11 Cataloghi Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Italianistica Alfonso Gatto a Firenze con una intervista a Piero Vignozzi a cura di Leonardo Manigrasso Firenze, 2006 Società Editrice Fiorentina Volume pubblicato con un contributo MIUR 40% Direzione scientifica : Anna Dolfi Redazione : Simone Magherini © 2006 Società Editrice Fiorentina via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 [email protected] www.sefeditrice.it Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le immagini da p. 97 a p. 215 sono riprodotte per gentile concessione degli eredi. I disegni di Franco Dani sono riprodotti per gentile autorizzazione di Giorgio e Alessandra Bonsanti. L’acquaforte di Rodolfo Ceccotti è riprodotta per gentile concessione dell’autore. Stampa: Global Print, Gorgonzola (Mi), dicembre 2006 In copertina: Alfonso Gatto di Franco Dani (1937), di proprietà dell’Archivio contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux. Non essendo stato possibile contattare gli eredi di Franco Dani, l’autorizzazione alla pubblicazione è stata gentilmente concessa da Giorgo e Alessandra Bonsanti. INDICE La poesia di uno stadio deserto. Intervista a Piero Vignozzi a cura di Leonardo Manigrasso 7 Introduzione Alfonso Gatto poeta dell’errore L’articolazione del catalogo 17 23 Note ai testi 29 ALFONSO GATTO A FIRENZE Dediche fiorentine Dediche “in uscita” Dediche “in entrata” Alcune voci eccentriche 35 49 59 Itinerario biografico e poetico di Gatto a Firenze Itinerario poetico Itinerario biografico 71 77 Gatto al Vieusseux 85 Il poeta e le arti figurative Gatto pittore: due cataloghi 97 Gatto critico: ventiquattro cataloghi fiorentini Dino Caponi Dino Boschi Fernando Farulli Mario Sironi Sergio Scatizzi Beppe Bongi Antonio Possenti Americo Mazzotta Guido Peyron Corrado Cagli Antonio Bueno Sirio Midollini Xavier Bueno Mario Carotenuto Enrico Paulucci Ugo Attardi Gianni Dova Luca Alinari Raffaele De Rosa Piero Vignozzi Vieri Vagnetti Sergio Vacchi Ottone Rosai Cesare Ronchi 117 119 122 125 128 136 138 142 146 149 157 160 164 167 170 174 176 181 187 190 194 201 204 210 213 Galleria per immagini Quindici fotografie per Gatto Tre ritratti Due disegni di Gatto, un acquerello e una poesia 219 234 237 Appendice Catalogo di una biblioteca 243 Catalogo degli scritti sulla terza pagina del «Giornale del Mattino» 277 LA POESIA DI UNO STADIO DESERTO INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI a cura di Leonardo Manigrasso Piero Vignozzi, fiorentino, classe 1934, conobbe giovanissimo Alfonso Gatto verso la fine degli anni 50 alla galleria «L’Indiano», dando vita a una amicizia intensa, quotidiana, duratura, culminata dal punto di vista professionale in una serie di articoli, recensioni e presentazioni che il poeta gli dedicò fino alla vigilia della morte. Rappresentò a Firenze un punto di riferimento importante per il “nomade” salernitano, che spesso nelle sue improvvisate toscane pernottava nella casa del pittore1. Il lettore di Alfonso Gatto che entra oggi nello studio di Vignozzi, nella sua rustica abitazione di campagna nei dintorni di Firenze, ravvisa ancora i segni, sparsi tra le tele dei lavori in fieri e i manifesti e le locandine d’arte, di questo rapporto, la comunione di interessi e passioni che dovette essere a fondamento della loro sintonia. Sono numerosi libri sul calcio, sul ciclismo (Vignozzi fu ottimo atleta nelle file giovanili della squadra di Bartali), le fotografie d’annata che denunciano un’estrazione poverissima di cui il pittore - come da comandamento gattiano - è fiero. Sono queste le basi delle «affinità elettive» di cui Gatto parla nell’introduzione al catalogo della mostra di Vignozzi del 1974, i nodi che li strinsero in un affetto così profondo da essere preservato da quelle ricadute che spesso rendevano “tempestose” - come le definisce Vittorio Sereni2 - le amicizie di Gatto. Per chi poi avesse ulteriori dubbi, vi sono due foto che ritraggono il poeta appese nello studio: in una Gatto è seduto dietro una scrivania accanto al giovane Vignozzi in piedi, si direbbe in un atteggiamento di riverenza, come davanti a un maestro oltre che a un 1 Come si deduce anche dalla dedica sul frontespizio del catalogo della mostra di Gatto del 1970, la casa di Vignozzi si trovava all’Erta Canina, nel quartiere di San Niccolò, sotto il Piazzale Michelangelo. 2 Cfr. in questo catalogo (p. 65) la dedica che il poeta lombardo indirizzò a Gatto su una copia di Gli strumenti umani. 8 INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI amico; l’altra (riprodotta in questo catalogo a p. 221) lo ritrae nel suo studio romano di Via Margutta. Da Vignozzi non ci si attendano intellettualismi o formalità, ogni domanda è per lui un pretesto per l’accavallarsi di ricordi, di flashes sempre depositari di una sfumatura o di un tono che arricchiscono lo spessore umano, prima che professionale, di Gatto. Ci si attenda piuttosto la rievocazione nostalgica, sanguigna, ora malinconica ora vivace, di un amico a cui l’artista/artigiano sente di dovere molto, e al quale - complice la morte improvvisa - ritiene di non avere restituito abbastanza. Anche questa intervista è stata forse un’occasione, benché parziale e inadeguata, per alleggerire il suo debito. Gatto, nel catalogo della mostra che Lei ha tenuto nel 1974, racconta il vostro primo incontro. Si ricorda di quell’occasione? Avvenne verso la fine degli anni Cinquanta alla galleria «L’Indiano» in Borgo Ognissanti. Fu grazie a quell’incontro che io esordii come pittore. Volle scrivermi infatti una presentazione per la mia prima mostra tenutasi ad Arezzo nel 1958. Quella mostra fu un disastro. Eravamo nella galleria in tre, io, un mio amico e il custode, che per tutte le tre ore del pomeriggio non fece altro che ripetere: «io una cosa del genere non l’avevo mai vista!». Non entrò nessuno. Fuori scoppiò un temporale, e non entrò nessuno lo stesso. Ma Alfonso mi incoraggiò, e oltre che pubblicare un articolo su di me sulla «Fiera letteraria», mi fece un’altra grande presentazione, che è la migliore che io abbia mai avuto, insieme a una di Luigi Baldacci. INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI 9 Gatto era allora un poeta già celebre. Cosa conosceva di lui? Gatto era già celeberrimo, ma io non avevo letto niente di suo. Ero un ragazzo di pochissime letture, avevo sempre dovuto lavorare per sopravvivere, facevo il garzone. Una volta però chiesi ad Alfonso che cosa fosse la poesia. Sul principio non mi rispose, poi disse: «Poesia è tutto quello che tu non potrai capire mai». Poi, scusandosi, disse: «La poesia è tutta lì, dove non c’è bisogno di capire, e già si è capito». Gatto era così; quante sere ricordo di conversazione, in cui lui prima si inalberava - bastava gli si desse il minimo motivo di provocazione - poi partiva con lunghissimi discorsi improvvisati ma bellissimi, straordinari, che contenevano sempre altissime lezioni per noi che l’ascoltavamo. E’ stata la persona più importante della mia vita. Mi convinse anche a scrivere dei racconti dopo essere tornato da lavoro, io, che non avevo letto mai niente. Li propose a «La Nazione», ma furono respinti. Poi furono portati alla redazione del «Nuovo Corriere», dove furono pubblicati grazie all’intervento di Romano Bilenchi. Bilenchi era un’altra persona che mi piaceva moltissimo. Benché fosse nato in campagna, era elegantissimo, molto più di Gatto, per come parlava, per come si muoveva, per quell’espressione sempre rammaricata che aveva, quando vagava con quella sua solita borsa. Gatto invece era sempre maldestro quando si muoveva. Fu Bilenchi ad iniziarmi alla lettura dei grandi Russi, i Francesi, Camus per quanto riguarda il Novecento, e tanti altri. Anche se talvolta non intendevo, Gatto ripeteva che non importava capire tutto, e che era già abbastanza capire qualcosa di quel che si leggeva. Tra gli altri, uno scrittore per me straordinario era Tommaso Landolfi, oggi troppo trascurato. Poi tornai alla pittura, e fu soprattutto Alfonso a orientarmici di nuovo. 10 INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI Quali erano i luoghi dove di solito vi ritrovavate a conversare? E quali erano gli amici con cui avevate maggiore consuetudine? Io fui molto fortunato. Nato nella miseria, mi ritrovai giovanissimo a parlare quotidianamente con Pratolini, Gatto, Betocchi, Ungaretti particolarmente affezionato a me - Leone Traverso, Luzi, Macrí, e poi Bilenchi, Ugo Capocchini - un altro grande maestro dimenticato Bigongiari, e tra i miei coetanei Luigi Baldacci, Piero Santi. Ci ritrovavamo al caffè «Pazskowski» alle sette di ogni sera. Firenze era allora una città in cui tu potevi già sapere dove avresti trovato le persone che ti servivano, e quando un letterato veniva a Firenze, potevi stare sicuro che a una certa ora lo trovavi in un certo luogo. Il “pastore” di questo gregge, la figura attorno alla quale ruotavano gli altri era Ottone Rosai, fosse stato solo perché era il più ricco e poteva permettersi di offrire la cena a tutti gli amici. Io ero il “ragazzo” di tutti, il più giovane, e Gatto mi aiutò sempre moltissimo, facendomi assumere al «Giornale del Mattino», imponendosi per me ai premi. Fummo dunque colleghi al giornale, dove io curavo i disegni della terza pagina e dove poi mi fu affidata anche la sezione di architettura e urbanistica, di cui peraltro non mi intendevo affatto. Gatto al giornale aveva la massima libertà, a meno che non ci fosse una specifica richiesta, scriveva articoli con la scadenza e i contenuti che voleva. Per quanto riguarda i riconoscimenti, ricordo che nel ’59 - ’60, al «Gran premio Caravaggio», Gatto, che era uno zingaro impulsivo, arrivò e disse: «Il primo premio è assegnato. Date il secondo». Non si trattava di una cosa disonesta, era solo un aiuto per valorizzare un giovane amico. Io mi ero e appena sposato e non avevo un soldo. INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI 11 Ogni quanto tempo Gatto si presentava a Firenze? La prima volta che Gatto piombò a Firenze visse a Canto alle rondini, a stretto contatto con Pratolini, Capocchini, Rosai. Poi dopo aver fondato «Campo di Marte» si trasferì a Settignano. Mi raccontava sempre di quando la sera scendeva a Firenze, dopo aver finito di lavorare, passando per i campi sotto il colle. Poi per la prospettiva di diventare direttore di «Epoca» andò a Milano. Tornò a Firenze quando Piero Santi riuscì a farlo assumere al «Giornale del Mattino», ma poco dopo se ne andò definitivamente a Roma. Tuttavia tornava molto spesso a Firenze, soprattutto dopo la separazione da Graziana Pentich. Si può dire che non si assentasse per più di due o tre mesi, ma generalmente era a Firenze almeno una volta al mese. Poi quando si diede con convinzione alla pittura, si appoggiò molto alla «Santacroce», dove presentò e allestì diverse mostre, e quindi intensificò i suoi passaggi. Devo dire che alla città di Roma è legato il mio più grande rimorso verso Alfonso. Alla metà degli anni Settanta caddi in un lungo periodo di depressione, in cui passavo la maggior parte del tempo a letto, leggendo La morte di Ivan Ilic di Tolstoj. Fu allora che seppi della morte di Alfonso. Lui aveva sempre detto: «Piero, tu sarai uno dei pochi che sarà al mio funerale». E invece non ci andai a Roma, dove si svolse la cerimonia, fui un vigliacco. Non sono neppure mai stato sulla tomba di Alfonso. Sono stato a Salerno ma non sono mai riuscito a vincermi, ad andarci. Ma prima di morire è una cosa che voglio fare. Glielo devo: una sera io non c’ero, e Gatto era a parlare con Alfredo Righi, che diceva male di me perché in quella condizione ormai da tempo non facevo più nulla. E Gatto a un certo punto esplose con il suo dialetto salernitano: «Mo’ m’hai scucciato; Pierino pure fosse nu ladro, un assassino, a me va bene così!», facendo seguire poi una delle sue sfuriate contro Righi, che mi raccontò questo episodio dopo l’incidente di Capalbio. Il suo affetto per me era così 12 INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI grande! E io ho ancora questo rimorso, di non essere andato al suo funerale. Tanto più che quando morì mia madre - persona umile, buona, indifesa, alla quale Gatto era affezionato così tanto da averla come seconda solo a Erminia, sua madre - Alfonso venne al funerale e dal fondo della Chiesa ad un certo punto si alzò, si accostò alla bara, toccò la mano della morta e - senza che nessuno lo richiedesse - improvvisò una bellissima e profonda orazione funebre. Fu così appassionata che due cugine, sedute davanti a me, si guardarono negli occhi e esclamarono: «Però, la Norina!» Pensavano che Gatto fosse l’amante di mia madre. Si può dire che proprio questa comune estrazione povera fosse la causa della vostra immediata, istintiva «affinità»? Senz’altro. Alfonso era un grande difensore dei poveri. Io mi porto sempre dietro quando viaggio il suo più grande libro sui poveri, La storia delle vittime. Anche se la poesia di Gatto alla quale sono più legato è San Marco, di ambientazione fiorentina: «Firenze grande morta / nella sera e nel fiume, / una lapide effimera sia vento / al dolce nome, al grigio della porta». Questo è andar dentro Firenze, profondamente! Invece penso che la poesia alla quale Gatto guardava con piu commozione fosse Morto ai paesi, il componimento che dà il titolo al suo secondo libro. Gatto invece aveva dei libri che si portava dietro nei suoi spostamenti? Alfonso aveva molti libri, era un lettore intelligentissimo, ma se li lasciava sempre dietro. Era uno zingaro, amava moltissimo viaggiare. Era un compagno perfetto, che si adeguava sempre alle circostanze in cui si veniva a trovare. Mi portò anche a Salerno, a casa sua in un ambiente particolare, dove per esempio dopo la morte della madre, nessuno toccò più la televisione che Erminia guardava sempre. La coprirono con un po’ INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI 13 di plastica e divenne una sorta di simbolo di lutto. Andavamo sempre a nuotare, su una costa sotto i monti. Era un nuotatore imbattibile. Per tutto il resto era maldestro, non imparò mai a andare in bicicletta o a guidare, né era in grado di dare un calcio a un pallone, ma a nuotare era un fulmine, insuperabile. Un’altra cosa che amava fare era giocare a carte. Da buon napoletano era bravissimo nello scopone, mentre nel gioco d’azzardo non era un granché. Ricordo intere notti passate insieme a giocare a poker. Queste erano occasioni particolari: mostrava infatti una debolezza, una fragilità che solo gli amici più intimi sapevano notare, e che nessuno avrebbe attribuito a un temperamento irruente come il suo. Alfonso aveva un sottofondo di timidezza, come un ragazzo, che pochissimi potevano riconoscere. Gli mancava in tali circostanze quella stessa spinta che gli impedì sempre di alzarsi sui pedali e andare in bicicletta. Il suo passatempo preferito però a Firenze era andare allo stadio. Era un tifoso appassionato ma molto moderato nei toni. Ricordo che per un Fiorentina - Milan gli disegnai un cappello metà viola e metà rossonero, ma che rifiutò di indossare; non amava questo tipo di manifestazioni. Perdemmo [la Fiorentina] due a zero, ma non mi prese in giro, non lo faceva mai. Quando litigò con Sereni, che era interista, lo fece per provocazione, per il gusto di battersi, come con Eduardo De Filippo. Quando incontrò De Filippo si abbracciarono molto stretti, ma dubito che si piacessero molto. Allo stadio seguiva la partita con attenzione, ma si accorgeva anche delle cose più marginali, come un uccellino che si posasse sul campo di gioco. Soprattutto amava, e anche a me piaceva, far svuotare lo stadio dopo la partita. Era come un grande teatro in cui si era attori di se stessi, e stavamo talvolta delle ore nello stadio deserto, sempre senza parlare. E una volta ci chiusero dentro. Si era già fatto buio che rimanemmo imprigionati nella Maratona, quando già erano andati via tutti. Cominciammo a urlare, ma dovemmo incendiare alcuni giornali per farci vedere, e solo dopo molto vennero a 14 INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI liberarci. Un’altra cosa che gli piaceva fare era cantare. Cantava sempre a bassa voce, in particolare quando era nella mia macchina, una Morris verde con interni in pelle e legno che adorava. Cantava bene, molte canzoni napoletane, soprattutto «I’ te vurria vasà», pur senza avere una grande estensione di voce. Gatto ha esposto due volte a Firenze, nel 1970 e nel 1973. Come affrontò queste circostanze? E come giudica la sua pittura? Gatto alle mostre era molto discreto, forse anche un po’ impacciato. Era un altro di quei contesti in cui mostrava quella insicurezza di cui dicevo, che poi mascherava dietro la sua conversazione brillantissima, di grande improvvisatore come solo i meridionali sanno essere. Il suo mestiere era la poesia, al di fuori era in difficoltà. Era un pittore molto maldestro, eppure aveva una forza, un senso del colore che trasmetteva sempre all’opera una grande vitalità, che poteva anche essere disperazione, ma c’era sempre. Con le doti che aveva, soprattutto per quel che riguarda gli acquerelli, avrebbe potuto benissimo fare il pittore. Del resto sosteneva sempre che dipingere gli rendeva di più che fare poesia. Per concludere, rammenta qualche episodio particolare, emblematico, eloquente per un ritratto di Alfonso Gatto? La sua caratteristica principale era l’avere sempre qualche risorsa nascosta, in più laddove non la si immaginava. Una domenica per esempio il redattore del «Giornale del Mattino» ci commissionò un articolo su un circolo di pittori e poeti che settimanalmente si riuniva a Pisa per esporre i progetti a cui stavano lavorando. Ognuno portava titoli impegnatissimi, il più umile sarà stato La catarsi del mondo. Erano persone che giustificavano il proprio lavoro e l’altrui creandosi INTERVISTA A PIERO VIGNOZZI 15 reciprocamente un pubblico fittizio, artificioso. Una volta lì, vedendo di cosa si trattava, Gatto andò su tutte le furie. Gli sventurati lo invitarono a parlare, e io mi aspettavo parole comunque concilianti, di circostanza. Macché. Si alzò e cominciò un’altra delle sue sfuriate, una vera esplosione. Io sulle prime temetti ci picchiassero, poi gli diedi man forte, e continuammo a urlare e a inveire per tutta la tromba delle scale. L’articolo non lo scrivemmo, «lo scriva il redattore, se vuole», e la giornata si concluse a mangiare pesce e a bere vino, in allegria. Alfonso non sopportava il dilettantismo truccato da complessità, la mediocrità elevata a protagonismo. Lui stesso non parlava mai della sua poesia, se non richiesto, non era un pedante. Le sue fissazioni erano lo sport e le donne. Quando morì era in compagnia della sua ultima donna, e della madre di lei. So che le sue ultime parole furono «fatemi respirare, fatemi respirare». Spesso ci ripenso e - pur non essendo e non volendo fare l’intellettuale - mi vengono sempre in mente i versi di un altro grande poeta, Garcia Lorca, che scrisse: «se muoio, lasciate aperto il balcone». Credo che anche per Gatto fosse così. INTRODUZIONE Alfonso Gatto poeta dell’errore Questo catalogo nasce dal proposito di affrontare una tematica che a dispetto della facile apparenza, richiede un avvicinamento cauto e problematico: come documentare in modo critico la presenza di un poeta come Alfonso Gatto a Firenze? In quale modo provare a ricostruire la durevole e reciproca influenza che ha legato un artista dalla così originale personalità alla “dimora vitale” di un’intera generazione? Le difficoltà si generano già a partire dalla natura complessa dei due termini in questione. Da una parte la Firenze del pieno Novecento, dai vivaci benché foschi anni Trenta del movimento ermetico e dei Caffé letterari, al travagliato dopoguerra degli anni Cinquanta e Sessanta, e oltre ancora, fino alla metà del decennio successivo. La città di Montale e Pratolini, Luzi e Ferrata, Parronchi e Bigongiari, Macrí, Betocchi, Bo e di tanti altri amici e sodali. Dall’altra un intellettuale inquieto e irrequieto, estroso e impulsivo, dall’ingegno versatile, capace di misurarsi non solo con la poesia e la prosa d’arte, ma con ogni forma di espressione che la cultura dell’epoca potesse offrirgli. Accade così che nella sua estesa produzione – tra impegni continuati nel tempo e prove sporadiche – ci sia possibile classificare il critico di letteratura, quello di cinema e d’arte, il pittore e l’incisore, il corrispondente politico e il giornalista sportivo, il traduttore e il drammaturgo, l’addetto alla cronaca nera e di costume, l’inviato a convegni e incontri di genere più diverso, il curatore di ogni sorta di rubrica, lo scrittore per l’infanzia. Un simile eclettismo di esercizi e di interessi, in una città di tali e tanti fermenti e protagonisti, ha suggerito – a discapito di un approccio monolitico, frontale – l’articolazione di questo catalogo in diverse sezioni che affrontassero la presenza fiorentina di Gatto ognuna da una diversa 18 INTRODUZIONE angolazione, nella speranza che la somma delle prospettive riesca a rendere un quadro sfaccettato, policentrico ma non parziale. E questo non perché nell’orizzonte di Alfonso manchi un centro, un’attività d’elezione attorno alla quale gravitino tutte le altre, ma perché si è voluto rivolgere l’attenzione anche a quella rilevante componente della vita culturale del poeta alla quale si tende a prestare minor considerazione, e che invece è foriera di contenuti non secondari per lo studioso di Gatto. E’ forse superfluo chiarire come l’attività-cardine dello scrittore salernitano, e non potrebbe essere altrimenti, sia la poesia. Ma non da intendersi come una categoria a sé stante, monade promossa da una privilegiata ontologia che la distingue e eleva da ciò che non le somiglia o corrisponde, bensì come un continuo punto di riferimento e di colloquio con tutte le realtà intellettuali, morali e culturali con le quali Gatto ha interferito. Egli infatti non è poeta quando si esprime in versi, critico d’arte alle esposizioni figurative e giornalista sulle colonne dei quotidiani; al contrario rivendica in ogni sede il proprio indelebile statuto di poeta1, di creatore di una poesia che non percepisce un confine nelle proprie forme chiuse, ma il nucleo intatto di una rigorosa istanza etica che disciplina e informa di sé ogni altra circostanza. E’ questo il presupposto che dispone il fitto e fecondo dialogo che continuamente coniuga la produzione in versi a quella ricca compagine di scritti dispersi e parcellizzati in un minuto campionario di collaborazioni, presentazioni, articoli di vario genere. Il centro rappresentato dalla poesia e queste prose 1 Cfr. alcuni passi a titolo di mero esempio: «Un poeta esiterebbe a dare a un pittore qual è Dova più ali di quante egli stesso ne apra per i propri voli» (Introduzione al catalogo di Gianni Dova per la mostra del novembre/dicembre 1973 presso la «Galleria d’arte Spagnoli»); «Se vi chiedete perché uno scrittore o un poeta s’interessa al Tour, ricordate […] che il Tour è un grande fatto umano, le cui parole non sono mai dette a caso, mai avventate, ma serie e assolute» (Sognando di volare. Alfonso Gatto al Giro e al Tour, Salerno, Il Catalogo, 1983, p. 151); Parola di poeta questo libro è bello […] (titolo dell’articolo apparso sul «Giornale del Mattino» il 26 febbraio 1963). INTRODUZIONE 19 periferiche che gli ruotano intorno comunicano in virtù della comune solidarietà e appartenenza alla onnicomprensiva categoria dei “fatti umani”, che annette a sé ogni forma di espressione e coinvolgimento di cui siano protagonisti gli uomini, le donne o il poeta stesso, a partire dai vertici analogici del periodo ermetico, fino alla cronaca più efferata o quotidiana. Tutto in Gatto pretende la stessa impostazione “da poeta”, il medesimo rigore, l’attenzione ai fatti anche più trascurabili, marginali, ai «dolori umili, oscuri, persino umiliati, [alle] prove incredibili di fede e testimonianze di rancore ottuso»2. Lo stesso Alfonso era ben consapevole del valore di queste prose più o meno occasionali se, pur nate per una fruizione isolata, a distanza talvolta di anni ebbe assiduamente premura di rimaneggiarle e di ripubblicarle in raccolte quali Napoli N.N. o Le ore piccole (note e noterelle). Del resto anche alcuni tra i critici3 più consapevoli e affezionati al poeta salernitano si sono adoperati con convinzione in una più o meno sistematica attività di riedizione di questo tipo di scritti. Al di là dei racconti, delle memorie o dei reportage, in questa sfera di scritti “eccentrici” assumono un interesse particolare le testimonianze critiche per scrittori e artisti che tante volte lo hanno impegnato. Questo perché Gatto è un autore “invadente”, che non riesce o non vuole giudicare con il distacco proprio dell’interprete un testo o un dipinto, ma si inserisce sempre all’interno del segno come a ricercare il proprio spazio (il proprio “costrutto4”) nella misura altrui, fondando la lettura e l’interpretazione su un taglio che prima di mirare a riguadagnare la 2 Un curioso cronista, in Le ore piccole (note e noterelle), Il catalogo, Salerno, 1975, p. 7. 3 In questa attività si distinguono in particolare Cristina Nesi, che ha curato tra gli altri Parole a un pubblico immaginario e altre prose, e Francesco D’Episcopo, anche solo da un punto di vista quantitativo senz’altro il più fedele “rieditore” del poeta. 4 Per il significato del termine, cfr. Silvio Ramat, Un viaggio da isola a isola, introduzione a Alfonso Gatto, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2005, p. XII. 20 INTRODUZIONE volontà e la “poetica” dell’artista, inevitabilmente vi concilia un filtro, una sintonia personale, una inconfondibile mano che richiama tanti luoghi della sua poesia. Gatto è «uomo di cuore»5, ostile a ogni «logicismo»6 - anche critico - nelle circostanze umane7, laddove esso escluda quella componente di partecipazione emotiva che fa nascere l’arte prima nello sguardo del soggetto, che nell’oggettività della materia: Al limite della ricerca di Boschi, c’è un’ipotesi retorica di commemorazione per l’uomo romantico sacrificato alla lente incisiva della convenzione ottica e esortato a riprendere l’allure, l’imprevedibile allarme dell’individuo8. Gatto insomma investe ogni discorso critico con i motivi d’elezione della propria sensibilità, riconvocati e attualizzati nelle pluralità di forme e segni che si trova a affrontare. Ne consegue che il lettore può in ogni scritto sperimentare i riflessi di una poetica autoreferente mimetizzata nella pur sempre lucidissima e competente - talora fondante - analisi di opere e personalità di altri scrittori e artisti. Si leggano le chiusure - 5 Cfr. la rubrica curata per il «Giornale del Mattino» Sette giorni. I fatti della settimana visti da un uomo di cuore. 6 Cfr. Il mistero di via Monaci. Romanzo quotidiano dal processo Fenaroli, a cura di Luigi Giordano, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1996, p. 47. 7 «[…] tutti gli uomini “difficili”, perché certi e imprevedibili, vanno immaginati». Così comincia l’introduzione di Gatto all’opera di Cezanne, ribadendo l’impossibilità di una conoscenza razionale, investigativa (da qui il dissidio tra il giudizio sui fatti di Gatto e quello dei giudici al processo Fenaroli) ma al massimo intuitiva della dimensione umana, a maggior ragione dove essa sia di straordinaria profondità, come nel caso degli artisti del calibro di Cezanne. Il riferimento è a Occhio che vede dentro al suo vedere, presentazione a Paul Cezanne, L’opera completa, Milano, Rizzoli, 1970. 8 Introduzione al catalogo della mostra di Dino Boschi tenutasi alla stamperia d’arte grafica contemporanea «Il Bisonte». INTRODUZIONE 21 sempre luoghi particolarmente significativi in Gatto9 - delle prose su Leopardi e Rosai per capire cosa si intende per questa sorta di continua rimeditazione dei propri contenuti poetici e morali per interposta persona: In quella culla è nato un bambino che non ha avuto e che non darà mai pace10. Direi che, nonostante il suo opportunismo, vittoria è che Rosai resti importuno, a non aver pace e a non darla11. Non si tratta solamente della reiterazione di un suggestivo espediente retorico che si addice bene al gusto per le clausole coltivato in versi e in prosa, né di una implicita solidarietà etica e biografica tra Leopardi e Rosai, ma del timbro personalissimo di colui che interpreta i due maestri, e li riconduce al proprio ideale di intellettuale in prima istanza come irriducibile nemico di ogni condiscendenza, viltà, piaggeria, quiete, o meglio, acquiescenza. Avverso insomma «per sostanza […] a ogni significato positivo»12. Il primo a non voler avere pace e soprattutto a non offrirla agli altri è proprio lui, Gatto: 9 Anna Dolfi indica nelle “clausole brucianti” uno dei tratti più tipici della poesia di Alfonso Gatto. Cfr. Alfonso Gatto: approssimazioni a una lettura di Desinenze, ora in Terza generazione: ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997. 10 La culla del Leopardi, in «Giornale del Mattino», 20 ottobre 1962. Lo scritto è poi confluito con lo stesso titolo in Le ore piccole (note e noterelle), Salerno, Il catalogo, 1976, ma modificato nella forma, e con un finale diverso. 11 Rosai, vent’anni dopo, introduzione al catalogo I Rosai della Galleria Santacroce in occasione della mostra tenutasi alla «Galleria Santacroce» a partire dal 28 febbraio 1976. 12 Cfr. l’intervista a Gatto contenuta in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Lerici, 1965. 22 INTRODUZIONE […] nell’atto di scrivere, non ipotizzo mai un lettore amico e, tanto meno, complice. Scrivo per un lettore nemico che abbia per sé l’inimicizia che presuppone nel poeta e in ogni provocatore di verità13. Ma come provocare, sollecitare la verità? Essa è per propria costituzione inesprimibile, l’infinito «di sé solo perfetto / [è un] cimitero di segni»14, per l’uomo. Il rifiuto di ogni facile “azzardo”, degli «inviti della corrente»15, di ogni forma di ottimismo o pessimismo come alibi all’urgenza dell’azione, sbocca in Gatto nell’imperativo dell’«errore», inteso come continua oltranza votata all’impervio, all’ostile, all’incerto in nome di una tenace resistenza e di una pienezza vitale che è tipica del meridionale. Si legga cosa scriveva in una corrispondenza privata Vasco Pratolini – che Gatto lo conosceva bene – a Alessandro Parronchi: Il mio amore per Gatto comincia di qui, allorché gli posso invidiare il candore, o magari l’incoscienza, l’imprudenza, la spudoratezza con cui può continuamente ipotecare la sua vita, il suo coraggio di scoprirsi, fino a raggiungere la poesia nell’errore16. Il dettato montaliano17, inciso a Salerno sulla lapide del poeta, per cui vita e poesia trovarono nella figura di Gatto una congruità, una fedeltà rara, ottiene in questo caso una decisiva conferma. Infatti questa poetica dell’errore – o dovremmo dire dell’erranza nel suo duplice significato di approssimazione al vero e di costante stato di mobilità – non si confina a 13 Ibidem. Notturno per Mondrian, in Osteria flegrea, vv. 4 – 5. 15 Fummo l’erba, in La storia delle vittime, vv. 22 – 23. 16 Cfr. la lettera inviata da Pratolini a Parronchi il 14 febbraio 1940, ora contenuta in Lettere a Sandro, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze, Polistampa, 1992. 17 Eugenio Montale omaggiò il poeta scomparso con questa sorta di epigramma: «Ad Alfonso Gatto, / per cui vita e poesia / furono un’unica testimonianza / d’amore». 14 INTRODUZIONE 23 un piano letterario, ma invade il campo biografico con una perentorietà che trapela senz’altro dalle sconsolate cronache di Graziana Pentich18 sui continui traslochi di abitazione in abitazione, di città in città, a cui Gatto sottoponeva la famiglia, non solo per le note vicissitudini economiche (che lo avevano da sempre abituato a questo tipo di vita), ma anche per una sorta di smania che dopo un periodo di relativa stabilità giungeva nuovamente a tormentarlo. I suoi due periodi fiorentini (a cavallo dell’inizio della Seconda Guerra e tra il 1958 e il 1961), ma soprattutto il primo, sono costellati proprio da questi continui cambi di dimora, dal centro storico all’immediata periferia, ai colli di Settignano, a poche decine di metri dalla tomba di Niccolò Tommaseo e, oggi, di Aldo Palazzeschi. L’articolazione del catalogo Il catalogo, secondo le linee guida appena esposte, si articola in cinque sezioni e due appendici. La prima sequenza cerca di ricreare la fitta rete di relazioni intrecciata nel corso degli anni da Gatto con gli amici fiorentini19 attraverso un campionario di dediche “in uscita” e “in entrata”. E’ stato possibile così avvicendare accanto al nome di Gatto quelli di Parronchi, Bilenchi, Betocchi, Rosai, Macrí, Bonsanti e tanti altri. Pur non potendo costitutivamente essere una panoramica esaustiva, soggetta com’è all’effettiva disponibilità del materiale, questa serie di autografi permette di affrontare da un taglio originale il motivo delle amicizie fiorentine – ma non solo – coltivate nel corso degli anni o 18 Cfr. Graziana Pentich, I colori di una storia. Momenti di vita e luoghi di poesia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1993, p. 171. 19 La nozione di “fiorentino” deve essere intesa in senso lato, non limitata alla cittadinanza anagrafica, ma estesa anche a chi, nato e cresciuto altrove, ha partecipato alla vita culturale di Firenze: è il caso ad esempio dei meridionali Oreste Macrí e Giacinto Spagnoletti. 24 INTRODUZIONE sperimentare il grado di confidenza con cui gli autori si scrivevano (più formale Cassola, più disinvolto Betocchi per esempio). Talvolta poi si scoprono contenuti di interesse non solo documentario, ma di portata più ampia, come nel caso della commovente, drammatica dedica inviata a Carlo Betocchi su Le ore piccole, che termina con un augurio che si rivelerà di cattivo, pessimo auspicio: «con un abbraccio / e per un felice 1976 / il suo / Alfonso». Il 1976 al contrario sarà un vero e proprio annus horribilis, funestato dalla tragica morte di Gatto in un incidente stradale, e dal successivo suicidio del figlio Leone. Sotto la categoria Alcune voci eccentriche è presentata solo una piccola parte tra le numerosissime dediche reperite tra i libri di Gatto, che – pur non appartenendo a fiorentini – non si è voluto escludere o per l’autorevolezza della firma (Sereni, Bassani, Dessí, Bacchelli, Tentori ecc…), o per la particolarità degli autografi, magari molto datati (è il caso di Mario Costabile, risalente ancora al primo periodo salernitano) o depositari di echi, vicende e luoghi vissuti dal poeta. La seconda sezione si propone come un Itinerario biografico e poetico di Gatto nella Firenze odierna, con le riproduzioni fotografiche dei luoghi che con maggiore nitidezza hanno impresso il loro segno nella storia e nei versi del poeta. Si susseguono dunque le sue principali abitazioni (l’ubicazione del demolito Canto alle rondini, Settignano, via Masaccio, Viale Volta), i punti di ritrovo e di conversazione (le Giubbe Rosse, il caffè Pazskowski, l’Antico Fattore), di lavoro (la sede della direzione di «Campo di Marte»), oltre alle fonti di ispirazione per alcuni tra i componimenti più celebri di ambientazione fiorentina, come Piazza San Marco, San Miniato al Monte, la Chiesa di Santa Maria Novella. Per quanto riguarda questi luoghi, occorre dire che - nonostante il notevole scarto temporale - alcuni ancora trattengono fortemente per il visitatore le suggestioni evocate dai versi del poeta, come nella defilata, panoramica piazza di Settignano, nella quale, ritornandoci, pure a Alessandro INTRODUZIONE 25 Parronchi pareva ancora di udire «la voce di un bambino intento a zappettare senza fine»20, la voce del bambino che proprio in quelle contrade ispirò la poesia Lelio. La terza sezione ripercorre l’attività di Gatto presso una delle più prestigiose istituzioni culturali fiorentine, il «Gabinetto Vieusseux», ove fu protagonista in veste sia di recensore che di recensito, nonché di dedicatario di una giornata di studi poche settimane dopo la morte. La sua prima presenza ufficiale a Palazzo Strozzi risale al 16 febbraio 1959, quando tenne una relazione sui Racconti di Romano Bilenchi (la cui copia, autografata dall’autore e posseduta da Gatto, è riprodotta in questo catalogo). In seguito presentò anche i Racconti di Cesare Pavese l’8 febbraio 1960, la Narrativa di Gianni Stuparich il 23 gennaio 1961 e Il sapore della menta (anch’essa qui riprodotta) di Piero Santi il 17 febbraio 1964. L’anno precedente era toccato a lui essere recensito, il 21 gennaio, da Carlo Betocchi in occasione dell’uscita di Osteria flegrea e Carlomagno nella grotta. Gatto partecipò inoltre, assieme a Piero Bigongiari, Carlo Bo, Mario Luzi, Oreste Macrí e Alessandro Parronchi a un incontro dal titolo L’ermetismo, il 21 febbraio 1968. Infine, il 3 maggio 1976, si ritrovarono al «Gabinetto Vieusseux» Carlo Bo, Giansiro Ferrata e Vasco Pratolini per onorarne la memoria e inquadrarne criticamente la personalità nell’orizzonte culturale degli anni che lo avevano visto protagonista. La sezione riproduce alcuni inviti e locandine che annunciano gli eventi, oltre a un articolo tratto dal «Giornale del Mattino» del 22 gennaio 1963 in cui sono riportati alcuni passi dell’intervento di Betocchi del giorno precedente. La successiva e più ampia parte del libro si concentra sull’attività artistica di Gatto a Firenze, attraverso una rassegna dei principali 20 Alessandro Parronchi, Tre profili di contemporanei. 2: Alfonso Gatto, in «L’albero», 56, 1976, ora col titolo di Alfonso Gatto a Firenze in Stratigrafia di un poeta cit. p. 429. 26 INTRODUZIONE cataloghi curati per mostre e esposizioni presso le più importanti gallerie della città toscana. Si tratta di introduzioni (disposte in ordine cronologico) che riguardano alcuni fra i più importanti esponenti della pittura e della scultura fiorentina e italiana fra gli anni ’60 e ’70, come Antonio e Xavier Bueno, Piero Vignozzi, Dino Caponi, il «vecchio alunno» Dino Boschi, Corrado Cagli, Fernando Farulli, Mario Sironi, Guido Peyron, Antonio Possenti, Sergio Scatizzi e altri ancora, fino al salernitano Mario Carotenuto. Proprio la presentazione a quest’ultimo artista – trattandosi di un concittadino – si presta con particolare docilità a ribadire come Gatto tenda a filtrare irresistibilmente se stesso nella visione e interpretazione dell’opera altrui: La pittura di Carotenuto scioglie il patetismo lugubre della commedia meridionale, ne espone le anime vaganti e querule, quel battere d’ali di effimere nelle sere d’estate, quel chiamare e quel rispondere di luci e di gridi di lontananze dei golfi, quel passare delle ombre nelle stanze vegliate dal romanzesco allucinato delle cronache. […] la pittura di Carotenuto viene, alla fine, da una tradizione di selvaticità autentica e da un autentico spirito d’avventura proprio delle culture giovani che si affacciano con rapinosa morbosità d‘intuito alla scena sociale. Non per nulla l’artista è nato nell’agro salernitano, alle porte di una città antichissima e tuttavia nuova, segnata dai commerci e dai traffici. Al lettore che abbia una minima confidenza con i testi di Gatto non può sfuggire – dopo una fase della presentazione più strettamente critica – l’abbandono a una rievocazione appassionata di luoghi e atmosfere della giovinezza. Gli ampi spazi delle «sere d’estate» e delle «lontananze dei golfi» sono dirette filiazioni di quelli che avevano nutrito – già a quella altezza qualificati come ricordi di un emigrante meridionale – le pagine di Isola e Morto ai paesi. E come spiegare l’insistenza sullo «spirito d’avventura proprio delle culture giovani» in un artista della INTRODUZIONE 27 classe del ’22 all’altezza degli anni Settanta (non anziano dunque, ma appena una decina d’anni più giovane del poeta), se non come lo slancio intensamente nostalgico di un uomo che ha provato sulla propria pelle fin dall’infanzia quella «selvaticità autentica» che gli torna alla mente trattando persone e luoghi così intimamente familiari? Insomma, si può asserire che chi sapesse distillare da questi cataloghi quelle componenti di somiglianza che ognuno serra fra le sue righe, potrebbe veramente risalire a una sorta di autobiografia “obliqua” di Alfonso Gatto, l’autoritratto di un pittore-poeta camuffato in sembianze e lineamenti che solo in superficie non gli corrispondono. Oltre a questa attività di presentazione di “personali” fiorentine, è possibile annoverare tra le forme di collaborazione artistica condotte da Gatto i lavori svolti per la casa editrice Vallecchi (la monografia su Ottone Rosai del 1941 e la traduzione in italiano dal francese del volume di Jean Bouret su Henri Rousseau), la poesia dedicata a Ferdinando Farulli, oppure il libretto edito per la «Galleria Forlai» - in cui quattro suoi testi si accompagnano a quattro disegni di Carlo Carrà, in entrambi i casi di ambientazione versiliese. Ma tra le altre, si distinguono in modo particolare le due mostre presso la «Galleria Santacroce», senz’altro la casa d’arte che può vantare il maggior numero di collaborazioni. La prima risale al 22 gennaio 1970, la seconda invece durò dal 22 febbraio al 5 marzo 1973. Di entrambe le mostre sono riprodotti i cataloghi. Segue una sorta di “galleria gattiana”, composta da una breve rassegna fotografica, da tre ritratti raffiguranti il poeta, da due suoi disegni, un acquerello e la trascrizione autografa di una poesia. Il catalogo si chiude con due appendici, la prima dal titolo Catalogo di una biblioteca, che contiene i 900 titoli dei volumi donati dalla moglie del poeta all’Università degli Studi di Firenze, utile per avere un’idea di quali fossero le letture e i libri posseduti dal poeta, almeno all’altezza degli anni Settanta; la seconda invece riporta un elenco degli interventi 28 INTRODUZIONE del poeta sulla “terza pagina” del «Giornale del Mattino», sulle cui colonne Gatto pubblicò diverse centinaia di articoli a partire dall’11 maggio del 1958 fino al febbraio del 1965. A questa lista si aggiungono le riproduzioni di alcune “terze pagine” del quotidiano e dei relativi articoli, tra i quali si distinguono quelli su i Racconti di Bilenchi (13 gennaio 1959) e Il sapore della menta di Santi (9 maggio 1963), che possono rendere un’idea di quali fossero i contenuti delle recensioni ai due libri discusse dal poeta al «Gabinetto Vieusseux». Desidero ringraziare tutte le istituzioni che hanno permesso la realizzazione di questo catalogo, segnatamente l’«Archivio storico» (in particolare la dott. Caterina Del Vivo) e l’«Archivio contemporaneo A. Bonsanti» del «Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux» (nella persona della dott.ssa Gloria Manghetti), il «Kunsthistorisches Institut in Florenz», la biblioteca di Scienze della formazione dell’Università di Firenze e il relativo personale. Tutta la mia gratitudine alla prof.ssa Anna Dolfi per avermi attribuito un compito di così grande responsabilità, benché sia uno dei suoi allievi più giovani, e per aver coordinato il lavoro con la ben nota pazienza e competenza. Ringrazio poi il “maestro” Paolo Marini, Rodolfo Ceccotti e Piero Vignozzi per la loro generosità; infine - ma primi per la loro costante e affettuosa vicinanza, oltre che per la preziosa consulenza - Silvio Balloni, Francesco Caltabiano e Beatrice Fabbrani. NOTE AI TESTI Le dediche di Gatto indirizzate a Macrí, Betocchi, Rosai, De Robertis e Bonsanti sono conservate presso i rispettivi fondi dell’«Archivio contemporaneo Alessandro Bonsanti» del «Gabinetto Vieusseux», mentre quelle autografate a Piero Vignozzi sono di proprietà del pittore. Le dediche inviate a Gatto dai suoi corrispondenti provengono dal Fondo Gatto, costituito dal patrimonio librario (900 titoli, 905 volumi) donato nel 1984 dalla moglie del poeta all’Università degli Studi di Firenze, e attualmente gestito dalla Facoltà di Scienze della Formazione. La trascrizione dell’inventario del fondo, che fu approntato nel 1995 a cura del personale della biblioteca di Scienze della Formazione, costituisce la prima appendice di questo catalogo. Nei casi in cui in una sola pagina si riproducono più dediche, è ovvio che gli autografi provengano da copie diverse dello stesso libro. L’itinerario biografico e poetico è composto da fotografie di Leonardo Manigrasso. A commento e spiegazione delle immagini, si riportano alcuni passi particolarmente significativi: Per Via Pietrapiana: Non ho bisogno di spiegare a voi fiorentini o che vivete a Firenze, per dissipare un’ulteriore distorta lettura, siccome è accaduto anche questo, che Canto alle rondini non è un canto alle rondini, c’entrano anche le rondini certo, ma soprattutto era: era poiché di lì a poco fu demolito: il Canto alle rondini, angolo via Pietrapiana, dove Gatto abitò la più parte di quei due anni (V. Pratolini21). Per la piazza di Settignano: 21 Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, in Stratigrafia di un poeta, a cura di Pietro Borraro e Francesco D’Episcopo, Atti del Convegno di studi (Salerno, Maiori, Amalfi, 8-9-10 aprile 1978), Galatina, Congedo, 1980, p. 412. 30 NOTE AI TESTI Riapparve Gatto […] e prese due stanze sulla collina di Settignano. A Settignano, la Settignano di Palazzeschi, non di D’Annunzio, Gatto scrisse le poesie più belle, ebbe quella che io considero la sua stagione di assoluta felicità. […] Ricordo la stanza di Settignano con la piccola scrivania, nuda nel silenzio estivo con le persiane chiuse, rintronare nel ronzo di una mosca impazzita e la voce di Alfonso che dice: «In quella mosca c’è tutta l’estate (A. Parronchi22). Per l’«Antico fattore»: Ora, se ritorno nella vecchia via Lambertesca, passando da Piazza della Signoria per lo strettissimo e murato Chiasso dei Baroncelli, che era l’unica nostra via di accesso allora: se cerco l’Antico Fattore delle mie tre stagioni fiorentine che finirono nel lungo inverno della guerra, non trovo più nemmeno il passo leggero e svagato d’un tempo (A. Gatto23). Per via Masaccio: «Una casa deve restare precaria, se no se ne diventa schiavi…» ripeteva continuamente il poeta. […] Preso fino al collo nell’ingranaggio del lavoro, costretto a partire come inviato al Tour de France, il poeta per tutta risposta affittava una nuova bellissima casa a Firenze, in via Masaccio (G. Pentich24). Per il caffè «Pazskowski»: Spesso la domenica, sul finire della mattinata, gatto arrivava al caffè Pazskowski, in Piazza della Repubblica, portando con sé il figlioletto. Seduti attorno a due o tre tavoli di marmo al centro del vasto salone semideserto, spiccavano le figure di un eletto gruppo di habitués. Riconoscibilissimi. Segnando ciascuno per sé puntualmente l’ora, comparivano a quei tavoli, accolti da un corale, dignitoso saluto, 22 A. Parronchi, Alfonso Gatto a Firenze in Stratigrafia di un poeta cit, p. 429. A. Gatto, Prime e ultime cene, in Le ore piccole (note e noterelle), Salerno, Il Catalogo, 1975, p. 77. 24 G. Pentich, I colori di una storia. Momenti di vita e luoghi di poesia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1993, p. 171. 23