1 2 I VENTOTTO RACCONTI Percorso sul racconto breve Presentazione di Lucio Sisana Prefazione di Margherita Ianniello Enzo Noris Collegio Vescovile S. Alessandro Bergamo 3 Un grazie sentito ad Armando Belotti titolare della Casa Editrice San Marco che ha reso possibile la pubblicazione di questo quaderno 4 PRESENTAZIONE 5 6 Pagine leggere, come soffi, quelle che si possono leggere in questo volume; pagine scritte semplicemente per il gusto di scrivere, per rendere omaggio a un genere letterario, quello del racconto breve, in cui si sono cimentati grandissimi autori e in cui ognuno può misurarsi liberamente e spontaneamente; non si tratta di grandi costruzioni di trame o di intrecci elaborati e complessi, semplicemente si tratta di cogliere un attimo, un’idea, un personaggio, un respiro appunto, e di dargli corpo e voce. Smisurata e senza freni la varietà che percorre questo piccolo libro: i narratori si sono cimentati in esperienze e idee diversissime tra loro, scegliendo ora approcci di realismo ora di fantasia, toni talvolta crudi talvolta impalpabili, personaggi tratti dalla vita comune o usciti da una favola; insomma, c’è di tutto, in un mix affascinante e coinvolgente, che ti porta a procedere nella lettura senza pause che non siano quelle dell’unità narrativa. Il rischio della disomogeneità dovuto alla mancanza di un unico autore è compensato in larga parte dal puzzle che, racconto dopo racconto, si compone sotto gli occhi del lettore; ma qual è l’immagine finale del puzzle? Qui sta la meravigliosa scoperta: è l’immagine di un mondo giovane, che ha già conosciuto pericoli e delusioni ma che ancora ha fiducia nell’uomo e nel futuro; sono molto presenti tra le righe di questi racconti la sofferenza, la sconfitta, l’emarginazione, la morte, sono molto presenti, si toccano, te le senti addosso; poi volti pagina e ti invade l’entusiasmo e la serenità di chi è capace di sorridere e di amare; meravigliosa scoperta, come meravigliosi sono i giovani, misteriosi e imprevedibili capolavori di umanità. 7 Grazie, sinceramente grazie ai ragazzi che hanno accettato di scoprirsi e di farsi sfogliare, personale riconoscenza ai professori che li hanno guidati in questa esperienza didattica e si sono fatti contagiare dalla medesima passione. Pagine leggere, come soffi… Pagine di vita. Lucio Sisana Preside Collegio Vescovile Sant’Alessandro 8 PREFAZIONE 9 10 Raccontami, o Dea, l’uomo...1 … le Pimplèe fan lieti di lor canto i deserti, e l’armonia vince di mille secoli il silenzio.2 Come a parlare si impara ascoltando, così a scrivere si impara leggendo. L’idea di dedicare alcune ore delle attività integrative al racconto breve è nata un po’ per caso. Sembrava bello prendersi del tempo per leggere e per leggere testi che avessero una loro compiutezza, vale a dire un inizio e una fine, senza l’affanno di verifiche ed interrogazioni, solo per il piacere della lettura. Già, perché leggere prima di tutto è un piacere. Decidere per il racconto breve è stato facile, non solo per una questione di tempi e di organizzazione (ogni incontro durava poco più di un’ora e mezza), ma anche perché nel programma di Italiano dell’ultimo anno si incontrano numerosi autori, specie del Novecento, che si cimentano con questo genere di scrittura ed hanno lasciato intere raccolte. Impossibile leggerli tutti. Insieme a questi autori – per intenderci, i famosi Buzzati, Morante, Calvino, Moravia, Gadda, ecc. – abbiamo pensato che fosse il caso di selezionare anche qualche autore più recente e non ancora inserito nelle antologie scolastiche. La scelta è caduta su Stefano Benni ed Erri De Luca. 1 2 Omero, Odissea, I, v. 1 Foscolo Ugo, Dei Sepolcri, vv. 232 ss. 11 A sostegno dell’idea iniziale ha giocato anche l’esperienza denominata “L’officina del lettore”, abbinata alla rassegna del XXV Premio Bergamo Narrativa, alla quale abbiamo aderito lo scorso anno con un paio di classi. L’entusiasmo “contagioso” e l’amabile competenza della conduttrice del laboratorio, la Dottoressa Adriana Lorenzi, ci ha convinto che leggere e riflettere sulla lettura sia un’occasione unica, preziosa, anche – o forse, soprattutto – per la scuola. Avevamo a disposizione sette incontri, dall’8 ottobre al 19 novembre 2009. I primi quattro incontri sono stati dedicati alla lettura, a voce alta, alternando le voci, di alcuni racconti d’autore. In un incontro “speciale” abbiamo avuto la presenza di un esperto di Buzzati, l’ex collega Prof. Don Pietro Biaggi, autore del saggio Buzzati. I luoghi del mistero3. Da lui abbiamo imparato quanto sia importante leggere a fondo e con rigore metodologico i testi di un autore, per evitare letture superficiali o peregrine ed interpretazioni arbitrarie. Abbiamo toccato con mano la vulnerabilità del testo scritto ma anche la sua profonda semanticità, vale a dire la capacità di porre ogni volta la questione del significato. Un incontro lo abbiamo dedicato ad un vero e proprio laboratorio di scrittura. Ci siamo detti: dopo aver letto numerosi racconti brevi d’autore ora proviamo a scriverne uno. Il compito, dopo le perplessità iniziali ci ha coinvolti e ci ha trascinati, tutti quanti – prof. compresi – nel vortice della scrittura, un’esperienza avvincente nella quale abbiamo avvertito 3 Biaggi Pietro, Buzzati. I luoghi del mistero, Edizioni Messaggero Padova, 2001 12 il potere affascinante della parola che da pensata si fa scritta, quasi materializzandosi sotto i nostri occhi. Nell’ultimo appuntamento ci siamo regalati il piacere della lettura di alcune nostre produzioni, scelte a caso e lette a voce alta in una atmosfera di magico raccoglimento e di attesa stupita. Al termine di ogni lettura apprezzamento e tanta meraviglia: come è possibile aver scritto racconti così belli da sembrare “veri”? Ancora una volta si è ripetuto il miracolo della parola che dice la verità dell’uomo, della vita, del mondo. Margherita Ianniello Enzo Noris 13 14 IL PROGETTO 15 16 PERCORSO SUL RACCONTO BREVE Progetto a cura di Margherita Ianniello ed Enzo Noris L’Idea Il libro e la lettura hanno a che fare con la vita di ciascuno, a condizione che si tratti di opere letterarie di qualità. Leggere sviluppa competenze sociali (vitali). Il racconto breve è il “format” che si adatta meglio di altri al tempo e allo spazio a disposizione (2 ore scolastiche, le ultime due del giovedì; aula; classe formata da 29 studenti). Gli aspetti organizzativi Il percorso si articola in 7 incontri della durata di 2 ore ciascuno. In ogni incontro si leggerà a voce alta un racconto breve di un autore italiano del 1900, scelto dagli insegnanti tra quelli che solitamente non rientrano nei programmi scolastici. Prima di iniziare la lettura l’insegnante curerà una breve presentazione dell’autore e della raccolta. Terminata la lettura si darà spazio al dibattito, a partire da ciò che il testo ha suscitato nei lettori. Si è scelto di non impostare l’analisi del racconto secondo i criteri della narratologia, perché a questo approccio si dedicano già molte ore di lezione nei programmi disciplinari (italiano, greco, latino, inglese). 17 Si preferisce un approccio meno tecnico, meno strutturato, più libero ed esperienziale (vista anche l’età dei partecipanti e il contesto dell’iniziativa). Alcuni incontri saranno organizzati in forma di lavoro di gruppo: • • • • • la classe si divide in due gruppi (14 e 15 partecipanti ciascuno) ogni gruppo legge (mentalmente) un racconto fornito in fotocopia ogni gruppo discute sulla base della scheda predisposta dagli insegnanti un rappresentante di ogni gruppo è chiamato a fare all’altro gruppo il riassunto del racconto letto un rappresentante di ogni gruppo riferisce ai presenti quanto emerso dalla discussione. La scheda da utilizzare per l’analisi del racconto prevede i seguenti punti: 1. Che cosa ha suscitato in te la lettura del racconto, quali emozioni hai provato? (IO) 2. Quali sono le tematiche, gli argomenti che emergono dal racconto? (IL TESTO) 3. Individua tutti i possibili agganci che puoi fare a partire dal racconto a film, letture, citazioni, opere d’arte, canzoni, ecc. (IL MONDO) Ad un incontro è prevista la partecipazione di un esperto. 18 Un incontro sarà dedicato alla scrittura individuale di un racconto breve. Alcuni racconti, scelti a caso, verranno letti in occasione dell’ultimo incontro in programma. Tutti i racconti verranno raccolti e pubblicati in un fascicolo a stampa. Gli autori ed i titoli dei racconti letti Erri De Luca Il pannello. Da: In alto a sinistra, Feltrinelli, 1994 Stefano Benni Frate zitto I due pescatori. Da: La grammatica di Dio, Feltrinelli, 2007 Dino Buzzati Il colombre Da: Il colombre, Mondadori, 1966 Racconto di Natale Da: Sessanta racconti, Mondadori, 1994 19 20 I VENTOTTO RACCONTI 21 22 PLAYBOY Silvia Arena “Sai, è morto Playboy.” “Non ci posso credere… Come è successo?” “L’hanno trovato ieri sera, sotto il portico della chiesa. Han detto che aveva un tumore. Pover’uomo”. Era una mattina grigia e, come tutte le mattine, Mimmo si apprestava ad alzare la saracinesca del suo ristorante, uno dei più rinomati nella provincia bergamasca. Era un uomo di circa quarant’anni e da quasi cinque anni gestiva il suo locale con ottimi risultati. Ma ancora non ne era soddisfatto: i guadagni per lui non erano mai abbastanza. Aveva una bella casa, una moglie che lo adorava, un figlio che avrebbe potuto renderlo fiero, se solo a lui fosse importato. Il lavoro era diventato la cosa più importante della sua vita, un’ossessione che lo aveva allontanato dalla famiglia. Quel giorno, mentre preparava i tavoli come di consueto, si presentò alla porta un cliente inaspettato. Un uomo curvo entrò con passo affaticato, parlando a voce molto bassa. “Non ho molti soldi – disse a Mimmo – ma oggi è un giorno di festa, vorrei mangiar un piatto di pasta e bere un buon bicchiere di vino”. Aveva il viso scavato, ma gli occhi di un azzurro lucente; portava abiti logori e sembrava scomparire sotto il peso della borsa sporca che portava sulle spalle. Mimmo rimase stupito di fronte a quella figura, così oscura e allo stesso tempo attraente. Chi era quest’uomo, da dove veniva? Mimmo non era solito dare confidenza ai suoi clienti, soprattutto se si presentavano in modo trasandato: da questi, sicuramente, 23 non avrebbe ottenuto alcun tipo di vantaggio. Eppure quell’uomo, che aspettava il permesso di sedersi a un tavolo, aveva qualcosa che lo incuriosiva a tal punto da accontentarlo. Al momento non c’erano ancora clienti, ma Mimmo preferì comunque farlo accomodare in un angolo del locale, sapendo che la vista di quell’uomo avrebbe destato qualche perplessità. Gli servì un piatto di maccheroni al ragù. “Era da tanto che non mangiavo un sugo così buono” esclamò dopo il primo boccone “da quando mi sono ritrovato a dormire dove capitava”. Mimmo stava in silenzio, ma la curiosità ebbe il sopravvento. “Come si chiama?” chiese un po’ timidamente. “Sono Playboy. Mi chiamavano tutti così, in comunità – disse ridendo – eh ragazzo mio, un tempo avevo tutto ciò che desideravo. Macchine, donne, lussi di ogni genere! Vivevo come un principe, avevo due maggiordomi a mia disposizione, pensi, mi servivano la colazione a letto”. Fece girare delicatamente il vino nel bicchiere. “Qualche volta andavo al casinò: me lo potevo permettere dopotutto! Mi piaceva quella sensazione che provavo nell’attesa di vedere quella piccola pallina fermarsi sul numero che avevo puntato.. la fortuna era dalla mia parte. Ma un giorno mio padre.. mio padre si ammalò. Cancro, mi dissero dopo la sua morte”. Il suo sguardo si fece buio, abbassò gli occhi e fece silenzio. Finì il suo piatto di pasta senza dire una parola di più. Mimmo non se la sentì di fare altre domande; entrarono dei clienti e rivolse loro la sua attenzione. Quando ebbe finito, lanciò un’occhiata nella direzione di quell’uomo. Playboy se n’era andato, lasciando quel che aveva sul tavolo. Subito si ricordò di un vecchio amico che lavorava come assistente sociale presso una comunità locale. Quella sera decise di chiamarlo e chiedergli qualche informazione in più riguardo Playboy. Il suo amico gli 24 raccontò che l’uomo che aveva mangiato nel suo ristorante quel giorno era l’unico figlio di un ricco industriale, morto vent’anni prima lasciando al suo unico erede un grosso patrimonio. Non si ricordava più il suo nome: da sempre l’aveva conosciuto con quel soprannome, datogli perché, prima di cadere in disgrazia, riscuoteva un enorme successo tra le donne. Con la morte del padre era impazzito, aveva iniziato a bere e la sua frequentazione dei casinò era diventata assidua. Aveva sperperato tutto e dopo essere stato per qualche tempo in comunità di recupero si era ritirato in qualche luogo sconosciuto della città. Mimmo vide Playboy altre volte dopo quell’incontro. Si fermava sempre a scambiare qualche parola con lui; quel vecchio senza un soldo e solo come un cane non sembrava mai lamentarsi della sua situazione, anzi, gioiva ogni volta di più per quel poco che poteva assaporare dalla vita. Gli raccontava senza alcuna vergogna le esperienze vissute e gli errori commessi nella sua vita, malediva l’alcol ogni volta che, costretto dalla sua dipendenza, ne beveva un sorso. Eppure il sorriso non gli mancava mai. Mimmo vedeva in quest’uomo così diverso da lui una forza indescrivibile; di fronte alla vita di Playboy i suoi problemi sembravano nulla e rimpicciolivano ogni giorno di più. “Sai, mi fa male la gola da qualche settimana ormai” gli raccontò Playboy un giorno “sono andato in ospedale ieri, ma mi hanno liquidato dicendomi che non è nulla. Prendo freddo di notte, han detto! Prendo freddo da anni e questo dolore così forte non l’avevo mai avuto. Sai come sono i medici di oggi, ti prestano attenzione solo se hai denaro per pagarli”. La sua voce si era fatta più bassa e rauca. Mimmo lo vedeva peggiorare man mano che i giorni passavano; aveva cercato di 25 rassicurarlo, di consolarlo, gli aveva pure suggerito il nome di un suo amico medico ed egli, forse per la prima volta, ringraziando accettò di essere aiutato. Mimmo telefonò al dr. Carlo, come lo chiamava lui, suo grande amico e compagno dai tempi delle medie e prese un appuntamento per quell’uomo verso cui sentiva, ogni giorno che passava, sempre più tenerezza. A quell’appuntamento Playboy non si presentò mai, non fece in tempo; lo trovarono, due giorni dopo il loro ultimo incontro, rattrappito sul marciapiede sotto il portico della chiesa, in un angolo al riparo dal freddo e dalla pioggia, ma da quel momento niente avrebbe potuto più aggredirlo. Aveva il volto disteso, sereno e gli occhi socchiusi: sembrava dormisse, tranquillo, il sonno della morte. 26 L’ULTIMO CALICE Andrea Baronchelli È seduto sulla sua comoda poltrona in pelle marrone, consumata appena sui braccioli; gli occhi ormai vecchi e stanchi di un azzurro vacuo guardano le evoluzioni del fuoco scoppiettante appena acceso. In mano l’ultimo bicchiere di Chianti. I ricordi sono sempre vividi nella sua memoria. Nella vita di un uomo tanti avvenimenti possono essere dimenticati e accantonati, ma non le sue azioni: certo, pagavano bene, ma la giovinezza non considerava il prezzo ben più alto da pagare, che ora era richiesto dal suo creditore. Questo conto in sospeso non è con il mandante né con la vittima né con gli amici, conoscenti, mogli, figli. Ora, quando i capelli sono canuti, la pelle rugosa e le ossa fragili tutto prende forma. “Cosa c’è di sbagliato in quello che ho fatto?”: questa probabilmente è la domanda che continua a serpeggiare nella sua testa; mai come ora, così prossimo alla fine, i rimorsi, come tarli, divorano l’interno dell’uomo. “Il perdono non è umano, ma posso io perdonare me stesso?” “Dio, tu mi perdonerai?” “Quanto tempo ho vissuto lontano da te, pensando di esserti vicino?” Sono solo troppe domande destinate a rimanere senza risposta. Quando il fisico era giovane, non era interessato a tutti questi interrogativi, ma il terrore di morire ecco che finalmente si palesa. Ma la paura non è quella della morte, è un sentimento molto più profondo: il pensiero che forse tutte le preghiere non 27 siano servite a niente, che il Male portato sia stato troppo grande, che il perdono non sia ciò che gli spetta. Ecco che si porta alla bocca il calice e fa un piccolo sorso, quasi solo bagnandosi le labbra. Il fuoco comincia a farsi meno caldo e la sensazione di potenza e di vita che dava poco prima ora era scomparsa, lasciando spazio ad un fuoco malinconico, morente, freddo. Ora appoggia il calice sul tavolino di ciliegio, gli occhi si aprono sbarrati e si girano lentamente verso il crocifisso appena sopra la porta d’ingresso. Lo stomaco si appesantisce, come quando svolgeva il suo lavoro, ma questa volta voleva che fosse così, era giusto. È scoccata la mezzanotte, il fuoco si è spento, una lacrima solca la guancia fredda e rugosa, un sorriso si allarga sulle labbra livide. Questo bastava. 28 SENZA PAROLE Marina Belotti Sergio era un ragazzo di diciotto anni, come tanti. Amava ascoltare l’i-pod, uscire con gli amici e giocare a calcio. Ma, come molti, non sopportava la scuola e soprattutto lo studio. Odiava i libri ed in modo particolare quei tomi troppo pesanti da caricarsi sulle spalle di storia e filosofia. Quel giorno non li aveva neppure aperti, sebbene sapesse che la mattina seguente avrebbe dovuto affrontare interrogazioni sia nell’una sia nell’altra materia. E non poteva neppure affidarsi alla sorte, perché, con il consenso di tutti, gli orali erano programmati e domani toccava a lui. Se poi non si fosse presentato a scuola, alternativa che aveva preso seriamente in considerazione, si sarebbe trovato contro tutti i compagni di scuola, in particolare i malcapitati interrogati al suo posto. Disperato, decise di affidarsi alla fantasia e, strofinando una vecchia lampada, giocattolo d’infanzia, non si accontentò di desiderare che le interrogazioni fossero rimandate, ma che tutti gli odiati libri sparissero dal pianeta e dalla circolazione. Si addormentò così con il sorriso sulle labbra, all’idea di come sarebbe stato un mondo senza libri. Il giorno dopo si presentò a scuola pronto a prendere due e a dichiararsi impreparato, ma, dopo aver varcato la soglia, si fermò impietrito: tutti i suoi compagni erano chini a consultare pc portatili con l’espressione ferma e seria. Da quando in classe erano in dotazione computer per tutti? Nel corso delle ore scoprì dai suoi amici, che erano diventati espertissimi di rete e irriconoscibili, che già da un po’ si era giunti a possederli. Era stato forse proiettato nel futuro? 29 Prese il proprio computer, ma, senza libretto d’istruzioni – non se ne trovava più nemmeno uno – non sapeva come passare da Word ad Excel. Disorientato, tornò a casa e trovò la propria camera sottosopra: i suoi fumetti preferiti e anche i pochi libri che adorava, fra i quali le mitiche barzellette di Totti, si erano volatilizzati dagli scaffali. Era sparito persino il vocabolario di inglese, unica materia che lo affascinava, e al suo posto erano apparse centinaia di chiavette USB. E ora come avrebbe potuto scoprire termini nuovi e soprattutto cosa se ne sarebbe fatto di tutti quei dispositivi di memoria? D’improvviso lo colpì un timore: di scatto aprì il cassetto della scrivania e come temeva non vi trovò il suo libretto per gli assegni regalatogli dal padre per il suo diciottesimo anno. Affranto distese le braccia sulla scrivania e questa scricchiolando si ribaltò. Non credeva ai suoi occhi: perfino l’atlante di geografia, che utilizzava per bilanciare la gamba rotta del tavolo, non c’era più. E il regalo di sua sorella? È vero, ammise a sé stesso, non sapendo cosa comprarle, era entrato in una libreria. Ma la carta da regalo ora conteneva un mouse scollegato. Pentito della portata delle sue azioni prese la lampada per cancellare il proprio desiderio e tornare indietro e, dopo pochi secondi, tutto ritornò come prima e Sergio, per la prima volta nella sua vita, fu contento di studiare storia e filosofia. Appena Luca lesse la parola fine sullo schermo del televisore fu sollevato. Anche lui non amava i libri però si accorse che erano indispensabili nella vita di ogni giorno. Poiché era ancora presto si mise a letto e aprì il suo vecchio annuario di classe con un pizzico di nostalgia ma nello scorrerlo impallidì e iniziò a tremare: le pagine erano diventate completamente bianche. 30 IL QUADRO Laura Bergamo Paolo era un trentenne con un problema: si innamorava in continuazione di donne bellissime e riceveva ogni volta rifiuti da queste. La sua analista gli aveva consigliato di provare a frequentare una donna meno affascinante per riuscire a fondare la sua attrazione non solo su presupposti fisici ma anche interiori. Un giorno come tanti altri, alla fermata della metropolitana, consapevole del suo errore ma spinto da una fatua speranza, stava rincorrendo l’ennesima donna, che cercava di allontanarlo con coloriti insulti, quando si scontrò con una persona. Era una donna imbacuccata nel cappotto, avvolta nella sciarpa, goffa, spettinata e non truccata. Paolo mentre si scusava per la disattenzione si ricordò le parole della analista e decise di accompagnare a casa la donna. Paolo non provava attrazione per lei, e sembrava che a lei non importasse per nulla uscire con un uomo. Tuttavia nei giorni successivi decisero di vedersi ancora. I sentimenti si trasformarono; l’indifferenza diventò simpatia, la simpatia affetto, l’affetto amore. Ormai erano una coppia, Paolo aveva perso la “dipendenza dalle belle donne” e lei aveva incominciato a curare il suo aspetto. L’amore li aveva resi due persone migliori. Nonostante ciò la donna rimaneva misteriosa riguardo la sua occupazione. Un giorno, a distanza di parecchi mesi dal primo incontro, la donna decise di far entrare Paolo in casa sua. L’abitazione era piccola ma piena zeppa di quadri, il suo lavoro, la sua passione, la sua vita. Dal mestiere di pittrice non riusciva a 31 guadagnare molto, era costretta quindi a lavorare in un call center part-time. I quadri che quel giorno Paolo vide erano molto particolari, raffiguravano uomini e donne in contesti astratti, erano bellissimi. La donna non aveva più segreti. La relazione continuava, si rafforzava, a discapito dei quadri però. Il tempo che prima lei dedicava alla sua passione ora era di Paolo, ormai per finire un dipinto impiegava mesi. Quando si rese conto di ciò decise di riprendere in mano il pennello, sacrificando le uscite con lui, ma questa scelta comportò la nascita di numerosi problemi all’interno della coppia. La donna si trovava così divisa tra due amori: Paolo e la pittura. E questa scissione interiore man mano crebbe, diventò insopportabile, fino a culminare nel suicidio. L’avvenimento sconvolse moltissimo Paolo, che come rimedio cercò quasi subito un’altra donna, per non pensarci. Dopo qualche mese insieme la nuova fidanzata regalò a Paolo, in occasione del suo compleanno, un quadretto, comprato al mercatino occasionale tenutosi in città. Il quadro rappresentava un uomo in uno sfondo astratto, quell’uomo assomigliava terribilmente a Paolo. 32 VENDETTA Chiara Bronzieri Vendetta. Ormai era tutto ciò a cui Elena pensava da giorni, da quando quelle quattro ragazze l’avevano messa in ridicolo davanti all’intera scuola solo per il suo modo di vestire. “Bambina” le avevano detto “sei scappata dall’asilo?”. Era il primo giorno delle superiori e gliel’avevano rovinato. Aveva già immaginato come sarebbero stati quei cinque anni: pieni di feste fantastiche e di nuovi amici. Invece grazie a quelle ragazze tutte le sue fantasie erano state infrante in un attimo; ora tutti la consideravano “quella strana”, “la mocciosa”. Inizialmente aveva pensato ad un modo per renderle ridicole agli occhi dei compagni, ma loro erano adorate da tutti. Chi avrebbe mai accettato di aiutarla? Dunque aveva capito che il modo migliore per vendicarsi era quello di diventare loro amica, di costruirsi una reputazione e poi di mostrare a tutti che razza di streghe fossero. Aveva iniziato a vestirsi come loro, a frequentare gli stessi locali e ad entrare nel loro giro. Dopotutto era appena arrivata in quella scuola; poteva essere chiunque lei volesse, trasformarsi a seconda delle compagnie. Con i vecchi amici era la Elena di sempre, timida e pacata, mentre con la nuova compagnia era una persona totalmente diversa, era spigliata e coraggiosa. Finalmente un sabato sera era uscita con quelle ragazze che si stupirono del vederla trasformata. 33 La nuova Elena piaceva a quelle ragazze, era una di loro e quindi le proposero di entrare nel gruppo. C’era un’unica cosa che la separava dall’essere una di loro: una prova. “È una cosa semplice” le avevano detto “devi solo tirare un paio di uova contro la macchina e la casa del preside. Voleva sospenderci e ora la pagherà”. Elena era sempre stata una brava studentessa, ottimi voti e sempre rispettosa. La stavano mettendo davanti a una scelta difficile: rifiutarsi e rimanere isolata o accettare e diventare amica delle ragazze più popolari? “Sono solo delle stupide uova, che importa? Non fanno male a nessuno” disse tra sé. Dopo aver tirato le uova tutti la trattavano come un’eroina e lei si sentiva importante. Da quel giorno passava tutto il tempo con i suoi nuovi amici e a scuola la guardavano con occhi diversi. Usciva con loro, i ragazzi più famosi, e quindi lo era diventata a sua volta. Inizialmente era divertente avere una doppia vita. Il che voleva dire il doppio degli amici e il doppio delle uscite. Ben presto però dovette scegliere. La nuova vita aveva iniziato a rubarle sempre più tempo costringendola anche a trascurare le vecchie amicizie. La sera del ballo della scuola si era preparata con le nuove amiche ed era pronta a divertirsi. Quando all’entrata alcuni del suo vecchio gruppo l’avevano salutata aveva fatto finta di non sentirli. 34 Ora era popolare e non voleva essere vista con gli sfigati della scuola; le avrebbero rovinato la reputazione e chissà cosa gli altri avrebbero detto di lei. Ignorarli sarebbe stata la cosa migliore. Verso l’una era seduta su un divanetto esausta e non si era nemmeno accorta che in un angolo c’era una folla di ragazzi che ridevano. Avvicinatasi aveva visto che nel mezzo c’era Paola, la sua vecchia migliore amica. Quello era il suo turno di essere umiliata davanti a tutti da parte del nuovo gruppo. La deridevano per il vestito, per la pettinatura o forse anche per le scarpe. Non ne aveva idea, ma l’unica cosa che sapeva era che la ragazza con cui aveva passato tanti bei momenti stava piangendo in un angolo per colpa di quelle arpie. In un attimo tutti i suoi desideri di popolarità svanirono e si avvicinò a Paola per difenderla. Le altre ragazze le dissero: “Ma cosa fai, stai dalla parte dei perdenti?” Tutto l’odio che aveva in corpo stava per esplodere, voleva farle soffrire come loro facevano soffrire gli altri, ma aveva capito che facendo così sarebbe diventata davvero come loro. Decise quindi di prendere sotto braccio Paola, di portarla fuori e di non ascoltare le chiacchiere alle sue spalle. Per la prima volta nella sua vita non le importava il giudizio degli altri né di essere famosa. L’unica cosa importante era la sua amica con il suo dolore. “Scusami per tutto” le disse “e ricordati che io ci sarò sempre per te”. 35 SOSPESO NEL TEMPO Francesca Calegari Una luce sottile filtra in una stanza; ne accarezza le pareti spoglie, sfiora i profili di mobili spaiati, illumina un vecchio orologio che ormai non funziona più. Nella stanza, però, la luce è catturata dalla presenza di qualcosa, un qualcosa di così impalpabile e ineffabile che sembra conferire profondità ad un locale che pare aver perso la sua normalità. La luce si avvicina sempre più, raggiunge il profilo austero di un pianoforte aperto, si posa sui tasti sfiorati da agili mani, e interrompe la sua corsa, sospesa nel contemplare lo spettacolo potente che le si è presentato davanti. Rimane così, ferma, fino a quando il tempo le sussurra all’orecchio e la avvisa del sopraggiungere della notte. Una figura esile e incerta si alza lentamente dal proprio letto, e con gli occhi opachi getta uno sguardo alla finestra, dove la luce non è ancora entrata. Si porta al viso una mano stranamente forte e si allontana i capelli dagli occhi. La figura entra in una sala poco tenuta, con un orologio fermo e mobili spaiati, e si ferma davanti ad un pianoforte nero, posto al centro di quella stanza circolare. L’uomo contempla quell’oggetto per un momento che potrebbe essere un istante, ma anche eterno, e prima dell’arrivo dell’alba è già seduto e ha già cominciato a suonare. Suona, suona, suona; le sue mani plasmano melodie, saggiano esercizi, ripercorrono arie; placano l’animo tormentato dell’uomo. Il musicista suona ad occhi chiusi nel silenzio, 36 lontano dalla normalità; ed è qui che entra in contatto con il potere della musica, ne coglie i particolari, ne ha quasi timore. Gli occhi velati gli impediscono di accorgersi della luce e della sua meraviglia. Il silenzio gli fa compagnia, si riveste di commozione nella consapevolezza di ciò che lo sta riempiendo. E l’uomo continua a suonare. Un ragazzo apre gli occhi imprecando contro la sveglia, la luce che ha in fronte, la vita, gli adulti. Si alza in fretta dal letto, guarda l’ora, corre in cucina a mangiare qualcosa, si carica uno zaino in spalla ed esce nella brezza mattutina con un cipiglio disgustoso e disgustato. Nelle orecchie ha delle cuffie, e la musica che ascolta è solo rumore. Corre, corre, corre; mentre corre getta occhiate all’ora e passa davanti ad una casa mal tenuta proprio mentre la batteria del suo mp3 decide di prendersi una pausa. Ed è in quel momento che capisce cosa sia la musica, ma l’ora che segna il suo orologio di plastica gli martella quanto gravoso sia il suo ritardo. Il tempo gli sussurra, e il suo sussurro non è benevolo. L’uomo del pianoforte, ignaro di tutto, ferma le sue mani. L’uomo, la luce e il silenzio rimangono sospesi nel desiderio di catturare l’ultima nota, che ancora vive attorno a loro. In quell’istante, il tempo torna a sussurrare. Alla luce, sussurra di allontanarsi per fare posto all’oscurità della notte. Al silenzio, sussurra il ricordo e la potenza che può assumere il contatto fra musica e silenzio. Al musicista, il tempo sussurra una cosa sola. 37 A NOI Andrea Caldiani Il suono acido e fastidioso della campanella, il rumore nauseabondo e assordante delle moto e un intenso odore di Marlboro in grado di suscitare il commenti negativi dei santarellini e gli apprezzamenti degli accaniti viziati, caratterizzava l’inizio del V anno di liceo di Andrea. Ancora lievemente colorito per l’abbronzatura conquistata dopo ore ed ore di letterale scioglimento al sole, procedeva diritto consapevole che all’ingresso avrebbe ritrovato l’allegra compagnia pronta ad offrirgli l’accendino per la sigaretta più gustata della giornata. Tutto andava secondo la consuetudine: perfino il rosso sgargiante dell’Honda Jazz non era cambiato e nemmeno il fantastico zainetto di quel geniale quattrocchi, che puntuale come un orologio svizzero saliva le scale con una grazia degna della migliore show girl. Era un ritorno a casa per Andrea. Troppo tempo era trascorso dalle sclerate di quella professoressa il cui nome ricordava tanto quello di un fiore, troppo tempo da quei muri orrendi e da quei banchi altrettanto orrendi, ma l’attesa era giunta al termine, era arrivato il momento di riunirsi ai compagni, di rivedere gli amici, di riaffrontare i tanto odiati ma stimati professori. Un brusio stimolante lo accompagnava per le scale e, scavalcato l’ultimo gradino, un brivido percorse la sua schiena: era faticosamente giunto all’ultimo anno. Ma qualcosa lo frenava dal voler lasciare quella scuola che l’ha cresciuto, “sano” nel corpo e nella mente. Non ci faceva caso e proseguiva sicuro con passo felpato; aula nuova ma allo stesso tempo sempre la stessa. Per lui 38 era stato riservato il posto più vicino alla lavagna, quello da cui è più facile apprendere, quello da cui è più difficile farsi gli affari propri. Gli bastò uno sguardo a capire che la maggior parte di loro era disposta a ripartire con le solite risate e i soliti litigi ormai annoverati nella cosiddetta routine quotidiana. Non poteva iniziare meglio: prima ora, lezione di scienze, l’eccentrica e singolare insegnante sedutasi alla cattedra domandò: “Sono da voi in quest’ora?”. Inizio folgorante tipico degli anni migliori: Andrea abbozzava il primo sorriso dell’anno accademico, seguito dalla risata di colui che per rispetto occorre non nominare. In breve tempo si compose il silenzio e il racconto delle rispettive vacanze servì a mettere una pezza a quei mesi di distanza. Le chiacchiere non mancavano e nemmeno i primi rimproveri dell’insegnante, eppure qualcosa era diverso, qualcosa che Andrea non riusciva a definire e a spiegare. Le persone erano cresciute? NO, troppo banale. Era cresciuto lui? NO, altrettanto banale. Sentiva come un vuoto da colmare, amicizie da rifare e lacrime da versare, ma l’ansia e la paura prendevano il sopravvento e lui taceva, taceva. Nessuno lo poteva aiutare se non la sua più grande forza d’animo, la sua pazienza e la sua volontà. I giorni passavano, il suo entusiasmo era quello di sempre, ma continuava a riaffiorare, ogni tanto e specialmente nei momenti di solitudine, un pensiero: sentiva l’esigenza di prendere e scappare lontano. Però una triste realtà lo opprimeva. Troppo semplice sfuggire dai “problemi” e inoltre sapeva benissimo che non avrebbe avuto la forza di lasciare tutti i suoi amici, tutti i luoghi a lui comuni, tutta la sua vita. Come lievi ferite sulle ginocchia, superficiali ma incancellabili, i suoi problemi non davano fastidio, ma restavano li in attesa di essere chiamati con il loro nome. 39 Chissà quanti altri prima di lui avevano vissuto situazioni analoghe, chissà quali sentimenti avevano provato e dove tutto ciò li aveva portati… Avrebbe forse voluto avere il conforto di qualcuno che gli dicesse cosa fare, quale fosse la scelta migliore. ma c’era una scelta? C’era una domanda? O forse era quella l’unica. Domande, domande, sempre domande… Se le portava dietro da una vita, e da una vita intera cercava risposte. Forse quel brivido non significava altro che il termine dei quesiti e l’inizio dei responsi. Era il primo di una lunga serie di passi avanti che da lì in poi si susseguirono, e ogni volta rimaneva sorpreso da quello che poteva imparare dagli altri e da tutto ciò che lui stesso poteva offrire loro. Non sapeva a che meta l’avrebbe portato la sua crescita, non aveva neanche una meta ben precisa, non faceva progetti per il futuro, se non quello di riuscire ad essere davvero felice. Ma ciò aveva un prezzo da scontare, come tutte le cose belle, inevitabilmente. Eccola quella maledettissima frase che aveva sempre sentito da bambino e mai aveva capito “il gioco vale la candela?”. Gioco, perché la vita è un gioco, o è solo il sinonimo di rischio? Ma il gioco è rischio e il rischio è gioco. A noi la scelta. Ed eccola che torna, la scelta. Puntuale, immancabile, come i migliori amici. E proprio loro, gli amici, stavano capendo cosa gli passava per la mente? Voleva il loro aiuto, ma sapeva che in realtà lui doveva vivere la situazione, non loro e qualunque consiglio si sarebbe rivelato gradito, ma inutile. Per la prima volta in vita sua, nonostante fosse circondato da milioni di persone, si sentiva solo. E in quel momento più che mai serviva lui, ma lui non c’era. O meglio, c’era, ma come c’era sempre stato, stolto osservatore di uno spettacolo senza inizio e senza fine, povero di 40 contenuti e pieno di domande, incapace di smuovere minimamente l’animo di chi lo sta osservando. Ma nell’immenso buio della sala una luce chiara e limpida lo liberò dalla sue paure; gli mostrò il cammino che non aveva mai intrapreso per davvero, gli mostrò quelle mete che lui stesso sosteneva di non avere e attraverso di lei cominciarono ad arrivare le risposte. Voi vi chiederete cos’è o chi è… Beh… Io ci sono arrivato dopo diciannove anni e dopo diciannove milioni di domande. Adesso è il vostro turno… 41 IL MILITARE Umberto Cappellini Daniele Tessaglia era un giovanotto di circa vent’anni, alto, magro, uno di quei giovani sani e con il sorriso sempre stampato sulla faccia. Per le stradine del suo paese lo conoscevano tutti: si vestiva sempre in modo semplice ma elegante e da lontano lo si riconosceva sempre perché portava i capelli rasati, alla militare. Il militare, era quella la sua vera passione: era uno di quei ragazzi che fin da piccini hanno già ben fissato in mente cosa vogliono fare da grandi. Già da piccolissimo Daniele era sempre stato attorniato da giocattoli che rispecchiavano la sua vocazione: carri armati, aerei, pistole ed i fedelissimi soldatini, compagni di mille avventure. Daniele nutriva una vera e propria adorazione per i suoi soldatini: ogni pomeriggio, dopo la scuola, lui ed il suo migliore amichetto, Marco Scandi, che abitava a cento metri di distanza, si ritrovavano nel cortile di casa sua, per inscenare le più fedeli riproduzioni delle battaglie più famose. Marco e Daniele erano gli unici in tutta la loro classe che alla domanda della maestra: “Cosa volete fare da grandi, bambini?”, rispondevano con serietà, senza campare in aria i soliti lavori ideali, come ad esempio l’astronauta, da sempre il mestiere più gettonato. Loro erano diversi; sapevano che sarebbero stati insieme, si sentivano come fratelli, uniti da una scelta di vita. Quando arrivò l’adolescenza entrambi non misero da parte i propri sogni d’infanzia, come spesso succede; anzi, li prese 42 quell’esaltazione e quell’impazienza proprie soltanto dei giovani; sentivano il momento sempre più vicino. Il combattere per la patria era per loro la più nobile scelta di vita si potesse avere: non concepivano di poter fare altro che difendere la loro nazione contro i nemici, ogni altra cosa sembrava inutile. Quando i due giovani avevano circa vent’anni finalmente si arruolarono come volontari: erano sorte tensioni che richiedevano uomini sui confini orientali, una missione apparentemente tranquilla, ma un’occasione imperdibile per l’entusiasmo delle due reclute. Ed ecco arrivare l’addestramento, la dura vita dei commilitoni, la severa disciplina che i due giovani avevano sempre desiderato seguire. Le notti al fronte trascorrevano quasi spensierate e Daniele e Marco, felici della propria scelta si sentivano realizzati. “Non è fantastico?” sussurrava una notte Daniele a Marco che riposava nella branda vicino alla sua, “stiamo finalmente servendo il nostro paese”; “sì, però, che noia”, rispondeva Marco, “ci siamo tanto addestrati ma non ci siamo ancora confrontati contro nessuno; qual è il bello se...” Daniele d’un tratto non udì più alcuna delle parole di Marco. La vista gli si era annebbiata, gli fischiavano le orecchie. Buio. Riaprì a rilento e con fatica le palpebre; lo investì il bagliore del fuoco che lo circondava. A qualche metro gli occhi spenti di Marco incrociavano in qualche modo i suoi. Non capiva cosa era successo, gli risuonavano in testa le ultime parole sentite dall’amico. Fu allora che capì che non c’era niente di bello nella guerra. 43 LONG SHADOW Giovanni Cavalleri Quando Eric Mellor morì non aveva ancora realizzato il suo sogno. Ma d’altronde nessuno è ancora riuscito a cambiare il mondo completamente. Eric questo lo sapeva, sapeva che la sua era un’utopia, ma era anche certo che puntare all’obiettivo più alto sia il modo migliore per avvicinarcisi. Questo, con la consapevolezza che il tempo a nostra disposizione non sarà mai abbastanza per vedere i frutti del nostro impegno e che i dubbi che derivano da ciò potranno essere superati solo con una grande fiducia. Cinquanta anni prima, nel 1952, Eric nasceva a Casablanca, in Marocco, dove suo padre aveva un impiego all’ambasciata Inglese. Peter Mellor era un uomo molto ligio al dovere, umile ed intelligente; aveva sempre svolto bene il suo incarico, per il quale spesso era chiamato a spostarsi da una nazione all’altra, coinvolgendo l’unico figlio e la moglie Greta, Italiana, conosciuta quando lui viveva stabilmente a Birmingham, sua città natale. Vivendo i primi 12 anni della sua vita tra Marocco, Turchia, Italia e Grecia, Eric imparò quanto le persone siano diverse tra loro e quanto ogni cultura abbia da insegnare se viene avvicinata senza troppi pregiudizi e con la voglia di ascoltare. Negli anni successivi i Mellor si stabilirono definitivamente in Grecia, ma Eric preferì completare gli studi a Londra, attirato dal fascino di quell’Inghilterra conosciuta solo attraverso i racconti del padre, che, nonostante avesse deciso di separarsene, vi era sempre molto legato. 44 A Londra Eric si trovò subito bene, dopo i primi anni passati in un collegio si stabilì in un appartamento a Chelsea messogli a disposizione da una zia, Marie, anziana vedova che aveva ereditato una discreta fortuna dal marito. I contatti con i genitori erano sporadici e la zia pretendeva solo una visita al mese alla sua casa di Notting Hill, così gli era concessa ampia libertà, supportata dal sussidio dei genitori e da lavoretti occasionali. Si iscrisse ad un istituto d’arte, che completò senza difficoltà né soddisfazioni e che gli permise di vivere con serenità gli anni più spensierati della sua vita. Terminata la scuola si trovò a dover pensare al suo futuro, una cosa che lo lasciò spiazzato al momento. Prese in considerazione l’opzione di seguire la carriera del padre, a cui avrebbe avuto accesso in modo relativamente facile, ma, sebbene ritenesse Peter un grande esempio ed un uomo di alti principi, riconosceva in lui il difetto di saper solo lamentarsi di come nessun altro sembrasse condividerli. Eric, voleva esprimersi, voleva far sapere al mondo quello che pensava, e l’ambiente in cui si trovava glielo permetteva. Non aveva nessun talento particolare, solo quello di riuscire bene in tutto quello che facesse, seppur senza eccellere in niente. Decise così di darsi alla pittura, l’espressione artistica che più gli era accessibile, e per mantenersi svolse diversi lavori occasionali, in modo da non annoiarsi mai e potersi dedicare ai quadri con serenità. Si rese conto che le sue opere non erano particolarmente belle, ma di sicuro avevano significato. Con il tempo riuscì a conciliare al contenuto anche la forma, creando opere di protesta e denuncia verso tutte le ingiustizie ed atrocità che solitamente giustifichiamo solo per pigrizia. Fece un discreto successo e molto rumore nell’ambiente locale e poco dopo riuscì ad esporre in varie gallerie nelle più importanti città Europee. Divenne un 45 personaggio di rilievo nel campo artistico, ma s’accorse di avere in parte lo stesso atteggiamento riconosciuto errato nel padre: si stava esprimendo, scuotendo la coscienza intorpidita del suo pubblico, ma non stava dando una soluzione. Si accorse anche di essere diventato di moda, il pubblico si rivolgeva a lui non perché realmente interessato, ma quasi per dovere. Così a trentatré anni prese la decisione di mollare tutto. Tornò a viaggiare, come non faceva dall’infanzia, allargò i suoi orizzonti e per dieci anni girò il mondo. Conobbe persone e culture differenti e capì come sia solo la politica a creare odi razziali e ad allontanare i popoli. Vide la bellezza della vita, il lato che fino ad allora anche lui non aveva saputo cogliere. Cominciò allora una nuova serie di opere, opposte, conseguenti e necessarie a quelle distruttive del passato. Voleva costruire una nuova coscienza collettiva, ora che l’aveva risvegliata. Distribuì le sue opere in piccole gallerie e non le pubblicizzò molto, così che venissero interpretate adeguatamente da persone disposte a farlo, a mettersi in gioco. Questi quadri sono un inno alla vita, al mondo e alla diversità che contiene, un inno che Eric avrebbe voluto si levasse all’unisono. Non sarà riuscito a cambiare il mondo, ma di sicuro ha cambiato molte vite ed ora che, suo malgrado, ci ha passato il testimone, sta a noi innamorarci della vita e sognare l’impossibile. 46 NUMBERS Paolo Ceresoli Erano gli ultimi 2000 €. Dovevo puntarli tutti insieme. Era la mia ultima speranza. Perdendo, la mia vita sarebbe finita quel giorno. Tutto dipendeva dalle mie ultime parole. E quella maledetta roulette non perdonava. Tutto era cominciato in un’uggiosa giornata d’autunno, quando due persone dall’aria sospetta si avvicinarono a me. Da tempo ormai la mia vita aveva perso ogni significato per colpa sua; non avevo ancora mandato giù la sua scomparsa. La mia piccola e dolce Daniela se n’era andata a causa di quel fatidico incendio che era divampato in casa mentre ero al lavoro. E da quel giorno mi ero chiuso in me stesso, abbandonandomi all’alcol e ad altri vizi di cui fino a quel momento non avevo avuto bisogno. Da solo. E in quella giornata d’autunno qualcosa cambiò. Ricominciai ad avere contatti con altre persone: purtroppo erano quelle sbagliate. Inizialmente mi piaceva, ogni tanto uscivamo e capitava di giocare, ma era solo un’occasione per svagarsi. Ma un giorno tutto cambiò. Quella sera a casa di Marco sembrava tutto normale quando all’improvviso le puntate del gioco si alzarono vertiginosamente. Decisi di tirarmi fuori da quella giocata pensando fosse l’effetto dell’alcol di quella sera ma la stessa situazione si ripeté la sera dopo e quella dopo ancora. Era diventata ormai un’abitudine e decisi di adeguarmi anch’io. La fortuna era dalla mia parte: mi bastava scegliere il numero e lei faceva il resto. In pochi giorni raggiunsi la considerevole somma di 52000 €. Mi sembrava fin troppo facile per essere vero. Non avevo mai visto tanti soldi tutti insieme. E speravo durasse ancora. Il giorno 47 dopo tornai a casa con 5000 € di meno ma questo non mi preoccupava. Ne avevo abbastanza per vivere. Tanti avevano già ipotecato la casa e io mi sentivo in netto vantaggio. Ma la fortuna è cieca e non mi toccò più. Quella sera decisi di giocare 5000 € a puntata. Dopo le prime nove partite mi ritrovai con soli 2000 €. Il gioco d’azzardo mi aveva dato alla testa con tutti quei numeri, quei soldi… Era come una droga, non riuscivo più a farne a meno. I miei “amici” decisero una giocata mortale: si puntava tutto, anche la vita. Mi resi conto subito di quanto stavo per fare ma pensavo fosse uno scherzo anche perché gli altri accettarono immediatamente questa novità. Dovevo scegliere un solo numero, un insignificante numero che valeva la mia vita. I numeri avevano sempre avuto un ruolo importante nel corso della mia vita, nel lavoro, nei soldi, ma mai come in quel momento. Tra quei numeri, uno solo… Ma quale? Le mie probabilità di successo erano scarsissime. La mia vita era appesa ad una percentuale insignificante di possibilità. Decisi di giocare il 29 nero come il giorno in cui avevo conosciuto il mio amore. Puntarono anche gli altri. Il croupier segnò tutte le puntate, girò la roulette e lanciò la pallina. Inquietudine. La mia vita mi passò davanti. Quel dannato 29 nero… Avrebbe deciso la mia sorte. La roulette cominciò a rallentare e si fermò. I miei occhi erano chiusi. Non volevo guardare. Il silenzio era terrificante. Aprii gli occhi… 34 rosso. 48 INSIEME PER SEMPRE Federica Cortinovis Sara si svegliò ansimando, sperò che fosse solo un brutto sogno! Chiuse per un momento gli occhi, poi aprendoli capì che era la realtà. Seduta accanto al letto della madre, ricoverata in ospedale, aveva ancora la pelle del viso bagnata dalle lacrime che aveva versato nell’osservarla inerme e ormai prossima alla morte. Dal giorno in cui era entrata in coma, i dottori le avevano dato un mese di vita. Sara aveva sempre avuto tutto dalla vita, ma ora non le importava più nulla perché le stavano portando via la cosa più importante di tutte: sua madre. La faceva soffrire il pensiero di non parlare più con lei, di non sentire quella voce, che trovava sempre la giusta parola per consolarla e incoraggiarla a realizzare i suoi sogni. Aveva sempre pregato e ringraziato Dio per tutto quello che le aveva sempre dato, e continuava a farlo ora affinché potesse evitare quello che tutti avevano ormai dato per certo: la morte. Ma quel giorno arrivò, in una fredda, piovosa e taciturna notte di gennaio, si sentì il disperato grido di Sara che aveva visto morire la madre tra la sue braccia senza nemmeno averle potuto dire addio. Si sentiva abbandonata dal mondo intero, ma soprattutto da Dio! Perché non l’aveva aiutata e non aveva impedito che tutto ciò accadesse? Si rinchiuse nella sua camera. Il solo pensiero di incontrare bambini che ridevano e abbracciavano le loro mamme le faceva venire una grande rabbia. Le sembrava che la sua vita non avesse più senso. 49 Eppure un giorno mentre in lacrime e lamentandosi della sua situazione, sistemava i fiori sulla tomba della mamma, le si avvicinò un vecchietto che le disse: “Non piangere la perdita di tua madre! Hai un grande privilegio: lei è sempre con te e ti protegge più di quanto non avrebbe fatto se fosse stata viva!” Sara non conosceva quel signore, e sdegnata per le parole pronunciate lo cacciò. Tuttavia non riusciva a smettere di pensare a quelle frasi e più ci rifletteva e più si convinceva della illogicità di quanto le aveva detto quello strano vecchietto, eppure era stato il solo a non commiserarla per quanto stava passando, ma l’aveva rimproverata per il suo comportamento invitandola a considerare meglio la sua situazione. Così nonostante non capiva il significato di quelle parole iniziò a credersi più fortunata degli altri e riprese la sua vita cercando di risollevarsi pian piano dalla caduta. Solo quando ritornò ad essere la Sara di sempre comprese le parole del vecchietto! Sua mamma era sempre con lei, sempre riusciva a percepirne la presenza. Poteva parlarle e senza spiegarsi il perché riceveva tutte le volte una risposta o un consiglio che le dava la forza di andare avanti. Anche se non poteva dimostrarlo era come se sua madre le stesse sempre vicino. Ringraziò Dio perché le aveva permesso di ritrovare la mamma che pensava di avere perso per sempre, e comprese che a volte nella vita non bisogna vedere per credere ma credere per vedere! 50 PEPPINO APPETITO, IL BECCHINO IETTATORE Mirco Costa In quella piccola cittadina nei dintorni di Napoli abitava Peppino Appetito, di professione becchino. Quando passava per le vie del paese, la gente si lasciava andare ad ogni forma di scongiuro, da quelli civilmente ammissibili a quelli che è meglio non citare: c’era chi si limitava alla semplice indicazione con le dita, al classico sciò, sciò, chi si attaccava al classico ferro di cavallo o ad un qualunque altro ferro, non verniciato e non lavorato, disponibile nei paraggi. C’erano anche quelli che si stringevano angosciosamente in mano il corno rigorosamente rubato, trovato o ricevuto in regalo, chi cercava nelle tasche il suo mazzo di chiavi, c’era anche chi disponeva trecce d’aglio al balcone come aveva visto nei film sui vampiri. I giocatori di carte del bar vicino al negozio di Peppino si alzavano frettolosamente dal luogo di lavoro scappando, mentre gli uomini che non avevano potuto porsi tempestivamente in salvo provvedevano con quel inosservato “movimento grattatorio” che era stato loro tramandato dai padri. Figurarsi quale fu la sorpresa della gente, quando si sparse la voce che Peppino avrebbe tenuto un pubblico comizio per presentarsi come candidato alle prossime elezioni amministrative! I dirigenti del suo partito erano assolutamente contrari a questa sorta di suicidio pubblico, ma l’uomo, di fronte a questo rifiuto, aveva minacciato che sarebbe stato costretto a provvedere in modo diverso. Di fronte ad una tremenda prospettiva, i responsabili della lista avevano ceduto, nella speranza che la sfortuna potesse invece spargersi sugli avversari. 51 La sera del discorso, la maggior parte delle balconate e delle finestre che si affacciavano sulla piazza erano vuote o addirittura sprangate per evitare gli effluvi della iella che sarebbe inevitabilmente arrivata sulla zona. C’era stato addirittura un fuggi-fuggi generale, perché molti avevano scelto di recarsi fuori paese nell’imminenza della catastrofe. Il notevole afflusso di traffico e la fretta con cui tutti tentavano di scappare avevano però provocato, come c’era da aspettarsi, tutta una serie di incidenti grandi e piccoli, che erano stati inequivocabilmente attribuiti alla maledizione che doveva essere stata lanciata da Peppino contro chi intendeva abbandonarlo. Per questo motivo, i compaesani si erano dovuti rassegnare ad assistere al temutissimo comizio, naturalmente però non senza premunirsi di ferri di cavallo e di cose simili. Si dice, addirittura, che, per l’occasione, siano stati svuotati i negozi di ferramenta di tutti i paesi vicini. Stranamente, però, la sera del discorso pareva proprio che le cose dovessero mettersi per il meglio: il cielo era stellato, la luna piena illuminava a giorno la piazza e l’aria, fredda e pungente fino a qualche giorno prima, si era fatta dolce e piacevole. In fondo, non poteva trattarsi soltanto di calunnie che avevano colpito quel povero uomo? In effetti, qualcuno cominciò a rivelare agli altri che quella fama di iettatore era stata attribuita a quella brava persona, oltre dalla sua professione, anche dalla sua abitudine di parlare di cose tristi, ma, alla fine, non c’era nessuna prova concreta che quello portasse disgrazia. Così, man mano, la gente cominciò a rasserenarsi ed a seguire con sempre maggiore interesse il discorso di Peppino, che aveva una buona vena oratoria e stava parlando con competenza di argomenti interessanti. 52 Ad un certo punto, addirittura, accadde che la maggioranza degli ascoltatori prendesse a concordare con le tesi dell’oratore e stesse considerando se fosse il caso di affidare il suo voto proprio a Peppino, che, da come ora si capiva, era stato vittima della calunnia della gente. Sul più bello, però, improvvisamente avvenne un fatto doloroso: il palco, su cui, passata la paura della iella, si stava radunando tanta gente, senza nessun preavviso crollò addosso agli spettatori che stavano intorno, provocando numerosi feriti. Come accertarono le successive indagini della polizia, la responsabilità del fatto era di quelli che avevano costruito il palco: naturalmente, costoro, prevedendo che non ci sarebbe stato nessuno accanto al predicatore sfortunato, avevano realizzato una struttura alquanto debole, che poi non aveva retto al peso eccessivo. Ma chi avrebbe tolto dalla mente della gente che la storia dello iettatore, in fondo, era perfettamente vera? 53 XIII - TREDICI Francesco Danesi Pioveva, pioveva come poche volte, pioveva che Dio la mandava. Quel sabato 7 dicembre era cominciato da appena due ore e nel buio della notte, completamente infradiciato, giunsi finalmente a casa. Via Legionari in Polonia era abbandonata alla solitudine di una fredda giornata invernale e dopo una serata passata in compagnia mi sentivo un po’ impaurito lì da solo davanti alla porta del condominio, intento come al solito alla disperata ricerca del mazzo di chiavi. Appena le trovai mi fiondai nell’atrio e a passi svelti dentro l’ascensore. Premetti il numero 7 diverse volte, come se il continuare a schiacciare il tasto potesse rendere meno lenta e noiosa l’”ascesa” verso il tepore caldo del mio letto che mi attendeva. Con uno struscio sordo le porte si aprirono e mi diressi verso la porta di casa mia; c’era qualcosa di strano tuttavia. Chi cavolo ha scritto in pennarello un XIII sulla porta!? Bah... Senza farci tanto caso aprii la porta girando la serratura tre volte e penetrai nelle tanto amate mura domestiche; è sempre bello d’altronde arrivare infreddoliti a casa e sapere che, una volta varcata la soglia, ci sarà la piacevole accoglienza del riscaldamento... Grande invenzione il termosifone, lo dico sempre! Buttai il cappotto verde militare in terra e mi resi conto di non avere la forza, o forse la voglia, di mettermi in pigiama, così mi lanciai sul letto e mi lascia andare tra le braccia di Morfeo. ––––––– “Ehi! Geeeeeorge! Signor Geeeeorge! Sveglia! Suvvia!” 54 A fatica spalancai gli occhi ancora gonfi dal sonno e con la vista un po’ annebbiata cercai di riconoscere, piuttosto inquietato, il viso barbuto di un signore che mi guardava da così vicino da sfiorarmi il naso. “Eh... Aspetta...” Cercai di blaterare qualcosa di sensato, prima di rendermi conto di non trovarmi a casa mia, bensì in un appartamento alquanto ristretto dal gusto retrò; cercai di rialzarmi di scatto, ma caddi dalla poltrona rossa in pelle su cui mi ero probabilmente addormentato. Poi mi rialzai davvero e sentii che la testa mi girava vorticosamente, peggio che su una giostra. “E chi sei tu scusa!” Esclamai sorpreso e smarrito. Il vecchio signore barbuto, che indossava una specie di impermeabile al quanto trasandato, scoppiò a ridere di gusto. “Chi sono io? Chi sono io vuoi sapere?” Poi si fece incredibilmente serio e con un tono quasi teatrale mi allungò la mano: “Mi presento dunque. Sono il signor Desìo... E tu sei il signor George!” Poi riprese a guardarmi divertito. “Beh... Ehm... Io cosa faccio qui signor Desìo allora?” Dissi, sottolineando particolarmente il suo nome. Che nome è poi Desìo? “Oh signor George, vedi, ieri sera ti ho trovato sdraiato fuori da casa mia e ho pensato che fosse meglio darti un posto comodo per dormire.” Rispose il vecchio con tono saccente. Sdraiato per terra... Ieri sera? “Scusi ma... Sdraiato per terra?” “Oh sì, sì! Credo tu fossi completamente ubriaco... Anzi lo eri sicuramente!” Esclamò scoppiando di nuovo a ridere. “Ubriaco... A dir la verità non ricordo molto. Beh, grazie per l’ospitalità dunque ma ora credo sia meglio che io vada eh!” 55 “Oh no, no! Datti una risciacquata prima signor George! Il bagno è in fondo a destra, prego prego!” disse dandomi un colpetto sulla schiena e indirizzandomi verso il bagno. Questo qua non è a posto... Adesso mi lavo e poi scappo via. Entrai in una stanza striminzita e girando la manopola del lavandino diedi un’occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio tondo appeso al muro... Emisi un urlo che subito soffocai chiudendo le labbra in modo serrato. Ma che ca...! Ero invecchiato! Ero invecchiato? Ero irrimediabilmente invecchiato! Avevo una leggera barba sulle guance, i lineamenti più affilati e lo sguardo di un povero quarantenne che aveva perso tutti i sogni in cui credeva nella sua adolescenza! “Come fa a sapere che mi chiamo George?” Esplosi uscendo dal bagno di corsa. “Oh beh beh, la carta d’identità serve a questo, credo.” Mi rispose ghignando il signor Desìo con in mano il mio portafoglio. Lo guardai torvo e me lo feci immediatamente ridare; poi mi diressi verso la porta di casa per andarmene, un po’ troppo sconvolto per continuare a conversare con quel vecchio pazzo. “Oh aspetta signor George. Penso sia meglio che io venga con te, oh sì, sì!” Io feci finta di niente, uscii di casa e scendendo a velocità supersonica due rampe di scale abbandonai l’abitazione. “Il mio non era un consiglio signor George. Ti accompagno a casa!” Pronunciò il vecchio che mi aspettava subito fuori dall’edificio. Ma come diavolo fa ad esser già qui!? “Va-va bene! Allora… Andiamo.” Dissi io con la voce un po’ tremante. 56 Scendemmo per via S.Alessandro alta a passo svelto, io davanti e il signor Desìo dietro, il quale, un po’ zoppicante, mi seguiva in silenzio con un’espressione che potrei definire quasi da “ebete”. “C’è qualcosa che non va signor George?” Domandò poi col suo tono scherzoso. “Ehm, no no. Sono solo un po’... Perso ecco.” “Beh chi non lo sarebbe al posto tuo!” Rise lui. Che cosa ride sempre? Stavamo scendendo le scalette che portavano su Via Nullo quando in lontananza, all’inizio dei gradini, vidi una figura familiare; strinsi gli occhi, a causa della mia miopia mai presa sul serio, e riconobbi in quella donna che indossava un elegante tailleur blu scuro una vecchia amica: era Vera! Invecchiata anche lei ma impossibile per me da dimenticare. Le corsi incontro sbracciando, lasciandomi alle spalle il vecchio e urlai: “Veraaaa!! Veraaaa! Sono George!!” Lei mi guardò sbigottita e indietreggiò: “Scusi ma cosa vuole da me?” Restai imbambolato... Non potevo essermi sbagliato! Poi da dietro sentii la voce del Signor Desìo che mi sussurrava qualcosa: “Si chiama Maria...” Io piuttosto perplesso la guardai e cercai di capire che cavolo stava succedendo. “Cioè... Sei Maria?” “Sì, mi chiamo Maria! Chi è lei scusi?” Rispose infastidita. “Sono George! George Columbus! Non ti ricordi di me!?” “George!? Sei proprio tu!?” Esclamò lei quasi divertita. “Sì sono io! Ti ricordi allora!” Urlai di gioia. “Oh quanto tempo. Sarà vent’anni che non ci vediamo!” Vent’anni… Vent’anni in una sola notte. “Sì, beh... Già…” Non sapevo proprio cosa dire. 57 “Te la passi bene?” Mi chiese osservando stranita il signor Desìo, che stava canticchiando qualcosa di strano alle mie spalle. “Sì, credo di sì. E tu?” “Tutto bene anche dalle mie parti. Mi spiace doverti lasciare subito ma i miei bambini mi stanno aspettando per pranzare! Magari ci si rivede, stammi bene George.” Disse lei sorridendo, quel sorriso unico. “Ah, i tuoi bambini... Certo! Allora ci si rivede.” Dissi io in tono sommesso fissandola mentre si incamminava verso casa. Per un po’ rimasi incantato e davanti ai miei occhi vidi le scene di un film patetico chiamato “Passato”, il cui protagonista ero io: l’incredibile amicizia che ci aveva legato lungo gli anni del liceo, i litigi e la rottura del nostro rapporto per vigliaccheria. Fui un maledetto codardo. Scappai dai miei sentimenti in nome di una sicurezza che credevo sarebbe durata per sempre o forse perché avevo paura. E se questi ricordi fino al giorno prima erano il mio presente, in cui ancora pensavo e speravo di poter agire, ora rappresentavano un crudele passato che ci aveva portati al distacco... Lei era felice però. “Signor George ci sei?” “Sì, ci sono. Come faceva a sapere il suo nome comunque?” “Oh beh beh, io sono uno dei tanti che conosce tante tante cose qui.” Sghignazzò lui. Che risposta è!? In silenzio ripresi a camminare verso Via Legionari in Polonia, accompagnato dall’ombra del vecchio. Il cielo gonfio di nubi scure cominciò a gettare secchiate d’acqua su Bergamo poco prima che io giungessi davanti a casa. “Signor Desìo, abito qua io. La ringrazio per avermi... “scortato” fino a casa.” Dissi cercando di sbarazzarmi finalmente della sua presenza. 58 Il suo sguardo si fece improvvisamente scuro e passandosi una mano sulle goti barbute mi poggiò l’altra sulla spalla. “Signor George, non lo troverebbe strano andare a dormire nel corpo di un diciottenne e risvegliarsi in quello di un quarantenne?” Rimasi sbalordito. Allora non sono completamente scemo! “Lei sa cosa mi è successo!?” Esclamai mentre cercavo di proteggermi il capo dalla pioggia con il braccio. “Oh beh, io sono solo uno dei tanti che sa tante tante cose.” “Cosa intende?” “Signor George, penso che ti devi fare un’altra bella dormita. Quella signora Maria ti ha proprio lasciato il segno eh.” “Già, ma ormai non c’è nulla da fare.” Risposi abbassando lo sguardo. “C’è sempre qualcosa da fare. Oggi qui, domani là, c’è chi compare e chi scompare. Io a dir la verità preferisco restare.” Continuò lui. Eccolo che ricomincia con le frasi senza senso. “Cosa intende scusi?” “Oh intendo dire tante tante cose! Forse troppe o forse troppo poche. Ne ho in mente così tante che a volte non so proprio quale scegliere! Ora ti saluto Signor George, sogni d’oro e tanti saluti a casa.” Così, senza il minimo indugio, mi voltò le spalle e sempre zoppicando se ne andò. Effettivamente fui colto da un sonno imprevisto e anche da un particolare senso di nausea. Mi fiondai nell’atrio e a passi svelti dentro l’ascensore. Premetti il numero 7 diverse volte, come se il continuare a schiacciare il tasto potesse rendere meno lenta e noiosa l’“ascesa” verso il tepore caldo del mio letto che mi attendeva. 59 Con uno struscio sordo le porte si aprirono e mi diressi verso la porta di casa mia; c’era qualcosa di strano tuttavia. Chi cavolo ha scritto in pennarello un XIII sulla porta!? Bah... Senza farci tanto caso aprii la porta girando la serratura tre volte e penetrai nelle tanto amate mura domestiche. Buttai il mio cappotto verde militare in terra e mi resi conto di non avere la forza, o forse la voglia, di mettermi in pigiama, così mi lanciai sul letto e mi lasciai andare tra le braccia di Morfeo. ––––––––– BIP-BIP-BIP Fottiti sveglia del cavolo… BIP-BIP-BIP Va bene, va bene... Hai vinto tu di nuovo. Mi alzai stirandomi la cassa toracica e sbadigliando per diversi secondi. I raggi di un pallido sole filtravano attraverso i fori delle tapparelle – finalmente un po’ di bel tempo – e il freddo tremendo della notte precedente sembrava un lontano ricordo. In poco meno di un quarto d’ora mi ero vestito, lavato e preparato lo zaino; uscii di casa verso le sette e quaranta, dirigendomi come tutti gli altri lunedì mattina della mia vita verso il liceo Sant’Alessandro. Entrai a scuola dopo aver fumato una sana sigaretta mattutina e dopo le solite e numerose rampe di scale scivolai nell’aula della I classico. Nel primo banco notai una presenza nuova, un volto sconosciuto. Odiavo i nuovi arrivati, non so perché, ma mi stavano antipatici per principio; tuttavia sin dal primo scambio casuale di sguardi, provai lo strano presentimento di conoscerla già. 60 LE CINQUE NOTTI Andrea Deretti Roberto è uno dei tanti ragazzi per i quali la vita di tutti giorni non provoca altro che noie e insoddisfazioni personali. Ha 16 anni e ha fondamentalmente tutto dalla vita se non la capacità di non sapersene accorgere. Una cosa però lo tormentava più di tutte le altre: egli voleva vivere in un’altra dimensione e con un’altra età; non credeva giusto che lui dovesse esser nato quando qualcun altro decideva e che non potesse vivere altre storie in altri luoghi. Era il suo pensiero più nascosto, più intimo, quel pensiero che non confidava a nessuno ma che tanto covava dentro. Un giorno lesse un annuncio pubblicitario in fondo a una delle riviste che sua mamma comprava alla sera uscita dal lavoro: reclamizzava una pozione magica per tornare nel passato. Annotò l’inserzione e il numero di telefono e andrò subito a comprare il prodotto; stranamente il negozio (pensò lui) era pieno zeppo di gente che si muoveva, entrava e usciva freneticamente come dei ladruncoli. Mischiandosi tra la folla prese il boccettino e corse a casa. Diluito il contenuto bluastro nell’acqua, come da prescrizione, bevve la pozione; non accadde nulla. Ecco però che alla sera, andato a letto, dopo essersi addormentato, gli apparve in sogno un diavolo. Eh sì, era proprio un piccolo diavoletto: color rossastro, sopracciglia folte, baffetti lunghi, con un abito color porpora abbinato a una camicia e ad un paio di scarpe, senza dimenticare la cravatta, bianche. Il diavolo dopo averlo fissato sorridendo esclamò: “Salve! Il mio nome è Teriva, il diavolo dei sogni. Tu ed io viaggeremo 61 dunque per cinque lunghissime notti! Visiteremo luoghi e tempi dimenticati, avrai la sapienza e la conoscenza che nessun altro potrà mai avere!” Roberto spaventato, ma al contempo eccitato, replicò: “Ma questo è un sogno vero? Perché mi sembra di essere sveglio?! Perché non mi sembra affatto surreale? Nemmeno tu con quei ridicoli baffetti!” Il diavolo riprese la parola: “Non c’è tempo da perdere. Il tempo nei sogni non è quello misurato dagli umani sulla terra. Tra 4 ore sarai già sveglio! Stanotte mi seguirai in un posto fantastico... Roma dell’epoca imperiale!” La mattina dopo Roberto si svegliò tutto sudato e ansimante. Ebbe poco tempo per riprendersi perché come sempre dovette prepararsi e andare a scuola. Si ricordava ogni dettaglio della notte precedente, per lui non era stato affatto un sogno. Non svelò a nessuno quel che era accaduto. Aspettava solo che il sole tramontasse aprendo le porte alla luna, alla notte e soprattutto a Teriva. E la notte arrivò puntuale insieme a Teriva: “Salve di nuovo! Oggi mi hai aspettato con ansia, ma non sarà sempre così. Ieri ti ho detto dove saremmo andati ma da stasera non saprai più dove ci dirigeremo.” Roberto passava le sue giornate in attesa di quei sogni “diabolici” e non trovava più un motivo per stare in famiglia o per fare qualsiasi altra cosa. I suoi genitori dapprima si preoccuparono ma poi, arrivato il quinto giorno, cominciarono ad ignorare il figlio e la sua assenza. Gli amici, i compagni di classe e i parenti non riconoscevano più Roberto, che con tutti i suoi difetti e le sue mancanze riusciva comunque a rendere speciale tutto ciò che gli stava intorno. Era l’ultima notte e il diavolo puntuale arrivò da Roberto: “Giungiamo così al nostro ultimo incontro... Ti propongo però di prolungare il tuo viaggio di altre cinque notti Roberto.” 62 Roberto sorridendo guardò profondamente il diavoletto e sospirando rispose: “Mi hai fatto vedere i posti più lontani, mi hai fatto conoscere le civiltà più antiche, ma senza accorgermene sto rinunciando al mio presente. Non sono libero di scegliere quando e dove vivere, ma dopo queste cinque notti ho capito che posso scegliere il come. Grazie Teriva, sei riuscito nel tuo intento.” Il diavoletto se ne andò compiaciuto, lasciando cadere un bigliettino: c’era scritta qualcosa ma Roberto non era ancora in grado di leggerlo... 63 ETERNA ILLUSIONE Serena Foiadelli Le sette del mattino di una fredda giornata di dicembre, fuori, lungo la strada, tutto tace. Si sentono soltanto alcune voci in lontananza, forse dei passanti che cercano inutilmente di pulire il vialetto dalla troppa neve, caduta la sera prima. Percepisco il rumore delle tapparelle sollevarsi nell’appartamento del piano di sopra, unico segno della presenza umana in questo mondo. Steso a letto continuo a pensare all’accaduto, ho ancora quella immagine impressa nella mente, così chiara, così netta. Neppure il rintocco della campane che segnano la mezza riescono a distogliermi da quella sensazione di solitudine. Cerco di alzarmi con la poca forza che mi è rimasta in corpo e, dopo essermi lavato, scaldo la moka del caffè, quella di sempre. In tutta la stanza si sprigiona un leggero aroma d’Oriente, dal sapore un po’ amaro, come la mia vita in quell’istante. Mi aggrappo alla sedia con uno sforzo disperato e quasi, un attimo di mancamento. Oggi è Domenica, non ho neppure la distrazione del lavoro, penso. In quel particolare momento della mia vita, infatti, sono conosciuto da tutti come un semplice scrittore. Accendo la radio per ascoltare il notiziario: una parte di me non ha più voglia di accettare quella stressante circostanza, anche se nella testa si ripetono continuamente le stesse parole e scene e quanto darei per tornare indietro e cancellare tutto! Con un gesto felino e istintivo spengo la radio per far prevalere il silenzio ai tormenti. Mi chiedo, forse inconsapevolmente, cosa ne sarà di me, della mia vita, di mio fratello Giorgio. Solo ora capisco quanto i nostri progetti fossero irrealizzabili e come il nostro futuro si sia 64 rivelato esser solo un’illusione. Un’eterna illusione dei sensi che non avevo mai considerato prima d’ora e dunque, cosa mi resta davvero da vivere? Basta chiacchiere, sono solo parole al vento. Non penso più a niente, mi lascio tutto alle spalle e mi vesto con le prime cose che trovo nell’armadio e, senza badare al tempo che scorre, esco di casa alla ricerca di qualcosa che neppure io so ben cosa sia. L’aria fredda e tagliente mi accarezza i capelli neri e la barba incolta, segno del momento che fugge, e, penetrandomi fino alle ossa, mi sveglia e ghiaccia al tempo stesso. Procedo per la mia meta e, sprofondando con i piedi nella soffice neve, come un cane abbandonato, percorro tutta la St. Paul Street. In quell’istante mi avvicino ad una scena che osservo incantato, ma con un po’ di malinconia e di invidia. Di fronte a me una famiglia al completo, composta da madre e padre che si tengono per mano e da due figli, poco più che ragazzi, che litigano. Mi piacerebbe far capire loro le occasioni che stanno sprecando inutilmente, incuranti di quello che potrebbe essere il loro ultimo litigio. Trattengo a stento le lacrime e sento una fitta al petto che mi rende il respiro affannoso per pochi secondi. Cerco dentro me stesso una sicurezza quasi introvabile e dopo essermi calmato, i muscoli si distendono, gli spasmi allo stomaco cessano. Devo reagire, così vorrebbero tutti, così vorrebbe Giorgio. Continuo il mio cammino svoltando in Mortimer Street, più stanco di prima e con una fame micidiale. Osservo l’orologio e mi accorgo solo ora di aver fatto troppo tardi, di essermi perso nei meandri più profondi di quei pensieri che non mi hanno portato da nessuna parte. Accelero il passo, sia per la bassa temperatura, che per 65 l’ora che incalza, stando sempre attento a dove mettere i piedi sul pavimento e a non scivolare a causa delle spesse lastre di ghiaccio. Darei qualunque cosa pur di non percepire su di me gli sguardi fissi dei passanti, che mi fanno sembrare un essere di altri mondi. Mi rassicuro ripetendo di aver fatto tutto il possibile per lui e di essergli stato sempre vicino. In lontananza scorgo finalmente il solito fiorista aperto e, senza chiedermelo due volte, entro per prender tempo, al caldo. Non ricordo nemmeno l’ultima volta in cui vi sono entrato. Dietro al bancone, comunque, una giovane commessa un po’ troppo insistente sta aiutando una signora a scegliere un mazzo di fiori per un regalo. Fingo di non vederla, per non sforzarmi anch’io di dare spiegazioni e, con fare brusco, prendo il primo mazzo di fiori più economico. Scelgo infatti dei crisantemi, molto colorati, i fiori preferiti di Giorgio e i più adatti a quell’occasione. Esco senza salutare. Incurante delle nubi che si estendono e che non permettono ai raggi solari di raggiungere terra, mi immagino quale potrebbe essere la sua reazione di fronte ad una mia visita e, fisso nella mente, tengo il suo sorriso a trentadue denti. Mi sento leggermente sollevato da quell’unico pensiero positivo della giornata. Mentre osservo le persone intorno a me muoversi frenetiche, immagino di percepire, allontanandomi dal corpo, la mia figura con quei maledetti fiori in mano camminare sola nel vialetto verso il cimitero, soltanto per un ultimo saluto a Giorgio, il mio caro fratello. Vengo colto da un attimo di insicurezza che mi impedisce di andare avanti e mi suggerisce di voltarmi e fuggire. Fuggire per sempre, non so dove. A volte, però, scappare non è concesso e ci sono momenti della vita in cui bisogna fare i conti con la realtà. Il mio momento quindi è giunto. 66 Più deciso che mai, supero con rapido passo la libreria preferita e uno dei bar dove ci siamo incontrati per la prima volta, dopo tantissimi anni trascorsi in punti diversi del pianeta. Mantengo sempre vivo quel ricordo, come se fosse ieri. Mi estraneo per pochi minuti da tutte quelle sensazioni che sembrano bombardarmi, quando improvvisamente, la lettura della prima pagina di un quotidiano gratuito, distribuito in quell’attimo durato una vita, mi sveglia da quell’illusione. Lascio cadere a terra il giornale, una lacrima mi solca il viso. Il cielo si rabbuia, nell’aria è percepito l’odore di foglie bagnate e, senza accorgermi di ciò che mi circonda, inizia a piovere. Dentro di me c’è solo un vuoto profondo, forse non potrà mai essere colmato da nessun altro. Proseguo la mia marcia funebre verso il cimitero e lungo quel sentiero ormai deserto, non si trova più nessuno. Si sentono solamente l’eco dei cani che abbaiano e il fischiare forte del vento. Sulla ruvida strada, abbandonato tra i rifiuti, un piccolo foglio di giornale scrive a caratteri piccolissimi «Assassinato famoso scrittore ventinovenne. Lo ricordano la famiglia e il dolore del fratello Giorgio, che non vedeva da oltre sette anni». Quelle parole, destinate forse ad essere dimenticate da tutti, come recenti cicatrici, resteranno sempre impresse nel cuore di un abile scrittore, quando si accorgerà, di fronte ad uno specchio, della sua immagine non riflessa. 67 LORENZO Melissa Gelmini Lorenzo ha spento le diciotto candeline che erano sulla sua torta settimana scorsa, quando con tutti i suoi amici ha voluto condividere il passaggio da ragazzo a uomo. In quell’istante, forse solo in quell’unico momento, si è dimenticato della sua malattia, malattia che ogni giorno lo consuma e che ogni giorno a poco a poco lo trascina in un profondo abisso. Nonostante nonni e genitori sanissimi, a Lorenzo è stata diagnosticata una rara malattia genetica neurologica che nel suo decorso prevede paralisi totale, sordità e cecità. Caso rarissimo e ancora studiato in tutto il mondo (un caso su un milione). Che sensazione si può provare quando svegliandosi la mattina e alzandosi dal letto ci si rende conto di non riuscire più a camminare come il giorno prima? Questo lo può sapere solo Lore, così chiamato da tutti i suoi compagni e coetanei. Questa terribile disgrazia non gli toglie però il sorriso che lui mostra a tutti, in apparenza da persona serena. Lorenzo è stanco, stanchissimo, non ha più nemmeno la forza di tenere un bicchiere d’acqua in mano, ma questo non gli toglie la voglia di vivere, scherzare e di apprezzare tante piccole cose che prima neppure teneva in considerazione. Lorenzo è forte. A questa nuova situazione si deve ancora abituare e deve ancora affrontare tante difficoltà che si presenteranno lungo il percorso, ma lui sa che non è solo. 68 Lorenzo abita a Lodi con sua madre, divorziata da molti anni dal padre che vede soltanto nel week-end e che vive in un’altra città. Le sue due passioni sono il Go-Kart e il calcio, o meglio l’Inter, che tifa ardentemente ad ogni partita, spesso quando ne ha la possibilità direttamente a San Siro. È cresciuto con il calcio anche se in campo non si reputa un buon calciatore, ma non si perde per nessun motivo le partitelle di calcetto a scuola o quelle organizzate tra amici. Quando pratica Karting si sente un piccolo Michael Schumacher e mentre gareggia lungo il percorso fa aumentare i battiti del cuore di suo papà, compagno di questa passione comune per l’automobilismo sportivo. Ora Lore non è più in grado di guidare questi piccoli veicoli a quattro ruote, né tanto meno può come tutti i suoi soci, così li chiama lo stesso, conseguire l’esame della patente di guida. Egli frequenta il Liceo Scientifico, anche se materie come matematica o fisica non sono mai state il suo forte. Stranamente va molto bene nelle materie umanistiche, probabilmente ultimata la terza media ha sbagliato indirizzo per le scuole superiori, ma Lore non si lamenta, anzi scherza su questa sua “difficoltà” e scelta errata. Lore aprendomi il suo cuore, un giorno mi ha confidato che teme il suo domani, non sa cosa lo aspetta, improvvisi peggioramenti del suo corpo e delle sue funzioni lo attendono dietro l’angolo; ogni tanto si interroga se valga la pena di vivere in questo modo. Proprio quando sembra che abbia toccato il fondo, mostra tutto il coraggio e la tenacia e riprende le redini della sua vita. Per la prima volta ha capito il vero significato del carpe diem di Orazio, autore latino da lui sempre mal sopportato e mal 69 tradotto, ha capito inoltre che ogni singolo minuto della sua esistenza ha un valore inestimabile e che per questo motivo deve essere vissuto intensamente e al meglio. Nonostante la certezza di non aver nessuna speranza di miglioramento, Lore riesce a trovare pure la forza per rincuorare gli altri per problemi “insignificanti” come consolare la propria migliore amica lasciata dal suo fidanzato o incoraggiare qualche compagno per recuperare un’insufficienza grave o spronare una sua amica di infanzia a continuare a fare l’arbitro di calcio nonostante le difficoltà relative a questo mondo maschilista. Ammiro questo ragazzo, grazie o per causa della sua terribile sventura mi sono davvero resa conto di quanto sia fortunata e di quanto troppo spesso mi lamenti per futilità o trascuri piccolezze, in apparenza, che rendono grande la vita. 70 LIBRI Roberta Menni Le biblioteche sono un posto magico. Ogni libro è intriso di una magia unica e speciale, che frizza, bolle e gorgoglia, pronta a esplodere come un geyser di fantasia. Il momento migliore in cui questa magia può uscire dai libri è la notte. Quando gli uomini tornano a casa e nella biblioteca – finalmente! – risuona il silenzio, dagli scaffali si leva un tenue bagliore, come un’alba appena nata. I libri fremono, le pagine scintillano, e i personaggi prendono realmente vita. Bellissime principesse fuggono dalle loro prigioni, senza l’aiuto dell’inutile principe azzurro, e si aggirano per le biblioteche in compagnia di streghe e sorellastre cattive [che poi TANTO cattive non sono]; killer spietati assetati di sangue si armano di scopetta, paletta e danno una pulitina in giro insieme ai poliziotti; i vampiri fanno amicizia con i filosofi e discutono della vita e della morte. Insomma: i personaggi si liberano dei loro stereotipi, stabiliti dagli scrittori, e si godono quelle poche ore notturne di libertà. Gli uomini non sanno di questa magia notturna e, anche se lo sapessero, a cosa servirebbe? Non ne ricaverebbero nulla di utile, anzi, molto probabilmente la faccenda diventerebbe una sorta di spettacolo mediatico, con titoli strillanti sui giornali, sedicenti maghi assetati di fama ed emittenti televisive affamate di share. Ma una sera di settembre, nel lontano 1955, un ragazzo di nome Richard si ritrovò rinchiuso nella New York Public Library… Richard non riusciva a capire come avesse fatto a cacciarsi in quell’enorme, mastodontica, colossale fregatura. Si era appisolato nel caldo pomeriggio sulla panca nel settore “Opere Filosofiche 71 Europee 1800-1850” e poi… Si era risvegliato di notte, al freddo e RINCHIUSO in biblioteca. Andò alle finestre e guardò il cielo. La notte era caduta come una pesante coltre nera, per le strade non c’era anima viva. Inutile sperare in un aiuto esterno. Doveva arrangiarsi da solo per uscire di lì. Stropicciandosi gli occhi e sbadigliando vistosamente si trascinò al centro della biblioteca, verso i banchi di registrazione. Si sedette sulle comode poltrone di pelle, esplorò attentamente il proprio naso con le agili dita e si rilassò, cercando di prendere di nuovo sonno. Si stava per addormentare di nuovo quando una figura si mosse nella galleria “Opere Per L’Infanzia”. Con rinnovate speranze di aiuto si mosse verso quel settore ed effettivamente vide qualcuno, una persona decisamente stramba. Era una giovane donna di bellissimo aspetto, vestita con un abito medievale e decisamente antiquato, che canticchiava una canzoncina mentre sistemava dei libri negli scaffali. Richard si avvicinò – un po’ tentennante perché quella donna sembrava veramente strana – e le chiese: “Scusi… Anche lei è rimasta rinchiusa nella biblioteca?” La donna lo guardò altezzosamente e gli disse: “Rinchiusa? Io vivo qui. Ma da quale libro vieni?” Richard rimase a bocca aperta, completamente spiazzato: quella donna abitava nella biblioteca? Non aveva mai sentito una simile sciocchezza. Vedendo la sua incertezza la donna spalancò gli occhi e lanciò un grido acutissimo. “Ma allora tu sei un umano!” Arretrò tremante verso un corridoio. “Non puoi rimanere qui. Vattene!” Detto questo girò i tacchi e scappò, sollevando le lunghe gonne del vestito. Richard fissò il buio in cui era sparita. Non era possibile. Venire dai libri? Che voleva dire? Era per caso una festa in maschera? Senza pensarci due volte si gettò all’inseguimento. Doveva 72 cercare aiuto, altrimenti sarebbero stati guai. Corse lungo file e file di libri, in una ricerca labirintica, seguendo il rumore dei passi della donna. Ma chi diavolo era? Sbucò nella sala lettura e si arrestò di colpo. Davanti a lui si presentavano decine e decine di stranissimi personaggi, che lo fissavano alquanto incuriositi. Alcuni vestivano abiti occidentali, altri orientali, altri addirittura indossavano delle toghe dall’aria romana. Altri ancora, decisamente inquietanti, avevano peli su tutto il corpo e canini che sporgevano dalla bocca. La cosa sbalorditiva era che alcuni avevano in mano dei giornali, arrotolati a mo’ di mazze, altri avevano in mano delle palle di carta e sembravano pronti per una partita… Di baseball. Era tutto intento a osservare da quella strana compagnia quando all’improvviso un uomo sulla trentina, con un enorme paio di baffi e un ridicolo cappello con piume, balzò agilmente sul tavolo e lo apostrofò con parole irate: “Villano! Chi siete voi per interrompere il nostro amabile giuoco?” “Fai silenzio, Charles” lo interruppe un giovane biondo. “Probabilmente proviene da un libro scritto di recente, appena inserito nella biblioteca. Cerchiamo di non creare contrasti. Io mi chiamo Dorian”. disse rivolgendosi a Richard. “Posso cortesemente chiedere di che storia fa parte, signore?” “Storia?” replicò Richard “Io non faccio parte di nessuna maledettissima storia! Questo pomeriggio mi ero addormentato nella biblioteca e al mio risveglio ero rinchiuso qui dentro, nella biblioteca! E ora non so come diamine uscire!” Quello che successe poi Richard lo ricordò sempre con terrore. Alle sue parole tutti i presenti impallidirono vistosamente. L’uomo chiamato Charles sguainò la spada e sibilò: “È un umano”, come se fosse un’orribile bestemmia. E una folla urlante si scagliò contro il povero Richard. 73 Ma che diamine succede? Pensava il ragazzo mentre correva a perdifiato nei corridoi della biblioteca. Di nuovo. Nella foga della corsa passò sotto le voluminose gonne di un gruppo di donne dall’aria seicentesca – che sollevarono parecchi strilli indignati – e travolse quelli che sembravano filosofi, mandando a gambe all’aria le loro meditazioni metafisiche. Ormai non sapeva neanche più dov’era. Gli scaffali si somigliavano tutti, uomini strani e grotteschi occupavano i corridoi, i banchi di registrazione erano presi d’assedio da animali che di solito non vivono in nord America. La biblioteca sembrava impazzita. Peggio ancora, i suoi inseguitori erano sempre più vicini. Sentiva ancora quel Charles sbraitare in francese e quel damerino di Dorian rispondere in toni sempre più acuti. Richard stava ancora correndo a tutta velocità in quello che sembrava il settore “Opere religiose” quando un enorme leone gli balzò addosso e lo spalmò sul pavimento di legno. Il ragazzo tentò di divincolarsi, ma nulla da fare: quell’animale aveva una forza incredibile. “Chissà cosa è peggio” pensava angosciato “Finire linciato da quei pazzi o divorato da questo leone?” Ma con sua sorpresa il leone non lo divorò. L’enorme felino aspettò l’arrivo degli inseguitori – Charles era sempre in testa – e poi, con voce fiera e possente, parlò. “Non toccherete questo umano.” Disse: “Lo scorteremo dal gran Re, e lui deciderà della sua sorte.” Si levarono cori di vivaci proteste da parte degli inseguitori, che non intendevano rinunciare alla loro preda. Dorian si avvicinò con fare mellifluo all’animale e disse: “Mio caro Aslan, come vedi questo è un inutile essere umano… Non vedo perché scomodare il gran Re per una questione così triviale. Possiamo occuparcene noi fino all’alba.” Aggiunse con un sogghigno. “Non se ne parla” ordinò imperioso Aslan “È capitato nel mio settore e lo gestisco come voglio io. 74 Chiederemo udienza al gran Re, e non voglio più sentire una singola protesta!” Richard stentava a credere alle proprie orecchie: il leone parlava! Parlava veramente! Era così intontito da non accorgersi neppure che Aslan aveva tolto le sue enormi zampe dalla sua schiena. Se ne rese conto soltanto quando il leone si piegò e, con molta delicatezza, lo prese per la collottola e lo rimise in piedi. Molti dei suoi inseguitori sembravano contrari all’idea di incontrare questo gran Re, e questo poteva essere un punto a suo favore: chiunque riuscisse a intimidire quel dannato Charles doveva avere una forza straordinaria e, forse, un’intelligenza superiore. Richard non si perse d’animo: nulla in quel momento poteva andare peggio. Si spolverò i pantaloni e la camicia, si riavviò i capelli e guardò Aslan negli occhi: “Sono pronto. Portami a conoscere questo gran Re”. Il leone fece un piccolo cenno di assenso, quasi divertito dalla sua improvvisa spavalderia. Quindi Aslan e Richard formarono un gruppetto con gli inseguitori e s’incamminarono lungo il corridoio delle “Opere Religiose”, attirando molti sguardi incuriositi da parte di altri personaggi. Il giovane Richard vide anche la giovane donna che aveva incontrato all’inizio della sua piccola avventura: si mordeva le unghie e lo guardava tristemente. Lui le fece l’occhiolino e passò oltre. Attraversarono diverse piccole sale di lettura e alcuni studi, e arrivarono ad una porticina nera, posta a confine tra “Opere Teatrali 1800-1900” e “Autori Greci dal VII al IV secolo”. Era una porticina piccola, senza pretese, senza una maniglia. Era ben strano che una porta non avesse la maniglia: come si poteva aprire? Sotto lo sguardo interrogativo di Richard, Aslan appoggiò la sua zampa al centro della porta e quella si aprì. 75 Affascinato da tanto mistero, il giovane entrò nella stanza senza pensarci due volte, aspettandosi chissà quali meraviglie. Ne rimase fortemente deluso: la stanza era vuota e disadorna, eccetto per una modesta sedia di legno. L’aria era freddissima e secca, respirare era una vera sofferenza. Per molti minuti non successe nulla. Tutti si limitarono a fissare la sedia. Nessuno si mosse quando una figura nera comparve dal nulla e ci si sedette sopra. Aslan, per dovere di cronaca, sussurrò a Richard: “Quello è il gran Re”. Il ragazzo si stupì fortemente: si era immaginato qualcuno un po’ più… Fisico. Quello che si era seduto sulla sedia somigliava a un buco nero: un’oscurità impalpabile, sottile e alta, che sembrava attirare tutta la luce dentro di sé. Il leone avanzò solennemente verso il gran Re, che si protese verso di lui. Per parecchi minuti bisbigliò con l’ombra, e nessuno riuscì a capire cosa dicessero. Poi l’ombra scivolò dalla sedia e strisciò verso Richard. Il ragazzo si sentì invaso da un timore irrazionale e le viscere diventarono pesanti e fredde. Non poteva più muoversi. Poi dal gran Re di allungò un braccio nero, che sembrava fatto della consistenza del fumo, e gli toccò la fronte. Il mondo si rovesciò, sfarfallò davanti agli occhi del ragazzo e divenne buio. Crollò a terra. Charles, quando vide il corpo del ragazzo a terra, s’infuriò. “Come avete osato?” Sbraitò a voce alta “Non ne avevate il diritto! Lui era un mio rivale!” Aslan ruggì davanti alla sua insolenza, ma il gran Re non fece nulla per azzittirlo. Si limitò a dissolversi nell’aria. Ma prima di sparire del tutto, nella stanza rimbombarono queste parole: “È meglio così. Non deve vedere altro. Ma prima o poi ritornerà, puoi starne certo.” Richard, quando si risvegliò sulla stessa panca nel corridoio delle opere filosofiche, non seppe cosa pensare. Non era stato un sogno, ne era sicuro. Guardò fuori dalla finestra: era mattina. Di 76 lì a poco sarebbe arrivato l’inserviente ad aprire le porte della biblioteca. Sarebbero stati guai se l’avessero trovato lì. Sogghignò all’idea di cosa potevano fargli le autorità: quella notte ne aveva viste di peggio. 77 ORGOGLIO Alberto Mercorio Da bambino Giorgio aveva un buon rapporto con il padre. Anche se quello era impegnato con il lavoro, trovava molto tempo per stare con lui e suo fratello minore. Passavano giornate pescando, intere estati nella loro casa in montagna, dove scalavano le vette più alte, divertendosi e lasciando la madre a casa, preoccupata per l’incolumità dei suoi tre maschi. Quello che li legava più di tutto era la passione per il calcio, che il padre aveva trasmesso ai figli. Andavano spesso allo stadio a tifare per la loro squadra del cuore e non si perdevano nemmeno una partita in televisione. Spesso tra i due nascevano dei dibattiti che diventavano discussioni e che poi sfociavano in vere e proprie liti per banalità, come ad esempio la formazione che l’allenatore avrebbe dovuto schierare in campo per la partita; tutto ciò accadeva tra le risate del fratello che assisteva divertito. L’infanzia passò e Giorgio diventò un uomo. Si decise che egli entrasse a far parte dell’azienda di famiglia. In poco tempo il padre, sempre più vecchio e stanco, lasciò il posto al figlio, che si trovò ad essere a capo dell’impresa. La condusse per diversi anni amministrandola al meglio. Si dimostrò essere un bravo dirigente. Andava tutto così bene che Giorgio pensò fosse tempo per la piccola ditta di fare il salto di qualità. Così investì molto tempo e moltissimo denaro. Era andato tutto come doveva andare, la parte più difficile era passata, gli sforzi diminuivano e l’azienda si stava facendo sempre più strada. Poi arrivò la crisi. Era partito tutto dagli Stati Uniti che avevano portato a fondo con loro tutti gli altri stati più piccoli. La loro attività subì la crisi. quello che doveva essere il salto di qualità si trasformò in una 78 caduta e si arrivò al fallimento. La disfatta ebbe grandi ripercussioni sulla famiglia. Il padre non sopportò che ciò che lui aveva creato dal nulla sprofondasse fino a scomparire. Sfogò la sua frustrazione sul figlio, gli diede la colpa di tutto, l’accusò di essere un incapace, l’unico responsabile dell’accaduto. Ci furono diverse litigate, entrambi esagerarono; poi Giorgio, stanco di tutto ciò, prese moglie e figli con sé e si trasferì in un’altra città, il più lontano possibile. I due non si videro più. Smisero anche di parlarsi. Da quel giorno tutti i rapporti erano stati troncati. Ed in questo modo passarono anni. Più di una volta si era cercato di far ragionare i due. La madre, il fratello, la moglie di Giorgio e persino i suoi figli avevano provato a farli riappacificare ma senza nessun esito. Gli anni scorrevano e loro invecchiavano. Il padre a causa dell’età avanzata e di una malattia, era vicino alla morte. Fu proprio questo, forse, che lo fece ragionare e lo riportò sulle proprie idee. Si accorse di quanto tempo avevano perso lui e suo figlio. Così fece quello che avrebbe dovuto fare molto prima: si fece portare il telefono a letto, dove era costretto dalla malattia, digitò il numero di cellulare che non faceva da anni ma che ricordava benissimo e aspettò. Squillò ma il figlio non rispose né richiamò. Giorgio aveva sentito gli squilli, ma la rabbia vinse e non rispose. Così lo lasciò squillare e cercò di pensare ad altro. Dopo qualche giorno egli ricevette un’altra chiamata. Questa volta era suo fratello che lo avvisava della vicina morte del genitore. Cercò di convincerlo a tornare per dargli un ultimo saluto ma egli rispose con un “No” secco. Ci pensò tutto il giorno. Poi riprese dal fondo dell’armadio una scatola in cui teneva i suoi ricordi dell’infanzia. Vide una foto sua e del padre, in cima ad una montagna, abbracciati e sorridenti. Ritornò con la mente a quella giornata e alle tante giornate simili passate insieme. Improvvisamente si rese conto che stava sbagliando 79 tutto. Uscì in fretta di casa, si precipitò in aeroporto e prese il primo aereo. Passò tutto il viaggio studiando il discorso da fare una volta arrivato. Atterrò e prese subito un taxi. Ormai sapeva a memoria le parole da dire al padre. Il taxi si fermò. Scese dalla macchina, fece un respiro e suonò il campanello. 80 GIURIDEPIZIO E LA TRIBÙ DEI LITANIAI Edoardo Monti Buio e sconfinato è lo spazio che avvolge l’astronave Rare-T. Nessuno conosce la fabbrica che secoli fa costruì questa astronave; tutti si chiedono come gli abitanti abbiano fatto a trovarsi lì, mentre alcuni studiosi passano notte e giorno a cercare spiegazioni logiche che facciano luce su questi misteriosi avvenimenti. Rare-T è un’astronave con seri problemi: il comandante, sempre che ci sia stato, è scomparso e ormai si sta diffondendo ovunque il caos; le risorse si stanno esaurendo e non si ha la possibilità di cercare altrove quello che manca; si stanno rompendo pezzi fondamentali per il corretto funzionamento della navicella e non si trova nessuno che li sappia riparare. Rare-T è talmente grande da ospitare una popolazione enorme: gli abitanti, meglio conosciuti come “ominui” sono personaggi strani, molto diversi tra loro. Si dividono in varie tribù. Il protagonista di questo breve racconto, Giuridepizo, fa parte della tribù dei “Litaniai”, celebri per le continue litanie e lamentele nei confronti di tutto ciò che li circonda. Sono una strana popolazione; ciò è dimostrato dal loro comportamento originale: le loro donne sono solite porre, con una certa regolarità, la loro testa all’interno di grandi forni e durante questa dolorosa pratica leggono riviste di attualità; gli uomini, alla mattina, impiegano molto del loro tempo a praticare un rito altrettanto doloroso: si lacerano in continuazione, con un oggetto affilatissimo, il volto, nel tentativo di strapparsi quei peli che immancabilmente crescono quando vengono spente le luci dell’astronave, per permettere il riposo. Queste tribù hanno 81 molte altre particolari abitudini, che dovrebbero essere qui annoverate, e pur non avendo il tempo necessario per parlare di tutte queste usanze, ritengo tuttavia d’obbligo accennare almeno ad un’ultima pratica, forse quella più insolita: parlo ora della cura del malato. Come per tutto il resto, anche in questa usanza tali tribù dimostrano di adottare metodi del tutto anticonvenzionali: solitamente il malato entra in contatto con degli sciamani, nella propria abitazione. Il rito di guarigione consiste nell’inserire in bocca bacchette magiche e forare poi la pelle del malcapitato con aghi trattati con strane pozioni e intrugli. Se la situazione del malato dovesse aggravarsi, si procede allora a prelevarlo dalla propria abitazione e a collocarlo in un tempio molto particolare, chiamato eladepso. In questo tempio, decine di sciamani, assistiti da altrettante vergini vestali, si dedicano dunque all’esame del paziente, tramite particolari strumenti magici. Tutti i Litaniai apparentemente hanno buone intenzioni, ottimi princìpi a cui dicono di ispirarsi. Giuridepizo si era abituato a credere a tutte queste menzogne e a vivere basandosi su pregiudizi, quando un bel giorno, cammina cammina, riuscì ad entrare in contatto con altre popolazioni, che parlavano altre lingue e pensavano in maniera completamente diversa. Capì allora che tutti i pregiudizi di cui era infarcito, generati da considerazioni sbagliate, erano crollati miseramente. Tornato a casa, Giuridepizo capii quando male avesse vissuto molte situazioni nella sua vita, quando era ancora vincolato e soffocato dai pregiudizi. Notò che molti apprezzavano e condividevano la sua nuova visione del mondo, ma che ancora moltissimi, tanti, troppi continuavano imperterriti sulla loro strada. Nulla più si sa di Giuridepizo. Ancora meno si sa della sorte della povera RareT, che sembrava ormai destinata alla rovina, e delle strane 82 popolazioni che l’abitavano, nonostante numerosissimi fossero gli sforzi degli antropologi nella ricerca di informazioni attendibili. Io Addormento “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” Albert Einstein “Cacciate i pregiudizi dalla porta… rientreranno dalla finestra” Federico Il Grande 83 SEMPRE E PER SEMPRE Federica Natali Cinque colpi di fucile. Un grido strozzato. “Ti amo”, sussurrato insieme con l’ultimo respiro, le labbra già bagnate dal sangue. Sono qualcosa di fantastico le labbra: costrette ad unirsi per dire “ti amo”, inevitabilmente separate per pronunciare la parola “odio”. Separate come loro, da tre anni ormai e per colpa del muro a causa del quale tanti avevano rischiato o addirittura perso la vita cercando almeno di vedersi, di incontrarsi, parlarsi magari e, a causa del quale, in tanti ancora l’avrebbero persa. E lei lo sapeva; lo sapevano entrambi. Ma l’amore è tanto potente da celare i pericoli, rendere imprudenti, disposti a tutto. Ora sono le labbra di lei ad essere bagnate dalle sue stesse lacrime. Sta lì, schiacciata contro quel muro che non le è mai parso così freddo, rannicchiata nell’ombra, e trema. Tiene le mani strette attorno alle gambe, strette a tal punto che riesce a sentire le unghie sulla pelle anche attraverso il rigido tessuto dei jeans, la testa sprofondata tra le ginocchia e il mento premuto contro il petto. Cosa può fare ora? Vorrebbe alzarsi, piangere e gridare come non ha mai fatto nella sua vita: gridare che lo amava e che lo avrebbe sempre amato, che non può immaginare una vita senza di lui e che ora si sente perduta. Desidera che tutti sappiano quanto grande, magnifico e importante sia il bene che le è stato appena strappato, in modo tanto crudele e disumano. Spera di poterlo toccare un’ultima volta, accostarlo a sé, stringere le sue mani così grandi eppure delicate, accarezzargli il viso per stampare in modo indelebile nella memoria i suoi lineamenti, ogni minima imperfezione o irregolarità, memorizzare il suo profumo. 84 Ma resta immobile! La cosa più logica in questo momento sarebbe strisciare nell’oscurità, sulla terra umida fino ad allontanarsi da quel maledetto muro, abbastanza da potersi alzare, correre via e salvarsi. Invece, è bloccata lì, scossa da brividi e irrigidita dalla paura, pervasa da un dolore immenso che le comprime il torace e le impedisce di respirare, consapevole che non lo vedrà mai più. Un vortice di domande senza risposta le invade la mente: perché quell’ostacolo? Cosa spinge gli uomini ad usare una tale violenza verso i propri simili, a provare un odio tanto smisurato, ad uccidere per ordine di qualcuno che a sua volta è uomo e dovrebbe possedere un’anima, un cuore, dei sentimenti? Ma dove sono i sentimenti in chi si arroga il diritto di decidere della vita di un altro, con tanta leggerezza? Travolta da questa spirale di pensieri, si aggrappa a quell’unico ricordo che le dà conforto: torna con la mente al giorno in cui l’aveva conosciuto, impacciata e insicura come al solito, nell’avvicinarsi gli aveva pestato un piede. A quel punto aveva esitato, convinta di aver rovinato tutto. Ma si sbagliava. Lui l’aveva guardata, o forse gli occhi di lei avevano incrociato i suoi, sinceri, profondi, inspiegabilmente capaci di leggerle l’anima e sollevarla per un attimo dal grave fardello dei segreti. Lei gli aveva sfiorato la mano, o forse le dita di lui si erano intrecciate alle sue, mani così piccole dentro mani così grandi, strette come se in quel contatto si fosse concretizzata la magica armonia, che fa ordine sotto l’apparente caos del mondo. Lui allora l’aveva baciata, o forse le labbra di lei si erano dischiuse per accogliere quelle di lui, lievemente e senza fretta. Non era stato un bacio passionale, pieno di slancio o struggente 85 come quelli dei film d’amore. Era stato piuttosto un bacio “piccolino”, leggero, tenero e a dire la verità anche un po’ umidiccio, ma in quell’atto era racchiuso un sentimento profondo, sincero e smisurato. Un gesto, in fondo, così lieve aveva generato qualcosa di sconvolgente, come il battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano dall’altra parte del mondo. In quel bacio quasi accennato erano racchiusi, in realtà, un’immensa gioia presente e tante speranze future, sogni, desideri, la prospettiva di una vita da trascorrere serenamente insieme, con la promessa di stare l’uno accanto all’altra ad ogni costo. Era questo che stavano cercando di fare: stare insieme ad ogni costo, nonostante il muro a separarli, senza badare ai rischi, perché, anche se solo per poco tempo, la vita insieme a chi si ama è più bella. Ma quel sogno ormai è spezzato, mandato in frantumi dalla prepotenza, dal desiderio di sopraffazione e da regole che, invece di tutelare l’uomo, lo schiacciano e annientano i suoi sogni e le sue speranze. Così resta ferma, incurante delle sentinelle che si avvicinano a passo svelto; la prendano pure, la gettino in una cella buia, fredda e isolata. Non ha più motivo di cercare la libertà, là fuori, dove impera l’ingiustizia; libertà per lei è rifugiarsi in quel ricordo dolcissimo, che nessuno le potrà mai strappare. E mentre con violenza la trascinano via, lei sorride. 86 UNA GIORNATA D’OTTOBRE Camilla Paccanelli Era una calda giornata d’ottobre, anomala per il clima lombardo, in particolare a Bergamo. Eravamo montate in sella ai motorini e con il sole in faccia e l’aria fresca che ci scompigliava i capelli c’eravamo dirette verso l’ospedale. Il giardino dell’ospedale era colmo di persone che passeggiavamo con i propri parenti malati, chiacchieravano, sorridevano, ma in quell’atmosfera che a me, forse per la luce e il tepore di quel giorno, sembrò onirica, si percepiva anche tanta amarezza. Ci fermammo davanti al pannello e mentre la mamma attraverso le indicazioni cercava il padiglione giusto, io osservai la fontana nel centro del giardino; non ci avevo mai fatto caso a quella bella fontana, imponente e antica posta al centro dell’ospedale con l’acqua che in quella bella giornata sembrava quasi essere argentea. Mentre fantasticavo guardando quella costruzione tanto elegante e sinuosa, sospesa in un’altra dimensione in cui il tempo forse si era fermato fui risvegliata dalla voce della mamma “Neurochirurgia, eccolo, andiamo ragazze”. Camminavamo veloci, di fretta, come se non avessimo più abbastanza tempo, guardando per terra senza alzare la testa. Arrivate, salivamo le scale in modo diverso: più lento, rallentato come se giunte quasi a destinazione non fossimo più così sicure di volerci davvero arrivare, spaventate da quello che avremmo potuto vedere perché purtroppo la realtà è sempre dolorosa. Davanti alla porta del reparto ci fermammo, tirammo un gran respiro e guardandoci negli occhi ci facemmo forza l’un l’altra. Il corridoio era luminoso e dalle camere venivano rumori di affetto e dolore, di gioia e di compassione. Davanti alla camera della zia c’era un 87 crocchio di persone, riconobbi i miei cugini, le mie zie: la mia famiglia. I volti stanchi e afflitti alla nostra vista si aprirono in un sorriso. Mia sorella ed io entrammo nella stanza la zia sdraiata nel letto conversava con sua madre, la mia bisnonna. “O Nanì, guarda che bello sono arrivate le bambine!” Esclamò la nonna e la zia si illuminò in un sorriso e nonostante fosse gonfia e con pochi capelli, i tratti della sua bellezza passata non erano ancora sfioriti e gli occhi vivaci erano quelli di sempre. Dopo essersi tirata su disse: “Finalmente vi vedo meglio”. Incominciammo a chiacchierare normalmente raccontando della scuola, degli amici e man mano si scherzava entravano le altre zie, la mamma, mia cugina e in poco tempo ci ritrovammo tutte lì intorno al letto a ridere della vita. Le donne della famiglia con i tratti simili e marcati ma il carattere tanto diverso, quattro generazioni riunite nella speranza che un domani ci sarebbe stato. Ma la bisnonna accanto al letto taceva mentre accarezzava la figlia, osservava quelle “figlie” che bene o male erano tutte frutto del suo sangue, lei capostipite della tribù, saggia e forse più lucida e razionale, dai suoi 95 anni sapeva già come sarebbe andata a finire. Ma nascose dietro gli occhi l’amarezza, ascoltò le chiacchiere, sorrise ma non disse niente, sapeva che un giorno o l’altro si sarebbero rincontrate tutte da qualche parte. 88 L’UOMO, LA GUERRA E LA PIANTA Nicola Paris L’uomo era stanco, stanchissimo. Era stanco di tutto: di camminare, di mangiare e di respirare. Era stanco anche della guerra. C’era da sempre la guerra. Una volta aveva chiesto al suo sergente, un vecchio magro, pallido e dagli occhi vuoti, se ricordava in tutta la sua vita almeno un giorno senza guerra. Il sergente rispose stancamente che no, non ricordava un giorno senza guerra, neppure quando era un bambino e che secondo lui c’era sempre stata. E così l’uomo continuava a marciare, a sparare e a uccidere. Non che la cosa lo toccasse più di tanto: ci aveva fatto il callo lui, come tutti del resto. Nessuno ricordava più le cause che avevano portato alla guerra. Ormai si andava avanti per inerzia. L’uomo andava in guerra per tre semplici ragioni: la prima era che lo facevano tutti, la seconda era che non sapeva fare nient’altro e l’ultima era che non riusciva a pensare a un’esistenza senza guerra. D’altronde una vita, seppur breve, trascorsa nello stesso paesaggio e con persone identiche a te, alla lunga atrofizza la mente. L’uomo, da quando era nato, dovunque volgesse lo sguardo non vedeva altro che divise verdi (anche lui ne indossava una) e macerie, tanto che ormai si era convinto che il mondo non fosse altro che un’unica, immensa e polverosa distesa di macerie. Col tempo era diventato insensibile a tutto: al caldo e al freddo, alla fame e alla sete. Nemmeno il soffrire e il morire lo turbavano. C’era solo una cosa che ancora toglieva l’uomo dal suo stato di apatia: la paura. Non la sua paura ovviamente. L’uomo non sentiva paura, non sentiva niente. La paura che lo incuriosiva era quella che poteva prendere 89 all’improvviso alcune delle nuove reclute, venute a occupare il posto di quelle cadute. Sembravano tutte uguali a lui, quando all’improvviso uno non riusciva più a muoversi, o tremava violentemente o si metteva a urlare o peggio ancora si pisciava nelle brache. E il tutto senza un valido motivo. L’uomo trovava il tutto molto bizzarro e imbarazzante. Un giorno noioso e sporco come tutti gli altri, in altre parole sparare, chinarsi, correre e ancora sparare, gli capitò una cosa molto strana. Si era buttato in buca per evitare una raffica e solo dopo esserne uscito si era accorto che nel suo riparo c’era già qualcuno. Era una di quelle reclute nuove, con un brutto squarcio nel petto e gli occhi sbarrati. Tremando tutto fece cenno all’uomo di avvicinarsi. Prendendogli la faccia tra le mani, lo costrinse a guardarlo, poi gli accostò le labbra all’orecchio. “Basta – sussurrò – basta!” Detto ciò spirò. L’uomo era perplesso. Basta che cosa? L’unica cosa che in quel mondo tutti si chiedevano se sarebbe mai finita era la… No, impossibile. Era assurdo anche solo pensarlo. La guerra non poteva finire. Non esisteva niente che non comprendesse la guerra. O almeno, rifletté, lui non conosceva una realtà estranea alla guerra. Dopo anni di vita lineare e senza via di sbocco, il dubbio che potesse esistere un’altra vita lo turbò più di tutti gli orrori a cui aveva assistito indifferentemente. “E se mi fossi perso qualcosa? – si chiese – qualcosa di migliore?” La tristezza si aggiunse alla stanchezza e i suoi occhi erano più vuoti che mai. Poco tempo dopo l’uomo stava correndo tra i crateri delle esplosioni, quando intorno a se non vide altro che bianco e silenzio. L’uomo si schiarì la vista e si trovò disteso a terra con sopra di sé nient’altro che il cielo plumbeo. Provò ad alzarsi, ma capì che ormai il suo corpo era spezzato per sempre. Smise di lottare e lasciò cadere la testa di lato e fu allora che l’uomo la vide. Era tra le macerie, tra lastre di cemento crollate una sopra 90 l’altra. Era una pianticella. Piccola, esile e di un verde molto acceso, mai visto prima. Non dubitò per un solo istante che quella cosa fosse proprio una pianta, anche se non ne aveva mai vista una prima. ricordava di averne visto le illustrazioni da bambino. L’uomo strisciò faticosamente fino a raggiungerla. “Che bel colore” pensò. Si tolse la maschera antigas per vederla meglio. Osservandola con i suoi veri occhi pensò che fosse bellissima. Poi pianse, perché capì che non era solo la cosa più bella che avesse mai visto, ma soprattutto era l’unica cosa bella che avrebbe mai visto in vita sua. Voleva restare per sempre lì a guardarla, sfiorarla, annusarla, sentirla perché capì che in quel mondo lui aveva trovato una cosa bella, qualcosa di diverso dalla guerra. Un sorriso gli increspò le labbra: ora, infatti, capiva le parole della recluta. Adesso però doveva alzarsi e urlare perché anche gli altri dovevano sapere! Dovevano sapere! Dov… sape… re. I suoi commilitoni lo trovano disteso a terra, prono, con un braccio allungato a sfiorare un piccolo oggetto, di colore verde. Una recluta più curiosa delle altre si chinò per capire cosa fosse il piccolo oggetto. Restò ferma a guardarla. Alcuni uomini notarono lo strano comportamento della recluta. Si avvicinarono, videro l’oggetto che incuriosiva tanto la recluta e si chinarono per esaminarlo. Altri uomini arrivarono per vedere la piccola pianta e altri ancora ne sarebbero arrivati. Era la cosa più bella che avessero mai visto. 91 NOTTE STELLATA Roberta Perico Quella notte c’era qualcosa che mi turbava, continuavo a rigirarmi nel letto ma non riuscivo proprio a prender sonno. Mi alzai, presi il mio cappotto e, facendo molta attenzione a non svegliare nessuno, uscii di casa. Era Dicembre e il freddo si faceva sentire ma incantata dalla quiete del mio piccolo paesino iniziai a camminare. Non sapevo verso dove ero diretta né che cosa mi avesse spinto a inoltrarmi in quel gelido deserto notturno ma non riuscivo a fermarmi. Ad un certo punto mi ritrovai nel parchetto in cui ero cresciuta, decisi allora di sedermi sul prato ricoperto di brina e alzai gli occhi. Il cielo era meravigliosamente stellato, mi incantai. Improvvisamente spuntò un’anziana signora la quale prese posto accanto a me e iniziò anche lei a scrutare il cielo. La osservai: sarà stata sulla settantina, capelli grigi e lunghi, con una faccia rotonda e occhi grandi in cui si riflettevano tutte quelle stelle, aveva abiti trasandati e accanto a sé una grande borsa: pensai fosse una vagabonda. Dopo qualche minuto di silenzio iniziò a parlarmi: “E così sei tu la prossima!” La guardai un po’ stranita. “Prossima di cosa?” E quella ridendo tirò fuori uno spemi agrumi, delle arance e mi disse: “Vuoi una spremuta d’arancia? Fa bene in questo periodo dell’anno.” La guardai sempre più sconvolta. A quel punto la donna riprese a parlare: “Sai, anche io tanti anni fa mi trovai nella stessa situazione. Anche io la prima volta ero turbata, non capivo, era assurda quella irresistibile attrazione verso le stelle ma vedrai che col tempo l’attrazione aumenterà sempre di più e… Un giorno capirai!” Allora risposi: “Capirò cosa? Non posso passare tutta la mia vita sperando di capire chissà cosa! E poi cosa succederà, 92 cambierà qualcosa?” E la barbona: “Ci deve essere sempre qualcos’altro vero? Mi fa sorridere sentire ancora queste tristi parole. Ma d’altra parte anche io a mia volta chiesi le medesime cose. Allora ti risponderò come risposero a me: Osserva le stelle: non ti ricordano niente o nessuno? Un giorno capirai e allora sarai pronta come ora lo sono io. Arrivederci giovane ragazza!” Il mio sguardo non lasciò la sua figura nemmeno un secondo. La vidi allontanarsi fino a quando raggiunse il fiumiciattolo che passava accanto al parchetto. Estrasse un pugnale dal suo borsone e cadde a peso morto in acqua. Istintivamente alzai gli occhi al cielo: le stelle non avevano brillato mai di una luce più intensa. 93 IL PEDRETTI Francesco Pierotti “Il Pedretti”. A questo nome seguiva sempre un sospiro dalla maggior parte delle ragazze, solamente il ragazzo più desiderato della scuola. Al solo pensiero del Pedretti, la Valli sbottava, si arrabbiava, diventava intrattabile: nati nello stesso giorno, nello stesso ospedale, sin da piccoli frequentavano le stesse scuole, ma sempre in sezioni diverse e separati da un immenso muro invisibile. Da secoli ormai il Pedretti si sentiva ripetere le stesse cose: “È bravo, ma non si applica”. Geniale, risolveva problemi di algebra e traduceva versioni di latino senza problemi, quando era in forma, mentre nei momenti in cui lo studio passava in secondo piano, fioccavano brutti voti. Dal canto suo la Valli non prendeva mai voti sotto il nove, tranne ovviamente in educazione fisica, materia in cui, grazie alla sua abilità calcistica, il Pedretti eccelleva. Le ragazze, vedendolo sempre con quel look da bello e dannato, impazzivano per lui, anche se aveva una storia molto tormentata con la Giulietta della C, la più bella ragazza che la scuola ricordi, altra persona odiata dalla Valli. Nei loro anni di convivenza forzata dentro le mura scolastiche, l’odio della Valli nei confronti del Pedretti cresceva sempre più, mentre l’altro non si ricordava nemmeno dell’esistenza della giovane, che passava nel triangolo casa, scuola e biblioteca. L’ultimo anno delle superiori, maturità classica, si concluse con un exploit del Pedretti che, messa un po’ la testa a posto, uscì con una valutazione brillante, mentre alla Valli, che dall’alto del 94 suo cento e lode prediceva un futuro senza successo per il ragazzo, si aprivano le porte dei migliori college mondiali. Venti anni dopo, il Pedretti, messa definitivamente la testa a posto, era diventato un avvocato di successo, conduceva una vita agiata e, sposatosi con la Giulietta, aveva due stupende bambine. Una sera rincasando, dopo aver cenato e messo a letto le figlie, si sedette sul divano e accese la televisione; casualmente sintonizzandosi su Canale 5, vide la cosa che odiava di più, dopo l’Inter: il Grande Fratello. Il desiderio di cambiare canale fu bloccato da un volto conosciuto, una faccia non ignota, ma nell’ultimo contesto in cui potesse pensare che ci fosse. La scritta in sovrimpressione non mentiva; era la Valli, o almeno una sua mutazione degenerata: ingrassata di almeno 30 kilogrammi, i capelli diventati rossi accesi, vestita con un orrido tubino verde acido. “E io che la immaginavo al CERN, alla NASA, in qualche organizzazione speciale per geni!” Pensava il Pedretti, stupito e shoccato dalla scoperta. I dettagli che erano rivelati erano sempre più impressionanti: lasciato il corso di laurea al MIT, si era data a fese e alcol che le avevano dilapidato il patrimonio che i suoi le avevano dato per l’esperienza a stelle e strisce, ed era entrata nella casa per cercare la notorietà necessaria a vivere di rendita il resto della sua esistenza. Che cosa sarà mai successo alla vita di questa donna? Come mai è diventata così? Quale evento l’ha portata così lontano dalla strada che la scuola aveva tracciato per lei? 95 SORPRESA Claudia Radici Intorno tutto era buio. Sentiva solo il proprio respiro ed il ticchettare del suo orologio. Erano ancora le 16:45. Quanto ci voleva ancora? Tutti erano immobili, facevano solo un lento brusio. Erano bravissimi quei ragazzi. Come potevamo resistere così a lungo? E con quel caldo poi. Era madido, la camicia gli aderiva al torace. Il salotto, visto così, con tutte le tapparelle abbassate, aveva un’aria insolita, innaturale. Sentì un’automobile entrare nel viale allora Giorgio si alzò e disse a bassa voce: – Mi raccomando sta arrivando, state pronti. Si aprì la porta, era Elena. Tornava da una lunga giornata di lavoro ed era molto stanca. – Ma che succede? Giorgio sei impazzito?! Hai lasciato tutto chiuso con questo caldo! – Oh! Cara, sei tu? – le disse abbracciandola. – Sorpresa signora Rossi, sorpresa! – le urlavano, saltando fuori da tutte le parti, i bambini del vicinato. – Ma caro, cosa stiamo festeggiando? Gli si avvicinò, lo prese per un braccio, e sorridendo per cercare di nascondere la sua irritazione, gli ripeté la domanda: – Caro, cosa stiamo festeggiando? La guardò stupito, per un attimo rimase in silenzio. – Stai scherzando… No, tu te ne sei scordata! Cielo Elena! Ma come hai potuto? Oggi è il compleanno di Filippo! 96 – Filippo? – provò a ripetere, ma subito si portò la mano alla bocca, quasi spaventata da quello che aveva appena detto. – Certo, per nostro figlio Filippo… Lo fissò impaurita, poi corse in bagno piangendo. Giorgio si sforzò di restare calmo. – Falso allarme. Tornate ai vostri posti, vi dirò io quando uscire. Elena si guardò allo specchio, le lacrime stavano sciogliendo lentamente il suo trucco. I capelli, normalmente sempre in ordine, avevano solo perso la loro armonia. Non riusciva a ricomporsi, a smettere di piangere. Suo marito era impazzito. Definitivamente. Le poche speranze che aveva avuto di riuscire a condurre una vita normale si erano dissolte. Cosa ne sarebbe stato di lui? E di lei? Cosa avrebbero fatto? Era ancora così giovane! Bussò alla porta – Cos’hai? Stai bene? – Disse con un tono dolce – Elena, vieni di là con noi… Dal bagno si sentì un pianto trattenuto a stento. Elena era ancora in lacrime. – Giorgio, hai organizzato un’altra festa per Filippo… Ma Filippo è… Oh Dio! – poi urlando – Ma Filippo, Filippo è morto, MORTO! – Restò un attimo in silenzio, poi continuò parlando tra i singhiozzi. – Devi fartene una ragione, non è stata colpa tua, né mia… – riprese fiato – Ma Filippo è morto. Morto e basta. La vita continua a deve continuare anche per te! 97 – Cara, tu non ti senti bene... Vuoi che chiami un medico? Forse hai un’altra ricaduta…Ti sei ricordata di prendere le pillole? Il dottore l’aveva detto che sarebbe potuto accadere di nuovo, ma io non potevo credere che tu, tu… La porta si aprì di scatto, erano faccia a faccia ed entrambi sconvolti. – Tu pensi che io…IO! – disse urlando tra le lacrime – Sia pazza? Il dottore? Le pillole? No caro Giorgio, sei tu che… – fu interrotta da un baccano infernale che veniva dal soggiorno. I bambini erano tornati a correre e saltare. Stavano gridando: – Sorpresa Filippo, sorpresa! Tanti auguri, tanti auguri! Elena guardò il marito che cercava d’abbracciarla. – Su cara, non fare così, vedrai che tutto passerà. Il dottore saprà aiutarti… – Non sono pazza, non io… Tu… – lo indicava con l’indice – Filippo è… Mio dio, morto da due anni ormai. Sei tu che non lo accetti, non lo hai mai accettato – ormai stava urlando, cercò di calmarsi. – Io sto bene... Anche oggi sono andata a trovarlo al cimitero. Dovresti venirci anche tu… Forse ti farebbe bene, ricominceresti a vivere. Non come fai ora… Giorgio restò calmo ed accondiscendente. – Ma se sono pazzo – usò un tono quasi di sfida – Chi è arrivato di là allora? Ed increspò le labbra in un leggero sorriso. Andarono in soggiorno insieme, ma lì trovarono solo i bambini che giocavano. – Non avete mica visto Filippo, vero? – lo disse cercando di sembrare normale, si era anche lavata il viso per non fare vedere di aver pianto. – Sì, signora Rossi, è salito al piano superiore. 98 Impallidì. Insistette per andare da sola. Salite le scale, provò a chiamarlo. – Sono qui. – rispose una voce che veniva da dietro una porta, quella della camera di Filippo. Era rimasta chiusa da quando Filippo era morto. Questo pensò Elena mentre apriva la porta. La stanza era in penombra, la persiana chiusa filtrava dei raggi di sole che illuminavano alcuni giocattoli inanimati in un angolo. Seduto sul letto c’era un bambino. – Filippo? – Sono io… – Paolo? Cosa fai nella camera di tuo cugino Filippo? – urlò irritata. Il bambino restò un attimo in silenzio, poi cominciò a piangere. – Rispondimi! – Zia sai… Lo zio Giorgio era così triste che io… Ecco, io gli ho fatto credere di essere Filippo, gli ho detto che ero tornato da voi per rimanere insieme per sempre – disse il bambino fra le lacrime – E… E lui mi ha creduto subito, mi ha detto di venire qui dopo scuola, mi voleva fare una sorpresa. Non volevo farti arrabbiare zia, ma lui era così triste e io… – Ora basta! Lo sapevi che lo zio sta male, non dovevi prenderti gioco di lui. Così peggiori solo la situazione! Poi lo guardò piangere sommessamente, cercò di calmarsi, si avvicinò e gli passò una mano fra i soffici capelli a caschetto. – So quanto vuoi bene allo zio e quanto ne volevi a Filippo ma lui è morto e non tornerà più. Mai più. Lo zio questo deve accettarlo, altrimenti non guarirà mai. – Si fermò un attimo a riflettere. 99 – Comunque ormai è fatta, torniamo giù, dai, c’è una festa da onorare. E guardandolo negli occhi – Per oggi tu sarai il nostro Filippo! – Lo prese per mano. Filippo scese dal letto, si asciugò le lacrime su una manica e con un gran sorriso seguì la sua povera madre malata. 100 LA SIGNORA CON IL CAPPELLO BLU Eleonora Tischer Quella mattina ero terribilmente in ritardo: avevo cinque scarsissimi minuti per lavarmi, vestirmi e preparare le cose per andare al lavoro. Uscii di casa ringraziando il cielo di avere una porta a scatto che si sarebbe chiusa senza bisogno di perdere tempo con le chiavi. Scesi le scale tre gradini alla volta e mi precipitai all’uscita salutando distrattamente la portinaia che mi stava tenendo aperta la porta con quel suo solito sorriso cortese. Percorsi il marciapiede di corsa passando davanti al bar che emanava quel soffice profumo di brioches calde e caffè. Eccola. La signora con il cappello blu. Non pensavo di stupirmi nel vederla: dovevo aspettarmi che fosse lì, erano già le otto. Sicuramente era entrata 15 minuti prima, accostando delicatamente la porta che, con un campanellino, aveva avvisato i clienti del suo ingresso come fosse un cerimoniale. Avrebbe salutato la barista con il suo dolce sorriso e si sarebbe seduta là, a quel tavolino dove le vetrine formavano un angolo trasparente offrendo una fantastica vista sull’incrocio cittadino. Barbara da lì a poco le avrebbe portato le solite due tazze di tè, senza bisogno che gliele si chiedesse. Conoscevo a memoria ogni suo movimento, ogni suo gesto… Ma, nonostante tutto, quello sguardo mi imprigionò. Non l’avevo mai osservata da fuori, dalla strada. Non avevo mai notato come quello sguardo fosse sognante, in attesa e così calmo.. Continuai a camminare verso l’ufficio cercando di accelerare il passo ma il mio pensiero non riusciva a liberarsi da quegli occhi. Arrivai in ufficio e mi misi a spostare pile di fogli da una parte all’altra della scrivania senza 101 alcuna logica. “A cosa pensa? Non ha altro da fare? Forse è solo matta” pensai. La mattina seguente andai al bar per la colazione, mi sedetti al bancone ed ordinai una tazza di tè. Poco dopo, puntuale, entrò. Salutò, si sedette al solito tavolo e cominciò a sorseggiare il tè bollente, incurante della seconda tazza che appannava il vetro con il suo fumo biancastro. Quando ebbe finito appoggiò delicatamente i gomiti sul tavolino, intrecciò le dita tese e vi pose il mento, perdendosi nei suoi pensieri. Oltre a quel vetro la città si muoveva frenetica: un turbinio di macchine, biciclette, autobus, grida, lo stridore della gomma sull’asfalto.. la strada era costeggiata da eleganti e raffinati palazzi stile liberty ed al centro dell’incrocio si innalzava una splendida fontana. Ma la signora con il cappello blu sembrava non guardare affatto tutto quello che le si presentava di fronte. Il suo sguardo si spingeva lontanissimo. Il tempo in lei si fermava. Nessuno poteva dire quanti anni avesse, forse meno di quanti ne avesse trascorsi davanti a quella finestra: il suo orologio girava stando fermo. Mi alzai e, senza esserne troppo cosciente le chiesi: “Potrei sedermi?” “Quella sedia è occupata” rispose educatamente. Con la delusione dipinta sul volto uscii dal locale. Il giorno dopo decisi di scoprire qualcosa su quella donna misteriosa che aveva rapito ogni mio pensiero. Mi alzai con fare deciso e posizionai una terza sedia accanto al tavolino e mi sedetti. Non distolse lo sguardo dal vetro, troppo concentrata nel non fissare nulla in particolare, ma sorrise. Restammo in silenzio per un po’, poi me ne andai. Per qualche giorno quella seconda tazza di tè ebbe un apparente proprietario anche se non mi azzardai mai a toccarla. Restavamo così, senza parlare, osservando la frenesia del mondo 102 là fuori e l’infinita calma dentro di noi. Un giorno, all’improvviso parlò: ‘Tornerà, lo so che tornerà. – Ci vediamo al bar per colazione, mi vedrai arrivare. – Così mi ha detto prima di correre via… Correre… Tutti corrono… Chi non corre sembra quasi pazzo. Tutti sanno che la vita è solo una briciola di eternità e tutti corrono per viverla al meglio… E così non godono di nulla. Bisogna trovare un motivo per cui fermarsi ogni tanto. Tu hai l’hai mai cercato?’ mi guardò. Il fiato mi si bloccò in gola. Quegli occhi azzurri avevano visto in me qualcosa che non sapevo di provare. Cosa stavo aspettando? Ero davvero lì per conoscere i segreti di un’estranea? Quella sua calma mi aveva stregato… Che senso aveva la mia vita? Correre senza sosta al lavoro, ed addormentarmi tardissimo la sera… Per cosa? Quella domanda mi aveva risvegliato da un sonno che durava da tempo. La vita mi trascinava in uno stato di trance, senza che fossi cosciente di cosa stavo facendo e soprattutto del perché. Vivevo dormendo un sonno profondo, criticando la calma di chi vive intensamente. Quel giorno uscii dall’ufficio e mi sedetti su una panchina di quel parco che guardavo distrattamente ogni mattina. Assaporai l’odore dell’erba, lo scricchiolio delle foglie secche sul selciato, gli alberi colorati d’autunno. Il giorno seguente entrai nel bar sperando che la signora con il cappello blu fosse già seduta al suo tavolo, ma di lei non c’era traccia. Appoggiai il cappello all’appendiabiti alle mie spalle. Barbara mi si avvicinò sorridente: “Per lei le solite due tazze di tè signora?” Mi colse un dubbio angosciante: guardai dietro di me. Un cappello blu. Che mi fossi immaginata tutto? Che quella donna 103 fosse solo frutto della mia immaginazione? Che quella donna... Fossi io? Guardando dall’esterno di una vetrina avevo colto l’interiorità di qualcuno che, pur vedendo ogni giorno, non conoscevo. Ma se fossi stata io? Finalmente ero entrata in me stessa, avevo capito cosa mi mancava per essere felice, insomma, mi conoscevo. E in tutto questo ero stata aiutata da null’altro se non la mia allucinazione? Posai lo sguardo sulla sedia accanto a me… Così reale… Possibile che fosse solo un sogno? Poi lo vidi. Un foglio di giornale. Il titolo in prima pagina diceva: “Dopo mesi riabbraccia la moglie”. Poco più in basso la fotografia di un uomo sorridente che abbraccia una signora con il cappello blu. 104 CAPGRAS Zeno Toppan Non so come mai questo mi sia successo. Ma sono finito in uno di quei nuovi e stupidi Reality Show della gioventù moderna. Una generazione bruciata dalla televisione, dai computer e da chissà quant’altro! Lo sapevo, lo sapevo io che l’inquinamento atmosferico ci avrebbe resi tutti rincitrulliti! Ho anche sporto denuncia tramite un avvocato! Ma poi ho scoperto che come tutti gli altri era un sosia del mio vero avvocato, il Signor Moi! Tutto è iniziato in una calda giornata di Agosto. Vivevo da solo da ormai dieci anni, mia moglie era venuta a mancare troppo presto e con lei una parte di me se ne era andata per sempre. Non avevo mai avuto problemi col vicinato e, in sessanta anni di vita passati lì, nessuno era mai venuto a rubare in casa mia. Ma quella mattina, quando mi svegliai, scoprii che tutti i miei oggetti, dalle foto alle posate, dai soprammobili ai mobili, erano stati rubati e poi sostituiti con delle copie perfette degli originali! Ricordo che mi chiesi quale individuo malato, bruciato dalla musica house e dai programmi di Maria De Filippi, potesse avere architettato un piano così perverso! Chiamai subito il numero di mia figlia, le chiesi di venire il prima possibile, senza spiegarle la causa, e nel giro di venti minuti il campanello di casa suonò. Quando aprii la porta vidi un sosia perfetto di mia figlia: stessi occhi verdi, stesse labbra disegnate da un’ombra di rossetto e da quel suo sorriso apprensivo. Ma non era Lei, non era mia figlia, lo sapevo! 105 – Papà... – Mi disse con la voce della mia piccola Angela. – Stai bene? – Tentò anche di afferrarmi il bastone da passeggio e di farmi sedere, quell’impostora! Ma gliela feci vedere io: due sberle in faccia e una bella lavata di capo era quello che servivano per raddrizzare chi tentava di imbrogliare un povero vecchio! – Vattene! Disgraziata! Impostora! – Ed urlai fino quando la mia finta figlia non si allontanò. Spiai fuori dalla finestra: ogni mio vicino era stato sostituito da un attore che recitava perfettamente la parte. Maledetti Reality Show! Oggi ci finisci dentro senza che nemmeno ti venga fatto fare uno straccio di firma su uno stramaledettissimo documento! Cominciai a prendere gli oggetti finti che erano diventati inquilini abusivi della mia casa e, per tutto il giorno, li buttai fuori dalla finestra finché non rimasero solo il mio letto, il frigo e qualche cosa per cucinare che, anche se non erano miei, mi servivano. La mattina seguente presi la macchina e guidai fino all’ufficio del mio avvocato. Un amico di famiglia da anni, l’unica persona di cui mi potessi fidare. Quando misi piede nel suo ufficio me ne accorsi immediatamente. – Chi è Lei? – Abbaiai puntando il bastone da passeggio contro il sostituto del Signor Moi. – Giulio, stai bene? – Con una finta espressione preoccupata l’attore si avvicinò un po’ troppo per i miei gusti, così gli diedi una bella legnata sulla testa, talmente forte che lo stesi. Ben gli stava! L’ochetta della sua segretaria chiamò la polizia, io tentai di farla ragionare, di farle capire che in realtà quello non era il Signor Moi ma solo un impostore. Non mi credettero né lei, né il grosso poliziotto barbuto che mi portò in centrale. Mi disse che avevo diritto al mio avvocato e io gli risposi che non avevo idea di 106 come rintracciarlo e lui, sbuffando esasperato, me ne procurò uno d’ufficio. La mia finta figlia pagò la cauzione e il giorno dopo fui portato in ospedale e mi fecero fare una serie di test ed analisi ridicoli. Si vedeva lontano un miglio che quei signori col camice bianco non erano dei veri dottori! Che le infermiere non erano preparate e che le attrezzature erano fasulle! Dopo ore, forse giorni, mi fecero sedere su una comoda poltrona e un attore dall’aspetto eminente e austero mi sorrise dall’altra parte della scrivania. Maledetti attori! – Signore, le è stata riscontrata la sindrome di Capgras... – Mi disse, leggendo una cartella falsa. – E che roba sarebbe!? – Ringhiai. Nessuno di quegli impostori mi avrebbe intortato recitando un copione! – È un disturbo psicotico a base delirante, è probabilmente dovuto al danneggiamento di alcune parti del cervello che provoca un’interruzione nei collegamenti tra le vie visive centrali e i centri emozionali... – Spiegò come se stesse parlando ad un deficiente. Naturalmente non capii un emerito fico secco di quanto quel falso dottore mi stava dicendo. – In pratica, Signor Rossi, lei è convinto che le persone che conosce siano dei sosia o dei cloni... – Ecco come quei maledetti cercavano di vendermela! Fetenti, farmi credere di essere malato per continuare a filmarmi di nascosto! Il dottore mi diede delle pillole e mi disse che avrei dovuto prenderle. Figuriamoci! Quando arrivai a casa le buttai nel lavandino: sapevo che quell’impostore tentava di drogarmi per farmi stare al loro gioco! Sapevo anche che quelle persone erano gente pericolosa, quindi mi sarebbe convenuto stare al gioco per un po’. 107 E così feci... Per quattro anni. Tutti i giorni salutavo i sosia dei miei cari, non con rispetto né con cortesia, per carità. Ma almeno non li picchiavo col bastone. Li tenevo a distanza, uscivo di casa solo per andare al supermercato. Non andavo nemmeno più in chiesa perché Don Tino era stato sostituito con un vecchio uguale a lui ma che non aveva nessuna base di teologia né una cultura religiosa da seminario. Mi rifiutavo di vedere mia figlia e i miei nipoti e tenevo d’occhio la sosia della Signora Belli, colei che abitava abusivamente la casa di fronte alla mia. Era una seduttrice che tentava di instaurare dei cordiali rapporti con me per aumentare l’audience dei telespettatori che mi spiavano. Era una tentatrice, con quella sua pelle liscia come quella di una sessantenne, con quelle mani curate e fatali e con quella sua dentiera bianchissima, tanto bianca che non poteva che essere stata finanziata da studi televisivi. Poi, un giorno, rientrai in casa dal supermercato e vidi il mio sosia in fondo alla sala. Reggeva delle buste della spesa come me, indossava i miei stessi vestiti ed era anche un ottimo mimo perché riproduceva all’istante ogni mio minimo movimento. – Chi sei? – Domandai e la mia copia, nel frattempo, mi fece la stessa domanda. – Hanno deciso di sostituirmi? – Mi chiese l’altro. – Tu sei il mio attore? – Chiesi. – No, sei tu l’attore... – Rispose. – Chi è quello vero? – Sospirai, cominciando a capirci meno di prima. – Nessuno dei due – Disse, alzando le spalle. Lasciai le borse per terra e uscii di casa, confuso. Era il mio sosia, quello che avevo appena visto? Forse ero io l’attore! Doveva essere così: in un mondo di attori, di impostori, dovevo 108 essere anche io il falso me stesso. In effetti negli ultimi anni mi ero comportato in maniera strana, come non mi ero mai comportato prima. Non avevo parlato mai con nessuno, se non era necessario. Non avevo visto mia figlia e i miei nipoti. Non ero andato in chiesa e non mi ero fatto più offrire il tè dalla Signora Belli. Dovevo essere anche io un attore del vero me, un pessimo attore a dire il vero, in quella marea di professionisti! Al diavolo i ragionamenti! Che senso aveva interessarsi di chi fossi: ero vivo e dovevo vivere, non importava quanto fosse falso il mio mondo... Era ormai sera e soffiava un vento gelido e tagliente. Mi feci largo tra la neve col mio bastone da passeggio ed attraversai la strada sorridendo al figlio del vicino che costruiva un pupazzo di neve. Suonai il campanello di casa della Signora Belli e, trenta secondi dopo, la porta si aprì. – Buona sera, Signor Rossi… – La sua voce era cordiale e calda. – Vuole una tazza di tè? – Molte grazie… – Risposi sorridendo. 109 LA GIUSTIZIA È GIUSTA? Dalia Valle “Giovanni Mendrisio arrestato”. Così titolava il “Corriere della Sera”. Mendrisio era un truffatore, un finanziere a cui le persone avevano affidato i loro risparmi spinti dall’illusione di grandi profitti. Dopo un primo momento in cui sembrava che gli investimenti portassero grandi guadagni, di colpo tutto, compreso Mendrisio, sparì. Ora però Mendrisio era lì, nella stanza accanto a quella dove il procuratore stava riflettendo. Il procuratore era un uomo meschino, sulla sessantina, con una carriera ormai consolidata senza possibilità di promozioni ulteriori e a cui non interessava mettersi in tasca una condanna esemplare, dato che non ne vedeva un profitto personale. Insomma era l’equivalente di Mendrisio, protetto però dalla legge. L’assistente del procuratore era invece un ragazzo giovane e zelante, a cui non interessava una condanna per una sua eventuale promozione ma cercare di far riavere agli investitori almeno una parte dei soldi perduti. Stava interrogando Mendrisio quando gli venne chiesto di uscire perché il procuratore voleva parlargli. Entrato nella stanza si rese subito conto che qualcosa non andava. Il procuratore di solito molto attento ai casi seguiti dalla stampa questa volto era distratto, lasciava fare a lui, il che non poteva essere che un bene. Il procuratore spiegò che era certo che questo caso non gli avrebbe portato nessuna promozione e che per questo aveva carta bianca, bastava chiudere il caso velocemente. L’assistente era felice, poteva finalmente fare quel che voleva. Andare al processo sarebbe stato divertente, sarebbe stato il suo primo caso importante, avrebbe avuto molta visibilità, ma queste 110 cose non gli interessavano. Entrò così nella stanza accanto e seduto di fronte a Mendrisio formulò la proposta che l’accusato non si sarebbe mai aspettato: riconsegnare un quarto degli investimenti rubati, cioè tanto quanto i truffati gli avevano affidato all’inizio e neanche un minuto di prigione. Mendrisio accettò ma rimaneva un problema, come fare a sistemare tutto con la legge? Questa proposta sarebbe stata accettata da truffatore e truffati ma la legge non sempre va d’accordo con la morale, l’etica è un’altra cosa. Oltre a questi c’era un problema ben più grande che era la stampa, quella macchina da guerra che poteva esaltare una persona un minuto prima e l’istante successivo gettarla nel baratro più profondo. Avrebbero detto che la procura aveva fatto un passo indietro gigantesco, che in realtà la giustizia non esiste, che la legge serve solo per proteggere i criminali. No, questa proposta non poteva essere firmata, non ne sarebbe uscito vivo. L’assistente convocò le vittime per il giorno dopo e comunicò la sua decisione di andare al processo perché riavere i soldi in tempi brevi avrebbe significato andare contro la legge, non si poteva fare. La giustizia è solo un’ illusione, la legge non esiste. Questi erano i pensieri dei presenti. Dopo alcune proteste se ne andarono tutti, il procuratore tirò un filo di sollievo, non lo avevano accusato più di tanto. Sapeva che al processo, anche se avesse vinto, non avrebbe mai recuperato tutto il denaro e tanto meno in tempi brevi, ma questa è la legge, se ne indignava ma altrimenti non si poteva fare. Continuava a ripeterselo per convincersene. Ma anche se ci provava non ci riusciva più di tanto. I mesi passavano e ormai il processo era iniziato, era un susseguirsi di esperti di finanza per l’accusa e per la difesa, non c’era una parte in netto vantaggio. L’accusa però sapeva che 111 ormai le sue cartucce stavano per finire e l’assistente procuratore era in panico: come poteva dire a quelle persone che al novanta per cento i loro amati risparmi non sarebbero più tornati nelle loro tasche? Non poteva dire loro questo o quanto meno non lui, lui che aveva rifiutato un accordo che avrebbe reso tutti contenti per la giustizia. Giustizia per chi poi? Forse solo per chi è più furbo? Per chi ha l’avvocato più bravo? Forse un processo è solo una questione retorica? Chi trova l’esperto che porta delle prove più convincenti, anche false, vince? Era brutto da pensare, anzi è davvero terribile ma qualche mese prima, quando questo processo non era affar suo non era così infelice, non pensava di aver fatto perdere denaro a famiglie che ora vivevano in semipovertà. Come poteva continuare ad andare avanti sapendo che aveva commesso un reato grave non nei confronti della giustizia ma della sua coscienza. Negare che la giustizia sbagliava era grave, ma ancor più grave tentare per dei mesi di convincersene come se lui fosse un idiota senza sensibilità. No, non poteva continuare, né tornare indietro. L’unica via di fuga erano quelle pillole che aveva lì davanti, nel boccettino che aveva appena acquistato tramite internet. Avrebbe avuto il coraggio di farlo o avrebbe vissuto tutta la vita dilaniato dal senso di colpa? Le mise in bocca e le buttò giù di colpo. Il mattino dopo suonò al suo campanello un investigatore che era corso per comunicargli che avevano trovato una falla nella testimonianza degli esperti della difesa e che così avrebbero ribaltato la situazione. Nessuno rispose, si fece aprire dal portiere e lo trovò lì, sdraiato a terra privo di vita con la rassegnazione dipinta sul viso. Dottor Lightman 112 APPENDICE 113 114 NOVELLO ULISSE Margherita Ianniello Sono di corporatura molto minuta, ma ho già parecchi anni di vita alle spalle. Non posso raccontare come sono nato: non lo so! Certo non dall’amore di due genitori, ma da un lungo procedimento, stando a quanto sento dire, che ha avuto inizio chissà dove – a giudicare dal mio colore potrei essere arabo o africano – e terminato in qualche marchingegno di invenzione piuttosto recente. Mi è stata poi assegnata arbitrariamente una dimora. Si tratta di un’abitazione buia, ma affascinante a vedersi: ha il colore dell’oro, con strisce blu e rosse e alcune scritte, che attirano e colpiscono chi le guarda; emette inoltre un profumo straordinariamente gradevole e che stuzzica le narici. È molto speciale, perché da fuori non è possibile scrutare l’interno, – ho così la mia privacy – ma chi vi abita, come me e i miei numerosissimi fratellini, – nessuno sa di preciso quanti siamo – osserva tutto ciò che capita all’esterno. La nostra posizione è di gran privilegio: vediamo senza essere visti e guardiamo dall’alto in basso. Già, perché viviamo in una pianura rialzata, purtroppo non verdeggiante e fiorita, ahimè, un posto affollatissimo, anche se da perfetti sconosciuti; in compenso c’è un gran vociare e c’è un gran viavai tutt’intorno a noi. Riposiamo solo nei giorni di festa, benché ultimamente le cose siano cambiate: proprio quando meno ce lo aspettiamo, tutti corrono qui. Chissà perché! Talvolta qualcuno o qualcosa mi toglie la visuale, ma dopo qualche giorno torno a vedere la luce, non quella del sole, ma una luce giallognola e fredda, del tutto innaturale e a lungo 115 andare persino fastidiosa. In altri casi la mia abitazione viene sollevata all’improvviso, scrutata attentamente, ripulita un po’ … e poi riposta, più o meno delicatamente, dove stava, con qualche commento: “Non fa al caso mio”, “C’è di meglio”, “Non è affidabile”, “È costosa”. Ne ho viste davvero di tutti i colori in questi anni. Ricordo un biondo bambino con gli occhi azzurri, che, tirando in lacrime la gonna della mamma, voleva a tutti i costi prendermi con sé: gli piaceva forse il mio aspetto dorato e variopinto. La donna però urlava, cercando di farlo desistere, e alla fine il ragazzino cedette facilmente, sostituendomi con un gustoso cioccolatino, che allettò il suo palato. Che delusione! Non ho nessun valore per un animo innocente. E ho pure perso l’opportunità di avere un padroncino delicato, che probabilmente mi avrebbe rispettato e lasciato intatto. Un’altra volta invece ho rischiato di diventare proprietà di una distinta cinquantenne, mezza matta, piuttosto nevrotica, che, con un ghigno rivolto a se stessa, si allontanò esclamando: “Non risolvo così il mio malessere; ci vuole una soluzione più drastica”. Non so bene cosa intendesse, ma in quell’occasione mi sono reso conto di valere poco anche per chi è in difficoltà: sono troppo debole. Quale sconforto mi ha invaso il cuore poi, quando ho scoperto che per qualcuno sono di serie B, di qualità non buona! Si trattava di un uomo distinto, marito e padre di famiglia, mandato qui in fretta e furia dalla moglie, agitatissima e in preda al panico per l’arrivo improvviso di una delegazione di amiche giunte a farle visita. Cosa offrire loro? “Vai, caro! E, mi raccomando, che sia la solita qualità …” Il poveretto non era esperto in materia: temendo la sfuriata della donna, si sforzò di ricordare. Gli sovvenne il colore rosso e così, pur colpito dal mio magnifico 116 aspetto dorato, nemmeno mi prese in considerazione: passò oltre, perché non facevo al caso suo. Eppure, lo confesso, mi sarebbe piaciuto finire tra le sue mani: era ordinato, elegante, profumato e mi avrebbe portato in chissà quale reggia! Probabilmente avrei conosciuto stupende e raffinate signore, ingioiellate e vestite di tutto punto, e avrei potuto ascoltare i loro discorsi divertenti e un po’ frivoli. Pazienza! Ho ricevuto tempo fa un complimento – misera consolazione, a dire il vero – da un signore esile e su d’età, con un volto simpatico, una lunga e soffice barba bianca, un bastone e occhialetti poggiati sulla punta del naso, che, accarezzandomi dolcemente, con occhi tristi mi disse: “Quanto mi manchi! Vorrei prenderti con me e assaporare ancora la tua compagnia, ma l’età non me lo consente più. Il mio cuore e il mio fisico non sanno stare al passo con i tuoi poteri. Mi vedo costretto a rinunciare a te”. Finalmente qualcuno mi ha parlato, come si parla a un amico, ma ho perso in fretta, troppo in fretta, il caldo affetto che mi ha fatto sussultare per un attimo. Ho tremato al contrario, assistendo qualche mese fa a una rapina, ma ho scoperto di non avere alcun valore nemmeno per chi è cattivo d’animo: i malviventi hanno portato via di tutto, ma non me … E non posso nemmeno denunciarli per il furto, perché nessuno mi sente e nessuno capisce il mio linguaggio. Avrei tanto desiderato cambiare un po’ aria e invece sono ancora qui, solo soletto; ci sono i miei fratelli, è vero, ma loro non sembrano comprendere il mio stato d’animo: se ne stanno fermi e silenziosi al loro posto, ammassati uno sopra l’altro, in attesa che qualcuno li porti via, chiunque sia. Io invece penso, medito, sogno, soffro… Ora voglio rivelare un segreto: accanto a chi mi rifiuta e mi disprezza c’è anche chi grazie a me riflette, studia e filosofeggia, 117 il che naturalmente mi fa piacere, visto che non è da tutti stimolare il pensiero. Non lo dico per vantarmi, ma a ragion veduta. Proprio ieri infatti si trovavano qui davanti due uomini, uno alto e magro, con pochi capelli e grossi occhiali da vista, vestito in modo semplice, quasi sciatto, l’altro un po’ più paffutello e con un cercapersone in vista nel taschino della giacca a doppio petto. Dai loro discorsi ho intuito che il primo era un professore di filosofia dell’Università della zona, il secondo, suo amico d’infanzia, un affermato medico in un giorno di reperibilità. “Sai, Lucio, non sono un vizioso: non fumo, non bevo, non gioco e non ho donne nella mia vita. Un piccolo vizio concedimelo! Del resto nessuno è perfetto: se qualcuno lo fosse, non sarebbe un essere umano, ma divino. Una trasgressione è necessaria e la mia è questa! – così diceva il professore guardandomi – Per me è un po’ come la cagnetta dell’avvocato pirandelliano, costretta dal padrone a fare la carriola nel segreto del suo studio. Ricordi quanto ci piaceva leggere questa novella sui banchi di scuola? Io sono ancora dell’idea che l’autore di Girgenti avesse ragione: se restiamo chiusi passivamente nelle forme che la società ci costruisce, rischiamo di esplodere; basta una piccola e personale valvola di sfogo per restare in equilibrio”. “Mio caro Virgilio – rispose l’amico – vedo che non sei cambiato: sei sempre il solito idealista e sognatore. Se sapessi le conseguenze che comporta il tuo piccolo vizio, come lo chiami tu, certo lo annulleresti o lo sostituiresti. La pressione corporea, il sistema nervoso, l’apparato digerente, la circolazione del sangue … insomma, l’intero sistema fisiologico rischia di essere compromesso e tu mi parli di equilibrio esistenziale e di forme? Non solo io, ma anche gli antichi avevano capito che Mens sana in corpore sano est. Forse loro ti convincono! Pensaci bene”. I due si allontanarono sull’onda di questa discussione e a 118 me non pensarono più. Non mi rimase che cercare di captare di sfuggita le loro ultime parole: “Stare sveglio”, “Mattino e sera”, “Dipendenza” e la lapidaria sentenza “L’eccitazione non è sempre positiva”. Mi domando chi dei due abbia ragione. Ma ecco … Si sta avvicinando un gruppo di giovanotti piuttosto malconci, con i capelli spettinati e i pantaloni stracciati, alla moda: sembrano pensare a una festa. Si portano via con decisione parecchie cose, ma in modo indifferente; senza riflessione, all’improvviso, gettano anche la mia casetta nella massa. Ahi che botta! Che dolore! State un po’ attenti! Che succede? Non riesco a vedere nulla e mi manca l’aria; mi sento sballottato qua e là con violenza e superficialità, senza il minimo rispetto. Credo di aver perso la mia posizione di privilegio, ma ancora non so dove io sia finito. Passano le ore. Alla fine qualcuno apre un varco: scampo a stento a una lunga e affilata lama … Finalmente respiro! I miei fratellini finiscono quasi tutti sul fuoco, in un’acqua talmente bollente che si sciolgono, terminando così la loro esistenza, un po’ per volta, come i compagni di Ulisse nella grotta di Polifemo. Sembra che si stia compiendo un rito di iniziazione: acqua, fuoco, un sacrificio … E schiamazzi. I miei fratelli hanno compiuto il loro destino, senza lamentarsi, rendendo eccitato qualcuno, facendo godere qualche altro, anche se per poco: sono vittime sacrificali, subito dimenticate. È ciò che per loro è stato scritto e stabilito! Io, novello Ulisse, riesco a sfuggire con uno stratagemma: mi getto a terra, vorticando, e lì rimango, invisibile. Nessuno si accorge di me: tutti mi calpestano, senza preoccuparsene, e io osservo ogni cosa, questa volta dal basso, umilmente. Certo, ho perso il mio privilegio, ma sono salvo. Non so se invidiare i miei fratellini e sentirmi inutile e sconfitto o trionfare del mio 119 successo, anche se non ho realizzato il progetto per cui sono nato. Che sbadato! Ancora non mi sono presentato: sono un granellino di caffè. A proposito: prova ad alzare il tuo piede: per caso sei tu che mi stai calpestando? Da qua sotto non posso giovare né nuocere ad alcuno e chiedo solo un po’di rispetto: ho un’anima e un cuore anche io, sebbene in pochi se ne rendano conto. 120 TUTTO SEMBRAVA NORMALE Enzo Noris Il viaggio era stato veloce, senza intoppi, come mille altre volte. I semafori, uno dopo l’altro, erano rimasti verdi al suo passaggio ed il traffico leggero. Sembrava che tutto fosse come sempre, normale routine. Arrivato al cancello, che trovava sempre aperto a quell’ora, notò meno movimento del solito e nel parcheggio, insolitamente vuoto, né auto né moto. “Sarà presto” – pensò e questa semplice congettura bastò a sopire, momentaneamente, quel senso di stupore per qualcosa che cominciava a sembrargli strano, insolito. Il Professor Arzuffi parcheggiò al solito posto e si concesse un fugace sguardo nello specchietto retrovisore per controllare i suoi capelli – di cui andava così fiero ma che ormai erano sempre più radi ed indocili. Afferrò con un gesto automatico la sua inseparabile cartella, gonfia di carte e di libri. “I miei ferri del mestiere” – diceva lui. Salì le scale senza fretta ma risoluto, cadenzando il passo ed accompagnandolo con l’oscillazione, avanti ed indietro, della cartella. Era un incedere così professorale, tranquillizzante. Aveva un aspetto placido, affabile, il Professor Arzuffi e un carattere abbastanza tranquillo, come un laghetto alpino. Anche questa era una sua espressione abituale e così, compiacendosi un poco, amava definirsi, salvo poi ammettere che quel laghetto alpino ogni tanto si increspava, in superficie, e le acque – intorbidendosi – non riflettevano più il paesaggio circostante, fatto di cime innevate, di nuvole soffici, di abeti verdeggianti. “Alla mia età – ammetteva a malincuore – non posso dire di conoscermi del tutto; né posso dire di aver raggiunto una 121 definitiva padronanza delle mie emozioni. Eppure gli altri, specialmente i miei alunni, mi sembrano tutti così uguali, così prevedibili, noiosi...” Cullandosi in queste considerazioni, il Professor Arzuffi raggiunse l’atrio del grande ed un po’ tetro edificio dove prestava servizio da tanti anni. Varcando la soglia si rese conto che l’atrio, solitamente pullulante di gente, affollato e chiassoso per il febbrile via vai che caratterizzava ogni inizio di giornata, era desolatamente vuoto, deserto, in ombra, silenzioso. Il suono della campanella ruppe il silenzio, occupando quello spazio grigio di onde sonore che si propagavano eccitanti ed insieme fastidiose. “Che strano” – pensò l’Arzuffi – “C’è qualcosa di strano: pare tutto così uguale e così diverso...” Salì le scale che portavano al secondo piano; entrò nella saletta riservata al personale, prese il registro e si avviò verso l’aula. Si sedette solo dopo aver dato una fugace controllatina alla sedia, così, come faceva sempre, per scrupolo. Nell’aula, davanti a lui, invece delle solite facce non vide nessuno. C’erano solo banchi e sedie, ordinati a due a due e disposti in file parallele, separate dallo spazio necessario per consentire meno movimento possibile. Guardò meglio e, fissando lo sguardo su ogni banco, dai primi fino agli ultimi, vide un po’ alla volta materializzarsi delle figure, dei volti maschili e femminili, eterei, come dei fantasmi, che si facevano via via riconoscibili, identificabili. Queste figure tuttavia non rimanevano identiche, definite, bensì continuavano a modificarsi in una progressiva ed inquietante metamorfosi. 122 Inizialmente avevano i soliti connotati degli adolescenti: la pelle turgida e con le impurità dell’acne, i capelli folti ed arruffati, la barba appena accennata, gli sguardi infantili e sornioni dei maschi, con quella insopportabile aria di sfida mista a timidezza, i visetti curati, ammiccanti ed a volte maliziosi delle femmine. All’improvviso quegli stessi volti invecchiavano a vista d’occhio, mostrando inesorabilmente i segni dell’età: piccole ma profonde rughe d’espressione, barbe dure, capelli radi, fronti stempiate, sguardi privi di innocenza, spenti e velati da una sottile ma percettibile malinconia. “Chi siete?” – chiese preoccupato il professor Arzuffi. “Che razza di sortilegio è mai questo?” “Nessun sortilegio” – rispose una delle figure seduta al primo banco. “Siamo quelli che tu per tanti anni non sei riuscito a vedere. Ora hai davanti agli occhi lo spettacolo di quello che saremmo diventati: padri di famiglia, mariti affettuosi, fedeli e infedeli, scapoli incalliti, nonni e nonne, madri, spose, nubili e zitelle ancora in attesa di chi le avrebbe dovute amare. Perché non sei riuscito a riconoscere nei nostri volti giovanili quello che avremmo potuto essere da adulti, ora dovrai risarcirci delle aspettative, dei progetti, dei sogni che ci hai rubato”. Il giorno dopo il personale addetto alle pulizie fece una macabra scoperta: in un’aula del secondo piano, ancora seduto alla cattedra, con davanti alcuni fogli di un registro polveroso, giaceva interamente mummificato il corpo di un uomo vecchissimo, rimasto lì chissà da quanti anni. Ciò che rimaneva del suo capo, ridotto ad un teschio con ancora alcuni frammenti di radi capelli, era appoggiato alla parete di fondo, tra la carta geografica e la lavagna. 123 124 INTERVENTO DEL PROF. DON PIETRO BIAGGI Buzzati, che è anche giornalista, è capace di essere conciso, ma denso e molto fruibile nel linguaggio, attentissimo com’è alla scelta dei vocaboli. Nel trattare temi come il denaro e il successo, l’autore rivela una sferzante ironia, che smaschera e denuncia, in maniera lucida e sofferta, un modo sbagliato di vivere, il quale si ritorce contro l’uomo stesso: egli rappresenta l’Inferno (titolo anche di un racconto) nella vita quotidiana. Buzzati presenta nei testi la dinamica CARNEFICE-VITTIMA: è il carnefice che soffre di più, mentre per la vittima l’autore mostra compassione, identificandosi in questo ruolo (per natura tendeva a sminuire le sue capacità, nonostante il successo di pubblico). Il tema dell’ATTESA si gioca tra un piano di pessimismo (si aspetta qualcosa che non arriva) e un piano di ottimismo (slancio di apertura verso qualcosa di più grande dell’uomo): il personaggio di Stefano nel Colombre passa la vita non a cercare, ma a fuggire il colombre, che gli è stato presentato come un mostro terribile; dunque fugge dalla felicità per un fraintendimento e quando la trova è troppo tardi. Non tutto finisce però: Stefano (l’incoronato), alla fine si riscatta e prende in mano la perla, quando capisce che non deve fuggire, che deve cambiare rotta, che deve affrontare il colombre. Quella che per Stefano è la perla trovata, il premio, per gli altri è un sasso: non hanno capito e vivono ancora con i loro pregiudizi. Il colombre è un messaggero (dice infatti: “Sono stato incaricato di …”), come nel racconto Ombra del Sud. 125 Stefano non è un personaggio rassegnato: si adatta alla vita che ha, ma qualcosa lo rende infelice; si sente attratto dal mistero e dall’abisso. Questa ricerca è propria anche degli altri personaggi di Buzzati (Drogo nel Deserto dei Tartari, don Valentino in Racconto di Natale…): l’errore è di cercare con affanno, con angoscia, con paura; bisognerebbe invece cercare sempre con speranza e con aspettativa positiva, perché solo così si capisce ogni giorno che il traguardo è la morte e che la vera vita si gioca nel momento della morte; solo così si impara ogni giorno a morire (= a vivere davvero). L’uomo non deve partire con l’idea di andare incontro da solo al suo destino: è il destino che va incontro all’uomo, il quale deve accettare di seguirlo. Buzzati temeva la malattia e la morte e proprio la MORTE è centrale nei suoi testi, ma la morte non è evento catastrofico: è sempre accompagnata dal sorriso e dalla luce (nel Segreto del bosco vecchio il protagonista muore sentendo un canto di vittoria; nel Deserto dei tartari Drogo muore sorridendo). Molti personaggi di Buzzati sono MILITARI: lo stile di vita militare, legato a regole e disciplina, rende soldati anche nell’affrontare la vita di tutti i giorni. Molti personaggi di Buzzati sono GIOVANI o BAMBINI con caratteristiche da adulti: in essi si nasconde l’autore, che sin da piccolo è stato un po’ adulto; lo conferma il fatto che nei suoi testi non si nota un’evoluzione di pensiero, perché egli è già maturo a partire dal primo. In alcuni testi Buzzati affronta in modo esplicito il tema religioso; nel breve racconto Acqua chiusa l’autore cita espressamente Dio, sottolineando la sua presenza ovunque, persino in una toilette; in Racconto di Natale per esempio passano 126 alcune idee interessanti: quando nella vita si accettano meccanismi sbagliati, non si vede più Dio, che c’è; Dio non se ne va, ma l’uomo non lo vede più, perché accecato da pregiudizi; quando tutto è pieno di Dio, è il Paradiso, anche in questa vita terrena, infatti Dio permette agli uomini che si perdono di fare un cammino e di ritrovarlo. 127 128 INDICE 129 130 PRESENTAZIONE Lucio Sisana p. 7 PREFAZIONE Margherita Ianniello ed Enzo Noris p. 11 IL PROGETTO p. 17 I VENTOTTO RACCONTI Play Boy di Arena Silvia p. 23 L’ultimo calice di Baronchelli Andrea p. 27 Senza parole di Belotti Marina p. 29 Il quadro di Bergamo Laura p. 31 Vendetta di Bronzieri Chiara p. 33 Sospeso nel tempo di Calegari Francesca p. 36 A noi di Caldiani Andrea p. 38 Il militare di Cappellini Umberto p. 42 131 Long Shadow di Cavalleri Giovanni p. 44 Numbers di Ceresoli Paolo p. 47 Insieme per sempre di Cortinovis Federica p. 49 Peppino Appetito, il becchino iettatore di Costa Mirko p. 51 XIII - Tredici di Danesi Francesco p. 54 Le cinque notti di Deretti Andrea p. 61 Eterna illusione di Foiadelli Serena p. 64 Lorenzo di Gelmini Melissa p. 68 Libri di Menni Roberta p. 71 Orgoglio di Mercorio Alberto p. 78 Giuridepizio e la tribù dei Litaniai di Monti Edoardo p. 81 Sempre e per sempre di Natali Federica p. 84 132 Una giornata d’ottobre di Paccanelli Camilla p. 87 L’uomo, la guerra e la pianta di Paris Nicola p. 89 Notte stellata di Perico Roberta p. 92 Il Pedretti di Pierotti Francesco p. 94 Sorpresa di Radici Claudia p. 96 La signora con il cappello blu di Tischer Eleonora p. 101 Capgras di Toppan Zeno p. 105 La giustizia è giusta? di Valle Dalia p. 110 APPENDICE Novello Ulisse di Margherita Ianniello p. 115 Tutto sembrava normale di Enzo Noris p. 121 Intervento del Prof. Don Pietro Biaggi Appunti non rivisti dal relatore p. 125 INDICE p. 131 133 i piccoli quaderni Pubblicazione del Collegio Vescovile Sant’Alessandro Via Garibaldi, 3 – Bergamo Tel. 035 21 85 00 Fax 035 38 86 088 e–mail: [email protected] sito Internet: www.santalex.it Progetto grafico e coordinamento editoriale Paola Aymon Stampa Laser Copy Milano Finito di stampare nel Marzo 2010 con il contributo dell’Editrice San Marco Via Pontesecco 9/bis - 24010 Ponteranica (BG) 134