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Cataloghi
Università degli Studi di Firenze
Dipartimento di Italianistica
Alfonso Gatto a Firenze
con una intervista a Piero Vignozzi
a cura di
Leonardo Manigrasso
Firenze, 2006
Società Editrice Fiorentina
Volume pubblicato con un contributo MIUR 40%
Direzione scientifica : Anna Dolfi
Redazione : Simone Magherini
© 2006 Società Editrice Fiorentina
via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze
tel. 055 5532924
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Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
Le immagini da p. 97 a p. 215 sono riprodotte per gentile concessione degli eredi.
I disegni di Franco Dani sono riprodotti per gentile autorizzazione
di Giorgio e Alessandra Bonsanti.
L’acquaforte di Rodolfo Ceccotti è riprodotta per gentile concessione dell’autore.
Stampa: Global Print, Gorgonzola (Mi), dicembre 2006
In copertina: Alfonso Gatto di Franco Dani (1937), di proprietà dell’Archivio contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux. Non essendo stato possibile contattare gli eredi di Franco Dani, l’autorizzazione alla pubblicazione è stata gentilmente concessa da Giorgo e Alessandra Bonsanti.
INDICE
La poesia di uno stadio deserto.
Intervista a Piero Vignozzi a cura di Leonardo Manigrasso
7
Introduzione
Alfonso Gatto poeta dell’errore
L’articolazione del catalogo
17
23
Note ai testi
29
ALFONSO GATTO A FIRENZE
Dediche fiorentine
Dediche “in uscita”
Dediche “in entrata”
Alcune voci eccentriche
35
49
59
Itinerario biografico e poetico di Gatto a Firenze
Itinerario poetico
Itinerario biografico
71
77
Gatto al Vieusseux
85
Il poeta e le arti figurative
Gatto pittore: due cataloghi
97
Gatto critico: ventiquattro cataloghi fiorentini
Dino Caponi
Dino Boschi
Fernando Farulli
Mario Sironi
Sergio Scatizzi
Beppe Bongi
Antonio Possenti
Americo Mazzotta
Guido Peyron
Corrado Cagli
Antonio Bueno
Sirio Midollini
Xavier Bueno
Mario Carotenuto
Enrico Paulucci
Ugo Attardi
Gianni Dova
Luca Alinari
Raffaele De Rosa
Piero Vignozzi
Vieri Vagnetti
Sergio Vacchi
Ottone Rosai
Cesare Ronchi
117
119
122
125
128
136
138
142
146
149
157
160
164
167
170
174
176
181
187
190
194
201
204
210
213
Galleria per immagini
Quindici fotografie per Gatto
Tre ritratti
Due disegni di Gatto, un acquerello e una poesia
219
234
237
Appendice
Catalogo di una biblioteca
243
Catalogo degli scritti
sulla terza pagina del «Giornale del Mattino»
277
LA POESIA DI UNO STADIO DESERTO
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
a cura di Leonardo Manigrasso
Piero Vignozzi, fiorentino, classe 1934, conobbe giovanissimo
Alfonso Gatto verso la fine degli anni 50 alla galleria «L’Indiano», dando
vita a una amicizia intensa, quotidiana, duratura, culminata dal punto di
vista professionale in una serie di articoli, recensioni e presentazioni che
il poeta gli dedicò fino alla vigilia della morte. Rappresentò a Firenze un
punto di riferimento importante per il “nomade” salernitano, che spesso
nelle sue improvvisate toscane pernottava nella casa del pittore1.
Il lettore di Alfonso Gatto che entra oggi nello studio di Vignozzi,
nella sua rustica abitazione di campagna nei dintorni di Firenze, ravvisa
ancora i segni, sparsi tra le tele dei lavori in fieri e i manifesti e le
locandine d’arte, di questo rapporto, la comunione di interessi e passioni
che dovette essere a fondamento della loro sintonia. Sono numerosi libri
sul calcio, sul ciclismo (Vignozzi fu ottimo atleta nelle file giovanili della
squadra di Bartali), le fotografie d’annata che denunciano un’estrazione
poverissima di cui il pittore - come da comandamento gattiano - è fiero.
Sono queste le basi delle «affinità elettive» di cui Gatto parla
nell’introduzione al catalogo della mostra di Vignozzi del 1974, i nodi
che li strinsero in un affetto così profondo da essere preservato da quelle
ricadute che spesso rendevano “tempestose” - come le definisce Vittorio
Sereni2 - le amicizie di Gatto. Per chi poi avesse ulteriori dubbi, vi sono
due foto che ritraggono il poeta appese nello studio: in una Gatto è seduto
dietro una scrivania accanto al giovane Vignozzi in piedi, si direbbe in un
atteggiamento di riverenza, come davanti a un maestro oltre che a un
1
Come si deduce anche dalla dedica sul frontespizio del catalogo della mostra di
Gatto del 1970, la casa di Vignozzi si trovava all’Erta Canina, nel quartiere di San
Niccolò, sotto il Piazzale Michelangelo.
2
Cfr. in questo catalogo (p. 65) la dedica che il poeta lombardo indirizzò a Gatto su
una copia di Gli strumenti umani.
8
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
amico; l’altra (riprodotta in questo catalogo a p. 221) lo ritrae nel suo
studio romano di Via Margutta.
Da Vignozzi non ci si attendano intellettualismi o formalità, ogni
domanda è per lui un pretesto per l’accavallarsi di ricordi, di flashes
sempre depositari di una sfumatura o di un tono che arricchiscono lo
spessore umano, prima che professionale, di Gatto. Ci si attenda piuttosto
la rievocazione nostalgica, sanguigna, ora malinconica ora vivace, di un
amico a cui l’artista/artigiano sente di dovere molto, e al quale - complice
la morte improvvisa - ritiene di non avere restituito abbastanza. Anche
questa intervista è stata forse un’occasione, benché parziale e inadeguata,
per alleggerire il suo debito.
Gatto, nel catalogo della mostra che Lei ha tenuto nel 1974, racconta il
vostro primo incontro. Si ricorda di quell’occasione?
Avvenne verso la fine degli anni Cinquanta alla galleria «L’Indiano» in
Borgo Ognissanti. Fu grazie a quell’incontro che io esordii come pittore.
Volle scrivermi infatti una presentazione per la mia prima mostra tenutasi
ad Arezzo nel 1958. Quella mostra fu un disastro. Eravamo nella galleria
in tre, io, un mio amico e il custode, che per tutte le tre ore del
pomeriggio non fece altro che ripetere: «io una cosa del genere non
l’avevo mai vista!». Non entrò nessuno. Fuori scoppiò un temporale, e
non entrò nessuno lo stesso. Ma Alfonso mi incoraggiò, e oltre che
pubblicare un articolo su di me sulla «Fiera letteraria», mi fece un’altra
grande presentazione, che è la migliore che io abbia mai avuto, insieme a
una di Luigi Baldacci.
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
9
Gatto era allora un poeta già celebre. Cosa conosceva di lui?
Gatto era già celeberrimo, ma io non avevo letto niente di suo. Ero un
ragazzo di pochissime letture, avevo sempre dovuto lavorare per
sopravvivere, facevo il garzone. Una volta però chiesi ad Alfonso che
cosa fosse la poesia. Sul principio non mi rispose, poi disse: «Poesia è
tutto quello che tu non potrai capire mai». Poi, scusandosi, disse: «La
poesia è tutta lì, dove non c’è bisogno di capire, e già si è capito». Gatto
era così; quante sere ricordo di conversazione, in cui lui prima si
inalberava - bastava gli si desse il minimo motivo di provocazione - poi
partiva con lunghissimi discorsi improvvisati ma bellissimi, straordinari,
che contenevano sempre altissime lezioni per noi che l’ascoltavamo. E’
stata la persona più importante della mia vita. Mi convinse anche a
scrivere dei racconti dopo essere tornato da lavoro, io, che non avevo
letto mai niente. Li propose a «La Nazione», ma furono respinti. Poi
furono portati alla redazione del «Nuovo Corriere», dove furono
pubblicati grazie all’intervento di Romano Bilenchi. Bilenchi era un’altra
persona che mi piaceva moltissimo. Benché fosse nato in campagna, era
elegantissimo, molto più di Gatto, per come parlava, per come si
muoveva, per quell’espressione sempre rammaricata che aveva, quando
vagava con quella sua solita borsa. Gatto invece era sempre maldestro
quando si muoveva. Fu Bilenchi ad iniziarmi alla lettura dei grandi Russi,
i Francesi, Camus per quanto riguarda il Novecento, e tanti altri. Anche
se talvolta non intendevo, Gatto ripeteva che non importava capire tutto,
e che era già abbastanza capire qualcosa di quel che si leggeva. Tra gli
altri, uno scrittore per me straordinario era Tommaso Landolfi, oggi
troppo trascurato. Poi tornai alla pittura, e fu soprattutto Alfonso a
orientarmici di nuovo.
10
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
Quali erano i luoghi dove di solito vi ritrovavate a conversare? E quali
erano gli amici con cui avevate maggiore consuetudine?
Io fui molto fortunato. Nato nella miseria, mi ritrovai giovanissimo a
parlare quotidianamente con Pratolini, Gatto, Betocchi, Ungaretti particolarmente affezionato a me - Leone Traverso, Luzi, Macrí, e poi
Bilenchi, Ugo Capocchini - un altro grande maestro dimenticato Bigongiari, e tra i miei coetanei Luigi Baldacci, Piero Santi. Ci
ritrovavamo al caffè «Pazskowski» alle sette di ogni sera. Firenze era
allora una città in cui tu potevi già sapere dove avresti trovato le persone
che ti servivano, e quando un letterato veniva a Firenze, potevi stare
sicuro che a una certa ora lo trovavi in un certo luogo. Il “pastore” di
questo gregge, la figura attorno alla quale ruotavano gli altri era Ottone
Rosai, fosse stato solo perché era il più ricco e poteva permettersi di
offrire la cena a tutti gli amici. Io ero il “ragazzo” di tutti, il più giovane,
e Gatto mi aiutò sempre moltissimo, facendomi assumere al «Giornale
del Mattino», imponendosi per me ai premi. Fummo dunque colleghi al
giornale, dove io curavo i disegni della terza pagina e dove poi mi fu
affidata anche la sezione di architettura e urbanistica, di cui peraltro non
mi intendevo affatto. Gatto al giornale aveva la massima libertà, a meno
che non ci fosse una specifica richiesta, scriveva articoli con la scadenza
e i contenuti che voleva. Per quanto riguarda i riconoscimenti, ricordo
che nel ’59 - ’60, al «Gran premio Caravaggio», Gatto, che era uno
zingaro impulsivo, arrivò e disse: «Il primo premio è assegnato. Date il
secondo». Non si trattava di una cosa disonesta, era solo un aiuto per
valorizzare un giovane amico. Io mi ero e appena sposato e non avevo un
soldo.
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
11
Ogni quanto tempo Gatto si presentava a Firenze?
La prima volta che Gatto piombò a Firenze visse a Canto alle rondini, a
stretto contatto con Pratolini, Capocchini, Rosai. Poi dopo aver fondato
«Campo di Marte» si trasferì a Settignano. Mi raccontava sempre di
quando la sera scendeva a Firenze, dopo aver finito di lavorare, passando
per i campi sotto il colle. Poi per la prospettiva di diventare direttore di
«Epoca» andò a Milano. Tornò a Firenze quando Piero Santi riuscì a farlo
assumere al «Giornale del Mattino», ma poco dopo se ne andò
definitivamente a Roma. Tuttavia tornava molto spesso a Firenze,
soprattutto dopo la separazione da Graziana Pentich. Si può dire che non
si assentasse per più di due o tre mesi, ma generalmente era a Firenze
almeno una volta al mese. Poi quando si diede con convinzione alla
pittura, si appoggiò molto alla «Santacroce», dove presentò e allestì
diverse mostre, e quindi intensificò i suoi passaggi. Devo dire che alla
città di Roma è legato il mio più grande rimorso verso Alfonso. Alla metà
degli anni Settanta caddi in un lungo periodo di depressione, in cui
passavo la maggior parte del tempo a letto, leggendo La morte di Ivan
Ilic di Tolstoj. Fu allora che seppi della morte di Alfonso. Lui aveva
sempre detto: «Piero, tu sarai uno dei pochi che sarà al mio funerale». E
invece non ci andai a Roma, dove si svolse la cerimonia, fui un vigliacco.
Non sono neppure mai stato sulla tomba di Alfonso. Sono stato a Salerno
ma non sono mai riuscito a vincermi, ad andarci. Ma prima di morire è
una cosa che voglio fare. Glielo devo: una sera io non c’ero, e Gatto era a
parlare con Alfredo Righi, che diceva male di me perché in quella
condizione ormai da tempo non facevo più nulla. E Gatto a un certo
punto esplose con il suo dialetto salernitano: «Mo’ m’hai scucciato;
Pierino pure fosse nu ladro, un assassino, a me va bene così!», facendo
seguire poi una delle sue sfuriate contro Righi, che mi raccontò questo
episodio dopo l’incidente di Capalbio. Il suo affetto per me era così
12
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
grande! E io ho ancora questo rimorso, di non essere andato al suo
funerale. Tanto più che quando morì mia madre - persona umile, buona,
indifesa, alla quale Gatto era affezionato così tanto da averla come
seconda solo a Erminia, sua madre - Alfonso venne al funerale e dal
fondo della Chiesa ad un certo punto si alzò, si accostò alla bara, toccò la
mano della morta e - senza che nessuno lo richiedesse - improvvisò una
bellissima e profonda orazione funebre. Fu così appassionata che due
cugine, sedute davanti a me, si guardarono negli occhi e esclamarono:
«Però, la Norina!» Pensavano che Gatto fosse l’amante di mia madre.
Si può dire che proprio questa comune estrazione povera fosse la causa
della vostra immediata, istintiva «affinità»?
Senz’altro. Alfonso era un grande difensore dei poveri. Io mi porto
sempre dietro quando viaggio il suo più grande libro sui poveri, La storia
delle vittime. Anche se la poesia di Gatto alla quale sono più legato è San
Marco, di ambientazione fiorentina: «Firenze grande morta / nella sera e
nel fiume, / una lapide effimera sia vento / al dolce nome, al grigio della
porta». Questo è andar dentro Firenze, profondamente! Invece penso che
la poesia alla quale Gatto guardava con piu commozione fosse Morto ai
paesi, il componimento che dà il titolo al suo secondo libro.
Gatto invece aveva dei libri che si portava dietro nei suoi spostamenti?
Alfonso aveva molti libri, era un lettore intelligentissimo, ma se li
lasciava sempre dietro. Era uno zingaro, amava moltissimo viaggiare. Era
un compagno perfetto, che si adeguava sempre alle circostanze in cui si
veniva a trovare. Mi portò anche a Salerno, a casa sua in un ambiente
particolare, dove per esempio dopo la morte della madre, nessuno toccò
più la televisione che Erminia guardava sempre. La coprirono con un po’
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
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di plastica e divenne una sorta di simbolo di lutto. Andavamo sempre a
nuotare, su una costa sotto i monti. Era un nuotatore imbattibile. Per tutto
il resto era maldestro, non imparò mai a andare in bicicletta o a guidare,
né era in grado di dare un calcio a un pallone, ma a nuotare era un
fulmine, insuperabile. Un’altra cosa che amava fare era giocare a carte.
Da buon napoletano era bravissimo nello scopone, mentre nel gioco
d’azzardo non era un granché. Ricordo intere notti passate insieme a
giocare a poker. Queste erano occasioni particolari: mostrava infatti una
debolezza, una fragilità che solo gli amici più intimi sapevano notare, e
che nessuno avrebbe attribuito a un temperamento irruente come il suo.
Alfonso aveva un sottofondo di timidezza, come un ragazzo, che
pochissimi potevano riconoscere. Gli mancava in tali circostanze quella
stessa spinta che gli impedì sempre di alzarsi sui pedali e andare in
bicicletta. Il suo passatempo preferito però a Firenze era andare allo
stadio. Era un tifoso appassionato ma molto moderato nei toni. Ricordo
che per un Fiorentina - Milan gli disegnai un cappello metà viola e metà
rossonero, ma che rifiutò di indossare; non amava questo tipo di
manifestazioni. Perdemmo [la Fiorentina] due a zero, ma non mi prese in
giro, non lo faceva mai. Quando litigò con Sereni, che era interista, lo
fece per provocazione, per il gusto di battersi, come con Eduardo De
Filippo. Quando incontrò De Filippo si abbracciarono molto stretti, ma
dubito che si piacessero molto. Allo stadio seguiva la partita con
attenzione, ma si accorgeva anche delle cose più marginali, come un
uccellino che si posasse sul campo di gioco. Soprattutto amava, e anche a
me piaceva, far svuotare lo stadio dopo la partita. Era come un grande
teatro in cui si era attori di se stessi, e stavamo talvolta delle ore nello
stadio deserto, sempre senza parlare. E una volta ci chiusero dentro. Si
era già fatto buio che rimanemmo imprigionati nella Maratona, quando
già erano andati via tutti. Cominciammo a urlare, ma dovemmo
incendiare alcuni giornali per farci vedere, e solo dopo molto vennero a
14
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
liberarci. Un’altra cosa che gli piaceva fare era cantare. Cantava sempre a
bassa voce, in particolare quando era nella mia macchina, una Morris
verde con interni in pelle e legno che adorava. Cantava bene, molte
canzoni napoletane, soprattutto «I’ te vurria vasà», pur senza avere una
grande estensione di voce.
Gatto ha esposto due volte a Firenze, nel 1970 e nel 1973. Come affrontò
queste circostanze? E come giudica la sua pittura?
Gatto alle mostre era molto discreto, forse anche un po’ impacciato. Era
un altro di quei contesti in cui mostrava quella insicurezza di cui dicevo,
che poi mascherava dietro la sua conversazione brillantissima, di grande
improvvisatore come solo i meridionali sanno essere. Il suo mestiere era
la poesia, al di fuori era in difficoltà. Era un pittore molto maldestro,
eppure aveva una forza, un senso del colore che trasmetteva sempre
all’opera una grande vitalità, che poteva anche essere disperazione, ma
c’era sempre. Con le doti che aveva, soprattutto per quel che riguarda gli
acquerelli, avrebbe potuto benissimo fare il pittore. Del resto sosteneva
sempre che dipingere gli rendeva di più che fare poesia.
Per concludere, rammenta qualche episodio particolare, emblematico,
eloquente per un ritratto di Alfonso Gatto?
La sua caratteristica principale era l’avere sempre qualche risorsa
nascosta, in più laddove non la si immaginava. Una domenica per
esempio il redattore del «Giornale del Mattino» ci commissionò un
articolo su un circolo di pittori e poeti che settimanalmente si riuniva a
Pisa per esporre i progetti a cui stavano lavorando. Ognuno portava titoli
impegnatissimi, il più umile sarà stato La catarsi del mondo. Erano
persone che giustificavano il proprio lavoro e l’altrui creandosi
INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI
15
reciprocamente un pubblico fittizio, artificioso. Una volta lì, vedendo di
cosa si trattava, Gatto andò su tutte le furie. Gli sventurati lo invitarono a
parlare, e io mi aspettavo parole comunque concilianti, di circostanza.
Macché. Si alzò e cominciò un’altra delle sue sfuriate, una vera
esplosione. Io sulle prime temetti ci picchiassero, poi gli diedi man forte,
e continuammo a urlare e a inveire per tutta la tromba delle scale.
L’articolo non lo scrivemmo, «lo scriva il redattore, se vuole», e la
giornata si concluse a mangiare pesce e a bere vino, in allegria. Alfonso
non sopportava il dilettantismo truccato da complessità, la mediocrità
elevata a protagonismo. Lui stesso non parlava mai della sua poesia, se
non richiesto, non era un pedante. Le sue fissazioni erano lo sport e le
donne. Quando morì era in compagnia della sua ultima donna, e della
madre di lei. So che le sue ultime parole furono «fatemi respirare, fatemi
respirare». Spesso ci ripenso e - pur non essendo e non volendo fare
l’intellettuale - mi vengono sempre in mente i versi di un altro grande
poeta, Garcia Lorca, che scrisse: «se muoio, lasciate aperto il balcone».
Credo che anche per Gatto fosse così.
INTRODUZIONE
Alfonso Gatto poeta dell’errore
Questo catalogo nasce dal proposito di affrontare una tematica che a
dispetto della facile apparenza, richiede un avvicinamento cauto e
problematico: come documentare in modo critico la presenza di un poeta
come Alfonso Gatto a Firenze? In quale modo provare a ricostruire la
durevole e reciproca influenza che ha legato un artista dalla così originale
personalità alla “dimora vitale” di un’intera generazione? Le difficoltà si
generano già a partire dalla natura complessa dei due termini in
questione. Da una parte la Firenze del pieno Novecento, dai vivaci
benché foschi anni Trenta del movimento ermetico e dei Caffé letterari,
al travagliato dopoguerra degli anni Cinquanta e Sessanta, e oltre ancora,
fino alla metà del decennio successivo. La città di Montale e Pratolini,
Luzi e Ferrata, Parronchi e Bigongiari, Macrí, Betocchi, Bo e di tanti altri
amici e sodali. Dall’altra un intellettuale inquieto e irrequieto, estroso e
impulsivo, dall’ingegno versatile, capace di misurarsi non solo con la
poesia e la prosa d’arte, ma con ogni forma di espressione che la cultura
dell’epoca potesse offrirgli. Accade così che nella sua estesa produzione
– tra impegni continuati nel tempo e prove sporadiche – ci sia possibile
classificare il critico di letteratura, quello di cinema e d’arte, il pittore e
l’incisore, il corrispondente politico e il giornalista sportivo, il traduttore
e il drammaturgo, l’addetto alla cronaca nera e di costume, l’inviato a
convegni e incontri di genere più diverso, il curatore di ogni sorta di
rubrica, lo scrittore per l’infanzia.
Un simile eclettismo di esercizi e di interessi, in una città di tali e tanti
fermenti e protagonisti, ha suggerito – a discapito di un approccio
monolitico, frontale – l’articolazione di questo catalogo in diverse sezioni
che affrontassero la presenza fiorentina di Gatto ognuna da una diversa
18
INTRODUZIONE
angolazione, nella speranza che la somma delle prospettive riesca a
rendere un quadro sfaccettato, policentrico ma non parziale. E questo non
perché nell’orizzonte di Alfonso manchi un centro, un’attività d’elezione
attorno alla quale gravitino tutte le altre, ma perché si è voluto rivolgere
l’attenzione anche a quella rilevante componente della vita culturale del
poeta alla quale si tende a prestare minor considerazione, e che invece è
foriera di contenuti non secondari per lo studioso di Gatto.
E’ forse superfluo chiarire come l’attività-cardine dello scrittore
salernitano, e non potrebbe essere altrimenti, sia la poesia. Ma non da
intendersi come una categoria a sé stante, monade promossa da una
privilegiata ontologia che la distingue e eleva da ciò che non le somiglia
o corrisponde, bensì come un continuo punto di riferimento e di colloquio
con tutte le realtà intellettuali, morali e culturali con le quali Gatto ha
interferito. Egli infatti non è poeta quando si esprime in versi, critico
d’arte alle esposizioni figurative e giornalista sulle colonne dei
quotidiani; al contrario rivendica in ogni sede il proprio indelebile statuto
di poeta1, di creatore di una poesia che non percepisce un confine nelle
proprie forme chiuse, ma il nucleo intatto di una rigorosa istanza etica
che disciplina e informa di sé ogni altra circostanza. E’ questo il
presupposto che dispone il fitto e fecondo dialogo che continuamente
coniuga la produzione in versi a quella ricca compagine di scritti dispersi
e parcellizzati in un minuto campionario di collaborazioni, presentazioni,
articoli di vario genere. Il centro rappresentato dalla poesia e queste prose
1
Cfr. alcuni passi a titolo di mero esempio: «Un poeta esiterebbe a dare a un pittore
qual è Dova più ali di quante egli stesso ne apra per i propri voli» (Introduzione al
catalogo di Gianni Dova per la mostra del novembre/dicembre 1973 presso la
«Galleria d’arte Spagnoli»); «Se vi chiedete perché uno scrittore o un poeta
s’interessa al Tour, ricordate […] che il Tour è un grande fatto umano, le cui parole
non sono mai dette a caso, mai avventate, ma serie e assolute» (Sognando di volare.
Alfonso Gatto al Giro e al Tour, Salerno, Il Catalogo, 1983, p. 151); Parola di poeta
questo libro è bello […] (titolo dell’articolo apparso sul «Giornale del Mattino» il 26
febbraio 1963).
INTRODUZIONE
19
periferiche che gli ruotano intorno comunicano in virtù della comune
solidarietà e appartenenza alla onnicomprensiva categoria dei “fatti
umani”, che annette a sé ogni forma di espressione e coinvolgimento di
cui siano protagonisti gli uomini, le donne o il poeta stesso, a partire dai
vertici analogici del periodo ermetico, fino alla cronaca più efferata o
quotidiana. Tutto in Gatto pretende la stessa impostazione “da poeta”, il
medesimo rigore, l’attenzione ai fatti anche più trascurabili, marginali, ai
«dolori umili, oscuri, persino umiliati, [alle] prove incredibili di fede e
testimonianze di rancore ottuso»2. Lo stesso Alfonso era ben consapevole
del valore di queste prose più o meno occasionali se, pur nate per una
fruizione isolata, a distanza talvolta di anni ebbe assiduamente premura di
rimaneggiarle e di ripubblicarle in raccolte quali Napoli N.N. o Le ore
piccole (note e noterelle). Del resto anche alcuni tra i critici3 più
consapevoli e affezionati al poeta salernitano si sono adoperati con
convinzione in una più o meno sistematica attività di riedizione di questo
tipo di scritti.
Al di là dei racconti, delle memorie o dei reportage, in questa sfera di
scritti “eccentrici” assumono un interesse particolare le testimonianze
critiche per scrittori e artisti che tante volte lo hanno impegnato. Questo
perché Gatto è un autore “invadente”, che non riesce o non vuole
giudicare con il distacco proprio dell’interprete un testo o un dipinto, ma
si inserisce sempre all’interno del segno come a ricercare il proprio
spazio (il proprio “costrutto4”) nella misura altrui, fondando la lettura e
l’interpretazione su un taglio che prima di mirare a riguadagnare la
2
Un curioso cronista, in Le ore piccole (note e noterelle), Il catalogo, Salerno, 1975,
p. 7.
3
In questa attività si distinguono in particolare Cristina Nesi, che ha curato tra gli
altri Parole a un pubblico immaginario e altre prose, e Francesco D’Episcopo,
anche solo da un punto di vista quantitativo senz’altro il più fedele “rieditore” del
poeta.
4
Per il significato del termine, cfr. Silvio Ramat, Un viaggio da isola a isola,
introduzione a Alfonso Gatto, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2005, p. XII.
20
INTRODUZIONE
volontà e la “poetica” dell’artista, inevitabilmente vi concilia un filtro,
una sintonia personale, una inconfondibile mano che richiama tanti
luoghi della sua poesia. Gatto è «uomo di cuore»5, ostile a ogni
«logicismo»6 - anche critico - nelle circostanze umane7, laddove esso
escluda quella componente di partecipazione emotiva che fa nascere
l’arte prima nello sguardo del soggetto, che nell’oggettività della materia:
Al limite della ricerca di Boschi, c’è un’ipotesi retorica di commemorazione per
l’uomo romantico sacrificato alla lente incisiva della convenzione ottica e esortato a
riprendere l’allure, l’imprevedibile allarme dell’individuo8.
Gatto insomma investe ogni discorso critico con i motivi d’elezione
della propria sensibilità, riconvocati e attualizzati nelle pluralità di forme
e segni che si trova a affrontare. Ne consegue che il lettore può in ogni
scritto sperimentare i riflessi di una poetica autoreferente mimetizzata
nella pur sempre lucidissima e competente - talora fondante - analisi di
opere e personalità di altri scrittori e artisti. Si leggano le chiusure -
5
Cfr. la rubrica curata per il «Giornale del Mattino» Sette giorni. I fatti della
settimana visti da un uomo di cuore.
6
Cfr. Il mistero di via Monaci. Romanzo quotidiano dal processo Fenaroli, a cura di
Luigi Giordano, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1996, p. 47.
7
«[…] tutti gli uomini “difficili”, perché certi e imprevedibili, vanno immaginati».
Così comincia l’introduzione di Gatto all’opera di Cezanne, ribadendo
l’impossibilità di una conoscenza razionale, investigativa (da qui il dissidio tra il
giudizio sui fatti di Gatto e quello dei giudici al processo Fenaroli) ma al massimo
intuitiva della dimensione umana, a maggior ragione dove essa sia di straordinaria
profondità, come nel caso degli artisti del calibro di Cezanne. Il riferimento è a
Occhio che vede dentro al suo vedere, presentazione a Paul Cezanne, L’opera
completa, Milano, Rizzoli, 1970.
8
Introduzione al catalogo della mostra di Dino Boschi tenutasi alla stamperia d’arte
grafica contemporanea «Il Bisonte».
INTRODUZIONE
21
sempre luoghi particolarmente significativi in Gatto9 - delle prose su
Leopardi e Rosai per capire cosa si intende per questa sorta di continua
rimeditazione dei propri contenuti poetici e morali per interposta persona:
In quella culla è nato un bambino che non ha avuto e che non darà mai pace10.
Direi che, nonostante il suo opportunismo, vittoria è che Rosai resti importuno,
a non aver pace e a non darla11.
Non si tratta solamente della reiterazione di un suggestivo espediente
retorico che si addice bene al gusto per le clausole coltivato in versi e in
prosa, né di una implicita solidarietà etica e biografica tra Leopardi e
Rosai, ma del timbro personalissimo di colui che interpreta i due maestri,
e li riconduce al proprio ideale di intellettuale in prima istanza come
irriducibile nemico di ogni condiscendenza, viltà, piaggeria, quiete, o
meglio, acquiescenza. Avverso insomma «per sostanza […] a ogni
significato positivo»12. Il primo a non voler avere pace e soprattutto a non
offrirla agli altri è proprio lui, Gatto:
9
Anna Dolfi indica nelle “clausole brucianti” uno dei tratti più tipici della poesia di
Alfonso Gatto. Cfr. Alfonso Gatto: approssimazioni a una lettura di Desinenze, ora
in Terza generazione: ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997.
10
La culla del Leopardi, in «Giornale del Mattino», 20 ottobre 1962. Lo scritto è poi
confluito con lo stesso titolo in Le ore piccole (note e noterelle), Salerno, Il
catalogo, 1976, ma modificato nella forma, e con un finale diverso.
11
Rosai, vent’anni dopo, introduzione al catalogo I Rosai della Galleria Santacroce
in occasione della mostra tenutasi alla «Galleria Santacroce» a partire dal 28
febbraio 1976.
12
Cfr. l’intervista a Gatto contenuta in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta,
Milano, Lerici, 1965.
22
INTRODUZIONE
[…] nell’atto di scrivere, non ipotizzo mai un lettore amico e, tanto meno,
complice. Scrivo per un lettore nemico che abbia per sé l’inimicizia che presuppone
nel poeta e in ogni provocatore di verità13.
Ma come provocare, sollecitare la verità? Essa è per propria
costituzione inesprimibile, l’infinito «di sé solo perfetto / [è un] cimitero
di segni»14, per l’uomo. Il rifiuto di ogni facile “azzardo”, degli «inviti
della corrente»15, di ogni forma di ottimismo o pessimismo come alibi
all’urgenza dell’azione, sbocca in Gatto nell’imperativo dell’«errore»,
inteso come continua oltranza votata all’impervio, all’ostile, all’incerto in
nome di una tenace resistenza e di una pienezza vitale che è tipica del
meridionale. Si legga cosa scriveva in una corrispondenza privata Vasco
Pratolini – che Gatto lo conosceva bene – a Alessandro Parronchi:
Il mio amore per Gatto comincia di qui, allorché gli posso invidiare il candore, o
magari l’incoscienza, l’imprudenza, la spudoratezza con cui può continuamente
ipotecare la sua vita, il suo coraggio di scoprirsi, fino a raggiungere la poesia
nell’errore16.
Il dettato montaliano17, inciso a Salerno sulla lapide del poeta, per cui
vita e poesia trovarono nella figura di Gatto una congruità, una fedeltà
rara, ottiene in questo caso una decisiva conferma. Infatti questa poetica
dell’errore – o dovremmo dire dell’erranza nel suo duplice significato di
approssimazione al vero e di costante stato di mobilità – non si confina a
13
Ibidem.
Notturno per Mondrian, in Osteria flegrea, vv. 4 – 5.
15
Fummo l’erba, in La storia delle vittime, vv. 22 – 23.
16
Cfr. la lettera inviata da Pratolini a Parronchi il 14 febbraio 1940, ora contenuta in
Lettere a Sandro, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze, Polistampa, 1992.
17
Eugenio Montale omaggiò il poeta scomparso con questa sorta di epigramma:
«Ad Alfonso Gatto, / per cui vita e poesia / furono un’unica testimonianza /
d’amore».
14
INTRODUZIONE
23
un piano letterario, ma invade il campo biografico con una perentorietà
che trapela senz’altro dalle sconsolate cronache di Graziana Pentich18 sui
continui traslochi di abitazione in abitazione, di città in città, a cui Gatto
sottoponeva la famiglia, non solo per le note vicissitudini economiche
(che lo avevano da sempre abituato a questo tipo di vita), ma anche per
una sorta di smania che dopo un periodo di relativa stabilità giungeva
nuovamente a tormentarlo. I suoi due periodi fiorentini (a cavallo
dell’inizio della Seconda Guerra e tra il 1958 e il 1961), ma soprattutto il
primo, sono costellati proprio da questi continui cambi di dimora, dal
centro storico all’immediata periferia, ai colli di Settignano, a poche
decine di metri dalla tomba di Niccolò Tommaseo e, oggi, di Aldo
Palazzeschi.
L’articolazione del catalogo
Il catalogo, secondo le linee guida appena esposte, si articola in cinque
sezioni e due appendici. La prima sequenza cerca di ricreare la fitta rete
di relazioni intrecciata nel corso degli anni da Gatto con gli amici
fiorentini19 attraverso un campionario di dediche “in uscita” e “in
entrata”. E’ stato possibile così avvicendare accanto al nome di Gatto
quelli di Parronchi, Bilenchi, Betocchi, Rosai, Macrí, Bonsanti e tanti
altri. Pur non potendo costitutivamente essere una panoramica esaustiva,
soggetta com’è all’effettiva disponibilità del materiale, questa serie di
autografi permette di affrontare da un taglio originale il motivo delle
amicizie fiorentine – ma non solo – coltivate nel corso degli anni o
18
Cfr. Graziana Pentich, I colori di una storia. Momenti di vita e luoghi di poesia,
Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1993, p. 171.
19
La nozione di “fiorentino” deve essere intesa in senso lato, non limitata alla
cittadinanza anagrafica, ma estesa anche a chi, nato e cresciuto altrove, ha
partecipato alla vita culturale di Firenze: è il caso ad esempio dei meridionali Oreste
Macrí e Giacinto Spagnoletti.
24
INTRODUZIONE
sperimentare il grado di confidenza con cui gli autori si scrivevano (più
formale Cassola, più disinvolto Betocchi per esempio). Talvolta poi si
scoprono contenuti di interesse non solo documentario, ma di portata più
ampia, come nel caso della commovente, drammatica dedica inviata a
Carlo Betocchi su Le ore piccole, che termina con un augurio che si
rivelerà di cattivo, pessimo auspicio: «con un abbraccio / e per un felice
1976 / il suo / Alfonso». Il 1976 al contrario sarà un vero e proprio annus
horribilis, funestato dalla tragica morte di Gatto in un incidente stradale,
e dal successivo suicidio del figlio Leone. Sotto la categoria Alcune voci
eccentriche è presentata solo una piccola parte tra le numerosissime
dediche reperite tra i libri di Gatto, che – pur non appartenendo a
fiorentini – non si è voluto escludere o per l’autorevolezza della firma
(Sereni, Bassani, Dessí, Bacchelli, Tentori ecc…), o per la particolarità
degli autografi, magari molto datati (è il caso di Mario Costabile,
risalente ancora al primo periodo salernitano) o depositari di echi,
vicende e luoghi vissuti dal poeta.
La seconda sezione si propone come un Itinerario biografico e poetico
di Gatto nella Firenze odierna, con le riproduzioni fotografiche dei luoghi
che con maggiore nitidezza hanno impresso il loro segno nella storia e
nei versi del poeta. Si susseguono dunque le sue principali abitazioni
(l’ubicazione del demolito Canto alle rondini, Settignano, via Masaccio,
Viale Volta), i punti di ritrovo e di conversazione (le Giubbe Rosse, il
caffè Pazskowski, l’Antico Fattore), di lavoro (la sede della direzione di
«Campo di Marte»), oltre alle fonti di ispirazione per alcuni tra i
componimenti più celebri di ambientazione fiorentina, come Piazza San
Marco, San Miniato al Monte, la Chiesa di Santa Maria Novella. Per
quanto riguarda questi luoghi, occorre dire che - nonostante il notevole
scarto temporale - alcuni ancora trattengono fortemente per il visitatore le
suggestioni evocate dai versi del poeta, come nella defilata, panoramica
piazza di Settignano, nella quale, ritornandoci, pure a Alessandro
INTRODUZIONE
25
Parronchi pareva ancora di udire «la voce di un bambino intento a
zappettare senza fine»20, la voce del bambino che proprio in quelle
contrade ispirò la poesia Lelio.
La terza sezione ripercorre l’attività di Gatto presso una delle più
prestigiose istituzioni culturali fiorentine, il «Gabinetto Vieusseux», ove
fu protagonista in veste sia di recensore che di recensito, nonché di
dedicatario di una giornata di studi poche settimane dopo la morte. La sua
prima presenza ufficiale a Palazzo Strozzi risale al 16 febbraio 1959,
quando tenne una relazione sui Racconti di Romano Bilenchi (la cui
copia, autografata dall’autore e posseduta da Gatto, è riprodotta in questo
catalogo). In seguito presentò anche i Racconti di Cesare Pavese l’8
febbraio 1960, la Narrativa di Gianni Stuparich il 23 gennaio 1961 e Il
sapore della menta (anch’essa qui riprodotta) di Piero Santi il 17 febbraio
1964. L’anno precedente era toccato a lui essere recensito, il 21 gennaio,
da Carlo Betocchi in occasione dell’uscita di Osteria flegrea e
Carlomagno nella grotta. Gatto partecipò inoltre, assieme a Piero
Bigongiari, Carlo Bo, Mario Luzi, Oreste Macrí e Alessandro Parronchi a
un incontro dal titolo L’ermetismo, il 21 febbraio 1968. Infine, il 3
maggio 1976, si ritrovarono al «Gabinetto Vieusseux» Carlo Bo,
Giansiro Ferrata e Vasco Pratolini per onorarne la memoria e inquadrarne
criticamente la personalità nell’orizzonte culturale degli anni che lo
avevano visto protagonista. La sezione riproduce alcuni inviti e locandine
che annunciano gli eventi, oltre a un articolo tratto dal «Giornale del
Mattino» del 22 gennaio 1963 in cui sono riportati alcuni passi
dell’intervento di Betocchi del giorno precedente.
La successiva e più ampia parte del libro si concentra sull’attività
artistica di Gatto a Firenze, attraverso una rassegna dei principali
20
Alessandro Parronchi, Tre profili di contemporanei. 2: Alfonso Gatto, in
«L’albero», 56, 1976, ora col titolo di Alfonso Gatto a Firenze in Stratigrafia di un
poeta cit. p. 429.
26
INTRODUZIONE
cataloghi curati per mostre e esposizioni presso le più importanti gallerie
della città toscana. Si tratta di introduzioni (disposte in ordine
cronologico) che riguardano alcuni fra i più importanti esponenti della
pittura e della scultura fiorentina e italiana fra gli anni ’60 e ’70, come
Antonio e Xavier Bueno, Piero Vignozzi, Dino Caponi, il «vecchio
alunno» Dino Boschi, Corrado Cagli, Fernando Farulli, Mario Sironi,
Guido Peyron, Antonio Possenti, Sergio Scatizzi e altri ancora, fino al
salernitano Mario Carotenuto. Proprio la presentazione a quest’ultimo
artista – trattandosi di un concittadino – si presta con particolare docilità
a ribadire come Gatto tenda a filtrare irresistibilmente se stesso nella
visione e interpretazione dell’opera altrui:
La pittura di Carotenuto scioglie il patetismo lugubre della commedia
meridionale, ne espone le anime vaganti e querule, quel battere d’ali di effimere
nelle sere d’estate, quel chiamare e quel rispondere di luci e di gridi di lontananze
dei golfi, quel passare delle ombre nelle stanze vegliate dal romanzesco allucinato
delle cronache. […] la pittura di Carotenuto viene, alla fine, da una tradizione di
selvaticità autentica e da un autentico spirito d’avventura proprio delle culture
giovani che si affacciano con rapinosa morbosità d‘intuito alla scena sociale. Non
per nulla l’artista è nato nell’agro salernitano, alle porte di una città antichissima e
tuttavia nuova, segnata dai commerci e dai traffici.
Al lettore che abbia una minima confidenza con i testi di Gatto non
può sfuggire – dopo una fase della presentazione più strettamente critica
– l’abbandono a una rievocazione appassionata di luoghi e atmosfere
della giovinezza. Gli ampi spazi delle «sere d’estate» e delle «lontananze
dei golfi» sono dirette filiazioni di quelli che avevano nutrito – già a
quella altezza qualificati come ricordi di un emigrante meridionale – le
pagine di Isola e Morto ai paesi. E come spiegare l’insistenza sullo
«spirito d’avventura proprio delle culture giovani» in un artista della
INTRODUZIONE
27
classe del ’22 all’altezza degli anni Settanta (non anziano dunque, ma
appena una decina d’anni più giovane del poeta), se non come lo slancio
intensamente nostalgico di un uomo che ha provato sulla propria pelle fin
dall’infanzia quella «selvaticità autentica» che gli torna alla mente
trattando persone e luoghi così intimamente familiari? Insomma, si può
asserire che chi sapesse distillare da questi cataloghi quelle componenti
di somiglianza che ognuno serra fra le sue righe, potrebbe veramente
risalire a una sorta di autobiografia “obliqua” di Alfonso Gatto,
l’autoritratto di un pittore-poeta camuffato in sembianze e lineamenti che
solo in superficie non gli corrispondono. Oltre a questa attività di
presentazione di “personali” fiorentine, è possibile annoverare tra le
forme di collaborazione artistica condotte da Gatto i lavori svolti per la
casa editrice Vallecchi (la monografia su Ottone Rosai del 1941 e la
traduzione in italiano dal francese del volume di Jean Bouret su Henri
Rousseau), la poesia dedicata a Ferdinando Farulli, oppure il libretto edito per la «Galleria Forlai» - in cui quattro suoi testi si accompagnano a
quattro disegni di Carlo Carrà, in entrambi i casi di ambientazione
versiliese. Ma tra le altre, si distinguono in modo particolare le due
mostre presso la «Galleria Santacroce», senz’altro la casa d’arte che può
vantare il maggior numero di collaborazioni. La prima risale al 22
gennaio 1970, la seconda invece durò dal 22 febbraio al 5 marzo 1973. Di
entrambe le mostre sono riprodotti i cataloghi.
Segue una sorta di “galleria gattiana”, composta da una breve rassegna
fotografica, da tre ritratti raffiguranti il poeta, da due suoi disegni, un
acquerello e la trascrizione autografa di una poesia.
Il catalogo si chiude con due appendici, la prima dal titolo Catalogo di
una biblioteca, che contiene i 900 titoli dei volumi donati dalla moglie
del poeta all’Università degli Studi di Firenze, utile per avere un’idea di
quali fossero le letture e i libri posseduti dal poeta, almeno all’altezza
degli anni Settanta; la seconda invece riporta un elenco degli interventi
28
INTRODUZIONE
del poeta sulla “terza pagina” del «Giornale del Mattino», sulle cui
colonne Gatto pubblicò diverse centinaia di articoli a partire dall’11
maggio del 1958 fino al febbraio del 1965. A questa lista si aggiungono
le riproduzioni di alcune “terze pagine” del quotidiano e dei relativi
articoli, tra i quali si distinguono quelli su i Racconti di Bilenchi (13
gennaio 1959) e Il sapore della menta di Santi (9 maggio 1963), che
possono rendere un’idea di quali fossero i contenuti delle recensioni ai
due libri discusse dal poeta al «Gabinetto Vieusseux».
Desidero ringraziare tutte le istituzioni che hanno permesso la realizzazione di questo
catalogo, segnatamente l’«Archivio storico» (in particolare la dott. Caterina Del Vivo) e
l’«Archivio contemporaneo A. Bonsanti»
del «Gabinetto Scientifico Letterario G. P.
Vieusseux» (nella persona della dott.ssa Gloria Manghetti), il «Kunsthistorisches Institut in
Florenz», la biblioteca di Scienze della formazione dell’Università di Firenze e il relativo
personale. Tutta la mia gratitudine alla prof.ssa Anna Dolfi per avermi attribuito un compito
di così grande responsabilità, benché sia uno dei suoi allievi più giovani, e per aver coordinato
il lavoro con la ben nota pazienza e competenza. Ringrazio poi il “maestro” Paolo Marini,
Rodolfo Ceccotti e Piero Vignozzi per la loro generosità; infine - ma primi per la loro
costante e affettuosa vicinanza, oltre che per la preziosa consulenza - Silvio Balloni,
Francesco Caltabiano e Beatrice Fabbrani.
NOTE AI TESTI
Le dediche di Gatto indirizzate a Macrí, Betocchi, Rosai, De Robertis
e Bonsanti sono conservate presso i rispettivi fondi dell’«Archivio
contemporaneo Alessandro Bonsanti» del «Gabinetto Vieusseux», mentre
quelle autografate a Piero Vignozzi sono di proprietà del pittore. Le
dediche inviate a Gatto dai suoi corrispondenti provengono dal Fondo
Gatto, costituito dal patrimonio librario (900 titoli, 905 volumi) donato
nel 1984 dalla moglie del poeta all’Università degli Studi di Firenze, e
attualmente gestito dalla Facoltà di Scienze della Formazione. La
trascrizione dell’inventario del fondo, che fu approntato nel 1995 a cura
del personale della biblioteca di Scienze della Formazione, costituisce la
prima appendice di questo catalogo. Nei casi in cui in una sola pagina si
riproducono più dediche, è ovvio che gli autografi provengano da copie
diverse dello stesso libro.
L’itinerario biografico e poetico è composto da fotografie di
Leonardo Manigrasso. A commento e spiegazione delle immagini, si
riportano alcuni passi particolarmente significativi:
Per Via Pietrapiana:
Non ho bisogno di spiegare a voi fiorentini o che vivete a Firenze, per dissipare
un’ulteriore distorta lettura, siccome è accaduto anche questo, che Canto alle rondini
non è un canto alle rondini, c’entrano anche le rondini certo, ma soprattutto era: era
poiché di lì a poco fu demolito: il Canto alle rondini, angolo via Pietrapiana, dove
Gatto abitò la più parte di quei due anni (V. Pratolini21).
Per la piazza di Settignano:
21
Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, in Stratigrafia di un poeta, a cura di Pietro
Borraro e Francesco D’Episcopo, Atti del Convegno di studi (Salerno, Maiori,
Amalfi, 8-9-10 aprile 1978), Galatina, Congedo, 1980, p. 412.
30
NOTE AI TESTI
Riapparve Gatto […] e prese due stanze sulla collina di Settignano. A
Settignano, la Settignano di Palazzeschi, non di D’Annunzio, Gatto scrisse le poesie
più belle, ebbe quella che io considero la sua stagione di assoluta felicità. […]
Ricordo la stanza di Settignano con la piccola scrivania, nuda nel silenzio estivo con
le persiane chiuse, rintronare nel ronzo di una mosca impazzita e la voce di Alfonso
che dice: «In quella mosca c’è tutta l’estate (A. Parronchi22).
Per l’«Antico fattore»:
Ora, se ritorno nella vecchia via Lambertesca, passando da Piazza della Signoria
per lo strettissimo e murato Chiasso dei Baroncelli, che era l’unica nostra via di
accesso allora: se cerco l’Antico Fattore delle mie tre stagioni fiorentine che finirono
nel lungo inverno della guerra, non trovo più nemmeno il passo leggero e svagato
d’un tempo (A. Gatto23).
Per via Masaccio:
«Una casa deve restare precaria, se no se ne diventa schiavi…» ripeteva
continuamente il poeta. […] Preso fino al collo nell’ingranaggio del lavoro, costretto
a partire come inviato al Tour de France, il poeta per tutta risposta affittava una
nuova bellissima casa a Firenze, in via Masaccio (G. Pentich24).
Per il caffè «Pazskowski»:
Spesso la domenica, sul finire della mattinata, gatto arrivava al caffè
Pazskowski, in Piazza della Repubblica, portando con sé il figlioletto. Seduti attorno
a due o tre tavoli di marmo al centro del vasto salone semideserto, spiccavano le
figure di un eletto gruppo di habitués. Riconoscibilissimi. Segnando ciascuno per sé
puntualmente l’ora, comparivano a quei tavoli, accolti da un corale, dignitoso saluto,
22
A. Parronchi, Alfonso Gatto a Firenze in Stratigrafia di un poeta cit, p. 429.
A. Gatto, Prime e ultime cene, in Le ore piccole (note e noterelle), Salerno, Il
Catalogo, 1975, p. 77.
24
G. Pentich, I colori di una storia. Momenti di vita e luoghi di poesia, Milano,
All’insegna del pesce d’oro, 1993, p. 171.
23
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