I RACCONTI DEL 2009
Vissi dieci anni da scrittrice
Di
Monica Benincà
(già pubblicati)
1
LA MALATTIA MENTALE
C’era Rosa in giardino quel pomeriggio. La guardai con discreta
attenzione seduta in quella panchina in fondo, sotto il salice
piangente. Aveva uno sguardo perso, in piena facoltà della sua
meditazione. Quasi da stupirsi con quanta caparbietà guardava fisso
davanti a sé, il vuoto, del suo pieno interiore.
M’avvicinai con discrezione, per non irrompere con troppa
irruenza nella vita del momento.
L’ascoltai.
Parlò all’amica che l’affiancava tacita, in modo molto fugace, ciò
che stava conversando la sua mente. La espose a lei, ed io ascoltai.
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Rosa è sempre stata giudicata malata dalla gente comune nei suoi
discorsi filosofici, ci vuole molta concentrazione ed intuito, per
comprenderla in tutte le sue sfumature.
La esaminai, mentre conversa con sé stessa ad alta voce, nei suoi
occhi verdi, spalancati verso l’orizzonte.
“Sono quelle cose da ragazzi” disse. “Quelle che rimangono
sempre conservate e non si scaldano, non creano scompiglio.
Rimangono lì, chiuse in un’indimenticabile atmosfera di delirio,
quando davanti t’appaiono immagini variopinte, simili alle scene
cinematografiche, oppure logorate dallo stesso sguardo, a volte
verde, a volte blu porpora, che alla fine non ha molta importanza.
Tanto ti racconti e ti ripeti, che non è un modo di fare, non è
un’etimologia, sono custodite opinioni di decisioni prese all’orlo per
confermare la congettura di soldi accumulati dal lusso degli avari,
per tutelarli di là dagli ideali che prendono spesso nome di fanciulli,
oppure arzigogolo, che diventa agogolo. Una speranza che solamente
nell’amor per l’anima, scoppia nella maggioranza dei casi
nell’omicidio preterintenzionale o nella prostituzione, avvenuta nelle
lacrime conservate che rompono il significato dell’amore, per
giunger a ciò che è amore.
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Un sogno, un desiderio, che forse appartiene di più ad un certo
ceto, che alle nobili donne costrette a conservare il loro patrimonio…
Tra amanti e rise stemperate, guardare il vuoto e chiedersi: “Che cosa
prova ora?” … “ Che cosa vede e cosa guarda al di là dalla finestra
nel vuoto delle sue indagini?”.”
Rimase a guardare quelle visioni e si chiese:
“Perché?… Come hanno potuto farlo?! Come?!… Ovviamente non
ti degnano di risposta” continuò. “Guardano gli occhi e non
conservano la razionalità spaventosa nell’aver costretto qualcuno a
fare qualche cosa, oppure ad indurlo in un trabocchetto benestante
per comprare anche il suo di cuore, per svergognare anche la nuora,
comare, suocero, donna, uomo, bambino, nel pericolo del loro stesso
patrimonio e dignità.
Un pensiero misero che vola e si spegne nell’enorme difficoltà
d’accettare quella realtà che non t’appartiene, che non ti vuole
appartenere, che non vuoi assolutamente farne parte, per pagare il
prezzo dell’essere vittima del tuo stesso avere, patrimoniale.”
Tacque per un momento, pronunciò un discorso disconnesso e poi
riprese, con una calma quasi miracolosa di rassegnazione, mentre un
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leggero venticello giunto all’improvviso, le scompiglia i capelli, ricci
e crespi:
“Credo che ci siano uomini e donne, destinati a rimanere soli.
Poi arriva sempre chi occupa uno spazio nel loro destino fievole e
te lo dice, te lo comunica, che quello spazio, era solo dedicato al suo
amore. Uno solo nella vita, di chi lo ha calpestato.
Oppure di chi non ha mai voluto accettare questo spazio, perché lo
volevano rovinare, distruggere, per farla vivere, vergognare, davanti
a chi non ha contemplato bene, da chi non ha visto, ed ancora non
basta.
Assuefatta dai medicinali t’affidi, a chi va in bagno e se ne lava le
mani. Guardando il vuoto, ti chiedi: “Chi può mai compiere e volere
un delitto così atroce?!”.”
Cade una foglia secca dal ramo, ed escono spesso parole come
rivoli che non si fermano.
Scendono nella sfera della penna a biro e danno alito allo sfogo del
momento.
E poi si vendono, nella quiete dell’ombra.
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Lei, silenziosa, amante della tranquillità, non vuole dislocarsi per
essere nell’obbligo del dover fare senza volerlo.
… “Casa a tentoni
da una parte troppo mare
troppo deserto dall’altra
Troppe stelle visibili”…
Dice Ungaretti nell’inizio dell’Ineffabile.
Ho capito, chi non ha disgiunto mai la forma dal contenuto ed ha
acclamato: “Sono donna, e un’artista, sono un’aruspice e non un
auspice”…
Tutto sommato, per metà della popolazione non ha molta
importanza in ogni momento della loro vita… basta viverla nella loro
coscienza e citare le ultime parole, forse un po’ annebbiate e chiuse
in se stesse, ma ugualmente parole.
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Obblighi la tua mente ad essere spesso occupata, così non penso,
non vedo e vivo ugualmente, occupato nel nascondere ciò che si
prova dando ugualmente noia in un giorno di misera tristezza.
Non c’è posto per lui.
Nella vita quotidiana d’ogni essere vivente, non c’è posto per lui,
ma solo per la fredda e fretta vita giornaliera, da trascorrere ridendo
di qualche battuta e riempiendola di cose importanti per l’avvenire.
Una famiglia, una casa, scuola, lavoro, salute, soldi, e alla fine del
mese pagare le bollette, il cibo e qualche sfizio, mentre il commercio
identifica una nuova marca, moda e tattica, per venderti qualche cosa
che alla fine comprerà solo per dar lavoro ad altri, solo per darti
soddisfazione e piacere, guardando avanti dritto all’obiettivo,
inseguire la vita e rincorrerla ogni giorno. Rincorre la vita nella
piacevolezza di una famiglia, da conquistare giorno per giorno,
oppure un /un’amante da trattenere nei momenti di vuoto per credere
di star bene entrambi.
Ora per noi è diventato un sogno anche quello.
Feci un sorriso ironico.
“Sì hai ragione” disse Rosa all’amica spostandosi di lato. “Sono
decadente, sono triste, non vivo in pieno, e non sono leggera… se ciò
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è vero, hai ragione, ma questa è la mia personalità, romantica di un
tempo lontano e chiusa in questo, dove anche l’ultimo conoscente, ha
preso una brutta strada.
Dove il controllo sanitario equivale al nulla.
Nonostante la ragione qualifica la consapevolezza, non vuole
cambiare, perché il nulla equivale al nulla, e la stasi, alla stasi dei
sentimenti.
Finché arrivi alla fine a chiederti: “ Chi era?” “Nessuno
d’importante!”.”
Ci fu un lungo momento di silenzio tra me, Rosa e l’amica assente,
quasi immaginaria. Il tempo trascorreva lieto, l’ora si propagava a
diventare tarda, e lei riprese:
“Tante volte capita, che negli occhi della gente vedo il vuoto ed il
desiderio d’essere pieno.
Cercano di vendere la felicità, e s’annoiano con chi li mette di
fronte alla realtà quotidiana di quest’esistenza trascurata. Diventa
troppo pesante, perfino per loro. Credono che una risata nel momento
poco opportuno, dia un tocco per sdrammatizzare, oppure gridano.
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Nel vuoto del mio viso, vedo la mia solitudine, assuefatta, stanca
persino d’essere se stessa, con il desiderio di poter sfuggire ed
arrampicarsi negli specchi della speranza, tra risa stemperate e grida
inutili.
Loro vivono soddisfatti di se stessi.
Vivono e riempiono le loro giornate, senza pensare ad un amore
con l’apostrofo, ma ad un one love da consumare.
Altri fanno i loro giochi, così vuoti che riprendono l’assurdità ed il
fallimento del momento, scambiano per pazzia la normalità e la
normalità per pazzia, perché non ammettono d’aver torto, e poi come
se nulla fosse, t’offendono.
Accecati dalla loro stessa velocità delle parole, dei tempi che
corrono, dei sogni svaniti, svuotati, non pensano.
Alcuni non desiderano la felicità d’altri, se non trasformata in
invidia portante.
Sì può essere… ho torto io, ma quel ragazzo si è schiantato sotto
un camion con la sua volontà, correndo ancora salvo per il
cavalcavia, inseguito dagli infermieri.
Umiliano chi il lavoro non ce l’ha, perché lo hanno assassinato.
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Uccidono corpi e sogni… solo per denaro, per poi vergognarsene e
ricordartelo, che umiltà hanno:
“Nessuna!”
“Che dignità?”
“Nessuna!”
Per soldi, per un buco, per una spada, un pezzo di fumo, qualche
grammo di coca, tutto farebbe, meno che del bene.
Rubano idee solo per far bella figura, e tu, onesto cittadino, speri di
salvarti da questa miseria distribuita, da chi soldi ne ha fin troppi.
Cerchi di scappare ma dove vai?!
Ti usano e ti gettano a piacimento, nemmeno per un caffè freddo, e
nemmeno per un caffè nero e secco, nel suo essere aspro ed amaro.
Ti ridono in faccia obbligandoti all’odio, ed allo svuotamento del
sentimento. Per mafia, droga e soldi, c’è molto peccato.
Per una frase, una parola avversa t’appende ad un ramo, impiccato,
crocefisso, per una poca speranza di uscire dal gruppo”…
Rosa si fermò, ed io ricordai, ricordai, e continuai a ricordare…
immagini che m’appaiano davanti di continuo, mentre Rosa discute
con il suo destino. Fu come una rivelazione, momento dopo
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momento, attimo dopo attimo, immagini sopra ad altre immagini e
ricordai. Il ricordo costa molta fatica, ma finalmente tutto ha un
collegamento logico, unico… inevitabile…
C’è un momento tra l’atto del ricordo e l’atto della verità, della
comprensione che ti conduce quasi fino alla follia, che diventa
rivelazione. Se ne sfugge con la credenza che è per il volere del bene
ma nel suo fondamento, c’è molto più peccato di quanto si può
credere,
Un
peccatore
t’induce
sempre
al
peccato,
inconsapevolmente o consapevolmente.
Proteggi gli innocenti ed i colpevoli, perché nella realtà non
conosci, non sai, non comprendi più che cos’è vero, finché ritorna
tutto al loro posto.
… Come dieci anni orsono, nel dirupo che ti conduce alla pazzia,
tutto ha un senso compiuto.
Una qualche cosa d’apparso dietro ad ogni evento, ed il colpevole
che credevi buono, in realtà non lo è per niente.
Quanta gente è rimasta impunita?!
E’ l’unica domanda che riesco a chiedermi, in questo momento un
po’ confuso.
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Nei ricordi Rosa, iniziò il suo delirio. Senza ironia ed in modo
molto nervoso, pronunciò le ultime parole:
“… Ti amo, mi diceva casualmente, t’amo… lo sento il
sentimento, lo sento forte, non ho alcun dubbio, mi sento viva e non
assumo alcun farmaco… la mia amica, la mia amica è colpevole,
perché ha scelto, ed ha scelto da che parte stare… un solo vero nome
la definisce per quello che è… ma soprattutto malata.”
E’ difficile capire la psicologia di un tossicodipendente, ma nella
grossa percentuale dei casi sicuramente non è altruista, e non è mai
colpa sua. S’estende come un’epidemia, è vittima e carnefice
insieme, fino a diventare un vero e proprio suicida.
Fece una breve pausa, e poi riprese a parlare:
“…Ho collezionato delinquenti per non farmi sentire importante.
Alzarli al livello massimo e dimostrarlo che non ci sono colpe da
distendere e disseminare, ma le loro azioni da punire.”
Si alzò in piedi, di scatto, quasi liberata dal suo assillo, e girandosi
di spalle aggiunse:
“T’imitano per farti perdere la ragione, e fanno sempre
disgraziatamente, troppa pena.”
“Certo” risposi. “Fanno schifo anche a se stessi”.
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Raccolse tutto quello che le apparteneva, e se n’andò.
Mentre cammina, allontanandosi dalla mia persona, recupero la
consapevolezza dell'essere me stessa, nell’ascoltare ed esaminare
Rosa in questo dì. Nella sua follia, c’era sempre qualche cosa che mi
attraeva, tanto da provare molta ammirazione. Presi una penna dalla
borsa che portai con me. Stranamente in tinta con le scarpe. Tirai
fuori il taccuino degli appunti e scrissi:
“Un Artista (universalmente parlando) all’inizio della sua
carriera, ha spesso paura d’essere giudicato un artista, in qualità
d’Artista delle proprie opere, più che come status symbol… appare
quasi un miracolo… sono emozioni forti, contrastanti, che qualcuno
affoga nell’alcol o nella droga, ma è un vero peccato vedersi
rovinare nel proprio ingegno; per questo s’afferma che l’artista sia
un po’ matto.”
Negli ultimi anni, m’accompagna spesso una civetta. Mia fedele
compagna da qualche tempo… chissà quale mistico volere, conduce
quest’uccello rapace notturno a farmi compagnia nel lampione
sempre poco o per nulla funzionante, in due paesi diversi. Chissà
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nella mia mente fantasiosa, se c’è qualche alchimia nascosta, a me
sconosciuta.
Il mondo è magico… ma oggi, mentre ascolto ed ammiro il
paesaggio attiguo, nei suoi rumori notturni, insieme al dileguarsi di
Rosa è scomparsa anche lei, la civetta.
Una mattina ormai lontana, un professore mi disse: “Non odiare
mai le cimici, se le bruci senti un odore maggiore, e corri il rischio
che sia ancora peggio.”
VIOLENZA
Perché non si riesce a dire mai scusa e mi dispiace veramente?
Perché la persona che ama si sente in colpa quando ha torto?
D’improvviso si svegliò, lo guardò nel volto e pensò: “Che diamine
stiamo facendo?” In quel preciso momento lo esclamò lui ad alta
voce… lei retrocesse, pensò un attimo alla vita, ai suoi pensieri.
Così tra un poco senso e la voglia del momento, ebbe paura. Ebbe
paura di perdere un’occasione, di anteporre lo sbaglio alla
conseguenza del poi, al rimpianto di farlo quello sbaglio, e per come
si sarebbe rivoluzionato il suo pensiero e la trasformazione del
tutto. Per un istante ebbe anche paura che un giorno sia morta e
quel dì sarebbe capitato a breve; stava male, psicologicamente era
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distrutta, fisicamente non si sentiva molto bene. Le gambe erano
sempre più stanche, la respirazione sempre più debole, ma allo
stesso tempo si sentiva molto forte egualmente. Lo guardò nel volto
e sorrise. Sapeva benissimo che quel momento avrebbe distrutto o
costruito un’intesa... non volle pensare molto. Non volle
sostanzialmente concedersi del tutto. Si sentì tirare e rispose ad alta
voce, semplicemente al suo stesso pensiero: “Ma sì è la vita!” Una
risposta stupida.
Evitò il peggio, per non dover rimpiangere mai nulla un domani, e
per togliersi ogni dubbio e dispiacere nel sentirsi anche sporca
dentro.
Pensò essenzialmente che tutto potesse durare più a lungo. Tutto
poteva aspettare, ma si rese conto che la stanchezza del lavoro,
insieme alla tarda nottata passata in discoteca, quel bicchiere in più,
il sonno che si era già impossessato del suo corpo, gli tolse le forze
per negarsi del tutto. Non seppe nemmeno il perché non ce la fece,
psicologicamente si sentì debole.
Nel breve tragitto che conduceva una stanza all’altra, c’era una
forza incongrua dentro la sua persona, dove cercava di tornare
indietro e stendersi nel letto e ricominciare a dormire; ma non ce la
fece, la sua risata la innervosì, e continuò a testa bassa con occhi
assonnati e gonfi a camminare dritta davanti alla sua persona. Un
passo dopo l’altro.
Si guardò i piedi e non capì che cosa le stava accadendo. In quel
momento nemmeno la vocina che percepiva all’interno della sua
mente, riuscì a impedire l’evento.
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Lo distrusse. Si distrusse.
Lo distrusse perché era un pedofilo.
Ma lo è tuttora. Tutto questo non bastò.
IL BIVIO
Manuel stava, ore e ore a guardare il vuoto. Che cosa osservava
dritto davanti a sé imperturbabile, non riesco a capacitarmene l’idea.
Nei suoi occhi così bui e spenti, la sigaretta piano piano si
consumava, e la cenere in poco tempo, era già a terra. Nessun
movimento.
Lo guardavo in un angolo, guardavo il suo osservare, e lo
fotografavo di continuo.
Quello sguardo oscuro m’incuriosiva, era come se avesse la
percezione concreta che la sua vita sarebbe stata breve e nulla voleva
più fare.
Solo l’amore, inteso come lo intendeva lui, equivalente al sesso,
era l’unico sollievo e vanto della sua vita, nemmeno il lavoro credo,
gli destava più di tanto interesse; e quella ragazza che di tanto in
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tanto gli sedeva accanto per poi sparire per giorni interi, è un
portatore di handicap.
Quasi tutti cercavano di proteggerla, ma nella realtà era più libera
di molti altri; e a chi voleva rinchiuderla in un manicomio o in una
prigione, si trovava davanti ad una concreta realtà.
Lo guardò con occhi di gabbiano, illuminati dalla speranza d’essere
compresa in quelle poche parole dette tra le lacrime soffocanti: “Non
abbiate paura per me, io non soffro più di voi, voi correte
semplicemente troppo, ed io v’inseguo.”
Fece un breve appunto verbale, guardandolo fisso negli occhi, con i
gomiti appoggiati in quella scrivania per nulla curata, la schiena un
po’ ricurva e la testa protesa in avanti: “Delle volte le peggiori pene e
violenze si vivono in ambito familiare, non dev’essere una scusante”
si alzò e lo salutò.
Non si stupì nemmeno di leggerlo quell’articolo, riportato in un
giorno miracoloso di gioia nella sua esistenza per aver passato un
altro esame che le era stato sottoposto nella vita, in una civetta, intesa
come manifesto di formato ridotto che l’edicola espone per attirare
l’attenzione su articoli e notizie di un quotidiano, la morte del suo
amico Manuel, avvenuta per causa di un incidente stradale.
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Finì con la moto sotto ad un camion.
La comprò poco tempo prima, una potente Honda Transalp 650 di
cilindrata nuova di zecca, una bellissima moto da strada non la solita
da Cross/Enduro, con la quale gironzolava per le strade di montagna.
Già progettava viaggi, in qualche luogo ignoto ancora da prefissare,
con il suo nuovo amico e collega.
Così, durante rincasava quando ebbe finito il suo turno di lavoro,
con la spavalderia dell’esaltazione data dall’ammirazione dei suoi
colleghi, prese la curva “in modo troppo largo”, non si salvò più
niente.
L’articolo citava, “…I genitori, che serenamente attendevano il
figlio per la cena, sono stati avvertiti soltanto dopo la sua morte,
poiché l'identificazione non è stata facile: Manuel non aveva con sé
né la patente né la carta d’identità. Alle sue generalità, sono riusciti a
risalire attraverso il foglio della busta paga, trovato in tasca nei
brandelli del giubbotto…”
Aspettarono insieme al parroco locale, il nullaosta della Procura
della Repubblica, prima di fissare la data funebre.
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Nell’epigrafe appesa un paio di settimane dopo, vide la sua foto, e
pianse come non mai.
Pianse per lui, per la vita e per tutto quello che la includeva, per il
dispiacere e per la sofferenza di una madre accasciata accanto alla
tomba del proprio figlio.
Si sedette stanca ed esterrefatta del suo racconto telefonico
all’amica Marica, che la scambiò in principio per la sorella, con la
preoccupazione che fosse deceduto suo padre, poiché avvertiva
qualche acciacco da giorni. Non descrivo nemmeno la sua
disperazione del momento, non ci sono parole per il trambusto
creato; quasi si sentì in colpa d’averla chiamata per sfogare il suo
dispiacere.
Si alzò nervosamente, fece un breve giro nelle vicinanze, e si
risedette stanca ed esterrefatta durante cercava inutilmente la madre
al telefonino mentre la batteria iniziava ad emettere i primi suoni
d’allarme, in una sedia di plastica bianca posta in terrazza, con le
palpebre gonfie dal pianto e le borse sotto gli occhi, delle notti
insonni.
Si sedette e pensò:
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“Ci vuole silenzio per comprendere e per comporre qualche frase, e
per comporre ancora ci vuole silenzio.
Sono entrata all’università con un sogno mai compiuto, e ne sono
uscita disperata. Manuel è finito sotto ad un camion ed è morto quasi
all’istante. Ci si chiede tanti perché nella vita, tanti se… ma alla fine
sono quasi tutti inutili, è un attimo, solo un attimo e tutto cambia,
tutto può finire, tutto può insegnare e tutto può ricominciare.
Secondo lo svolgersi di quell’attimo, dell’esito finale, inizia o
termina la tua vita. (cit. Dietro La Maschera Sociale – Pensieri 1992
– 1994 – di Monica Benincà - edito Il Filo 2007).
Ci sono molte morti in quest’esistenza, c’è chi vive ed è morto
dentro, chi muore sul serio e chi impazzisce e non si rende conto
d’essere già trapassato.
Manuel lo era già deceduto nel sentimento, ma ora lo è per sempre,
lì su quell’asfalto insieme alla sua passione.
Mi chiesi e mi richiesi come un rimbombo nella mia mente: “Se gli
fossi stata più vicina quando mi chiedeva aiuto, se fossi stata più
comprensiva, che egoista ed egocentrica”… se …se, se, se… quanti
se ci si chiede quando non si può più porre rimedio alcuno. Quando
una vita cara si ferma, allora tu trovi il tempo per riflettere, prima,
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prima non si poteva! L’ultima volta che mi sedetti accanto a lui, era
già ubriaco. Mi raccontò che aveva trovato un nuovo lavoro, che era
cambiato… avevo avvertito, tutta la sua tristezza.
Andarsi ora ad incanalare nel discorso filosofico della morte come
trapasso a miglior vita, che si differenzia per riti, culture, popoli e
quanto ne compete, non mi sembra il caso, giacché poi si ritorna
all’individualismo e al pluralismo dell’essere stelle accese o spente
esistenti, una diversa dall’altra nella nostra interiorità.
Gesù, rispondimi, come fanno a scegliere il dolore della morte in
vita, chi un fisico lo ha sano ma già marcio all’interno?! E’ una
domanda sciocca, come molte altre, dove non voglio nemmeno dare
risposta, probabilmente perché inconsapevolmente la conosco già,
ma mi rifiuto ugualmente di crederci, e non voglio conferme, perché
non le cerco. Ho semplicemente paura della verità.”
Chiuse gli occhi per un istante, e si riposò. Decise di mettere un
temporaneo freno al suo pensiero instabile, e all'assillo che la
perseguitava da giorni, di cogliere l’occasione per gioire dell’aria
fresca che dolcemente le coccolava il viso, assonnato.
In tutta la vita sogna un’abitazione, la sua piccola ed umile dimora,
dove sedersi con una seggiola sul ciglio della porta che s’affaccia nel
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modesto giardino frontale, con l’erba ben tagliata e le siepi elevate
che lo circondano. Un muro in mezzo ad un immacolato verde, forse
un po’ tetro ma lo vede color speranza.
La speranza di una parola, una accanto all’altra, che forma la frase,
il verso e la composizione di parole libere, fuoriuscenti ed isolate.
Cercò il libretto degli appunti nella borsa che portava con sé,
appoggiata sopra al tavolo, anch’esso economico di plastica bianca
per resistere alle intemperie esterne. Trattasi di borsa bagaglio che
doveva contenere tutti gli accessori mescolati insieme. Lo cercò con
dovuta insistenza. Era un taccuino che non raggiungeva nemmeno il
formato A5, rosso della passione, della vergogna, dell’imbarazzo, del
freddo, della calura e della rabbia. Quando lo trovò lo aprì e con furia
bisognosa scrisse:
“M’accingo a scrivere senza placare la mia sete di desiderio, nel
concludere a me stessa: “Ci sarà mai un uomo al mio fianco, in
quest’umile casa dei sogni?”
Forse no, forse solo un fantasma che vaga nel credere di far
compagnia, ma nella consapevolezza del non ricevere più nulla.
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Dove nessuna sa, e nessuno può raggiungere, un immenso giardino
segreto, un labirinto dei desideri, una corsa sull’albero per costruire
la casa dei giochi, mentre le formiche già l’affollano, correndo una
accanto all’altra in cerca di cibo; ed alla fine, poter decidere di
cucinare il pesce più saporito, in un sugo di pomodoro, con un pezzo
d’acciuga, spicco d’aglio, olio d’oliva ed un po’ di prezzemolo.”
Assuefatta dai propri pensieri sognò, ed ebbe una visione: scorse
una presenza tra la siepe.
E’ un piccolo uomo buffo, con gli occhi un po’ tarchiati dal sonno,
troppe ore in piedi deve aver passato, e le guance rosse dalla fatica,
gli adornano il viso. Nell’immaginazione collettiva sembrava più ad
un elfo che ad un vero e proprio essere umano, ma per lei no,
risiedeva nella normalità.
Storse la testa, la piegò da un lato, e lo guardò con un occhio
chiuso ed un aperto, per inquadrarlo nella sua visuale e disse: “Non
capisco!”
L’uomo continuò a svolgere il suo lavoro, nella monotona routine
della giornata.
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Lei distolse lo sguardo, e riprese a scrivere nel suo taccuino per
intitolare la pagina vuota Il Bivio.
Giorno 12 Luglio,
Auguri papà.
Il Bivio
Quando mi fermo, mi ritrovo davanti a tutti i miei ideali, ponte
della mia strada, del mio percorso, della mia vita, per poi trovarmi un
giorno davanti al bivio di una sola strada da scegliere, che dà una
direzione, oppure un’inclinazione differente, una curva per
proseguire o tornare in dietro.
Davanti a quel bivio, quello che trovo più difficile, è il pensiero s’è
il caso di calpestarli o no… dover abbassare la dignità di uno scalino
nella presa di coscienza che non ce la può fare… il non poter più
lavorare per il momento, per non rischiare di danneggiare un intero
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corpo, uno scheletro con le articolazioni, avvolto da più elementi
uniti, membrane, vene, muscoli, legamenti, carne, pelle ed ecc…
E comprendere che le corse contro il tempo, non sono fatte più per
la mia persona.
Finché si corre non ti accorgi nemmeno, non presti attenzione alla
pozzanghera ed al fango ove t’immergi inciampando e cadendo, ed il
tuo fisico, non ritrova più alcun riscontro.
Allora, decidi di fermarti al semaforo rosso, prima che sia troppo
tardi, nell’attesa che ritorni il verde.
Vedi, che io sia buona, cattiva, gentile o meno, il mio handicap, la
malattia che mi riguarda, mi punisce egualmente, non ho bisogno che
mi condannano gli altri, lei è egoista, se io non mi prendo cura di lei,
lei mi fa pagare tutte le conseguenze.
E Finisce:
“Io non sono contro l'amore omosessuale, ma sono contro la
volgarità e la diffusione di quest'ultima, ove si propaga solo il
sesso.”
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“Una bugia raccontata bene, porta un vero e proprio senso di
frustrazione e presa in giro, soprattutto per chi la scopre.”
Di fronte ad un bivio, è spesso meglio aspettare, che si dischiuda
la via di mezzo.
All’improvviso, si trova in balia di un incredibile, desiderio di
confidarsi attraverso il suo libretto, righe e sillabe, appaiono pian
piano che discende l’inchiostro dalla penna mentre procede per
mezzo della sua volontà, attraverso l’unica delizia e gioia d’entrare
in fiducia con voi, con il tutto, con se stessa e con chi avrà la
curiosità di leggerla.
Cede a quest’impulso e nemmeno s’ostina a frenarlo, poiché resti e
si trattenga un ricordo, sprazzo della vita, che le permetta di
meravigliarsi ancora della sua intimità.
… “Ho deciso di sottopormi a tutti gli interventi chirurgici, pur di
guarire. Già questo credimi, non è sempre semplice.
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Mi ricordo nuovamente quella volta che dovetti operarmi al setto
nasale, una delle più comuni operazioni che più di uno alla fine, deve
sottoporsi… Fui assente per un certo periodo dal mio blog in
internet, e con sorpresa, gentilmente, alcuni amici – conoscenti mi
chiesero: dove sei finita? Come va principessa?… ed io emozionata
ed ancor più convinta, scrissi all’incirca a tutti la medesima storia:
“Mi sono assentata per un breve periodo, perché ho dovuto
sottopormi alla settoplastica e turbinoplastica, ed il naso non
smetteva più d’insanguinare. Aggiungo: finalmente! Proprio perché
non ne potevo più, soprattutto dopo un incidente stradale di qualche
anno fa.
Ho purtroppo avuto un’intubazione difficile, con difficoltà a
deglutire, respirare e qualche linea di febbre. I sintomi risiedono
nella norma per certi tipi d’interventi simili al mio. Pensate, non
posso nemmeno ridere e parlare tanto, proprio io?! E’ un castigo! In
fin dei conti, sto guarendo bene. Il giorno che mi hanno tolto i
tamponi sono davvero svenuta, ed il mio volto è diventato cereo.
Nemmeno da dire la paura che hanno preso i miei successori, ma poi
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ho appreso che a loro è andata notevolmente meglio. Io lo affermavo
che ero un caso un po’ diverso…
Sono quasi due settimane che faccio in sostanza niente pur di
guarire, ma resisto pochissimo, perché sinceramente parlando,
m’annoio come non mai. Così mi diverto a far volare la mia
immaginazione e creo con la fantasia. Sono spesso mie compagne di
meditazione per fortuna, e per essere sincera, guai a chi
s’intromette! Divento subito nervosa, poiché perdo il filo logico del
mio pensiero.
Ora devo sottopormi ad altri interventi, ma ho deciso d’aspettare
ancora qualche anno.
Trattasi sempre di un piccolo inferno passeggero per me, dove vivo
interamente nella mia mente, nei miei ricordi, nel passato
(continuavo a sentire: “La stiamo perdendo…”, ciò che era successo
anni fa in pronto soccorso dopo aver bevuto del vino avvelenato), e
quando mi hanno svegliata (e già questo è bene, un bel paio di corna
scaramantiche sono state d’aiuto), mi sono ritrovata in una specie di
trauma psichico di smarrimento e dolore.
Poi tutto passa come sempre. Ed aggiungo: che fortuna!”
28
Buona vita a tutti.”
Subito sì sentì meglio con la rinnovata speranza di poter uscire dal
suo handicap. Dedicò il suo ultimo passo scritto alla propria amica,
che quella sera, nel reparto del pronto soccorso, pianse fuori della
porta, nella sala d’attesa, per lei perché potesse vivere ancora.
Lei lo conservò lì, in un angusto angolo d’affetto ma molto intenso,
perché se vive la propria rimembranza, vivono insieme nella
condivisione di quel momento, se muore il ricordo, si conclude con
la certezza che muore un esiguo frammento d’entrambe.
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IL VIAGGIO.
Una mattina si svegliò. I fievoli raggi del sole bianco penetravano
attraverso la fessura della persiana mezza rialzata, alle soglie
dell’inverno.
Nel semibuio della stanza s’infiltrano come nebbia, acari, polvere
che continuavano a respirare senza mai vederla, al chiaro più totale o
al nero più nero.
Una polverina che li avvolge riposta come aracnidi, soprattutto nel
cumulo vergognoso sotto il letto, dove più t’appresti e tenti di pulire
e toglierli con gli adeguati prodotti inventati, e più ritornano a farti
visita appena sposti lo straccio che hai in mano. Nel nero sono messi
in risalto, nel bianco non si vedono… non si odono nemmeno… da
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questo punto, inizia con mille teorie che s’affacciano nella vita di
tutti i giorni, ma nel voltarsi, nell’osservare al suo fianco il corpo
dell’uomo che l’accompagna con la testa girata dal lato opposto,
illuminata da questa nebulosa di sole, le viene da pensare che è
meglio concludere in questo modo il suo pensiero mattutino… n’è
solo un mero riflesso di tutta un’esistenza che s’aggira, sveglia,
svolge la propria attività, con le conseguenze di fatti ed eventi,
sempre nello stesso modo. Molto è tolto e molto ritorna sempre,
ugualmente, come gli acari della polvere.
Accosta un momento la guancia alla sua spalla, alza le coperte
insieme alle lenzuola che lo ricoprono, accarezzandogli il corpo
s’avvicinò:
“Siamo come un puzzle. C’incastriamo bene nelle curve della
schiena, la mia pancetta ed il tuo sedere posto all’infuori”…
Nel loro respiro in sintonia, lui ha un sussulto…:
“Cosa ne dici, andiamo in vacanza?”
“In quale meta?”
“In Perù.”
“Caspita! T’accontenti di un breve tragitto da fare con il sacco in
spalle e partire senza prenotazione!”
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“Basta
informarci
per
tempo…
andiamo
in
un’agenzia,
risparmiamo per il prossimo autunno.
Compriamo solo il biglietto d’aereo, nulla d’organizzato… Dal
caldo al freddo della vetta più alta, nel bel mezzo dei boschi, a
camminare fra l’aria pura delle montagne peruviane ed il colore delle
vesti brillante, per ascoltare le loro storie. Storie di persone comuni
che vivono.”
“Non ho i soldi” disse girandosi supina. “Mi dispiace, le mie
finanze sono al limite. Con l’università non ho più un lavoro fisso da
tre anni, se non arrancandomi in qualche lavoro fine settimanale…
ma in compenso nulla dev’essere tolto al tuo desiderio, purché è
esaudito”…
Si sedette nel letto. Si gira verso il cassetto del comodino, dandole
le spalle. Lo apre e cerca d’estrarre un libretto, una guida turistica. Si
volta e gliela porge dicendole:
“Ieri, passeggiando per il centro come il solito, mi sono infilato in
una libreria e ho scorto tra mille e più libri, questa guida.
Il tempo è passato repentino, senza sosta, e tra i libri di Bukowski e
Kerouac, ho visto nell’angolo, giusto nello scaffale di fronte alla
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cassa, diverse guide… e nell’osservarle incuriosito, l’occhio mi
cadde proprio lì… Perù”…
Una
parola
quasi
magica,
o
forse
l’inverso
inquietante
presentimento nel rimbombo melodioso e semi-sonoro dell’accento
finale… sì Perù, il sogno del suo amato convivente, la visione del
desiderio dell’avventura acclamata, sperata e per lei soppressa in
nascere; ma poco importava se fosse stato di sollievo e speranza
nello scorgere un sorriso in quelle guance un po’ incavate, coperte da
una folta barba.
Si alzò, si vestì, e con un falso sorriso, lo salutò. Per sempre.
Aneddoto di vita passata.
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Pensavo all’amore passato non con tristezza e malinconia, ma come
un bel ricordo di vita trascorsa e di rinascita… poi di nuovo tutto si è
bloccato.
Un mese dopo ero stata picchiata da un albanese clandestino nel
bagno delle donne… tra l’altro non ero nemmeno stata l’unica…
presi il telefono e chiamai l’amore del momento. In ricordo suo
pensai, adesso lo tartasso di telefonate anonime. Faccio squillare
una sola volta il telefono, poi spengo giusto per dire: “Ho bisogno di
te, aiutami.”
La notte stessa la passai completamente in bianco, come la
successiva e l’altra ancora. E questo a rinvangare il passato.
Alle 3:00 del mattino, mi alzai di scatto per rispondere a due soli,
singoli squilli di telefono, nella vaga speranza che fosse lui e mi
chiedesse di scendere. Vivevo nella costante percezione che fossero
solo sogni.
Il giorno o meglio la sera seguente gli telefonai ad un’ora decente.
Mi feci mille domande su cosa gli avrei detto dopo la sua risposta.
Ma furono tre telefonate a vuoto, con l’annuncio della telefonia
mobile: “Il cliente da voi chiamato non è raggiungibile”. Così presi la
palla al balzo e gli lasciai un messaggio.
La risposta non so ancora che cosa sia. Pazienza! Dopotutto se
l’hanno santificata qualche motivo ci deve pur essere! D’altronde,
queste tipologie di storie bisogna prenderle così, come vengono.
Tanto il mio tempo libero, sono goccioline di un sole inafferrabile.
Quando vuole io, ci sono.
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Una volta mi ha pure risposto, ed io ho messo giù. Il cuore mi
batteva a mille, mi sono sentita male. Sicuramente avrà un’altra,
una di passaggio, come sempre.
… Sì, poi con l’ultimo dell’anno, due più due fanno sempre quattro.
Non so se questo è brutto, e non m’importa. Meglio lasciar stare,
tanto non mi può aiutare ugualmente.
Una sera immersa nella mia solitudine scrissi una poesia, intitolata
VORREI:
“Vorrei piangere
come adesso sta piangendo questo cielo.
Vorrei consumarmi e poi spegnermi,
come la sigaretta che sto fumando.
Vorrei non poter pensare più a nulla,
spegnermi di continuo,
continuando a vivere.
Sentirmi un vegetale,
dove né il tempo,
né l’ora ha più importanza.
Star qui distesa nel letto
a guardare il soffitto senza vederlo”.
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La feci leggere a una mia amica, che subito mi disse: “Era ora!”
Ovviamente spacciava di nascosto. Scappai.
Quando leggevo le favole, mi chiedevo, come faceva, il pifferaio
magico ad incantare tutti quei gatti? O come mai in molte favole
entrasse sempre a far parte un piffero, una zampogna o un flauto,
anche irlandese? … Poi capii… basta abituare l’occhio a vedere e
l’udito a sentire, la voce a cantare. Con l’empatia non si curano le
persone, perché non siamo tutti portati a comprendere…
Caro diario, tre settembre 2002.
A volte sento la necessità di avere accanto una persona che mi
voglia bene, com’io. Ci convincono che dobbiamo lasciare lì le
cazzate perché ci dobbiamo sposare fare una famiglia e così via. Lo
so che ne sono circondata da queste cose, ma io voglio il mio uomo
ideale, sposarmi in modo convinto come vuole la religione e proprio
tanto. Magari che sia anche un pochino artista con cui posso fare
qualsiasi discorso, sulla teoria della vita e quanto altro ci possa
essere in generale. Qualcuno che m’affascini e mi colpisca. Non so
bene spiegarti, ma io, ho un mio ideale d’uomo che non trovo da
nessuna parte. Qualcuno che abbia ancora dei vecchi valori; quelli
sani. Sai ultimamente guardo i miei amici con occhi un po’ diversi.
Loro mi vogliono anche bene ma scocca quel pizzico di malizia e
gelosia, nella mente, che non so che cosa dirti. Vedi, non so
nemmeno a che livello c’è la verità, la sincerità e la bugia. Viviamo in
un mondo di falsi, corrotti, perché? Perché c’è tutta questa fama di
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potere? Questo esuberante valore dei soldi? Della bella vita... e già
io ho un lavoro, ho un conto in banca, sono a posto così, ed è già
una bella spiegazione alla mia domanda: “Dove sono finiti i veri
valori sinceri?” Quelli dove un uomo, sposo alla sua amata, la possa
amare per tutta la vita. Tutti questi tradimenti, queste avventure,
ma che senso hanno? Che cosa ti lasciano? Che cosa ti danno? A me
solo un grande senso di vuoto e tristezza. Siamo tutti così
scoraggiati noi non ambiziosi a null’altro che a farci una vera
famiglia. Torniamo a noi. Loro, quelli della mia compagnia, quelli
che io conobbi quando ero ancora una pargola tra un po’ in fasce.
Loro mi vogliono anche bene, ma io non apprezzo tutto quello che
fanno. Non fanno altro che parlare di “Tacchinare”, nel nostro gergo
giovanile, di bere e di far festa, mi sembrano così superficiali a volte,
falsi altre, e bravi ragazzi in altre ancora. Non so, mi sembra che si
vogliano unire alla massa, fare delle cose giusto perché fa “Figo”.
E poi io non capisco, mi sento attratta da un ragazzo, che non ha
nulla in comune con me, ma proprio niente! Forse perché io sento
quello che sta dentro di lui, anche il niente, dietro a quella faccia
sempre falsamente sorridente, la sua paura, ma non apprezzo quasi
nulla di quello che fa, e che ha fatto. Certe volte mi ha proprio
deluso, altre invece mi ha dato ugualmente delle belle soddisfazioni.
Alla fine abbiamo avuto un’avventura ma per me era anche qualche
cosa di bello, perché lo volevo veramente, ma non gliel’ho
dimostrato, così il sabato successivo è arrivato con una ragazza
insieme con altri ed io pensai: “E questa chi è? Qualcuna che si fa o
si è fatto?” A quel pensiero mi sono trasformata di ghiaccio,
freddissima, tant’è che lui secondo me, c’è rimasto malissimo, e
invece di chiedere, chiarimenti, la sera stessa se l’è fatta per la
prima volta e poi le ha detto: “Questo è il nostro segreto non dirlo a
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nessuno!” subito me lo confidò. Che bastardo, in gergo giovanile,
“coglione” e porco! Come ci sono rimasta male! Non voglio in
nessun modo, anzi non sto cercando alcun modo per scusarlo. Forse
ci tiene anche a me e agli altri, più di una volta l’ha dimostrato, ma
lo fa tutto nel modo più sbagliato, se li fa tutti! Ma proprio tutti per
vincere le sue paure! Io non lo sopporto! Però questa rabbia che
provo, questo risentimento mi fanno pensare sempre a lui in
maniera morbosa, ma quando finirà! Magari meno lo vedo e meglio
sto. Così finalmente, io spero, comportandomi con le dovute buone
maniere, della classica che tanto mi hanno fatto odiare, brava
ragazza, forse un giorno lo troverò quest’uomo dolcissimo e
comprensivo che tanto aspetto… ma ci vorrà ancora tanto, mi ha
detto una maga. Per di più un uomo in divisa, e questo mi fece
ridere un po’, con cui nascerà una grande amicizia, e poi ogni tanto
rimpiango il mio ex… quello che volente o meno, mi ha fatto odiare
il mio essere, una brava ragazza. Lo diceva sempre in modo
sofferente: “Ma tu sei una brava ragazza!” E io inizialmente me la
ridevo, ma poi le vicissitudini sono state così tante che mi concessi
anche qualche avventura in mezzo, che quel discorso lo odiai
proprio tanto. Capii lui, ma non diedi mai alla nostra storia, il
significato di rapporto vero e proprio, ma occasionale. E’ stato
l’unico per il quale ho combattuto, l’unico con cui ero convinta che
ci sarei andata a vivere insieme, l’unico che ho veramente amato
fino alla follia.
Notte, Monica.
Quando poi ritornai a ritroso negli anni, mi accorsi dopo aver fatto
il dipinto che mi è stato richiesto d’aver commesso un grave errore
di valutazione. Ero solo una bambina, un po’ ragazzina, quando
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dissi: “Ma quello è un vero fuori di testa!” E gli ruppero in famiglia il
suo di dietro. Impazzito. Lo ammiravo per lo più perché aveva
un’età molto più grande della mia, ben sette anni. Non che sia stato
stupido o sciocco, ma quando aveva un lavoro, faceva fatica a
tenerselo, se le balle raccontate erano poche. Quando poi lo fecero
anche capo in fabbrica io, ne fui fiera, ma poi sferzò un pugno a un
tizio ed io non parlai più. Lo lasciai libero di far quello che vuole.
All’inizio chiesi più di un consiglio, poiché erano i miei conoscenti
per lo più di sesso maschile. Ma nessuno sapeva consigliarmi, solo
confermarmi, è un pazzo! Basta, ho dato alito al mio desiderio del
momento. Mi sforzai di compiacermi della mia ossessione nel voler
per forza farmi un’autentica storia seria; ma in questo mondo di
droga è alquanto difficile perfino guardarsi! Mi accorsi che stavo
andando sempre in peggio, sperai solo di riuscire a fermarmi in
tempo su tutto.
Lo ammirai quando per ripicca chiese le chiavi di casa ad un amico
solo per fare del buon sano sesso nel suo appartamento dopo che
quest’ultimo in un momento di stanchezza e di tristezza mia, mi
diede un bacio in bocca, mentre ero appoggiata al muro di una
discoteca. Sconforto! Non si può stare là che già arriva uno e ti
bacia! “UFF! Che stuffff di questa gente!” se ne approfittano
sempre! Mai che si chiedano che cosa prova l’altro! Anche a quello
gli feci solo un pochino di mobbing, non predetti mai d’essere
riuscita a ridurlo proprio da schifo! Secondo me a distanza di quasi
dieci anni, è arrivato a destinazione. Alla fine dei suoi giorni.
Chiamai o incontrai il mio ex in un bar una mattina che ci andai
verso le quattro per far colazione, e glielo dissi: “Guarda che il tuo
miglior amico, come lo chiami tu, mi ha dato un bacio in bocca!”
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SEQUEL DEL BIDE’, 2011
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L’ESTATE DEL 2002.
Mi trovai nella solita discoteca al mare. Adoravo ballare ed
ascoltare musica; vederli perdersi nelle loro sciocchezze per pormi
come sempre numerosi punti di domanda, sulla mia personalità in
confronto alla loro.
E’ normale sentirsi un po’ diversi, ma quel che accade più di
frequente è il fatto ed evento di ritrovarsi nella stessa situazione
della propria amica senza poterci fare nulla, né per gli altri né per sé.
Che rabbia! Che nervoso! Siamo completamente alienati. Che cosa
sarà stato? Il solito farmaco che mi regge in piedi? Il solito cocktail,
le sigarette, i farmaci in generale, lo stress, la stanchezza, le stesse
persone, la voglia d’uscire, di divertirsi un po’, le loro droghe… tutto
questo organizzato e calcolato in ogni minuto. L’unico modo per
sfuggire al tutto, è fermarsi in un luogo per un tempo talmente
breve che tutte queste spiacevoli situazioni vanno a calarsi; ad
incanalarsi nella speranza non desiderata, non realizzata d'altri.
Una sera s’avvicinarono due ragazzini, tanto se arrivavano alla
maggiore età. Mi chiesero in modo ridicolo: “Ti piacerebbe
sverginare qualcuno?”
Io dettata dallo sgomento e dall’ipocrisia del momento risposi con
un’enorme deficienza dettata dalla stanchezza, vista nel volto della
mia amica qualche mese prima: “Si!” in modo ironico con un muso
molto lungo. “Te ne procuriamo uno noi!” “No ma che fate, che
dite?!” parole al vento rivolte a due ragazzi già volatilizzati. Pensai:
“Avranno capito che stavo semplicemente scherzando vero?”
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Che false illusioni mi entrarono nella mia mente.
Qualche settimana dopo si ripresentarono con un ragazzo
riccioluto biondo. Portava i lineamenti del volto di un uomo, o fax
simile a tale, direbbe più un omosessuale che conobbe qualche
anno prima.
Cercai di scappare, o meglio scivolarne via da una situazione per
me, scomoda, in modo sciolto e sbrigativo. Non ce la feci per molto
tempo.
Tornarono e ritornarono ancora.
Avevo circa ventiquattro anni.
Decisi con i miei amici, poco amici, d’affittare un appartamento al
mare per tutta l’estate. Non lo avevo mai fatto prima, di solito mi
ospitavano i miei cugini nel loro appartamento – soffitta.
Quest’ultimo è lungo quanto i due appartamenti sottostanti,
sempre di loro proprietà, che affittano in maggioranza ai soliti
clienti, per le vacanze.
In quest’abitazione che avevo scelto insieme ai miei amici, c’erano
due camere con un letto matrimoniale e un letto singolo in un
insieme con un letto a castello nell’altra. Era luminosissimo.
Avevamo il pianerottolo esterno e una terrazza che univa le due
stanze, un bagno e la cucina.
Credevo o mi convincevo di tante belle cose, dal nome rispetto. Ma
non ce n’era nemmeno per loro stessi.
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Credevo che se rispettassi, il fatto che si potevano portare tutte le
ragazze che volevano, per farsele anche in due in comune accordo
con la ragazza in questione, io mi sarei salvata.
Niente. Decisi in seguito, di frequentare per due sabati il ragazzo
che mi trovò gli sconosciuti. Poi me ne ritornai a casa.
Quest’ultimo è un australiano d’affascinante aspetto. E’ venuto in
Italia per fare il creativo, ma la sua carriera durò poco. Mi disse: “Io
ci ho provato…”
Pensai: “Forse l’ho già conosciuto... magari in internet, nella
community, poiché la mia memoria purtroppo con il farmaco che
assumo per via orale è poca, tutto è possibile.”
Dopo esser stato drogato e quindi alienato, si divertiva a rubare le
macchine per farsi un giro e riportarle dove le aveva prese.
Sbiancai la sera che si presentò circa verso mezzanotte con la
macchina di mio fratello, una golf nera, nuova di zecca. Quella sera
ero ad una festa da altri amici più puliti, in una località vicina. Mi
arrivò il messaggio che mi chiedeva se desideravo fare il bagno in
piscina. Gli risposi di no. Ma decisi ugualmente d’incontrarlo per
chiudere la serata in una passeggiata lungomare.
Lui si fece un bel bagno nell’acqua gelata. Io rimasi pressoché in
riva al mare.
Poi tornai a casa. Decisi di chiudere in questo modo la mia estate,
prima che si rendesse ancora più spiacevole.
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Lo rividi ad una manifestazione qualche anno dopo senza
nemmeno dirgli una parola. Quello che avevo udito era già troppo.
L’Amico Gay.
Lo guardai, lo guardai ancora e non ce la feci. Lo guardai fisso negli
occhi di fronte alla mia bottiglia di birra dopo l’ultima.
Ero già a posto così. La mia amica pure.
Ascoltai, e non volli più sentire per un momento. Strizzai gli occhi e
mi venne da tapparmi le orecchie, ma non lo feci.
Appoggiai il palmo della mano alla fronte e il gomito nel tavolo.
M’irritai.
Guardava il suo amico malato. Uno dei suoi tanti amanti. Tanto per
lui uomini e donne sono uguali. Fa lo stesso, al primo posto c’è
sempre la sua donna, la droga.
Mi voltai e dissi a quel ragazzo omosessuale, che ha fatto di
costrizione un patto di sangue con il padre dopo aver frequentato
una poco di buono che gli passò l’Hiv:
“Ho un farmaco… forse può servirti… non so se sei allergico ma
giacché prendi di tutto, non credo; ho bisogno di sapere i tuoi valori
del sangue, se hai i leucociti alti… Portaglielo al tuo dottore e vedi se
ti può curare, dove andrai?”
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“A P****”.
Mi prese un colpo. Nella mia stupida speranza d’aiutarlo in qualche
modo commisi l’ennesimo errore che mi servì in seguito a rimediare
qualche cosa. Ma riuscii a fare ben poco.
Pensai quasi a niente per dire il vero, l’alcool mi diede alla testa e
m’innervosii.
Speravo che si potesse curare un po’. Ero a conoscenza di un
rimedio per curare il sangue. Volevo aiutarlo con le conseguenze del
dopo. Era logico e scontato per me saperlo. Ma era anche logico che
non ci sia un rimedio per curare la poca volontà d’uscirne, e per
curare la loro incapacità di fare qualche cosa di buono. Mi pentii.
Mi raccontò che in quell’ospedale molti dipendenti che lavoravano
nel loro interno, non usarono i guanti in un momento di distrazione,
si tagliarono e s’infettarono anche loro.
L’Hiv prende anche parte del cervello.
“Sono nei guai” pensai, “sono nei guai!”.
Mi telefonò un’amica nei weekend seguenti.
Si ritrovarono un caso di un bambino con una vaccinazione diversa,
dove dagli esami del sangue, si presentava lo streptococco beta
emolitico A positivo. Ma non solo. (Avete mai sentito parlare dello
streptococco "A"? Quello che "in doppia" causa la scarlattina?...)
Pensai alla cura insieme con lei, ma le affermai che ci vuole un po’
di coraggio, insieme con altro.
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Lei mi spiegò che era solo un’infermiera e non aveva molto potere
all’interno dell’ospedale dove lavorava.
Mi ritrovai costretta a cercare un dottore, un neo laureante.
Lo trovai ad una festa. Ovviamente non era ottimo come dottore
ma lo supplicai di fare questa cura e ci riuscì.
Ero talmente preoccupata che chiesi alla mia amica di tenerlo
d’occhio.
Pregai tanto e con il pensiero gli stetti molto vicino, finché non
dimostrò segni di miglioramento.
Era salvo.
Non so per quanto tempo poteva rimanere salvo in questa società.
Non so per quanti anni e se il problema si ripresenta o non si
ripresenta. Sapevo solo che per il momento aveva reagito alle cure.
Mi sentii un po’ risollevata.
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LA CIOCCA.
In un giorno di malinconia, si sedette al buio in fondo alla terrazza,
posta in un appartamento degradato in riva al mare, e decise di
mettere un freno ai suoi pensieri e dubbi che lo assalivano in questi
ultimi giorni. Decise di festeggiare questo giorno di solitudine,
prendendo il bicchiere con l’idea che fosse un calice di cristallo e lo
spumante che portava con sé. Lo finì in un battibaleno. Tutte quelle
bollicine lo facevano ridere un po’. Prese una birra nascosta
nell’angolo a parte, dopo tanto tempo e ne bevve un sorso, per
gustarsela in pieno, poi un altro e poi un altro, e in un batter
d'occhio anche quelle bottiglie erano vuoti.
“Un amore” con l’apostrofo è solo un oggettivante di un’ideale.
La “ciocca” assalì il suo cervello, se la rideva tra sé e sé parlando di
onestà protesa verso il bene.
“Un bambino è molto più sveglio di un adulto, perché l’adulto
preferisce perdonare il suo simile invece il bambino no”.
“Non avrò pace finché non mi avranno dato il mio risarcimento
danni”. Pensò con rabbia: “In questo mondo siamo tutti malati”. E
iniziò a farfugliare fumando una sigaretta: “Sono malati come lo
sono io, chi più chi meno, d’induzione o no. Di violenze subite fin da
bambini, chi ti picchiò per primo? Che padre hai avuto? Un galeotto
o un debole invidioso che doveva dimostrarti d’essere più forte di te
rompendoti il tuo bel di dietro”. Spense la sigaretta nel portacenere
inventato del momento, un fondo del coperchio di un barattolo o
anche il tappo di una bottiglia d’acqua, tanto bastava spegnere “la
cicca”.
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Un momento di pausa, poi ricominciò il susseguirsi dei pensieri,
nella sua mente, sempre gli stessi in ridondanza: “In questo mondo
siamo proprio tutti malati, sofferenti in vita e attaccati
incredibilmente alla vita. Ci uccidiamo e nel momento
dell’abbandono non ci riusciamo proprio a lasciarci andare; ma
nemmeno a stare più bene”. Non si sentiva più in grado di lavorare,
ma non riusciva ad accettarlo nemmeno lui e alle provocazioni
alzava la voce solo per dire: “Io ho fatto sai? Vedi non si poteva, ma
l’ho fatto io”. Disgraziatamente finì da bambino picchiato in testa
dal padre, con un bastone, da adulto, fu colpito con una pala nel
cranio e in terza età finì in un incidente dietro l’altro. “Non è stata
del tutto colpa mia. Io ho fatto quello che non si poteva fare perché
lo trovai stupido e disonesto. Andai dal parroco e feci costruire la
strada che conduceva la mia casa allo stradone principale. Mi! Io e il
mio parroco”.
“Non avrò pace finché non mi risarciranno tutti i danni che mi
hanno creato, quel risarcimento d’anni mai visto. Parlano, parlono,
e non otteniamo mai nulla di onesto. Siamo solo un fiume di parole,
che nessuno sa bene mai che cosa dice e poi lo usano contro di noi.
Pazzi! Sì, non avrò pace finché non mi danno il mio risarcimento
danni, altrimenti me lo prendo”.
“In questo mondo sofferente, non sopporto di saper che sono
rogne grosse perfino per un tossico dipendente stare vicino alla mia
persona”. Prese un’altra bottiglia, stappò il tappo a corona
mettendo la testa nello spigolo del tavolo, e dando un colpo deciso,
verso il basso. Accese un’altra sigaretta e iniziò a giocarci con il
fumo, facendo dei cerchi che si dilatavano verso l’oscurità fino a
scomparire e rise: “Siamo solo dei sofferenti in vita. Dei penosi.
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Sono solo che un afflitto in questa esistenza, che quando vede i
giorni gai e felici sono anche contento per loro, perché io sono
colpevole d’esserlo un attaccato in un modo miracoloso alla pura
linfa vitale, perché la morte è pesante. Anche per chi ci deve
portare”. Pausa. “Una vita è leggera”. I pensieri si fecero sempre più
nebulosi e offuscati dall’alcool: “Riprenderemo il nostro viaggio,
consapevoli del fatto che non sarà mai nulla di normale, ma solo
sofferente, chi più chi meno, con i figli morti in un incidente, in
droga, e forse sono semplicemente felici di essere sposati per
amore”. Buttò le ceneri, “Mi commuovo, perché la sofferenza
conduce alla pazzia”. Pensò: “Un uomo, forse semplicemente
alcolizzato come una donna è solo che angosciato, e quello che
vuole vedere anche per costrizione è l’incredibile felicità d’altri, per
commuoversi di tanta felicità mai vista prima, senza ipocrisia”. Un
gay no. Continuò a dar alito al capriccio della sua mente: “Sono un
sognatore o una sognatrice? Può essere, ma minuzia è sorella di
parsimonia, ed io sono felice d’essere un sofferente vero, in grado di
piangere di vergogna da solo”. “Sono ancora in grado di piangere da
solo, altri posso dire di esserlo altrettanto?” Se la rise
immaginandosi in piedi a gironzolare per la terrazza convinto d’aver
ragione, ma rimase seduto sulla seggiola ad ammirare ciò che non
vede, l’esterno.
“Guardo le stelle di questa meravigliosa notte, dove purtroppo,
nonostante la ricerchi non ne trovi nemmeno una cadente, ma tutte
splendenti d’essere se stesse”. Continuò nel suo monologo
interiore. Poi mise a fuoco la vista e si disse: “Cassiopea, non vedi
c’è la Via Lattea è sta sempre vicino alla montagna”. “Va da una
montagna all’altra scomparendo sopra il tetto della casa. Non la
vedo in realtà bene”.
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Poi fa un pensiero da giovincello: “Sei innamorato di me? Grosso
sbaglio, e se dico grosso sbaglio, vuol dire che è un grosso sbaglio”.
S’irritò e s’innervosì, “Quando mi dicono che sono buono o che non
ho fatto proprio niente di male mi arrabbio”, poi con gesto di
rassegnazione, si girò allungando il braccio per buttare la cenere nel
portacenere, e continuò: “ perché io non sono buono, sono giusto,
secondo i miei parametri di come gira il mondo, per me”. Annotò,
tanto per aver la curiosità di saper che cosa si dice in momenti come
questi; il suo pensiero da “Ciocco”: “Un alcolizzato è sofferente, un
drogato no”. Fece un momento di pausa e cercò di ragionare sul
perché un alcolizzato è sofferente vero e un drogato no. Forse
perché il drogato vede tutto nemico, tutto avverso. Lo vede come
un vero ipocrita, che non si addita mai, perché vede nell’altro solo
un nemico che lo attanaglia nella sua mente sempre in lotta con la
comprensione di ciò che sta accadendo, o di ciò che stanno
piacevolmente dicendo, poiché per lui di piacevole c’è sempre
niente! Era solo una frase ironica. E di ciò che sta provando. Ma alla
fine, diventa tutto così nemico per davvero che finisce d’aver
ragione sempre anche lui.
“Quando uccidono il cuore, sono proprio senz’anima e corpo”.
Continuò: “Da ragazzino credevo d’avere il diritto d’essere felice,
ora no”.
Aspettò un momento. “Ti dirò” parlando a se stesso: “Gli ipocriti
hanno agonizzato il lusso di se stessi!”
Poi immaginò un dialogo inesistente: “Sei gay? E quello sono io un
uomo”. Pausa.
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“Un uomo sofferente che non è gay”. Tacque un secondo e poi
ricominciò “Ma è sofferente perché non lo vuole l’altro”. “Ci ho
provato sai?” mi disse una sera mio zio: “Sono stato innamorato
anch’io, ma una sera tirai un pugno ad una colonna di legno e così
finì”. Sorrise di quel ricordo.
“Non sono nemmeno in grado di badare a me stesso”. Continuò
con il suo monologo: “Sei innamorato di me? Hai sbagliato, perché
sei sofferente anche tu! Poiché io sono un uomo sofferente in vita, e
se lo sei anche tu, allora ti credo, altrimenti no”. Pausa.
“Triste? So di esserlo un suicida contento, del mio giorno di alcool”.
“Piango? Che sfogo!”
Poi ricominciò il garbuglio mentale: “Io so raccontare le bugie,
proprio perché non sono tossico”.
“Se fossi intossicato, lotterei per le mie verità, contro chi mi dà
contro”. “Io non sono un ipocrita, e chi si ostina a starmi vicino è un
altro uomo sofferente, perché è un ipocrita da sempre; perché se si
vuol bene, mi lascia da solo, altrimenti si suicida per sempre, e
sempre”. “Verranno giorni e giorni. E in quei giorni, lo innalzerò a
te”. Si sentì meglio: “Sono miracolosamente sereno, d’esserlo felice
vero”. Poi si rassegnò di nuovo al suo pensiero ironico: "E’ vero che
tu mi emozioni, ma sai di che cosa sono consapevole? Che sono un
uomo sofferente, lo dico e ridico in ridondanza, che lo sarò per
sempre o quasi, perché non hanno compreso che è vero!” Poi gli
venne da fare come uno sciogli lingua: “Sono uno, una due sì!”
Pausa. “E’ vero! Sai perché è vero? Perché sono sofferente!!!”.
51
“Lui crede d’essere sperante, o meglio speranzoso, ed invece è solo
che un ipocrita, e sai il perché?” breve pausa, “Perché crede ancora
di essere sofferente ma non lo è per niente! Perché come dice
Bandì, egli non ha niente!” E si mise a ridere a squarciagola! “Questa
è la vera pazzia!”
Il giorno seguente nemmeno parlò più. Lesse l’appunto scritto e
dovette riequilibrare lo stomaco, mente, pensieri, cervello, e tutto
quello che ha sentito, comunicando con uno specchio della sua
anima. Grandi verità sono uscite per se stesso, sconvolto perfino
d’esserlo un vero rompiscatole. Ma questo era ora molto più
consapevole di prima, del detto, fatto e vissuto:
“Portatori di feci, io gli sono riconoscente per quest’ultimo sfogo!”
Disse a voce alta, e scrisse ad un amico: “Sono un asociale per
scelta, un anticonformista per eccellenza, proprio perché mi piace
conversare con il prossimo, ma non trovo in realtà mai nessuno con
cui conversare, parlando di “scioccherie” o sciocchezze, di stoltezza,
“baggianaggini”, persino assurde nella loro bugia, e sono tutte
simili, combacianti, tanto che si associano insieme. Sono troppo
vecchio per questa richiesta?”
52
2009
Lo schifo che le parve davanti giorno dopo giorno, attimo dopo
attimo nella sua esistenza, si trovò a ricercare del bene nel male,
della sua stessa vita sentimentale distruttiva, e non riusciva a
coglierne il meglio.
Quale odore, quale profumo può parlare, se non la speranza di
tappare tutti i buchi con la persona giusta, quella che non è mai
esistita.
Quella che dovrà sopportare tutta la tua stessa sofferenza, per le
più impervie mancanze di rispetto ovunque e dovunque.
Sperare almeno di salvare i giovani vogliosi di conoscenza amorosa,
per poi ritrovarsi violentati “dall’occhio malocchio prezzemolo e
finocchio”, citando il titolo di un vecchio film, senza coscienza,
perché ormai è un distrutto.
Un fallito o t’innalza o ti fa fallire.
Quale pensiero così meraviglioso, possono avere se non quello
della loro stessa distruzione.
Camminare parlare ed emozionarsi con sorpresa e timore di ciò che
sta accadendo, attorno e accanto di te.
53
Tutto, gira come una ripresa dal basso verso l’alto, per guardare la
speranza, di chi ancora ci crede di poterne uscire, dal loro stesso
baratro, quel creato dagli altri.
Invidiosi persino di se stessi…
Nei giorni che seguirono, si tenne molto impegnata come tutte
quelle persone che tra le lancette dell’orologio, impazziscono
all’interno del tempo molto ridotto.
Il pensiero è occupato e sfuggono ai perplessi e i problemi che non
si risolvono, sono sempre gli stessi; quando tutto va bene, ti devi
aspettare il male, e l’ipocrita di turno che ti mette nei guai, perché
s’è creato un mondo di false illusioni che tutto sommato lo fanno
guadagnare e ricevere anche affetto nel suo involucro, per venire in
seguito preso di spalle e pagarne le conseguenze senza tanto
pensare.
Si chiuse in camera e iniziò a formulare pensieri: “Non importa se
mi fregano o mi gabbano, è uguale, anche se ben so che non è
proprio così, ma basta non avere rogne, perché ne risolvono proprio
poche”…
“Chi grida, chi urla è un artista pazzo stanco anche d’essere se
stesso, e s'accolla tutto.
Si unisce a un altro artista, e poi va avanti e li fa sentire sempre più
importanti, nel tuo messaggio finale. Non parlo con il muro, parlo
attraverso e con la gente. Chi non fallisce li aiuta o li fa fallire per
quanto sono delinquenti.
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Mi ricordo che era solo ieri quando transitavo con la macchina ad
una velocità media. Pensavo a troppe cose, attraverso la musica che
infondeva e penetrava al mio interno. Un altro involucro.
Mi fermai all’indicazione dei vigili. Sostai un attimo per calmarmi, e
per tranquillizzare un effetto collaterale del farmaco preso il giorno
prima, ancora un po’ invalidante, un’aspirina.
Sta di fatto che erano lì posti apposta per violentarle
psicologicamente. Mi venne da piangere dalla sfinitezza e cercò
subito di stilarmi una multa. Allora decisi d’umiliarmi e d’imprecare.
Mi umiliai dentro un’unica verità: “Voi mi state etichettando per
l’attività famigliare di mio padre e dei suoi fratelli, ma io sono
semplicemente un andicappato in cerca di lavoro, e non lo trovo.
Non mi hanno ancora assunto secondo la legge 68/99 per i portatori
di Handicap, e non mi danno sostenimenti da parte dello Stato né
come andicappato e nemmeno come artista. Non ho aiuti. Come
devo fare? Non stavo correndo è l’unica verità che posso dirvi. Forse
dieci km orari in più, ma giuro che stavo rallentando in entrata del
paese”.
“Perché lei è un andicappato, non implica che possa correre per la
strada!”
“Infatti, non stavo correndo, stavo rallentando. Mi crede così
sciocco da ricercare un incidente? Ma la ringrazio per avermi
fermato, così andrò ancora più piano. Tanto mi creda io nemmeno
esco più al fine settimana. Non ho scopi, senza un lavoro.”
Lì non parlò più, disse qualche cosa a vanvera, e mi lasciò andare.
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Solo. Mi sentii un momento solo, un bene di pace e amore
incontrollabile. Il grande senso di benessere, che ogni tanto cerchi
all’interno della tua stessa calma”.
Non ce la fece ad ammettere che insieme e vicino agli altri questa
calma cambiò la sua vita, in uno sfogo logorroico attraverso una
penna che iniettava inchiostro, come una piuma dentro alla china
moderna.
LO ZUCCHERO A VELO
La stanza era semibuia, lei si trovava distesa, appisolata nel divano,
nel primo pomeriggio.
A un certo punto sentì alcuni passi. Si svegliò di colpo dal suo
incubo; era come se qualcuno la stava fissando con insistenza
frontalmente e poi corresse fuori dalla porta.
Odii il rumore dei sassi...
Si alzò, disponendosi seduta nel divano, guardando dritta davanti a
sé.
56
Si domandò con gli occhi spalancati dalla paura: “Ma che cos’ho in
bocca?!”
La caramella che stava succhiando prima d’addormentarsi sul
divano.
La tirò fuori e la buttò nel portacenere. Per un momento, un solo
istante ebbe un’enorme paura che qualcuno fosse entrato, e che
questa persona fosse riuscita nel suo intento. Da giovane lesse molti
diari, che parlano di storie simili. Ragazze che appena uscivano dalla
droga si trovavano in regalo ad esempio, una tavoletta di cioccolata,
e all’interno una pasticca o della droga.
Avvertì dei passi frettolosi simili ad una corsa che si allontanavano
fuori dalla porta di casa fino al cancello d’ingresso per poi sparire
dietro alla siepe.
Subito si alzò e corse a vedere... la porta era spalancata, ma non
c’era nessuno.
La porta d’ingresso della casa del suo convivente, ha il difetto di
aprirsi da sola al primo soffio di vento.
E’ una di quelle non proprio moderne, per dire il vero, l’intera casa
non è moderna. Per le sue dimensioni posso confermare che
dall’esterno sembra più una vera e propria baracca ma Federico
all’interno era riuscito ad arredarla con gusto.
Andò in cucina ad aprire la credenza e vide che il barattolo dello
zucchero a velo tritato era scomparso.
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Tacque per un momento, non seppe che pensare. Sperò solo che il
suo convivente non se la prendesse più di tanto.
Prese la decisione di tornare a dormire.
Giunse la sera, il suo fidanzato entrò di scatto, corse verso la
credenza, aprì l’anta dell’armadietto e disse: “ Dov’è il barattolo
dello zucchero a velo?”
“Non lo so” rispose lei: “Questo pomeriggio mi sono coricata
perché non stavo molto bene.” E continuò: "Ad un certo punto, mi
sono svegliata di scatto e ho sentito il rumore dei sassi. Alcuni passi
frettolosi, che correvano fuori nel cortile di una persona “X”, ma
non saprei identificare chi sia. Non l’ho vista.” Sospirò: “ Poi sono
andata verso la credenza per vedere se c’era ancora il barattolo che
tu tieni custodito/riposto con cura in alto, e non l’ho più visto”.
Ripeté: “Chi sia non lo so, mi dispiace”.
Federico prese la giacca e corse fuori.
Poi senza dire una parola rincasò dopo un’oretta due, con in mano
il barattolo dello zucchero a velo un po’ diverso, tritato.
Seguitò a non dire una parola, e come sempre lei evitò di chiedere
troppo. Si mise a cucinare per la cena, mentre lui si fece una doccia.
Il suo orecchino d’oro sparì, non lo trovò più. Anche se…
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Questa sera le candeline sulla torta segnano i trent’anni di mio
fratello. Lo schiocco dello spumante…
Il grido: “Evviva!” e tutti bevvero… ma dopo poco si sentì persa…
guardò il porta ghiaccio e non lo vide più come tale.
Mi resi conto quanto fosse tutto fuori. Quando tutti i miei
conoscenti-amici, partiti da qualche canna, dopo una cena
seminoiosa tra amici, fossero diventati degli adulti completamente
pazzi.
Una parola in più e già sono guai.
Un ricordo in più e già sei un finito. Un ricordo in meno e non ti
salvi. Viviamo di ricordi. Ma il ricordo costa fatica e quando guardo il
mio compagno negli occhi, di una gioventù ormai rubata, capii la
profonda delusione sulla diffusione dell’HIV tra i giovani. Causa una
“troia” o la “troia” come dicono loro, che per secondo lavoro faceva
questo la “Puttana o ballerina in un night”, nato da una sfida tra la
protagonista e lei, la prima brava ragazza seduta nel divanetto
accanto al suo fidanzato. Voleva dimostrare di essere altrettanto
seducente e agile, o semplicemente per pagarsi la rata universitaria.
Alla fine riscontrò l’HIV, e li rovinò tutti. Dire ora che erano degli
innocenti non mi sembra il caso, parvero più degli invidiosi,
arrabbiati, sprovveduti che andavano puniti in questo modo; un
momento, un secondo, un profilattico non messo. Lo guardò e
commentò, non so che cosa dire, il mio amico non è più
recuperabile, ora all’età dei suoi ventiquattro anni è completamente
fuori!!
59
Notte.
"Dolci cammini, in un universo di favole fievoli e profonde,
nemmeno tu te n’accorgi ed è già alba...
Un’alba così artificiosa,
da non apprendere che il sole già t’illumina la tua giornata,
speciale, per quanto lei è già vita,
che porta in grembo la tua testimonianza.
Qualche nuvola la oscura? Beh non ha importanza”.
Riflessione:
Negli occhi di certe persone, vedo il vuoto
ed il desiderio d’essere pieno.
Nella loro speranza d’andarsene in altre vie e strade,
i giovani prendono casa altrove.
60
Nel vuoto del mio viso,
vedo la mia solitudine,
assuefatta, stanca pure d’essere se stessa.
Ha il desiderio di sfuggire ed arrampicarsi negli specchi della
speranza,
tra rise stemperate e grida inutili.
Uscire da un mondo molto falso,
basato sull’utopia.
61
Ottobre
Ogni tanto, dopo due aborti ormai di anni fa e nessun più fidanzato
tra i piedi, mi guardo a ritroso tra blog e siti creati dalla mia persona
perché un lavoro vero e proprio non sono riuscita a trovarlo, mi
sento triste e rammaricata, e riesco ancora sconvolgermi della mia
persona e di quello che formulo nel mio pensiero.
Credo d’aver sbagliato molto, e ricerco a ritroso dove, poi rientro
in società e mi accorgo che era tutto inevitabile e mi scuso.
Mi guardo indietro e mi chiedo le conseguenze d’essere sempre
stata violentata per la mia telepatia, mi chiedo perché, perché
entrano ed escono da prigione così facilmente e non hanno mai il
coraggio di oltrepassare la linea della propria vita in modo
definitivo? (Ovviamente, e aggiungo finalmente, qualcuno sì, ma
non tutti!) Perché tutta questa invidia? Sennonché si chiama col
nome di una malattia tanto famosa, quale L'HIV... Tanta gente o
popolazione in questo mondo ha preferito ormai le droghe, per
superare i propri shock. Altre motivazioni non riesco a trovarne se
non ché ci sono persone che spacciano per la testa della medaglia, e
persone che spacciano per la croce della medaglia. Poi rientro in
società, guardo e riguardo alle persone e credo di sì sono inevitabili,
sono spesso offesi nel loro di dietro, e sono veramente ghettizzati
ed invidiati gli uomini e le donne. Non perché riescono tanto a fallire
o quantomeno a vivere male ma non riescono a sfuggire ai bisogni
in eccesso per sfinitezza. Sì, sì è stata colpa mia! Un giorno dissi che
farmaco stavo assumendo e me lo trovai o scaduto o modificato. Gli
gridai a quel ragazzo malato di Hiv perché dopo il diploma delle
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scuole superiori ha festeggiato la sua maturità con una poco di
buono che si prostituiva per pagarsi la rata universitaria: “Ci sono
solo che io a questo mondo? Non pensi che un semplice
antidolorifico un domani possa servire anche a te? Non ti sembra di
essere un pochino troppo immaturo per avere la maggiore età?”
Sperai solo che se ne inventassero un altro, e poi un altro ancora,
ma non lo presi nemmeno più. Tutto sommato si tratta di telepatia
la mia, l’uso puerile ed invidioso che ne fanno, mi crea solo che
tensioni. Così iniziano a gonfiarsi le dita e a irrigidirsi il mio corpo ma
per il resto non so che cosa farmene di un farmaco. Non posso io
testimoniare di persona gli esperimenti che facevano i tedeschi
medici sulle persone, nei lager, ma non sono nemmeno in grado di
formulare un reale pensiero concreto. Troppo impegno e fatica. No,
non sono felice che i miei denti si mangino tutte le resine e poi
piano, piano le ributti fuori. Non sono felice di questo. Non perché
io sia sana, ma per quello che ho dovuto fare ai miei denti andando
dal dentista pensando che il medico che mi troverò di fronte
m’invidierà anche di quello.
Non so in realtà se è malinconia quella che mi assale ogni tanto, o
solo sconforto, non lo so. Non so mai dare una definizione a ciò che
provo, ma so che passa ogni qual volta entro in contatto con
l’essere umano; con le sue voci interiori ed esteriori, e con quello
che vuole comunicarmi o farmi sapere. Niente sono un’artista e
devo accettare tutto, anche il fatto più eclatante che tante volte è in
quest’universo per essere denunciato o gabbato per ogni
sciocchezza.
Sì, ormai è vero, vado giù di morale, per questo disegno, disegno,
di continuo. Ho sempre disegnato di continuo e formulato pensieri e
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riflessioni. Sono stata anche molto grata ogni tanto, ma non sono
mai riuscita più a dire grandi cose, ho solo che fatto. Anche
pubblicare, concerne tante di quelle peripezie e difficoltà, che nella
maggioranza delle volte ho preferito regalare, frasi, pensieri,
aforismi, racconti e quant’altro; ma vedermi pubblicata sotto un
falso nome per poi aspettare che pubblicassi a mio nome solo per
denunciarmi di plagio, mi ha disorientata! Ovviamente non è andata
alla fine in questo modo, la denuncia non c’è perché la
pubblicazione è avvenuta solo in internet, e perché lo avevo già
tutelato inviandolo a chi né è in dovere, ma il pensiero che un mio
scritto riporti soprastante al titolo scelto da un editore al quale lo
avevo inviato in visione e critica, mi ha fatto riflettere. Non mi
servirà mai a nulla di utile nella mia vita un nome falso, non mi aiuta
nemmeno a farmi strada e mi priva della mia personalità, mi sentirei
come nascosta, forse anche un po’ vigliacca. Non sto parlando di un
nome d’arte scelto perché faccia più scalpore o tuteli, nascondendo
la mia famiglia, ma del nome di addirittura un uomo! Sì, sì ho detto:
“Non mi serve a nient’altro che a denunciare lei, non me, i
persecutori ce li ho da quando sono nata tra un po’, e non mi
serviva nascondermi, lei lo fa proprio per questo vero?”.
Sono sempre così scelta per il mio essere punk e per la mia
telepatia o più comunemente perché accade a tutti, per una foto
riportata su di un giornale, per fare proteste, o incidenti addirittura,
che alla mia età, ormai trent’enne non ce la faccio più, l’ho detto e
ridetto: “E okay, lo devo fare io per quello che sono io!” Ma sono
anche stanca di ripeterlo: “Sono punk! Da sola non riesco a fare
grandi cose perché anche se sono nel giusto, basta un niente! Una
cosa detta, o pensata nel mio caso, che appare come un vanto, o
una fotografia, porta conseguenze anche gravi per tutti; per questo
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io vi ringrazio quando mi aiutate anche a dire o a formulare una
frase, e a farle quelle proteste. E’ per tutto questo che ve ne sono
riconoscente.
LA GELATERIA A MANIAGO
Mi ricordo ancora la gelateria di Maniago, sì quella situata vicino al
negozio di vestiti all’angolo. Quella dove un dì accompagnai mia
nonna a prendere il gelato e decisi di comprare proprio quello al
caffè, non perché pensavo che fosse buono ma perché sapevo che
c’era dell’ossido, mischiato con erba o cose simili che mi sarebbe
servito solo a farmi cadere un pezzetto del dente del giudizio, già
graffiato dal dentista, per potermi poi operare il naso in santa pace.
Ero felice di tutto questo, non perché lo trovai sano di mente, ma né
io né il dentista riuscimmo più di tanto a romperlo, il gelato sì!
Pensa che miscuglio ci fosse dentro! Ovviamente poi dovevo
mettermi le dita nel mio di dietro e tutte cose simili per essere gay,
ma mi dissi “E’ certo che ammalano i bambini da piccoli a Maniago
se continuano così!”
“Non lo trovo tanto anormale che si sentano già costretti ad aprirsi
il loro di dietro”.
Allora protestai e la gelateria fu chiusa. Ora a saper per quanto non
lo so. Ma so per certo che non era solo ossido quello che aveva
messo al suo interno. Ovviamente mia nonna stette di nuovo male,
invece io ero serena nel potermi finalmente rioperare il naso con la
speranza che la smettano d’essere invidiosi dei miei denti ormai
rovinati. Appena lo mangiai, mi sentii gonfia, e risi con mia nonna, di
non riuscire proprio a cestinarlo, non perché mi piacque, ma perché
speravo che si rovinassero del tutto i miei denti, peccato che erano
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ancora ugualmente troppo belli! Insistendo e insistendo, cambiando
tre dentisti ce la feci a rovinarli quasi in modo completo, e a
recuperare i due denti che sono stati incapsulati. Così anche le altre
operazioni a cui dovetti sottopormi in questi ultimi anni andarono
molto bene. E anche il mio lavoro. Io non sono gay.
Ma lì morì mia nonna. Poco a poco si spense nella panchina della
gelateria seduta di fuori. Gettò il gelato, non lo finì nemmeno e se
ne andò con la mente.
Per un istante ce l’ebbi con il mondo. Con tutto quello che dovevo
fare io per dimostrare che non c’era solo dell’ossido nel mio gelato
al gusto caffè. Umiliazioni, su umiliazioni, e nessuno in grado
d’ammetterlo: “Sì sono invidioso”.
Camminai da basso, nella taverna di casa, e mi sentivo come
costretta ad andare nel lato di un tavolo, nello spigolo per vedere se
andavo su anche sul mio di dietro, ma chi se l’è inventato tutto
questo? Poi presi paura di tutti quelli che volevano che mi mandassi
un po’ a “fanculo” io, inserendomi un dito nel mio retro per quanto
brava ero a disegnare o a fare Arte, per andare su con la mia vagina,
e tutto questo anche per farli saltare in aria, ucciderli anche a
cornate dai tori nel giorno di festa in Spagna a Pamplona e perché
altrimenti non ci restituivano il nostro naso nell’ospedale di San
Vito? Volete sapere la verità? Il dito nel mio retro l’ho messo nel
bidè in bagno perché tutti quegli ossidi mi fecero riscaldo e cercai di
capire da dove provenisse il dolore e la venetta dolorosa. Poi mi misi
una crema rinfrescante, creata a posta per chi ha problemi di quel
tipo, all’esterno, o meglio per uso esterno e perché alla fine mi
bruciava anche quello ormai, il buco del sedere.
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Anni fa ricordai, quel gemello, rotto nel di dietro da un pedofilo, e
lasciato da suo padre in una strada, purché finisse sempre più in
droga dopo di aver fatto, quello che ha fatto. Si sedette nella
panchina di fuori alla gelateria e lo vidi proprio male! Era a testa
bassa che cercava di leccare la pallina di gelato messa nel cono. Ma
era già tanto se si reggeva su. Per chi lo conosceva già da bambino e
le sue esperienze di reclusione in una comunità di recupero da sua
madre, lo lessi su di un articolo di giornale, e le fu dato il
soprannome di “mamma coraggio”, (che non è la mamma coraggio
morta a sessantacinque anni il nove dicembre circa duemilaundici,
lessi l’articolo l’undici dicembre duemila undici, che s’incatenò in
piazza per chiedere la liberazione del figlio, rimasto per settecento
quaranta tre giorni nelle mani dell’anonima sequestri), purché
invogliasse altre madri a fare come lei, non reggeva la storia del
gelato drogato, semplicemente perché al massimo gli diceva: “Hai
fatto bene”. Così andai io e mia nonna, che appena entrata era così
stanca ormai, senza nemmeno fare tanta strada, che si sedette
subito, vicino alla vetrata. E ha deciso di sì, d’aiutarci ad incastrarlo,
come ultima sua volontà, e poi di lasciarsi andare.
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UN SOGNO RICORRENTE
In un mio sogno rincorrente io, sono così serena e così anche
arrabbiata che mentre scendo le scale uscendo dalla porta di casa,
tutto ad un tratto mi manca lo scalino di sotto, non cado mi
sorreggo in piedi con l’altra gamba. Ma la paura presa, quel triin nel
cervello mi fa sempre svegliare di soprassalto. Non so che cosa vuol
dire quel sogno o perché lo faccio sempre mentre sto uscendo da un
altro sogno prima di svegliarmi, ma iniziai a farlo a quindici anni
circa. C’è qualcuno che lo vuole? Non lo so.
A distanza di un tot d’anni, faccio sempre un altro sogno ricorrente
quello dello “Smog”.
Sono a casa di mia nonna, solo che questa volta mia grandmother
è deceduta.
Sono stesa nel solito lettino, dove una volta dormiva sempre mio
fratello quando andavamo a trascorrere le vacanze.
Ad un certo punto mi ritrovavo seduta nel letto a parlare con
qualcuno in modo oscuro. In breve, entrò uno sconosciuto che mi
offrì una sigaretta e dissi di no, poi mi offrì un pacchetto di Camel,
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Chestelfhild, Merit, Ms, Diana, blu e rosse da fumare. Risi sempre un
po’ e feci due parole, o meglio un discorso breve, per dire quelle le
fumava uno di mia conoscenza e così via e alla fine cedetti alla
tentazione, più per sfinitezza che per altro. Non tanto delle sigarette
offerte, ma di come stava girando il mondo. Andai al balcone e
guardai con tristezza fuori dalla casa. Mi s’avvicinò un altro che mi
offrì una sigaretta un po’ diversa, proveniente da non ricordo
nemmeno che nazione, e non seppi se erano veramente sigari alla
menta o qualche cosa di simili, soli che diffidai per davvero e dissi di
NO. Poi mi offrirono un altro pacchetto ed io iniziai a fumare,
fumare e a fumare riempiendo la stanza di fumo. Poi risposi delle
volte no e delle volte sì; finché ridendo, non gliela volevo rubare e
facevo un gesto di prendergliela, ma ormai era diventato geloso
perfino della sigaretta. Mi ritrovavo a ricercare come Svevo di
fumare l’ultima sigaretta, per poi gettarla via, ma non vi riuscivo
mai. Lo citavo di continuo. Nella realtà dei fatti non gliela voglio
rubare. Nella mia vita è sempre stato così. Dicevo di no e poi sì. Poi
le sigarette non erano più tre ogni tanto, erano tre alla settimana,
poi un pacchetto e poi due, sempre intervallati da periodi di niente,
mentre chi mi sta accanto o di fronte per conversare, fumava in
modo assiduo e continuo, ridendosela un po’, finché decisi di dire
stop.
In realtà non credevo di ridurmi così male io, quando feci quel
sogno, e risi un po’. Lo raccontai a qualcuno e rimase sotto shock di
quanto fosse vero, insieme con me.
A distanza di anni feci l’ennesimo sogno. Del perché nel nostro
subconscio facciamo questi sogni premonitori, non lo so.
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Pensai ai denti corti di quel momento, poi mi dissi di no, all’ossido,
al veleno, ai massaggi con una macchinetta che riscaldava
emanando radiazioni, e non risposi.
Sì, sì, insomma a distanza di anni dove mi sta ricapitando tutto
uguale, solo spostato di qualche anno, perché lo rimando di
continuo, mi successe anche questo di rifare l’ennesimo sogno.
Chiaro, leggibile, non lo avevo in mente al risveglio, ma i miei sogni
ero tutti sempre così rincorrenti, premonitori e simbolici che mi
stufai persino di ricordarmeli. Sono stufa di saperlo già. Così quando
nel sogno mi s’avvicinò come sempre lo sconosciuto io, gli dissi in
modo nervoso e arrabbiato di NO. Non voglio la sigaretta che mi
offri. E Scocciata e nervosa andai di nuovo al balcone per guardare
fuori, ma senza vedere in realtà fuori. Guardavo il vuoto, tanto
quello che dovevo vedere lo avevo già visto. Non c’era nulla di
nuovo. Sapevo che hanno voglia di farmi fumare, ma io no, non più.
Poi mi ritrovai sola e mi voltai a guardare mio zio fuori dalla porta
della camera aperta, che barcollava per andare in bagno. Mio zio è
un ubriaco. Ed io con rassegnazione lasciai perdere, tanto succedeva
ormai spesso anche nella realtà.
Mi guardai in giro e diedi una sfumatura romantica o decorativa al
tutto ripensando descrivendo la situazione: “Mi alzai sola, mi voltai
a guardare il lettino singolo in un luogo in forse collocato nella
stanza di mia nonna, anche se preferii collocarlo lì. Avevo un
pensiero triste e mi entrarono nel cervello per mettermi in testa la
voglia di fumare. Mi sedetti e aprii un libro per leggere e mi accorsi
che con il ricordo unito alla voglia finta di fumare dovevo alzarmi e
andare nel comodino di mio fratello per tirare fuori un sigaro
70
regalato e fumarlo io. Ma mi apprestai solo dire: "Non lo faccio più
perché l’ho già fatto, anche senza leggere il Fumo di Svevo."
Mi alzai, sorpassai il letto matrimoniale, solo perché il sogno lo
decisi io di collocarlo lì in modo simbolico, ma nella realtà mi
ricordai poco dov’ero. Nel sogno mi trovai a guardare fuori dalla
finestra per pensare come faccio sempre. Mi alzai dal letto,
sorpassai quello matrimoniale camminandoci attorno e andai alla
finestra. Sì quelle finestre di una volta con il balcone basso e le
tapparelle verdi, o meglio le imposte … Guardai fuori i miei pensieri,
e allo sconosciuto che nemmeno ebbi la capacità di vedere, dissi di
no, alla voglia del fumo. Mentre mio zio barcollava ubriaco per
entrare in bagno.
Nel tragitto che mi portava dal lettino alla finestra per lasciare lì il
letto matrimoniale mi ritrovai in bicicletta e mi sconvolsi e mi chiesi:
“Ma come non sono a piedi?”
Pensai a tutte le vecchie sigarette al male fatto ed augurato, al
vecchio, al sano, al nuovo e al bello e al brutto.
Nella realtà, un dì presi la mia bicicletta e andai in periferia del mio
paese, e così accadde: “Passò uno in macchina e mi diede come la
voglia di una sigaretta, dissi subito di No". E mi lasciò in pace.
Dopo tutto il male che ero stata per delle sigarette fumate, ci
mancava anche che ricominciassi a fumare.
Prima non sapevo, non capivo, non comprendevo. Sapevo soltanto
che non si fuma. Poi smisi proprio per schifo.
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Una sigaretta, poi due, poi tre, un bicchiere e poi due, poi tre, lo
star male, lo schifo che ti circonda, il vedere nero, e poi, e poi
arrivano le droghe e il sesso, e quelle no che le sopportai mai, sono
esseri così nevrotici, ossessivi e convulsivi nel credere che ogni
discorso fatto sia riferito al loro proprio essere, che quasi impazzii.
Ci sono degli esseri così narcotici, ubriachi e vigliacchi, che non le
volli mai le droghe. Sono sempre in lotta con se stessi. Meglio tacere
con loro. Ogni discorso è travasato e si rischia la morte.
Mi fermai in tempo, a tutto questo, dissi di no, punto.
Iniziai ad avere delle belle soddisfazioni.
Smisi tutto, anche di prendere farmaci, per la mia incurabile
telepatia.
Ottenni finalmente quasi tutto dalla vita; ma per un’incontentabile
e instancabile come me ancora non era abbastanza. Si può fare e
dare di più, come disse in una loro canzone, Tozzi, Morandi e
Ruggeri, solo che poi si crolla al tappeto ugualmente.
Poi il mio sogno proseguì, ma non capii mai molto il significato.
Ero in uno spazio ampio e quadrato, con una piscina e due case al
lato della piscina, fatte o costruite come se fossero un allestimento,
il sogno nel sogno. Solo che rispetto al solito non facevo entrare
nessuno nella mia casa fatta di veli che svolazzavano al vento. Vidi
un ragazzo con una barba incolta, passare dall’altro lato, non brutto,
ma pensai: “Da quale altro lato?” Della piscina. Lo collocai lì. Questa
volta anche se cerca non lo faccio entrare in casa perché ne ho
paura, rispetto a dieci anni fa che lo feci entrare per conversare un
po’ insieme con un altro uomo sulla mezza età se non di più. Questa
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volta lo tenni distante, e quando tornò in dietro verso l’altra casa
piena di veli, perché non riuscivo a vedere bene solo a sentire si
ritrovò insieme allo stesso uomo. Entrò nell’altra casa. Io uscii solo
per guardare ma m’imposi di rimanere nel mio, di farmi i fatti miei,
solo per dirmi, basta guai. Al massimo quando l’incontro lo faccio
ridere un po’ facendo la scema, ma è una cosa solo di passaggio.
Uno come il mio ex, non lo voglio più. Non perché non mi piace, è
perché è una vita invivibile, va bene solo per un po’. Non avevo più
nulla da far vedere al mio vicino, né da dimostrare cortesemente
entrando a casa sua. Era come dire: “Basta, vi sento, vi vede anche,
ma fuori dalla mia casa”. Non entrò in casa d’altri per soccorrerli, o
per essere cortese, No. Io rimango solo nel pianerottolo, a guardare
da vicino, e da lontano, tutto il chiasso provocato al lato della
piscina, con diffidenza e poca voglia d’intromettermi. Voglio solo
essere prudente.
Dopo le vicissitudini trascorse, ho preferito trasformare il mio
sogno controllando le mie azioni. Ma ogni tanto inciampo e ho
paura di cadere scendendo le scale. Ho come la sensazione di
perdita o mancamento. Non trovo lo scalino, ma non cado, mi
spavento.
Ero così sconvolta dopo questo sogno ricorrente che a quattordici,
quindici anni, vidi quanto una salita vista dall’alto, è una discesa.
Nella mia vita ho trovato tutto così curioso e strano, che se avessi
potuto, avrei evitato. Ma non ho potuto.
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IL BUCO DELLA LUNA
“ IL buco della luna” è un pozzo che sembra senza fondo situato in
mezzo alle nostre montagne del Gorgazzo.
Questo non è un sogno, e solo una delle mie tante teorie stilate da
bambina in modo immaginario solo per dare un significato alle cose
che appaiono nient’altro che buchi neri senza un fondo. Non è uno
scherzo è una realtà.
Porta sfortuna guardare un pozzo per curiosità, soprattutto se quel
pozzo è naturale, situato in mezzo alle montagne, delle nostre zone.
Si chiama il buco della Luna. Ci andai molte volte, accompagnata da
più persone, delle volte eravamo in gita, altre a passeggio con
mamma e papà e altre con gli scout. Non sono in grado ora di essere
precisa nei miei ricordi, sono ormai a trent’anni suonati, ciò che mi
accadde da bambina non lo ricordo dettagliatamente, se volete, lo
posso riassumere o sintetizzare oppure renderlo un poco a favola,
ma di sicuro non vorrò mai essere precisa. Fatti e persone saranno
come sempre casuali.
Mio padre gli stette molte volte lontano, ma io sono così curiosa
poiché la linea della mia vita nella mia mano era così lunga, che mi
decisi ugualmente ad andare a vedere. Come sempre quell’alone di
mistero e storia, che attira sempre l’attenzione, e la curiosità della
gente. Come sempre non ci vidi nulla di che, solo un qualcosa di
profondo e nero, dove continuavo a ricercare la fine e non sapevo
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darne la spiegazione, finché m’inventai una teoria: “Il buco della
luna” è come la mia morte, e la morte degli altri. Se c’è qualche cosa
oltre la morte io, non lo so. Se c’è qualche luce io, non lo so, è il
nero più totale. L’essenza di spiegazione e conoscenza. Sono
incapace di dare una definizione diversa vedo solo il nero, non il
niente. Non mi fa paura, forse solo un po’, dopo la paura scompare
e c’è la rassegnazione del volere forse anche un po’ di pace. Arrivò
qualcuno che mi volle proiettare giù da quel pozzo. Io risi di quanto
male mi volesse quell’adulto forse anche pedofilo. Quando lo
guardai, mi confermò la sua pedofilia. Non ricordo chi mi portò
vicina al pozzo se mio fratello o mia madre so solo che ci girai
attorno finché non lo guardai giù con interesse.
Una volta c’ero andata con il mio fidanzatino, mio fratello, e la sua
famiglia, insieme con la mia. Incontrammo un’altra famiglia che
passeggiava nei dintorni, ed io risi con il mio fidanzato tanto per
ridere, insieme alla volontà di volerlo tenere lontano. In fin dei conti
non c’è niente e che cosa fa? “Schifo!” Mi disse suo padre.
Porta sfortuna guardare il pozzo per curiosità.
Tanti furono trascinati al pozzo, da quel nero senza fine e presero
paura, io solo un po’.
Altri erano così bambini, più piccoli di me, che ridendo guardarono
giù, e si fidarono cadendo all’interno.
Il pozzo è la morte.
“Voi ridendo e scherzando ci morite dentro a quel pozzo” dissi a
loro, ed essi risero ancora di più. E così fu, dopo una decina di anni
circa la storia si ripete, e quelle persone morirono scivolando al suo
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interno. Che cosa speravano? Di vedere il fondo? O c’erano già
arrivati al suo fondo? Di sicuro è tanto se ne hanno ritrovato i loro
corpi.
Una donna ormai madre da tempo ogni volta che guardava giù,
prendeva paura e poi s’innervosiva. Così è morta quella donna; non
nel pozzo o dentro il buco della luna ma in un incidente stradale
dopo essersi irritata molto.
Io non credo alla scaramanzia ma quel cancello situato a Vicenza,
mi fa così paura che decisi di lasciarlo lontano quando ne sono
consapevole.
Il cancello è come il pozzo, è la mia morte. Il cancello vuole la mia
morte.
Inconsapevolmente lo guardai curiosa: così moderno, non più
tanto lontano, con il vialetto che c’era prima di arrivarci, ci voleva
un po’, pensieri e pensieri, tentennamenti e così via. Sentii come
una voce, una spinta verso quel cancello.
Lo guardai con aria di sfida, arrabbiata, solo per dirglielo, non
sapevo, non conoscevo, non me ne sono nemmeno accorta. Lo
lasciavo alle spalle nelle mie pause quel dì, quando non sapevo che
cosa fare, per calmarmi e per trascorrere il mio tempo. Ero arrivata
in largo anticipo a quell’appuntamento per paura del caos, del
traffico, della strada, di perdermi. Solitamente mi portano o
prendevo il treno, non ci andavo da sola in autostrada. Quando
parcheggiai, pagai il ticket e inizia a camminare, camminare, per ore,
e mi accorsi di fare sempre lo stesso (quello che feci dieci anni
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prima), solo che questa volta ero da sola, titubante, perplessa e
provocata come sempre accade ormai.
Questo è il viaggio conclusivo.
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IL CANCELLO
Ogni azione comporta una conseguenza.
Sperai di togliermi gli occhiali per sempre e di lasciare tutto, il
cancello, il luogo, la storia, lontana da me.
Sapevo che avevo degli obblighi e dei doveri; un lavoro su
commissione, ma speravo di tornarci, per tenerlo dall’altro lato, o
meglio lontano da me. Non vederlo proprio.
Quel cancello porta sfortuna. E’ situato in periferia, non lontano
dal centro, e dovetti come sempre parcheggiare la macchina in un
posto vicino al luogo dove dovevo andare e di fronte ad un degrado
disgustoso. Ci tornai solamente per togliermi la sfortuna, curare
ancora qualcuno e dire basta! Non ci voglio più venire.
Appunto: Ricordati del cancello di Vicenza.
Ormai alla mia età ho paura del cancello!
Mi fermai nelle vicinanze solo perché non sapevo che cosa fare.
Ero arrivata in largo anticipo. Camminai molto, mi fermai a parlare
con l’immondizia e poi sostai voltando le spalle di fronte al cancello.
Se il cancello mi vede rischio di essere una fottuta. L’altro lato mi
faceva schifo. Il cancello, quando l’hanno ricostruito così vicino e più
moderno, m’innervosì! Mi girai. Guardai il cancello in faccia e risi un
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po’. Era così vicino che mi parve sempre di doverlo sfidare di nuovo.
Ti odio cancello, tu sei la mia morte, io al cancello rischio tutto, se lo
varco, perdo tutto. Quando lo vidi così vicino, mi disperai, e pensai:
“Ingiusto anche questo! Non ne ho nemmeno il tempo di dire:
“Cancello, sei laggiù!”.” Sentii una voce penetrarmi nel cervello per
spingermi verso la mia morte. M’arrabbiai così tanto che varcai solo
la soglia esterna per incastrare qualcuno, uccidere e per dire:
“Cancello, vattene, muori, va anche dove ti pare ma se rimanevi
laggiù in fondo era meglio, e se non ti vedo, anche di più, sto bene!”
La mia vita andava meglio prima d’arrivare al cancello dieci anni fa,
condotta o semplicemente per seguire la mia amica e quasi da mia
madre, anni prima. Perfino mio fratello era attratto dal cancello. Più
pensi che il cancello sia la tua morte, più ne hai paura e più lo
sfideresti. Eravamo solo dei bambini, quando lo guardavo da molto
lontano. Al cancello ci sono solo che spese.
Io da sola decisi di varcare la soglia esterna per incastrare un altro
boss, uccidere la scarlattina di un’insegnante, facendola scomparire
per sempre questa volta, pure quella, e di non tornarci più.
Quando ci tornai a Vicenza per un altro obbligo, girai in macchina
per la città finché decisi nuovamente di sostare nelle vicinanze e di
uscire dall’auto perché mi sentivo invalida di mente e di lasciarlo là.
Mi entrarono subito nel cervello che volli vedere chi era: un uomo,
anche abbastanza giovane di pelle nera. Lo odiai tanto. Sperai solo
che zittisse quella vocina che ha nel suo di cervello! Non vidi il
cancello. Sapevo che il cancello era là per ovvi motivi, ma nascosto
da una curva, dietro ad un edificio degradato. Sperai di resistere e di
non tornarci più nemmeno nelle vicinanze. Di non avere più quel
bisogno principale che mi porta lì, vicino a quel cancello.
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La strada del cancello di prima era più lunga e piena di stress,
delusioni sentimentali, depressione, sì anche soddisfazione ma male
si stava, proprio male.
La mia amica c’è andata ridendoci. Così per ridersela, saltandoci
addosso. E’ morta così. Ma la mia amica aveva vicissitudini passate
non buone, di prostituzione orrenda, e una vita breve.
Io come sempre ci sono andata solo dopo. Solo per capire, per
vedere, per incastrare, per aria di sfida, per sfinitezza, per odio, per
depressione, per tristezza, perché in realtà non mi lasciarono mai in
pace, e una sola volta o forse due lo toccai con paura e risi un po’.
Accettai anche il cancello. Guardai nelle vicinanze e cercai di essere
sempre vigile, o meglio cosciente. “Che cosa ci sarà mai d’aver così
paura” pensai. Guardai oltre il cancello e vidi solo immondizia,
posata là. Nemmeno una siringa vecchia che mi possa dire: “Sì, ci
sono dei buco-mani, scappa!” Niente, trovai come sempre il niente.
Niente paura, niente voglia. Niente. E’ la via che ti conduce al
cancello ad essere piena, ma al cancello c’è proprio il niente.
Ti viene solo da dire: “Sono finita come donna, sono finita come
vita”. Mi staccai subito e lo guardai da molto vicino, e mi accorsi che
non c’era nient’altro che uno spacciatore o qualche drogato con
l’HIV e cercai con insistenza qualche cosa che mi fornisse almeno la
prova concreta per andarmene soddisfatta. Trovai solo dell’erba
incolta e molta immondizia. Quello scoprii, che non c’era molto di
esaltante di là del cancello. E’ l’unica prova che ho trovato. Sapevo
solo che quando io me ne andavo moriva il cancello, e quello mi
faceva ridere un po’, semplicemente perché l’odiai per avermi
violentata o quasi. Ma qualcuno odiava così tanto la mia
soddisfazione d’aver vinto il cancello che lo sposto più avanti, più
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moderno, completamente rifatto, per non dare nemmeno il tempo
a chi passa di là di guardarlo se non dall’altro lato della strada,
oppure di passarci senza vederlo.
Nel tornare indietro delusa, mi rimaneva solo che la rabbia di
esserci persino andata! E solamente per causa dell’Arte. Per fare
Arte. Non amai mai in realtà molto la mia arte. La odiai per quello
che costringeva a far fare alle persone. Io amo l’arte in genere ma
odiai la mia Arte. Certe volte mi diede, e mi diedero grandi
soddisfazioni, quando il cancello mi stava lontano, che non potei
farne a meno. Sono una morta senza la mia Arte. Sono a rischio di
tutto quando perdo la mia Arte. Lei mi fa compagnia, non mi sento
vuota. Con gli altri sì! E bevo. Magari solo un bicchiere, ma cedo alla
tentazione di volerli morti, stesi al tappeto, di fronte a me, e come
sempre è successo, molto in basso. Soddisfazione. Questa si chiama
soddisfazione. Io sono alla fine per riflesso il cancello. Sono il
cancello di fronte al cancello e anche molto vicino. Ma ora il
cancello non mi fa niente quando nemmeno lo tocco. Che cosa mi
ha condotto al cancello? Un farmaco, il passare sotto la scala, il fare
anche se non si può, la voglia d’uccidere, una voce che mi entra nel
cervello di troppo. Perché nella realtà dei fatti del cancello non me
ne poteva fregare di meno! Il cancello porta sfortuna.
Perché da come gira il mondo, tutti andiamo vicino o lontano al
cancello per un bisogno, anche di soddisfazione, ma spero
comunque di saperlo a priori o ricordandomelo: quel luogo lo lascio
lì o se come sempre, per causa d’altri devo andare a Vicenza, per
esempio, cercherò di stargli lontano. Si scrive per ricordare.
Per essere sinceri quando io non vedo il cancello, non ho delusioni,
o dispiaceri ho soddisfazioni. Se io sono il cancello, anche per me
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stessa, non ci dovrebbero essere specchi nella mia stanza, ma non si
vive senza specchi. Quando tu rispetti il cancello e non lo tocchi, non
lo guardi, il cancello non ti fa niente. E’ lì fermo immobile.
Rimasi lontana da quel cancello. Non volli andarci più.
Volevo solo togliermi gli occhiali da vista.
Quello era il motivo principale che mi portava al cancello,
inconsapevolmente sperai solo che scrivendolo in un libro possa
starci molto lontano dall’HIV, dalla morte, dal rischiare, di non
essere più una donna con la D maiuscola o un Uomo con l’U
maiuscola.
Insomma lontana da quel cancello che mi porterebbe altrove,
senza soldi, in miseria e depressione, nella vita e in tutto quello di
cui io non ne ho più bisogno per sapere.
Ora che di acqua sotto i ponti né passata abbastanza, non ho
curiosità, ho paure.
Non voglio più vedere quel cancello. Non voglio più morire, non
voglio più essere baciata perché mi manca l’aria, non più crollare al
pavimento per del veleno nel bicchiere; o solo per uccidere qualche
boss o un’insegnante malata. Provo solo delusione nel credere che
ci sia qualche cosa ed invece c’è il niente. E’ come costringermi a
camminare da vigliacca nelle stoppie o in vie incolte, invece che nel
sentiero pulito. Senza problematiche. Quando mi costringete a fare
quello che volete, mi sento vigliacca, incapace e in schifo, perché ho
voglia di uccidere.
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Camminai da sola, solo di notte, per scoprire qualche cosa o per
scopi non gradevoli, per rabbia, e voglia di cambiare, ma trovai
quasi niente, solo qualche prova, qualche pensiero disarmante
accompagnato dal ricordo e un infinito di campi illuminati dalla
luna. Quando giungi alla fine del campo, ti volti e lo ricominci, e poi
ce né un altro, un altro e un altro ancora. Risi, e mi tranquillizzai.
Non c’era niente da scoprire, nessuno da picchiare o da uccidere
veramente. Solo, campi e una macchina rossa che seminava
fazzoletti in qua e in là, accompagnata da una risata stupida
proveniente non da molto lontano.
Camminare al buio, con qualche rumore notturno delle bestiole, un
po’ di spavento nella cieca e sperduta la via; in breve nulla che non
andasse bene, mi portava sfortuna solo la mia cecità, il mio non
sapere bene, quella polverina, il grigiore davanti agli occhi, meglio
curarla.
Non devo più tornare a Vicenza per togliermi la sfiga, sono solo che
spese, meglio tenerla lontana. Non voglio più vederli entrare o
uscire in massa da quel cancello, non sono più fatti miei. Io il mio
dovere l’ho fatto. Ho mantenuto la promessa fatta. L’ho visto, bello
e anche no, moderno, molto in apparenza più pulito dell’altro, che
sta dall’altro lato della strada, ma lo lascio lì come appunto da
ricordare: “Stop". Bello quanto vuoi, ma porta morte, delusione, e
sventura. Perdi tutto a quel cancello. Il cancello non è per me.
Lo dissi una mattina ad una mia compagna: “Se il ricordo è duro,
tienilo lì, in un angolo della tua mente, per tirarlo fuori solo a
bisogno ma non basare tutta la vita sul ricordo o sul già vissuto, non
è abbastanza da costruire il futuro”.
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Da adolescente avevo voglia d’avventura, e correvo verso la mia
sete di curiosità e di conoscenza; non so dire se è bene o no stare da
soli, o in compagnia, ma è bene cavarsela da soli. La compagnia
porta sempre sia sfortuna, che ammirazione, inquietudine e
piacevolezza. Ormai a trent’anni passati, preferisco la mia
tranquillità, forse anche di madre e di coscienza anche del rischio e
della perdita. La perdita anche di un bimbo o di una persona cara.
Volevo scrivere un libro a più mani, ho scritto una sceneggiatura. A
diciotto anni volevo essere anche un editore, ma ho rinunciato.
Problemi di distribuzione.
IN SINTESI:
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Ho scritto del cancello, per ricordarmi del cancello.
Che sembianze diamo al cancello? Il cancello è una porta, una
scelta sventurata, è la morte o chi mi vuole morta. Rimango in
macchina e non lo vedo. So che è lì nell’angolo e non mi vede.
La sfortuna è sempre dietro l’angolo.
Il cancello è una soglia da non varcare mai.
Il cancello è un qualche cosa che qualcuno vuole spingermi ad
andare anche con la mia telepatia. Ma quando so che il
cancello è il cancello lo lascio lì e vado altrove.
Il cancello è qualcuno da incastrare. Io varco solo la soglia
esterna, poi ho paura per il mio trascorso, torno indietro e lo
incastro, ma al cancello io non ci vado.
Se devo salvare qualcuno o qualche cosa di sventurato io ci
passo in macchina per vedere, ma non mi fermo, me ne vado.
Se non ci vedo al cancello io, non ci vado, e nemmeno prendo
la macchina per andarci.
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Senza occhiali da vista so che il cancello è tale ed io non ci vado,
nemmeno per vederlo, perché sarebbe inutile.
Il cancello sta a Vicenza. Se quel luogo è come il cancello io,
non ci vado.
Non me lo ricordavo che quel cancello era un qualche cosa di
simbolico, portava sventura o il niente più assoluto. Spero di
non andarci più. E’ umiliante.
Al cancello questa volta ci sono andata da sola per costrizione,
ma di solito mi hanno portata, ed erano solo che spese, anche
se non molte.
Per colpa di terzi vedo anche il cancello moderno e pulito, ma
sono così tentata d’andare al cancello che non ci vado.
Oltre al cancello, perdo tutto.
Vicino al cancello niente o quasi. Solo il buon umore.
Al cancello rischio tutto.
Non voglio più vedere il cancello, perché spero proprio che il
cancello non veda me. Porta sciagure e prostituzione.
Quando con la forza del pensiero mi vogliono portare al
cancello. Io lo lascio lì perché so che il cancello non mi vuole
bene.
Il cancello mi ha stufata/o, perché in ridondanza ogni strascico
se non muore, si rivede.
Io odio il cancello.
…
-
Il cancello è anche l’HIV.
Ci sono arrivata al cancello dieci anni fa, con la voglia di vedere
e di trovare qualche siringa a terra al di là del cancello, qualche
indizio, che mi potesse confermare, ciò che cerco, ma ho
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-
-
trovato solo che poca immondizia e il vuoto che porta alla
morte momentanea, perché ho cercato di rimanere viva per
documentare tutto, ma ho provato una profonda delusione.
Sono rimasta impassibile di fronte al cancello, e ho rischiato
l’HIV nella vita e mi sono salvata per questo.
Gli altri sono morti.
Quello che ho provato vicino al cancello, l’ho provato vicino al
mio aguzzino. Paura, rifiuto, tristezza, terrore, eccetera, ed
eccetera.
Chi lo guarda dall’altro lato della strada, guarderà chi lo vuole
morto dall’altro lato della strada. Più lo vedi lontano, e più ti
salvi dal tuo aguzzino.
Chi ci passa da vicino vedrà sempre il suo aguzzino da vicino.
Chi si ferma sulla soglia sentirà sempre una vocina o il diavolo
tentatore che ti spinge ed esorta alla rinuncia.
Non sopporto che il cancello sia stato spostato così in avanti
senza darmi nemmeno il tempo di vederlo o sentire tutto da
lontano, ciò che è umiliante. Da adulti non siamo sempre in
grado di connettere.
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Lo SPECCHIO
Me lo mise in camera mia madre a tredici anni. Sono impazzita, feci
di me il culto della mia immagine. L’essere o non essere. La
perdizione della mia identità. Le problematiche che prima non
vedevo. Come direbbe in un suo scritto Virginia Woolf non si
dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze. Specchi
appesi vicino al mobiletto dove c’è il telefono e quasi nemmeno
specchi appesi in bagno. Perché dal niente cresce il tutto. Che
problematiche avete di voi se non vi guardate allo specchio? I capelli
alla rinfusa, il non ordinato, la rughetta, il foruncolo che appare, che
problematica ho se non mi guardo allo specchio anche per
ridermela un po’? Che non capisco che cos’ha in realtà l’altro che
non va. Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie
stanze. Lo misi in corridoio.
E’ come quando ti dicono: “Non passare sotto la scala porta male!”
Chi non ci crede ci passa proprio lo stesso per vedere se è vero, o
per dimostrare a se stessa di essere coraggiosa, o per battere la
scala. Ma è solo un modo per dirvelo: “Quante volte farete lo stesso
con il tutto, rischiando il tutto riducendovi in povertà?” Ogni volta
che una cosa non si deve voi, la farete comunque. La scala è solo un
simbolo, una metafora, un’assonanza e una dissonanza di un
concetto molto più ampio. Non si passa sotto la scala, ma era un
ambiente troppo stretto e ci sono quasi passata sotto perché non
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avevo spazio. Sono anche quasi caduta dalla scala, ma sono rimasta
appesa in bilico alla scala, perché s’è chiusa d’improvviso e non
aveva lo spazio sufficiente per aprirsi, ma ho retto in piedi la scala,
con il mio corpo piccolo e minuto. Rischierò spesso di cadere perché
non ho spazio, e quando ricercherò aiuto lo stesso, non lo troverò
perché lo ricercherò solo per sicurezza e mi ritroverò di nuovo a fare
grida che si perdono nel vuoto, per dire ridendo: "Di nuovo Monica,
te lo confermo, sei sola ma ce la fai lo stesso con le tue stesse forze
e capacità, solo perché non c’è molto spazio, l’ambiente è troppo
stretto." L’ho messa io la scala. Cercavo solo un modo per metterla
il meglio possibile ugualmente in modo che non cada, ma un giorno
non ne fui così sicura che si reggesse bene, sperai solo di sì. Così
ressi io la scala.
Quando non ho spazio, metto sempre qualche cosa che mi deve
reggere in bilico in alto, e ho sempre tanta paura di cadere. Lo faccio
solo o per pulire o per lavoro, per raccogliere i semi che ho
seminato o per togliere ciò che si è accumulato nel tempo.
…
TORNIAMO ALLO SPECCHIO…
Mentre sono qui che disegno, mi tornano in mente a sprazzi,
discorsi, argomentazioni fatte, dove se ne può trarre più di una
teoria, più di un libro ad onda. Parlano di persone. Persone vive,
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persone che sono morte. Persone che uscite da quei giri, ruote,
parlano di più, o smettono di parlare proprio. Ma ne escono tutti
pieni di rabbia e consapevolezza, forse qualcuno soddisfatto
d’avercela ugualmente fatta.
Non bisognerebbe mettere gli specchi in camera.
Me lo mise mia madre a tredici anni. Bello, girevole, non tanto
perfetto, in certi punti mi vedevo più grossa in altri meno, ma erano
cose così sopportabili e futili quando non si ha tempo, che andava
bene ugualmente. Qualcuno forse gli ha detto: “Non mettere lo
specchio in camera a tua figlia”, oppure: “Mettile uno specchio in
camera ci sta bene”; o semplicemente ha voluto che smettessi di
guardarmi negli specchi che ha messo nella sua stanza, e ne ha
messo uno in camera mia. Non avevo bisogno dello specchio, ma in
fin dei conti non ci stava male in un angolo tanto per riempire la
stanza. Perdetti quasi la mia identità. Mi sedetti a terra di fronte a
quello specchio solo per chiedermi è meglio essere o non essere,
questo è il problema! Citazione teatrale famosa.
“Andò a rotoli?” “No, andò uguale!” ma interiorizzai molte più
personalità e pensieri.
Non riesco a non rimanerci insoddisfatta, sennonché perdo il mio
tempo a vedere il riflesso dentro lo specchio.
Ore e ore a guardare. Luci e ombre erano tutte così vellutate che
iniziai a fotografare, e a guardare, finché non lo spostai e lo misi
all’esterno della stanza e iniziai a concretare. Non c’era più quella
maniaca voglia di precisione, ma anzi, tutto l’opposto.
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Un dì mia madre impazzì. Stetti così tante ore a guardarmi allo
specchio, incuriosita dai miei denti ora lunghi, ora molli, ora
ossidati, insomma come dire, pazzi pure quelli! Rispecchiavano il
mio corpo e la mia psicosi. Avevo voglia come sempre di stilare giù
una teoria o racconto, o studio, che impazzì. Non posso guardarmi
tanto allo specchio, impazzano. Volevo in breve solo che dopo
l’operazione, il mio naso funzionasse subito meglio, ma non fu così.
Mi limarono nella parte bassa la narice sinistra, perché quando ero
in dormiveglia in sala operatoria, mi dissero che era andata bene. In
breve l’infermiere mi limò la parte sinistra in basso del naso. Lo so
per certo, perché mi svegliai, ma non aprii tanto gli occhi e li sentii
dialogare. Sperai che stessero buoni, ma non fu così. Scappai
dall’ospedale dopo un dì. Mi feci dimettere.
Tornata a casa mi guardai le narici e pensai: “Guarirò da sola”. Così
attesi.
Mi misi davanti allo specchio per fotografarle per dire a me stessa
di sì, buttala sul ridere intanto, non importa, fa niente guarirà!
Passò un anno, poi due, e ancora non respiravo bene, non colava
nulla, e avevo di nuovo la poliposi, non sentivo alcun odore. Non
smettevo di guardarmi allo specchio, e non riuscivo a dire a me
stessa, posa quel farmaco e ripulisciti. “Okay, te lo prescrivono, ma
ora posalo”.
Cercai di connettere, e non ci riuscivo. Scrissi frasi, parole, opere e
omissioni, racconti brevi. Riscrissi alcune poesie cercando la parola
più adatta, di renderle più efficaci, e comunicare meglio ciò che
avevo nella mia mente, ma non riuscivo a sentire più gli odori.
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Piansi interiormente. Piansi tanto. Creai una pagina su facebook e
feci molte lotte, buttai fuori tutto il mio odio e lo schiacciai
all’interno di quelle discussioni.
Mi diedero ragione, mi seguivano e pochi mi contrastavano e
nessuno mi diceva: “Stupida perdi-tempo è tutto quasi inutile”. Non
guadagni ora ma rendi concreto, riesci ad incastrare gente ma non
sei un carabiniere, fai delle foto, qualche quadro da mostrare, da
studiare, da vantarsi se si vuol dire così, ma non ottieni molto.
Sì qualcuno ti crede, ti ascolta, t’imbarazza, ti serve per lo studio,
t’aiuta a crederci, altri t’invidiano ma poi si scocciano, altri ti
perseguitano per un po’ e certe persone sono proprio malaugurati
veri! Niente, senza offesa per tutti, bisogna cambiare.
Rivoglio il mio naso, l’odore e tutto il resto. Dovetti tornare dal
dentista, spendere altri soldi per riavere ciò che mi apparteneva: il
profumo sotto il mio naso! Smollai i denti. Andavano su e poi giù.
Erano diventati come gomma da masticare. Mi spaventai.
Mangiai solo pietanze molli, e mi guardai allo specchio.
Mia madre impazzì. Mise tutte sporte di nylon nere sugli specchi di
tutta la casa, le incerottò. Vivevo nella più completa insicurezza,
nella non certezza. Si riformano da soli? Smettono di andare in
andirivieni, s’induriscono da soli? Pensai di leggere ogni studio fatto,
stilare ogni teoria, e confermare molte cose, ma non riuscivo più a
calmarmi. Non c’era più un solo specchio, solo oscurità, nylon neri.
Corsi in pronto soccorso a chiedere come fecero in molti nei miei
anni: “Ma che cos’ho, sono denti i miei?” “Mi dissero di sì” “Ma
come si fa a chiamare denti, quest’andirivieni?” “Ti conviene andare
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da uno psicoterapeuta”. Mi spaventai, non mi dissero neanche:
“Cercati un altro dentista”. Io non sono gay.
Ricordai gli ossidi e tutto il resto, chiamarono mia madre. Mi
spaventai, non sapevo che cosa dire.
Tornai a casa e mi calmai, stufa cercai piano a piano di togliere tutti
i nylon negli specchi della casa. Mia madre impazzì. “Stai calma”, mi
dissi: “Se tu perdi la pazienza, lei dà di testa”. Andai in montagna a
camminare, a correre, e a fare i soliti giri che dovevo fare.
Mi trovai stranamente perseguitata più del solito. Presi un po’ di
paura e spavento anche per nulla, ma mi nascosi un po’. Le giornate
trascorsero così liete e veloci.
In son di dai e dai le stancai, rovinai così tanto i miei denti che
cedettero a farmelo ripulire quel maledettissimo naso. Io invece
sperai solo che andassero lassù o laggiù che tanto era uguale. Sperai
solo d’addormentarmi così tanto in sala operatoria da non sentire
più niente, non volevo che come dieci anni prima, s’innervosissero
luna con l’altra, per dispetto e infelicità propria, e mi rovinassero
nuovamente il mio naso, per farmi capire ancora di meno, dopo i
soldi spesi dal dentista, colluttori vari, dentifrici X, e quanto altro
ancora, che erano arrivati perfino a saltare a tocchi. Non erano
null’altro che resi addirittura alla fine sintetici, un non dente.
Andai dal fisioterapista a massaggiarmi con un macchinario che
immette radiazioni, e mi doleva così tanto la scapola che mia madre
in una lite, mi diede così tanti pugni che gridai più forte e più forte
ancora. Mi buttò fuori una scapola finalmente, ero così felice di
farmi vedere non proprio in forma di fronte a tutte/i quelle/i gay
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che mi feci rendere anche un po’ cieca, per non essere in grado più
di parlare ma al massimo di limitarmi a rispondere a monosillabi,
semplicemente per avere l’anestesia totale e farla per lo meno stare
zitta. Speravo d’addormentarmi del tutto in modo che io non senta,
che non odo più nulla e che mi risvegliassero quando tutto è finito.
Volevo come nei film vedere le luci fiocche della corsia
dell’ospedale. Risucchiarmi dal mio sogno quando tutto era finito.
“Non so se è il caso di dirlo o no ma ero nel medioevo, nel mio
sogno” dissi all’infermiera che mi portava con il lettino in stanza. Ero
nel sogno così stufa di essere pedinata da quella regina così giovane,
che mi malediva di continuo i miei figli futuri, vestita con costumi di
quel tempo accompagnata dalle sue madamigelle, che mi sconvolsi,
d’essere proprio sola o con una persona a camminare per vicoli
sassosi, fatti di terra e stretti di quel tempo. Io ero per me stessa
una qualunque che gironzolava in pace, per quei vicoli sassosi e
pieni di fango. Mi ritrovai di nuovo inseguita, da un perché, che non
so. Non capisco e scappo per non farmi vedere. Cerco di
spiegarmelo e di convincermi: “Sì, forse sei un qualcuno per
qualcuno”. Sei sempre in lotta e scappi. Molti t’inseguono. Lontani
sono principi e principesse, ma vicino ti è venuta non la regina
madre, ma la figlia.
Risi di me e ridissi: “Sì, sì ero nel medioevo”. Non spiegai che lessi
prima dell’operazione, che da quando il mondo è mondo, nulla
appare cambiato, e ricordai l’enorme mappamondo che fecero
comprare al mio amico per metterlo in salotto. Molto interessante.
Bello da vedere. Mi piace. Quello che io da bambina gli regalai era
solo più moderno, attuale, medio-piccolo, di plastica che
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s’illuminava al suo, interno. Faceva sogni di viaggi finché il suo
amico, non lo prese a calci.
Io risi.
Pensai: “E’ notevolmente più fermo, massiccio, bello e interessante
questo”. Non provavo alcun interesse in quello che gli avevo
regalato e poi mia madre me ne comprò subito un altro. Ridevo
quando a stento lo usai come una lampada per il comò, e poi non ci
giocavo mai. Mio fratello ne aveva uno uguale e poi lo ruppe.
Mio fratello così pauroso com’è, ruppe spesso molti oggetti e
giocattoli che non riuscivo ad affezionarmi in pratica a niente. In
camera nostra regnava il caos. Non sopportava che io mettessi in
ordine. Non sopportava l’ordine.
Il mio amico tenne con curanza quel mappamondo regalato. Glielo
dissi, un giorno: “A te quel mondo è durato anche tanto, a me è
durato poco e niente; forse perché ti è stato regalato, mentre il tuo
amico l’ha preso a calci”. “Me lo comprò proprio mia madre” pensai
tra me e me, ridacchiando di un sorriso per lo più amaro.
Tutto quello che mi regalavano io, lo tenevo con cura, ma se mi
piaceva proprio tanto, me lo rovinava mia madre. Anche l’ultimo
indumento che mi comprai mi piaceva così tanto che non ce la feci
per molto a stare zitta, lo dissi a mia madre. Durava tutto così poco,
che per ogni vanto, e ogni vestito originale, era lavato anche a 100
gradi, se si poteva, solo per farlo indossare alle bambole; oppure
certe volte la costrinsi a recuperarlo, con tiraggi e stiraggi di vapore
o tinture diverse.
E così è stato sempre.
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Una sera, io e il mio amico facemmo l’amore, e poi io ne avevo
subito un altro da soddisfare, un altro da guidare e un mondo da
prendere a calci, per poi regalarlo, e buttarmi tutta una melma
addosso. Era povero il mio amico.
Povero medioevo, per quanto non mi sentissi né in questo mondo,
né in quello antico mi sentii ugualmente maledetta e perseguitata.
M’invadono sciagure, perché sembra che io sia nata per uccidere;
ma io non sono nata per uccidere, per questo uccido.
In questo mondo omosessuale, non puoi stare male, impazzano.
Non puoi essere forte, non ti curano.
Non ci sono più specchi nella mia stanza.
Non sono ipocrita, bassa e bastarda, sono delle volte puro veleno.
Ho come barriere che m’impediscono di muovermi. Sono bloccata,
angosciata e infastidita, anche da me stessa.
Ho voglia di uccidere un po’, in qualunque modo, per poi chiedervi,
quand’è che mi lasciate in pace? Forse un po’ o forse mai. Ma ho un
compito, un dovere, una stasi dei sentimenti, che m’impedisce di
fare ciò che devo fare, che sia legale o meno. E’ il mio senso della
giustizia che mi pervade e mi costringe a dire a me stessa di sì. Ce la
posso fare, ce la devo fare.
Piango le mie lacrime silenti, i miei nervosi dentro lo stomaco, e mi
convinco che ogni parola “detta”, sarà usata contro di me, ma anche
che non mi credono, perché cercano scuse o falsità interiori, per
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non capire che ora che il mondo è mondo, tutto gira attorno ad un
asse antico o moderno. Poi lo stirano e lo appendono a carta
geografica, per vederlo tutto e sempre.
E’ proprio piccolo il mondo.
Forse medio-piccolo.
Non ci sono specchi nella mia stanza.
“Credo che il giorno che non rimarrò più delusa da me stessa,
sarà la volta buona che avrò una casa, un figlio, e la vita che non mi
deluderà.”
“Adesso sì che ci credo anch’io, al potere dell’arte.
Adesso sì che riesco e riescono a dirlo: “Non ci faceva da pappagallo
al nostro pensiero, ma pensava come noi..”
“Sono in realtà delusa molto dalla gente,
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magari non tutta,
ma mi sono resa cieca di fronte a loro,
perché il male che si fanno a se stessi
ogni volta che a noi ci va bene,
è un dolore che non mi deve penetrare.
E’ un dolore che non deve toccarmi.
E’ un dolore che non vedo.
Altrimenti chiamami stupida ed io sarò tale”
Monica Benincà
Leggendo le ONDE di Virginia Woolf, non so descrivere l’esattezza
dello shock, che sbiancava il mio viso, e nemmeno so quanto posso
scrivere di ciò che penso.
Non perché mi sono analizzata, ma perché vedendo ciò che ho
fatto o creato su carta e cartoncino come dipinto, mi chiedevo la
motivazione per cui si rivedevano in quel che ho creato.
Mi sconvolsi e m’irritai all’assomiglianza anche del mio modo di
scrivere. E certo io non sono né gay, né pazza, ma tutti questi
richiami a quando scrivevo d’adolescente m’irrigidivano e poi mi
facevano ridere. Ero una similpazza.
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Ne rimasi sconvolta, e ricordai; ma i miei ricordi sono così
annebbiati e certe volte confusi, che mi ritrovai spesso a conversare
di teorie letterarie o meno, è la stupidità dell’essere umano quando
non ci trova un vero e proprio guadagno immediato e si scoraggia,
conversando un po’ con tutti.
In breve un pazzo, non come me ma simile, citava una parte del
racconto di Virginia Woolf: “La nebbia a riccioli si stacca dal tetto del
mio essere”.
L’altro invece si rivedeva in tanti piccoli sassolini, che proseguendo
nella mia lettura sbiancai: “E’ stato umiliante essere ridotto a quei
sassolini… da una confidenza tenutasi nel mio passato”.
Ho pensato: “Chi?” “Che cosa?” Poi non servì rispondere alle mie
domande. Non serve rispondere a ciò che già si sa, è sottointeso.
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Poi continuai e mi ritrovai: “Che piacere tirare le tende, e non far
entrare nessuno […] Perché ho più io di quanto non pensi” […] “Non
siamo così semplici come i nostri amici vorrebbero, per risolvere i
loro bisogni. L’amore è semplice però”. Sono farmaci o assuefazione
da farmaco o semplicemente droghe. Non si dovrebbero lasciare gli
specchi appesi nelle proprie stanze.
Colori ad olio e acrilici su cartoncino.
LE ONDE.
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Un giorno lessi le Onde di Virginia Woolf.
La trovai all’inizio nella sua traduzione tutta un’onda di pensieri e
immagini che vanno e vengono, e s’increspano e s’intralciano,
s’ingarbugliano, finché non inciampai e sbiancai in qualche utilizzo
delle parole e frasi, come “La penna intrinseca d’inchiostro…” o
come scomparire lì tra le siepi per affondare le mie radici.
Poi giunsi alla fine di un argomento di mezzo, dove Bernard si
fidanzò. Non ci potei credere che quei ragazzi fossero in quel
momento lì, attorno a quel tavolo e facessero proprio lo stesso, una
catena difficile da sciogliersi dove tutti potevano uccidere la persona
che si fidanzava.
Insopportabile per la sua pazzia. Tutto l’evento assunse una piega
sgradevole ma mai quanto ora.
Sì, sì, molti ricordi mi appaiono davanti mentre leggo e scrivo dello
stesso libro nei miei appunti. Come dire dell’immagine dove devo
affondare le mie radici, dove mi appoggio solo per sorreggermi e
dove nemmeno dio può immaginare quanto volessimo più di uno
scomparire, immergerci nella natura assuefatta anche da se stessa e
rimanere lì, per un istante senza nulla in mente. Il dolore che lacera
il tormento, inutile da spiegarne il significato interiore di certe
situazioni morali, voleva solo essere esattamente quello un vero e
proprio niente. Tutto ad un tratto ecco che arriva. Non tanto la
morte propria che aspetta il personaggio che la ricerca nel libro ma
arriva chi quello crede ancora che stesse proprio in bisogno, in
scioltezza o liquefazione dell’essere e lo baciò, davanti a chi travasò
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tutto: “Ti credevo morto!” gli ha detto poi, “Pensavo che tu stessi
morendo.” Che importanza ha se è donna o uomo in certe
situazioni, si rischia di perdere tutto, non il niente emotivo il tutto. I
Guai si costruirono attorno all’evento nella mente dei protagonisti
della storia come poi non si distacca dalla realtà, ma la cosa
peggiore non è il sé la piacevolezza dell’aiuto ricevuto; ma
l’umiliazione subita. Si ridussero in tanti sassolini, che equivale ad
una vera e propria guerra. Non è vero che c’importa poco, ma è
vero che ci convinciamo che sia in fin dei conti successo niente. E’
tutta una questione psicologica. Ma quanto meglio non sta se
invece di dare un bacio alla persona che muore, gli facesse
semplicemente un vero e proprio bocca a bocca, in breve gli
dessimo ciò che cerca nel suo momento di perdizione fisica e
mentale, l’aiuto vero e proprio.
Ma torniamo di nuovo come del resto nel libro alla situazione,
dove tutti alla fine uccidono la persona che si fidanzava. Entrai in
velocità con la mia amica. Ero così stanca che la seguivo ormai in
qua e in là, per le città d’Italia. Sapeva che non aveva più molto
tempo per vivere e voleva vivere alla rinfusa. Scappare, correre,
suicidarsi, anche fare molto sesso, “scopare” ogni tanto se volete,
ma nel frattempo uccidersi per davvero. Era in breve offesa nel
retro da suo padre, per varie motivazioni. Non vado ad incanalarmi
come sempre nelle spiegazioni che non ho voglia di dare o trovare,
sta di fatto che era consapevole della sua morte. Decisi così di
aiutarla per lo meno a vivere un po’ di più. Quando io avevo il mio
farmaco, e lei la sua medicina diversa, a me toccava poco di
rischiare, perché prese innumerevoli volte il mio posto, o la
decisione di lasciarmi soddisfatta di me mentre lei si prostituiva un
po’.
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Entrai in velocità in quell’appartamento con la mia amica. La
seguivo ovunque, nemmeno mi rendevo ormai più conto del quel
circolo continuo degli eventi. Ogni volta mi chiedevo: “Ci sono già
stata?”
Appena entrai, volli che una ragazza firmasse subito una carta, o
una serie di fogli di carta; tanto per stare tranquilla. A me
sembravano sempre provenire dai contratti d’edizione che non
riuscivo mai a firmare. Giravo la penna, fissavo e fissavo i fogli,
cercavo di leggerli per scoprire l’imbroglio e tante volte mi veniva
voglia di bruciarli, essendo solo che una diciottenne o una bambina
o comunque una che in breve aveva tempo. Quella ragazza si era
fatta per davvero negli anni così bella che mi sembrava giusta per
l’evento. Poi quando parlò, mi destabilizzò. Non perché io sia di
tendenza gay, ma perché sono un’autentica Donna, che aveva
ancora la capacità di scherzare e di fingere di essere interessata al
sesso femminile più che a quello maschile. Negli anni, le vicissitudini
della mia vita, m’impedirono di fingere ancora, preferii essere chiara
in proposito, perché sono sempre a rischio di perdere la mia
identità. Mi guardò sbigottita e poi con rabbia.
Si fanno spesso le stesse cose, e si va spesso in luoghi di ritrovo che
alla fine sono sempre gli stessi. E’ la gente che cambia. E’ la gente
che poi scappa, ed è la gente che vede sempre le stesse frenetiche
ruote e nessuno riesce alla fine a frenarle per stress.
Ogni tanto sono anche riuscita a frenarle, ma visto come corre il
tempo, mi si chiedeva troppo, per un tesserino di un’altezza medio bassa come la mia. Ma forse come sempre è stata colpa della sanità,
almeno nel mio caso. Non riuscii a frenare più niente.
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Si festeggia il compleanno del proprietario. Un appartamento così
piccolo, stretto e solitario, che mi metteva tristezza.
Mi sedetti a disagio, perché mi parve che fossero più loro a
conoscere me, che io loro, come sempre del resto; ma alla fine non
ci conoscevamo nessuno.
Cercai di fare qualche discorso, qualche battuta che appariva
simpatica, tanto per vincere il mio disagio e la freddezza che
percepivo in me. Vedevo una continua diffidenza, e un pizzico di
cattiveria e invidia, mentre il proprietario era sempre in lotta con se
stesso.
Poi tornarono forse due volte, con poco ricordo e molta
stanchezza. Non m’interessò più di fare o di essere una persona
simpatica, le guardai e scambiai poche parole. Guardai alla fine quei
fogli posati sul tavolo, e mi sentii così invalida che presi paura!
Cercai di leggerli e non ci riuscivo proprio, non capivo niente. Risi di
me di quanto erano solo da bruciare o sfogliare.
“Va beh, quando ce ne andiamo?” Pensai: “Sono già annoiata
ormai”. Poi inizia a pensare a cose poco sublimi e divertenti,
pensieri da gay o per gay, e sbuffai.
Ovunque vado c’è droga. Ovunque vado si parla di droga. Ovunque
vado si cerca di rimanere sulla difensiva.
Tutto qui. E’ stato realizzato da una citazione, sprazzo di un libro
pieno di riflessioni, pieno d’interiorizzazioni. Pieno di discorsi
esterni, ed interni, dove tutti alla fine uccidevano chi si doveva
sposare.
103
Ma in quali altre onde ci devono portare? In quali altre ruote dove
arrivano ad essere tutti me, ed io tutti loro, e dove tutti sono anche
altri, e alla fine interiorizzavano tutti in modo diverso, per colpa
dell’HIV?! E’ la vita.
GENTE
C’è gente che si fissa, e gente che si perde.
Ci sono persone che fanno ridere per un po’, ma dopo sono solo
nominativi che si disperdono, oppure nomi che finiscono su qualche
pagina di qualche libro o giornale o rivista, per qualche forsennato
che si fissa per poi perdersi nella ragione che non c’è più.
Non è la sua vita che costruisce, ma una vita sulle basi di altri.
“Li ho stimolati, provocati e alla fine ho pubblicato egualmente” mi
disse un dì qualcuno.
Nomi falsi, citazioni, nominativi che intercorrono a galassie
esistenti e nomi che mi ricercano con le loro immagini, solo per
insediarsi per essere qualcuno. Per entrare nella storia solo
violentandomi. Ma chi è in realtà tale persona? Gente che passa,
gente che cerca e ricerca, quello che non ha, la felicità e l’esistenza
delle cose. Gente che ha bisogno di un qualche cosa per capirsi, uno
strumento, uno scritto, un disegno.
Gente che muore ogni
minuto, attimo o periodo, perché non trova nessuno che lo ami.
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Gente che non voleva vivere per nulla, e gente che ha cercato
d’ottenere tutto solo per riflesso, ripicca e dispetto a quello più
importante; per essere poi scusati nella loro violenza sessuale
telepatica. “Ci cago in quel dito finito nel mio di dietro!” dissi in
modo volgare ad un uomo che glielo mise per davvero al figlio dopo
che egli aveva spacciato in società. Io non ne ho bisogno, ci siete già
voi. Lo prendo solo come un avvertimento.
Decisero un dì con le conseguenze del poi di togliere dal
commercio perfino le supposte che una volta s’inserivano nel retro
per un’influenza troppo a rischio.
C’è gente citata in mille maree, vanno, affogano, affluiscono, si
spostano quiete o aggrinzite, ma mai silenziose. Sono sempre
osservate, con odio, amore, e ambizione.
Alla fine scriviamo perché leggiamo.
Appuntiamo, ricordiamo, perché c’è gente che parla, oppure
perché è presente o perché si aggira e rimbalza come le stonate di
un pianoforte. Ma c’è gente anche armonica in tutto questo;
cosicché non sono più stonate su tasti bianchi e neri, sono melodie,
richiami e operette, tutte scritte e provocate per vedere se funziona
l’accordo o se è meglio, riprovocare e chiudere per un po’.
C’è gente che come le onde del mare ti dicono: “Un po’ mi hanno
fatto ridere.” “Un po’?! Un po’ perché?” “Perché parla da cane
bastonato e rifiutato, nel suo sfottimento e pentimento in un senso
d’inizio da sua madre che gli diceva, ma vaffanculo nella vita per
davvero! Dai, lo fai per dispetto!”.
C’è gente che sanguina.
105
“Dove sanguina la gente?”
La gente sanguina ovunque, dal cuore, dalla mente, dall’utero e
anche dal suo retro, se vuole almeno un figlio sano e forte. Che cosa
ho mangiato? Una o due croissant, che non ho masticato bene e la
cioccolata mi ha fatto riscaldo, il latte, il latte ad alta digeribilità, i
denti limati e ossidati, poco ferro, poca frutta e verdura […] una
venetta che si è rotta al suo interno, o la carta igienica troppo
ruvida. Sono quasi svenuta dal dolore per un escremento troppo
grosso; è così che mia nonna fu trovata a terra svenuta con il viso
cereo, quasi morta, in bagno piena del suo “bisogno” (cacca)
addosso.
Ma la gente sanguina anche dalle gengive. Sanguina nel sapere che
anche il secondo figlio può essere sano e forte, sennonché una
maledizione, una sciagura, un evento imprevisto e inatteso te lo
porta via preventivamente e cerchi di salvarlo portando avanti
magari un secondo seme trovato fuori dalla sacca o con l’aiuto del
tuo primo figlio. Come succedono queste cose non si sa. Sono
malaugurati.
La gente sanguina, e sa che anche tutti gli altri figli sono a rischio,
ma se sopporta tutto questo sangue che sgorga, sopporta anche le
peggiori sofferenze inflitte, altrimenti se ne va.
La gente sanguina.
“Perché hai aspettato così tanto?”
“Per prepararvi all’ultimo shock! La gente non è pronta per vederli
sempre più femmine e non più uomini in società”.
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La gente non tollera e soffre, si distrugge per distruggere e poi se
ne va.
LA MIA TELEPATIA
Da bambina non piansi molto per la mia telepatia. Tutto era ancora
sopportabile. Non mi fidavo di dirlo a qualcuno. Era un discorso
tabù. Non se ne parlava.
Ma da adulta piansi tanto. Così tanto che lo dissi di continuo (
anche per non soffrire più di gastrite). Pensai spesso alle
conseguenze e cercai di non dirlo e di sopportare il più possibile,
proprio perché non mi fidavo dell’intelligenza di nessuno. Non li
trovai mai propensi verso il bene, ma solo in grado di chiedersi:
“Chissà che cosa pensa di me quello? Oppure chissà che cosa
pensano in generale”. Ed io diedi solo la conferma di quello che tutti
sanno già: “Hanno fatto molto sesso in giro, che cosa vuole che
pensino? Basta guardarli! Chieda ad un anziano se non lo sa già!
Serviva dirlo che se li guarda pensano già di essere ricambiati e se
non li guarda, credono di poter distruggere lei e il mondo intero?
(HIV). Oppure l’inverso, si chiedono: “Ma che cavolo vuole quello/a
o quelli lì?”; “Lo conosco?”; “ Dove l’ho già visto?”.
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Mentre io per il mio essere Artista, mi trovai spesso del veleno nel
piatto o nelle pietanze in generale. Un anno poi arrivai a quantità di
telepatia desolante, spostavo nuvole, tra un po’ tornadi, uragani.
Piansi tanto, riuscivo a definirmi solo mostro! Non un mostro di
bravura, un vero e proprio mostro! Chiesi disperatamente a Dio di
togliermi questo chiamiamolo super potere o handicap, ma non ne
volle sapere nemmeno lui! Mi sono trovata immischiata in fatti ed
eventi che non ho nemmeno mai sopportato. In casi in cui mi
chiedo, ma dove sono? Che cosa ci faccio qui? Ma chi mi sta
pensando in questo momento?
Quando le persone non sono buone, io non riesco a sopportarlo.
Quando non mi lasciano in pace nella mia mente, non sono in grado
di scusarle, e uccido con qualsiasi mezzo comunicativo. Non sono in
grado di volerle vive. Violano di continuo la privacy della gente.
Quando poi le violentano in modo così viscerale e recondito, io non
sono in grado di non farle soffrire tanto.
Mi appello sempre ad un Dio punitore, che le possa liberare
portandoli lassù o laggiù, in breve che faccia per lo meno il suo
dovere e mestiere! Dio è giusto, non buono e nemmeno cattivo.
La giustizia non è sempre giusta, è creata da esseri umani, molti di
loro sono corrotti, e sfruttano altri mezzi.
Cito un articolo trovato in un libretto a casa di mio zio nell’estate
2007 datogli dai testimoni di Geova: “Sembriamo proprio usciti dalla
prima guerra mondiale, dove si segna un declino morale mai visto
prima!”
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Secondo lo storico Wohl: “Coloro che erano stati travolti dalla
guerra non riuscirono mai più a liberarsi dalla convinzione che
l’agosto del 1914, aveva segnato la fine di un mondo e l’inizio di un
altro.”
Ma la Bibbia afferma, per chi l’ha interpretata, “Era tutto previsto,
e quando un mondo passerà, il malvagio non sarà più qui” ed ecc…
Mi ripeto, tante volte ho chiesto a Dio di togliermi questo
handicap, perché non lo sopporto. Ma non mi sente, non mi vuole
ascoltare.
Il 90% delle volte è colpa di un HIV!
Se non ci fosse la telepatia, molte persone vivrebbero meglio. Si
salverebbero e rimarrebbero fuori dai guai. Avrebbero una vita più
longilinea.
[…]
Ultima preghiera del giorno: “Ti prego Dio, toglimi questa telepatia,
o sono costretta ad uccidere ancora, in nome della legge e della
gente onesta!”
Perché più ne parlo e più ne prendono paura, non perché erano
forti di carattere, ma perché erano così bassi da non credere mai di
essere scoperti o di finire a rotoli nel fango! Nemmeno dall’alto
riuscirete a vederli!
Io lo chiesi al telefono a più di un carabiniere: “Chi mi entra ora
nella mia mente? E’ da prigione!” E lì finivano, in tanti in prigione!
Perché quello che ancora non hanno capito è che tutto questo non
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era segreto. Lo sapevano tutti già! Non è una novità. Andatevene,
per il bene degli altri!
PARLIAMO DEL CAPO DELLA GUARDIA DI FINANZA.
Oh no, no! Che si tratta di soldi, ma di molto peggio!
Di solito vedete, si prostituivano per fare mobbing alla gente o
dispetti, ma questa volta no, non del tutto. Si trattava di qualche
anomalia diversiva: la mia telepatia. Scusai tanti ragazzi e gay, che
lo facevano in internet per scopi di sfogo su di una foto, ma non in
società. Iniziarono a baciarmi in così tanti, tutti ‘d’improvviso che
decisi di sì, d’intervenire con qualche poliziotto e carabiniere. Dopo
tutto trattasi di violenza sessuale telepatica ai miei danni. Sono la
parte offesa in qualità di donna.
All’inizio pensai: “E’ meglio fare un vero e proprio genocidio…”
tanto le situazioni andavano a ripetersi. Ma mi ridimensionai, e mi
chiesi: “ Da dove è partito tutto questo?” A parte da qualche
spacciatore incongruo, già invitato ad uno dei miei soliti banchetti
dove gli invitati sono solo loro, io non partecipo, in comune accordo
con chi deve difendere l’incolumità della gente. Ebbene sì! Da un
capo della guardia di finanza gay di sesso femminile. Chi le avrà
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rotto quel benedetto di dietro, per farle fare quel lavoro, non lo so;
ma l’invidia che porta è così tanta che chiesi la pena di morte.
E tutto questo per un po’ di arte? Ma per favore, andatevene! Fate
proprio schifo, non solo a voi stessi!
E CHE COSA DIREMO ALLA FINE? “Oh suvvia, è solo un racconto,
come fate ad attestare le veridicità degli eventi, per denunciarmi?”
IN PASSEGGIATA…
Ero in passeggiata e mia madre mi tornava ripetitivamente in
mente, con un discorso fatto di un pranoterapeuta che curò molte
persone; ma il mio essere sempre concentrato riusciva solo a
chiederle di stare zitta, per favore! “Per scrivere ho bisogno di
concentrazione, tu me la togli”.
Nulla avevo contro il pranoterapeuta “X” ma francamente viste le
mie vicissitudini passate, lo vedevo più che un discorso serio, una
vera e propria ossessione che mi percuoteva nella mia mente.
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Cercai allora di distarmi camminando all’aria aperta. Stavo così
bene, che non compresi mai perché si parli sempre di dottori,
quando una persona sta bene.
Allora camminai. Ascoltai con interesse il cinguettio proveniente
nelle vicinanze. Aprii il book che avevo in mano, per fare qualche
schizzo/disegno in giro e scrissi camminando. Mi sembra un vero è
proprio spreco lasciare tutto al vento e non fissare mai nulla su un
foglio di scritto.
Tacqui molto e ricercai il silenzio.
Il mio interesse alla fine dell’estate era quello dell’assoluta
tranquillità.
Tra gli scherzi telepatici, masturbazioni e idiozie varie, ricercai me
stessa, tra i passi che mi conduceva alla mia serenità.
Pensai per dire il vero a così tante vicissitudini che se riesco ad
equilibrarle nel mio muovermi in avanti, sarebbe già una bella cosa!
Un mese prima avevo comprato così tanti vestiti, che ridevo di me
del non avere mai occasioni di indossarli ormai da qualche mese,
per la non sopportazione dell’altro. Pensai di uscire in festa per la
mia camminata solitaria, per godermela per davvero del mio
abbigliamento sportivo nuovo di zecca! Per essere sincera modificai
queste ultime righe per essere più chiara. In origine, pensai: “Con
quel poco che esco di casa, è un vero spreco comprare così tanti
vestiti nuovi da non indossare mai”. Li comprai dove anni fa, per
così chiamati: “Giochi del commercio”, quell’uomo fu perseguitato.
Tanto lo so che alla fine ricambia il favore. Così decisi d’indossare
per la mia sincera passeggiata l’indumento nuovo comprato per la
112
festa della mia solitudine, lontana dal chiacchiericcio continuo e da
tutti i guai.
[…]
In questa società moderna la donna è spesso ghettizzata, se non si
ghettizza. E l’uomo pure. Sono così invidiosi della loro serenità e
capacità che ci si chiede ancora perché esiste il diritto dell’essere
umano alla felicità. Ci chiedono sempre: “Sposati, sposati…" io che
sono già stata sposata, me la ridevo così tanto che quando l’ho
imitato, causa la mia telepatia ho quasi pianto. Non perché se la
rideva, anche lui è perché pensava nel suo essere innamorato che lo
prendessi sul serio in giro e cose simili, in breve mi dava
dell’ipocrita. Alla fine lo diventai per davvero! E lo lasciai. Così
m’innervosii di nuovo di quell’intromissione nel mio pensiero e non
volli rispondere più: “Fatti tuoi e una tua scelta!" Ma mi limitai nel
dire pensando: “Già fatto grazie!” Una volta per lavoro, la mia
coinquilina era anche gay se non è volgare dire lesbica! Durai in
qualità pochissimo anche lì, sopportazione zero, cercai l’isolamento
immediato e lei se ne andò!
Ora invece contemporaneamente leggevo la mia pubblicazione in
internet mi hanno proiettato addosso all’immagine di mio padre da
baciare in bocca, per punirmi di chissà che veemenza. Mi ricorda,
quando dieci anni fa mia madre si chiuse in camera per guardare la
foto suo padre deceduto più di quaranta anni prima, e qualcuno
continuava a farglielo baciare nella bocca. Che disgusto, non pianse,
ma lo fece quasi per tutti quelli che quel rapporto con il loro padre
113
l’hanno avuto per davvero, anche solo per non litigare o per farlo
tacere, non per spacciare. Che disgusto!
Mi venne voglia di scrivere ancora. Sì credo che ho molto da
raccontare. Poi di libri ne nasceranno come sempre più di uno e la
mia vita va avanti così, da sempre.
[…]
Un giorno decisi di andare da un dermatologo per avere consigli
sulla mia pelle color panna, mi ritrovai dopo anni con i problemi di
nei della pelle che avevano tutti gli altri ragazzi a cui parlai,
scrivendo un po’ in internet. Rimasi senza parole dell’assurdità
contemporanea, dove non c’è sempre un vero e proprio
professionista nel suo campo, o per lo meno manca di serietà.
M’indebolirono con degli ossidi e veleni nel piatto della pietanza o
nel caffè o bevanda, che comprai al bar X nella mia zona e in località
limitrofe, perché il gay odia l’uomo o la donna forte, soprattutto
quelli della sanità, e fuoriuscirono tutti quegli scherzi da gay sulla
mia pelle perché era stato inserito tutto sottocutaneo, da uno
114
strumento che non saprei nemmeno io definirlo. Ci vollero dieci
anni per far uscire tutto, e poi tacqui molto. Non riuscivo altrimenti
ad ottenere nulla dalla sanità, continuavano a vaccinarci con delle
loro creazioni che sono per lo più droghe. A trent’anni non saprei
più nemmeno definire i vaccini. Meno male che il papa test non è
obbligatorio. Basta una telefonata per annullare la visita.
Ero in passeggiata di stanca.
Volevo immergermi nella natura, camminando da sola in mezzo al
ghiaccio e alla neve, ma anche lì non ero sola. Mi perseguitarono, mi
perseguitarono ancora tante, tante persone e mi chiesi ma che cosa
vogliono da me tutte queste immagini scoccianti nel mio, momento
di pausa e felicità.
115
Credo che nella mia vita non rimarrò mai da sola, mai. Lo dissi ad
un ragazzo stesa nel suo letto matrimoniale a chiacchierare di
Kubrick, delle bambole robot giapponesi, di genocidi, missili e
quanto altro. La volta successiva mi fece da pappagallo. Tralascia,
per i mal pensanti che eravamo ancora vestiti. Io risi nel dire dai:
“Perché non vai tu alla nostra università?”
Non che mi faccia schifo ma sono arrivata ad essere stanca nel aver
voluto provare a fare due lavori, uno di ufficio, uno ai fine settimana
di sera, e contemporaneamente entrare all’Università e vedere un
documentario su l’uccisione dei maiali, evento che faceva spesso la
mia cara nonna prima di morire, e tra gli altri the Conteders, film
che poi comprai per ricordarmi la pazzia della gente. Poi rincasare
stanca morta, stendermi nel mio letto e avere nella mia mente
immagini di sesso del mio padrone, dell’amico - dell’amico e così
via. Finché mi dissero di andare in un sito di psicologia per studiare
anche quella e rendermi conto che Tizio e Caio, ebbero una bella
masturbazione. Poi continuai a studiare nel mio letto in modo
tranquillo e continuo; per vedere proiezioni di persone che mi
volevano stesa per terra con Tizo sopra, tutto fatto con
l’immaginazione, per essere poi costretta a dire al telefono: “Che
shock!” “Ma quello è andato su per davvero!” “ Ma io glielo lascio
credere che fossi stesa lì per terra ma non sono in grado di non
mandargli un boss a rompergli quel suo bel di dietro!”
L’Esame poi è stato dato come sempre con un trenta. Poi se tutti
non erano trenta i voti finali ma ventisei e quanto altro, a me
importò poco accettare o meno. A me bastava finire. Perché tutto
quello che io ho fatto è anche imitare tizio e Caio, ma stavo dicendo
che avevano tutti voglia solo di masturbarsi da soli perché ho
116
lanciato da anni l’allarme HIV! E quello che riuscivano ad ottenere è
solo che persecuzioni.
Come quando mi chiesero di pagare anche l’ultima tassa di 700
euro! Ma lì mi spaventai per i miei compagni, io sono di buona
famiglia benestante, mia madre ormai è in pensione, mio padre ha
un’attività ed è in pensione, io stessa ero a reddito alto perché ho
lavorato, come si fa a basare tutto su di me! Piansi per tutto e li
giudicai pazzi! Mia madre mi disse: “Paga.” Ed io pagai. Non tanto
perché non volessi ancora sfruttare la mia università per poter
ancora pubblicare a destra e a sinistra anche con nome falso, ma
per riuscire finalmente a montare due video nel più breve tempo
possibile in modo da recuperare quasi all’istante la tassa pagata,
seguire un corso e dire a me stessa di sì! Ha ragione la mia agente a
giudicarmi già specializzata. Sì, si pensai e tutto vero quello che
spiega, ma parlando tempo indietro con un regista gli spiegai, che
nella nostra vita ci sono così tanti Flash Back, che il montaggio
lineare, e storia di sceneggiatura spiegata, io mi ci rivedevo a grandi
linee. Sempre vero ma con un montaggio discontinuo solo per avere
alla fine un discorso d’inizio che si ricollega nel termine, una specie
di 21 grammi, dove non si comprende molto né all’inizio, né nel
mezzo, ma alla fine si ricollega tutto come la composizione di un
Puzzle.
Poi i giorni si susseguirono, e gli scherzi telepatici aumentarono,
odiarono così tanto il mio essere donna, che continuavano a
punzecchiarmi il mio di dietro con la mente, tanto da farmi così
innervosire e produrre più di cinquanta disegni al dì, anche cento,
insomma a farli finalmente contenti, di poterli esporre per dar loro
lo strumento che serve per commettere qualche omicidio; un
117
semplice e banale disegno su carta fatto a penna, per capirsi di più.
Mi proiettarono immagini di uomini o di donne da far baciare per
uccidere ma li ho sentiti così ridere che quei celebro lesi, e
bucomani vanno lassù o laggiù per primi. Così mi organizzai a
delinquere e li sfinii, poi li suicidarono e qualche corpo finalmente
iniziò a sparire. Non perché sia bello ma perché devono come
sempre dimostrare l’inverso o cattiveria, tanti si sentirono così
sessualmente violentati come me, che i violentatori in sé furono
suicidati, e baciati, più e più volte; finché la morte non li attende,
per portarseli via per sempre. Io l’ho anche spiegato chi è stato
anche ad iniziare: Un uomo messo tra i carabinieri dopo essersi
anche rotto il suo di dietro con suo figlio. Insomma prostituzione
vera. Che cosa voleva che fossero tutti come lui. Non si può
violentare la gente così! Siete proprio scostumati e scurrili, da pena
di morte.
Chiesi a Dio di farmi questo favore non tanto di farli,
semplicemente seppellire per poi tirarli fuori dalla loro fossa ancora
vivi per metà, cosa che poi porta un folto pubblico di forsennati ma
di portarli direttamente negli inferi, così fanno prima, invece di
rompere la brava gente. Peccato che poi come i funghi avvelenati,
ne crescono di continuo di gente così malata di mente. Perché io
non li voglio in vita, li voglio proprio morti. Non sono in grado di
sopportare di vederli sempre stesi per terra sanguinolenti, perché
finisco sempre in uno stato di commiserazione e pena, e li salvano.
Tanto lo so che mi vogliono uccidere il mio secondo figlio,
soprattutto se è sano e forte e di sesso femminile, anche solo per
finire la vita di un’altra maleducata di”Brava” Gay! Ho guardato Dio,
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la madonna e tutti i Santi e gli ho detto se è destino così sia! Ma non
chiedermi più niente dopo
TRA LE CARTACCE
Appuntiamo tra le cartacce accumulate nell’intorno della giornata,
con qualche appunto scritto qua e là per terminare in meglio il mio
libro di racconti se non horror di disgusto umano. Non perché la
perversione sta nei fatti in sé, perché la perversione era per lo più
mentale.
Mi ricordai ancora quando avevo venti anni, poi ventisei e poi
trentatré, mi si ripete di costanza sempre lo stesso fatto ogni volta
che faccio qualche denuncia di pedofilia pubblica. Iniziano a
violentarmi con la mia telepatia faccendoni baciare di tutto perché
sanno benissimo che mi fa schifo, e m’irrita se non sono da sola. Li
trovo precipitosi ed intromessi nella mia quiete lavorativa, solo per
farmi lavorare o scrivere di più. Ma fa nulla, proseguiamo. Non è
stata una mia scelta essere un’artista, ma sono nata così, in una
famiglia tendenzialmente portata per l’arte in genere. E non è di
sicuro stata una mia scelta essere anche spesso innalzata o votata
per qualche concorso o qualche abilità, ma purtroppo succede
anche questo. E che cosa mi aspetto? Che tanti devono dimostrare
di valere di più. Nulla toglie se in tutto questo ci fosse della
119
competizione onesta, ma sono così basse certune che oltre alla loro
stessa prostituzione gratuita, s’apprestano a fare scherzi telepatici
anche agli altri per farmi odiare anche me. Ma se a talune persone
le dici: “Ti senti un po’ puttana in quello che fai? Tanto per sapere”.
Loro se la ridono, si guardano in giro e credono ancora di no. “E
beh!” le ho detto a una in epoca ancora adolescenziale: “Tu credi
che siano tutte come te?” Non per niente ma a vent’anni miei circa,
si fece tutti camionisti che erano in zona, anche nel suo bel di
dietro. E certo! Sei sicuramente Star adesso! La mandarono in TV.
Okay, tralasciamo i dettagli. Non riuscii ad odiarla ugualmente lo
giuro, mi dava solo il nervoso.
Ritorniamo al problema della mia denuncia di pedofilia: Un giorno
di sole un po’ offuscato dalle nuvole, presi la bicicletta ad un’ora X, e
corsi. I tragitti che ormai faccio sono sempre gli stessi, non è che il
mio paese abbia così innumerevoli strade o sterrati da fare, li
conoscono e se li sono studiati ormai tutti. Dovrò come sempre
un’altra volta cambiare casa; ma proseguiamo nel mio racconto.
Allora, stavo correndo in strada in modo lieto, tranquillo e felice,
finché una pedofila che uccise suo padre, voleva avere il mio
consenso a “Farsi” il mio cuginetto faccendoni baciare la sua
immagine, indirizzata verso la bocca. Disgustoso per davvero,
quando rincasai decisi di dipingere il quadro che preparai a matita
per lei anni prima. Penserò poi a venderglielo. Sto aspettando che lo
voglia solo una taluna persona di mia poco conoscenza, ma se la
stanza per guadagnarci sopra non se la procura lui, io francamente
me ne infischio. Torniamo a noi, dopo questa vicissitudine ambigua,
continuai la mia corsa in passeggiata e trovai un’altra gay, così
invidiosa di me, che ancora mi dice a me che cosa ha fatto?
Dimostrato solo di soffrire lei per la sua arroganza, cocciutaggine,
120
ipocrisia e perversione mentale! Mi ha fatto provare che cosa
significa baciare un bambino morente. Che schifo proprio che fate!
Ho capito che a undici e a tredici se non anche a quindici anni, ho
fatto più di un corso di pronto soccorso, ma quando la perversione è
vostra, io non ce la faccio a fare un bocca a bocca se il caso non è
proprio da bollino rosso! In breve: Quando passò in macchina, mi
fece provare che cosa vuol dire baciare un bambino, per poi
provarlo anche quello dietro di lei, e così via, non perché non ne ero
scioccata, di più. Fate proprio schifo! Quando hai fatto un corso di
pronto soccorso per essere meglio di me o di altre, la perversione è
tutta tua! Mi disgusti tu! Quando hai scelto di fare quel mestiere o
di provare che cosa vuol dire farlo, lo hai scelto tu, non io o tizio o
Caio, tu! Assumiti le tue responsabilità. Per dimostrare poi che
cosa? A te stessa di sì, vali più di altri in questo modo? La
perversione, non che malattia mentale è tutta tua! Vai lassù per
piacere! Che anche se esteticamente sei più bella di me o di altre
persone, o più Star, o più famosa, o con un lavoro circa e chissà
quante altre scuse cercherai per dimostrare di valere di più, farai
sempre e comunque schifo tu!
121
QUESTA è UNA STORIA DEL TUTTO INVENTATA.
Il ragazzo entrò nella vecchia camera della madre a casa della
nonna. Era un giorno come un altro. Alzò le persiane e aprì la
finestra in modo che l’aria fresca del mattino inondasse tutta la
stanza.
Tirò un sospiro di sollievo, e respirò a pieni polmoni; li voleva
riempire di ciò che è vita.
Guardò le vecchie foto che la madre teneva appese nella sua
vecchia scrivania e iniziò a sfogliare qualche libro per ridersela di
curiosità. Frugò negli scaffali, dove appunto la mamma riponeva i
suoi vecchi libri e ne aprì uno a caso. Trovò nella pagina in fondo,
un appunto scritto, parlava di Epiteto e della morte. Del concetto
filosofico e filologico che lega la vita alla morte.
Si ricordò un racconto passato della madre. Gli disse che per vivere
ha dovuto accettare anche la morte, ma se avesse potuto evitare tal
esperienza, lo avrebbe fatto. Solo che ci sono delitti e doveri
unanimi che costringono la gente a fare, compiere, a trovarsi in
certe situazioni e a piangere tanto.
Non era felice quel dì. Il ricordo lo esasperava, e nel frattempo che
ricercò qualche altro appunto o disegno, disperso da anni in altri
libri, trovò tanto ingiusto.
A scuola le cose non stavano andando bene, e l’insegnante
d’italiano lo richiamava spesso all’attenzione. Perse il suo sguardo
nel vuoto di tutti quei libri riposti in fila e accalcati l’uno sopra
l’altro.
122
Ne prese uno lo aprì e rise.
“Non lo vedi che sbaglia a scrivere anche la tua mamma, quando è
avvolta nel veleno che la circonda?”
La madre, una donna d’affari, di formazione culturale molto
accentuata, scrittrice d’illustre rispetto, che vinse molte
premiazioni. “Sbaglia tesoro” gli disse mentre prese il libro dalle sue
mani, lo chiuse e lo posò sopra agli altri. “Sbaglia ogni tanto a
scrivere e capirai il perché…”.
“Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli
uomini formulano sui fatti.
Per esempio la morte non è nulla di terribile ma è il giudizio che la
vuole terribile”.
(Epiteto)
“In punto di morte hai solo paura di morire”.
“E’ la nostra cultura che crea il tabù della morte, e della
conseguente sofferenza che la circonda e provoca quando questa si
presenta”.
123
Un SOGNO FANTASIOSO.
La sala da pranzo non era ghermita di persone per la festa
dell’incontro.
Si radunarono poco a poco solo due o tre persone.
Passeggiarono per lo più su e giù per la sala, qualcuno si sedeva al
tavolo per mangiare qualche cosa con le serrande socchiuse.
Penetrava solo un filino di luce.
Una donna dubbiosa e invidiosa, con le unghie ben affilate, tinte di
rosso, passeggiava nervosamente su e giù per la stanza, alla ricerca
di qualche bassezza che possa interloquire con la pace finta o che lei
percepiva da giorni. Non conosceva nessuno.
Il suo trucco sempre la opprimeva, e il suo sguardo sempre lo
cuoceva, e la sua voglia di seduzione, sempre destabilizzava il padre,
mentre il figlio si sedette sulla punta del divano. Nessuno parla, non
c’è molto da dire, sono lì. Cupidigia e tensioni vennero sempre più
presenti, e le allucinazioni iniziarono a fargli visita.
Gli parve tutto ad un tratto che spuntassero dai bottoni che
reggevano il cuscino dello schienale appartenente al divano, delle
punte, inizialmente molto innocue, come delle spine di rosa. Poi
divennero sempre più appuntite e affilate.
Si girò spaventato e non riuscì a fare nemmeno un movimento. Le
guardò con occhi sporgenti e non riuscì a spostarsi nemmeno di
lato, o di un centimetro, nulla. Non sapeva come dirlo: “Aiuto, non li
vedete i chiodi, i pungiglioni, stanno fuoriuscendo”. Si guardò in
giro, per vedere solo la rassegnazione alla calma opprimente,
124
viscerale e schifosa, che invadeva tutti a presenti. Fu colpito e si
spaventò. Si alzò di scatto e cercò d’immaginare che quelle punte
tornassero in dietro da dove sono venute, ma non ci riuscì. Fu
avvelenato. Si rassegnò nella sua ira di non riuscire a fare nulla. Il
padre si sedette al suo fianco, ma non vicino. Le punte tornarono
indietro. Nessuno vide nulla.
“Mi vogliono ammazzare” pensano. Tutti vogliamo uccidere tutti.
Siamo l’uno contro l’altro.
Il suo sguardo iniziò a dilatare le pupille e poi a contrarle a spillo.
“Devo mantenermi calmo ugualmente” Pensò.
Iniziò a farfugliare qualche cosa a vanvera, in modo nervoso, per
distrarre l’attenzione.
Parlò per lo più con se stesso.
Non aveva molta voglia di dire o parlare, ma per lo meno cercava
di ragionare.
La donna entrò nel cucinino, rivolse la parola all’inserviente che le
stava sempre appresso. L’inserviente è una donna di piccola statura
ma non proprio bassa, indossava spesso vestiti lunghi a fiorellini
piccoli blu, con un grembiule scuro. Appariva un pochino, tozza e
grassottella, ma non molto. Si studiava un modo per tenere sempre
sotto gli occhi quella donna così curata d’aspetto, bella per forza di
cose. Alta longilinea, sempre ben vestita. Affascinante, nel suo
aspetto, ma quelle unghie così lunghe mettevano diffidenza. Parlava
attraverso di esse. La calmò. L’inserviente entrò nel dubbio di essere
in torto con quella donna e la lasciò fare. Se ne andò.
125
La donna rientrò nella sala da pranzo e si fece inseguire dal figlio
nel cucinino. Era un’altra stanza semibuia e grigia; d’aspetto
abbastanza lungo ma trasandato in pietra e cemento. C’era un
lavandino e una tavola di legno sorretta da due bastoni che reggeva
un po’ di cose, messe là, una bilancia rossa sopra alla tovaglia gialla
a rombi di plastica lavabile, che serviva per preparare le pietanze, e
un tagliere per tagliare la verdura. Gli disse qualche parola
“seducente” tenendogli le mani sulle spalle da dietro e parlandogli
quasi nell’orecchio. Lui traviserà, perché aveva solo che voglia di
commettere qualche omicidio. Parlarono con discrezione, sfidandosi
l’uno con l’altra, ammucchiando. Poi lei uscì ed entrò il padre.
Scocciato, non riuscì dire bene mi ha avvelenato, ma cercò di
cambiare direzione. Di calmarsi ugualmente. Il tutto scatenò una
discussione molto animata. Il naso grosso del padre ne risentiva
l’oppressione del momento. Tutto ad un tratto nel breve del
racconto con le labbra in primo piano, il padre scosso, gli gridò: “Ora
vieni con me, adesso ho capito, ti senti avvelenato!” Il figlio si
scostò.
L’aria di tensione si rafforzò e non riuscì a spiegare lo sfogo e la
voglia del momento. La luce fiocca e gialla come la resina degli
alberi, impallidì il cucinino, quella stanza semibuia e grigia.
Parlarono a vanvera camminando nervosamente su e giù per il
restante spazio. Delle volte s’incrociarono, altre s’inseguirono.
“Che cosa ne pensi di quella signora?”; “E’ una bella signora” disse
il padre. Il figlio rise, nessuno aveva il coraggio mai di dire la reale
impressione che aveva l’uno dell’altro. Prese un coltello.
126
Lo alzò con furia.
Stop Nero.
Il coltello stava nel tagliere, prima si fermò con le mani, giocandoci
con le dita, poi ebbe un raptus di rabbia.
Siamo al portone d’entrata di un tribunale.
Il padre condusse tacito al suo fianco, il figlio, con aria rassegnata
della sua stessa pazzia, e gli disse: “Va…”.
Anche lì non era tutto ben chiaro. C’era tanta luce marrone e quei
mobili pesanti nel corridoio, pieni di carte e documenti al loro
interno, indugiavano l’insieme delle cose che completano il mondo.
Prima di uscire e di discendere le scale che si trovavano all’angolo
dietro a quei pesanti libri, carte e documenti ben sigillati, si volta
verso il figlio, alza la mano con le dita tutte ingrossate e fasciate
prive della prima falange, e sorridendo amaramente disse: “ Me le
hai tagliate!”…
(Questo racconto è tratto da una storia vera).
127
UN ALTRO RACCONTO ANEDDOTO DI VITA PASSATA.
Finite le scuole superiori volevo andare a lavorare. Feci domande
d’assunzione a destra e a sinistra. Mi accorsi a ritroso della
costrizione che mi avevano creato per la mia mania di perfezione,
mia madre mi fece limare i denti storti, io impazzii. Sono così
fanatica dell’estetica che devo essere sempre bella, altrimenti mi
ammalo. Per paura della Kodak mi facevano di quelle foto così
brutte che mi vendicai e andai sempre di più dal dentista. Volevo i
denti belli. Quando però cercava scuse, mi facevano domande o mi
rivolgevano la parola ed io rispondevo oppure andavano su, o mi
davano bacini, o ricercavano qualcuno al telefono che potesse dire
qualche cosa. Ero così nervosa di non riuscire ad avere denti belli
che impazzii, facevo solo dipinti di una perfezione perfino assurda. E
mi chiesi molte volte da adulta, invece di spendere tutti quei soldi
dal dentista non era meglio pubblicare qualche cosa che posso
sempre vendere un domani? Non osai mai rispondere a questa
domanda. Ormai trattasi del passato. Quando pubblicai gratis in qua
e in là, è stato tutto disperso tranne che nel mio diario. “Prima o poi
ci guadagno lo stesso”, pensavo, ma non so dirvi se questo è bene,
so solo che la prostituzione era tanta e il mobbing molto di più,
anche per mio padre e mia madre che avevano un lavoro e
potevano perdere tutto in poco tempo. E non mi costruii in verità la
base di nessun lavoro. Aspettai che andassero in pensione. Tutto
sommato è stata colpa dell’invidia dei dottori e di mio padre e di
mia madre e della gente. Più sono rovinati pensai e più riuscirò ad
andare anche in meridione. D'altronde se rimango in stress,
128
nemmeno me ne rendo conto che sono proprio male, vado avanti. Il
futuro non si basa su dei bei denti, solo la salute, ma anche quella è
un rischio in questa società malsana. Non riuscivo proprio a
fidanzarmi per davvero, se fossi stata veramente sana. Pazzia è! Da
bambina mi denunciarono perché non volevo più picchiare nessuno.
Dopo un po’, mi stufai perfino di quello. Che bisogno avevo io in
origine secondo voi? Nessuno! Partì dal fatto che certe persone
finiscono per sposarsi un po’. Non perché non si piacciano, ma in
certe discussioni sono finite a violentarsi il loro di dietro, si sono
uccise e stavano insieme ugualmente tradendosi, o concedendosi
qualche relazione extra coniugale di ripicca, di vendetta o per
uccidere con il proprio sesso chissà chi. Non ti puoi permettere di
dire che hai dei denti belli, non ti puoi permettere di dire nulla. Si
chiama il rischio della parola.
Non mi ritenni mai intelligente, ma solo una ragazza che ha
parlato, o pensato, con persone che sono ormai sempre in
maggioranza offese nel loro di dietro.
Preferii non vederci più per non vedermi. Da bambina, mi
manomettevano anche gli occhi, perché altrimenti per l’invidia del
nostro insegnante rischiavamo di finire bocciata in quarta
elementare. Ora da deceduto, io mi domando: “Ma non facevano
prima a mandarlo via?” Come sempre io. Io da adulta volli che
morisse. Io da adulta ne ordinai l’uccisione, perché basta. Le
discussioni erano arrivate oltre ad ogni limite di ripicche.
D’adolescente mi facevano battere sempre l’occhio destro, ma il
leggero stigmatismo mi era venuto in quello sinistro. Mi stufai e mi
feci vedere con gli occhiali, mi davano ogni tanto quel tocco in più,
esteticamente parlando, tranne i primi che mi comprò mia madre,
129
mi facevano veramente venire le vertigini solo ad indossarli, erano
uno 0.25, ma bastava per destabilizzare l’equilibrio psichico
dell’occhio e del corpo. Gli altri miei occhiali li comprai alla moda,
esagonali e di tinta blu violetto, l’indossai per parecchi anni, finché
un mio collega di lavoro non li graffiò nel tavolino. Non mi arrabbiai
più di tanto perché erano ormai logori e consumati o meglio quasi
corrosi dal sudore del naso. Gli altri che acquistai erano allungati di
tinta rosa, quando cambiai le lenti, perché mi fu quasi impossibile
spiegare che un 1,50, di gradazione, non mi bastava più, non riuscii
a non comprarglieli lo stesso per poi fargli mobbing, me le ha
manomesse un po’ la commessa. Mi spaventai, non riuscivo
ugualmente a vederci bene. Cercai di denunciare tutto ma non servì
a molto sennonché le feci mobbing anche a lei. Ma mi stufai proprio
tanto con gli ultimi occhiali, belli quanto vuoi ma bianchi e
trasparenti, a gradazione quattro di diottrie decisi di farmi operare
gli occhi perché mi portarono una discreta sfortuna. Sperai solo che
andasse tutto bene. Delle lenti a contatto poi non ne parlo, le
perdevo di continuo, il mio occhio le rigettava quando poi non le
trovavo rotte, oppure non le rompevo io. Io non ne avevo bisogno di
ripulirlo il naso avevo solo bisogno che mi rimettessero a posto
l’osso. Dopo varie limature di denti e ossidi decisi di farmelo a
malincuore ripulire, per dire a me stessa: “Dai non hai speso molti
soldi per niente” ma ancora i denti erano troppo belli, e il mio fisico
perfetto. Troppa rabbia e invidia non me lo ripulirono, me lo
danneggiarono di nuovo anche quello! Rimasi senza parole di voler
morte molte persone. Non capii in realtà che cosa ben volessero
dalla mia persona, se non vendicarsi su di me, che sono una X, per
l’invidia che le portarono, oppure l’inverso usarmi solo per avere la
prova concreta che era tutto vero. Con il naso ancora peggio,
potevo non tanto spendere per aprirmi un’editoria, che poi andava
130
a interagire con il lavoro di mio padre e mia madre, capaci perfino di
fallire o di uccidersi come poi hanno fatto; ma potevo intrufolarmi
da per tutto e in ogni dove, senza nemmeno spendere soldi in
biglietto per incastrare tutto e tutti dalla rabbia. Io sono una Punk.
Me lo dissero a undici anni. Che cosa sia nella realtà un Punk, non lo
so. So solo che un Punk ha ucciso, per stufa, per rabbia per tutto. Io
che sono sempre così al centro, cercai di sembrare un nessuno per
farlo per davvero tutto quello che avevo in mente, ma mi resi conto
di no. L’assassinio è un reato, ma è meglio parlare di omicidio
colposo, ci sono casi desolanti da pena di morte. Io suicidai. Oppure
mandai qualcuno, dopo aver indagato la persona in questione.
Tanto tutti i miei conoscenti furono rotti nel loro di dietro, e i miei
fidanzati scelti si suicidarono. Nessuno era in grado di non portarmi
invidia, per rabbia verso se stessi, nessuno era in grado di sentirsi
all’altezza o di aiutarmi per davvero e nessuno era in grado di stare
nella realtà insieme con me. Com’io del resto. Sì pensai, rabbia,
cattiveria interiore che andava a restringermi lo stomaco, ma ero
sicura che se partisse tutto da una mia chiacchiera vera, allora
poteva finire tutto come volevo io. Perdettero la vita molte persone
colpevoli di reati veri e propri di prostituzione e truffa. Non mi sentii
sola in questo. Anzi molti conoscenti mi diedero delle belle
soddisfazioni, non perché come i miei genitori dovevano sempre
punirmi e dimostrare l’inverso, ma perché la pensarono come me.
Rimasi scioccata da ragazzina avere tanti alleati. Non perché da
bambina ero una vera e propria illusa come mi definii, ma perché
ero una solitaria che invece di brindare insieme con tutte d’aver
vinto il pedofilo le vidi, rovinate anche di più. Non si mette al mondo
un figlio per odiarlo. Non si mette al mondo un figlio per scaricargli
addosso la propria delusione. Piansi tanto dallo schifo. E mi sentii
sola, nel vedere che mia madre si nascose semplicemente di più.
131
Rubai. Fui così astuta anche in quello, che mi feci beccare, per non
rubare più nemmeno se mi entravano nel cervello. Rischiai la galera.
Lo feci per ribellione e protesta. Si sentivano più grandi. Le
convinsero certune, che così erano già donne. Un genitore che non
seppe più che farsene dei suoi due gemelli, dopo che avevano già
aperto il loro retro con un pedofilo, li mise in mezzo ad una strada.
E’ solo per fare un esempio.
Scrivo perché voglio il bene di mio figlio. Se mi dimentico che cosa
fanno lo rovino. Lo farei entrare nel bisogno, per costrizione o
convinzione del tutto sbagliata che sia giusto così a causa degli
invidiosi e del lavoro. Se mio figlio come ho chiesto, nasce forte e
sano allora io mi do un’opportunità di salvarlo. Altrimenti mi odierà
per essere stata ingenua o stupida per tutta la vita. Siamo in società,
e da che mondo e mondo mettono il veleno o pietanze andate a
male o chissà che altro, nella piacevolezza di un’uscita in
compagnia. E poi mi entrano nel cervello. Poiché come ho anche
provato o tentato di dare questa soddisfazione ai maligni, di morire,
non decedo io, vi entrano nel cervello. Meglio farli fuori.
IN INTERNET
Da dove iniziano le disgrazie degli esseri umani se non in internet o
nelle telecomunicazioni. Oppure quando internet non era ancora
ADSL paga tot al minuto, ma era una radiolina o un radioamatore
dietro l’altro. Poi hanno bisogno di vedere quanto sia disgrazia o
verità, o piacevole formazione culturale o condivisione d’idee. So
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solo che tante volte l’ho ringraziato e tante volte l’ho odiato. Tante
volte ho ottenuto molta più dignità di quanto mai ho pensato, altre
volte invece ho pianto per la sfortuna di non riuscire a diciott’anni
ad aprirmi la mia attività in regola. Forse, mi sono chiesta molte
volte, dovevo come sempre buttarmi e dire di sì, in corriera quando
me ne chiedevano uno, ma ero ormai così insicura per tutte quelle
umiliazioni subite che non ce la feci. Non perché non ne avevo già
venduti, ma perché non ce la facevo più. Avete mai lavorato e
studiato? Non ci riuscirete facilmente ad essere promossi. Come
quando d’improvviso dovevo andare ai regionali di ginnastica o
pallamano o entrare in una squadra di ciclismo. Non riesco proprio a
dire sì subito, sennonché quando accetto, è comunque tutto finito
lo stesso. Non sono mai ben intenzionati. Non che di possibilità non
ne ho avute, ma proprio non ce la fanno a dire a se stessi: “Lo
voglio, ma t’invidio". "Non riesco a volerlo punto, perché hai un
guadagno”. Certe volte invece ho ringraziato d’aver rimandato di
anni tante cose. Per esempio mi ritrovai nel bar della zona, e mi
sedetti con le mie colleghe di lavoro, nel tavolo situato all’angolo
dietro la porta, rialzato. Mi divertiva sedermi nelle seggiole a
sgabello e i tavoli alti. Solo che in quel punto si siede solitamente chi
si vuole laureare. E qualcuno entra nella mente di tal persona e gli fa
pensare: “Se ti vuoi laureare, devi aprirti il tuo di dietro”.
Ovviamente era un pensiero falso, come falso è per metà mezzo
mondo. Io mi girai, per stress, nausea, un pizzico d’invalidità di
mente, sfinitezza, e dissi alla mia amica nervosamente: “Ma che
cosa mi devo laureare io?” Mi rigirai e pensai: “Grazie al cielo non
ho ancora nemmeno iniziato l’università, ho preferito andare a
lavorare”. Ma alle altre o agli altri seduti in quel posto andò
diversamente: gli aprirono il di dietro. Io rimasi sempre più scioccata
e sconvolta. Una volta in macchina mi sforzai ripetutamente e ci
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riuscii, piansi proprio tanto, perché quella ragazza è poi morta, la
operarono al cervello e perdette la vita. Così non mi ruppi il mio di
dietro ma poi lo rischiai per davvero innumerevoli volte solo perché
stavo discutendo, o studiando in internet, e qualcuno mi votò.
Dovevo dare un esame di psicologia della percezione,
comunicazione e fare video creativi e video arte, pensai solamente:
“Quale miglior spunto da prendere se non andare in un sito di
Psicologia, dove anni prima mi chiesero di fargli visita ogni tanto”.
Non ero una psicologa, ma studiai fin da bambina psicologia, che li
giudicai tutti o quasi narcisisti. Buttai là diverse cose per vedere se
funzionavano, poi riconobbi qualche amico e lo seguii con lo
sguardo, quando lo incontravo, non mi mettevo di certo a pedinarlo.
Tanto i racconti che noi facciamo, sono sempre tra verità e finzione
perché ci vergogniamo del racconto vero e proprio. Ma anche lì mi
feci prendere la mano. Avevo solo ventiquattro anni e tutto come
sempre andava bene. Tutto ad un tratto scrissi: "No, il mio culo no!"
Perché devo farmi violentare il mio di dietro? Va bene comprendo
che anche mio marito alla fine lo farà per invidia che mi porterà, ma
perché proprio adesso? Per amore dell’Arte. Ero effettivamente una
delle poche donne rimaste ancora tali, poiché sono ormai, “frocie”
non riuscivano tanto ad ucciderli, ma io sì. Piansi anche per questo.
Allora scelsi due delinquenti e li finii, come sempre perdettero la
vita, anche senza arrivare al mio di dietro, ma non riuscirono a
morire, e tutto questo perché? Perché la sanità è invidiosa! Perché
ogni ragazzo, uomo ed altro che io conobbi lo aveva già perduto. Fui
così triste di non trovare mai nessuno in grado d’essere abbastanza
forte da stare al mio fianco che decisi di farmelo violentare solo
dopo che quelle del pap test mi rovinarono anche una vena piccola
sul sedere per avere sangue dal mio retro. Il mio retro si strinse così
tanto che non riuscivo a fare nemmeno un escremento grosso dal
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dolore. Così decisi di scegliere il mio persecutore numero tre e di
rompere per un po’ il suo sesso aiutata da qualche amico, anche
perché mi spararono in una gamba, e non riuscivo più a lavorare in
pizzeria e in ufficio. Ricercai quello che mi sparò e lo feci a tocchi.
Non difesi la mia amica, quando le spararono per prima, ma mi
vendicai su chi sparò a me, lo feci ricercare proprio tanto e lo ridussi
a tocchi. Avevamo solo diciotto/diciannove anni. Il mio fidanzato era
così gay che lo frequentai sempre di meno e mi lasciai andare con
due spacciatori che conoscevo da moltissimi anni, se non da quando
avevo, si è no cinque o sei anni per poi sentirmi dire che non ci
conoscevamo affatto, e che non eravamo mai stati nemmeno amici,
li salutai. Non mi arrabbiai molto di quel discorso, anche perché ogni
tanto li mandavo in galera. Alla fine con entrambi avevo un rapporto
di un quadro da fare, e non capii perché l’avventura in questione,
non poteva rimanere una semplice avventura o meglio una
scappatella. Alla fine dell’avventura durata una sera, mi disse:
“Cerco la vasellina”. Io gli gridai, scappai e poi lo feci picchiare e lo
uccisi per davvero. Lo riesumarono. Lo andai a trovare una sola
volta e uscii di testa, gli mandai altra gente.
Con l’altro invece ero solo che una ventiseienne sfinita e ridevo
parecchio dopo un po’ di volte che lo frequentai, ma una sera, presi
un immunosoppressore di fronte ai suoi occhi e lo imitai. Non
riuscivo a non farlo. Cercai di calmarmi finché non gli venne voglia di
violentarmi il mio di dietro, ma era così chiuso che si fece molto
male al suo di sesso. Mi trattò in breve come tutti gli altri. Io ci
rimasi male, e poi risi in realtà un po’, di quanto gli faceva male. E
alla fine mi accorsi di quanto poi stiamo insieme solo per ridercela e
per ucciderci l’uno con l’altro. Lo prostituii, tanto era uno
spacciatore. Gli dicevo: “Vai dai, vatti a far un giro!” Tornava a casa
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sempre peggio. Soddisfazione. Sono una romantica, ho fatto sesso
solo con chi mi piace veramente, ma quando tutto finiva in droga,
spegnevo il cellulare, cancellavo il numero e la luce sul tutto. Una
volta, prima d’andare via alla fine di tutta questa guerra, piansi un
po’ di quanto era bucato. Ma in fin dei conti è ancora vivo. Tornai
solo per vedere se aveva veramente ucciso una donna, e cambiato
la mobilia della cucina. Dato che la scena ormai la conoscevo già,
solita ruotine, non fu molto cortese con me, aveva le pupille del
tutto nere, e quando entrò in cucina io, voltai le spalle e me ne
andai. Tanto lo sapevo che voleva impugnare un coltello.
Inizialmente mi spinse fuori dal cancello del vialetto che conduceva
anche all’altra casa, ed io lo spostai di un po’. Uscii calma e lo
mobilizzai con gli occhi, per non fargli alzare nemmeno le braccia e
le mani. Entrò in casa ed io andai via. Non perché ne ero orgogliosa
di ciò che ho fatto, e perché lo vidi inevitabile tutto questo nei miei
confronti, per quella che sono io, magari una qualunque normale
ragazza! E perché tutto sommato lo vollero in molti. Potevo evitare
moltissime cose e non ci sono riuscita. Perché? Perché ero depressa,
sfinita come donna, in una società di froci e gay, non per
l’assuefazione da farmaco. Decisi il peggio per me e andai al
cancello e lo toccai per rabbia e depressione. Volevo alla fine sfidare
la morte, per accettare la morte e sentirmi finalmente invadere da
un vero e proprio sentimento di pace interiore. Ho finito di vivere di
stress. Pensai una volta. Ma dura sempre così poco che si uccisero
per davvero tanto. Salvai quel bambino per ideologia mia, non lo
trovai mai giusto che iniziassero a drogarli da piccoli o che gli
facessero delle vaccinazioni come le mie. Avevo solo ventitré anni.
Lo salvai e poi mi uccisi un po’, solo per dirlo: “Non so per davvero
chi sia quel bambino, è inutile che lo ricerchiate, in bene e in male,
non l’ho nemmeno visto, ma per davvero, non perché non me lo
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ricordo, ma perché non l’ho visto con i miei occhi". Non so chi è, ma
compresi quanti dottori finiscono per uccidersi tutti un po’ solo per
non ricordarsi più, chi e che cosa hanno aiutato. Li capii, ma non
scusai lo stesso, dopo un tot d’anni per me vanno in tilt di cervello.
Io rimasi sempre più scioccata, stordita e sconvolta. Ripeto: “Una
volta in macchina mi sforzai ripetutamente e ci riuscii, piansi proprio
tanto, perché quella ragazza è poi morta, la operarono al cervello e
perdette la vita”. Non avevo molto da scrivere a diciotto anni per
pubblicare un libro vero e proprio ero ancora vergine perché tutti gli
altri erano già in HIV, o già aperti in tutto. Non sapevano fare
l’amore. Quando stavo fuori da internet, ero anche difesa e non
correvo molti pericoli, ma poi mi accadde di tutto, proprio perché
tornai al mio paese nativo, andai a lavorare e perché presi ogni
tanto un antidolorifico per la mia telepatia. Mi diedero da
frequentare come sempre una ragazza del mio paese, che voleva
solo un quadro da me, ma io non ne avevo voglia di farglielo, era
uscita con un voto più alto di me, le ho detto: “Hai frequentato
l’Istituto d’Arte anche te, fattelo, non per cattiveria ma per dirtelo,
non ci hanno insegnato ad usare l’olio nella mia classe, forse nella
vostra. Non lo so cos’ho, non ne ho voglia, tutto qui. Non mi sento
più in grado o capace di dipingere un quadro su tela, li ho fatti solo
su carta. Dai te lo farò quando anche tu sarai in grado di volerlo, per
davvero. Intanto ti aiuterò a fare quello che vuoi, perché tanto
aiuterai me a fare quello che voglio”. Ma quell’incontro fu propizio,
insieme ci divertimmo per davvero molto, eravamo pazze, e lei
sapeva di star male al suo interno. Accettai anche di realizzarli quei
quadri sempre su carta, che mi furono richiesti, ma mi erano pagati
troppo poco, perché effettivamente vendere a mano, non era come
smerciare in una galleria, è tutta una questione psicologica. Il
quadro in galleria assume più valore. Li mette più in suggestione.
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In internet, decisero che ero un soggetto da violentare, e io risi,
perché da un certo punto di vista mi diede così tanta forza e
autostima che mi vergogno di questo pensiero, ma mi piacque.
Tanto si trattava solo di telepatia che mi diceva: “T’invidio proprio
tanto” ed io risi un po’. Risi di tutti quelli che non ci credevano. Io
non sento un tubo! Per me è come se dicessero: “Ti vogliamo aprire
il tuo bel di dietro!” Che novità! Mi organizzai a delinquere e li
bruciammo vivi! Non mi sentii nemmeno un po’ in colpa, li vidi così
toccati al cervello che per me erano inutili in una società di uomini e
donne.
Non ero nemmeno più in grado di litigare con la mia famiglia, e
nemmeno di non aprirmi la mia attività. Tanto a trentatré anni non
ricercai più nemmeno la persona giusta. Mi misi l’I-Pod e ascoltai la
musica che io modificai. Risi di quel lettore multimediale, mi
ricordava un telefono che preparai solo in progetto ad una
conferenza all’università. Ma il telefono in questione era solo per
bambini, in un settore stratificato medio, non paragonabile ad un
autentico lettore multimediale. Non avevo né l’interesse e
nemmeno i mezzi per realizzare quel telefono. Meglio un I-Pod.
Aspettai anni prima di comprarlo, che poi mi fu regalato da mia
madre, poiché mi stavano sempre attorno, solo per vedere che cosa
volevo comprare o meno. Risi per davvero, forse anche un po’ per
pazzia, ma aspettai di nuovo molto. Tanto c’è tempo. E’ la loro vita
che è breve, non la mia.
Più ci puniscono e più li uccidiamo, perché ai loro occhi ancora
siamo arroganti noi! Ma per favore, siamo solo che arrabbiati e
disgustati.
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Altra storia, altro giro, cambiamo bar: furono gettati a terra,
derubati certe volte e picchiati, per dei baci finti. Tutto nato in
internet. Ancora altra storia e altro giro nato in internet, alle soglie
di una discoteca al mare per il trambusto del disgusto creato da
certuni, per fare i “fighi”, che a me appaiono sempre solamente che
dei fichi bianchi o neri, facevano lo stesso, furono drogati assai e
picchiati per davvero tanto. Tutto gratis per voi, ve li togliamo un
po’ di torno. E così via. Questo è il lato buono d’internet.
Per completare il tutto, da quali altre esperienze devono attingere
nella mia vita se non quelle datami dagli invidiosi? Di che cosa
scriverei? Di quali avventure immaginarie? Non serve nemmeno
fare sesso, muore lo stesso. Di quale guerra mi vanterei e di quanto
altro esiste? Sì, credo che sia stata una bella cosa entrare e uscire in
internet. Ogni tanto, se non spesso me l’hanno tolto di costrizione, e
pensai: “Sono convinta d’essere un personaggio scomodo”, ma
telepaticamente firmai anch’io per abbattere quel muro situato a
Berlino. C’è tanta ipocrisia, ma si può incredibilmente cambiare il
corso della storia. Era quasi incerto per me spiegare che cosa
appariva poi nei libri di Scienze in quarta superiore: una pagina che
parlava in modo errato della coxoartrosi all’anca. Io che l’ho avuta,
ve lo dico: “Lo fanno per dispetto, per darmi sempre contro, ma dai,
non è vero che ti viene perché stai ferma o in movimento, ma
perché ti accade qualche cosa". Puoi cadere da un muretto, in
bicicletta, un incidente… “Dai, dai” dissero i miei compagni di classe
"Che assurdità”. Continuavano a chiedere all’insegnante il perché!
Ne fui fiera.
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Sì, credo che sia stata una bella cosa entrare e uscire da internet
per raccontarmi e per raccontarsi e ottenere molto di più dalla mia
vita.
Non tanto perché l’essere umano è mascalzone, ma perché nel
peggio dei peggio, ti aiutano a creare la tua attività, che nella realtà
dei fatti ti aiutano solo ad uccidere.
Che bella passione, pochi ci credevano che fosse il mio vanto
nascosto anche quello. Solo che ad una certa età, nel mio caso a
vent’anni, volevo mentire a me stessa e convincermi d’avere
proprio una bella famiglia unita, perché non ne trovavo uno di
uomo. Lo feci per dieci anni. Poiché a mia madre e a mio padre
bastò un momento di stanca, uno mi mise a sedere in un posto
sciagurato per la rabbia e invidia interiore che ha, e l’altra
m’ingrippò i nervi nel collo, insieme ad altri dispetti dopo aver
lavorato come lei otto ore in fabbrica. Non mi sopportarono in
verità. Ma sono solo un riflesso. Nascosi la mia vendita e la mia arte.
Tutto gira attorno alla passione che uno ha, per trovare le scuse
plausibili al suo successo immediato dal nome internet o
telecomunicazione.
Ebbene, poi arrivi a chiederti, alla fine, quale dolore sia mai vero in
me? Mal di testa finti, dolori accecanti, e tutto quello che ne
completa l’invenzione della sanità. Bruciori allo stomaco che mi
entrano e oltrepassano finendo in una scatola fatta a tomba. Di chi
sia tutta questa immaginazione? Pochi riescono a comprenderli.
Persone che mi fanno baciare immagini di donne per farle fuori con
qualche scusa. Riduzioni a genio la gente, che è vero, si rischia così
tanto in internet, che quegli scherzi telepatici sono per me fonte di
sicurezza e avvertimento. Gli altri invece sono sempre in pericolo. Io
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arrivo a dire: “Meglio di no, lascio a voi l’avventura, vi do solo l’aiuto
principale a realizzare ciò che volete fare anche di più maligno
sennonché di maligno, ci vedo proprio un tubo!” Ciao.
L’ALTRO SOGNO
Questa volta non lo racconto lo scrivo. Non perché il luogo è ben
chiaro, è perché il luogo è sempre tanto immaginario, che mi
sorprende quando diventa per lo più reale, nell’immaginario
collettivo. In altre parole, magari il luogo oscuro con dei gradini non
era più ignoto ma era la discoteca locale che frequentavo.
Coincidenze? Forse o forse si è realizzato punto e basta. Ma ci
vollero molti anni perché si realizzi tutto quanto. Incominciamo col
dire ero in un luogo oscuro, ghermito di persone. Tutto ad un tratto
un ragazzo X mi prese la mano. Io non riuscivo a vederlo nel sogno
chi fosse, perché in fondo non lo conoscevo, sapevo al massimo che
era un HIV, o un non bravo ragazzo. “Sì” pensai tra me e me, “Faccio
sogni premonitori, e quando si avverano, provo non tanta paura e
stupore, forse un po’ quando non me l’aspetto, ma ho un senso di
già previsto, d’assenza della novità, del non sentimento, forse alla
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fin fine di noia”. Per tal motivo, questa volta a distanza di anni,
quando feci lo stesso sogno, tolsi di brutto la mano annoiata
perfino, in modo burrascoso, e cercai il nero più totale per dire:
“Basta, sono stufa del solito, non voglio saperlo a priori”. Era tutto
di nuovo così assurdo e stupido che mi svegliai di soprassalto per
non sapere. Tra l’altro mi diedi della sciocca a rifare tutto quanto.
Quando so che non si fa, non ci vado. O perlomeno ci spero.
Era come l’altro sogno che feci dove c’era una piscina, solo che la
piscina non era una piscina, era un’alluvione, e quando il ragazzo
barbuto o con la barba incolta entrò nell’altra casa, molto buia
qualcuno mi portò all’interno di quella stanza con il pensiero ed io
rimasi nella realtà di fuori solo per dire: “Sono stufa, non lo so,
lasciatemi in pace!” E così è stato. Ero così stanca che cercai di
rimanerne fuori e ancora mi pensarono, e mi stufai per davvero
tanto, ma questa volta non volli fare nulla; solo dire: “Ma basta!
Non lo so, fate quello che volete!”
Tra l’altro quando vedevo e sentivo fare alla gente quello che io
sognai, mi sconvolsi persino nel chiedermelo: "Ma non è che
entrano anche nei sogni della gente o nel loro subconscio?" Una mia
amica fece il mio stesso sogno. Sognò che le entrava in casa un
diavolo, ed ebbe il mio stesso fidanzato. Un diavolo di uomo,
studiato purché siano tutte o rotte o violentate nel loro di dietro.
Ma per favore serviva? Certune scappano, altre rimangono, ma
siete proprio nauseabondi! Ma sì dopo un po’ non ce lo ricordiamo
nemmeno più. Cambiamo casa, marito, famiglia o ne scegliamo uno
come ho fatto io, solo per dire: “Fatto, ho rotto anche quel cazzo!”
Da che mondo e mondo sarà successo egualmente a tutte quante di
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avere un’esperienza simile, solo che c’era quel poco di vergogna nel
dirlo. Io lo dico solo per richiederlo: “Serviva?” Era uguale. E’ banale.
Fino adesso mi è andata bene.
Se riuscite scappate, altrimenti succede! Non è bello, è umiliante.
Sembra quasi quando un dì, nell’appartamento al mare, mi feci il
caffè, subito mi entrarono nella mente per farmi venire la voglia di
andare dal dentista. Serve? A chi si è venduto? A Chi la dato? Che
cosa hanno fatto mi hanno messo sul giornale? Pace, vuol dire che
non avrò nemmeno più bisogno della parrucchiera. Lasciai perdere
per dieci lunghissimi anni. Il culto dell’immagine… ma chi se ne
frega. Tra l’altro mi sconvolsi di essere scelta anche come
testimonial di un indumento dopo che mi sono trascurata tanto, o
almeno ho cercato di fare da me. Ero così stressata da mio marito
che risi per davvero, mentre lui si uccise. Non in modo definitivo, ma
quasi.
A proposito torniamo al sogno premonitore, serve? Non serve che
ve lo racconti perché è già tutto successo. Mi entrano nel cervello!
Ho finito il sogno. Tanto si vendono, i tuoi stessi amici, tuo marito, il
tuo fidanzato… anche per causa di un conto in banca, o per aver
risparmiato. Magari si riuscisse a trovarne uno che non sia così
insicuro.
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ALTRO SOGNO: IMPICCO IL GAY E CHI LO HA INIZIATO, solo
che il gay finisce per essere mio fratello ed io non voglio più.
Di nuovo che mi entrano nel subconscio mentre sto dormendo o
cerco di dormire? Sarà stata colpa del pc acceso con la nuova
ventola molto più potente e rumorosa che gli ho fatto inserire al suo
interno.
Come sempre mi ritrovo in una sala grande, per poi affermare che
la sala grande non esiste è solo un colpo di vento che apre la porta
della sala, facendo svolazzare la tenda. Poi cercheranno di far
entrare qualcuno dalla finestra, chiusa della mia camera, lo butto
giù perché non c’è nessuno. E quando cercano di far entrare un
diavolo, lo butto via, non entra se ne va con la mia rabbia per dire
rompi scatole, intromessi del piffero andatevene. Perché è tutto
immaginario!
E quando vedo delle persone lì gettate a ridersela tra di loro tutte
donne, per far cavolate tra di loro? Quando io non ci sono, sono
coperte con una coperta marrone, ma davanti ai miei occhi c’e solo
una coperta marrone che usava mia nonna nel suo letto
matrimoniale, e non succede nulla. E quando mi proiettano
l’immagine del mio quadro? Quando le dirò: “E’ solo un quadro!” E
quando questo quadro dovrà essere vero? Quando le dirò che non
lo so. E per forza ci deve essere una persona di sesso maschile con
un coltello. Quando le dico di finirla d’immaginare queste cose, e se
prendono paura? Non ci sarà nessun pericolo è solo un sogno. E
quando dopo ci devo essere io lì per forza sopra di loro a ridermela,
e sono coperta anch’io da questa coperta marrone antica e ci passa
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sopra un uomo con il coltello? Non ci sono io sotto, sopra c’è solo
l’uomo con il coltello. E quando ho paura? Lo afferro io con la mano
la lama del coltello senza stringerla tanto in modo che non mi taglio
perché c’è un bello strato di coperta. Quando poi, rimarrà solo un
sogno perché chiude la coperta nella mano come fosse un fazzoletto
di un illusionista e tutto svanisce e il colpevole, muore? Muore,
perché poi la ricerco e la rendo una defunta.
E tutto perché sono così arrabbiata? Perché anni in dietro andai al
mare. Acquistai insieme con i miei amici un appartamento al mare,
dopo che feci sempre dei sogni nel mio dormiveglia analoghi. C’è un
lettone grande con delle persone che se la ridono, poi ci sono
anch’io in questo lettone grande che se la ride fino a trovarmi da
sola con un ragazzo che mi mette il dito della mano nel seno.
Permalosa come sono io, gli feci così paura che cercai di sistemarlo
quando ebbi tempo con qualcun altro. Tutto questo perché? Perché
mi raccontò che da adolescente poco più, fece da assistente ai punti
verdi, per l’estate. Un ritrovo per ragazzini. Ad un certo punto toccò
il seno di una bambina andicappata, questa inizialmente sconvolta
gli saltò quasi addosso o fece la scema e lui gli sferrò un pugno. O
più di un pugno e questa cadde morta. Al processo dissero che era
innocente perché quella bambina era andicappata. Ma come si fa?
Se ha farmaci nemmeno, avrà sentito niente, ma era esistente
prima e dopo no. Era comunque un essere umano. E’ omicidio
colposo! Ma come si fa a vivere in un mondo così disumano e
colluso?! Così quando andai a dormire, mi misi la sottoveste con i
bottoni e mi chiese se poteva dormire nel mio letto. Un lettino
singolo nel letto a castello. Mentre tutti scherzavano nel lettone, e
durante mi stavo addormentando, spostai il mio amico con la
telepatia per rimanere sola. E lui mi mise un dito dentro la
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sottoveste, tra uno spazio aperto che conduceva un bottone ad un
altro e mi arrivò quasi al capezzolo. Io con la mia telepatia lo
spostai, ma lo avvertii più come un fastidio nel sonno, che quando
me lo raccontò impazzii. “Come? Come ti sei permesso, mentre
stavo dormendo?” Gli chiesi, dopo tot di anni, tra l’altro, che ci
conoscevamo? Mi rispose: “ Non lo so”. Lo dissi a molti per sfogare
la mia collera. Avevo già finito uno di quei processi che non
portavano mai a termine, di durata sei anni, con la carcerazione
dell’imputato. Un albanese clandestino in contumace che poi
lavorava in una località vicina al mio paese e non era clandestino ma
di famiglia straniera, nato in Italia, di sesso maschile ma di tendenze
femminili. Non entrò nei bagni dei maschi più perché erano poco
puliti, ed ogni volta che entrava in quello delle donne prendevano
paura. Lo vollero su di me tanta di quella gente che non ce la feci
più! In quell’anno decisi di tornare con il mio fidanzato e mi uccisero
anche quello! E tutto per che cosa? Per uccidere o incastrare? O
perché sono un’artista, telepatica, donna? Sono un’andicappata di
mente Okay, resa invalida dalla gente e dai farmaci, e va bene, ma
come cavolo vi permettete di comportarvi così con me? Ma chi
siete?!!!!!!!!!!! E tutto per un sogno voluto da altri che entravano
nel mio subconscio? Solo per invidia alla mia gioia? E per che cosa
poi? Per scappare sempre davanti ai miei occhi, e non darmi
nemmeno una possibilità di difesa! Maleducati tutti quanti, corrosi
e collusi, ma come vi permettete? Via, via, andatevene all’altro
mondo! Per quanto io vi faccia picchiare innumerevoli volte voi,
dottori, e compagnia bella tutti un po’ inventati e senza Arte ne
parte, solo perché volete uccidere tutto e, tutti, ridurli allo schifo più
totale nella vita, vi permettete di girare solo in macchina e
approfittarne dell’invalido da farmaco e da lavoro semplicemente
perché volete crocifiggere l’altro? Ma andatevene, da questo
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pianeta, non siete persone, siete il nessuno più totale! Li feci
picchiare molto anche tra di loro! Entrai nel cervello e si picchiarono
molto l’uno con l’altro solo perché volevo che la persona, che sia di
sesso maschile o femminile, scelta, ne esca mille volte, più
dignitosa. Ma il giorno che abbandoneranno questa terra è il giorno
che noi viviamo sicuramente meglio. Razza d’invidiosi rompiscatole,
maleducati, approfittatori. Io, e una donna molto più dignitosa, ci
mettemmo al tavolo di una discoteca locale, e prendemmo accordi
sul da farsi come loro, i due tossici, un figlio di un avvocato, non un
brutt’uomo per carità ma bucato, avvocato anch’egli e un ragazzo
del paese anch’ello non molto ricco ma bucato, che dopo che è
stato a Padova a distruggersi, a fare il fotomodello, lo misero come
assessore alla cultura dentro il suo comune, regalandogli una
macchina a due posti. E tutto questo per colpa della sanità! Ma
quand’è che la sanità avrà finito insieme ai genitori rompi scatole a
dare fastidio? Approfittandosene di un momento di stanca, magari
perché hai pianto molto per la morte di una persona cara o perché
era sfinito dalle vicissitudini di vita? Oppure hai lavorato così tanto,
da essere uno sfinito? No, no, io non ci sto! Prendevano accordi, per
guadagnare, sui pestaggi che avevano intenzione di fare. Io e lei,
allora prendemmo l’accordo che in cambio, le dipingevo un quadro
a disegno, mentre lei se lo sposava, quell’avvocato. Io lo assumevo
per difendermi, e poi le avrei realizzato il quadro. Ma in tribunale
non ci fu. Appena lavorai da mio padre, mi pagò ottocento euro,
come impiegata, e lui mi presentò il conto da ottocento euro, solo
perché l’ho detto al telefono a qualcuno? “E va bene”, le ho
risposto, “io ti creo il quadro, e te lo faccio pagare di più di tutti gli
altri perché dignitosa sei tu, riprendendomi gli ottocento euro, ma
tu troverai un modo per farlo sparire da questa terra!” E così fu.
L’accordo era questo!
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Ma perché tutto quest’accaduto e voluto? Perché così per loro, la
donna era finita, come l’uomo, e si viveva in una società di gay.
Andatevene! Sciò, sciò! Che rabbia! No, no, non fummo felici di
saperlo vero, decidemmo di uccidere molto. Ma come sempre se
moriva uno, ne crescevano quattro. Se io sono l’erba cattiva loro,
sono peggio dei funghi avvelenati! Se poi sono dei parassiti in
qualità di fungo commestibile io, me li mangio cotti e unti anche
come contorno o sugo di qualche risotto. Come si fa ad essere così
bassi e non avere il coraggio della parola di fronte ai miei occhi e
quanto altro completa il tutto? Vigliacchi! Andatevene! Siete solo in
grado di scappare! Io, una in realtà rissosa, tenuta buona con i
farmaci, lo giuro, verrà il giorno che vi “copo” tutti quanti! Malati di
testa! E tutto questo per un cancello situato a Vicenza al quale ci
andavo solo per una visita oculistica? E la mia amica, poi deceduta,
pure? E tutto perché siete gay?! Iniziate ad andarvene! Siete dei
nessuno, non gay! Siete in prostituzione continua, non venite a
violentare me, perché inizierete proprio ad andarvene. Vi
seppelliranno i vostri stessi figli per costruirci una cappella o un
capitello, sopra al vostro corpo! Andatevene siete in più! E tutto
questo è successo in un sogno ad esempio, per entrare nel
subconscio del dormiveglia da uno che ha solo che parlato di se,
della sua casa e del fatto che io sono telepatica. Non lo trovo giusto,
purtroppo, chiamo qualche amico che uccide da sempre e i
colpevoli, finiranno tutti al tappeto, lo giuro.
E quando mi proiettano l’immagine di un gay davanti ai miei occhi
con gli occhiali e un coltello in mano, verso l’alto solo perché
vogliono per forza che ci sia qualcuno? Mi apparirà così scemo, che
lo faccio impiccare davanti ai miei occhi, e sollevarlo. E poi passerà
un elicottero, perché mi chiederò, ma dov’è che lo impiccano?
148
Ribadisco, la gente lavora anche di notte, la mattina ha bisogno di
dormire! Impicco tutto e anche chi ha iniziato. Ma muore del tutto,
questa volta! E quando ripassa per togliergli il coltello dalle mani, gli
rispondo in modo dignitoso: “E’ già morto!” Dirò a quello che sta di
sotto con la telepatia: “Serve? Serve raccontarlo?” Ho già scritto un
libro che parla di sogni premonitori! E mentre entra in ufficio sotto
casa dei miei, gli apparirà davanti come testo scritto del mio libro:
“Serve?” con rabbia “Serve?”. Perché, secondo voi, chi ha fatto
trovare impiccato quel boia in Germania? Io, l’ho stressato così
tanto con la mia mente che si è impiccato da solo. Questa volta
voglio vedere impiccato davanti ai miei occhi il gay scemo! Muoiono
tutti poi. Ma del tutto, purché smettano di costringere la gente a
fare sogni ricorrenti e sempre gli stessi. Io, come sempre cerco di
svegliarmi purché non accada nulla, anche se ho sonno. Ringrazierò
di avermi svegliata perché ho bisogno di lavorare. Sono di troppo
queste persone, si devono togliere dalle “Palle” degli occhi della
gente. Tanto hanno solo il coraggio di passare su e giù.
E quando il gay scemo è mio fratello? Io piango di doverlo fare lo
stesso!
So che non ci devo andare e non ci andrò.
Quando poi nella realtà il gay scemo è di nuovo mio fratello per
davvero, io non ce la feci più, perché nel sogno non lo voglio in
realtà uccidere, e non compresi bene il perché, ma qualcuno lo
impicca davanti ai miei occhi. Chi ci provoca è mia madre. Io in
verità mortificata quanto sono, spero che il gay scemo impiccato
non sia più mio fratello ma un altro.
149
In ogni modo il gay scemo è anche uno spacciatore, tossico
dipendente che si ripuliva un po’, per poi fare anche alla moglie
quello che vuole quello, questo, e quell’altro, ma fortunatamente
ebbi molti amici che mi vollero bene e fecero del sano sesso tra
uomini e donne, in modo normale, e mi salvai. Quando lo
impiccarono piansi un po’. Quando invece lo seppellirono vivo, risi
tanto perché anche lì riuscì ad uscirne non sano di mente, vivo!
E va bene dai, di storie da raccontare ce ne sono così tante, che
purtroppo in un altro sogno mi facevano mangiare anche le
piastrelle che ho prodotto io, caspita che denti e che stomaco ho!
Era tutto come se fosse niente, mi piaceva mangiarmele e basta.
ED ECCOMI DI NUOVO QUI.
Ebbene siamo di nuovo sempre alla stessa scena mentre sto
lavorando. Quasi, quasi, la racconto non tanto per sfogo ma per
dire: "Non lo so se è vero, ma so che era esistente tanti anni fa".
Potrebbe diventare perfino una leggenda. Una “buona” donna
150
decise dopo aver letto il mio diario dove li vedevo un pochino
arrivati tutti ad avere l’incapacità d’amare sempre per colpa del loro
di dietro sfondato, decise di farseli tutti per poi comandarli, in modo
da rovinare tutte le ragazze. Una HIV, in breve. E anche loro, finché
ci sono riuscite sono scappate; ma poi quando si studia, si lavora,
l’epoca non è più di quelle adolescenziali, la forza inizia a calare, ci
caschi, anche perché fai molto sport, per sfogarti o per rimanere in
forma. Sei, stanco e crolli di fronte a chi quello è stato rovinato non
solo da lei, ma anni prima da un pazzo che quando gli diede del
malato di mente, gli ruppero da pargolo il retro. Anche lì alla fine
cedetti per rovinarlo abbastanza, perché poi lo ricercai, per
umiliarlo mille volte di più di quanto mi dovetti umiliare io per non
volergliela proprio dare. Insomma nessuno riusciva ad ammazzarlo
tanto, io quando imitai la mia amica ci provai per davvero a finirlo.
In verità è stata come sempre colpa di un vaccino, e quello mi aliena
sempre. Perché mentre me lo iniettano, perdo conoscenza. Al
risveglio mi sento un po’ vuota. E decisi di chiamare sempre qualche
amico spacciatore, che s’intrufoli con me, magari per darmi solo
della carta a me che soffrivo di allergia al fieno, e di drogare l’altro.
Tanto l’altro era sempre molto propizio a drogarsi. Io, quando diedi
solo un tiro, mi sentii così ubriaca e vigliacca che smisi all’istante.
Davo un tiro solo ogni tot d’anni per incastrare qualcuno, ma
quando rischiai anche il mio di retro, impazzii, e decisi di smettere
all’istante. Nessuno in realtà mi costrinse, ma mi fu così inevitabile
farlo che i miei amici mi diedero ugualmente la soddisfazione di
vedere talune persone morte, anche in giro per i viali finché io non
gli do, il colpo di grazia con se stessi. Perfido sembra tutto questo,
ma giacché quella donna voleva essere una prima, io risi quando a
malincuore la informai che forse sarebbe stata come me una prima
di “Figa” non di sedere, poiché non abbiamo di sicuro un sesso
151
maschile al posto della vagina e nemmeno lo vogliamo. Tanto tra
tutti quelli scelti da lei, io non me li sono nemmeno baciati, ma
alcuni mi hanno baciata perché perdevo conoscenza, a causa del
mio naso rotto da bambina. Alla fine quei quattro ragazzi non li
aveva scelti lei, li aveva scelti un rotto in retro da suo figlio, per fare
anche il comandante dei carabinieri. Tutto per una protesta che feci
conto la Cocainella, una colla che nessuno toglie dal commercio, che
quando la sniffi arrivi a non capire più un tubo. Io come sempre fui
costretta a dare solo una sniffata, divenni così invalida che una volta
feci rissa e un’altra crollai nel tirargli una cartella in faccia alla mia
compagna di classe dopo l’ennesimo scherzo. Feci anche molta Arte,
per dire il vero, ma non sono cosciente di me.
E va bene, dai, si finisce sempre nel volgare anche, ma nella mia
immaginazione, che non saprei indicarvi di chi sia tutta questa
inventiva, la vedo come una delinquente impellicciata, alta,
longilinea, che dev’essere sempre la prima, ma di sicuro non lo è, e
non lo sono nemmeno io, da quel punto di vista, vestita anche con
delle gonne lunghe e tacchi alti, solo per dire, quando invece di
vincere lei con i suoi ragazzi, vinciamo noi: “Imbecilli! Vi siete fatti di
nuovo fregare!” Da lì, dopo pochi giorni si crea il caso Cosa Nostra
arrestata in Sicilia, per fare un esempio di regione X. Sarà mai vero?
Che la donna in questione esista sì.
In questo proposito successe tutto il resto:
152
Con questi abusatori di potere ci vogliono le maniere forti:
se il suicidio non convince, si passa all’omicidio di costrizione,
ovviamente punitivo anche quello.
Mi Ricordai ancora quella multa datami nel giorno d’esame
universitario. Ebbene ero molto stanca, tra un lavoro ed un
altro avevo deciso di studiare per l'ultimo ripasso prima
dell’esame, e poi andare a vedere se riuscivo a darlo, ma
anche lì mi entrarono nel cervello: “Ma quando esce? Ma
perché non arriva?” Ed io non ce la feci più. Cercai di distrarmi
in vari modi, ma alla fine cedetti, presi la macchina e mi diressi
verso l’università e come sempre fui fermata per un controllo,
decisi allora di piangere per sfogare la mia ansia e il mio
nervoso, mi ritirarono la patente. Stabilii di andare
all’università e di dare ugualmente l’esame orale… […] presi
trenta, questa volta senza la lode. Il figlio fu ammazzato ed io
aspettai tre mesi prima che mi restituissero la patente.
Aspettai tre mesi, non ricordo come mi mossi da casa, se in
corriera oppure se rimasi a casa a lavorare, in ogni modo mi
feci accompagnare da un mio amico, che mi disse: “Non dire
nulla.” E’ Quasi impossibile dire nulla, quando te lo
consigliano. Parlai, parlai, parlai così tanto da sola che quando
mi ritrovai la solita poliziotta di fronte ai miei occhi pensai: “E
ma allora mi perseguita!” decisi di farla ammazzare, ma non ci
riuscii in modo completo, la rividi dal dentista. “Ma che scatole
è un’ossessione!” Pensai. Cercai di non parlare ma entrambi
m’innervosirono così tanto che presi la decisione di pagare la
patente nuova, in modo che capissero che cosa stavo dicendo:
“Ho trenta e trenta e lode in comunicazione…”. Non è una
153
minaccia, è un avvertimento. Tanto per me i soldi non sono
mai stati un problema, con la mia arte li recupero subito,
provengo da una buona famiglia, non povera. Quello che io ho
fatto, l’ho fatto per protesta, non mi è apparso mai giusto, che
se sono esente mi debbano riempire di, nei per fare un
esempio, e poi pagare per toglierli… Ma come sempre l’invidia
è così accecante che quella parente lontana si voleva
vendicare così, alla mia voglia di toglierne uno o due,
trattandosi appunto di tumori della pelle! Così anche
lì accettai di pagare, proprio per dirlo: “Addio!” la prima volta
la trasferirono e la seconda volta decedette! Come il poliziotto
del resto, lo feci perseguitare con la mia mente così tanto che
decedette.
Anche l’altro poliziotto corrotto fu iniettato d’eroina, ma
come ben si sa, sono loro che ci dovevano dare il buon
esempio, mai come quello che mi baciò per invidia con la
telepatia… sì, sì, credo che me la riderò quando mi comprerà il
quadretto quasi micro per lui… devo ammetterlo: Un buco tira
l’altro!
Ma non finì qui, mi ricordai anche di quel giorno che ero
seduta in cucina mentre facevo il secondo ritratto a matita a
mio padre e a mia madre, e lo vollero punire così: Mentre
transitava, lo costrinsero con la telepatia a fare un sorpasso in
doppia linea continua in pieno centro, di domenica sera. Che
cosa dire, alla fine per sfinitezza cedette, altra multa e altri
punti sulla patente da togliere. Così fui costretta a
154
pubblicizzare così tanto quel ritratto che ebbe anche il
compiacimento di molte persone in internet, iniziarono a
piovere complimenti da per tutto! “Sì”, ho pensato, “Devo
riutilizzarlo molto di più!” Una bella paginetta un po’ qua e un
po’ in là, per farlo entrare di costrizione nella mia storia
dell’arte!” Cose da non credere quanto una bassezza, possa
fare un’altezza!
Passò un po’ d’anni e mi dissero che per il mio reddito alto io
non posso entrare a lavorare in ospedale, decisi di farlo
ugualmente per un po’ di tempo, tanto mia nonna stava male
spesso, ormai si sentiva la morte vicina e le feci d’assistente,
poi mi sentii come sempre perseguitata anche là, e per il bene
di tutti decisi di durare poco anche in quel lavoro. Feci
d’assistente e compagnia anche altre anziane della stanza, ma
non riuscii a crederci di chi si trattava, non tanto di un
personaggio famoso, ma ben sì di un’artista, con una famiglia
d’artisti come la mia, e di un altro caso eclatante di vendetta
privata che non seppi più come definirlo! E’ il caso di renderlo
pubblico? Non lo so, so solo che una domenica la fecero
cadere con la telepatia sui gradini della chiesa, per farle
rompere il femore e mandarla lassù!
Nulla toglie i deliri, notturni di quella signora, e nulla toglie i
suoi racconti di guerra passata, ma le sfumature, sì quelle
sfumature, lasciate ad intendere, quel detto e non detto,
oppure quel parlato e veduto attraverso la mia mente, mi
destabilizzò a tal punto da non riuscire più a fare un
commento.
Scriverlo poi in internet, non mi sembra il caso!
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Niente, dirò solo che aveva un marito molto malato nel suo
letto. Non si alzava nemmeno più. Aveva tutte quelle croste
sulla pelle, da farle proprio schifo, così prese una decisione
molto severa per se stessa e per tutti: Si concesse qualche
avventura di troppo. Ah! Nulla toglie fosse bella o brutta, ma
alla sua età preferì spassarsela con i giovincelli già arrivati
all’arroganza del far uso di sostanze stupefacenti del paese.
Così una sfida tra ragazzini tirò l’altra, e le sue avventure
furono più di una. Va bene dai, aggiungiamo che hanno fatto
la guerra, e che era figlia di gente povera: In quel periodo i
tedeschi se ne approfittarono di molte donne e le
violentarono, ovviamente molte si ruppero anche il loro di
dietro. Sono guerre antiche e lotte moderne.
Io invece fui nuovamente fermata di fronte a casa mia per un
controllo della patente. Ovviamente tutto come sempre in
regola, ma ugualmente piena di sfinitezza che mi chiedevo,
con tutte le volte che mi fermano ormai dovrebbero aver
memorizzato anche troppe cose, non mi stupirebbero se
sapessero più loro di me che io di me stessa!
…
L’ultima volta quando girai ugualmente dentro casa, gli gridai
al poliziotto: “Abito là!” Lui mi raggiunse e fece ugualmente un
controllo. Mi chiesi: "Chissà che cosa c’è tanto da
controllare!", non è che un libretto scade dall’oggi al domani,
al massimo se la possono prendere come sempre con le
cinture, ma ho pensato: “Non ci vedrà più bene nemmeno
lui!” e ho detto: “Sono andata dal dottore, sono tornata casa e
ho una scapola in fuori!” Ovvio che cosa ho tralasciato, che mi
sono entrati nella mente per non farmi mettere le cinture e
156
stilarmi una multa perché ero andata a prendere accordi vari…
Sì, sì, hanno sempre così tanta paura che le cinture le misi
ugualmente, ma mi stufai d’essere sempre fermata di fronte a
casa.
Vuoi vedere che tutti quei poliziotti hanno l’HIV e vogliono
essere scusati come esseri con l’hiv? Io li ho visti andare su
certe volte, con il loro cervello! Ma non so, mi sento troppo
azzardata a pensare questo, so solo che un giorno ne trovai
uno morto sulla sua macchina in una delle mie passeggiate
notturne, e mi denunciarono a priori. Che cosa centro io, non
lo so, ma chiamai una persona X con la telepatia perché lo
rianimasse e lasciassero in pace almeno per un po’ me e la mia
famiglia.
Poi negli ultimi anni usai la macchina proprio poco. Decisi di
fare come mia nonna, presi la bicicletta e corsi. Corsi per vari
Km. Corsi per trecento km, anche per andare a Pordenone, o a
Sacile o a Codroipo; e quando forai, camminai. Camminai così
tanto che al primo scherzo telepatico gridai: “Ma che cavolo
vuoi!” o più volgarmente “Ma che cazzo vuoi!” gliene procurai
subito uno perché in un battibaleno misi gli occhiali da vista e
lo memorizzai.
Ovviamente quando devo fare compere, visite o
commissioni, la macchina la uso ugualmente, perché il corpo
sudaticcio e appiccicoso non fa schifo solo a me.
Un giorno mi accade proprio un fatto particolare nel mentre
giravo per la pedemontana in bicicletta in una località vicino a
Conegliano, forai proprio di fronte ad un tavolino, dove si
erano seduti tre uomini di una certa età. All’andata li guardai e
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dissi ad uno dei tre con la mia mente: “Quello è femmina”, al
ritorno forai, “Ed è pure porta sfortuna!”.
Continuai a correre ugualmente per un po’ di chilometri, ma
poi alle risorgive mi fermai. Tolsi le scarpe e i calzini, essendo
appunto in estate ed entrai nel lago, solo finché l’acqua mi
arrivava alle ginocchia, essendo appunto scorrevole mi
avrebbe di minimo creato una congestione se m’immergevo di
più, rischiando la morte; non sono di sicuro così masochista.
Mi fermai così per un po’ ad ascoltare la natura e il suo
richiamo. Al primo furgone che mi svegliò dalla mia pausa
giornaliera, sostando alle mie spalle, o poco più in là, rimisi i
calzini, asciugandomi in “malo modo” e le scarpe, ripresi la
bicicletta e ricominciai a correre, ma lo ammisi a me stessa di
sì! “Ho paura di rovinare i raggi, e il mio corpo fermo fatica a
ripartire”. Camminai per quasi tutti i restanti chilometri e fui
così stanca di vedere certe abitudini per la strada, nemmeno
tanto strane, da dire ad alta voce per l’ennesima volta: “Belle
storie!”
Poi mi sentii ripetutamente baciare, baciare e baciare
all’angolo sinistro degli occhiali da sole, che alla fine presi i
miei occhiali firmati e li gettai lontano, tirai fuori dal marsupio
gli occhiali da vista e quando tornò indietro, lo selezionai per
finire in un fossato. Non perché era uomo, ma era ai miei
occhi così femmina e così basso da fare così schifo che si
meritava solo la fine dei suoi giorni! Poi mi sentii in colpa
verso i miei occhiali e li ricercai in modo molto meticoloso tra
le stoppie, finché non li ritrovai in mezzo a tante bottigliette
dell’acqua accartocciate un po’ e gettate in corsa, pensai io.
158
Agosto del 1994.
L’amore dev’essere come un castello,
forte come le mura,
sicuro come un ponte levatoio
e protetto come un battaglione.
Non bisogna aver paura dell’amore.
Bisogna cantarlo, perché è lui che ti fa vivere, è lui che ti fa gioire, è
lui che guarisce da ogni male. … Poi morto, un amore se ne fa un
altro.
L’amore è bello. Quando sei innamorato tutto t’appare più gioioso
o destabilizzante. Il nero diventa bianco; nel cielo insieme al
luccicare delle stelle e della luna c’è il suo volto proiettato in questo
mondo oscuro.
L’amore fa rinascere, fa miracoli, come se un fiore appassito
tornasse brioso.
E’ vero si soffre per amore, ma per questo misterioso sentimento è
un soffrire molto dolce.
… Non vedo l’ora d’innamorarmi, e innamorarmi ancora mille volte
è più.
159
OGGI, o meglio ancora adesso dopo tanti anni….
… L’amore che ho per l’Arte invece è rivelazione, attimo dopo
attimo è la consacrazione del desiderio di soddisfazione… amo l’arte
anche più della mia stessa vita.
Una mela matura o la cogli o cade dall’albero, tante volte però è
meglio farla cadere!
Salva la Mia Anima 20/09/2006
I tuoi occhi sono feroci
Come cani malmenati
Eppur mi fissano allucinandomi nell’angolo
Non son certo che crescano fiori nella macchina dei sospiri,
ma tu dea della grazia e della Santità
rendimi omaggio:
porta sollievo e parole gentili
all’anima mia
umida,
160
e certifica la mia essenza.
Sfiorale i sensi
sono amari, morbidi, bianchi,
come un cervello.
Rispondimi almeno!!!
Non vedi che piango?!
Non credi che sono pazzo?!!!
Pazzo d’amore?
Salva la mia anima,
intanto brucio!
Brucio!
UN Dì.
Ogni tanto mi ritrovo seduta accanto a qualcuno, che conoscevo
appena. Lo conoscevo per due parole scambiate mentre
passeggiavo per i giardini della discoteca estiva che andavo da
adolescente. Come sempre è un amico, dell’amico, dell’amico di un
conoscente; i soliti giri d’amicizia che capitano nella vita.
Ebbene un anno me lo ritrovai di fronte all’ISAC, un Istituto D’Arte,
e non parlai. Lo vidi giù di morale nell’ora di pausa, seduto nei
161
gradini che conducevano al cortile sassoso dietro all’entrata
principale, dove tanti alunni si fermavano a fare due chiacchiere, o a
comprarsi il panino o la pizzetta, un trancio insomma, da un buon
uomo che mi avvertì un giorno suo nebuloso nel suo cervello, che
per me tra un po’ era avvelenato anche quello. In effetti, avevo
questo timore, ma pensai di andare non spesso, solo in modo
promiscuo, e comunque credo che qualche mio amico lo minacciò di
stare un pochino buono, mentre si comprò il pane.
Dopo un po’ di volte mi stufai e smisi di mangiare, anche a
ricreazione, mi riempii di caffè, caffè nero, lungo, doppio, e
macchiato caldo, cappuccino, macchiatone. Poi volli anche il caffè
con la cioccolata tanto per provare a vedere come veniva fuori il
gusto, se era buono anche quello all’aroma amaretto, alla vaniglia e
così via… Insomma diversificare un pochino la stessa pietanza, un
caffè. Di sicuro con l’ossido non mi piacque proprio, ma si
disperdeva all’interno del sapore d’origine. “Tanto quello che
rimane, è la tazzina” se non si rompe pure quella. Dopo sono iniziati
i caffè o gelati al caffè con droghe varie. Di solito lo compravo alle
macchinette/distributori dopo aver fatto una colletta o aver
imprestato qualche moneta o averne appena per me. Come del
resto molti altri. Sarà come dite voi ribellione al mobbing subito, o
semplicemente stress o essere a corto di spiccioli, ma fu anche per
quello che poi fecero le chiavette ricaricabili. Ma lo trovavo così
divertente ogni tanto fare le collette, non per altro è perché si
provava vergogna, e pazzia anche nell’imbarazzo d’apparire così
poveri.
In breve un dì mi sedetti accanto a lui, in corriera, che era sempre
così giù di morale all’apparenza che s’infuriava, offendeva e
162
innervosiva in modo tacito. Non credo che mi volesse tanto bene, e
come spesso accadeva io, gli dissi: “Dai racconta” accavallando le
gambe, “Di tutto a zia Monica, che cosa ti accadde stamani da
essere così rammaricato?” “Non lo so”. “Comprendo, comprendo”…
“ma qualche accaduto, aneddoto da poter trascorrere in piacevole
compagnia questo Tragitto che ci porta a casa”. “Non so che cosa
succede alla mia fidanzata”.
“E la pepa perché?”
“Perché l’altro giorno eravamo in montagna, la mia fidanzata si è
messa i pattini a rotelle e cadde. Perché?”
“Eccomi là di nuovo in mezzo” pensai, “Non so come, né perché
c’ero anch’io. Non so chi era il malaugurate, e per ridermela lo
guardai per dire furbastro, me lo racconti solo per confermarmelo.
Mi racconti di fatti che so già, senza esserci mai stata in montagna
con voi”. Feci un sorriso ironico.
Risi un po’ e gli dissi: “Non lo so!”, “Sì ma perché?” insistette lui,
“Non riesco ad esserti molto d’aiuto, non lo so”. “Sì ma perché?”
ripeté. “Perché una volta li misi anch’io, ma non in montagna e non
caddi; li indossai perché me lo proibirono così tanto di andare sui
pattini che non ce la feci più, li presi in prestito da mia cugina senza
chiedere, e mi vergognai tanto. Ma non so perché è caduta la tua
fidanzata. Avrà perso l’equilibrio. Chi, e che cosa sia stato non lo
so”. Nella realtà m’innervosii così tanto che volevo scomparire
subito. “Sì, sì” pensai, “mi arrabbiai molto, non perché nella
coincidenza della vita mi rivedevo in lui o in lei, ma perché non ci
volevo proprio essere, per non uscirne pazza! Cercai di scomparire e
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le feci pensare: “Stop, Basta! Io non c’entro non ci voglio essere!”
Poi se c’ero di passaggio, non me lo ricordo nemmeno più.
Questa mania di tutti di voler sapere che cos’ha nel cervello uno o
quello o quell’altro! Tante volte ho cercato di dirlo: “Anche niente!”
Pensai, “Guarda che cadi in pieno” lei era tentennante per un po’ e
poi le dissi: “Cadi? Così io me ne vado dal vostro cervello!”.
Solitamente parlo anche a me stessa così.
Ripresi dopo un breve momento di riflessione: “Non so che dirti…”
e lui insistette, “Perché?” Ed io risposi nuovamente, “Non lo so, non
so che dirti”. Mi stava chiedendo solo la conferma che era vero, e
non pura immaginazione: “Grazie”, gli risposi, e lo lasciai nella sua
tristezza e sconforto di vita. Tanto bene, bene, non sapeva
nemmeno lui come chiamare quelle ruotine di mobbing cerebrale, o
celebrale stesso, noia e quant’altro prendeva circa a tutti, o per
assuefazione da farmaco, o per esagerazione all’abitudine da droga.
Il giorno che io suiciderò quello che vi entra nel cervello (tra l’altro,
già fatto), per farvi fare anche le assuefazioni da farmaco, perché
per lui erano tutti in droga e non valeva la pena nemmeno
interessarsi tanto all’altro, vi renderete conto che avevate la
possibilità di ripulirvi, ma anche d’essere vissuti ugualmente
accettando il vostro (subdolo?) stato emotivo, di tristezza e
sconforto anche se eravate stanchi di stare così!
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IN SOCIETA’
Il giorno che volevo picchiare ho taciuto così tanto che ho
picchiato. Il giorno che volevo uccidere, ho parlato tantissimo da
stolta, comunicando tutte le informazioni possibili di me, che ho
ucciso, legittima difesa. Il giorno che ho voluto ammazzare me, è
stato il giorno che ho detto solo una cosa: “Sono un’artista”
ridendomela un po’.
Porta veramente sfortuna dire sono un’artista.
Poi ho deciso di fare, e non parlare. Ho suicidato molte più persone
in questo modo, che forse riesco a non farmi più del male, se non ci
pensa la sanità.
Quando affittai l’appartamento al mare con i miei amici, uno di
loro “venne” in parte di me. Per "venne" non intendo dire si sedette
o si stese, che anche quello è vero, ma si masturbò al mio fianco e
non riusciva a finire la masturbazione. Con quanti altri fece lo
stesso? Non mi sono chiesta mai perché certuni decisero di rendersi
sterili in questa società e altre donne o gay, di togliersi ormai
perfino l’utero.
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Gli altri facevano i loro bisogni in giro per il bagno, chi sul bidè, chi
sul lavandino e chi sul water, che forse era il luogo più indicato. E
ancora è andata bene. Mi vennero fuori di quei pori sulla pelle che
mi fece persino disgusto pensare che fossero per lo più finti, o
comunque pieni di radici, da non riuscire più a toglierli, nemmeno
con il ghiaccio.
Ogni amica che frequentavo, mi portava dentro lo stesso giro. Che
sia lei Australiana in Italia, Cecca in Italia, o sicula, finiva sempre che
mi riportavano dai miei stessi amici. Nauseabondo anche quello.
Cercai piano a piano di rimanere sempre più sola, in società, anche
se prendevo un farmaco.
Quello che ho visto mi faceva così disgusto, che da bambina ho
reagito, da adolescente m’irritai ancora di più essendo una vera
speranzosa e da adulta perdetti le forze, perché mi stancai del
solito. Allora decisi di massaggiarmi un po’. E tornai con la speranza
del dopo, di un futuro migliore, o almeno con la credenza di non
trovarmi più al mio fianco degli autentici insicuri, anche se è una
cosa impossibile, ma non improbabile. Poi se il futuro non sarà
migliore, fa nulla, basta che ci sia un futuro, una famiglia tutta mia e
una casa altrettanto mia. In caso contrario cercherò altre
motivazioni.
Perché se rimanevano in galera, non è che mi facevano così schifo,
e invece escono ed entrano di galera. Ci ho messo tanto a mandare
dietro le sbarre certuni, che quando te li ritrovi tra i piedi un’altra
volta ancora, piangi. Sono tutti così recidivi, che quando cercano
ancora di recuperarli io, impazzo.
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E intanto passano di fuori, con un’idea fissa: andare in TV. Passano
per rubare l’idea, passano per crocifiggere, passano e ripassano per
fare lo scoop. Tutto perché io sono telepatica; mentre mi ripeto, alle
altre hanno tolto anche l’utero per protesta, altri si sono resi sterili,
perché non volevano più mettere al mondo figli, in questa società!
“Ma sì” pensai, “La gente passa e ripassa e se non vede niente o non
sa niente di me, di loro, degli altri, ripassa a vuoto”.
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UN ALTRO RACCONTO
“Sono assurdo e pazzo non mi sono nemmeno accertato la
motivazione del perché o spiegazione dell’accaduto che ho già
giudicato in errore, che stupido ma perché sono così insicuro?”
pensò il bambino in campo verde senza nient’altro, “Vado in cerca
di ciò che può darmi pazzia, la droga”.
Tante volte, in foto trattiamo noi stessi come degli estranei.
Quando l’io è troppo, io succede di tutto, meglio cambiare, ogni
tanto.
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UN ALTRO SOGNO RICORRENTE: UNA STORIA VERA
Alla fine ad una donna è successo uguale, mentre suo marito era in
giro per lavoro. Okay, aveva un marito un po’ femmineo ma il suo
secondo figlio lo stava per perdere per causa di un rapporto avuto
con un altro durante l’assenza del marito. Avevo preso così paura di
quel sogno che glielo raccontai. Lei si era offerta volontaria, perché
non ci credeva che fosse vero ed invece le è successo circa uguale.
Ho paura per davvero per i miei futuri figli. A quanto pare non li
vogliono proprio vedere vivi!
Il perché reale non lo so. Non so darmi una spiegazione reale alla
motivazione d’invidia, rabbia, cattiveria, personale interiore delle
persone, perché per me sarà solo che un successo che uno vuole
distruggere.
Il sogno inizia così: Sono sola in casa. Passeggio nervosamente, ma
sono felice. Sono in cinta del mio secondo figlio. Mi chiamano al
telefonino per ridersela un po’ con me, come sempre, non so chi è
dall’alto capo del telefono, presumo. Per passare il tempo me la rido
solo un po’. Non ho il coraggio di dire: “Sono in stato interessante,
lasciami in pace, cerco di tenerlo buono”. Mio fratello mi chiama. Io
alla fine mi confido, solo per sorridere. Lui si arrabbia e mi dice:
“Guarda che quello, non è buono! E’ delinquente vero, lascialo lì! Tu
non ti ricordi mai di niente delle volte, lascialo lì!”. Io sorrido,
nervosamente e gli do ragione. Non rispondo. Cerco solo di
schiacciare il tasto verde del telefonino ad un’ultima telefonata per
dirgli meglio di no, continuare quest’amicizia telefonica. Alla fine mi
chiama più di una persona con insistenza. Inizio ad essere scocciata,
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non rispondo. Lascio passare un mese di tempo. Poi mi dicono che
mio figlio sta crescendo bene, alle visite. Sono così felice che cedo
alla tentazione di dirlo titubante ad una donna gentile e cortese ma
invidiosa: “Va bene, cerco di scusarmi col dirvelo, sono in cinta, non
so come spiegarle altro”, “Sta crescendo bene?”, “Non so spiegarle
altro, spero o credo di sì, ma non lo so”, “Le mie felicitazioni”, “La
ringrazio”. Inizia un mobbing così spaventoso, che cerco di rimanere
calma e cauta nel parlare. Non parlo. Non rispondo al telefono.
E’ Natale. Vado a casa dei miei, per stare un pochino insieme, o in
pace da sola. I miei escono per i regali o per qualche messa natalizia.
Mio padre mi dice: “Lo sto aspettando!”, io, “Chi? Che cosa?”. Sono
confusa, anche nel sogno, lascio stare.
Cerco di stare buona, mentre curioso preparando l’albero di
Natale. Ad un certo punto sento delle voci provenire dalle scale.
Taccio, cerco di fare meno confusione possibile, come assentarmi,
ho paura per mio figlio; indosso un camicione ampio e comodo per
non dar fastidio al pancione. Di solito metto i pantaloni, ma sono in
casa e cerco di essere prudente. Nelle scale c’è mio cugino, con un
suo amico. Io sono di statura bassa. L’amico di mio cugino, è
l’uomo/bisex con cui stavo scherzando appena al telefono. Prendo
paura e taccio. Tutto ad un tratto lui s’innervosisce ed entra dalla
porta d’ingresso di casa. Io mi spavento. Lo guardo con gli occhi
spalancati. Lui più sconvolto di me di trovarmi in stato interessante,
s’infuria ed essendo abbastanza alto, mi prende di colpo e mi
violenta proprio per farmi perdere il figlio. Io in preda all’ansia vado
su, e lui se la ride. Sconvolta, non riesco a dire una parola. Entrano i
miei parenti e non riescono a dire una parola. Mia cugina ripete:
“No, no, no!” Lui mi da un bacio in bocca sorridendo ed esce.
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Mio cugino esclama: “Questa volta lo voglio morto!”
Scrivo purché non mi accada.
Quando lo dirò a priori, o meglio l'ho scritto, più di uno lo vorrà
strozzare, prima ancora che entri in casa, quel pazzo bisex, che fece
a fettine più di una persona. Mio cugino probabilmente lo
frequenterà solo per vedere se è vero o solo perché un po’ lo teme.
Rincasano i miei e non riesco a raccontare nulla. Aspetto di vedere
se riesco a salvare mio figlio, ma non lo voglio salvo per davvero, ed
io non saprò più se tenerlo o no, per il semplice motivo che non
capirò più di chi è figlio. Se di mio marito o dell’aggressore. Sono
rassegnata anche a perderlo. O forse lo salva il mio primo figlio. Mi
tranquillizzo nel pensare: “Dov’è il mio primo figlio?” Nel sogno non
c’è. Sicuramente non sarà un sogno reale, o almeno me lo auguro.
Passano gli anni, e vorranno così bene ai miei figli, soprattutto
appunto al mio secondogenito, che me li vorranno, già uccidere
subito in pancia, e al mio paese nativo, anche dopo quando sono
alle elementari.
Scrivo per prevenire.
Sono così un successo per me i miei figli, che come sempre per
tutte le cose, fatti ed eventi, me lo vorranno rovinare per dispetto e
per invidia.
Vedo un po’ di persone che circondano un bambino steso a terra e
mi dicono: “Non è tuo figlio quello?”, io rispondo di no, ma lo aiuto
lo stesso a tornare in qua.
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Quando poi penseranno che avrò delle gemelline in età molto
adulta, me le vorranno uccidere subito. Ma loro sopravvivranno e le
tal persone, moriranno. Lo giuro! Li butto tutti in tomba!
Nei miei sogni, sono spesso molto sola. Mio marito che io amo
tanto, me lo allontanano spesso per causa di lavoro.
C’è invece una ragazza, diventata poi donna, bisessuale, che mi sta
molto vicina. Si finge amica, finché un giorno, mentre apro un
mobiletto all’angolo bianco, di casa di mia madre, e mentre guardo
le gemelle, ricciolute, con capelli color corvini, che corrono per
l’appartamento, senza fare danni, sono così serena che lei
s’innervosisce. Si avvicina e mi fa un complimento, per sentirsi
rispondere dell’opposto: “Sei bella, sembri sempre così giovane
tu…” io me la riderò un pochino nervosamente, la guarderò e le dirò
di no, che non è vero. Mi vedo ormai vecchia, e anche rugosa,
stanca e arrivata. Lei fa un passo indietro e se la ride compiaciuta, io
le faccio un complimento diretto alla sua di bellezza, purché mi stia
lontana che mi ripete: “Ma no dai che sei ancora giovane!” Io me la
rido e faccio un ultimo tentativo. Decido di dirle: “Hai ragione è
vero, sono ancora molto bella!” Lei s’innervosisce e si avvicina
cercando di darmi un bacio, io l’allontano in modo molto nervoso e
decido d’ucciderla. Le dico, che stavo semplicemente scherzando,
non mi vedo né bella e nemmeno giovane. “Non sapevo come farti
arrabbiare” le rispondo. Lei si vorrà vendicare, cercando di tirare
fuori dalla bara il solito bisessuale, gay, che mi perseguitò per quasi
tutta la mia vita. A lui che la bisex gli fa rabbia, cercherà di tirarsi su,
ma io lo ributto in tomba. Poi la uccido. Guarderò le mie gemelle e
deciderò di avvisarle. Non sapevo bene, quando sarebbe arrivato il
momento propizio per fare certi discorsi, ma a quel punto mi sentirò
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in costrizione di proteggerle, spiegando che le bisessuali, e le
persone in generale, sono invidiose, e loro scapperanno anche da
me.
Io riderò e suiciderò anche l’ultima antagonista della mia vita,
perché si vedrà alla fine arrivata a volersene andare anche lei.
Io amo da una vita il mio uomo, perché in tutta la mia esistenza, lo
lasciavo accantonato, in pace, per le guerre che avevo da ultimare.
Termino la mia strage di persone, per dovere, con la morte di due
bisessuali.
Guardo fuori dalla finestra e vedo le persone così baldanzose,
serene, che ogni tanto se la ridono ugualmente, con aria di sfida,
che mi sento spesso malata io a raccontare in un libro anche questo
sogno, sennonché è tratto da una storia diventata poi vera.
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UN ALTRO SOGNO RICORRENTE:
Parlo con il solito morto ormai da anni, non perché lo vedo morto
ma perché sono così convinta che non lo sia, che nei miei sogni che
mi spavento.
Il morto in questione è il mio ex fidanzato. Non che gli fossi così
affezionata da non crederci che sia morto, nella realtà ma nel sogno
sono sempre così convinta che sia vivo che mi destabilizzo sempre
con me stessa. Non perché vuole morire, è perché non vuole
morire.
Siamo tutti dentro ad una stanza lunga con dei letti, che mi ricorda
la soffitta- appartamento dove passavo l’estate con i miei e con i
miei cugini. Questa stanza era così spaziosa e lunga che ci stavano
tre letti matrimoniali, verso le finestre. Quindi dal lato destro se si
entra in fondo, prima dei letti matrimoniali, a sinistra della facciata
della casa. Le pareti erano rivestite di legno, tutto come una
sottocoperta di una nave da guerra dell’ottocento o dei primi nel
novecento. La luce era dorata, di un sole giallo come la rossa
dell’uovo, esterno che n’entrava solo qualche raggio appena. Tutto
il legno ridava quell’armonia calda, senza che fosse estate. Tutti se
la ridevano e chiacchieravano in armonia. Io stavo come sempre per
lo più a guardare con la mia amica Sonia. Non ero curiosa di sapere
che cosa si dicevano, mascheravano, la loro tensione. Cercai
d’incupirmi guardando qualche faccia conosciuta, ma mi parve di
vedere qualcuno. Pensai, all’incirca “Sarà quello, o sarà quell’altro”.
Poi vidi Federico. Chi è Federico? Ogni volta che faccio lo stesso
sogno, mi sveglio con il dubbio che sia morto o no. Prendo la
macchina e vado a vedere la sua tomba, prima gli portavo qualche
giglio arancione, o qualche rosellina, poi lo vidi lì sulla foto sempre
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sorridente nella sua tomba nel cunicolo unita alla foto di suo papà.
Tutto su di una tomba.
Eccolo di nuovo che mi appare. Che cosa devo dirgli ad una
persona così viva in sogno e così niente nella realtà? Quando morì
schiantato sotto il camion, non rimase quasi nemmeno più il corpo.
Lo guarda nel sogno e me la ridevo con la mia amica matta stesa in
uno dei letti matrimoniali in completo riposo, tanto la stanza era
così gremita di persone che inizialmente eravamo tutti stretti, tutti
impacciati nei movimenti, finché in molti non si stancarono
d’aspettare e se ne andarono. Federico se la rideva con gli altri
fingendo di non vedermi. Io lo stavo fissando, perché sono quelle
cose che non si dicono, sembrava così vivo che non ebbi nemmeno
il coraggio di rivolgere la parola alla mia amica che è in cura al CIM
di Maniago. Ogni tanto mi passava sopra con il suo docile peso e se
la rideva, non perché non sapeva, ma per l’inverso. Tanto nel sogno
le mie gambe non lo sentiva tutto quel peso, in realtà nessuno
sentiva dolore, se la ridevano tranquillamente in modo beffardo
tutti. Non c’erano rivalità o consuetudine ambigue ma tranquillità
senza rumori. Vista semplicemente attraverso i miei occhi. Io lo so
che è matta, Sonia, e che ti fa impazzire, ma più la guardavo e più la
prendevo per intelligente o colta. Federico si spostò nell’altro letto.
Io lo guardai mentre molte persone se ne stavano andando e gli
chiesi: “Ma non sei morto?2, e lui sorrise tranquillo senza
guardarmi. “Ma non sei morto?” ripetei. Lui mi guardò con la coda
dell’occhio e mi disse di “NO”. Rimasi in silenzio, ce la ridevamo e
basta. Nessuna parola, solo risate. Poi qualcuno di nuovo mi
ributtava nel nero e voleva convincermi di nuovo che Federico fosse
vivo. Io m’innervosii mi sedetti nel letto lo guardai e cominciai di
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nuovo a tormentarlo: “Ma non sei morto Federico?” Lui fece un
cenno negativo con il capo, in modo serio, si alzò di un po’ e cercava
il niente, un gesto solo per calmarsi. “Ma perché avete costruito
allora una bara finta?” ripetei: “Perché Federico mi volete ancora
prendere in giro? Perché avete costruito una bara finta?” insistetti,
“Tu non sei morto?”. Lui mi guarda sereno e si rimette disteso, la
luce torna gialla e mi risponde: “Manca un mese, tutto scade, e la
bara non c’è più”, “Che cosa vuol dire? Che tutto finisce e tu non sei
morto? Non riesco a capire, hai pagato per un solo mese ancora il
tuo posto nel cimitero?”. Mi distesi nuovamente per calmarmi,
stiamo aspettando l’interrogazione. Non ci sono professori, non
arrivano. Mi volto e vedo dall’altro letto matrimoniale un anziano
che si guarda scocciato l’orologio da polso. Non fui molto curiosa di
quell’uomo. A quel sentimento, mi rigirai per vederlo bene, poi
riguardai in alto per non essere indiscreta, e sorrisi a me stessa.
Rimanemmo io, Federico, la mia amica, e nell’altro letto
matrimoniale un anziano sessant’enne o al massimo settant’enne,
placido, che indossava un gilet imbottito verde, di quelli che si
usano o per andare a caccia o per recarsi a pescare, ma quell’uomo
era un vecchio cacciatore. Mi alzai, guardai fuori e tornai serena.
Chiesi a Sonia: Ma che ore sono, guardando il sole quasi al suo
scomparire tra i rami neri degli alberi, “Le ventuno e quaranta”. “Le
ventuno e quaranta?”, pensai: “Ma come fanno ad essere le
ventuno e quaranta?” Poi cercai una risposta tanto per darmene
una in silenzio e mi dissi: “E certo sarà quasi estate. Quando è estate
il sole, cala in ritardo”. Sonia si mise a ridere a squarcia gola. Feci dei
passi per andarmene, e mi fermai ai piedi dell’ultimo letto
matrimoniale quello dell’anziano signore e lo guardai. L’anziano non
era molto lungo, essendo disteso con le braccia dietro il capo, non
era molto alto, un perfetto sconosciuto, non con molti capelli in
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testa e per lo più bianchi, non grosso, ma di corporatura giusta.
Indossava pantaloni in velluto rigati marroncini chiari, prima
d’andare via, io lo guardai e lui ridendo in modo beffardo mi disse:
“Stiamo aspettando l’interrogazione”. “Sì ma non arriva…” “Stiamo
aspettando”.
Mi svegliai con lo squillo del telefono, rispose mio fratello riuscii a
sentire nei momenti intervallati da una risposta rammaricata e
imbarazzata: “Non so”… “non so che dire”… “capisco”… “capisco”…
“Lo sapevano già su facebook, ah così è successo”… “un colpo”…
“un colpo di fucile a caccia”… “comprendo”… “ehhhh”… “capisco o
si è sparato o è inciampato o gli hanno sparato”… “così è morto per
andare a prendere il fagiano”… “sarà scivolato”… “gli sarà partito un
colpo e ha preso l’inguine”… “per carità”… “stamattina presto”…
“capito”. All’inizio presi paura che fosse mio zio, poi mi ricordai
tutte le autoambulanze sentite di prima mattina, e risi un po’ per
dire non me ne importa più chi sia… è andata così. Il mio parente
andò a caccia con i suoi amici, spararono ad un fagiano, e quando
era andato per prenderlo, il suo amico, sentì un altro colpo, così è
morto mio cugino di secondo grado, andato in pensione con una
cifra non indifferente. O si è sparato, o gli spararono sull’inguine. La
notizia in poco tempo era già che girava su Facebook. Non parlai
molto, Non dissi una parola, decisi solo di raccontarlo.
Si scrive per raccontare.
Poi tornai a coricarmi e cercarono di ributtarmi nel sogno, per
farmi baciare di nuovo in bocca Federico. Ma io non vorrò mai
tornare con Federico e lo rinchiudo di nuovo in tomba, perché so
che ormai è deceduto.
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STATISTICHE
Un giorno, a trentatré anni, volli sapere quante persone all’incirca
sono volate lassù o sepolte laggiù, nella vita mia solo per suicidio
personale. Non credesti ai miei occhi! Sono all’incirca cinquemila, se
non di più. Di queste cinquemila, sono state così carnefici che ne
uccisero quasi altrettante insieme con me. Tutte un po’ kamikaze.
Non feci nulla di che, tra l’altro, essendo una persona molto devota
a Dio, ogni volta che mi sentii giù di morale gli chiesi un messaggio,
un qualche cosa che mi potesse rasserenare. Ed ogni volta mi faceva
sentire il cinguettio di qualche uccellino nel mio balcone, e questo
mi dava gioia. Finché una mattina, ero così nervosa e scocciata dagli
altri che mi facevano scherzi telepatici, che mi affacciai alla mia
finestra, tutta stressata, mal pettinata, e con qualche graffio sul
viso, più puntini neri e qualche foruncolo microscopico da sudore,
quindi sperai solo che mi vedessero da molto lontano, se mi
dovevano spiare, aprendo le finestre con il vetro tra l’altro ancora
da pulire, e lo vidi proprio un bel pettirosso. Iniziai a dirgli: “E ma
che bel petto rosso che hai, cip, cip, le vuoi un poche di bricioline?”,
… “Magari solo di pane tanto per darti da mangiare un po’, proprio
vero che vi chiamate petti rossi. Guarda che bel petto rosso che hai,
aspetta un attimo”, mi girai e il petti rosso non c’era già più.
“Nooooo”, dissi, “Se né volato via!”, con un senso di vuoto
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momentaneo, “Dov’è il petti rosso? Se né volato via! Cip, cip, cip
dove sei? Non ti vedo proprio più!”
Poi qualcuno me lo faceva di nuovo immaginare lì sulla ringhiera,
risi un po’ e dissi: “E ma che bello che sei, sei tornato! Che bel petto
che hai, proprio delle belle piumate, siete così gracilini voi, che
nemmeno riesco a toccarvi se non volate via.” Pausa, “Una volta ci
ho provato sai a prenderne in mano uno steso sul marciapiede
ferito da qualche delinquente che se li mangia i tipi come te; ma
appena l’ho raccolto da terra con paura era così morbido, e tutto un
ossicino, che non riuscii a stringerlo tanto, e mi volò via dalle mani.
Andò dall’altro lato del recintato, dove c’è il vecchio asilo, se né
volato via a soffrire e a morire da un altro lato. Sperai solo che
qualche suora lo trovasse, o qualche altra insegnante. Mi sentii così
incapace di curare qualcuno che lasciai stare. Troppa sofferenza,
troppa paura di fargli del male”. “Cip, cip, ma dai, non ci credono
che ci sei per davvero, cip, cip”, “Nooo” ripetei “Se né volato via di
nuovo!”. “Cip, cip, dai torna che ti do le bricioline di pane...” “Cip,
cip, niente!” feci un gesto di rammarico e di negazione con la testa:
“Niente, da me voleva proprio niente”. Pensai: “ Io sì volevo
ammirarlo ancora, ringraziarlo sfamandolo, ma lui da me niente,
non voleva proprio niente!”. E se né volato via così, come niente,
cip, cip, e in un battibaleno non c’era più, solo il ricordo di un bel
petti rosso sulla ringhiera che cinguettava anche poco quando l’ho
guardato. Poi me lo fecero immaginare nuovamente lì sulla
ringhiera e pensai: “Dai su nostalgici, non c’è più, bello quanto vuoi
ma se né volato via, cip, cip, come niente se n’è andato”.
“Dopotutto non voleva niente da me”. Cip, cip, cip cip, cip… “Poi se
continuo così, mi sento in imbarazzo d’apparirvi un poco matta,
meglio di no”. Poi lo vidi di nuovo solo in ricordo e mi venne una
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tale tristezza che mio fratello pianse un po’ nel sentirmi dire ad alta
voce solo: “Cip, cip”. Pensa delle volte quanto poco basta alle
persone per piangere o per farle suicidare per davvero nei loro
momenti di stress, un cip, cip, o un “bel fatte fora” in gergo
giovanile di dialetto tendenzialmente veneto. E di nuovo già tre
sirene dell’autoambulanza iniziarono a suonare nella via. Così se ne
andò per l’ultima volta, tra gli altri, l’amico di mio fratello. Un altro
gesuita.
Intanto, mentre scrivo il mio racconto, eccolo che torna, un altro
"petti rosso", che si ferma cinque secondi sulla mia ringhiera a farmi
da scudo, e a guardare la strada, per poi balzare via di nuovo. Mi da
sempre gioia quando fa così. Poi di notte torna la civetta e il giro
continua fino alla fine dei loro giorni o magari della mia stessa vita
tra esattamente settant'anni.
Dopo tutte le limature ai miei denti e quanto altro, ti ringrazio,
ecco Dio sono pronta, posso andare anche in meridione ora, io ho
iniziato ed io finisco.
Il mio problema è che anche il dentista si stufò nella realtà dei fatti
perché i miei denti si riformarono molto in fretta, lasciai stare.
Nel duemila e undici, creai esattamente seimila disegni a penna,
sfumati con qualche pastello, senza contare tutti i dipinti su cartone,
solo per essermi rilassata un po’. Non riuscii a quantificare
esattamente tutte le mie opere vendute. Il venditore non fu mai lo
stesso e non visse nemmeno abbastanza, purtroppo per dirlo. Io
non ne ebbi colpa nemmeno lì. Il problema è la coscienza che uno
ha. Eh! Okay, scherzi telepatici, su scherzi telepatici, ma poi
l’esamino di coscienza, chi se lo fa? Quello che ormai è deceduto,
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per esaurimento nervoso proprio. Io sono un’autentica brava
ragazza.
Effettivamente era dura a credere per chi, come me era sempre in
giro per discoteche, ma quando li vedevo ballare, presi dalla loro
passione o dal loro modo d’apparire, di danzare o dall’idillio che la
pasticca gli creava in quel momento, mi divertii sempre a notarli,
osservarli anche nel passaggio della bottiglietta dell’acqua, sarà mai
poi solo della semplice sostanza liquida? Io non accettai mai,
sempre senza offendere, ma non avevo tutta questa sete, preferii il
più delle volte gettare con rammarico anche il mio cocktail a terra.
“Oh”, dicevo spesso, “Che distratta! Sono proprio un niente!”
Finché una sera, o meglio una nottata fui così stanca di tutto quello
che dovevo ancora fare, lavorare, tenere sotto controllo, che cedetti
anche alla bevanda alcolica, solo per vedere tutti me, ed io tutti gli
altri, con l’unico particolare che io non baciai nessuno ma loro sì.
Allora decisi di denunciare tutto perché come sempre fu colpa della
gente del mio paese nativo. Lasciai che tutti si potessero vendicare
nei confronti degli altri e chiusi molti discorsi antichi con la loro
morte definitiva.
Poi guardai quelli del vecchio stampo che si facevano anche gli
uomini davanti agli altri, che ne rimasi proprio disgustata. Decisi di
farmi un paio d’avventure tanto per essere ancora più “sfotton”, ma
riuscii semplicemente a provare un disgusto interiore quasi
d’immondizia interna vera, che li feci tutti ammazzare un po’. Presi
la decisione insieme con altri di trasformare una sostanza da solida
a liquida e viceversa, purché diventino agli occhi degli altri solo che
delle autentiche donne, e poi basta. Feci arrestare tutto o quasi, e si
ammazzarono da soli.
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Ma alla fine da dove deriva tutta questa mancanza di rispetto verso
l’altro? Da internet. Incredibile quanto rispetto mi portavano prima
e poi arriva uno e s’organizza a delinquere per trasformarli tutti gay
o in esaurimento nervoso, per spacciare, li uccisi poco a poco tutti.
Non si devono mai più permettere.
Finito questo libro non ci sarà più anima viva, tranne io e chi come
me, si è sempre comportato con riguardo verso il prossimo.
Tante volte arrivai a casa così stanca e a causa del lavoro e
dell’Università, in stress, che appena mi entravano nella mente, per
farmi graffiare la macchina sul muretto di casa, inizialmente
resistetti poi la graffiai, finché decisi di darle una bella lucidata e
metterla a nuovo per fare l’incidente stradale e venderla a un
prezzo superiore. Insomma erano quasi trecento euro botta, così
quella nuova quando la graffiai la lasciai così solo perché è
comunque ai miei occhi la seconda macchina di mio papà; non è
mia. Serve sempre una macchina graffiata in casa.
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SONO UNA RAGAZZA VIOLENTATA SESSUALMENTE IN MODO
TELEPATICO.
Ovviamente ora più che mai li voglio morti. Prima quando li vedevo
stesi al pavimento, oppure vomitevoli, riuscivo a provare ancora
pietà. Accettai, accettai, e poi ancora accettai. Ebbene sì, per il mio
essere donna dovetti fare anche questo: Frequentare uno
spacciatore, studiarmi tutto per creare i quadri che mi servivano alla
fine per una mia vendetta privata, e dare solo un tiro alla canna che
si faceva davanti ai miei occhi, poiché io assumevo per via orale, del
metadone tressato sale sodico, quindi la droga non faceva
nemmeno in tempo a darmi effetto, e poter fare del sano sesso
protetto per vedere come si comportava. Al momento del saluto,
non voleva che andassi via, mi ha sedotta con qualche carezza per
finire con il mettermi il suo dito nel mio di dietro, mi scappò la
“cacca”, scusatemi la volgarità; ma tornando a ritroso negli anni
tutti questi accordi li presero quando finii nel gossip per poco, e
quando dissi all’ingresso di una discoteca: “Sono un’artista!” Per
dipingere i quadri per loro dovevo provare anche quello. A quel
punto decisi di Sì, non perché il quadro che io farò o ho dipinto, gli
servirà per campare bene, ma perché quel quadro sarà la
distruzione di tutto ciò che gli è attorno, partendo da se stesso. Al
primo dito nel retro, gli feci spaccare la testa, ma era troppo debole
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quello che scelsero per me, e invece di fargli del male, arrivò solo ad
avere qualche punto nel capo. Poi tornai per vedere come
andavano le cose, e gli gridai un chiaro e tondo: “Io non ci riesco!”.
Poi cercò la vasellina e lì non ci vidi più. Così lo bucarono, più e più
volte, lasciandolo andare per l’ennesima volta in giro più defunto
che vivo. Creai allora un altro quadro per un altro giovane
spacciatore, per far sì che si autodistruggesse.
Poi lo stesso andò a vivere in un altro appartamento che appariva
più la sua tomba, che la sua stessa vita, che sperai proprio che se ne
andasse al di là. Gli mandai ancora qualcuno e poi basta.
Come avrei mai potuto fare, quello che ho fatto senza quella
penosa vita sentimentale, disgustosa e umiliante per una donna,
situazione sessuale, immaginaria.
Poiché qualcuno mi entrò nella mia mente, perché dovevamo
tornare sempre con i nostri ex, ero così nervosa che non riuscivo più
a concentrarmi nei miei studi, e pensai: “Mai, che rispettino
qualunque cosa, sono sempre di troppo nella vita di tutti”. Lo
ricercai un po’ ma non seppi mai chi fu, ero troppo impegnata nelle
mie faccende, poiché le ritenevo sempre più importanti e
costruttive che tutte quelle voci nel mio cervello, mi servissero solo
per fare Arte.
A quel punto decisi di entrare nel portale di un sito di psicologia
per chiedere: “Avanti chi è il prossimo?” Mi diedero Andrea P.
Andrea P. lo conobbi in giovane età, se non da bambina. Quello
che faceva per me e per tutti gli altri era bucare ogni Hiv, esistente a
Pordenone e Spacciare tanto anche in tribunale poiché si procurava,
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“carne fresca per fare carne secca”, ma non riuscì ad uccidere
nessuno se non se stesso. Morì varie volte nella mia vita che mi
chiesi: “Ma quante vite gli rimangono ormai?” Andrea P. operato al
cervello, figlio di NO. all’ospedale di Udine, cresciuto in una famiglia
per bene come figlio adottato, e sistemato da adulto come tossico
dipendente che ogni tot si ripuliva di nascosto, nella casa, un po’ a
baracca, dove in realtà nacque da un vecchio e una prostituta,
tossica dipendente anch’ella. Da bambino si divertiva a giocare al
dottore, stimolando la vagina della mal capitata bambina, e
palpando altre parti del corpo di quest’ultima. Gli adulti del posto lo
vollero sempre più in droga.
A questo punto, toccava a me, in qualità di Donna, ad andare a
convivere con lui, e a fargli del male al suo sesso maschile. Io non
seppi come spiegarlo che quell’uomo di undici anni più grande di
me, mi piacque sempre molto, non per tante motivazioni, ma
perché era caparbio e comunque capace. Mi aiutò molto, a ottenere
quello che volevo, e soprattutto nell’arte - video che mi serviva per
qualche esame universitario. Non per niente usai lo stesso video,
modificandolo ogni volta di un qualche particolare o sfumatura, per
ben tre esami, compiacenti ai miei occhi fino all’ultimo video finale,
che significava: “Non vogliamo che si salvino”. Purtroppo per cause
di forza maggiori i Gay in Italia e nel mondo soprattutto al mio paese
e a Pordenone, erano in numero sempre più in aumento. Pensai che
non potessero i miei amici tutelarmi per tutta la vita il mio di dietro
così stetti un po’ di tempo con lui e poi lo lasciai. Quando lo lasciai,
dopo anche l’ultimo viaggio che facemmo in Spagna, per vivere un
po’ anche là, perdette la testa. Ogni qual volta si guardava nel
ritratto che gli feci, si dava sempre più ragione, e purtroppo uccise
anche lui. Che fine abbia fatto il corpo di quella donna, non lo seppi
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mai. Non era una buona donna, ma non predetti mai, che per
disgusto mio e proprio, di quella volta che si mise in reggiseno di
pizzo nero a tosare l’erba del vicino, potesse creare tanto trambusto
anche agli altri o ad alcuni di essi, che Andrea P. la uccise.
Sono fatti da non credere, che cosa tocchi fare a una donna, per
uccidere, o far suicidare molte persone, solamente perché
altrimenti si rischia la sovrappopolazione di disgusto umano.
Tante volte mi fermai a guardarmi a ritroso, per affermare che ci
sono voluti anni e anni di costrizioni, non tanto di sottomissioni, ad
accettare tutti quei bacini, che servivano come scusante per i loro
spacciatori ad uccidere il delinquente o l’invidioso di turno.
Tornai in quel sito e affermai la verità: “E okay, tutte queste guerre
ma se non mi fermo in tempo rischio solo d’essere gay pure io,
quindi stop, io qui mi fermo”.
Poi mi misi a guardare in giro di nuovo, e mi fu tutto inevitabile, il
niente equivale al niente, e la stasi dei sentimenti alla stasi più
completa. I miei voti universitari erano tutti per lo più sui trenta e
trenta e lode che per stress, accettai nuovamente.
Sembrava proprio che io fossi nata per quel motivo, anche se nella
realtà io non volevo, sennonché mi sono assunta le mie
responsabilità e dissi: “Ogni volta che volevano innalzarmi in
qualche campo anche atletico, io non ci sono riuscita ad accettare,
perché ho scoperto che incutevo paura”. Sembrava ai miei occhi che
fossi venuta a questo mondo, per un altro scopo molto evidente;
non perché io ne sia stata d’accordo, ma perché facevo fin da
bambina una protesta dietro l’altra.
186
Così finii per prendere un farmaco che m’intossicò. E lì di nuovo a
spiegare al mondo: “Trattasi di metadone tressato sale sodico, un
immunosoppressore, non è droga”. “Non sono una tossica sono
intossicata, e ancora mi chiede il perché?”, “Perché me l’hanno
prescritto”. Chi è ora che fa fare alla gente, gli abusi da farmaco?
Come sempre tocca a me a trovarlo, e a dirgli: “Ora saluta tutti, e dì
a loro addio!”. Poiché la telepatia è un problema mio, e poi degli
altri, lo trovai a una mia piccola mostra per vendere libri di poesia,
per poi ammetterlo, avevano ragione a dirmi di No, al mio credo che
fosse donna. Era un attore così bello e così andato ormai di cervello
che mi aiutò un solo regista, e poi si spense con un abuso da
farmaco.
Il mio dottore invece fu messo là, dentro il Day hospital di
Pordenone, a fare il gentile e carino con tutti che molti ci provarono
ad ucciderlo, ma con esiti negativi, al massimo io lo mandai in
depressione. Perché è stato messo là, perché alla fine, volente o
non volente lo costrinsi a curare un po’ tutti. Gli morirono, sotto le
sue cure solo un paio di persone, ma fu sempre assolto. Il perché
non lo so, non le conoscevo bene. Alla fine cedetti anche lì e dissi:
“Ma sì! Facciamo anche questo, fingiamo d’aver bisogno di una
carta scritta per dire sono la malata reumatica d’induzione”. Mi
mandarono da un ortopedico che voleva amputarmi la gamba, e se
non me la voleva amputare di minimo operare. Pagai solo per dir a
loro in senno del poi: “Mai che dicano ha un foro di pallottola in una
gamba o ha bisogno di sciogliere i nervi che si sono attorcigliati nel
collo per un massaggio richiesto a sua madre di troppo”. Sono
spesso con l’operazione sbagliata nel cervello! Tocca sempre a Noi.
A noi intervenire. A Noi a protestare. A noi a far sparire un po’ di
187
persone di troppo. Ma quanti di Noi sono arrivati a dire: “E allora?”
Tutti!
Poi guardai il cielo in alto e dissi a Dio: “Sì, va bene, io sarò anche
come i funghi, ma loro sono anche come l’erba cattiva, la togli dalla
radice e ancora ne cresce!” Si fa una fatica cane a sterminarne uno
che già ne sono nati cinque? Ma come si fa a vivere così? E’ un
eterno non finito!
Poi m’insultano chiamandomi: “Frocia”, solo per offendermi un
po’, per poi costringermi a mettermi un dito nel retro per far sparire
altre due persone. “Sì, sì, con tutto il sesso che fa anche quello è per
l’immacolata concezione che io tra un po’ rimango in cinta!” Posso
anche cedere a quell’ultima richiesta, ma quella si chiama poi vena
rotta nel mio retro, e non si riesce a curare… brucia, brucia. “Dai,
dai” dissi a me stessa: “Tra quelli dei pap test e tutti gli altri, appare
più un problema di “recchione-ria” loro che d’importanza reale delle
cose, quando mi fecero male anche nella vena del retro, per
rovinarmi anche quello e farmi perdere sangue anche da lì, che
serviva solo a restringere il mio ano e a rovinare
momentaneamente, un solo sesso maschile, per far sì che da
masochista qual è si bruci, buchi e ribuchi, e ancora non riuscì a
morire del tutto”. Ma dai! Chiamai quello delle impiccagioni e lo feci
appendere, e dissi: “Tanto ci vuole?”.
Non per altro ma a nessuno interessa che io forse mi dovevo anche
sposare per davvero, ma non ci riuscii mai, rimandai, più e più volte
e poi lasciai andare.
188
Mi accorsi poi, che la mia Arte aveva un potere così devastante,
che, solo allora ci credesti di poterli aiutare per davvero. All’inizio
no, che ci credevo, ma tanti altri sì.
Nel duemila e nove, decisi di riprendere poco a poco a dipingere
quadri, dopo aver riavuto l’osso del naso, e nel duemilaundici, non
mi fermai più. Tra scherzi telepatici e quanto altro, uccidemmo
quantità di persone non indifferenti. Una sera X pensai sorridendo
da satanica, quale una persona della mia età arriva ad esserlo dopo
varie vicissitudini di costrizione, e la perdita di due bambini, insieme
alla consapevolezza che in un futuro cercheranno di farle fuori tutte
le altre gravidanze. Cose indicibili.
Entrai in chiesa, guardai i quadri iconografici appesi e dissi a Dio:
“Sia fatta la tua volontà, se è destino, questo sarà, ma se tu mi vuoi
aiutare a salvarmi e a salvare io ti ringrazio, se riuscirai a salvarmi
tutti i miei figli, io te ne sarò riconoscente, altrimenti si vede che hai
scelto un’altra strada, esperienza e percorso di vita da fare per me”.
In breve guardai Dio e una sera pensai: “Con tutta la gente che
abbiamo seppellito in giro, quando troveranno qualche resto d’osso,
che cosa inventeranno o scriveranno questa volta? Resti umani
ritrovati nella zona X appartenente al dopo Cristo, o all’avanti
Cristo?” Chissà, la storia è sempre un po’ inventata, un po’ teorica,
idealizzata; diciamo che gli è andata bene che non fossero poi così
religiosi da dire e fare: “Da cenere nasciamo e in cenere torniamo”.
Appartengono comunque ad una guerra.
Sono nuvola che emerge dall’acqua evaporata, per essere guardata
da una ragazza che passando in bicicletta mi fissa in quel
qualcos’altro, che si forma e si unisce dall’acqua essiccandolo, in
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uno strato sottile, unito, dove uno insieme con un altro sovrapposto
formano un cartone, come un bambino ancora in grembo o un
girino, o come forse è nato l’essere umano seguendo le teorie della
scienza, da un parassita uscito dall’acqua.
IL TEMPO NEL RACCONTO
GLI UCCELLI
Anno: 1963
Origine: U.S.A.
Durata: 120
Produttore: Alfred Hitchcock, Direttore di produzione:
Norman Demming
Direttore della fotografia: Robert Burks
Sceneggiatura: Evan Hunter, tratto da un racconto di Daphne
du Maurier
Personaggi principali: Rod Taylor (Mitch Brenner), Tippi
Hedren (Melanie Daniels), Jessica Tandy (Lydia Brenner),
Suzanne Pleshette (Annie Hayworth), Veronica Cartwright
(Cathy Brenner).
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Il film si svolge tutto in un week end a Bodega Bay, dove non si
trovano particolari analessi, e la focalizzazione è per lo più esterna,
concentrata su un unico personaggio Melanie (anche se i
protagonisti per eccellenza sono gli uccelli), e la segue per tutto il
film; a parte due scene: una dove Lidia (madre di Mitch) si trova alla
fattoria dei Fawcett, e l’altra alla fine, quando Mitch esce da casa
per prendere la macchina. In entrambi i casi, si nota un tempo del
racconto eternamente lungo, concentrato sui più minimi particolari
per creare una forte tensione non che suspense. Una delle
caratteristiche di Hitchcock, dove n’è il maestro in assoluto di
quell’epoca.
Tutti i suoi film (compreso gli Uccelli), sono basati sull’ironia e sulla
suspense, grazie alle inquadrature, con certe riprese dall’alto al
basso, ai piani sequenza (per lo più primi piani americani), il
“decoupage” tra oggetto e soggetto, e gli effetti scenici, maestosi
nella tecnica.
Per tutto il film, sembra di assistere a due storie diverse, una
commedia leggera e a un film del terrore. Presentano almeno due
livelli di lettura, uno esterno, e l’altro interno psicologico. Nella
prima parte, si vede il film normale, psicologico, e solo nell’ultima
inquadratura di ogni scena evoca la minaccia degli uccelli.
Già dai titoli che sono frantumati dal volo degli uccelli nella sigla (…
non c’è colonna sonora, lo schermo è pieno d’immagini sfuocate di
uccelli in volo…), e dal suono elettronico - acustico, con strida e lo
sbatter delle ali, che fanno da sottofondo per tutto il film, ci
preannuncia ciò che deve accadere senza farcelo dimenticare,
creando una prolessi.
191
Il film inizia quando Melanie si reca nel negozio di uccelli, per
comprare una granula da regalare a una sua zia, e ha un modo di
fare molto affrettato. Vuole insegnare all’uccello qualche parola
“irriverente” che scandalizzi la zia. Mitch entra nel negozio e
scambia Melanie per una commessa, e le chiede due inseparabili da
regalare alla sorellina. Melanie, che ha sempre voglia di scherzare, si
spaccia per la commessa e, Mitch va avanti con questa farsa, pur
avendo conosciuto in lei, la sconsiderata e un po’ snob, figlia
dell’editore di un famoso giornale. Il dialogo leggero e brillante tra i
due da un tono a tutti quelli che seguono, dando il via a una risata
incontrollata che imperversa fino al primo attacco degli uccelli.
All’uscita di Mitch dal negozio, lei si sente offesa non ché presa in
giro, e comunque sedotta, per cui decide di ricambiare il “favore”.
Qui si nota un’inquadratura ristretta sul volto di lei, concentrata
soprattutto sugli occhi (altra caratteristica di Hitchcock), per farci
intuire ciò che sta pensando, quasi come una prolessi, perché
abbiamo la concezione che vuol fare qualche cosa, ma non abbiamo
ben chiaro che cosa vuol fare. Scrivendosi la targa della sua
macchina prima che partisse, riesce ad avere informazioni su di lui
attraverso conoscenze all’interno della motorizzazione.
Si reca nel suo palazzo, per lasciargli come sorpresa davanti alla
porta dell’appartamento, i due inseparabili che tanto stava
cercando; ma il vicino vedendola l’avvisa che Mr Brenner, non era in
casa, perché ogni week end raggiungeva la famiglia a Bodega Bay.
Qui si nota sempre un primo piano su di lei che decide di
raggiungerlo in macchina.
Il viaggio, risulterà avere un tempo relativamente lungo, perché
non è discorsivo, e nello stesso momento è anche ironico,
192
nell’inquadratura dei due uccelli che s’inclinano verso destra e verso
sinistra, secondo la curva effettuata dalla macchina.
Giunta sul posto, entra in un negozio d’alimentari, per chiedere
ulteriori informazioni su di lui, e per affittare una barca. Il droghiere
la guarda con diffidenza, ma gentilmente le consiglia di rivolgersi
alla maestra del paese, che sicuramente era più informata di lui (in
questa scena si sente il primo intervento fuori campo del film, volto
a far sorridere per un dibattito fatto tra il droghiere e il commesso,
che non si vede, sul nome della sorella di Mitch). Arrivata alla
scuola, incontra per la prima volta Annie (la maestra), che al
nominare di Mitch rimane turbata, non che sospettosa. Qui
otteniamo una focalizzazione sugli occhi e sul volto di lei, quasi
rappresentasse un’analessi esterna, sulla sua storia passata con lui,
non espressa, e traspare una forma di gelosia non dichiarata.
Ottenute le risposte, Melanie torna al molo e intraprende il suo
viaggio costiero, nelle acque della baita, con l’intento di lasciare
all’interno della fattoria i due inseparabili. (Abbiamo un'altra scena
comica). Al ritorno però, mentre rema, nel momento più tranquillo,
assistiamo ad una situazione di scarto, d’imprevisto, viene attaccata,
senza alcun motivo, da un gabbiano, che le provoca, una ferita sulla
fronte.
Mitch l’accompagna dentro al Caffè, dove tutti si soffermano a
guardarla per farle fare la telefonata rassicurante al padre, per
curarle le ferite ed invitarla a casa e presentarle la sorella Cathy. Qui
si avrà un ulteriore battibecco ironico tra i due, fino all’arrivo della
madre di lui (Lydia), che gela la situazione.
193
Si ha un primo piano sugli occhi di lei che fissano Melanie senza dir
nulla, creando una situazione di suspense, di tensione, con
focalizzazione esterna e breve prolungamento del tempo. Accettato
l’invito, trova ospitalità da Annie, anche se sembra che quest’ultima,
non ne sia del tutto felice.
Alla cene s’avverte ancora di più la diffidenza della madre, che la
espone a Mitch mentre sta lavando i piatti; dove viene aumentata la
tensione, attraverso la ripresa dall’alto, verso il basso del suo volto.
Nel frattempo Cathy (transazione nel sequenziale racconto
polifonico), cerca di convincere Melanie a rinviare la partenza per
poter assistere al suo compleanno, tenutosi l’indomani.
Rincasata nell’appartamento di Annie, la trova sveglia seduta su di
una poltrona che fuma una sigaretta, e la guarda quasi con rabbia e
gelosia, creando tensione con un primo piano americano sempre
concentrato, sull’espressione degli occhi e del viso, soprattutto
dopo la telefonata di Mitch, dove risponde con gioia e successiva
tristezza, nel sapere che non desiderava parlare con lei ma con
Melanie. Così decise di raccontarle tutta la sua storia passata con
Mitch (analessi esterna, quasi in flash back), e spiegarle il
comportamento avversivo e possessivo di Lydia, concludendo con
“Lydia non ha paura di perdere suo figlio, ma solo d’essere
abbandonata”. A questo punto sembra dover temere maggiormente
Lydia Brenner che non gli uccelli ancora in stato di quiete.
Successivamente assistiamo a un secondo scarto, dove in un
momento di calma, quando Melanie sta per andare a coricarsi, si
sente un forte botto alla porta d’ingresso, incredule, non che
sbalordite, aprendo la porta trovano un gabbiano, steso sul
194
pavimento, morto. “Forse si è sperduto…”. “Non si è sperduto c’è la
luna piena!” qui abbiamo un continuo di prolessi, cioè una presa di
coscienza, dello spettatore, che ciò che si era preannunciato
dall’inizio, sta per accadere.
Dopo un breve stacco temporale o sommario, ritroviamo Melanie
su una collina, sopra la casa dei Brennere, sola con Mitch, che aveva
in mano una caraffa di martini e, due bicchieri. Si versano da bere, e
dopo una breve discussione, lei gli apre il suo cuore, raccontandogli
della madre che non ha mai avuto. (Analessi esterna, un altro flash
back).
Successivamente, assisteremo al terzo scarto del film, dove nella
tranquillità della festa in cui le bambine stavano giocando a mosca
cieca, ci sarà un primo vero attacco degli uccelli (gabbiani), che poi
se ne andranno come se nulla fosse successo.
Alla sera, ancora increduli, cercano d’ironizzare sull’accaduto,
riunendosi in salotto, dove Mitch per sicurezza, invita Melanie a
fermarsi a dormire da loro, piuttosto, che intraprendere un viaggio
verso casa. Quarto scarto, lo abbiamo con l’intrusione improvvisa e
feroce, dei passeri entrati nella stanza, attraverso il caminetto. C’è
panico, il tempo sembra dilatarsi all’infinito, finché dopo aver
sfondato finestre, rotto soprammobili e lievemente ferito quelli che
stavano all’interno, (La famiglia Brenner più Melanie) se ne sono
andati come se nulla fosse successo, lasciando inspiegabili punti di
domanda.
Dopo un breve sommario, ci troviamo Melanie nella camera da
letto, che sente (voci di fuori campo) la madre di Mitch che avverte
195
che sta andando alla fattoria dei Fawcett, e vede la macchina
allontanarsi.
Lydia arriva alla fattoria, entra in casa dove non le risponde
nessuno, capisce che è successo qualche cosa, per le cinque tazzine
frantumate, ancora appese ai ganci del muro, solo grazie ai manici.
Inquadratura sul volto, il tempo del film inizia a dilatarsi, fino alla
scoperta, in una camera, del cadavere di Doun Fawcett a terra, con
gli occhi rovinati per i colpi di becco: qui il tempo si ristringe
parzialmente, perché lei scappa sconvolta, senza dire una parola.
Nello stesso momento (quindi avremmo una transizione del
sequenziale racconto polifonico), Mitch e Melanie si ritrovano in
cucina, per discutere di ciò che sta accadendo, dove Miss Daniels si
rivela preoccupata, e nel mentre lui sta per uscire lei lo ferma, c’è
un primo piano sul suo viso, suspense con breve dilatazione del
tempo, e si baciano (unico bacio che si daranno per tutto il resto del
film). In quel momento entra Lydia e, nonostante li avesse colti sul
fatto, non dice nulla e sale al piano superiore. Nella scena dove
Melanie entra nella camera dove è stesa Lydia, assistiamo a un
crollo di nervi, di una persona apparentemente dura, rigida, ruvida,
che si confida con lei raccontandole la sua vita passata, quando è
stata abbandonata (analessi esterna).
Un’altra scena interessante, è quella dell’attacco alla scuola
materna: Melanie va a prendere Cathy, su richiesta di Lydia, ma
Annie le chiede d’attendere. Così esce e si siede nella panchina al
lato dell’entrata. Qui si notano dei piani sequenza, che vanno dal
volto di lei al corvo che s’appoggia nella struttura retrostante, poi i
corvi aumentano, finché voltandosi, nota che i corvi erano diventati
un migliaio (leggero aumento del tempo del racconto) e senza far
196
troppo rumore entra nella scuola per avvisare del pericolo. I
bambini escono, come se stessero facendo un’esercitazione
antincendio, ma vengono subito assaliti dai corvi. Il vicolo che
percorrono sembra eternamente lungo, (dilatazione del tempo) e
l’inquadratura sui piedi che corrono, e sui particolari, rendono il
tutto più ancora soggettivo. Nella scena al ristorante Tides Cafè,
dove Melanie si rifugia dopo la fuga dalla scuola assistiamo a una
focalizzazione variabile come se fosse una sequenza di racconto
polifonico. Ci s’imbatte in un gruppo di persone, piuttosto curiose:
la prima è l’ornitologa, che nega l’aggressività degli uccelli, alla luce
di considerazioni meramente accademiche, ma ogni sua frase, viene
interrotta da qualche voce squillante fuori campo. A volte è la
cameriera, altre è un ubriacone che preannuncia la fine del mondo,
un’anticonformista, che urla dicendo: “Bisogna prendere i fucili e
sterminare gli invasori!”, un pescivendolo che racconta dell’attacco
alla sua barca, e l’ultima è una donna con lo sguardo terrorizzante,
che vuol proteggere i suoi bambini. Abbiamo la focalizzazione di un
personaggio, poi un altro, e successivamente torna allo stesso, e
così via.
In questa stessa scena, assistiamo a uno dei temi che si ripete
lungo tutto il film, che consiste nell’impossibilità di comunicare. Si è
visto nella famiglia Brenner, che né la radio, né la televisione,
intervengono per orientare gli abitanti… qui lo notiamo nella
sequenza in cui Melanie e gli avventori del bar affacciati alla
finestra, scorgono l’uomo che accende la sigaretta accanto alla sua
auto, mentre a terra scorre il gasolio. Tutti gli gridano di non gettare
il fiammifero, ma lo sforzo è inutile, l’uomo non può sentirli e lascia
cadere il fiammifero, provocando la distruttiva esplosione. Tutto ciò
197
crea un’alta tensione, quindi il prolungamento del tempo,
soprattutto nel veder scorrere il gasolio.
Questa luminosità causata dall’esplosione, attira gli uccelli
(interessante ripresa dall’alto come vista da un gabbiano) che
sferrano un ulteriore attacco. Durante quest’ultimo, Melanie, si
ripara dentro ad una cabina, dove nel mentre vede la gente morire
attorno, le ritorna alla mente le parole di Mitch (flash back), della
prima volta che s’incontrano nel negozio, “Ti voglio rimettere nella
tua gabbia dorata” quasi fosse una premonizione.
Quando rientra nel bar, dopo l’attacco, il tempo del racconto si
dilata moltissimo, prima perché non vede nessuno, e poi negli
sguardi terrorizzanti dei pochi rimasti. Appare dilatato anche
quando ripercorrono il viale per tornare a casa, con la vista di molti
uccelli morti per la strada, fino all’arrivo dell’abitazione di Annie,
dove la ritrovano morta sulla soglia. Cathy rimasta rinchiusa nella
casa, fa una brevissima analessi implicita indeterminata, nel
raccontare ciò che è accaduto.
Le ultime scene, dove la famiglia Brenner con Melanie, si
rinchiudono in casa e aspettano l’attacco, il tempo del racconto
risulta essere lunghissimo, sia nella frenesia della situazione, sia nel
mentre s’avverte del loro arrivo, ma non lo si vede né si sente, sia
quando arriva davvero, creando un forte suspense, con l’aiuto del
montaggio dell’inquadratura dal singolo personaggio, a tutta la
stanza. Sia, mentre tutti dormivano, Melanie si sveglia nel sentire un
particolare rumore, cerca di svegliare Mitch ma non vi riesce, vaga
un po’ per la stanza ma non vede nulla, fino ad entrare nella camera
da letto, dove vede un buco nel soffitto, il gufo nel letto, e poi una
198
serie d’uccelli di ogni genere, che l’attaccano fino all’arrivo di Mitch
che la salva.
Per concludere, lunghissimo sarà il tempo, anche quando Mitch
esce dalla casa, e si ritrova davanti migliaia di uccelli pronti ad
attaccare da un momento all’altro. Si muove molto lentamente per
non agitarli, così come molto lentamente fa uscire la macchina dal
garage, aiuta Melanie sotto shock ad entrare nella macchina con
Lydia, e successivamente la sorella con gli inseparabili, rimasti gli
unici calmi per tutto il film, che sembra comunicare che l’amore
trionfa sempre su tutto.
In una lunga pausa con giochi di sguardi, capiamo che la madre di
Mitch accetterà Melanie.
Lentamente si allontana la macchina, nella magnifica alba sulla
cima della collina. Sempre più lontano. Come una nuova speranza
che nasce.
Nell’origine il finale non doveva essere questo, ma coloro che
scappano in macchina vengono nuovamente attaccati dagli uccelli,
dove riescono a liberarsi, per poi arrivare a San Francisco e trovare
la città completamente ricoperta da uccelli. Hitchcock non volle mai
girarlo perché secondo lui dal punto di vista emotivo il film sarebbe
stato già finito per gli spettatori, le ultime scene, rischiavano di
essere proiettate mentre tutti si alzavano e si dirigevano, verso la
porta. Ma in realtà il film avrebbe un finale pieno di suspense. Non
era questo che voleva lui, voleva Arte.
Gli Uccelli è un film che ha delle parti irreali interagite nel
quotidiano. E’ l’opera più tragica di Hitchcock, c’è una brusca
199
rottura dell’equilibrio da parte degli uccelli metaforizzata insieme la
rivolta della natura contro l’Uomo, e la perdita del ruolo dominante
dell’uomo nella società matriarcale.
tesina
d’esame di Lingua italiana nel 2002 conseguita con un trenta e lode
nel 16/01/2003
200
di Monica Benincà
BIBLIOGRAFIE:
Evan Hunter – Hitch e Io – Pratiche editrice
Natalino Buzzone, Valerio Caparra – I FILM DI ALFRED HITCCOCK –
Gremese Editore.
201
202
VOCI
di
Monica Benincà
anno 2006
Corso di laurea Tecnico Audiovisivo Multimediale
203
Presentazione
Voci era nato inizialmente con l’idea di creare un dossier sul tema
delle donne,
seguendo una sua evoluzione spontanea né è diventato il tumulto
delle donne, nelle loro preoccupazioni e sentimenti.
Pensieri che si ripetono sormontandosi, “cosa farò per cena, devo
fare la spesa, devo portare il bambino a scuola, devo pagare la
bolletta… soprastando la maestra che cerca di insegnare qualche
cosa d’importante ai propri alunni, la solidarietà, e l’importanza di
frequentare un ambiente istituzionale, ivi i genitori preferiscono
spedirli a lavorare”; termina nel dramma dell’undici settembre,
dove una madre disperata piange la tragica morte del figlio, che gli
appare in una visione idillica, mentre la saluta discendendo le scale
mostrandole le spalle, accusato di essere un terrorista, solo per il
fatto di appartenere alla religione mussulmana, scoprendo poi
innocente, non che eroe per aver salvato delle altre anime. A questo
punto si domanda “Se invece di avergli insegnato dei buoni
sentimenti forse lo avrebbe ancora accanto, se era quello il prezzo
per aver allevato un figlio altruista e generoso, con i giusti
valori”...così che la seconda parte ti chiede “vediamo se riesci a
superare tutti i tuoi ostacoli, un misto di paure, tristezze,
disperazioni, preoccupazioni, degenza, e ti metti a ballare”, con la
speranza di libertà.
204
Come sottofondo, l’omonima colonna sonora d’Ennio Morricone
nel film Sacco e Vanzetti, dove si parla sempre d’ingiustizie.
Il mio intento comunicativo, non tratta in realtà di ciò che
realmente si vuol dire, non ha importanza, non è il parlare in sé ma
l’effige, la visione e i pensieri in subbuglio che le immagini
trasformano in linguaggio del corpo, dove traspaiono le emozioni.
Non è più unidirezionale nei confronti dell’universo femminile, ma
si estende a tutti gli esseri viventi, abitanti in questo pianeta, come
le formiche, impegnate a soccorrere un loro simile morente, e una
piccola ragnatela dove n’è intrappolata la sua minuscola preda.
Le sequenze sono per lo più brevi, con l’unica funzione di essere
osservate, intervallate da spazi neri che devono solo essere
ascoltati.
Le prime avranno un sottofondo sonoro di rumore bianco, le
seconde invece di un miscuglio di pensieri e voci; a parte alcune
eccezioni dove l’audio s’inverte e saranno le immagini a parlare per
regalare emozioni, e il nero-buio avere il disturbo, con l’intento
d’intervallare, spezzare, riposare una comunicazione troppo lunga, o
manifestarne il significato.
Per rendere il mio pensiero più comprensibile all’osservatore, sono
stati aggiunti dei testi grafici scritti sullo schermo, loro scrivono ciò
che accade, le immagini ne trasmettono le emozioni.
205
Trattasi di video-arte rivolto ad un pubblico giovane, no-profit,
dove autorizzo la pubblicazione e la diffusione del mio video,
esclusivamente per scopi culturali o didattici, ovvero senza fini di
lucro, quali, specificatamente, l'allestimento di mostre d’arte, e
manifestazioni attigue, e la pubblicazione nei siti internet.
E’ un unico video, ma si possono identificare quattro sequenze
principali:
1234-
Inizio,
Il Tempo che Scorre,
Morte e Disperazione – allucinazione,
Conclusione.
1°SEQUENZA
L’inizio, dopo la presentazione della casa discografica, trova il
titolo iniziale apparire di lato, come fuori esce da una tasca ignota,
sopra una fascia rossa, “la tasca in sé”, che si prolunga fino a coprire
gli occhi della signora nella prima inquadratura, in primissimo piano.
Un moto di proibizione, dell’espressione visiva della stessa donna.
Non dandosi per vinta, la ritroviamo poco dopo che ci guarda con
sfida e sorriso ammaliatore venendoci incontro, attraverso una
206
zoomata in, per darci la quasi possibilità di poter entrare dentro il
suo stesso sguardo, ma scompare prima che il tutto possa avvenire,
un’attesa virata, dal rumore bianco che fa da tappeto sonoro alla
stessa inquadratura, e le voci tumultuose del buio.
Seconda scena, una ragazza si trova seduta nella seggiolapoltrona di un treno, ma non n’ha alcun’indicazione a proposito,
perché non è d’alcuna importanza dove si trova, ma quello che sta
facendo, che equivale a comunicare con un’ignota persona, che
troveremo solo nell’inquadratura successiva, ma non sentirà alcuna
parola, staremo ad osservarla nella sua breve presenza, in mezzo
primo piano dall’alto, per intuirne il suo parlare.
Stacco.
Nero.
Ecco il ricevente che risponde al suo messaggio, in primo piano,
con viso un po’ stupito, e contrariato.
Stacco.
Nero.
Cambio di scena, inizialmente ne dà un solo accenno per preparare
la visione dello spettatore, nel cambio dell’inquadratura, e divisione
del monitor in quattro parti equivalenti.
Tratta della degenza, espressa attraverso delle immagini effimere,
simboliche, che raccontano il dolore del malato stesso.
Nella prima inquadratura in alto a destra, troviamo una sagoma
immobile, seduta a terra, in contro luce, avvolta nella semioscurità,
207
che gira il capo solo alla fine, come rassegnazione. Racconta il
dolore nell’immobilità della sua esistenza; in un campo medio, per
farla apparire nella sua totalità. (l’immobilità dell’azione permette
allo spettatore di poter osservare anche gli altri due riquadri)
Nella seconda inquadratura, troviamo la stessa sagoma che si
accinge a salire la scala di là della porta aperta, in un campo lungo,
per poter camminare ancora, accarezzandone il corrimano giunto
quasi in vetta, stacco, la fine della scalinata la trova riflessa nel vaso
di fiore, in primo piano, dal nome speranza.
(La scena è molto statica e lenta anche per non affaticare chi la
osserva).
Terza inquadratura, una scena ripresa dal film “Frida” di Juliet
Taymor, dove saputo della malsana salute fisica, le hanno amputato
un piede, la protagonista ritrae la sua amarezza, in una colonna
dorica, al posto della colonna vertebrale, che s’infrange in mille
pezzi, dove una lacrima ne rende il riflesso. Dall’abilità della regista
e collaboratori, ne ha reso a magnificenza in un disegno che si
trasformerà in dipinto della protagonista stessa.
Ne ho ripreso, e ricontestualizzato un quarto, per rendere la parola
desinenza in tutta la sua pienezza.
(il riutilizzo di un “fegatello” permette allo spettatore di poter
vedere anche gli altri due riquadri senza appesantirlo di troppe
informazioni, “come una tivù digitale terrestre”).
Nella quarta appare un testo grafico, “desinenza”, per specificare di
cosa si tratta, essendo, appunto, delle immagini simboliche; che
entra da sinistra, in due colori, Bianco e Rosso, equivalenti alla
208
purezza e alla passione, una prerogativa al positivismo, ciò che può
far cambiare la situazione.
Stacco.
Nero.
Brevissima inquadratura di una persona in primo piano le ginocchia
e le mani ci fanno avvertire che è accovacciata, sempre nella
situazione tristezza.
Altra brevissima scena, dove nel primo quadro tratta d’alcune
bambine che stanno giocando nel parco, in un campo lungo, nella
dissolvenza incrociata appaiono le gambe penzolate di una ragazza
in carrozzella, le due situazioni opposte.
Nella seconda inquadratura primissimo piano delle gambe di una
pargola che si spinge nel dondolo, con il loro moto ondulatorio.
Terza inquadratura, ritroviamo le gambe della ragazza in
carrozzella, immobilizzata nel suo movimento, con la sua ombra
davanti a sé, sempre per rilevare quest’opposizione.
Quarta inquadratura, stessa situazione, dove trova la stessa bimba
in carrozzella in primo piano sulla sinistra, con sguardo desolato, in
secondo piano leggermente sfuocato ritrova la seconda giovane sul
dondolo che gioisce nel suo divertimento in un campo medio.
Termina in modo che tutte e tre le inquadrature finali fanno vedere
la medesima situazione .
209
Stacco.
Giovane a sinistra dell’inquadratura, in un campo medio, primo
piano americano, sguardo verso destra, ma assorto, lontano da quel
luogo.
Si ricollegava, per contiguità narrativa, con la persona
accovacciata, vista prima delle quattro scene in un unico monitor.
2°SEQUENZA
Il tempo che scorre - lo vede rappresentato nella prima
inquadratura dove una ragazza con l’ombrello sotto la pioggia
attende, chi non si sa, magari anche soltanto attraversare la strada,
aspettando l’assenza delle macchine, oppure un amico, conoscente,
familiare… anche in questo caso non ha importanza il fine ultimo,
ma il tempo che si trascorre, nell’aspettare sempre qualche cosa
nell’arco della nostra giornata.
Momenti, avvolti e impercepibili, nella non curanza dell’attesa,
com’è nel nostro vero caso, di attraversare la strada, mentre
abbiamo un subbuglio di pensieri, “passo non passo...” “arriva non
arriva…””non finisce più questa giornata…” “ ma quando
arriveranno le sei…” nello scorrere del tempo, interminabile, che si
protrae nell’ansia di ciò che deve avvenire.
210
Anche in questo caso nel volerla raggiungere con una zoomata in,
lei si sottrae voltando il viso a debita distanza.
Campo lungo.
La ritroviamo con un accenno di sorriso, serena, poco dopo, in un
primo piano dall’alto, ma sempre brevissimo in mezzo allo scorrere
caotico delle chiacchiere.
Terza scena, il tempo lo percepiamo lento nel fluire del fumo dal
particolare di un bastoncino d’incenso, in bianco e nero, per
rendere l’idea di qualche cosa d’atavico, moto eterno delle cose.
Una pausa, che è interrotta nella sua calma dallo scorrere in basso
da destra, di un testo grafico che porta la parola “il tempo scorre”,
ripetuto più volte, fino a terminare con “il tempo scorre lento” ad
una velocità dove è impossibile leggere cosa in realtà ci sia scritto.
Anche in questo caso, l’utilizzo della frase ha l’unico scopo di
evidenziare l’opposizione delle due realtà, proprio per indicare la
conoscenza, e l’apprezzamento di una determinata cosa solo se ne
conosce l’opposto, dal buono/cattivo, bello/brutto, caldo/freddo,
calma/turbolenza.
Il tutto ha una breve durata e ritorna alla realtà, invertendone il
moto a gran velocità, riprendendo i colori naturali, riemergendosi
nel caos.
211
Altra effimera inquadratura, fa percepire la quiete nel tumulto:
Primissimo piano della protagonista, ripreso nella metà destra, con
effetto artistico, immersa nella natura. Nello sfondo, il cielo azzurro
è avvolto in un cinguettio d’uccelli come richiamo. Stacco.
Nero più dicerie.
Fugace ripresa di un’impercepibile ragnatela, dove al vento oscilla
una microscopica preda, in una sonorità compenetrata nella fauna
circostante. Stacco.
Nero.
Rapida porzione d’immagine in macro, mostra il continuo
correre/scappare delle formiche in cerca di cibo, nel loro
movimento in massa, in questo caso soccorrono un loro compagno
ferito.
Una serie d’effimeri quadri, con lo stesso scopo di evidenziare
l’opposizione della quiete, nel caos, come momenti eterni, immobili,
di distensione, ma che alla fine tanto miti quanto appaiono non
sono.
Allora troviamo una donna che mastica il suo pranzo, in primo
piano, del particolare delle dita di una mano inerti, di metà corpo,
dalle spalle ai piedi, immobile, alla “maschera”, distorsione di un
viso, per deridersi d’ironia, in primissimo piano.
212
3°SEQUENZA
Entriamo nella visione – allucinazione, di una donna che, in un
mondo a specchio, di sogno, dove la categoria del tempo è
assolutamente relativa, mai rettilinea, descrive una situazione a
temporale, uno sballamento nel tempo (il video e l’immagine
elettronica creativa), trova l’opposizione delle due sfumature, il
caldo accogliente giallo, di una casa, diventa freddo e scostante,
all’apparire del blu, che ricco di sentimento poco sopporta la
saggezza del giallo intenso, e diventa attivo nell’incorporea
spiritualità, che seguendo la cultura occidentale, ci solleva sulle ali
della fede verso infinite lontananze dello spirito, simbolo cinese
d’immortalità; ed è in questo contesto che appare Shalman, una
qualche cosa d’irreale, inafferrabile, volge l’ultimo saluto alla madre
prima di discendere le scale della vita per entrare in quella
spirituale.
La donna urlante nella disperazione, finisce per comprendere
l’accaduto, e avvolto nell’oscurità dove appare la scritta
disperazione e morte, il blu offuscato ne richiama la superstizione, il
timore, l’abbandono, il lutto, ma sempre simbolo del
soprannaturale e del trascendente. L’uomo appare e scompare
come un’anima sofferente tra l’esplosione di una bomba, e nella
normalità della dichiarazione di una bambina che riferisce
l’accaduto della morte della zia, sotterrata in Afghanistan.
213
La sequenza si termina con il volto, poi soltanto l’occhio della
madre che vigilano, in un mondo di là del normale, della
conoscenza, scompare improvvisamente in una zoomata out, quasi
in fluorescenza, tanto da lasciare impressa l’immagine nella mente
per un po’, ricoprendo lo spazio nero, finché l’occhio non si riabitua
a ciò che è accaduto; mentre l’audio della voce fuori campo, capo
stipite di tutto il filmato, accusa il figlio di essere un terrorista, dove
un dito, sottostante all’occhio della madre, n’appesantisce la causa,
battendo nel tavolo, in una forma nevrotica, semivisibile.
Appartiene tutto ad un altro mondo, dei sogni, dell’allucinazione,
delle visioni.
Si Finisce con la chiusura di una telefonata, nell’appoggio della
cornetta telefonica.
4°SEQUENZA
Conclusione, dopo aver esaminato e percorso tutta questa
molteplicità sentimenti, sensazioni, cause ed effetto, dopo che
l’occhio si è riabituato al nero del quadro, e che il tormento della
terza sequenza termina nel chiudere una telefonata, arriva la
speranza di libertà colonna sonora d’Ennio Morricone nel film Sacco
e Vanzetti,
che ti chiede attraverso un testo grafico, vediamo se superate tutte
le tue avversità, le sofferenze, il periodo steso in un letto senza
alcuna possibilità di muoversi, e ciò che la vita ti conduce anche
214
nella benevolenza, se riesci a trascendere tutto questo, e ti metti a
ballare, nella liberazione momentanea della propria anima.
Nel quadro appare una ragazza in un piano americano, nel campo
medio, in contro luce, con un vestito, rosso della passione, che dona
vita, nel blu del sacro, e il bianco della purezza, balla, in un
montaggio non lineare, che la ritrae prima in un moto rotatorio
verso destra, poi ritorna indietro per ripercorrere lo stesso gesto.
Particolare dei piedi, ombra visibile nel lenzuolo, ritorno alla ragazza
per l’ultima movenza.
Testo grafico che dichiara Speranze di libertà, sempre in bianco e
rosso, rappresentata dal muoversi di un asciugamano, a causa del
vento, con effetto mirror, tanto da assumere delle sembianze di una
razza dal manto multicolor.
In dissolvenza ci doveva essere, l’immagine a 3D di un paesaggio
che chiude il tutto con la presentazione finale di tutti i protagonisti,
nella suddivisione dello schermo in più parti.
I titoli di coda, saranno inseriti sopra una ripresa in loop, una luce
sublime, che scompare nel nulla nelle infinite lontananze dello
spirito, in fuochi fatui.
Tutto il video sarà realizzato in un montaggio discontinuo, per
aprire e chiudere un’azione con forza, e far rimanere attiva
l’attenzione dell’osservatore, e nell’insieme costruire una
narratività simbolica, in un tempo compresso.
215
Il suono sarà selettivo, per un miglior effetto drammatico, o per
creare un’atmosfera e una sfumatura emotiva.
“Solo raramente è possibile cogliere negli accordi soggettivi, l’intera
totalità dell’individuo, ora si proietta il lato fisico, ora intellettuale,
ora spirituale, anche nelle loro molteplici combinazioni”.
Johannes Itten
“Il linguaggio del corpo è molto più incisivo di quello verbale”
“ l’elemento umano agisca più che reciti”
Alessandro Amaducci - Il video e l’immagine elettronica creativa
216
Un giorno scrissi un tema e poi decisi di venderlo a chi me lo chiese,
per paura di chi? Di chi non seppe mai discutere, ma ascoltare bene
ogni pensiero esposto.
Mi sedetti nella sedia che portai da casa alla mia mostra e pensai di
scrivere qualche cosa sulla mia vicina di casa: “Michi, michiii…”;
“Eccola” pensai, “che porta da mangiare al suo micio (un gattino dal
pelo rossastro, o meglio a strisce rossastre – arancioni che miagola
quasi piangendo ogni qual volta che si chiede qualche cosa; fame?”
Non lo so…).
Un giorno, caddi proprio di fronte alla porta della sua casa, sulle
spine di una pianta, dove sotto un po’, collocava il cibo e l’acqua per
bere, anche agli altri gatti del vicinato, dalla bicicletta quasi ferma.
Caddi sfinita a terra e mi fermai un istante, a guardare il soffitto del
caseggiato e il cielo. Attesi qualche minuto e poi mi rialzai.
Arrabbiata sempre con me stessa d’aver ceduto anche all’ultimo
malaugurio che durava ormai da qualche dì, mi disinfettai con della
carta umidificata, e poi parlai a qualche passante per sfogare la mia
collera indirizzata al tutto.
Ammirai la mia vicina di casa che mi versò dell’acqua nel fazzoletto
di carta per pulire un pochino, i graffi.
L’ammirai così tanto, anche quando si muoveva agile in bicicletta,
che alle mie ferite asciugate dal passare di qualche minuto e
rimarginate dalle ore, io l’ammisi: “E’ più agile lei!” “Eh, io ho
l’acqua santa, non vede che sono già tutte guarite le ferite?”. Io risi
un pochino… Qualche giorno più avanti mi raccontò che cadde
anche lei dalla bici ferma sull’altra pianta, a guardare il cielo…
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……………….
Non ho molto d’aggiungere alla gente; speravo di scrivere qualche
cosa che sia per lo meno interessante e, mi sono ritrovata a
sorridere con i denti stretti, a labbra stirate e storte, solo per fare
una smorfia nel mio volto, che molti trovano duro, non docile come
il mio carattere.
Per lo meno devo ammetterlo: “Scrivo meglio di come dipingo”, in
un paese come Spilimbergo, così pieno d’artisti mosaicisti; come mi
disse “un tesorin”, direbbe una signora di una certa età, di pianista.
Eppur la gente legge poco, mi rispose quello che perdette anche un
occhio e che lavora all’Aism ONLUS, di… Aspetta che non mi ricordo
nemmeno più quale…
Va bene dai gente, il prossimo libro lo scriverò o pubblicherò a
schede o quadretti, fate voi.
IL MIO ULTIMO STUDIO SU INTERNET:
218
Come ben si sa internet è una lama a doppio taglio dove la gente
s’informa e dove le brave ragazze si spaventano e scappano.
Va bene dai ho risparmiato un po’ di ADSL, comprensibile ai più
anche quello.
Questo significa la mia ironia per certuni in internet solo per dirvelo
bastava dichiararsi uomo o donna: Io sono donna, per continuare ad
affermare: Slozza quella/o sei tu.
Alla fine la gente in internet provoca, strozza, ammazza, si ama e
ruba, e alla fine la gente in internet rimane anche in niente e
quando legge certe cose scrive e aziona in modo forzato:
Oh ma che bello devo baciare in bocca in modo soft tutte quelle star
di sesso femminile, solo perché sono una donna?! Grazie, ma mi
viene il vomito e l’angoscia anche a me, come per il resto il mio
vicino di posto un dì! Non per altro ma non è il mio fidanzato, a
parte che la sua età è giovane per i miei gusti, tutto sono, tranne
che perversa e pedofila. Tenetevi nel cervello la vostra perversione
grazie, non siete simpatici.
In una società che si chiama web quegli scherzi, non sono idonei,
chiaro?
Il vostro odio o amore nei miei confronti o nei confronti degli altri
lasciatelo là, per favore.
Parlo a quel morto dissanguato ormai da qualche dì: “Forse
nemmeno agli altri due importava sentire il mio buco del sedere
chiuso...”.
219
La doppia azione led ha funzionato! Ma quello che io ho fatto è arte
anche lì! Io compro una lampada che desterà invidia a certuni e
paura ad altri e ammirazione per i più caparbi, questi ultimi mi
lasceranno in pace. Ma nel frattempo due ragazzini di colore, si
apposteranno vicino alle poste, appena uscita dalla galera e
attenderanno in sentinella che arrivi a destinazione il mio pacco
postale con, all’interno le lampade e Nel frattempo attireranno quei
pedofili arrivati in paese con macchina di targa straniera e li
incastreranno per pedofilia, poi spacceranno un poco e si faranno
rincarcerare per sensi di colpa.
ANCHE LE VOSTRE PAURE TENETEVELE PER VOI PER FAVORE.
Non mi va di baciare nemmeno mio padre, né mia madre e
nemmeno mio fratello se ne ho uno. La perversione o il problema è
solo vostro! Io compro casa! Per me non sono persone idonee ad
andare nemmeno in TV, non perché comando io, ma perché sono
assurde!
POSSO DIRE AL MONDO NON MI VA?!!!SONO UN ESSERE UMANO!
Lo scrivo Solo per dirvelo, avete fallito Okay, ma ci sono anch’io
come persona per dirvelo OK è un problema di molti in momenti di
stress, io l’ho rischiato!
ANNI FA HO RISCHIATO LA PAZZIA perché NON MI HANNO
RISPETTATA PER LA MIA TELEPATIA O SENSIBILITà NON NELLA
NORMA, MA NON CERCO COMPRENSIONE, SO CHE VA COSì, LO
DICO IN MODO MOLTO SERENO. SONO MOLTO DONNA.
220
IO NON VI VOGLIO BENE, MA NEMMENO VI ODIO, PER QUELLO
CHE MI HANNO FATTOPROVARE, NON MI ANDAVA PUNTO E
BASTA. NON SO COME DIRLO: Quand’è che superate i vostri
shock? Io non vi perseguito. E’ inutile che mi diciate che mi
credete, non mi credete, è inutile per certi versi, che mi racconto
se il libro in questione non è il mio, perché vorrete solo essere più
artista di me, più boss di me, più tutto di me, eccetto che Donna
più di me; tranne qualche uomo che alla fine lo ammetterà: sono
comunque un uomo, o meglio un Gay.
Scusatemi ancora ma se non lo scrivevo nel mio spazio blog
rischiavo la pazzia, tuttosommato potete non leggermi.
E per finire non mi va nemmeno di baciare un uomo sposato e
nemmeno di essere minacciata con una pistola da sua moglie per
un motivo così ovvio: “Non mi avrà creduta!”
E VA BENE VA, NIENTE COMPRENSIONE, SE SONO BRAVE RAGAZZE
LE VIOLENTATE, SE NON LO SONO LE VIOLENTATE LO STESSO,
DENUNCIE O NON DENUNCIE è LO STESSO, SPERIAMO SOLO CHE
FINISCA TUTTO NEL DIMENTICATOIO COLLETTIVO, perché ho una
mostra da preparare; tutto sommato tutti quei baci non piacciono a
me e lasciamo perdere, il problema è il mio. INTANTO VI FACCIO
VEDERE UN Po’ DI QUADRI A DISEGNO E NON, E HO FINITO.
E TUTTO perché? Perché STAVO LAVORANDO DA MIO ZIO, MA
COME SEMPRE LA PERVERSIONE è LA VOSTRA E IO MI SONO
STUFATA. HO PROTESTATO A QUNDICI ANNI, HO PROTESTATO A
VENT’ANNI, HO PROTESTATO A TRENT’ANNI, MA HO COMPRESO
CHE A MOLTI INVECE PIACE A ME NO! La telepatia è la mia e a me
221
non piace! Non so più come spiegarlo se non con un chissene (chi –
se- ne) frega! Perché? Perché non è esistente!
Per alcuni è solo il male della vostra mente:
“Lo schifo,
che m’appare di fronte al mio cuore, io non lo sopporto…”, disse un
passente un dì: “E’ un’innocente macchiata d’eresia e delirio… e
pazzia”.
MA Sì, IL MIO PENSIERO VARIA A SECONDA DEL CAFFè CHE BEVO!
Con uno è tutto ovvio, con l’altro è un boh non so!
Io da buona caffettona ne bevo di tutti i tipi, anche corretto delle
volte, e più ne producevano, variegati a quel che volevano e più li
bevevo e poi NO.
Alcuni mi fanno venire un bruciore di stomaco che mi girano sempre
le scatole o le palle degli occhi, oltre a rendermi foruncolosa, altri
sono così buoni che finisco per cedere anche ad altre tentazioni,
tipo: dolci, pasticcini, o pizze, pizzette…e così via. Altri mi fanno
ridere tanto e calcolare nessuno, che altri invece mi fanno guardare
tutto e tutti, ma sia da un lato che dall’altro ho riso spesso tanto, ma
il decaffeinato no eh! Quello mi fa stare bene un po’ e poi piango!
Mi libero anche di questo pensiero: “LA GENTE è IN NIENTE, perché
FINGONO DI ESSERE QUELLO O QUELL’ALTRO, RUBANO LE
PASSWORD, RUBANO GLI AMICI, IN INTERNET, RUBANO I
FIDANZATI, RUBANO I MARITI, SI PROSTITUISCONO E COSì VIA… LA
222
GENTE RIMANE IN NIENTE PROPRIO perché ROMPETE LE PALLE
ALLA GENTE!” e se per dispetto lo volete fare ANCORA di più ancora
è un CHI SE NE FREGA MIO! Perché MI AVETE ESAURITA, E SE
GIOCATE SUL FATTO CHE MI AVETE ESAURITA IO VI RIPETO CHI SE
NE FREGA!
Io E RIPETO Io in interne net non stabilisco nessun rapporto, tra un
po’ nemmeno in società, perché MI AVETE STUFATA PROPRIO
TANTO! (NON TUTTI OVVIAMENTE).
DAI, DAI CHE TRA UN Po’ è PRONTA LA MIA MOSTRA D’ARTE, MI
STAVO STUDIANDO GLI ORARI: PENSO MATTINA ORE FORSE, E
POMERIGGIO TARDI FINO A SERA.
MA CHE COSA VUOI TU!
Post n°612 pubblicato il 23 Gennaio 2012 da
begolia78
Tag: Monica Benincà
Nella mia adolescenza c’era chi quelle cose facevano fatica a
deglutirle, chi si vergognava della sua madre naturale che ogni
tanto le stava appresso, e quando andava a vederla di
nascosto, lei la drogava un po’ purché se ne andasse via e poi
piangeva d’essere stata abbandonata.
Alcuni di noi sono finiti al penitenziario, perché scusavano il
vero delinquente. Con qualcuna sono rimasta ugualmente
amica per sempre, finché la morte non ci ha separate.
223
Sono state belle guerre, ma ad alcuni di noi tutta quella
prostituzione faceva proprio schifo, tanti per paura di piacere
a tutti si bucarono proprio di fronte a chi li voleva per voglia
del momento… altri invece si bucavano per l’opposto, e poi si
mettevano a piangere. Eravamo solo dei “boci”; piccoli pargoli
a spasso; tanti di noi rincasavano a casa proprio ciocchi, tanti
invece lo erano già dai loro genitori!
Ve lo sto giurando, delle volte la droga era nel caffè, altre nel
cibo, per il resto io non ho parole del comportamento di certe
persone. Certe erano rotte nel loro di dietro dai loro zii, per
essere star, altri dai loro genitori per finire perseguitati dalle
loro amanti…
Ah sì! Mi manca il rotto nel di dietro da suo cugino che poi ha
buttato nel lago, o nei rimasugli di un lago fangoso, peggio
della fogna, è un bravo fiol, ma quando voleva spacciare in
questo modo lui, lo ha copà! Una volta si è risvegliato, alla
seconda non lo so.
Poi a causa d’internet o delle telecomunicazioni, ci sono quelli
addirittura tra fratelli e sorelle per spacciare, ed io ho finito di
parlare.
Erano tutti amici miei che sono andati in tilt!
224
Sonia sappi che io ti ringrazio sempre per tutti i regalini o
presenti che mi fai, ma non sono una di molte parole.
Grazie per il gufetto in legno, (a chi non lo so) proprio bellino.
Sì, sì, ogni tanto sono anche così.
E PER FINIRE:
Sono così fiera d’essere donna al 100% che non avrei mai creduto
d’adulta di vantarmi d’esserlo. Ne sono fiera. E’ morto mio marito o
ex marito. Si era rotto il suo sesso, piuttosto d’offendermi. Ho
pianto un po’. Gli avete tolto la sua sofferenza d’essere nato da un
meridionale e una prostituta meridionale, in una loro avventura a
Pordenone. Era stato adottato da bambino perché suo padre non se
ne faceva niente. Ogni tanto gli faceva visita…
225
LA SIGNORA DELLA SPAZZATURA
C’era la signora della spazzatura, ogni giorno la vedevo quasi alla
stessa ora passare con una sporta piena di bottiglie dell’acqua
vuote.
Mi chiedevo: “Ma quanta spazzatura ha quella signora anziana,
ricurva nel reggersi con il bastone in mano?”
Pensai guardando dritto di fronte a me il palazzo nuovo con le
colonne dove in mezzo collocarono delle enormi vetrate: “Lì c’è uno
scrittore e sta guardando e studiando la donna della spazzatura che
cammina con appresso la sua piccola, la fedele compagna che la
segue a comando, la gatta, per scrivere un libro”… Il giorno
seguente la donna della spazzatura non c’era più.
….
Il giorno seguente la signora della spazzatura non c’era più.
Mi chiesi: “Che sarà successo? Che disavventura avrà mai avuto? Sta
male?” Non so, aspetto che l’ora si faccia tarda e che la mia sete di
sapere si quieti, nell’attendere che esca ad un’ora diversa.
Aspettai irrequieta nella mia stanza. Aspettai per ore seduta nella
panchina situata all’esterno della stanza o del locale nel quale ci misi
i miei piedi con il primo di luglio di quest’anno.
Risi di me che non riuscivo a stare senza vedere quella signora di
fronte ai miei occhi almeno una volta al dì.
Poi verso le diciannove, quasi le diciotto dell’ora legale, perché
tanto il mio orologio è sempre spostato in avanti per la mia concreta
226
o assurda paura di arrivare sempre in ritardo, lei uscì da quel
portone che nasconde il suo bel giardino con gli alberi, qualche fiore
e geranio nel suo vaso, seguito da alcune piante grasse, dove
possono accomodarsi in pace i suoi gatti.
La guardai e sorrisi: "Signora ma quanta spazzatura ha lei?”
“Bevo molto” è stata la sua risposta: “Picciula, ventù picciula?”….
La Donna della spazzatura con le scarpe rotte,
girava di notte
a spalle innalzate,
la signora anziana l’ascoltava…
227
Grazie a tutti…
Guardatevi allo specchio, presa di consapevolezza di una certezza,
agli ipocriti dico: “Rido perché non so nemmeno io come ho fatto a
ridurmi così!”
228
POESIE IN ISPIRAZIONE A…
“Mi parve
E mi raggiunse di repente al
Mio cammino
Ma non compresi ancora
Dove dovevo andare..”
…
“Stamani mi parve
D’avvertire come
Una cannetta che
Arriva all’ugola
E giocasse con essa
Fino a raggiungere l’esofago; sarà mai
Stata la mia ultima
229
Operazione al
Setto nasale?
Non so, tutti scappavano
Ridenti dalla mia persona.
Non mi raggiunsero.
…
Il cielo di notte
Brulica di magia,
quale scommessa è mai questa?
Un’andatura che non ci conviene.
Baci rubati oltre al Po,
e nulla trasmette più,
nemmeno quello più vero.
Monica Benincà
230
2003 – 2004,
Citazioni dal Libro
IL TEATRO “NÔ”
ORIGINI: Il dramma Nô (significa “Arte”, poi passò a significare
“abilità teatrale”) ha origini religiose, derivando da quella forma di
spettacolo sacro, offerto alle danze pantomime.
Narra la leggenda che la dea del sole Amaterasu, maestra nell’arte
della tintura delle tessili e della coltivazione di riso, sdegnata dalle
scapestrataggini del fratello, si rinchiuse nella caverna del cielo e
lasciò il mondo alle tenebre. “Ovunque si estese la notte eterna…”
Gli altri dei decisero di attrarla fuori di sua spontanea volontà, con
uno spettacolo che ne sollecitasse la curiosità.
Un dio fabbricò uno specchio, un altro delle fasce di canapa, e un
altro una pietra preziosa, e si sospesero questi oggetti presso la
grotta, in un ramo di albero.
Un’altra divinità, Amé – no – Uzume (la terribile femmina del cielo)
si camuffò in maniera bizzarra, e si mise a interpretare una danza
mimica e buffonesca, accompagnata dalle altre divinità che suonano
il tamburo e flauto, urlavano e ridevano.
Amaterasu incuriosita da tanto chiasso, uscì di qualche passo per
chiedere che cosa stesse succedendo; le risposero che avevano
trovato una dea più bella di lei. Inviperita, fece degli altri passi verso
231
l’esterno per vedere chi fosse costei, e si ritrovò la sua immagine
riflessa nello specchio.
Allora placata, uscì del tutto ad ammirare le danze, e la luce ritornò
su quel mondo felice.
Questa danza detta Kagura (arte dei movimenti regolati,
comprendente la danza, la pantomima e l’azione teatrale) sta
all’origine del Nô. È eseguita in certi giorni festivi, da attori
mascherati in abiti di seta damascata, al suono del flauto e del
tamburo intorno ai templi Shintoisti.
Sotto il nome Kagura si comprendono spettacoli di specie diverse,
vanno dalle danze religiose agli esercizi e destrezza dei giocolieri, e
alle farse più spinte; si può dividere in quattro parti.
1- Sato – Kagura avevano l’indole propiziatoria; ordinate dai
sacerdoti dei templi, che ne erano anche i musicisti; con attori,
che con festosi costumi, coprendo il loro volto con maschere di
legno, eseguivano queste danze pantomime.
2- O - Kagura, attuali solo davanti a speciali templi, sono danze
simboliche, con contenuto mitologico, non pantomime,
eseguite da danzatrici del tempio Miko, vestite con pantaloni
rosa lunghi e un mantello bianco, con corona o diadema tra i
capelli che ricadono sulle spalle, con una treccia legata da un
nastro o fibbia. In mano tengono una raganella ornata da
minuscoli campanellini di bronzo ed un ramoscello verde,
benedetti.
232
3- Mi – Kagura solo alla Corte Imperiale. Vi prendono parte
uomini e donne, le loro danze sono commentate da flauti e
Arpe, con venticinque musicisti che cantano da soli o in coro.
Oltre a queste danze in onore dei regnanti antenati, sono
presentate delle offerte alla dea Amaterasu.
4- Dai – Kagura sono degli Shishimai, o meglio “danza dei leoni”
eseguite da attori che avevano il volto coperto da una
maschera, raffigurante il volto di un leone, dalla mascella
mobile per rendere più terribile l’assomiglianza. I brani
buffoneschi, e le danze sono acrobatiche.
Un’altra danza era il Gagaku di origine cinese, significa musica
elegante, ritroveremo molti particolari del Nô: i musicisti di
flauti e tamburi, presenza del coro, mancanza di vere e proprie
scene. Le maschere erano riprese dai teatri grechi, coprendo
l’intera testa e non solo parte del volto, come accadrà nei Nô.
Erano danze strettamente legate al rituale buddistico,
eseguite davanti al tempio buddista di Sakurai, nei giorni di
festività (di Nambutsu e di Urabon, l’8 aprile e il 15 luglio), ma
sviluppandosi in poco tempo ovunque, divennero degli
spettacoli di pubblico divertimento.
Per l’occidente non era facile da comprendere, perché aveva
un alto livello intellettuale, richiedeva una certa conoscenza
per andarlo a vedere.
Ha un vocabolario limitato dei movimenti, disegnati per
essere eseguiti con intenzioni filosofiche, morali o religiose, per
l’ascesa al trono dell’imperatore o matrimoni dei principi della
corona…
233
Ogni
composizione
è
una
melodia
interpretata
simultaneamente da diversi strumenti. Un ponte di passaggio
tra le danze musicali nelle quali i danzatori usavano delle
maschere e uno spettacolo dove si aggiungevano la
pantomima e un’azione sostenuta della parola, fu segnato dalla
danza della scimmia “Sarugaku” che aveva in sé non soltanto
effetti scenici ma anche satirici (teatrali).
Quando questa danza perse il suo contenuto comico,
assumendo l’idea drammatica, furono conosciuti come
spettacoli Nô.
DATI TECNICI: immutabili dal 1435.
Il palcoscenico, il Butai, ha la forma quadrata di venti piedi per
lato (sei metri quadri), a circa tre piedi di altezza. Dalla parte
sinistra di chi guarda, un corridoio di cinquantatré piedi con
una ringhiera da ambedue i lati, conduce diagonalmente, quasi
ad angolo retto col palcoscenico, alla stanza dello specchio.
A destra dello spettatore, troviamo la veranda del coro, lunga,
tre piedi.
Il palcoscenico, dovrebbe essere rivolto verso nord, per
tradizione, in modo che quando l’attore guarda il sorgere della
luna, volta le spalle al coro; quando contempla il tramonto si
rivolga verso quest’ultimo.
Il posto d’onore, riservato alle Maestà Imperiali, si trova di
fronte alla scaletta, e assistono la rappresentazione attraverso
una stuoia di bambù.
CARATTERISTICHE ARCHITETTONICHE:
234
LA STANZA DELLO SPECCHIO, è COSTITUITA DA UN VANO
LUNGO E STRETTO DOVE è APPESO UN GRANDE SPECCHIO,
NEL QUALE GLI ATTORI, SI RIFLETTONO NEL PENETRARE
NELL’ANIMA DEL PERSONAGGIO.
Dietro il palco nella stanza verde, i musicisti, il coro, il clown
ed il suggeritore, si stanno truccando.
Al clown è destinato l’estremo limite destro del ponte, il
suggeritore sta dietro di esso.
Il pubblico siede paziente ai lati del palco, che è un legno
levigato, separato da un semplice spazio simbolico in ghiaia.
Il sipario, composto di cinque vivacissimi colori, è sollevato
mediante due bastoni di bambù incrociati (quando i Nô si
svolgevano all’aperto, servivano per celare ciò che succedeva
dietro le quinte). Sul ponte apparirà, dopo che i musicisti si
siano collocati al loro posto, il deuteragonista, il “Waki”, non
portante la maschera, e successivamente il protagonista
“Shite”.
Sotto il ponte, sulla ghiaia ci sono tre giovani pini, ognuno con
nome diverso, sono un elemento decorativo, per indicare
all’attore la sua posizione. Sono gli unici elementi costruttivi,
perché mancano i praticabili e le quinte.
Fisso anche il fondale dove c’è disegnato un grande pino. Il
palco (butai), è sostenuto da quattro colonne, con ciascuna
una loro funzione ben definita. Sotto vengono posti i vasi di
terracotta, per aumentare la sonorità dei colpi battuti.
La prima colonna è per il primo attore, di fronte c’era quella a
contrassegno, dove erano scritte tutte le informazioni, nome
dell’attore e così via. Al lato opposto ci sta quella del secondo
attore (di solito interpreta il ruolo di ministro dell’imperatore,
235
e ne riprende anche il nome). Ultima colonna a destra è quella
per il suonatore di flauto.
All’estrema destra del fondale troviamo la porta della fretta,
dove al termine esce il primo attore (qual volta sia ucciso), il
clown e il coro; secondo attore, musicisti, a volte il primo,
escono lungo il ponte.
La scaletta serviva ad un inserviente che raccoglieva le giubbe,
lanciate dall’euforia dal pubblico, e la restituiva ai legittimi
proprietari per un oblo.
Confronto con quello greco: Sì pochi attori, non la struttura
del palco, costruita per pochi nel Nô, per molti in quello greco;
il secondo attore (rappresentava il pubblico) non indossa
maschere come in quello greco. Molto diverso per la funzione
del coro: vero attore in quello greco, non indossa qui la
maschera, non si muove modesta importanza nelle sue
funzioni.
ATTORI COSTUMI E SIMBOLI: ATTORI IN ORIGINE DUE LO
SHITE E IL WAKI.
Lo Shite porta la maschera, indossa vesti ricchissime, e se
interpreta ruoli femminili (gli attori erano tutti uomini) orna la
maschera con lunghi crini di cavallo.
Il Waki entra per primo in scena, dopo lo Shite, si fa incontro
ma ad una certa distanza per rispetto, lo invita ad eseguire una
danza, dopo si ritira nel suo angolo di palcoscenico.
Con gli anni s’aggiunge il terzo attore che è il ragazzo, o un
attore comico, il clown. Ma il dramma tipico prevede solo due
attori.
Accanto agli attori ci sono Tsure (ombre), “ i doppi” e i tomo,
servitori degli attori, per il cambio del vestito.
236
Entrambi gli attori prima d’iniziare, eseguono una preghiera di
fronte alle immagini degli antenati, chiedendo perdono se la
loro recitazione non sarà all’altezza (cinque sono le
rappresentazioni).
Dopodiché si specchia immergendosi in un mondo irreale,
un’atmosfera d’irrealtà.
Gli attori vestono costumi molto costosi, quasi volessero
soppiantare la povertà e semplicità della scena; ricordano
quelli dei nobili cortigiani in epoca feudale. Sono costituite in
genere da casacche di broccato che hanno ricamato sul dorso
soggetti più diversi: dagli animali (dove le scaglie di serpente
significa la gelosia femminile), a nuvole, ruscelli, tramonti,
nevicate…
E’ composto di una sottoveste dalle corte maniche e dalla
giacca molto ampia, che secondo la sua forma serve a definire
il rango del personaggio.
Questi ultimi serve anche ad arricchire ed accentuare il passo
di danza, sottolineare la mimica, creando con la loro
determinata atmosfera, un significato simbolico, o
puntualizzare un drammatico conflitto. Il costume è fuori dalla
realtà, quindi può rappresentare un medicante con quest’abito
lussuoso.
Una caratteristica dei Nô sono i tabi, delle calze spesse con
l’alluce separato dalle altre dita, quotidianamente portati con
gli zori o sandali di paglia. Chi indossa i tabi scivolano sul palco,
cosparso di talco.
Per annunciare la fine dell’esecuzione, gli attori alzano un
piede da terra e percuotono con esso il suolo, due o tre volte.
Il simbolismo dei costumi, si riflette nel gestire e nei
sentimenti, esempio: un breve colpo della mano sul ginocchio
237
indica eccitazione, qualche passo avanti è finito il cammino,
l’uscita silenziosa, dalla porta della fretta, il personaggio è
morto. Il frustino tenuto a destra, sta per salire a cavallo,
tenuto invece a sinistra, n’è appena sceso; ombrello adibito
con striscioline di carta bianca, nevica o piove. Strisce rosse che
escono dal naso della maschera, è ferito; vestito a terra,
malato […] persino il diverso movimento del ventaglio ha il suo
significato. I sentimenti più profondi, sono stilizzati in
brevissimi cenni, come il pianto si rappresenta dal lento levare
del braccio e accostare con grazia la mano davanti agli occhi.
Simbolica era anche la messa in scena: una capanna
equivaleva a quattro bastoni di bambù alti due metri, con un
telo bianco alla sommità; solo per strette necessità sono
portati in scena solo accessori ornamentali. Nessun altro
spettacolo al mondo, affida alla fantasia dello spettatore, la
possibilità di magiche visioni, come i Nô.
MASCHERE:
Ha un ruolo fondamentale, è l’anima dell’attore, esprime
sentimenti, dichiara l’età e la condizione sociale. Erano
costruite in legno di sandalo, leggero o legno laccato, dipinto in
nero, rosso, verde e oro.
Capelli e barba erano fatti con crini di cavallo, due cordicelle
di seta legnavano la maschera dietro al capo. Da qui nacquero
volti bernoccoluti, di crudeltà, malvagità, tirannia,
stupidaggine, geni, demoni, dei…
Più tardi s’aggiunse la categoria dei giovani, uomini, donne,
vecchi, vecchie, bambini, saggi, mostri e animali selvatici.
Via, via, si va a sviluppare una maschera neutra, usata per
ruoli di giovani uomini o donne, perché non ha alcuna
238
caratteristica, per cui posso dar luogo a varie espressioni,
avente la bocca mezza aperta, che con il capo verso il basso,
appaia serrate, producendo un’espressione di dolore.
La presenza o meno del rossetto ci indica se la donna è
giovane o meno.
MUSICA:
L’orchestra è composta di quattro strumenti, tre tamburi e un
flauto.
Il primo tamburo (il taiko, a forma di clessidra) è collocato
davanti al suonatore, che sta in posizione genuflessa,
all’estrema sinistra del palcoscenico per chi guarda. Il secondo
tamburo di media grandezza (o-tsuzumi), è situato sul
ginocchio sinistro del musicista, seduto tra il primo e terzo
suonatore. Quest’ultimo tiene in bilico, nella spalla destra il
terzo tamburo più piccolo (ko-tsuzumi), al suo fianco
inginocchiato sta il suonatore di flauto (fue), che è un tubo di
bambù con sette fori. La melodia vera e propria è affidata al
flauto.
Per noi occidentali questa musica, appare come una serie di
sibili e urla gutturali, tonfi, lamenti, clangori improvvisi di
tamburi, alternati o contrappuntati da note sostenute dal
flauto, dagli accenti striduli e laceranti, che accompagnano il
canto di versi disuguali e si disperdono di un tratto in
lontananza per riprendere subito dopo con la primitiva
insistenza.
Il coro era composto di sei, otto o dieci cantori, posti alla
destra del palco.
Cantano il preludio, inizio dell’azione, il pieno dell’azione e la
chiusura.
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La danza ha una funzione estremamente simbolica. Il
turbamento dello spirito, lo stato euforico o ossessivo, l’estasi,
sono, espressi attraverso le movenze della danza, il suono del
flauto, il rombo dei tamburi, e il canto del coro.
Il danzatore in genere non muove quasi mai le braccia,
marcando il ritmo con i soli piedi.
Questi particolari movimenti ritmici pongono in evidenza la
plastica del corpo, inteso come armonico volume scultorio.
I movimenti ritmici dei protagonisti, che esprimono
simbolicamente il turbamento dello spirito, consistono in
duecentocinquanta posizioni di passi differenti, con altrettanti
diversi significati. Soltanto quando si vuole sottolineare, una
certa situazione o accentuare un ritmo, egli alza brevemente il
piede e lo appoggia con una certa violenza, sul pavimento.
IL TEATRO KABUKI
Deriva dalla parola Ka=canto, Bu=danza, Ki= teatro, tecnica e
recitazione.
Inizialmente c’erano tante compagnie, dove gli uomini
interpretavano i ruoli femminili e le donne quelli maschili; ma
ciò provocò sdegno da parte del governo, che proibì alla donna
di recitare fino al 1868.
Così gli attori erano degli adolescenti (prese il nome di
Wakashu – Kabuki ossia “Teatro degli Efebi”) che mettevano in
scena degli sketches, con costumi assai sfarzosi ed attillati. Il
Dokekaka (pagliaccio) portava inizialmente un abito da
sacerdote pieno di strappi, un fazzoletto annodato sotto il
mento, un ventaglio sul capo e dondolava sul fianco un fiasco
240
fatto con zucca; sostituito poi da un abito di seta, pieno di
toppe cucite (Dokekata del Wakashu), simile al nostro
Arlecchino. Questo genere di teatro ebbe un grande successo
che portò alcune compagnie ad unirsi, in una disciplina ferrea e
severa delle tradizioni dei propri maestri, per perfezionarsi
sempre di più nei confronti delle compagnie rivali, mettendo in
scena dei drammi divisi da più atti, e interpretati da quindici
attori, che si specializzarono su ruoli più definiti.
In breve questo è quanto si può raccontare, ma in modo più
esteso potremmo scrivere, che in origine il teatro Kabuki era
ed è di carattere popolare. L’attività di organizzatrice e di
esecutrice di spettacoli a carattere popolare era della bella OKuni. Altri teatri dello stesso genere furono creati ad Osaka ed
a Edo, e presero il nome di Onna-Kabuki, formati
esclusivamente da donne. Tutto questo sdegnò nel 1645 lo
Shôgun Tokugawa che impedì a loro di recitare fino alla caduta
della sua dinastia 1868.
TECNICA E CONTENUTO DEL DRAMMA:
Inizialmente la danza, avente un ruolo predominante, imita
quella Nô, ma distinta da essa per un ritmo più leggero e un
contenuto assai popolare.
Al flauto e ai tamburi si unirono altri strumenti, come quello
del samisen, specie di mandolino a tre corde.
La messinscena era diversa, assai più variata e coloristica, con
un senso della realtà maggiore, che l’attore sviluppa con un
accurato controllo dei gesti mimici e dell’espressione.
Inizialmente mancava il contenuto drammatico, non fu
difficile trovarlo, ispirato dal teatro delle marionette, aggiunse
alla danza un’azione drammatica; abbiamo così drammi
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d’attualità, di vendetta e di ladri… Era nato così il teatro
popolare.
L’orchestra occupa una piattaforma posta in fondo alla scena,
musicisti e cantori, venivano vestiti con colori cupi.
Il palcoscenico di ventisette metri di lunghezza, in una sala
che teneva duemila persone.
Il sipario a strisce nere, verdi, avana, veniva aperto da
un’inserviente, vestito tutto di nero, con il volto coperto da
una maschera nera, mentre un altro attore, ugual vestito,
batteva due legni (Ki) per annunciare lo spettacolo.
Da il lato destro del palco, parte una specie di ponte che
attraversa perpendicolarmente la scena; come una passerella
che prende il nome di “cammino fiorito” (hanamichi) dove a
volte veniva trasformato in un ruscello, ivi autentica acqua
scorre andando a riversarsi in una piattaforma circolare, un
attore, interpretando un pesce, si tuffa davvero.
Gli attori passando prima a passo rallentato e poi veloce,
attraverso questa passerella, vengono a trovarsi in mezzo al
pubblico, posto sui due lati, entrando, entrambi, in massimo
contatto fra loro.
In fondo a sinistra stanno suonatori classici, caratteristici del
Nô; mentre a destra stanno i coreuti e i suonatori di samisen.
Nel 1750, appaiono delle decorazioni, dove si riconoscono le
case dipinte.
Una caratteristica innovazione fu il mawari-butai, una specie
di scena girevole che permetteva diversi cambi di scena, anche
durante un solo atto, o evitavano di far vedere delle scene
troppo crude nonché reali ( simili ai Periaktoi greci così, al
momento che il personaggio fa Harakiri, un giro di pernio lo
nasconde alla vista degli spettatori).
242
Altre innovazioni fu l’apparizione dei spettri e di tutta la
messinscena rispecchiante il reale, con l’uso di macchinari e
rumoristi, per enfatizzare questo scopo.
Di tradi zionale, era rimasto l’attore e la sua recitazione.
Anche qui c’è una stanza degli specchi, dove potersi
concentrare ed entrare nel personaggio, studiandone bene
tutti i mimi. Come per esempio una spia, fingerà di cercare di
continuo qualche cosa dietro le quinte.
Gli attori erano molto famosi, come per esempio Sakata
Tôjurô, che si esercitava anche nella realtà, per interpretare il
ruolo di un ardente innamorato.
Il trucco dell’attore era un vero rito, essendo lungo e
complicato. Non portava la maschera, quindi si sottoponeva
alle tinture di bianco, che ricopriva tutto il viso fino a metà
petto, soprattutto se doveva interpretare il ruolo di una donna.
Poi con regole minuziose, accentuando con matite colorate le
sopracciglia, il naso e la bocca.
Il “delinquente” avrà una tintura scura nelle labbra, per altri
ruoli, i segni blu e rossi sottolineano altre espressioni, mentre il
rosa pallido sarà per interpretare l’adolescente, le sopracciglia
marcate, saranno del crudele e così via. Le guance venivano
gonfiate con delle piccole palle di caucciù all’interno della
bocca.
I costumi sono aderenti al ruolo che l’attore deve assumere,
tant’è che ne indossa più di uno, che sfilerà durante la
rappresentazione con l’aiuto degli inservienti che gli stanno
accanto, vestiti interamente di nero. Quindi gli attori devono
essere molto magri.
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La mimica è importantissima e dev’essere ben conosciuta
dall’attore, dove un gesto può durare anche due minuti, ma
dev’essere in armonia con l’accompagnamento musicale.
Altra figura importante è il suggeritore.
Il teatro Kabuki dha una durata lunghissima, sei ore, dove nel
secolo scorso arriva fino alle dieci ore, gli spettatori, si portano
con se le provviste e sono costretti a lasciare leloro scarpe
all’esterno, dove un custode le terrà d’occhio.
Il kabuki risponde ancora oggi a quel detto nippico dove
“L’arte è il palmo della mano e le arti sono le singole dita”.
Esso è colore. Movimento, simbolo, ritmo e tensione.
Testo tratto dal libro di Pietro Lorenzoni: LA STORIA DEL TEATRO
GIAPPONESE , 1961.
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Racconti del 2009, 2012 - Vissi dieci anni da scrittrice