Politica > News > Esteri - mercoledì 11 febbraio 2015, 18:00
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Rapporti incrinati?
La deleteria amicizia tra Washington e Riyadh
Possibile cambio di rotta della politica saudita con Salman. Cosa faranno gli americani?
Catherine Shakdam
L’amicizia di vecchia data tra Arabia Saudita e Stati Uniti è attualmente messa a dura prova. I due alleati,
che hanno resistito a decenni di guerre, alla Primavera araba e all’ascesa del radicalismo islamico,
si trovano ora di fronte a un difficile bivio, in seguito alla morte del novantenne re Abdullah lo
scorso mese.
Con la salita al trono del fratellastro di Abdullah, l’ex principe ereditario Salman, 79anni, l’Arabia
Saudita non è lo stesso regno di poche settimane fa. Dopo la scomparsa di Abdullah, nuovi attori sono
comparsi sulla scena, ciascuno portando con sé una nuova dinamica. Resta da vedere come Washington si
comporterà e si relazionerà nei confronti di queste nuove correnti politiche.
Se i cambiamenti introdotti da Salman a Riyadh rappresentano un’anticipazione di ciò che verrà,
l’Arabia Saudita è prossima a un drastico cambiamento di tono politico. Pochi giorni dopo l’ascesa
al trono, Salman ha stravolto la corte di Abdullah, destituendo la vecchia guardia per introdurre i nuovi
uomini del re. Emettendo a raffica ben 30 decreti reali, Salman ha degradato e promosso funzionari in
posizioni chiave – a livello militare, religioso, amministrativo. Questi cambiamenti hanno visto i principi
Mishaal e Turki bin Abdullah, due figli di Abdullah, sollevati dalle loro responsabilità, nonché i capi
dell’intelligence e di altre agenzie chiave sostituiti insieme a un rimpasto di governo. L’atto più
eclatante è stata la decisione di sollevare il profilo di due dei principi di terza generazione della
dinastia Saud: il principe Mohammed bin Nayef , vice principe ereditario e ministro degli interni, e
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il principe Mohammed bin Salman, il figlio trentenne del re, che è ora ministro della difesa e capo
della corte reale. Con così tanto potere concentrato nelle mani di Salman e dei suoi familiari, i reali del
paese hanno avvertito il colpo.
Dato che Salman ha consolidato la sua posizione al trono mettendo da parte la linea di sangue di Abdullah
in favore della propria, il Paese potrebbe presto prendere una nuova direzione. Tuttavia di quale direzione
si tratti esattamente, non lo sa ancora nessuno. A causa delle tensioni che sembrano esistere tra i figli del
fondatore della dinastia Al Saud, il potente regno potrebbe cadere vittima di profonde e gravi faide
familiari.
Tuttavia, se i passati attriti tra questi due egemoni sono veritieri, il Medio Oriente e in maggior
misura il mondo potrebbe trovarsi di fronte a un importante cambiamento politico, specialmente
poiché la posizione stessa dell’Arabia Saudita nella regione sembra vacillare. “L’amicizia di
Washington con Riyadh è vincolata dalla capacità di Al Saud di comandare non solo sull’Arabia Saudita
ma sull’intera regione. I cambiamenti interni al regno e il cambiamento delle dinamiche di potere in
Medio oriente e Asia hanno fatto sì che Al Saud perdesse la propria posizione a vantaggio di altre
potenze in ascesa, la Turchia, l’Iran e in certa misura paesi come il Qatar”, ha riferito a L’Indro
Mojtaba Mousavi, analista politico in Iran e caporedattore di Iran’s View.
“Qualora la dinastia dei Saud dovesse cadere, Washington potrebbe ritrovarsi senza amici nella
regione”, ha continuato Mousavi. “Questa è un’evenienza con cui si stanno confrontando i funzionari
USA. Più influenza perderà l’Arabia Saudita in favore delle potenze emergenti, maggiore sarà la
divisione tra gli USA e l’Arabia Saudita. È importante ricordare che questa particolare amicizia è
fondata sugli interessi. Politicamente, culturalmente e ideologicamente, queste due potenze si trovano
agli antipodi, pertanto la loro alleanza cambierà o svanirà a seconda delle esigenze di ciascun attore”.
Nel 2007, Saleh al-Kallab, ex ministro dell’informazione giordano, ha paragonato il rapporto tra gli USA
e l’Arabia Saudita a un “matrimonio cattolico dove non si può ottenere il divorzio,” ma sembra che un
annullamento non possa essere escluso. Ciò che è iniziato circa sessant’anni fa come alleanza
paradisiaca, un perfetto allineamento di geo-strategia, interessi politici e progressi finanziari, si è
trasformato in una dicotomia diplomatica e politica, in cui l’amicizia di Washington con Riyadh ha
impedito ai suoi funzionari di coltivare nuove amicizie e stringere nuovi partenariati strategici nel
Medio Oriente e Africa settentrionale sempre più fluidi.
Nel mondo in rapido cambiamento del post primavera araba, la teocrazia assoluta dell’Arabia Saudita
rappresenta una specie politica in via di estinzione. I governi occidentali – e in particolare gli USA – sono
rimasti intrappolati in una soffocante camicia di forza politica. Dalla forza trainante della storia
all’inerzia delle burocrazie o al potere delle lobby politiche, i funzionari si sono affidati a una vecchia
mentalità e ad antiche alleanze per risolvere problemi nuovi. Questo è il paradosso saudita dell’America,
ma si tratta anche di un’opportunità di cambiamento.
Il presidente e il re
Il vincolo che ha unito gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita durante gli ultimi sessant’anni è stato
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siglato durante un incontro clandestino tra il Presidente USA Franklin D. Roosevelt e il Re Abdul
Aziz ibn Saud a febbraio 1945. Meno di un decennio dopo la scoperta di ampi giacimenti petroliferi
nell’attuale Dharan, a est del regno, nel 1938, gli USA hanno stretto una fondamentale alleanza contro la
Russia sovietica, una mossa che ne avrebbe garantito lo status come superpotenza sovraregionale. Tutti i
presidenti americani e i re sauditi da allora hanno rispettato questa alleanza, uniti dalla consapevolezza
che ciascuno aveva bisogno dell’altro per affermarsi come gigante politico.
Tuttavia, il tempo riesce a corrodere anche la più alta delle montagne. In virtù dell’accordo stipulato da
Roosevelt e Abdul Aziz, gli USA si sono impegnati a comportarsi come alleati militari e guardiani
della dinastia Saud, rappresentando una protezione di sicurezza per l’Arabia Saudita contro
qualsiasi influenza esterna non americana, specialmente l’Unione Sovietica. Gli USA continuano a
rispettare la propria parte dell’accordo vendendo armi e coordinando il relativo programma di sicurezza.
«Da ottobre 2010, al Congresso sono giunte proposte di vendite all’Arabia Saudita di aerei da
combattimento, elicotteri, sistemi di difesa missilistica, missili, bombe, veicoli blindati e relative
attrezzature e servizi, per un valore potenziale di oltre 90 miliardi di dollari», secondo una relazione di
gennaio del Congressional Research Service.
Nel frattempo, una relazione dell’Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma ha classificato l’Arabia
Saudita al quarto posto tra i Paesi che investono di più nelle forze armate a livello mondiale, dopo
la Russia e prima della Francia. Nel 2013, le spese militari saudite hanno raggiunto i 67 miliardi di
dollari, pari ad un aumento del 118 per cento rispetto a febbraio 2004. In cambio, l’Arabia Saudita ha
garantito agli USA, e alla futura alleanza NATO, una fonte energetica affidabile a prezzi ragionevoli, per
contribuire ad attuare quello che sarebbe diventato il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa.
Avrebbe anche assicurato la leadership americana post-bellica mediante la NATO e un’impareggiabile
crescita economica degli USA.
Questa alleanza è stata recentemente messa in gioco contro la Russia, quando Riyadh ha
drasticamente abbattuto i prezzi del petrolio a scapito dell’economia russa per garantire la
supremazia NATO-USA a est del Caucaso. Nel tentativo di ottenere protezione contro la crescente
potenza della Russia sovietica, la dinastia Saud è stata più che contenta di riempire le casse americane di
petrodollari, assicurandosi così un’amicizia duratura con una potenza troppo distante per rappresentare
un’immediata minaccia egemonica.
Come l’autore e giornalista Stephen Kinzer ha ricordato nel suo libro del 2010 “Reset Middle East”,
Abdul Aziz ha ammesso che aveva scelto di allearsi con gli USA anziché con potenze occidentali più
vicine geograficamente. «Voi siete molto lontani», avrebbe detto il re a un funzionario americano. È sulla
base di questa amicizia che gli USA sono riusciti ad allungare le distanze del proprio impero
politico e militare, un impero reso forte dal costante afflusso di petrodollari e dal desiderio
dell’Arabia Saudita di giocare la propria politica energetica mediante l’OPEC. Dato che il libretto
degli assegni saudita si dimostrava così utile per un’America dipendente dai petrodollari, Washington e i
suoi alleati occidentali hanno a lungo chiuso un occhio sui giochi terroristici di Riyadh.
Tuttavia sessant’anni dopo, la politica post-bellica di Roosevelt si è spostata dal proprio asse,
rivelando una spaccatura che potrebbe presto dimostrarsi troppo ampia per essere saldata. Anche
se si sono verificate fratture saudite-statunitensi in precedenza, come ad esempio l’embargo petrolifero
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del 1973, le conseguenze della Primavera araba insieme all’ascesa del radicalismo islamico potrebbero
risultare troppo complicate da gestire per entrambi gli attori.
Jon B. Alterman, direttore del programma per il Medio oriente presso il Centro per gli studi strategici e
internazionali di Washington, ha spiegato al 'New York Times' a gennaio: «I sauditi difficilmente
riescono a pensare a un altro Paese o gruppo di Paesi che possa fare quello che fanno gli Stati Uniti. Allo
tempo stesso, sono però preoccupati dal fatto che le intenzioni degli Stati uniti stanno cambiando in un
momento in cui non hanno alternative e nemmeno la possibilità di trovare un’alternativa».
Un’amicizia logora
Le rotture presenti nel partenariato saudita-statunitense sono diventate più visibili a ottobre 2013,
quando Abdullah ha compiuto il gesto senza precedenti di rifiutare l’ambito posto temporaneo
ottenuto presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU. L’affronto è stato seguito da avvertimenti del
Principe Bandar bin Sultan, capo dei servizi di spionaggio sauditi, che il regno sarebbe uscito
dall’orbita della Casa Bianca per via del fallimento del Presidente Barack Obama di attaccare la Siria per
destituire il Presidente Bashar Assad, nonché per le dispute relative al sostegno della Fratellanza
mussulmana in Egitto nei confronti del Generale Abdel-Fattah el-Sissi, capo delle forze armate egiziane,
e all’esercizio di pressioni nei confronti dell’Iran in merito alle sue presunte ambizioni nucleari.
Secondo Riyadh, Obama si è dimostrato troppo timido nel sostegno dei moderati in Siria, non riuscendo
così a ergersi come barriera nei confronti di un Iran sempre più potente, nemico per antonomasia
dell’Arabia Saudita. «Questo era un messaggio per gli USA, non per l’ONU», Bandar ha riferito ai
diplomatici europei in merito al suo rifiuto di sedere al Consiglio di sicurezza ONU.
Ora, con la scomparsa di Abdullah e la vecchia alleanza su terreno incerto, i funzionari USA si
trovano ad affrontare un conflitto di interessi sempre più complesso nei confronti dell’Arabia
Saudita, in cui i due vecchi amici hanno visioni profondamente diverse su come dovrebbe essere il
Medio Oriente post-primavera araba e su quali politiche perseguire per raggiungere tale obiettivo. Anche
se entrambi i partner potrebbero perseguire gli stessi obiettivi immediati, quali la rimozione di
Assad e un Iran non nucleare, entrambi hanno visioni opposte su come raggiungerli.
Come constatato da David Gardner in un articolo per il 'Financial Times' nel 2013, «se loro [i sauditi]
vogliono ritornare a un prepotente Wahabismo e perseguire un programma reazionario e settario
potenziato dai petrodollari, allora forse è il momento giusto per rivedere questa relazione». Tuttavia, la
politica estera è solo un aspetto del problema. L’amicizia dell’Arabia Saudita è diventata più di un
semplice dilemma politico o la manifestazione dell’eccezionalismo americano, si è trasformata in una
responsabilità politica nociva. Guardando alla guerra al terrore americana e al suo perseguimento di un
nuovo ordine mondiale, è difficile immaginare l’Arabia Saudita come un valido partner, specialmente
quando la sua leadership rappresenta la negazione stessa della democrazia.
Però come ci si libera dalla presa delle realtà finanziare? “Gli Stati Uniti si trovano a un arduo bivio in
merito all’alleanza strategica di lunga data con l’Arabia Saudita. Se Washington continuasse a
sostenere Riyadh inequivocabilmente, gli effetti negativi della politica estera saudita sugli interessi USA
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in Medio Oriente potrebbero ben presto superare quelli positivi,” ha riferito a L’Indro Anthony Biswell,
analista politico sul Medio oriente e consulente esterno per lo Yemen per IHS Global Limited.
Il paradosso saudita-americano
Anche se i funzionari USA in passato possono aver ignorato le problematiche democratiche e in materia
di diritti umani dell’Arabia Saudita per il bene della stabilità regionale e di una prospera economia
mondiale, l’opinione pubblica americana è diventata sempre meno accondiscendete.
Come ha scritto Adam Taylor per il 'Washington Post' lunedì: «Gli Americani e altri occidentali
sembrano essere diventati sempre più scettici circa la natura del loro alleato. In particolare, un’insolita
serie di circostanze, tra cui la temibile ascesa dello Stato islamico, la morte del re saudita Abdullah e le
rinnovate preoccupazioni sui legami sauditi con gli attacchi dell’11 settembre, hanno generato un
significativo dibattito pubblico circa i reali valori dell’Arabia Saudita».
E qui emerge una linea di faglia che i funzionari USA potrebbero non essere più in grado di motivare
razionalmente ai propri concittadini. Infatti, se Washington definisce Assad come un feroce despota
anti-democratico che deve essere deposto, come può giustificare le decapitazioni e fustigazioni
pubbliche della dinastia Saud? Uno dei regimi più oppressivi e dittatoriali della regione, il curriculum
saudita in materia di diritti umani è terrificante e sanguinoso.
In una relazione di gennaio, Adam Coggle, un ricercatore sul Medio oriente e Africa settentrionale per
Human Rights Watch, elenca alcune delle violazioni dei diritti umani di Abdullah, portando alla luce
alcuni dei peggiori segreti di Al Saud: repressione sistematica, severe punizioni corporali e abusi contro i
lavoratori migranti.
L’evento più scioccante è stata la condanna nel 2014 del blogger saudita Raif Badawi alla fustigazione
pubblica. Attivista pro-democratico, Badawi è stato condannato a 1.000 frustate e 10 anni di prigione per
essersi pronunciato contro il regime saudita. Se Washington ha trovato un 'cauto riformatore' in
Abdullah, la narrativa di Salman appare decisamente più reazionaria. Il 26 gennaio, tre giorni dopo
la morte di Abdullah, Salman ha decretato la sua prima decapitazione.
Mousa bin Saeed Ali al-Zahrani, un insegnante accusato di aver violentato diverse ragazze (un crimine
che ha negato fino alla sua morte) è stato pubblicamente decapitato a Jeddah. Al-Zahrani è solo uno delle
cinque persone che si presume siano state decapitate dalla salita al trono di Salman. In tale scenario,
sempre più persone e i media stanno tracciando allarmanti parallelismi tra le pratiche di Al Saud e quelle
dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS).
Rivolgendosi all’International Business Times questo mese, Ali Al-Ahmed, un esperto saudita e direttore
dell’Istituto per gli affari del Golfo con sede a Washington, ha sottolineato: «Sia l’Isis che la monarchia
assoluta saudita si fondano sulla stessa ideologia e sullo stesso sistema di interpretazione religiosa nel
loro approccio punitivo. Il processo giudiziario saudita, se così si può chiamare, è lo stesso
dell’ISIS». Questa potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso: l’ideologia politica dell’Arabia
Saudita non potrà mai conciliarsi con l’idealismo democratico americano. Tuttavia, la dipendenza di
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Washington dal petrolio e dal denaro saudita ha spinto la classe politica a soprassedere alle violazioni dei
diritti umani. «E' ora di interrompere un rapporto intriso di compiacenza da parte dell’Occidente e
traboccante di dollari da parte dei sauditi, uno spettacolo di democrazie liberali che adulano una
monarchia assoluta governata da precetti di teologi medievali», ha dichiarato Gardner nel 'Financial
Times' nel 2013.
Secondo la valutazione dei funzionari USA circa la loro posizione nel regno di Salman attualmente in
carica, questa transizione di potere potrebbe condurre a un cambio di politica o, come l’ha definito
Biswell, a un 'distanziamento politico tattico'.
Traduzione di Maria Ester D'Angelo Rastelli
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