”
Lei mi guardò sbigottita e indietreggiò: “Scusi ma cosa vuole da
me?”
Restai imbambolato... Non potevo essermi sbagliato! Poi da
dietro sentii la voce del Signor Desìo che mi sussurrava qualcosa:
“Si chiama Maria...”
Io piuttosto perplesso la guardai e cercai di capire che cavolo
stava succedendo. “Cioè... Sei Maria?”
“Sì, mi chiamo Maria! Chi è lei scusi?” Rispose infastidita.
“Sono George! George Columbus! Non ti ricordi di me!?”
“George!? Sei proprio tu!?” Esclamò lei quasi divertita.
“Sì sono io! Ti ricordi allora!” Urlai di gioia.
“Oh quanto tempo. Sarà vent’anni che non ci vediamo!”
Vent’anni… Vent’anni in una sola notte.
“Sì, beh... Già…” Non sapevo proprio cosa dire.
57
“Te la passi bene?” Mi chiese osservando stranita il signor
Desìo, che stava canticchiando qualcosa di strano alle mie spalle.
“Sì, credo di sì. E tu?”
“Tutto bene anche dalle mie parti. Mi spiace doverti lasciare
subito ma i miei bambini mi stanno aspettando per pranzare!
Magari ci si rivede, stammi bene George.” Disse lei sorridendo,
quel sorriso unico.
“Ah, i tuoi bambini... Certo! Allora ci si rivede.” Dissi io in tono
sommesso fissandola mentre si incamminava verso casa.
Per un po’ rimasi incantato e davanti ai miei occhi vidi le scene
di un film patetico chiamato “Passato”, il cui protagonista ero io:
l’incredibile amicizia che ci aveva legato lungo gli anni del liceo, i
litigi e la rottura del nostro rapporto per vigliaccheria. Fui un
maledetto codardo. Scappai dai miei sentimenti in nome di una
sicurezza che credevo sarebbe durata per sempre o forse perché
avevo paura. E se questi ricordi fino al giorno prima erano il mio
presente, in cui ancora pensavo e speravo di poter agire, ora
rappresentavano un crudele passato che ci aveva portati al
distacco... Lei era felice però.
“Signor George ci sei?”
“Sì, ci sono. Come faceva a sapere il suo nome comunque?”
“Oh beh beh, io sono uno dei tanti che conosce tante tante
cose qui.” Sghignazzò lui.
Che risposta è!?
In silenzio ripresi a camminare verso Via Legionari in Polonia,
accompagnato dall’ombra del vecchio.
Il cielo gonfio di nubi scure cominciò a gettare secchiate
d’acqua su Bergamo poco prima che io giungessi davanti a casa.
“Signor Desìo, abito qua io. La ringrazio per avermi...
“scortato” fino a casa.” Dissi cercando di sbarazzarmi finalmente
della sua presenza.
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Il suo sguardo si fece improvvisamente scuro e passandosi una
mano sulle goti barbute mi poggiò l’altra sulla spalla. “Signor
George, non lo troverebbe strano andare a dormire nel corpo di
un diciottenne e risvegliarsi in quello di un quarantenne?”
Rimasi sbalordito. Allora non sono completamente scemo!
“Lei sa cosa mi è successo!?” Esclamai mentre cercavo di
proteggermi il capo dalla pioggia con il braccio.
“Oh beh, io sono solo uno dei tanti che sa tante tante cose.”
“Cosa intende?”
“Signor George, penso che ti devi fare un’altra bella dormita.
Quella signora Maria ti ha proprio lasciato il segno eh.”
“Già, ma ormai non c’è nulla da fare.” Risposi abbassando lo
sguardo.
“C’è sempre qualcosa da fare. Oggi qui, domani là, c’è chi
compare e chi scompare. Io a dir la verità preferisco restare.”
Continuò lui.
Eccolo che ricomincia con le frasi senza senso.
“Cosa intende scusi?”
“Oh intendo dire tante tante cose! Forse troppe o forse troppo
poche. Ne ho in mente così tante che a volte non so proprio
quale scegliere! Ora ti saluto Signor George, sogni d’oro e tanti
saluti a casa.”
Così, senza il minimo indugio, mi voltò le spalle e sempre
zoppicando se ne andò.
Effettivamente fui colto da un sonno imprevisto e anche da un
particolare senso di nausea.
Mi fiondai nell’atrio e a passi svelti dentro l’ascensore. Premetti
il numero 7 diverse volte, come se il continuare a schiacciare il
tasto potesse rendere meno lenta e noiosa l’“ascesa” verso il
tepore caldo del mio letto che mi attendeva.
59
Con uno struscio sordo le porte si aprirono e mi diressi verso la
porta di casa mia; c’era qualcosa di strano tuttavia. Chi cavolo ha
scritto in pennarello un XIII sulla porta!? Bah...
Senza farci tanto caso aprii la porta girando la serratura tre volte
e penetrai nelle tanto amate mura domestiche. Buttai il mio
cappotto verde militare in terra e mi resi conto di non avere la
forza, o forse la voglia, di mettermi in pigiama, così mi lanciai sul
letto e mi lasciai andare tra le braccia di Morfeo.
–––––––––
BIP-BIP-BIP
Fottiti sveglia del cavolo…
BIP-BIP-BIP
Va bene, va bene... Hai vinto tu di nuovo.
Mi alzai stirandomi la cassa toracica e sbadigliando per diversi
secondi.
I raggi di un pallido sole filtravano attraverso i fori delle
tapparelle – finalmente un po’ di bel tempo – e il freddo tremendo
della notte precedente sembrava un lontano ricordo.
In poco meno di un quarto d’ora mi ero vestito, lavato e
preparato lo zaino; uscii di casa verso le sette e quaranta,
dirigendomi come tutti gli altri lunedì mattina della mia vita verso
il liceo Sant’Alessandro.
Entrai a scuola dopo aver fumato una sana sigaretta mattutina e
dopo le solite e numerose rampe di scale scivolai nell’aula della I
classico.
Nel primo banco notai una presenza nuova, un volto
sconosciuto. Odiavo i nuovi arrivati, non so perché, ma mi
stavano antipatici per principio; tuttavia sin dal primo scambio
casuale di sguardi, provai lo strano presentimento di conoscerla
già.
60
LE CINQUE NOTTI
Andrea Deretti
Roberto è uno dei tanti ragazzi per i quali la vita di tutti giorni
non provoca altro che noie e insoddisfazioni personali. Ha 16
anni e ha fondamentalmente tutto dalla vita se non la capacità di
non sapersene accorgere. Una cosa però lo tormentava più di
tutte le altre: egli voleva vivere in un’altra dimensione e con
un’altra età; non credeva giusto che lui dovesse esser nato
quando qualcun altro decideva e che non potesse vivere altre
storie in altri luoghi.
Era il suo pensiero più nascosto, più intimo, quel pensiero che
non confidava a nessuno ma che tanto covava dentro. Un giorno
lesse un annuncio pubblicitario in fondo a una delle riviste che
sua mamma comprava alla sera uscita dal lavoro: reclamizzava
una pozione magica per tornare nel passato. Annotò l’inserzione
e il numero di telefono e andrò subito a comprare il prodotto;
stranamente il negozio (pensò lui) era pieno zeppo di gente che
si muoveva, entrava e usciva freneticamente come dei ladruncoli.
Mischiandosi tra la folla prese il boccettino e corse a casa.
Diluito il contenuto bluastro nell’acqua, come da prescrizione,
bevve la pozione; non accadde nulla. Ecco però che alla sera,
andato a letto, dopo essersi addormentato, gli apparve in sogno
un diavolo.
Eh sì, era proprio un piccolo diavoletto: color rossastro,
sopracciglia folte, baffetti lunghi, con un abito color porpora
abbinato a una camicia e ad un paio di scarpe, senza dimenticare
la cravatta, bianche.
Il diavolo dopo averlo fissato sorridendo esclamò: “Salve! Il
mio nome è Teriva, il diavolo dei sogni. Tu ed io viaggeremo
61
dunque per cinque lunghissime notti! Visiteremo luoghi e tempi
dimenticati, avrai la sapienza e la conoscenza che nessun altro
potrà mai avere!” Roberto spaventato, ma al contempo eccitato,
replicò: “Ma questo è un sogno vero? Perché mi sembra di essere
sveglio?! Perché non mi sembra affatto surreale? Nemmeno tu
con quei ridicoli baffetti!” Il diavolo riprese la parola: “Non c’è
tempo da perdere. Il tempo nei sogni non è quello misurato dagli
umani sulla terra. Tra 4 ore sarai già sveglio! Stanotte mi seguirai
in un posto fantastico... Roma dell’epoca imperiale!”
La mattina dopo Roberto si svegliò tutto sudato e ansimante.
Ebbe poco tempo per riprendersi perché come sempre dovette
prepararsi e andare a scuola.
Si ricordava ogni dettaglio della notte precedente, per lui non
era stato affatto un sogno. Non svelò a nessuno quel che era
accaduto. Aspettava solo che il sole tramontasse aprendo le porte
alla luna, alla notte e soprattutto a Teriva.
E la notte arrivò puntuale insieme a Teriva: “Salve di nuovo!
Oggi mi hai aspettato con ansia, ma non sarà sempre così. Ieri ti
ho detto dove saremmo andati ma da stasera non saprai più dove
ci dirigeremo.”
Roberto passava le sue giornate in attesa di quei sogni
“diabolici” e non trovava più un motivo per stare in famiglia o
per fare qualsiasi altra cosa.
I suoi genitori dapprima si preoccuparono ma poi, arrivato il
quinto giorno, cominciarono ad ignorare il figlio e la sua assenza.
Gli amici, i compagni di classe e i parenti non riconoscevano
più Roberto, che con tutti i suoi difetti e le sue mancanze riusciva
comunque a rendere speciale tutto ciò che gli stava intorno.
Era l’ultima notte e il diavolo puntuale arrivò da Roberto:
“Giungiamo così al nostro ultimo incontro... Ti propongo però
di prolungare il tuo viaggio di altre cinque notti Roberto.”
62
Roberto sorridendo guardò profondamente il diavoletto e
sospirando rispose: “Mi hai fatto vedere i posti più lontani, mi
hai fatto conoscere le civiltà più antiche, ma senza accorgermene
sto rinunciando al mio presente. Non sono libero di scegliere
quando e dove vivere, ma dopo queste cinque notti ho capito che
posso scegliere il come. Grazie Teriva, sei riuscito nel tuo
intento.”
Il diavoletto se ne andò compiaciuto, lasciando cadere un
bigliettino: c’era scritta qualcosa ma Roberto non era ancora in
grado di leggerlo...
63
ETERNA ILLUSIONE
Serena Foiadelli
Le sette del mattino di una fredda giornata di dicembre, fuori,
lungo la strada, tutto tace. Si sentono soltanto alcune voci in
lontananza, forse dei passanti che cercano inutilmente di pulire il
vialetto dalla troppa neve, caduta la sera prima. Percepisco il
rumore delle tapparelle sollevarsi nell’appartamento del piano di
sopra, unico segno della presenza umana in questo mondo. Steso
a letto continuo a pensare all’accaduto, ho ancora quella
immagine impressa nella mente, così chiara, così netta. Neppure
il rintocco della campane che segnano la mezza riescono a
distogliermi da quella sensazione di solitudine. Cerco di alzarmi
con la poca forza che mi è rimasta in corpo e, dopo essermi
lavato, scaldo la moka del caffè, quella di sempre. In tutta la
stanza si sprigiona un leggero aroma d’Oriente, dal sapore un po’
amaro, come la mia vita in quell’istante. Mi aggrappo alla sedia
con uno sforzo disperato e quasi, un attimo di mancamento.
Oggi è Domenica, non ho neppure la distrazione del lavoro,
penso. In quel particolare momento della mia vita, infatti, sono
conosciuto da tutti come un semplice scrittore. Accendo la radio
per ascoltare il notiziario: una parte di me non ha più voglia di
accettare quella stressante circostanza, anche se nella testa si
ripetono continuamente le stesse parole e scene e quanto darei
per tornare indietro e cancellare tutto! Con un gesto felino e
istintivo spengo la radio per far prevalere il silenzio ai tormenti.
Mi chiedo, forse inconsapevolmente, cosa ne sarà di me, della
mia vita, di mio fratello Giorgio. Solo ora capisco quanto i nostri
progetti fossero irrealizzabili e come il nostro futuro si sia
64
rivelato esser solo un’illusione. Un’eterna illusione dei sensi che
non avevo mai considerato prima d’ora e dunque, cosa mi resta
davvero da vivere?
Basta chiacchiere, sono solo parole al vento. Non penso più a
niente, mi lascio tutto alle spalle e mi vesto con le prime cose che
trovo nell’armadio e, senza badare al tempo che scorre, esco di
casa alla ricerca di qualcosa che neppure io so ben cosa sia. L’aria
fredda e tagliente mi accarezza i capelli neri e la barba incolta,
segno del momento che fugge, e, penetrandomi fino alle ossa, mi
sveglia e ghiaccia al tempo stesso. Procedo per la mia meta e,
sprofondando con i piedi nella soffice neve, come un cane
abbandonato, percorro tutta la St. Paul Street. In quell’istante mi
avvicino ad una scena che osservo incantato, ma con un po’ di
malinconia e di invidia.
Di fronte a me una famiglia al completo, composta da madre e
padre che si tengono per mano e da due figli, poco più che
ragazzi, che litigano. Mi piacerebbe far capire loro le occasioni
che stanno sprecando inutilmente, incuranti di quello che
potrebbe essere il loro ultimo litigio. Trattengo a stento le
lacrime e sento una fitta al petto che mi rende il respiro
affannoso per pochi secondi. Cerco dentro me stesso una
sicurezza quasi introvabile e dopo essermi calmato, i muscoli si
distendono, gli spasmi allo stomaco cessano. Devo reagire, così
vorrebbero tutti, così vorrebbe Giorgio. Continuo il mio
cammino svoltando in Mortimer Street, più stanco di prima e
con una fame micidiale. Osservo l’orologio e mi accorgo solo ora
di aver fatto troppo tardi, di essermi perso nei meandri più
profondi di quei pensieri che non mi hanno portato da nessuna
parte. Accelero il passo, sia per la bassa temperatura, che per
65
l’ora che incalza, stando sempre attento a dove mettere i piedi sul
pavimento e a non scivolare a causa delle spesse lastre di
ghiaccio. Darei qualunque cosa pur di non percepire su di me gli
sguardi fissi dei passanti, che mi fanno sembrare un essere di altri
mondi. Mi rassicuro ripetendo di aver fatto tutto il possibile per
lui e di essergli stato sempre vicino. In lontananza scorgo
finalmente il solito fiorista aperto e, senza chiedermelo due volte,
entro per prender tempo, al caldo. Non ricordo nemmeno
l’ultima volta in cui vi sono entrato. Dietro al bancone,
comunque, una giovane commessa un po’ troppo insistente sta
aiutando una signora a scegliere un mazzo di fiori per un regalo.
Fingo di non vederla, per non sforzarmi anch’io di dare
spiegazioni e, con fare brusco, prendo il primo mazzo di fiori più
economico. Scelgo infatti dei crisantemi, molto colorati, i fiori
preferiti di Giorgio e i più adatti a quell’occasione. Esco senza
salutare. Incurante delle nubi che si estendono e che non
permettono ai raggi solari di raggiungere terra, mi immagino
quale potrebbe essere la sua reazione di fronte ad una mia visita
e, fisso nella mente, tengo il suo sorriso a trentadue denti. Mi
sento leggermente sollevato da quell’unico pensiero positivo
della giornata. Mentre osservo le persone intorno a me muoversi
frenetiche, immagino di percepire, allontanandomi dal corpo, la
mia figura con quei maledetti fiori in mano camminare sola nel
vialetto verso il cimitero, soltanto per un ultimo saluto a Giorgio,
il mio caro fratello. Vengo colto da un attimo di insicurezza che
mi impedisce di andare avanti e mi suggerisce di voltarmi e
fuggire. Fuggire per sempre, non so dove. A volte, però,
scappare non è concesso e ci sono momenti della vita in cui
bisogna fare i conti con la realtà. Il mio momento quindi è
giunto.
66
Più deciso che mai, supero con rapido passo la libreria preferita
e uno dei bar dove ci siamo incontrati per la prima volta, dopo
tantissimi anni trascorsi in punti diversi del pianeta. Mantengo
sempre vivo quel ricordo, come se fosse ieri. Mi estraneo per
pochi minuti da tutte quelle sensazioni che sembrano
bombardarmi, quando improvvisamente, la lettura della prima
pagina di un quotidiano gratuito, distribuito in quell’attimo
durato una vita, mi sveglia da quell’illusione. Lascio cadere a terra
il giornale, una lacrima mi solca il viso. Il cielo si rabbuia, nell’aria
è percepito l’odore di foglie bagnate e, senza accorgermi di ciò
che mi circonda, inizia a piovere. Dentro di me c’è solo un vuoto
profondo, forse non potrà mai essere colmato da nessun altro.
Proseguo la mia marcia funebre verso il cimitero e lungo quel
sentiero ormai deserto, non si trova più nessuno. Si sentono
solamente l’eco dei cani che abbaiano e il fischiare forte del
vento. Sulla ruvida strada, abbandonato tra i rifiuti, un piccolo
foglio di giornale scrive a caratteri piccolissimi «Assassinato
famoso scrittore ventinovenne. Lo ricordano la famiglia e il
dolore del fratello Giorgio, che non vedeva da oltre sette anni».
Quelle parole, destinate forse ad essere dimenticate da tutti,
come recenti cicatrici, resteranno sempre impresse nel cuore di
un abile scrittore, quando si accorgerà, di fronte ad uno specchio,
della sua immagine non riflessa.
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LORENZO
Melissa Gelmini
Lorenzo ha spento le diciotto candeline che erano sulla sua
torta settimana scorsa, quando con tutti i suoi amici ha voluto
condividere il passaggio da ragazzo a uomo.
In quell’istante, forse solo in quell’unico momento, si è
dimenticato della sua malattia, malattia che ogni giorno lo
consuma e che ogni giorno a poco a poco lo trascina in un
profondo abisso.
Nonostante nonni e genitori sanissimi, a Lorenzo è stata
diagnosticata una rara malattia genetica neurologica che nel suo
decorso prevede paralisi totale, sordità e cecità. Caso rarissimo e
ancora studiato in tutto il mondo (un caso su un milione).
Che sensazione si può provare quando svegliandosi la mattina e
alzandosi dal letto ci si rende conto di non riuscire più a
camminare come il giorno prima?
Questo lo può sapere solo Lore, così chiamato da tutti i suoi
compagni e coetanei.
Questa terribile disgrazia non gli toglie però il sorriso che lui
mostra a tutti, in apparenza da persona serena.
Lorenzo è stanco, stanchissimo, non ha più nemmeno la forza
di tenere un bicchiere d’acqua in mano, ma questo non gli toglie
la voglia di vivere, scherzare e di apprezzare tante piccole cose
che prima neppure teneva in considerazione.
Lorenzo è forte. A questa nuova situazione si deve ancora
abituare e deve ancora affrontare tante difficoltà che si
presenteranno lungo il percorso, ma lui sa che non è solo.
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Lorenzo abita a Lodi con sua madre, divorziata da molti anni
dal padre che vede soltanto nel week-end e che vive in un’altra
città.
Le sue due passioni sono il Go-Kart e il calcio, o meglio l’Inter,
che tifa ardentemente ad ogni partita, spesso quando ne ha la
possibilità direttamente a San Siro.
È cresciuto con il calcio anche se in campo non si reputa un
buon calciatore, ma non si perde per nessun motivo le partitelle
di calcetto a scuola o quelle organizzate tra amici.
Quando pratica Karting si sente un piccolo Michael
Schumacher e mentre gareggia lungo il percorso fa aumentare i
battiti del cuore di suo papà, compagno di questa passione
comune per l’automobilismo sportivo.
Ora Lore non è più in grado di guidare questi piccoli veicoli a
quattro ruote, né tanto meno può come tutti i suoi soci, così li
chiama lo stesso, conseguire l’esame della patente di guida.
Egli frequenta il Liceo Scientifico, anche se materie come
matematica o fisica non sono mai state il suo forte. Stranamente
va molto bene nelle materie umanistiche, probabilmente ultimata
la terza media ha sbagliato indirizzo per le scuole superiori, ma
Lore non si lamenta, anzi scherza su questa sua “difficoltà” e
scelta errata.
Lore aprendomi il suo cuore, un giorno mi ha confidato che
teme il suo domani, non sa cosa lo aspetta, improvvisi
peggioramenti del suo corpo e delle sue funzioni lo attendono
dietro l’angolo; ogni tanto si interroga se valga la pena di vivere
in questo modo.
Proprio quando sembra che abbia toccato il fondo, mostra
tutto il coraggio e la tenacia e riprende le redini della sua vita.
Per la prima volta ha capito il vero significato del carpe diem di
Orazio, autore latino da lui sempre mal sopportato e mal
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tradotto, ha capito inoltre che ogni singolo minuto della sua
esistenza ha un valore inestimabile e che per questo motivo deve
essere vissuto intensamente e al meglio.
Nonostante la certezza di non aver nessuna speranza di
miglioramento, Lore riesce a trovare pure la forza per rincuorare
gli altri per problemi “insignificanti” come consolare la propria
migliore amica lasciata dal suo fidanzato o incoraggiare qualche
compagno per recuperare un’insufficienza grave o spronare una
sua amica di infanzia a continuare a fare l’arbitro di calcio
nonostante le difficoltà relative a questo mondo maschilista.
Ammiro questo ragazzo, grazie o per causa della sua terribile
sventura mi sono davvero resa conto di quanto sia fortunata e di
quanto troppo spesso mi lamenti per futilità o trascuri
piccolezze, in apparenza, che rendono grande la vita.
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LIBRI
Roberta Menni
Le biblioteche sono un posto magico. Ogni libro è intriso di una magia
unica e speciale, che frizza, bolle e gorgoglia, pronta a esplodere come un
geyser di fantasia.
Il momento migliore in cui questa magia può uscire dai libri è la notte.
Quando gli uomini tornano a casa e nella biblioteca – finalmente! – risuona
il silenzio, dagli scaffali si leva un tenue bagliore, come un’alba appena nata.
I libri fremono, le pagine scintillano, e i personaggi prendono realmente vita.
Bellissime principesse fuggono dalle loro prigioni, senza l’aiuto dell’inutile
principe azzurro, e si aggirano per le biblioteche in compagnia di streghe e
sorellastre cattive [che poi TANTO cattive non sono]; killer spietati assetati
di sangue si armano di scopetta, paletta e danno una pulitina in giro insieme
ai poliziotti; i vampiri fanno amicizia con i filosofi e discutono della vita e
della morte.
Insomma: i personaggi si liberano dei loro stereotipi, stabiliti dagli scrittori,
e si godono quelle poche ore notturne di libertà. Gli uomini non sanno di
questa magia notturna e, anche se lo sapessero, a cosa servirebbe? Non ne
ricaverebbero nulla di utile, anzi, molto probabilmente la faccenda
diventerebbe una sorta di spettacolo mediatico, con titoli strillanti sui
giornali, sedicenti maghi assetati di fama ed emittenti televisive affamate di
share.
Ma una sera di settembre, nel lontano 1955, un ragazzo di nome Richard
si ritrovò rinchiuso nella New York Public Library…
Richard non riusciva a capire come avesse fatto a cacciarsi in
quell’enorme, mastodontica, colossale fregatura. Si era appisolato
nel caldo pomeriggio sulla panca nel settore “Opere Filosofiche
71
Europee 1800-1850” e poi… Si era risvegliato di notte, al freddo
e RINCHIUSO in biblioteca.
Andò alle finestre e guardò il cielo. La notte era caduta come
una pesante coltre nera, per le strade non c’era anima viva.
Inutile sperare in un aiuto esterno. Doveva arrangiarsi da solo
per uscire di lì. Stropicciandosi gli occhi e sbadigliando
vistosamente si trascinò al centro della biblioteca, verso i banchi
di registrazione. Si sedette sulle comode poltrone di pelle,
esplorò attentamente il proprio naso con le agili dita e si rilassò,
cercando di prendere di nuovo sonno. Si stava per addormentare
di nuovo quando una figura si mosse nella galleria “Opere Per
L’Infanzia”. Con rinnovate speranze di aiuto si mosse verso quel
settore ed effettivamente vide qualcuno, una persona decisamente stramba. Era una giovane donna di bellissimo aspetto,
vestita con un abito medievale e decisamente antiquato, che
canticchiava una canzoncina mentre sistemava dei libri negli
scaffali. Richard si avvicinò – un po’ tentennante perché quella
donna sembrava veramente strana – e le chiese: “Scusi… Anche lei
è rimasta rinchiusa nella biblioteca?” La donna lo guardò
altezzosamente e gli disse: “Rinchiusa? Io vivo qui. Ma da quale
libro vieni?” Richard rimase a bocca aperta, completamente
spiazzato: quella donna abitava nella biblioteca? Non aveva mai
sentito una simile sciocchezza.
Vedendo la sua incertezza la donna spalancò gli occhi e lanciò
un grido acutissimo. “Ma allora tu sei un umano!” Arretrò
tremante verso un corridoio. “Non puoi rimanere qui. Vattene!”
Detto questo girò i tacchi e scappò, sollevando le lunghe gonne
del vestito.
Richard fissò il buio in cui era sparita. Non era possibile. Venire
dai libri? Che voleva dire? Era per caso una festa in maschera?
Senza pensarci due volte si gettò all’inseguimento. Doveva
72
cercare aiuto, altrimenti sarebbero stati guai. Corse lungo file e
file di libri, in una ricerca labirintica, seguendo il rumore dei passi
della donna. Ma chi diavolo era?
Sbucò nella sala lettura e si arrestò di colpo. Davanti a lui si
presentavano decine e decine di stranissimi personaggi, che lo
fissavano alquanto incuriositi. Alcuni vestivano abiti occidentali,
altri orientali, altri addirittura indossavano delle toghe dall’aria
romana. Altri ancora, decisamente inquietanti, avevano peli su
tutto il corpo e canini che sporgevano dalla bocca. La cosa
sbalorditiva era che alcuni avevano in mano dei giornali,
arrotolati a mo’ di mazze, altri avevano in mano delle palle di
carta e sembravano pronti per una partita… Di baseball. Era
tutto intento a osservare da quella strana compagnia quando
all’improvviso un uomo sulla trentina, con un enorme paio di
baffi e un ridicolo cappello con piume, balzò agilmente sul
tavolo e lo apostrofò con parole irate: “Villano! Chi siete voi per
interrompere il nostro amabile giuoco?” “Fai silenzio, Charles”
lo interruppe un giovane biondo. “Probabilmente proviene da un
libro scritto di recente, appena inserito nella biblioteca.
Cerchiamo di non creare contrasti. Io mi chiamo Dorian”. disse
rivolgendosi a Richard. “Posso cortesemente chiedere di che
storia fa parte, signore?” “Storia?” replicò Richard “Io non faccio
parte di nessuna maledettissima storia! Questo pomeriggio mi
ero addormentato nella biblioteca e al mio risveglio ero rinchiuso
qui dentro, nella biblioteca! E ora non so come diamine uscire!”
Quello che successe poi Richard lo ricordò sempre con terrore.
Alle sue parole tutti i presenti impallidirono vistosamente.
L’uomo chiamato Charles sguainò la spada e sibilò: “È un
umano”, come se fosse un’orribile bestemmia. E una folla
urlante si scagliò contro il povero Richard.
73
Ma che diamine succede? Pensava il ragazzo mentre correva a
perdifiato nei corridoi della biblioteca. Di nuovo. Nella foga della
corsa passò sotto le voluminose gonne di un gruppo di donne
dall’aria seicentesca – che sollevarono parecchi strilli indignati – e
travolse quelli che sembravano filosofi, mandando a gambe
all’aria le loro meditazioni metafisiche. Ormai non sapeva
neanche più dov’era. Gli scaffali si somigliavano tutti, uomini
strani e grotteschi occupavano i corridoi, i banchi di registrazione
erano presi d’assedio da animali che di solito non vivono in nord
America. La biblioteca sembrava impazzita. Peggio ancora, i suoi
inseguitori erano sempre più vicini. Sentiva ancora quel Charles
sbraitare in francese e quel damerino di Dorian rispondere in
toni sempre più acuti.
Richard stava ancora correndo a tutta velocità in quello che
sembrava il settore “Opere religiose” quando un enorme leone
gli balzò addosso e lo spalmò sul pavimento di legno. Il ragazzo
tentò di divincolarsi, ma nulla da fare: quell’animale aveva una
forza incredibile. “Chissà cosa è peggio” pensava angosciato
“Finire linciato da quei pazzi o divorato da questo leone?”
Ma con sua sorpresa il leone non lo divorò. L’enorme felino
aspettò l’arrivo degli inseguitori – Charles era sempre in testa – e
poi, con voce fiera e possente, parlò. “Non toccherete questo
umano.” Disse: “Lo scorteremo dal gran Re, e lui deciderà della
sua sorte.” Si levarono cori di vivaci proteste da parte degli
inseguitori, che non intendevano rinunciare alla loro preda.
Dorian si avvicinò con fare mellifluo all’animale e disse: “Mio
caro Aslan, come vedi questo è un inutile essere umano… Non
vedo perché scomodare il gran Re per una questione così triviale.
Possiamo occuparcene noi fino all’alba.” Aggiunse con un
sogghigno. “Non se ne parla” ordinò imperioso Aslan “È
capitato nel mio settore e lo gestisco come voglio io.
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Chiederemo udienza al gran Re, e non voglio più sentire una
singola protesta!”
Richard stentava a credere alle proprie orecchie: il leone
parlava! Parlava veramente! Era così intontito da non accorgersi
neppure che Aslan aveva tolto le sue enormi zampe dalla sua
schiena. Se ne rese conto soltanto quando il leone si piegò e, con
molta delicatezza, lo prese per la collottola e lo rimise in piedi.
Molti dei suoi inseguitori sembravano contrari all’idea di
incontrare questo gran Re, e questo poteva essere un punto a suo
favore: chiunque riuscisse a intimidire quel dannato Charles
doveva avere una forza straordinaria e, forse, un’intelligenza
superiore.
Richard non si perse d’animo: nulla in quel momento poteva
andare peggio. Si spolverò i pantaloni e la camicia, si riavviò i
capelli e guardò Aslan negli occhi: “Sono pronto. Portami a
conoscere questo gran Re”. Il leone fece un piccolo cenno di
assenso, quasi divertito dalla sua improvvisa spavalderia. Quindi
Aslan e Richard formarono un gruppetto con gli inseguitori e
s’incamminarono lungo il corridoio delle “Opere Religiose”,
attirando molti sguardi incuriositi da parte di altri personaggi. Il
giovane Richard vide anche la giovane donna che aveva
incontrato all’inizio della sua piccola avventura: si mordeva le
unghie e lo guardava tristemente. Lui le fece l’occhiolino e passò
oltre. Attraversarono diverse piccole sale di lettura e alcuni studi,
e arrivarono ad una porticina nera, posta a confine tra “Opere
Teatrali 1800-1900” e “Autori Greci dal VII al IV secolo”. Era
una porticina piccola, senza pretese, senza una maniglia. Era ben
strano che una porta non avesse la maniglia: come si poteva
aprire? Sotto lo sguardo interrogativo di Richard, Aslan appoggiò
la sua zampa al centro della porta e quella si aprì.
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Affascinato da tanto mistero, il giovane entrò nella stanza senza
pensarci due volte, aspettandosi chissà quali meraviglie. Ne
rimase fortemente deluso: la stanza era vuota e disadorna,
eccetto per una modesta sedia di legno. L’aria era freddissima e
secca, respirare era una vera sofferenza.
Per molti minuti non successe nulla. Tutti si limitarono a fissare
la sedia. Nessuno si mosse quando una figura nera comparve dal
nulla e ci si sedette sopra. Aslan, per dovere di cronaca, sussurrò
a Richard: “Quello è il gran Re”. Il ragazzo si stupì fortemente: si
era immaginato qualcuno un po’ più… Fisico. Quello che si era
seduto sulla sedia somigliava a un buco nero: un’oscurità
impalpabile, sottile e alta, che sembrava attirare tutta la luce
dentro di sé. Il leone avanzò solennemente verso il gran Re, che
si protese verso di lui. Per parecchi minuti bisbigliò con l’ombra,
e nessuno riuscì a capire cosa dicessero. Poi l’ombra scivolò dalla
sedia e strisciò verso Richard. Il ragazzo si sentì invaso da un
timore irrazionale e le viscere diventarono pesanti e fredde. Non
poteva più muoversi. Poi dal gran Re di allungò un braccio nero,
che sembrava fatto della consistenza del fumo, e gli toccò la
fronte. Il mondo si rovesciò, sfarfallò davanti agli occhi del
ragazzo e divenne buio. Crollò a terra.
Charles, quando vide il corpo del ragazzo a terra, s’infuriò.
“Come avete osato?” Sbraitò a voce alta “Non ne avevate il
diritto! Lui era un mio rivale!” Aslan ruggì davanti alla sua
insolenza, ma il gran Re non fece nulla per azzittirlo. Si limitò a
dissolversi nell’aria. Ma prima di sparire del tutto, nella stanza
rimbombarono queste parole: “È meglio così. Non deve vedere
altro. Ma prima o poi ritornerà, puoi starne certo.”
Richard, quando si risvegliò sulla stessa panca nel corridoio
delle opere filosofiche, non seppe cosa pensare. Non era stato un
sogno, ne era sicuro. Guardò fuori dalla finestra: era mattina. Di
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lì a poco sarebbe arrivato l’inserviente ad aprire le porte della
biblioteca. Sarebbero stati guai se l’avessero trovato lì. Sogghignò
all’idea di cosa potevano fargli le autorità: quella notte ne aveva
viste di peggio.
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ORGOGLIO
Alberto Mercorio
Da bambino Giorgio aveva un buon rapporto con il padre.
Anche se quello era impegnato con il lavoro, trovava molto
tempo per stare con lui e suo fratello minore. Passavano giornate
pescando, intere estati nella loro casa in montagna, dove
scalavano le vette più alte, divertendosi e lasciando la madre a
casa, preoccupata per l’incolumità dei suoi tre maschi. Quello
che li legava più di tutto era la passione per il calcio, che il padre
aveva trasmesso ai figli. Andavano spesso allo stadio a tifare per
la loro squadra del cuore e non si perdevano nemmeno una
partita in televisione. Spesso tra i due nascevano dei dibattiti che
diventavano discussioni e che poi sfociavano in vere e proprie liti
per banalità, come ad esempio la formazione che l’allenatore
avrebbe dovuto schierare in campo per la partita; tutto ciò
accadeva tra le risate del fratello che assisteva divertito.
L’infanzia passò e Giorgio diventò un uomo. Si decise che egli
entrasse a far parte dell’azienda di famiglia. In poco tempo il
padre, sempre più vecchio e stanco, lasciò il posto al figlio, che si
trovò ad essere a capo dell’impresa. La condusse per diversi anni
amministrandola al meglio. Si dimostrò essere un bravo
dirigente. Andava tutto così bene che Giorgio pensò fosse tempo
per la piccola ditta di fare il salto di qualità. Così investì molto
tempo e moltissimo denaro. Era andato tutto come doveva
andare, la parte più difficile era passata, gli sforzi diminuivano e
l’azienda si stava facendo sempre più strada. Poi arrivò la crisi.
Era partito tutto dagli Stati Uniti che avevano portato a fondo
con loro tutti gli altri stati più piccoli. La loro attività subì la crisi.
quello che doveva essere il salto di qualità si trasformò in una
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caduta e si arrivò al fallimento. La disfatta ebbe grandi
ripercussioni sulla famiglia. Il padre non sopportò che ciò che lui
aveva creato dal nulla sprofondasse fino a scomparire. Sfogò la
sua frustrazione sul figlio, gli diede la colpa di tutto, l’accusò di
essere un incapace, l’unico responsabile dell’accaduto. Ci furono
diverse litigate, entrambi esagerarono; poi Giorgio, stanco di
tutto ciò, prese moglie e figli con sé e si trasferì in un’altra città, il
più lontano possibile. I due non si videro più. Smisero anche di
parlarsi. Da quel giorno tutti i rapporti erano stati troncati. Ed in
questo modo passarono anni. Più di una volta si era cercato di
far ragionare i due. La madre, il fratello, la moglie di Giorgio e
persino i suoi figli avevano provato a farli riappacificare ma
senza nessun esito. Gli anni scorrevano e loro invecchiavano. Il
padre a causa dell’età avanzata e di una malattia, era vicino alla
morte. Fu proprio questo, forse, che lo fece ragionare e lo
riportò sulle proprie idee. Si accorse di quanto tempo avevano
perso lui e suo figlio. Così fece quello che avrebbe dovuto fare
molto prima: si fece portare il telefono a letto, dove era costretto
dalla malattia, digitò il numero di cellulare che non faceva da anni
ma che ricordava benissimo e aspettò. Squillò ma il figlio non
rispose né richiamò. Giorgio aveva sentito gli squilli, ma la rabbia
vinse e non rispose. Così lo lasciò squillare e cercò di pensare ad
altro. Dopo qualche giorno egli ricevette un’altra chiamata.
Questa volta era suo fratello che lo avvisava della vicina morte
del genitore. Cercò di convincerlo a tornare per dargli un ultimo
saluto ma egli rispose con un “No” secco. Ci pensò tutto il
giorno. Poi riprese dal fondo dell’armadio una scatola in cui
teneva i suoi ricordi dell’infanzia. Vide una foto sua e del padre,
in cima ad una montagna, abbracciati e sorridenti. Ritornò con la
mente a quella giornata e alle tante giornate simili passate
insieme. Improvvisamente si rese conto che stava sbagliando
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tutto. Uscì in fretta di casa, si precipitò in aeroporto e prese il
primo aereo. Passò tutto il viaggio studiando il discorso da fare
una volta arrivato. Atterrò e prese subito un taxi. Ormai sapeva a
memoria le parole da dire al padre. Il taxi si fermò. Scese dalla
macchina, fece un respiro e suonò il campanello.
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GIURIDEPIZIO E LA TRIBÙ DEI LITANIAI
Edoardo Monti
Buio e sconfinato è lo spazio che avvolge l’astronave Rare-T.
Nessuno conosce la fabbrica che secoli fa costruì questa
astronave; tutti si chiedono come gli abitanti abbiano fatto a
trovarsi lì, mentre alcuni studiosi passano notte e giorno a
cercare spiegazioni logiche che facciano luce su questi misteriosi
avvenimenti. Rare-T è un’astronave con seri problemi: il
comandante, sempre che ci sia stato, è scomparso e ormai si sta
diffondendo ovunque il caos; le risorse si stanno esaurendo e
non si ha la possibilità di cercare altrove quello che manca; si
stanno rompendo pezzi fondamentali per il corretto
funzionamento della navicella e non si trova nessuno che li
sappia riparare. Rare-T è talmente grande da ospitare una
popolazione enorme: gli abitanti, meglio conosciuti come
“ominui” sono personaggi strani, molto diversi tra loro. Si
dividono in varie tribù.
Il protagonista di questo breve racconto, Giuridepizo, fa parte
della tribù dei “Litaniai”, celebri per le continue litanie e
lamentele nei confronti di tutto ciò che li circonda. Sono una
strana popolazione; ciò è dimostrato dal loro comportamento
originale: le loro donne sono solite porre, con una certa
regolarità, la loro testa all’interno di grandi forni e durante questa
dolorosa pratica leggono riviste di attualità; gli uomini, alla
mattina, impiegano molto del loro tempo a praticare un rito
altrettanto doloroso: si lacerano in continuazione, con un
oggetto affilatissimo, il volto, nel tentativo di strapparsi quei peli
che immancabilmente crescono quando vengono spente le luci
dell’astronave, per permettere il riposo. Queste tribù hanno
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molte altre particolari abitudini, che dovrebbero essere qui
annoverate, e pur non avendo il tempo necessario per parlare di
tutte queste usanze, ritengo tuttavia d’obbligo accennare almeno
ad un’ultima pratica, forse quella più insolita: parlo ora della cura
del malato. Come per tutto il resto, anche in questa usanza tali
tribù dimostrano di adottare metodi del tutto anticonvenzionali:
solitamente il malato entra in contatto con degli sciamani, nella
propria abitazione.
Il rito di guarigione consiste nell’inserire in bocca bacchette
magiche e forare poi la pelle del malcapitato con aghi trattati con
strane pozioni e intrugli. Se la situazione del malato dovesse
aggravarsi, si procede allora a prelevarlo dalla propria abitazione
e a collocarlo in un tempio molto particolare, chiamato eladepso.
In questo tempio, decine di sciamani, assistiti da altrettante
vergini vestali, si dedicano dunque all’esame del paziente, tramite
particolari strumenti magici.
Tutti i Litaniai apparentemente hanno buone intenzioni, ottimi
princìpi a cui dicono di ispirarsi. Giuridepizo si era abituato a
credere a tutte queste menzogne e a vivere basandosi su
pregiudizi, quando un bel giorno, cammina cammina, riuscì ad
entrare in contatto con altre popolazioni, che parlavano altre
lingue e pensavano in maniera completamente diversa. Capì
allora che tutti i pregiudizi di cui era infarcito, generati da
considerazioni sbagliate, erano crollati miseramente. Tornato a
casa, Giuridepizo capii quando male avesse vissuto molte
situazioni nella sua vita, quando era ancora vincolato e soffocato
dai pregiudizi. Notò che molti apprezzavano e condividevano la
sua nuova visione del mondo, ma che ancora moltissimi, tanti,
troppi continuavano imperterriti sulla loro strada. Nulla più si sa
di Giuridepizo. Ancora meno si sa della sorte della povera RareT, che sembrava ormai destinata alla rovina, e delle strane
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popolazioni che l’abitavano, nonostante numerosissimi fossero
gli sforzi degli antropologi nella ricerca di informazioni
attendibili.
Io Addormento
“È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”
Albert Einstein
“Cacciate i pregiudizi dalla porta… rientreranno dalla finestra”
Federico Il Grande
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SEMPRE E PER SEMPRE
Federica Natali
Cinque colpi di fucile. Un grido strozzato. “Ti amo”, sussurrato
insieme con l’ultimo respiro, le labbra già bagnate dal sangue.
Sono qualcosa di fantastico le labbra: costrette ad unirsi per dire
“ti amo”, inevitabilmente separate per pronunciare la parola
“odio”. Separate come loro, da tre anni ormai e per colpa del
muro a causa del quale tanti avevano rischiato o addirittura perso
la vita cercando almeno di vedersi, di incontrarsi, parlarsi magari
e, a causa del quale, in tanti ancora l’avrebbero persa. E lei lo
sapeva; lo sapevano entrambi. Ma l’amore è tanto potente da
celare i pericoli, rendere imprudenti, disposti a tutto. Ora sono le
labbra di lei ad essere bagnate dalle sue stesse lacrime. Sta lì,
schiacciata contro quel muro che non le è mai parso così freddo,
rannicchiata nell’ombra, e trema. Tiene le mani strette attorno
alle gambe, strette a tal punto che riesce a sentire le unghie sulla
pelle anche attraverso il rigido tessuto dei jeans, la testa
sprofondata tra le ginocchia e il mento premuto contro il petto.
Cosa può fare ora? Vorrebbe alzarsi, piangere e gridare come
non ha mai fatto nella sua vita: gridare che lo amava e che lo
avrebbe sempre amato, che non può immaginare una vita senza
di lui e che ora si sente perduta.
Desidera che tutti sappiano quanto grande, magnifico e
importante sia il bene che le è stato appena strappato, in modo
tanto crudele e disumano. Spera di poterlo toccare un’ultima
volta, accostarlo a sé, stringere le sue mani così grandi eppure
delicate, accarezzargli il viso per stampare in modo indelebile
nella memoria i suoi lineamenti, ogni minima imperfezione o
irregolarità, memorizzare il suo profumo.
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Ma resta immobile!
La cosa più logica in questo momento sarebbe strisciare
nell’oscurità, sulla terra umida fino ad allontanarsi da quel
maledetto muro, abbastanza da potersi alzare, correre via e
salvarsi.
Invece, è bloccata lì, scossa da brividi e irrigidita dalla paura,
pervasa da un dolore immenso che le comprime il torace e le
impedisce di respirare, consapevole che non lo vedrà mai più.
Un vortice di domande senza risposta le invade la mente:
perché quell’ostacolo? Cosa spinge gli uomini ad usare una tale
violenza verso i propri simili, a provare un odio tanto smisurato,
ad uccidere per ordine di qualcuno che a sua volta è uomo e
dovrebbe possedere un’anima, un cuore, dei sentimenti? Ma
dove sono i sentimenti in chi si arroga il diritto di decidere della
vita di un altro, con tanta leggerezza?
Travolta da questa spirale di pensieri, si aggrappa a quell’unico
ricordo che le dà conforto: torna con la mente al giorno in cui
l’aveva conosciuto, impacciata e insicura come al solito,
nell’avvicinarsi gli aveva pestato un piede.
A quel punto aveva esitato, convinta di aver rovinato tutto. Ma
si sbagliava.
Lui l’aveva guardata, o forse gli occhi di lei avevano incrociato i
suoi, sinceri, profondi, inspiegabilmente capaci di leggerle l’anima
e sollevarla per un attimo dal grave fardello dei segreti. Lei gli
aveva sfiorato la mano, o forse le dita di lui si erano intrecciate
alle sue, mani così piccole dentro mani così grandi, strette come
se in quel contatto si fosse concretizzata la magica armonia, che
fa ordine sotto l’apparente caos del mondo.
Lui allora l’aveva baciata, o forse le labbra di lei si erano
dischiuse per accogliere quelle di lui, lievemente e senza fretta.
Non era stato un bacio passionale, pieno di slancio o struggente
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come quelli dei film d’amore. Era stato piuttosto un bacio
“piccolino”, leggero, tenero e a dire la verità anche un po’
umidiccio, ma in quell’atto era racchiuso un sentimento
profondo, sincero e smisurato. Un gesto, in fondo, così lieve
aveva generato qualcosa di sconvolgente, come il battito d’ali di
una farfalla che provoca un uragano dall’altra parte del mondo.
In quel bacio quasi accennato erano racchiusi, in realtà,
un’immensa gioia presente e tante speranze future, sogni,
desideri, la prospettiva di una vita da trascorrere serenamente
insieme, con la promessa di stare l’uno accanto all’altra ad ogni
costo.
Era questo che stavano cercando di fare: stare insieme ad ogni
costo, nonostante il muro a separarli, senza badare ai rischi,
perché, anche se solo per poco tempo, la vita insieme a chi si
ama è più bella. Ma quel sogno ormai è spezzato, mandato in
frantumi dalla prepotenza, dal desiderio di sopraffazione e da
regole che, invece di tutelare l’uomo, lo schiacciano e annientano
i suoi sogni e le sue speranze.
Così resta ferma, incurante delle sentinelle che si avvicinano a
passo svelto; la prendano pure, la gettino in una cella buia, fredda
e isolata.
Non ha più motivo di cercare la libertà, là fuori, dove impera
l’ingiustizia; libertà per lei è rifugiarsi in quel ricordo dolcissimo,
che nessuno le potrà mai strappare.
E mentre con violenza la trascinano via, lei sorride.
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UNA GIORNATA D’OTTOBRE
Camilla Paccanelli
Era una calda giornata d’ottobre, anomala per il clima
lombardo, in particolare a Bergamo. Eravamo montate in sella ai
motorini e con il sole in faccia e l’aria fresca che ci scompigliava i
capelli c’eravamo dirette verso l’ospedale. Il giardino
dell’ospedale era colmo di persone che passeggiavamo con i
propri parenti malati, chiacchieravano, sorridevano, ma in
quell’atmosfera che a me, forse per la luce e il tepore di quel
giorno, sembrò onirica, si percepiva anche tanta amarezza. Ci
fermammo davanti al pannello e mentre la mamma attraverso le
indicazioni cercava il padiglione giusto, io osservai la fontana nel
centro del giardino; non ci avevo mai fatto caso a quella bella
fontana, imponente e antica posta al centro dell’ospedale con
l’acqua che in quella bella giornata sembrava quasi essere
argentea. Mentre fantasticavo guardando quella costruzione
tanto elegante e sinuosa, sospesa in un’altra dimensione in cui il
tempo forse si era fermato fui risvegliata dalla voce della mamma
“Neurochirurgia, eccolo, andiamo ragazze”. Camminavamo
veloci, di fretta, come se non avessimo più abbastanza tempo,
guardando per terra senza alzare la testa. Arrivate, salivamo le
scale in modo diverso: più lento, rallentato come se giunte quasi
a destinazione non fossimo più così sicure di volerci davvero
arrivare, spaventate da quello che avremmo potuto vedere
perché purtroppo la realtà è sempre dolorosa. Davanti alla porta
del reparto ci fermammo, tirammo un gran respiro e guardandoci
negli occhi ci facemmo forza l’un l’altra. Il corridoio era
luminoso e dalle camere venivano rumori di affetto e dolore, di
gioia e di compassione. Davanti alla camera della zia c’era un
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crocchio di persone, riconobbi i miei cugini, le mie zie: la mia
famiglia. I volti stanchi e afflitti alla nostra vista si aprirono in un
sorriso. Mia sorella ed io entrammo nella stanza la zia sdraiata nel
letto conversava con sua madre, la mia bisnonna. “O Nanì,
guarda che bello sono arrivate le bambine!” Esclamò la nonna e
la zia si illuminò in un sorriso e nonostante fosse gonfia e con
pochi capelli, i tratti della sua bellezza passata non erano ancora
sfioriti e gli occhi vivaci erano quelli di sempre. Dopo essersi
tirata su disse: “Finalmente vi vedo meglio”. Incominciammo a
chiacchierare normalmente raccontando della scuola, degli amici
e man mano si scherzava entravano le altre zie, la mamma, mia
cugina e in poco tempo ci ritrovammo tutte lì intorno al letto a
ridere della vita. Le donne della famiglia con i tratti simili e
marcati ma il carattere tanto diverso, quattro generazioni riunite
nella speranza che un domani ci sarebbe stato. Ma la bisnonna
accanto al letto taceva mentre accarezzava la figlia, osservava
quelle “figlie” che bene o male erano tutte frutto del suo sangue,
lei capostipite della tribù, saggia e forse più lucida e razionale, dai
suoi 95 anni sapeva già come sarebbe andata a finire. Ma nascose
dietro gli occhi l’amarezza, ascoltò le chiacchiere, sorrise ma non
disse niente, sapeva che un giorno o l’altro si sarebbero
rincontrate tutte da qualche parte.
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L’UOMO, LA GUERRA E LA PIANTA
Nicola Paris
L’uomo era stanco, stanchissimo. Era stanco di tutto: di
camminare, di mangiare e di respirare. Era stanco anche della
guerra. C’era da sempre la guerra. Una volta aveva chiesto al suo
sergente, un vecchio magro, pallido e dagli occhi vuoti, se
ricordava in tutta la sua vita almeno un giorno senza guerra. Il
sergente rispose stancamente che no, non ricordava un giorno
senza guerra, neppure quando era un bambino e che secondo lui
c’era sempre stata. E così l’uomo continuava a marciare, a
sparare e a uccidere. Non che la cosa lo toccasse più di tanto: ci
aveva fatto il callo lui, come tutti del resto. Nessuno ricordava
più le cause che avevano portato alla guerra. Ormai si andava
avanti per inerzia. L’uomo andava in guerra per tre semplici
ragioni: la prima era che lo facevano tutti, la seconda era che non
sapeva fare nient’altro e l’ultima era che non riusciva a pensare a
un’esistenza senza guerra. D’altronde una vita, seppur breve,
trascorsa nello stesso paesaggio e con persone identiche a te, alla
lunga atrofizza la mente. L’uomo, da quando era nato, dovunque
volgesse lo sguardo non vedeva altro che divise verdi (anche lui
ne indossava una) e macerie, tanto che ormai si era convinto che
il mondo non fosse altro che un’unica, immensa e polverosa
distesa di macerie. Col tempo era diventato insensibile a tutto: al
caldo e al freddo, alla fame e alla sete. Nemmeno il soffrire e il
morire lo turbavano. C’era solo una cosa che ancora toglieva
l’uomo dal suo stato di apatia: la paura. Non la sua paura
ovviamente. L’uomo non sentiva paura, non sentiva niente. La
paura che lo incuriosiva era quella che poteva prendere
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all’improvviso alcune delle nuove reclute, venute a occupare il
posto di quelle cadute. Sembravano tutte uguali a lui, quando
all’improvviso uno non riusciva più a muoversi, o tremava
violentemente o si metteva a urlare o peggio ancora si pisciava
nelle brache. E il tutto senza un valido motivo. L’uomo trovava il
tutto molto bizzarro e imbarazzante. Un giorno noioso e sporco
come tutti gli altri, in altre parole sparare, chinarsi, correre e
ancora sparare, gli capitò una cosa molto strana. Si era buttato in
buca per evitare una raffica e solo dopo esserne uscito si era
accorto che nel suo riparo c’era già qualcuno. Era una di quelle
reclute nuove, con un brutto squarcio nel petto e gli occhi
sbarrati. Tremando tutto fece cenno all’uomo di avvicinarsi.
Prendendogli la faccia tra le mani, lo costrinse a guardarlo, poi gli
accostò le labbra all’orecchio. “Basta – sussurrò – basta!” Detto
ciò spirò. L’uomo era perplesso. Basta che cosa? L’unica cosa
che in quel mondo tutti si chiedevano se sarebbe mai finita era
la… No, impossibile. Era assurdo anche solo pensarlo. La guerra
non poteva finire. Non esisteva niente che non comprendesse la
guerra. O almeno, rifletté, lui non conosceva una realtà estranea
alla guerra. Dopo anni di vita lineare e senza via di sbocco, il
dubbio che potesse esistere un’altra vita lo turbò più di tutti gli
orrori a cui aveva assistito indifferentemente. “E se mi fossi
perso qualcosa? – si chiese – qualcosa di migliore?” La tristezza
si aggiunse alla stanchezza e i suoi occhi erano più vuoti che mai.
Poco tempo dopo l’uomo stava correndo tra i crateri delle
esplosioni, quando intorno a se non vide altro che bianco e
silenzio. L’uomo si schiarì la vista e si trovò disteso a terra con
sopra di sé nient’altro che il cielo plumbeo. Provò ad alzarsi, ma
capì che ormai il suo corpo era spezzato per sempre. Smise di
lottare e lasciò cadere la testa di lato e fu allora che l’uomo la
vide. Era tra le macerie, tra lastre di cemento crollate una sopra
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l’altra. Era una pianticella. Piccola, esile e di un verde molto
acceso, mai visto prima. Non dubitò per un solo istante che
quella cosa fosse proprio una pianta, anche se non ne aveva mai
vista una prima. ricordava di averne visto le illustrazioni da
bambino. L’uomo strisciò faticosamente fino a raggiungerla.
“Che bel colore” pensò. Si tolse la maschera antigas per vederla
meglio. Osservandola con i suoi veri occhi pensò che fosse
bellissima. Poi pianse, perché capì che non era solo la cosa più
bella che avesse mai visto, ma soprattutto era l’unica cosa bella
che avrebbe mai visto in vita sua. Voleva restare per sempre lì a
guardarla, sfiorarla, annusarla, sentirla perché capì che in quel
mondo lui aveva trovato una cosa bella, qualcosa di diverso dalla
guerra. Un sorriso gli increspò le labbra: ora, infatti, capiva le
parole della recluta. Adesso però doveva alzarsi e urlare perché
anche gli altri dovevano sapere! Dovevano sapere! Dov…
sape… re. I suoi commilitoni lo trovano disteso a terra, prono,
con un braccio allungato a sfiorare un piccolo oggetto, di colore
verde. Una recluta più curiosa delle altre si chinò per capire cosa
fosse il piccolo oggetto. Restò ferma a guardarla. Alcuni uomini
notarono lo strano comportamento della recluta. Si avvicinarono, videro l’oggetto che incuriosiva tanto la recluta e si
chinarono per esaminarlo. Altri uomini arrivarono per vedere la
piccola pianta e altri ancora ne sarebbero arrivati. Era la cosa più
bella che avessero mai visto.
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NOTTE STELLATA
Roberta Perico
Quella notte c’era qualcosa che mi turbava, continuavo a
rigirarmi nel letto ma non riuscivo proprio a prender sonno. Mi
alzai, presi il mio cappotto e, facendo molta attenzione a non
svegliare nessuno, uscii di casa. Era Dicembre e il freddo si
faceva sentire ma incantata dalla quiete del mio piccolo paesino
iniziai a camminare. Non sapevo verso dove ero diretta né che
cosa mi avesse spinto a inoltrarmi in quel gelido deserto
notturno ma non riuscivo a fermarmi. Ad un certo punto mi
ritrovai nel parchetto in cui ero cresciuta, decisi allora di sedermi
sul prato ricoperto di brina e alzai gli occhi. Il cielo era
meravigliosamente stellato, mi incantai. Improvvisamente spuntò
un’anziana signora la quale prese posto accanto a me e iniziò
anche lei a scrutare il cielo. La osservai: sarà stata sulla settantina,
capelli grigi e lunghi, con una faccia rotonda e occhi grandi in cui
si riflettevano tutte quelle stelle, aveva abiti trasandati e accanto a
sé una grande borsa: pensai fosse una vagabonda. Dopo qualche
minuto di silenzio iniziò a parlarmi: “E così sei tu la prossima!”
La guardai un po’ stranita. “Prossima di cosa?” E quella ridendo
tirò fuori uno spemi agrumi, delle arance e mi disse: “Vuoi una
spremuta d’arancia? Fa bene in questo periodo dell’anno.” La
guardai sempre più sconvolta. A quel punto la donna riprese a
parlare: “Sai, anche io tanti anni fa mi trovai nella stessa
situazione. Anche io la prima volta ero turbata, non capivo, era
assurda quella irresistibile attrazione verso le stelle ma vedrai che
col tempo l’attrazione aumenterà sempre di più e… Un giorno
capirai!” Allora risposi: “Capirò cosa? Non posso passare tutta la
mia vita sperando di capire chissà cosa! E poi cosa succederà,
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cambierà qualcosa?” E la barbona: “Ci deve essere sempre
qualcos’altro vero? Mi fa sorridere sentire ancora queste tristi
parole. Ma d’altra parte anche io a mia volta chiesi le medesime
cose. Allora ti risponderò come risposero a me: Osserva le stelle:
non ti ricordano niente o nessuno? Un giorno capirai e allora
sarai pronta come ora lo sono io. Arrivederci giovane ragazza!”
Il mio sguardo non lasciò la sua figura nemmeno un secondo. La
vidi allontanarsi fino a quando raggiunse il fiumiciattolo che
passava accanto al parchetto. Estrasse un pugnale dal suo
borsone e cadde a peso morto in acqua. Istintivamente alzai gli
occhi al cielo: le stelle non avevano brillato mai di una luce più
intensa.
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IL PEDRETTI
Francesco Pierotti
“Il Pedretti”. A questo nome seguiva sempre un sospiro dalla
maggior parte delle ragazze, solamente il ragazzo più desiderato
della scuola. Al solo pensiero del Pedretti, la Valli sbottava, si
arrabbiava, diventava intrattabile: nati nello stesso giorno, nello
stesso ospedale, sin da piccoli frequentavano le stesse scuole, ma
sempre in sezioni diverse e separati da un immenso muro
invisibile.
Da secoli ormai il Pedretti si sentiva ripetere le stesse cose: “È
bravo, ma non si applica”. Geniale, risolveva problemi di algebra
e traduceva versioni di latino senza problemi, quando era in
forma, mentre nei momenti in cui lo studio passava in secondo
piano, fioccavano brutti voti.
Dal canto suo la Valli non prendeva mai voti sotto il nove,
tranne ovviamente in educazione fisica, materia in cui, grazie alla
sua abilità calcistica, il Pedretti eccelleva.
Le ragazze, vedendolo sempre con quel look da bello e
dannato, impazzivano per lui, anche se aveva una storia molto
tormentata con la Giulietta della C, la più bella ragazza che la
scuola ricordi, altra persona odiata dalla Valli.
Nei loro anni di convivenza forzata dentro le mura scolastiche,
l’odio della Valli nei confronti del Pedretti cresceva sempre più,
mentre l’altro non si ricordava nemmeno dell’esistenza della
giovane, che passava nel triangolo casa, scuola e biblioteca.
L’ultimo anno delle superiori, maturità classica, si concluse con
un exploit del Pedretti che, messa un po’ la testa a posto, uscì
con una valutazione brillante, mentre alla Valli, che dall’alto del
94
suo cento e lode prediceva un futuro senza successo per il
ragazzo, si aprivano le porte dei migliori college mondiali.
Venti anni dopo, il Pedretti, messa definitivamente la testa a
posto, era diventato un avvocato di successo, conduceva una vita
agiata e, sposatosi con la Giulietta, aveva due stupende bambine.
Una sera rincasando, dopo aver cenato e messo a letto le figlie,
si sedette sul divano e accese la televisione; casualmente
sintonizzandosi su Canale 5, vide la cosa che odiava di più, dopo
l’Inter: il Grande Fratello. Il desiderio di cambiare canale fu
bloccato da un volto conosciuto, una faccia non ignota, ma
nell’ultimo contesto in cui potesse pensare che ci fosse. La scritta
in sovrimpressione non mentiva; era la Valli, o almeno una sua
mutazione degenerata: ingrassata di almeno 30 kilogrammi, i
capelli diventati rossi accesi, vestita con un orrido tubino verde
acido.
“E io che la immaginavo al CERN, alla NASA, in qualche
organizzazione speciale per geni!” Pensava il Pedretti, stupito e
shoccato dalla scoperta.
I dettagli che erano rivelati erano sempre più impressionanti:
lasciato il corso di laurea al MIT, si era data a fese e alcol che le
avevano dilapidato il patrimonio che i suoi le avevano dato per
l’esperienza a stelle e strisce, ed era entrata nella casa per cercare
la notorietà necessaria a vivere di rendita il resto della sua
esistenza.
Che cosa sarà mai successo alla vita di questa donna? Come mai
è diventata così?
Quale evento l’ha portata così lontano dalla strada che la scuola
aveva tracciato per lei?
95
SORPRESA
Claudia Radici
Intorno tutto era buio. Sentiva solo il proprio respiro ed il
ticchettare del suo orologio.
Erano ancora le 16:45. Quanto ci voleva ancora?
Tutti erano immobili, facevano solo un lento brusio.
Erano bravissimi quei ragazzi. Come potevamo resistere così a
lungo?
E con quel caldo poi.
Era madido, la camicia gli aderiva al torace.
Il salotto, visto così, con tutte le tapparelle abbassate, aveva
un’aria insolita, innaturale.
Sentì un’automobile entrare nel viale allora Giorgio si alzò e
disse a bassa voce: – Mi raccomando sta arrivando, state pronti.
Si aprì la porta, era Elena. Tornava da una lunga giornata di
lavoro ed era molto stanca.
– Ma che succede? Giorgio sei impazzito?! Hai lasciato tutto
chiuso con questo caldo!
– Oh! Cara, sei tu? – le disse abbracciandola.
– Sorpresa signora Rossi, sorpresa! – le urlavano, saltando fuori
da tutte le parti, i bambini del vicinato.
– Ma caro, cosa stiamo festeggiando?
Gli si avvicinò, lo prese per un braccio, e sorridendo per cercare
di nascondere la sua irritazione, gli ripeté la domanda: – Caro,
cosa stiamo festeggiando?
La guardò stupito, per un attimo rimase in silenzio.
– Stai scherzando… No, tu te ne sei scordata! Cielo Elena! Ma
come hai potuto? Oggi è il compleanno di Filippo!
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– Filippo? – provò a ripetere, ma subito si portò la mano alla
bocca, quasi spaventata da quello che aveva appena detto.
– Certo, per nostro figlio Filippo…
Lo fissò impaurita, poi corse in bagno piangendo.
Giorgio si sforzò di restare calmo.
– Falso allarme. Tornate ai vostri posti, vi dirò io quando
uscire.
Elena si guardò allo specchio, le lacrime stavano sciogliendo
lentamente il suo trucco.
I capelli, normalmente sempre in ordine, avevano solo perso la
loro armonia.
Non riusciva a ricomporsi, a smettere di piangere. Suo marito
era impazzito. Definitivamente.
Le poche speranze che aveva avuto di riuscire a condurre una
vita normale si erano dissolte. Cosa ne sarebbe stato di lui? E di
lei? Cosa avrebbero fatto? Era ancora così giovane!
Bussò alla porta – Cos’hai? Stai bene? – Disse con un tono
dolce – Elena, vieni di là con noi…
Dal bagno si sentì un pianto trattenuto a stento. Elena era
ancora in lacrime.
– Giorgio, hai organizzato un’altra festa per Filippo… Ma
Filippo è… Oh Dio! – poi urlando – Ma Filippo, Filippo è
morto, MORTO! – Restò un attimo in silenzio, poi continuò
parlando tra i singhiozzi.
– Devi fartene una ragione, non è stata colpa tua, né mia… –
riprese fiato – Ma Filippo è morto. Morto e basta. La vita
continua a deve continuare anche per te!
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– Cara, tu non ti senti bene... Vuoi che chiami un medico?
Forse hai un’altra ricaduta…Ti sei ricordata di prendere le
pillole? Il dottore l’aveva detto che sarebbe potuto accadere di
nuovo, ma io non potevo credere che tu, tu…
La porta si aprì di scatto, erano faccia a faccia ed entrambi
sconvolti.
– Tu pensi che io…IO! – disse urlando tra le lacrime – Sia
pazza? Il dottore? Le pillole?
No caro Giorgio, sei tu che… – fu interrotta da un baccano
infernale che veniva dal soggiorno.
I bambini erano tornati a correre e saltare. Stavano gridando:
– Sorpresa Filippo, sorpresa! Tanti auguri, tanti auguri!
Elena guardò il marito che cercava d’abbracciarla. – Su cara,
non fare così, vedrai che tutto passerà. Il dottore saprà aiutarti…
– Non sono pazza, non io… Tu… – lo indicava con l’indice –
Filippo è… Mio dio, morto da due anni ormai. Sei tu che non lo
accetti, non lo hai mai accettato – ormai stava urlando, cercò di
calmarsi.
– Io sto bene... Anche oggi sono andata a trovarlo al cimitero.
Dovresti venirci anche tu… Forse ti farebbe bene,
ricominceresti a vivere. Non come fai ora…
Giorgio restò calmo ed accondiscendente.
– Ma se sono pazzo – usò un tono quasi di sfida – Chi è
arrivato di là allora?
Ed increspò le labbra in un leggero sorriso.
Andarono in soggiorno insieme, ma lì trovarono solo i bambini
che giocavano.
– Non avete mica visto Filippo, vero? – lo disse cercando di
sembrare normale, si era anche lavata il viso per non fare vedere
di aver pianto.
– Sì, signora Rossi, è salito al piano superiore.
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Impallidì.
Insistette per andare da sola.
Salite le scale, provò a chiamarlo. – Sono qui. – rispose una
voce che veniva da dietro una porta, quella della camera di
Filippo. Era rimasta chiusa da quando Filippo era morto.
Questo pensò Elena mentre apriva la porta. La stanza era in
penombra, la persiana chiusa filtrava dei raggi di sole che
illuminavano alcuni giocattoli inanimati in un angolo. Seduto sul
letto c’era un bambino.
– Filippo?
– Sono io…
– Paolo? Cosa fai nella camera di tuo cugino Filippo? – urlò
irritata.
Il bambino restò un attimo in silenzio, poi cominciò a piangere.
– Rispondimi!
– Zia sai… Lo zio Giorgio era così triste che io… Ecco, io gli
ho fatto credere di essere Filippo, gli ho detto che ero tornato da
voi per rimanere insieme per sempre – disse il bambino fra le
lacrime – E… E lui mi ha creduto subito, mi ha detto di venire
qui dopo scuola, mi voleva fare una sorpresa.
Non volevo farti arrabbiare zia, ma lui era così triste e io…
– Ora basta! Lo sapevi che lo zio sta male, non dovevi prenderti
gioco di lui. Così peggiori solo la situazione!
Poi lo guardò piangere sommessamente, cercò di calmarsi, si
avvicinò e gli passò una mano fra i soffici capelli a caschetto.
– So quanto vuoi bene allo zio e quanto ne volevi a Filippo ma
lui è morto e non tornerà più. Mai più.
Lo zio questo deve accettarlo, altrimenti non guarirà mai. –
Si fermò un attimo a riflettere.
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– Comunque ormai è fatta, torniamo giù, dai, c’è una festa da
onorare.
E guardandolo negli occhi – Per oggi tu sarai il nostro Filippo!
– Lo prese per mano.
Filippo scese dal letto, si asciugò le lacrime su una manica e con
un gran sorriso seguì la sua povera madre malata.
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LA SIGNORA CON IL CAPPELLO BLU
Eleonora Tischer
Quella mattina ero terribilmente in ritardo: avevo cinque
scarsissimi minuti per lavarmi, vestirmi e preparare le cose per
andare al lavoro. Uscii di casa ringraziando il cielo di avere una
porta a scatto che si sarebbe chiusa senza bisogno di perdere
tempo con le chiavi. Scesi le scale tre gradini alla volta e mi
precipitai all’uscita salutando distrattamente la portinaia che mi
stava tenendo aperta la porta con quel suo solito sorriso cortese.
Percorsi il marciapiede di corsa passando davanti al bar che
emanava quel soffice profumo di brioches calde e caffè. Eccola.
La signora con il cappello blu. Non pensavo di stupirmi nel
vederla: dovevo aspettarmi che fosse lì, erano già le otto.
Sicuramente era entrata 15 minuti prima, accostando
delicatamente la porta che, con un campanellino, aveva avvisato
i clienti del suo ingresso come fosse un cerimoniale. Avrebbe
salutato la barista con il suo dolce sorriso e si sarebbe seduta là, a
quel tavolino dove le vetrine formavano un angolo trasparente
offrendo una fantastica vista sull’incrocio cittadino. Barbara da lì
a poco le avrebbe portato le solite due tazze di tè, senza bisogno
che gliele si chiedesse. Conoscevo a memoria ogni suo
movimento, ogni suo gesto… Ma, nonostante tutto, quello
sguardo mi imprigionò. Non l’avevo mai osservata da fuori, dalla
strada. Non avevo mai notato come quello sguardo fosse
sognante, in attesa e così calmo.. Continuai a camminare verso
l’ufficio cercando di accelerare il passo ma il mio pensiero non
riusciva a liberarsi da quegli occhi. Arrivai in ufficio e mi misi a
spostare pile di fogli da una parte all’altra della scrivania senza
101
alcuna logica. “A cosa pensa? Non ha altro da fare? Forse è solo
matta” pensai.
La mattina seguente andai al bar per la colazione, mi sedetti al
bancone ed ordinai una tazza di tè. Poco dopo, puntuale, entrò.
Salutò, si sedette al solito tavolo e cominciò a sorseggiare il tè
bollente, incurante della seconda tazza che appannava il vetro
con il suo fumo biancastro. Quando ebbe finito appoggiò
delicatamente i gomiti sul tavolino, intrecciò le dita tese e vi
pose il mento, perdendosi nei suoi pensieri. Oltre a quel vetro la
città si muoveva frenetica: un turbinio di macchine, biciclette,
autobus, grida, lo stridore della gomma sull’asfalto.. la strada era
costeggiata da eleganti e raffinati palazzi stile liberty ed al centro
dell’incrocio si innalzava una splendida fontana. Ma la signora
con il cappello blu sembrava non guardare affatto tutto quello
che le si presentava di fronte. Il suo sguardo si spingeva
lontanissimo.
Il tempo in lei si fermava. Nessuno poteva dire quanti anni
avesse, forse meno di quanti ne avesse trascorsi davanti a quella
finestra: il suo orologio girava stando fermo. Mi alzai e, senza
esserne troppo cosciente le chiesi: “Potrei sedermi?” “Quella
sedia è occupata” rispose educatamente. Con la delusione dipinta
sul volto uscii dal locale.
Il giorno dopo decisi di scoprire qualcosa su quella donna
misteriosa che aveva rapito ogni mio pensiero. Mi alzai con fare
deciso e posizionai una terza sedia accanto al tavolino e mi
sedetti. Non distolse lo sguardo dal vetro, troppo concentrata nel
non fissare nulla in particolare, ma sorrise. Restammo in silenzio
per un po’, poi me ne andai.
Per qualche giorno quella seconda tazza di tè ebbe un
apparente proprietario anche se non mi azzardai mai a toccarla.
Restavamo così, senza parlare, osservando la frenesia del mondo
102
là fuori e l’infinita calma dentro di noi. Un giorno, all’improvviso
parlò: ‘Tornerà, lo so che tornerà. – Ci vediamo al bar per
colazione, mi vedrai arrivare. – Così mi ha detto prima di correre
via… Correre… Tutti corrono… Chi non corre sembra quasi
pazzo. Tutti sanno che la vita è solo una briciola di eternità e
tutti corrono per viverla al meglio… E così non godono di nulla.
Bisogna trovare un motivo per cui fermarsi ogni tanto. Tu hai
l’hai mai cercato?’ mi guardò. Il fiato mi si bloccò in gola. Quegli
occhi azzurri avevano visto in me qualcosa che non sapevo di
provare. Cosa stavo aspettando? Ero davvero lì per conoscere i
segreti di un’estranea? Quella sua calma mi aveva stregato… Che
senso aveva la mia vita? Correre senza sosta al lavoro, ed
addormentarmi tardissimo la sera… Per cosa?
Quella domanda mi aveva risvegliato da un sonno che durava
da tempo. La vita mi trascinava in uno stato di trance, senza che
fossi cosciente di cosa stavo facendo e soprattutto del perché.
Vivevo dormendo un sonno profondo, criticando la calma di chi
vive intensamente.
Quel giorno uscii dall’ufficio e mi sedetti su una panchina di
quel parco che guardavo distrattamente ogni mattina. Assaporai
l’odore dell’erba, lo scricchiolio delle foglie secche sul selciato, gli
alberi colorati d’autunno.
Il giorno seguente entrai nel bar sperando che la signora con il
cappello blu fosse già seduta al suo tavolo, ma di lei non c’era
traccia. Appoggiai il cappello all’appendiabiti alle mie spalle.
Barbara mi si avvicinò sorridente: “Per lei le solite due tazze di tè
signora?”
Mi colse un dubbio angosciante: guardai dietro di me. Un
cappello blu. Che mi fossi immaginata tutto? Che quella donna
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fosse solo frutto della mia immaginazione? Che quella donna...
Fossi io?
Guardando dall’esterno di una vetrina avevo colto l’interiorità
di qualcuno che, pur vedendo ogni giorno, non conoscevo. Ma
se fossi stata io? Finalmente ero entrata in me stessa, avevo
capito cosa mi mancava per essere felice, insomma, mi
conoscevo. E in tutto questo ero stata aiutata da null’altro se non
la mia allucinazione? Posai lo sguardo sulla sedia accanto a me…
Così reale… Possibile che fosse solo un sogno?
Poi lo vidi. Un foglio di giornale. Il titolo in prima pagina
diceva: “Dopo mesi riabbraccia la moglie”. Poco più in basso la
fotografia di un uomo sorridente che abbraccia una signora con
il cappello blu.
104
CAPGRAS
Zeno Toppan
Non so come mai questo mi sia successo. Ma sono finito in
uno di quei nuovi e stupidi Reality Show della gioventù moderna.
Una generazione bruciata dalla televisione, dai computer e da
chissà quant’altro! Lo sapevo, lo sapevo io che l’inquinamento
atmosferico ci avrebbe resi tutti rincitrulliti!
Ho anche sporto denuncia tramite un avvocato! Ma poi ho
scoperto che come tutti gli altri era un sosia del mio vero
avvocato, il Signor Moi!
Tutto è iniziato in una calda giornata di Agosto. Vivevo da solo
da ormai dieci anni, mia moglie era venuta a mancare troppo
presto e con lei una parte di me se ne era andata per sempre.
Non avevo mai avuto problemi col vicinato e, in sessanta anni di
vita passati lì, nessuno era mai venuto a rubare in casa mia. Ma
quella mattina, quando mi svegliai, scoprii che tutti i miei oggetti,
dalle foto alle posate, dai soprammobili ai mobili, erano stati
rubati e poi sostituiti con delle copie perfette degli originali!
Ricordo che mi chiesi quale individuo malato, bruciato dalla
musica house e dai programmi di Maria De Filippi, potesse avere
architettato un piano così perverso! Chiamai subito il numero di
mia figlia, le chiesi di venire il prima possibile, senza spiegarle la
causa, e nel giro di venti minuti il campanello di casa suonò.
Quando aprii la porta vidi un sosia perfetto di mia figlia: stessi
occhi verdi, stesse labbra disegnate da un’ombra di rossetto e da
quel suo sorriso apprensivo. Ma non era Lei, non era mia figlia,
lo sapevo!
105
– Papà... – Mi disse con la voce della mia piccola Angela. – Stai
bene? –
Tentò anche di afferrarmi il bastone da passeggio e di farmi
sedere, quell’impostora! Ma gliela feci vedere io: due sberle in
faccia e una bella lavata di capo era quello che servivano per
raddrizzare chi tentava di imbrogliare un povero vecchio!
– Vattene! Disgraziata! Impostora! – Ed urlai fino quando la
mia finta figlia non si allontanò.
Spiai fuori dalla finestra: ogni mio vicino era stato sostituito da
un attore che recitava perfettamente la parte. Maledetti Reality
Show! Oggi ci finisci dentro senza che nemmeno ti venga fatto
fare uno straccio di firma su uno stramaledettissimo documento!
Cominciai a prendere gli oggetti finti che erano diventati inquilini
abusivi della mia casa e, per tutto il giorno, li buttai fuori dalla
finestra finché non rimasero solo il mio letto, il frigo e qualche
cosa per cucinare che, anche se non erano miei, mi servivano. La
mattina seguente presi la macchina e guidai fino all’ufficio del
mio avvocato. Un amico di famiglia da anni, l’unica persona di
cui mi potessi fidare. Quando misi piede nel suo ufficio me ne
accorsi immediatamente.
– Chi è Lei? – Abbaiai puntando il bastone da passeggio contro
il sostituto del Signor Moi.
– Giulio, stai bene? – Con una finta espressione preoccupata
l’attore si avvicinò un po’ troppo per i miei gusti, così gli diedi
una bella legnata sulla testa, talmente forte che lo stesi. Ben gli
stava!
L’ochetta della sua segretaria chiamò la polizia, io tentai di farla
ragionare, di farle capire che in realtà quello non era il Signor
Moi ma solo un impostore. Non mi credettero né lei, né il grosso
poliziotto barbuto che mi portò in centrale. Mi disse che avevo
diritto al mio avvocato e io gli risposi che non avevo idea di
106
come rintracciarlo e lui, sbuffando esasperato, me ne procurò
uno d’ufficio. La mia finta figlia pagò la cauzione e il giorno
dopo fui portato in ospedale e mi fecero fare una serie di test ed
analisi ridicoli. Si vedeva lontano un miglio che quei signori col
camice bianco non erano dei veri dottori! Che le infermiere non
erano preparate e che le attrezzature erano fasulle!
Dopo ore, forse giorni, mi fecero sedere su una comoda
poltrona e un attore dall’aspetto eminente e austero mi sorrise
dall’altra parte della scrivania. Maledetti attori!
– Signore, le è stata riscontrata la sindrome di Capgras... – Mi
disse, leggendo una cartella falsa.
– E che roba sarebbe!? – Ringhiai. Nessuno di quegli impostori
mi avrebbe intortato recitando un copione!
– È un disturbo psicotico a base delirante, è probabilmente
dovuto al danneggiamento di alcune parti del cervello che
provoca un’interruzione nei collegamenti tra le vie visive centrali
e i centri emozionali... – Spiegò come se stesse parlando ad un
deficiente.
Naturalmente non capii un emerito fico secco di quanto quel
falso dottore mi stava dicendo.
– In pratica, Signor Rossi, lei è convinto che le persone che
conosce siano dei sosia o dei cloni... –
Ecco come quei maledetti cercavano di vendermela! Fetenti,
farmi credere di essere malato per continuare a filmarmi di
nascosto!
Il dottore mi diede delle pillole e mi disse che avrei dovuto
prenderle. Figuriamoci! Quando arrivai a casa le buttai nel
lavandino: sapevo che quell’impostore tentava di drogarmi per
farmi stare al loro gioco! Sapevo anche che quelle persone erano
gente pericolosa, quindi mi sarebbe convenuto stare al gioco per
un po’.
107
E così feci... Per quattro anni.
Tutti i giorni salutavo i sosia dei miei cari, non con rispetto né
con cortesia, per carità. Ma almeno non li picchiavo col bastone.
Li tenevo a distanza, uscivo di casa solo per andare al
supermercato. Non andavo nemmeno più in chiesa perché Don
Tino era stato sostituito con un vecchio uguale a lui ma che non
aveva nessuna base di teologia né una cultura religiosa da
seminario. Mi rifiutavo di vedere mia figlia e i miei nipoti e
tenevo d’occhio la sosia della Signora Belli, colei che abitava
abusivamente la casa di fronte alla mia. Era una seduttrice che
tentava di instaurare dei cordiali rapporti con me per aumentare
l’audience dei telespettatori che mi spiavano. Era una tentatrice,
con quella sua pelle liscia come quella di una sessantenne, con
quelle mani curate e fatali e con quella sua dentiera bianchissima,
tanto bianca che non poteva che essere stata finanziata da studi
televisivi.
Poi, un giorno, rientrai in casa dal supermercato e vidi il mio
sosia in fondo alla sala. Reggeva delle buste della spesa come me,
indossava i miei stessi vestiti ed era anche un ottimo mimo
perché riproduceva all’istante ogni mio minimo movimento.
– Chi sei? – Domandai e la mia copia, nel frattempo, mi fece la
stessa domanda.
– Hanno deciso di sostituirmi? – Mi chiese l’altro.
– Tu sei il mio attore? – Chiesi.
– No, sei tu l’attore... – Rispose.
– Chi è quello vero? – Sospirai, cominciando a capirci meno di
prima.
– Nessuno dei due – Disse, alzando le spalle.
Lasciai le borse per terra e uscii di casa, confuso. Era il mio
sosia, quello che avevo appena visto? Forse ero io l’attore!
Doveva essere così: in un mondo di attori, di impostori, dovevo
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essere anche io il falso me stesso. In effetti negli ultimi anni mi
ero comportato in maniera strana, come non mi ero mai
comportato prima. Non avevo parlato mai con nessuno, se non
era necessario. Non avevo visto mia figlia e i miei nipoti. Non
ero andato in chiesa e non mi ero fatto più offrire il tè dalla
Signora Belli. Dovevo essere anche io un attore del vero me, un
pessimo attore a dire il vero, in quella marea di professionisti!
Al diavolo i ragionamenti! Che senso aveva interessarsi di chi
fossi: ero vivo e dovevo vivere, non importava quanto fosse
falso il mio mondo...
Era ormai sera e soffiava un vento gelido e tagliente.
Mi feci largo tra la neve col mio bastone da passeggio ed
attraversai la strada sorridendo al figlio del vicino che costruiva
un pupazzo di neve. Suonai il campanello di casa della Signora
Belli e, trenta secondi dopo, la porta si aprì.
– Buona sera, Signor Rossi… – La sua voce era cordiale e calda.
– Vuole una tazza di tè?
– Molte grazie… – Risposi sorridendo.
109
LA GIUSTIZIA È GIUSTA?
Dalia Valle
“Giovanni Mendrisio arrestato”. Così titolava il “Corriere della
Sera”. Mendrisio era un truffatore, un finanziere a cui le persone
avevano affidato i loro risparmi spinti dall’illusione di grandi
profitti. Dopo un primo momento in cui sembrava che gli
investimenti portassero grandi guadagni, di colpo tutto,
compreso Mendrisio, sparì. Ora però Mendrisio era lì, nella
stanza accanto a quella dove il procuratore stava riflettendo. Il
procuratore era un uomo meschino, sulla sessantina, con una
carriera ormai consolidata senza possibilità di promozioni
ulteriori e a cui non interessava mettersi in tasca una condanna
esemplare, dato che non ne vedeva un profitto personale.
Insomma era l’equivalente di Mendrisio, protetto però dalla
legge. L’assistente del procuratore era invece un ragazzo giovane
e zelante, a cui non interessava una condanna per una sua
eventuale promozione ma cercare di far riavere agli investitori
almeno una parte dei soldi perduti. Stava interrogando Mendrisio
quando gli venne chiesto di uscire perché il procuratore voleva
parlargli. Entrato nella stanza si rese subito conto che qualcosa
non andava. Il procuratore di solito molto attento ai casi seguiti
dalla stampa questa volto era distratto, lasciava fare a lui, il che
non poteva essere che un bene. Il procuratore spiegò che era
certo che questo caso non gli avrebbe portato nessuna
promozione e che per questo aveva carta bianca, bastava
chiudere il caso velocemente.
L’assistente era felice, poteva finalmente fare quel che voleva.
Andare al processo sarebbe stato divertente, sarebbe stato il suo
primo caso importante, avrebbe avuto molta visibilità, ma queste
110
cose non gli interessavano. Entrò così nella stanza accanto e
seduto di fronte a Mendrisio formulò la proposta che l’accusato
non si sarebbe mai aspettato: riconsegnare un quarto degli
investimenti rubati, cioè tanto quanto i truffati gli avevano
affidato all’inizio e neanche un minuto di prigione.
Mendrisio accettò ma rimaneva un problema, come fare a
sistemare tutto con la legge? Questa proposta sarebbe stata
accettata da truffatore e truffati ma la legge non sempre va
d’accordo con la morale, l’etica è un’altra cosa. Oltre a questi
c’era un problema ben più grande che era la stampa, quella
macchina da guerra che poteva esaltare una persona un minuto
prima e l’istante successivo gettarla nel baratro più profondo.
Avrebbero detto che la procura aveva fatto un passo indietro
gigantesco, che in realtà la giustizia non esiste, che la legge serve
solo per proteggere i criminali. No, questa proposta non poteva
essere firmata, non ne sarebbe uscito vivo.
L’assistente convocò le vittime per il giorno dopo e comunicò
la sua decisione di andare al processo perché riavere i soldi in
tempi brevi avrebbe significato andare contro la legge, non si
poteva fare. La giustizia è solo un’ illusione, la legge non esiste.
Questi erano i pensieri dei presenti. Dopo alcune proteste se ne
andarono tutti, il procuratore tirò un filo di sollievo, non lo
avevano accusato più di tanto. Sapeva che al processo, anche se
avesse vinto, non avrebbe mai recuperato tutto il denaro e tanto
meno in tempi brevi, ma questa è la legge, se ne indignava ma
altrimenti non si poteva fare. Continuava a ripeterselo per
convincersene. Ma anche se ci provava non ci riusciva più di
tanto.
I mesi passavano e ormai il processo era iniziato, era un
susseguirsi di esperti di finanza per l’accusa e per la difesa, non
c’era una parte in netto vantaggio. L’accusa però sapeva che
111
ormai le sue cartucce stavano per finire e l’assistente procuratore
era in panico: come poteva dire a quelle persone che al novanta
per cento i loro amati risparmi non sarebbero più tornati nelle
loro tasche? Non poteva dire loro questo o quanto meno non lui,
lui che aveva rifiutato un accordo che avrebbe reso tutti contenti
per la giustizia. Giustizia per chi poi? Forse solo per chi è più
furbo? Per chi ha l’avvocato più bravo? Forse un processo è
solo una questione retorica? Chi trova l’esperto che porta delle
prove più convincenti, anche false, vince? Era brutto da pensare,
anzi è davvero terribile ma qualche mese prima, quando questo
processo non era affar suo non era così infelice, non pensava di
aver fatto perdere denaro a famiglie che ora vivevano in
semipovertà. Come poteva continuare ad andare avanti sapendo
che aveva commesso un reato grave non nei confronti della
giustizia ma della sua coscienza. Negare che la giustizia sbagliava
era grave, ma ancor più grave tentare per dei mesi di
convincersene come se lui fosse un idiota senza sensibilità. No,
non poteva continuare, né tornare indietro. L’unica via di fuga
erano quelle pillole che aveva lì davanti, nel boccettino che
aveva appena acquistato tramite internet. Avrebbe avuto il
coraggio di farlo o avrebbe vissuto tutta la vita dilaniato dal
senso di colpa? Le mise in bocca e le buttò giù di colpo.
Il mattino dopo suonò al suo campanello un investigatore che
era corso per comunicargli che avevano trovato una falla nella
testimonianza degli esperti della difesa e che così avrebbero
ribaltato la situazione. Nessuno rispose, si fece aprire dal
portiere e lo trovò lì, sdraiato a terra privo di vita con la
rassegnazione dipinta sul viso.
Dottor Lightman
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APPENDICE
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114
NOVELLO ULISSE
Margherita Ianniello
Sono di corporatura molto minuta, ma ho già parecchi anni di
vita alle spalle. Non posso raccontare come sono nato: non lo
so! Certo non dall’amore di due genitori, ma da un lungo
procedimento, stando a quanto sento dire, che ha avuto inizio
chissà dove – a giudicare dal mio colore potrei essere arabo o
africano – e terminato in qualche marchingegno di invenzione
piuttosto recente. Mi è stata poi assegnata arbitrariamente una
dimora. Si tratta di un’abitazione buia, ma affascinante a vedersi:
ha il colore dell’oro, con strisce blu e rosse e alcune scritte, che
attirano e colpiscono chi le guarda; emette inoltre un profumo
straordinariamente gradevole e che stuzzica le narici. È molto
speciale, perché da fuori non è possibile scrutare l’interno, – ho
così la mia privacy – ma chi vi abita, come me e i miei
numerosissimi fratellini, – nessuno sa di preciso quanti siamo –
osserva tutto ciò che capita all’esterno. La nostra posizione è di
gran privilegio: vediamo senza essere visti e guardiamo dall’alto
in basso. Già, perché viviamo in una pianura rialzata, purtroppo
non verdeggiante e fiorita, ahimè, un posto affollatissimo, anche
se da perfetti sconosciuti; in compenso c’è un gran vociare e c’è
un gran viavai tutt’intorno a noi. Riposiamo solo nei giorni di
festa, benché ultimamente le cose siano cambiate: proprio
quando meno ce lo aspettiamo, tutti corrono qui. Chissà perché!
Talvolta qualcuno o qualcosa mi toglie la visuale, ma dopo
qualche giorno torno a vedere la luce, non quella del sole, ma
una luce giallognola e fredda, del tutto innaturale e a lungo
115
andare persino fastidiosa. In altri casi la mia abitazione viene
sollevata all’improvviso, scrutata attentamente, ripulita un po’ …
e poi riposta, più o meno delicatamente, dove stava, con qualche
commento: “Non fa al caso mio”, “C’è di meglio”, “Non è
affidabile”, “È costosa”.
Ne ho viste davvero di tutti i colori in questi anni.
Ricordo un biondo bambino con gli occhi azzurri, che, tirando
in lacrime la gonna della mamma, voleva a tutti i costi prendermi
con sé: gli piaceva forse il mio aspetto dorato e variopinto. La
donna però urlava, cercando di farlo desistere, e alla fine il
ragazzino cedette facilmente, sostituendomi con un gustoso
cioccolatino, che allettò il suo palato. Che delusione! Non ho
nessun valore per un animo innocente. E ho pure perso
l’opportunità di avere un padroncino delicato, che
probabilmente mi avrebbe rispettato e lasciato intatto.
Un’altra volta invece ho rischiato di diventare proprietà di una
distinta cinquantenne, mezza matta, piuttosto nevrotica, che, con
un ghigno rivolto a se stessa, si allontanò esclamando: “Non
risolvo così il mio malessere; ci vuole una soluzione più
drastica”. Non so bene cosa intendesse, ma in quell’occasione mi
sono reso conto di valere poco anche per chi è in difficoltà: sono
troppo debole.
Quale sconforto mi ha invaso il cuore poi, quando ho scoperto
che per qualcuno sono di serie B, di qualità non buona! Si
trattava di un uomo distinto, marito e padre di famiglia, mandato
qui in fretta e furia dalla moglie, agitatissima e in preda al panico
per l’arrivo improvviso di una delegazione di amiche giunte a
farle visita. Cosa offrire loro? “Vai, caro! E, mi raccomando, che
sia la solita qualità …” Il poveretto non era esperto in materia:
temendo la sfuriata della donna, si sforzò di ricordare. Gli
sovvenne il colore rosso e così, pur colpito dal mio magnifico
116
aspetto dorato, nemmeno mi prese in considerazione: passò
oltre, perché non facevo al caso suo. Eppure, lo confesso, mi
sarebbe piaciuto finire tra le sue mani: era ordinato, elegante,
profumato e mi avrebbe portato in chissà quale reggia!
Probabilmente avrei conosciuto stupende e raffinate signore,
ingioiellate e vestite di tutto punto, e avrei potuto ascoltare i loro
discorsi divertenti e un po’ frivoli. Pazienza!
Ho ricevuto tempo fa un complimento – misera consolazione,
a dire il vero – da un signore esile e su d’età, con un volto
simpatico, una lunga e soffice barba bianca, un bastone e
occhialetti poggiati sulla punta del naso, che, accarezzandomi
dolcemente, con occhi tristi mi disse: “Quanto mi manchi!
Vorrei prenderti con me e assaporare ancora la tua compagnia,
ma l’età non me lo consente più. Il mio cuore e il mio fisico non
sanno stare al passo con i tuoi poteri. Mi vedo costretto a
rinunciare a te”. Finalmente qualcuno mi ha parlato, come si
parla a un amico, ma ho perso in fretta, troppo in fretta, il caldo
affetto che mi ha fatto sussultare per un attimo.
Ho tremato al contrario, assistendo qualche mese fa a una
rapina, ma ho scoperto di non avere alcun valore nemmeno per
chi è cattivo d’animo: i malviventi hanno portato via di tutto, ma
non me … E non posso nemmeno denunciarli per il furto,
perché nessuno mi sente e nessuno capisce il mio linguaggio.
Avrei tanto desiderato cambiare un po’ aria e invece sono ancora
qui, solo soletto; ci sono i miei fratelli, è vero, ma loro non
sembrano comprendere il mio stato d’animo: se ne stanno fermi
e silenziosi al loro posto, ammassati uno sopra l’altro, in attesa
che qualcuno li porti via, chiunque sia. Io invece penso, medito,
sogno, soffro…
Ora voglio rivelare un segreto: accanto a chi mi rifiuta e mi
disprezza c’è anche chi grazie a me riflette, studia e filosofeggia,
117
il che naturalmente mi fa piacere, visto che non è da tutti
stimolare il pensiero. Non lo dico per vantarmi, ma a ragion
veduta. Proprio ieri infatti si trovavano qui davanti due uomini,
uno alto e magro, con pochi capelli e grossi occhiali da vista,
vestito in modo semplice, quasi sciatto, l’altro un po’ più
paffutello e con un cercapersone in vista nel taschino della giacca
a doppio petto. Dai loro discorsi ho intuito che il primo era un
professore di filosofia dell’Università della zona, il secondo, suo
amico d’infanzia, un affermato medico in un giorno di
reperibilità. “Sai, Lucio, non sono un vizioso: non fumo, non
bevo, non gioco e non ho donne nella mia vita. Un piccolo vizio
concedimelo! Del resto nessuno è perfetto: se qualcuno lo fosse,
non sarebbe un essere umano, ma divino. Una trasgressione è
necessaria e la mia è questa! – così diceva il professore
guardandomi – Per me è un po’ come la cagnetta dell’avvocato
pirandelliano, costretta dal padrone a fare la carriola nel segreto
del suo studio. Ricordi quanto ci piaceva leggere questa novella
sui banchi di scuola? Io sono ancora dell’idea che l’autore di
Girgenti avesse ragione: se restiamo chiusi passivamente nelle
forme che la società ci costruisce, rischiamo di esplodere; basta
una piccola e personale valvola di sfogo per restare in
equilibrio”. “Mio caro Virgilio – rispose l’amico – vedo che non
sei cambiato: sei sempre il solito idealista e sognatore. Se sapessi
le conseguenze che comporta il tuo piccolo vizio, come lo
chiami tu, certo lo annulleresti o lo sostituiresti. La pressione
corporea, il sistema nervoso, l’apparato digerente, la circolazione
del sangue … insomma, l’intero sistema fisiologico rischia di
essere compromesso e tu mi parli di equilibrio esistenziale e di
forme? Non solo io, ma anche gli antichi avevano capito che
Mens sana in corpore sano est. Forse loro ti convincono! Pensaci
bene”. I due si allontanarono sull’onda di questa discussione e a
118
me non pensarono più. Non mi rimase che cercare di captare di
sfuggita le loro ultime parole: “Stare sveglio”, “Mattino e sera”,
“Dipendenza” e la lapidaria sentenza “L’eccitazione non è
sempre positiva”. Mi domando chi dei due abbia ragione.
Ma ecco … Si sta avvicinando un gruppo di giovanotti
piuttosto malconci, con i capelli spettinati e i pantaloni stracciati,
alla moda: sembrano pensare a una festa. Si portano via con
decisione parecchie cose, ma in modo indifferente; senza
riflessione, all’improvviso, gettano anche la mia casetta nella
massa. Ahi che botta! Che dolore! State un po’ attenti! Che
succede? Non riesco a vedere nulla e mi manca l’aria; mi sento
sballottato qua e là con violenza e superficialità, senza il minimo
rispetto. Credo di aver perso la mia posizione di privilegio, ma
ancora non so dove io sia finito. Passano le ore. Alla fine
qualcuno apre un varco: scampo a stento a una lunga e affilata
lama … Finalmente respiro!
I miei fratellini finiscono quasi tutti sul fuoco, in un’acqua
talmente bollente che si sciolgono, terminando così la loro
esistenza, un po’ per volta, come i compagni di Ulisse nella
grotta di Polifemo. Sembra che si stia compiendo un rito di
iniziazione: acqua, fuoco, un sacrificio … E schiamazzi. I miei
fratelli hanno compiuto il loro destino, senza lamentarsi,
rendendo eccitato qualcuno, facendo godere qualche altro, anche
se per poco: sono vittime sacrificali, subito dimenticate. È ciò
che per loro è stato scritto e stabilito!
Io, novello Ulisse, riesco a sfuggire con uno stratagemma: mi
getto a terra, vorticando, e lì rimango, invisibile. Nessuno si
accorge di me: tutti mi calpestano, senza preoccuparsene, e io
osservo ogni cosa, questa volta dal basso, umilmente. Certo, ho
perso il mio privilegio, ma sono salvo. Non so se invidiare i miei
fratellini e sentirmi inutile e sconfitto o trionfare del mio
119
successo, anche se non ho realizzato il progetto per cui sono
nato.
Che sbadato! Ancora non mi sono presentato: sono un
granellino di caffè.
A proposito: prova ad alzare il tuo piede: per caso sei tu che mi
stai calpestando? Da qua sotto non posso giovare né nuocere ad
alcuno e chiedo solo un po’di rispetto: ho un’anima e un cuore
anche io, sebbene in pochi se ne rendano conto.
120
TUTTO SEMBRAVA NORMALE
Enzo Noris
Il viaggio era stato veloce, senza intoppi, come mille altre volte.
I semafori, uno dopo l’altro, erano rimasti verdi al suo passaggio
ed il traffico leggero. Sembrava che tutto fosse come sempre,
normale routine.
Arrivato al cancello, che trovava sempre aperto a quell’ora,
notò meno movimento del solito e nel parcheggio, insolitamente
vuoto, né auto né moto. “Sarà presto” – pensò e questa semplice
congettura bastò a sopire, momentaneamente, quel senso di
stupore per qualcosa che cominciava a sembrargli strano, insolito.
Il Professor Arzuffi parcheggiò al solito posto e si concesse un
fugace sguardo nello specchietto retrovisore per controllare i
suoi capelli – di cui andava così fiero ma che ormai erano
sempre più radi ed indocili.
Afferrò con un gesto automatico la sua inseparabile cartella,
gonfia di carte e di libri. “I miei ferri del mestiere” – diceva lui.
Salì le scale senza fretta ma risoluto, cadenzando il passo ed
accompagnandolo con l’oscillazione, avanti ed indietro, della
cartella. Era un incedere così professorale, tranquillizzante.
Aveva un aspetto placido, affabile, il Professor Arzuffi e un
carattere abbastanza tranquillo, come un laghetto alpino. Anche
questa era una sua espressione abituale e così, compiacendosi un
poco, amava definirsi, salvo poi ammettere che quel laghetto
alpino ogni tanto si increspava, in superficie, e le acque –
intorbidendosi – non riflettevano più il paesaggio circostante,
fatto di cime innevate, di nuvole soffici, di abeti verdeggianti.
“Alla mia età – ammetteva a malincuore – non posso dire di
conoscermi del tutto; né posso dire di aver raggiunto una
121
definitiva padronanza delle mie emozioni. Eppure gli altri,
specialmente i miei alunni, mi sembrano tutti così uguali, così
prevedibili, noiosi...”
Cullandosi in queste considerazioni, il Professor Arzuffi
raggiunse l’atrio del grande ed un po’ tetro edificio dove prestava
servizio da tanti anni.
Varcando la soglia si rese conto che l’atrio, solitamente
pullulante di gente, affollato e chiassoso per il febbrile via vai che
caratterizzava ogni inizio di giornata, era desolatamente vuoto,
deserto, in ombra, silenzioso.
Il suono della campanella ruppe il silenzio, occupando quello
spazio grigio di onde sonore che si propagavano eccitanti ed
insieme fastidiose.
“Che strano” – pensò l’Arzuffi – “C’è qualcosa di strano: pare
tutto così uguale e così diverso...”
Salì le scale che portavano al secondo piano; entrò nella saletta
riservata al personale, prese il registro e si avviò verso l’aula.
Si sedette solo dopo aver dato una fugace controllatina alla
sedia, così, come faceva sempre, per scrupolo.
Nell’aula, davanti a lui, invece delle solite facce non vide
nessuno. C’erano solo banchi e sedie, ordinati a due a due e
disposti in file parallele, separate dallo spazio necessario per
consentire meno movimento possibile.
Guardò meglio e, fissando lo sguardo su ogni banco, dai primi
fino agli ultimi, vide un po’ alla volta materializzarsi delle figure,
dei volti maschili e femminili, eterei, come dei fantasmi, che si
facevano via via riconoscibili, identificabili.
Queste figure tuttavia non rimanevano identiche, definite, bensì
continuavano a modificarsi in una progressiva ed inquietante
metamorfosi.
122
Inizialmente avevano i soliti connotati degli adolescenti: la pelle
turgida e con le impurità dell’acne, i capelli folti ed arruffati, la
barba appena accennata, gli sguardi infantili e sornioni dei
maschi, con quella insopportabile aria di sfida mista a timidezza, i
visetti curati, ammiccanti ed a volte maliziosi delle femmine.
All’improvviso quegli stessi volti invecchiavano a vista
d’occhio, mostrando inesorabilmente i segni dell’età: piccole ma
profonde rughe d’espressione, barbe dure, capelli radi, fronti
stempiate, sguardi privi di innocenza, spenti e velati da una
sottile ma percettibile malinconia.
“Chi siete?” – chiese preoccupato il professor Arzuffi. “Che
razza di sortilegio è mai questo?”
“Nessun sortilegio” – rispose una delle figure seduta al primo
banco. “Siamo quelli che tu per tanti anni non sei riuscito a
vedere. Ora hai davanti agli occhi lo spettacolo di quello che
saremmo diventati: padri di famiglia, mariti affettuosi, fedeli e
infedeli, scapoli incalliti, nonni e nonne, madri, spose, nubili e
zitelle ancora in attesa di chi le avrebbe dovute amare. Perché
non sei riuscito a riconoscere nei nostri volti giovanili quello che
avremmo potuto essere da adulti, ora dovrai risarcirci delle
aspettative, dei progetti, dei sogni che ci hai rubato”.
Il giorno dopo il personale addetto alle pulizie fece una
macabra scoperta: in un’aula del secondo piano, ancora seduto
alla cattedra, con davanti alcuni fogli di un registro polveroso,
giaceva interamente mummificato il corpo di un uomo
vecchissimo, rimasto lì chissà da quanti anni. Ciò che rimaneva
del suo capo, ridotto ad un teschio con ancora alcuni frammenti
di radi capelli, era appoggiato alla parete di fondo, tra la carta
geografica e la lavagna.
123
124
INTERVENTO DEL PROF. DON PIETRO BIAGGI
Buzzati, che è anche giornalista, è capace di essere conciso, ma
denso e molto fruibile nel linguaggio, attentissimo com’è alla
scelta dei vocaboli.
Nel trattare temi come il denaro e il successo, l’autore rivela una
sferzante ironia, che smaschera e denuncia, in maniera lucida e
sofferta, un modo sbagliato di vivere, il quale si ritorce contro
l’uomo stesso: egli rappresenta l’Inferno (titolo anche di un
racconto) nella vita quotidiana.
Buzzati presenta nei testi la dinamica CARNEFICE-VITTIMA:
è il carnefice che soffre di più, mentre per la vittima l’autore
mostra compassione, identificandosi in questo ruolo (per natura
tendeva a sminuire le sue capacità, nonostante il successo di
pubblico).
Il tema dell’ATTESA si gioca tra un piano di pessimismo (si
aspetta qualcosa che non arriva) e un piano di ottimismo (slancio
di apertura verso qualcosa di più grande dell’uomo): il
personaggio di Stefano nel Colombre passa la vita non a cercare,
ma a fuggire il colombre, che gli è stato presentato come un
mostro terribile; dunque fugge dalla felicità per un
fraintendimento e quando la trova è troppo tardi.
Non tutto finisce però: Stefano (l’incoronato), alla fine si
riscatta e prende in mano la perla, quando capisce che non deve
fuggire, che deve cambiare rotta, che deve affrontare il colombre.
Quella che per Stefano è la perla trovata, il premio, per gli altri è
un sasso: non hanno capito e vivono ancora con i loro
pregiudizi.
Il colombre è un messaggero (dice infatti: “Sono stato
incaricato di …”), come nel racconto Ombra del Sud.
125
Stefano non è un personaggio rassegnato: si adatta alla vita che
ha, ma qualcosa lo rende infelice; si sente attratto dal mistero e
dall’abisso.
Questa ricerca è propria anche degli altri personaggi di Buzzati
(Drogo nel Deserto dei Tartari, don Valentino in Racconto di
Natale…): l’errore è di cercare con affanno, con angoscia, con
paura; bisognerebbe invece cercare sempre con speranza e con
aspettativa positiva, perché solo così si capisce ogni giorno che il
traguardo è la morte e che la vera vita si gioca nel momento della
morte; solo così si impara ogni giorno a morire (= a vivere
davvero).
L’uomo non deve partire con l’idea di andare incontro da solo
al suo destino: è il destino che va incontro all’uomo, il quale deve
accettare di seguirlo.
Buzzati temeva la malattia e la morte e proprio la MORTE è
centrale nei suoi testi, ma la morte non è evento catastrofico: è
sempre accompagnata dal sorriso e dalla luce (nel Segreto del bosco
vecchio il protagonista muore sentendo un canto di vittoria; nel
Deserto dei tartari Drogo muore sorridendo).
Molti personaggi di Buzzati sono MILITARI: lo stile di vita
militare, legato a regole e disciplina, rende soldati anche
nell’affrontare la vita di tutti i giorni.
Molti personaggi di Buzzati sono GIOVANI o BAMBINI con
caratteristiche da adulti: in essi si nasconde l’autore, che sin da
piccolo è stato un po’ adulto; lo conferma il fatto che nei suoi
testi non si nota un’evoluzione di pensiero, perché egli è già
maturo a partire dal primo.
In alcuni testi Buzzati affronta in modo esplicito il tema
religioso; nel breve racconto Acqua chiusa l’autore cita
espressamente Dio, sottolineando la sua presenza ovunque,
persino in una toilette; in Racconto di Natale per esempio passano
126
alcune idee interessanti: quando nella vita si accettano
meccanismi sbagliati, non si vede più Dio, che c’è; Dio non se ne
va, ma l’uomo non lo vede più, perché accecato da pregiudizi;
quando tutto è pieno di Dio, è il Paradiso, anche in questa vita
terrena, infatti Dio permette agli uomini che si perdono di fare
un cammino e di ritrovarlo.
127
128
INDICE
129
130
PRESENTAZIONE
Lucio Sisana
p.
7
PREFAZIONE
Margherita Ianniello ed Enzo Noris
p.
11
IL PROGETTO
p.
17
I VENTOTTO RACCONTI
Play Boy
di Arena Silvia
p. 23
L’ultimo calice
di Baronchelli Andrea
p. 27
Senza parole
di Belotti Marina
p. 29
Il quadro
di Bergamo Laura
p. 31
Vendetta
di Bronzieri Chiara
p. 33
Sospeso nel tempo
di Calegari Francesca
p. 36
A noi
di Caldiani Andrea
p. 38
Il militare
di Cappellini Umberto
p. 42
131
Long Shadow
di Cavalleri Giovanni
p. 44
Numbers
di Ceresoli Paolo
p. 47
Insieme per sempre
di Cortinovis Federica
p. 49
Peppino Appetito, il becchino iettatore
di Costa Mirko
p. 51
XIII - Tredici
di Danesi Francesco
p. 54
Le cinque notti
di Deretti Andrea
p. 61
Eterna illusione
di Foiadelli Serena
p. 64
Lorenzo
di Gelmini Melissa
p. 68
Libri
di Menni Roberta
p. 71
Orgoglio
di Mercorio Alberto
p. 78
Giuridepizio e la tribù dei Litaniai
di Monti Edoardo
p. 81
Sempre e per sempre
di Natali Federica
p. 84
132
Una giornata d’ottobre
di Paccanelli Camilla
p. 87
L’uomo, la guerra e la pianta
di Paris Nicola
p. 89
Notte stellata
di Perico Roberta
p. 92
Il Pedretti
di Pierotti Francesco
p.
94
Sorpresa
di Radici Claudia
p.
96
La signora con il cappello blu
di Tischer Eleonora
p. 101
Capgras
di Toppan Zeno
p. 105
La giustizia è giusta?
di Valle Dalia
p. 110
APPENDICE
Novello Ulisse
di Margherita Ianniello
p. 115
Tutto sembrava normale
di Enzo Noris
p. 121
Intervento del Prof. Don Pietro Biaggi
Appunti non rivisti dal relatore
p. 125
INDICE
p. 131
133
i piccoli quaderni
Pubblicazione del Collegio Vescovile Sant’Alessandro
Via Garibaldi, 3 – Bergamo
Tel. 035 21 85 00
Fax 035 38 86 088
e–mail: [email protected]
sito Internet: www.santalex.it
Progetto grafico e coordinamento editoriale Paola Aymon
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Milano
Finito di stampare nel Marzo 2010
con il contributo dell’Editrice San Marco
Via Pontesecco 9/bis - 24010 Ponteranica (BG)
134
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