Luisa Clotilde Gentile, CRISM (Centro di Ricerca sulle Istituzioni e le Società Medievali), Torino Dalla costruzione alla crisi dello Stato: festa e politica alla corte di Savoia nel XV secolo Lungo tutto il Quattrocento i duchi di Savoia videro nella festa e nel rituale di corte un mezzo imprescindibile d’affermazione del proprio potere; e la maggiore capacità rappresentativa fu uno degli elementi che concorsero a segnare la loro preminenza su principati vicini e più deboli per estensione territoriale, risorse economiche e peso internazionale, quali i marchesati di Monferrato e di Saluzzo. Assunse così un certo rilievo l’uso politico e propagandistico della festa nelle sue due accezioni, “pubblica” – che vide la festa intrecciarsi e confondersi col rituale principesco – e “privata”, di intrattenimento prevalentemente ludico del principe e della sua cerchia. Per quanto riguarda il primo aspetto, in questa sede accennerò solo di sfuggita a occasioni cerimoniali che certo rivestivano aspetti festivi (tornei, joyeuses entrées…), ma delle quali ho trattato altrove , per soffermarmi invece sui festeggiamenti per un’investitura del 1424; tralascerò inoltre gli aspetti materiali e organizzativi delle feste, oggetto di studi ben documentati da parte di altri . Mi pare più opportuno spostare l’accento sulla festa, in particolare sul banchetto, come luogo della diplomazia e laboratorio di un’etichetta, di un codice di comunicazione volto a definire gerarchie interne alla corte e alla familia principesca. La scelta del Quattrocento come limite cronologico permette di impostare il discorso alla luce di vicende politiche di segno alquanto differente. E’ un secolo aperto dal principato di Amedeo VIII, periodo di costruzione e consolidamento di quel Paßtaat che è lo Stato sabaudo . Su quanto eredita dai predecessori, Amedeo innesta una forte espansione territoriale dello Stato e il rafforzamento della propria autorità: si pensi all’accrescimento del prestigio internazionale riconosciuto dall’imperatore con l’investitura ducale del 1416, all’acquisizione del Genevese, e del Piemonte in seguito all’estinzione dei cugini Savoia-Acaia (1418), con la conseguente svolta politica verso l’Italia padana; o al ruolo di mediatore più volte assunto da Amedeo sui due versanti delle Alpi, vuoi per i legami di parentela coi principi francesi (Berry e Armagnac, Borbone, Borgogna), vuoi per la rete di alleanze variabili coi principi e gli Stati dell’Italia del nord; o ancora, e alla sua elezione papale come Felice V (1439) da parte del concilio di Basilea; si pensi alla prevalenza del potere principesco sulle altre forze sociali, in specie l’aristocrazia, e al consolidamento interno dello Stato nei settori che vanno dall’amministrazione al diritto, con la promulgazione degli Statuta Sabaudiae del 1430 . Amedeo sa fare un uso sapiente del fasto di corte diretto ad alleati, ospiti e sudditi, elaborando una politica d’immagine in cui s’integrano l’attenzione al cerimoniale, il nuovo lustro dato all’Ordine del Collare, rivitalizzato come strumento di controllo dell’aristocrazia, l’impulso alle devozioni dinastiche (vedasi il culto di San Maurizio), il mecenatismo artistico, architettonico e musicale, l’emblematica e l’araldica, la promozione di una storiografia ufficiale e financo, come vedremo più avanti, la cucina. La costruzione statale del primo duca di Savoia non era però definitiva, ed era destinata alla crisi dopo il suo ritiro dalla vita pubblica nel 1434 e l’avvicendamento al potere del figlio Ludovico, prima come luogotenente, poi – all’elezione del padre al soglio pontificio – come duca. La scarsa autorevolezza di Ludovico era vieppiù minata dalle ingerenze paterne nella gestione del principato: e dagli anni ’40 in poi del secolo prese l’avvio un drammatico periodo di fazioni e rivolte nobiliari, contrasti tra il duca e i cadetti della dinastia, rivendicazioni d’autonomia da parte delle varie “patrie” che componevano il ducato, ingerenze esterne di Francia, Borgogna e Milano, forte declino economico alimentato dal continuo stato di guerra. Né la situazione migliorò con l’arrivo al trono del figlio epilettico di Ludovico, Amedeo IX (1465-1472), affiancato dalla sposa Iolanda di Francia: si aprì una serie di brevi principati, reggenze, crisi dinastiche . In tale contesto, così differente da quello iniziale, la festa resta inalterata come strumento politico, pur assumendo valenze differenti, con la preminenza delle forme “interne” alla corte e l’utilizzo della rappresentazione festiva da parte di forze centrifughe. Lo studio di questi mutamenti è facilitato da un corpus documentario cospicuo, vere e proprie serie archivistiche contabili di una continuità e di una consistenza eccezionali: i conti dell’hôtel (l’hospitium, che comprendeva il personale dedito alla persona del principe) dei conti e duchi di Savoia (seconda metà del XIII secolo – XVI secolo) e i conti della tesoreria generale di Savoia . Si tratta però di fonti che per loro natura non sono descrittive, per quanto offrano mille dettagli concreti sulla quotidianità della corte. Dal canto loro, le fonti narrative sono di una laconicità assoluta. Propaganda e controllo della festa: Amedeo VIII e la politica dei banchetti I predecessori di Amedeo VIII gli lasciarono in eredità strumenti cerimoniali e forme festive che egli avrebbe potenziato e rinnovato, pur sempre entro il quadro generale di una rappresentazione del potere tramite i codici della cavalleria. Un esempio può essere il torneo, che agli occhi dei conti di Savoia del XIV secolo dovette sembrare la festa politica per eccellenza, e di cui fu grande promotore su scala locale Amedeo VI (1343–1383), il conte Verde. La cultura cavalleresca di cui Amedeo VI era imbevuto - nella maturità si sarebbe esplicata nell’adesione alla crociata bandita da Urbano V e nella contestuale fondazione dell’Ordine del Collare - era nutrita sin dalla giovinezza da una vera e propria passione tornearia. Il valore del torneo quale adunata di signori e vassalli è palese nei ludi equestri tenutisi a Bourg-en-Bresse per l’Epifania del 1353, a poca distanza da una vittoriosa spedizione nel Vallese e dall’addobbamento cavalleresco del conte diciannovenne. I partecipanti erano tutti potenti alleati o grandi signori savoiardi, bressani e svizzeri, e i dati documentari rivelano l’alto numero di dame e cavalieri accorsi e ospitati presso privati, i cavalli chiesti al balivo di Mâcon o il destriero donato da Galeazzo Visconti, cognato del conte, i festeggiamenti con banchetti e accompagnamento di menestrelli e, finalmente, le vesti verdi che per la prima volta Amedeo indossava intenzionalmente . Non meno significativo era l’uso politico del torneo da parte di rami minori della dinastia. Amedeo d’Acaia, cugino di Amedeo VI, vi ricorse come strumento d’intesa col conte di Savoia, suo alto signore, invitato quale ospite d’onore a giostre tenutesi a Torino e Carignano, a confermare una fedeltà che sino a pochi decenni prima non era scontata. Non mancavano rapporti cavallereschi con i Visconti e gli Este, parenti e vicini: la contabilità del principe d’Acaia registra più scambi di arnesi e cavalli da giostra, e contatti – infruttuosi – con altre signorie padane sotto il medesimo pretesto; tentativi, questi, da contestualizzare entro la ricerca di un proprio spazio politico nell’Italia settentrionale, affrancato dalla tutela dei conti di Savoia . Amedeo VIII non rinunciò a tale genere di spettacolo, praticato su più larga scala: sono ingenti le tracce contabili lasciate dal torneo di Thonon (1422) in onore di Filippo il Buono. Fu l’occasione non solo per accogliere il duca di Borgogna, ma, come tradizione, per ribadire legami di alleanza e vassallaggio attraverso il coinvolgimento nei preparativi – in specie il prestito di cavalli – del duca di Lorena, di Milano, del marchese di Monferrato, del marchese Saluzzo (che era stato da poco costretto a prestare omaggio, a conclusione di una secolare contesa), dei principali ecclesiastici del ducato e del vescovo di Vercelli, che di lì a cinque anni sarebbe entrata a far parte del ducato . La novità risiede nel fatto che le occasioni di pubblico giubilo si moltiplicano e si articolano, e dalla contabilità ducale emerge una nuova coscienza dell’utilità della festa, con una regìa cui partecipano professionalità differenti: artisti e artigiani , musici , araldi , cuochi, sotto la direzione dei maîtres d’hôtel preposti all’amministrazione della casa ducale, al decoro e all’accoglienza degli ospiti illustri , e degli “scudieri di scuderia” ; il tutto nel quadro di una riorganizzazione della corte in termini rappresentativi su modelli francesi, poi sancita dagli Statuti del 1430 . Amedeo segna con la festa i principali successi della sua vita politica: l’investitura ducale da parte di Sigismondo di Lussemburgo a Chambéry (1416) e l’incoronazione papale come Felice V a Basilea (1440). Dai conti della tesoreria si evince che i preparativi per l’investitura imperiale del 1416 furono senza precedenti: le spese per gli appartamenti del castello di Chambéry da destinare all’imperatore e per le sale di rappresentanza coprono i mesi da dicembre 1415 a febbraio 1416, ma già a luglio il pittore veneziano Gregorio Bono era stato incaricato di decorare la cappella del castello ; al cuoco ducale, Pierre Morel detto Boquet, pare venisse commissionato un dolce che voleva rappresentare i rilievi montuosi del nuovo ducato, una sorta di antenato del Mont blanc . Ingenti somme vennero spese per l’argenteria e per i doni da destinare all’imperatore e alla sua cerchia, i primi in termini di importanza da impressionare con l’esibizione di ricchezza. Quanto all’incoronazione papale, Agostino Paravicini Bagliani ci ha restituito lo sfarzo dell’adventus papae celebrato in Basilea nel 1440, con un corteo caratterizzato in senso fortemente temporale e dinastico, dal quale Amedeo emergeva come «un pape des Etats de Savoie» . Un’autorappresentazione lungimirante, visto che pochi anni dopo gli Stati sabaudi sarebbero rimasti pressoché gli ultimi ove si dichiarava obbedienza a Felice. Il duca di Savoia sapeva che le feste, in specie i momenti conviviali, sono il luogo ove stabilire e manifestare le gerarchie. Vi è un documento che pone in evidenza la concezione del potere di Amedeo VIII e la traduzione in gesti e segni della struttura della corte, colta nel pieno delle sue funzioni di rappresentanza. È un’istruzione per l’investitura dei figli, il primogenito Amedeo a principe di Piemonte e il secondogenito Ludovico a conte di Bâgé , tenutasi il 15 agosto 1424 a Thonon: il testo contiene le disposizioni da impartire ai figli del duca (i due avevano all’incirca 12 e 11 anni) su «le mode et contenance» che d’ora in avanti avrebbero regolato i loro rapporti formali . Creato otto anni prima duca di Savoia da Sigismondo di Lussemburgo in riconoscimento della sua fedeltà, Amedeo inaugurava un modo spettacolare per esercitare la propria sovranità, concedendo pubblicamente appannaggi ai figli e titoli comitali ai principali vassalli. In tali occasioni egli si palesava ai grandi del ducato come sola fonte dell’onore: l’istruzione del 1424 prevede che, immediatamente dopo aver investito i figli, il duca «donera l’ordre de chivalerie» a coloro che gli saranno presentati dai due principini, ed è significativo il fatto che François de Challant, primo tra i vassalli a ricevere un titolo per concessione ducale, sia stato creato conte quello stesso anno . Non è difficile immaginare a chi sia indirizzato sul piano internazionale questo spiegamento di sfarzo. Sul palco ai lati del duca, insieme all’arcivescovo di Tarantasia Jean Bertrand , primo ecclesiastico del ducato di Savoia, vi è un «arcevesque de Colloce», che parrebbe identificabile con l’arcivescovo di Kalocza (Ungheria), il neoeletto Giovanni Buondelmonti, più che con un arcivescovo di Colossi . Se così fosse, si potrebbe pensare che il presule fosse a Thonon a nome di Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria oltre che dei Romani; proprio nel 1424 Amedeo si atteggiava a mediatore - in funzione antiviscontea - tra la Serenissima e Sigismondo, del quale si era sempre mostrato il più fedele sostenitore in Italia . Ma vi sono due altre presenze significative: gli ambasciatori di Borgogna e Inghilterra, che rinviano all’altro campo d’azione diplomatica del duca, le trattative tra i principi francesi in piena guerra dei Cent’Anni . L’evento cerimoniale e festivo è quindi pretesto per abboccamenti e negoziazioni, come confermeranno dieci anni dopo i festeggiamenti nuziali per Ludovico di Savoia e Anna di Cipro. Il documento mostra in filigrana la corte – ufficiali ducali inclusi - nella sua funzione glorificatrice del principe e nella sua composizione sociale: «prelatz, barons, banderes, chevaliers et escuiers noutables» nominati insieme ai «conseillers» fanno da coro alla cerimonia. D’altra parte, nella disposizione spaziale del pubblico sulla piazza di Thonon sembra leggersi ancora una distinzione tra chi appartiene alla corte per nascita e chi per ufficio: ambasciatori, baroni, cavalieri e scudieri a destra, prelati, consiglieri e ufficiali ducali a sinistra. La volontà di assegnare a ciascuno il suo spazio gerarchico («chescun selon ce qu’il appartiendra» ) è evidente, e informata dallo stesso spirito delle prescrizioni suntuarie degli Statuti del 1430: a ben vedere, in entrambi i casi quella che si vuole rappresentare sul piano delle apparenze è una società astratta, mentre molte distinzioni vengono nei fatti a cadere con la sovrapposizione di ruoli e provenienza sociale tra «ufficiali» e « gentiluomini », per dirla con Guido Castelnuovo. Proprio in questo torno di tempo (anni ’20 del XV secolo) la corte sta assumendo una più complessa articolazione, poi codificata negli Statuta Sabaudiae del 1430 , parzialmente visibile nel nostro documento. Gli scudieri di scuderia, distinti dai generici «escuiers noutables» del pubblico, precedono il duca nel corteo di apertura e nel corso della cerimonia costituiscono una sorta di “servizio d’ordine” di eccezione: essi sono infatti preposti agli spostamenti e alla sicurezza del principe, ma anche a mansioni diplomatiche, cavalleresche o militari, occupandosi di tutto ciò che è necessario «ad statum guerre» . Tra loro è tal «Martillet Martel» , incaricato di reggere la spada di giustizia dinanzi al duca nel corteo, e che resterà in piedi alla destra del trono, sempre tenendo la spada appoggiata alla spalla. Sul palco, in piedi alla sinistra del duca, è il cancelliere, Jean de Beaufort , che chiama i due piccoli principi alla presenza del padre e impartisce loro un breve discorso morale. Primo per importanza tra i consiglieri ducali, supervisore dell’attività del Consilium cum domino residens e dell’emanazione dei documenti , il cancelliere ribadisce con la sua presenza la pubblicità e la rilevanza politica dell’atto d’investitura (una frase poi cancellata disponeva che si provvedesse a registrare il tutto in «lectres opportunes») . Poichè d’investitura si tratta, non manca l’entourage militare del duca, costituito dai quattro cavalieri indicati come «conduyseurs» o «presenteurs» dei due principini, tutti esponenti dell’antica aristocrazia territoriale all’interno del Consilium domini: un habitué delle corti francesi, il bressano Jean de la Baume, signore di Valusin, ciambellano del re di Francia, del duca di Orléans e di quella di Borgogna ; il fratellastro del duca, Umberto, bastardo di Savoia ; Gaspard II di Montmayeur, maresciallo di Savoia e Manfredo Saluzzo di Cardè, futuro maresciallo . Di costoro, il maresciallo di Montmayeur assume il ruolo di intermediario tra il duca e i principi nell’atto stesso dell’investitura: è lui che passa al duca le due spade utilizzate per investire i figli; è lui che illustra ai giovani Amedeo e Ludovico le «defferences» che d’ora in avanti permetteranno di distinguere le loro rispettive insegne araldiche da quelle del padre, come da questi disposto . Il rilievo dato al maresciallo ricorda come, in seno al consiglio ducale, egli fosse secondo solo al cancelliere per importanza, e fosse il primo ufficiale militare del ducato . Altri personaggi di rilievo: i tre «maistres», maestri o precettori di Amedeo e Ludovico, che, insieme agli scudieri addetti alle loro persone, li seguono da vicino in una circostanza che include passaggi formativi e didascalici, e che in quanto investitura si configura come rito di passaggio; e mastro Raphael dell’Ordine dei Predicatori, che dopo la cerimonia pubblica solennizzerà la festa liturgica – è il giorno dell’Assunzione della Vergine - con un sermone. Non manca una schiera di servitori minori, portieri, camerieri o uscieri, addetti alla sorveglianza dei vari settori della piazza. Tra il personale inferiore, araldi, trombetti e menestrelli, consueti figuranti della magnificenza ducale, hanno la funzione di annunciare l’arrivo dei principini o del duca nei due cortei, di allietare il banchetto finale e celebrare ritualmente la «largesse» del principe: ad ogni buon conto, restano in secondo piano anche là dove – ad esempio nell’annunzio pubblico del nuovo stemma di Amedeo e Ludovico – ci si aspetterebbe un intervento degli araldi, a riprova della funzione cerimoniale e non “tecnica” che tali personaggi rivestivano a corte . Da ultimo, i bambini, una presenza frequente nei solenni ingressi per motivi ad un tempo apotropaici e scritturali , ad ogni buon conto coetanei dei due piccoli principi e dei loro fratelli minori. Dall’investitura traspare una precisa concezione del potere. La sacralità della cerimonia è inquadrata entro due momenti liturgici – la messa grande del mattino e i vespri - e confermata dalla presenza dei due arcivescovi. Come si è già rilevato, tanto nell’allestimento della piazza quanto nella predisposizione dei cortei d’entrata e d’uscita e nel corso di tutto il rito, vi è un’attenzione meticolosa nell’assegnare a ciascuno spazi e distanze. Altrettanto peso hanno le insegne del potere: Amedeo VIII si fa rivestire dell’«habit ducal» , vale a dire del manto e del berretto ducale rosso, foderato d’ermellino – così ce lo consegna la scarna iconografia pervenutaci – per tornare alle vesti consuete a rito concluso, prima dell’inizio dei festeggiamenti. Cambio opportuno, dato che siamo a metà agosto; ma, fatto ben più rilevante, gli Statuti del 1430 specificheranno che il duca deve rivestire le sue insegne «in exequendo actus ducales solennes»; «aliis vero temporibus et diebus iuxta nostre dignitatis decentiam, honesta vestimenta (…) nullaque superflua vel immoderata somptuositate seu minus decenti preciositate, aut aliis inepta compositione notanda» : dettami che riflettono la necessità di manifestare la propria dignità e al contempo di contenere ogni lusso non necessario. Altro Herrschaftszeichen è la spada di giustizia, che il duca fa portare davanti a sé in corteo e che rimane presso di lui nel corso di tutta l’investitura, e non va confusa con le due spade con le quali Amedeo investe i figli: simbolo del potere esecutivo, tra i più amati dai conti e dai duchi di Savoia, la spada di giustizia non è – come le vesti ducali – un’introduzione del 1416, ma ha una sua tradizione più antica . Amedeo VIII ha un alto concetto di un altro linguaggio visivo del potere, l’araldica, che verrà anch’essa inclusa nelle prescrizioni suntuarie degli Statuti: si spiegano così i ben due paragrafi del documento dedicati alla proclamazione pubblica da parte del maresciallo, come primo ufficiale militare del ducato, degli stemmi personali che i due principi assumono al momento dell’investitura. Complemento necessario della cerimonia sono i festeggiamenti che si svolgono dopo il vespro: l’eventuale giostra in presenza della dame e la cena, seguita da danze e canti con rinfresco finale di vino e spezie. È in questo contesto che s’inserisce la sezione forse più interessante del documento: l’insegnamento ai figli del duca dell’etichetta che il padre vuole si applichi d’ora in poi tra loro . Una codificazione senza precedenti documentari in ambito sabaudo, e senza successive attestazioni sino almeno al ducato di Carlo II (1504-1553), attento quanto l’avo Amedeo all’affermazione simbolica del potere . Ma la rilevanza del documento supera i confini del ducato alpino, imponendo un confronto con la fonte più nota per la conoscenza del cerimoniale della corte di Borgogna: il trattatello di Eleonora di Poitiers, dama della contessa di Charolais e di Maria di Borgogna. Jacques Paviot ha restituito all’opera, già conosciuta con il titolo moderno Les honneurs de la cour, il suo titolo originale, Les États de France . Giacché quello che Eleonora illustra con esempi borgognoni è il cerimoniale della corte di Francia («les honneurs royaulx qui se doibvent faire et entretenir en cours des princes, chascun selon son estat») , mutuato dai principi del sangue a imitazione di chi incarnava la regalità. La stesura del libretto risale agli anni ’80 del Quattrocento, ma l’autrice, giunta a corte bambina intorno al 1450, attinge alla propria esperienza personale e a quella di due o tre generazioni precedenti . Ora, il parallelismo tra l’etichetta savoiarda del 1424 e il trattato di Eleonora era stato già rilevato nel 1931 da Francesco Cognasso, che l’aveva interpretato quale testimonianza di una generale adozione di uno stile cortese borgognone da parte di Amedeo VIII (genero di Filippo l’Ardito) . Certo vi erano forti contatti tra i due ducati, ma mi pare che l’archetipo vada cercato a monte, in quella corte di Francia alla quale guardava la stessa Borgogna – poi isolata dalla storiografia come caso paradigmatico – e alla quale il mondo savoiardo era legato da vincoli dinastici plurigenerazionali, politici e amministrativi, culturali. Infine, non si deve perdere di vista la causa prima, politica dell’adozione progressiva in Savoia di siffatte innovazioni rituali: l’assunzione della dignità ducale per investitura imperiale nel 1416. Dall’istruzione appaiono chiaramente un prima, la consuetudine sinora praticata («comme l’ont acoustume»; «comme l’on fait maintenant») e un dopo introdotto dalla volontà ducale, rappresentato da prescrizioni volte al futuro. Gli appellativi, innanzitutto: a voce e per iscritto, fratelli e sorelle dovranno rivolgersi al principe di Piemonte come monseigneur mon frere, venendo ricambiati con beau frere, belle soeur, che già adoperano tra loro . Nelle precedenze il principe di Piemonte, previi reciproci inviti, incederà prima del secondogenito Ludovico, sopravanzandolo di «ung petit pas» onde poterlo tenere per mano . Qui come in Eleonora di Poitiers l’«aller devant» indica una posizione onorifica , mitigata dalla familiarità e dall’uguale condizione significate dal tenersi per mano . Analogamente, a cavallo il giovane Amedeo precederà Ludovico, anche se di poco, «du coul de son cheval». Altro ambito regolamentato è, ovviamente, la tavola: prima del pasto, il principe di Piemonte inviterà fratelli e sorelle a lavarsi le mani e prendere vino e spezie insieme a lui, il che toccherà per prima alla sorella primogenita, Maria , «sanz creance», vale a dire senza assaggio previo da parte di un ufficiale o di un servitore dell’hôtel; tutti gli altri insieme, «sanz creance» se presente il principe, se assente «chescun a creance» come già fanno, ma sempre dopo Maria. Nel caso savoiardo il servizio a tavola «à creance [previo assaggio] et couvert [col piatto coperto d’un tovagliolo]» è un altro discrimine tra il principe e i fratelli, che ne potranno godere, come già fanno, solo in assenza del primogenito: anche nelle corti francesi condividere o meno le spezie, gli assaggi, la lavanda delle mani e il servizio coperto è segno onorifico . Vengono poi le regole di conversazione: il saluto comporterà una lieve genuflessione da parte di fratelli e sorelle dinanzi al principe di Piemonte, che ricambierà con un cenno della testa e delle spalle; mentre tra loro gli altri principini non adotteranno alcun gesto formale, come s’è praticato sinora. Quando il primogenito si rivolgerà ai fratelli, questi si leveranno il cappuccio per primi, imitati poi da Amedeo che se lo rimetterà immediatamente, «et leur apres»; le sorelle si inchineranno come si confà. Da ultimo, le precedenze in presenza del padre, sempre separato dai figli dai «chevaliers» (presumibilmente i grandi aristocratici della corte): se i cavalieri saranno dinanzi al duca i principi precederanno i cavalieri, e quando incederà per primo il duca, seguiranno i cavalieri prima, i principi poi. Dalle prescrizioni del 1424 si evince quale fosse l’importanza accordata ai banchetti, che permettevano anche di mettere in scena la ricchezza del padrone di casa, o dare l’illusione della coesione dell’aristocrazia intorno al principe. Di qui la commissione al maître de cuisine del duca, Chiquart Amiczo, d’un trattato che fosse la summa dell’arte culinaria praticata a corte. Ne nacque nel 1420 il Du fait de cuisine , centrato intorno alla pianificazione di un banchetto di quattro pasti da sei portate ciascuno attraverso il dettaglio di luoghi, addetti, alimenti. L’arte dei cuochi sabaudi si esplicò in una delle occasioni festive più memorabili della corte di Savoia, rimasta paradigmatica grazie alla penna di Johan Huizinga : le nozze di Ludovico, ormai principe di Piemonte, con Anna di Cipro a Chambéry nel 1434, ultimo tentativo da parte di Amedeo VIII di costruire una politica mediterranea . L’anonima Chronica latina Sabaudiae, avversa a Ludovico e ai favoriti ciprioti della moglie , liquida le feste in poche righe: «Hic patre vivente duxit in uxorem Annam filiam regis Cipri, eiusque nuptias in Chamberiaco Amedeus pater mirabiliter solemnisavit» , annotando che erano presenti Ugo cardinale di Cipro, zio della sposa, Renato d’Angiò, Filippo il Buono e «principes et proceres quamplurimi cum amirabili triumpho». Sappiamo da una fonte più loquace e ammirata, l’araldo borgognone Jean Le Fèvre de Saint-Rémy, che erano a Chambéry anche i conti Giovanni di Nevers (della casa di Borgogna) e Giovanni di Clèves (futuro duca), il principe d’Orange (Guglielmo di Chalon-Arlay), il marchese Ludovico I di Saluzzo, il conte Giovanni di Friburgo, gli ambasciatori di Francia con il fiore dell’aristocrazia borgognona e savoiarda . «Car, a la verité, ce fut une grande et noble assemblee de princes et grans seigneurs» , convenuti per sondare il terreno per eventuali accordi, dietro proposta di Amedeo VIII che si poneva come mediatore scrivendo per l’occasione a Carlo VII e al duca di Bedford, reggente d’Inghilterra . Renato d’Angiò era stato peraltro incaricato dal re di Francia, insieme agli ambasciatori ufficiali, di sondare le pretese del duca di Savoia a presiedere una negoziazione da effettuarsi nella Bresse. Il 12 febbraio, il giorno stesso delle nozze, Filippo il Buono siglò un trattato d’alleanza con Amedeo VIII contro il sire di Borbone (figlio del duca Carlo) per una questione di omaggi rifiutati. Anche il principe d’Orange avrebbe avuto i suoi motivi per trattare con gli ambasciatori francesi, dati i suoi tentativi di riconquistare il principato, rafforzare i dominii nel Delfinato ed espandersi tra basso Rodano e Giura . In sostanza, tra un banchetto e l’altro si intrecciarono trattative e abboccamenti, alcuni nello stretto interesse del padrone di casa, altri di respiro più ampio. Questi, unitamente alla mediazione dei padri conciliari di Basilea, avrebbero portato alla riconciliazione tra Borgogna e Borbone nella pace di Arras (1435) . Può sembrare un paradosso che la descrizione delle nozze ci sia pervenuta non dalle fonti sabaude, ma dalla penna di Jean Le Fèvre, araldo del Toson d’Oro al seguito di Filippo il Buono ; in realtà è la dimostrazione di quale fosse l’effetto – e lo scopo – di queste manifestazioni pubbliche di largesse sulla valutazione degli ospiti. Jean Le Fèvre ci ha tramandato non solo la precisa distribuzione dei commensali in sette tavolate ma anche lo svolgimento dei nove banchetti successivi, distribuiti su cinque giorni e punteggiati da splendidi entremets: una forma spettacolare sulla quale Chiquart aveva fatto scuola, che evolveva dai magnifici intermezzi culinari ideati dai mastri di cucina. Le Fèvre ne ricorda diversi: cigni sormontati da bandiere con le armi dei gran signori presenti; araldi del duca di Savoia seguiti da trombetti e da dodici gentiluomini che caracollavano su «chevaulx d’artifice», con le bandiere dei vari dominii del duca; sirene che cantavano «tres gracieusement» al seguito di un veliero, dal quale veniva scaricato del pesce; un cavallo camuffato da elefante con una torre in groppa, dalla quale il dio d’Amore dardeggiava sulle dame rose bianche e vermiglie; uomini selvatici che entravano portando un giardino di rose in cera, in mezzo al quale era legato uno stambecco dalle corna dorate; un uomo travestito da aquila che spuntava da un grande pâté, con uno stormo di colombe che si levarono in volo nell’istante in cui alzò le ali . Non mancarono moresche e momeries, tra cui una moresca di folli inscenata da 18 cavalieri e scudieri vestiti di giallo – il colore del disordine sociale e mentale. Dai conti di tesoreria si evince che per preparare il materiale “scenico” vennero convocati pittori non solo locali, ma anche provenienti da Lione, Montluel, Grenoble, Romans per un totale di 283 giornate lavorative . Nel materiale rientravano bandiere, pennoni, scudi di cartapesta. Poiché forte è nei banchetti, come in tutte le feste in generale, l’insistenza sulla veicolazione araldica di messaggi politici: Chiquart chiede ad esempio che, per onorare al meglio il padrone di casa e gli ospiti, il cuoco s’informi sui loro nomi e sui loro stemmi, che farà raffigurare su bandiere da installare su teste di cinghiale che verranno collocate di fronte a ciascun invitato , e tale principio venne rispettato negli entremets delle nozze di Anna e Ludovico. Ancora nel 1476, il pittore Galliot preparerà per un banchetto a Chambéry in onore della figlia del marchese di Mantova, fidanzata al Delfino, nove castelli di cartapesta, difesi da 60 polli con tanto di elmo, stendardi e scudi alle armi di Luigi XI, Filiberto di Savoia, il Delfino e il marchese . Altro aspetto interessante della politica festiva è la funzione rappresentativa della musica. L’araldo del Toson d’Oro ascoltò con emozione l’esibizione della cappella ducale il giorno successivo alle nozze, durante la messa celebrata dal vescovo di Moriana «tant melodieusement que c’estoit belle chose a oyr», e specifica che la cappella era ritenuta «la meilleur du monde» ; aggiungiamo, anche grazie alla direzione di Guillaume Dufay, che il giorno dopo avrebbe fatto cantare la sua messa Et in terra o Des Quaremiaux . La festa era occasione per un vero e proprio raduno di menestrelli, trombetti, re d’armi, araldi e apprendisti araldi (poursuivants), che tornando ai loro signori, previa un’elargizione in denaro, avrebbero dato la dovuta risonanza all’evento . È quindi in termini di propaganda che pare risolversi il rapporto tra festa e politica alla corte sabauda: al di là di una generica cornice cortese e cavalleresca, né dalle sintetiche fonti contabili, né dal dettagliato racconto di Jean Le Fèvre si coglie nei temi dei banchetti quella complessità allegorica riferita a precise congiunture politiche che s’incontra nella vicina Borgogna, o nei banchetti franco-imperiali illustrati in questa stessa sede da Gerald Schwedler. Altro tratto distintivo della coscienza dell’importanza della festa sotto Amedeo VIII è l’idea della necessità del controllo del fasto, palese negli Statuta Sabaudiae. In essi il duca coniuga il tentativo di unificazione giuridica delle differenti consuetudini dei suoi dominii con un progetto di società volto a disciplinare moralmente dall’alto i costumi e a collocare ciascuno all’interno di una gerarchia di classi e funzioni . Sin dal prologo del libro V, De statu Domini et sue domus inclite , il fine delle prescrizioni suntuarie è definire per il posto di ognuno in una società il cui vertice è il duca, esempio egli stesso di prudenza e moderazione . Particolarità, secondo Neithard Bulst , rispetto a tutta la legislazione suntuaria del tempo è l’approccio sistematico, che resta ineguagliato sino alle Reichspolizeiordungen imperiali del Cinquecento. Tanta preoccupazione si spiega anche con l’intuizione che il fasto e la festa potevano divenire strumenti pericolosi nelle mani dell’alta aristocrazia, con l’assunzione di modelli comportamentali concorrenziali con quello del principe; e vedremo oltre come fosse una preoccupazione giustificata. Si comincia dunque dal duca e dai suoi successori, che rivestiranno gli abiti e le insegne ducali esclusivamente «in exequendo actus ducales solennes», mentre negli altri giorni porteranno «honesta vestimenta», e si procede con prescrizioni per gli altri ceti, restituendo un’immagine parzialmente deformata, piramidale, della società . Non mancano le prescrizioni che interessano lo svolgimento delle feste. Nel paragrafo De moderatione numeri personarum et ferculorum nuptialium , si statuisce ad esempio che se il padre della sposa è un banderese e allestisce il banchetto a casa sua, non s’invitino più di dodici uomini e altrettante donne scelti tra parenti e amici, e dodici uomini della cerchia del genero, senza contare la servitù; se sarà il marito a organizzare le nozze, la sposa non conduca con sé più di sei donne. Altre disposizioni vertono su estrazione sociale degli invitati, numero delle portate e presenza del «vinum ipocratis seu pigmentum», ammesso tra Pasqua e Ognissanti; il numero degli invitati e delle portate varia a seconda che si tratti delle nozze di vavassores, tesorieri, segretari, in sostanza aristocratici o ufficiali, oppure cittadini borghesi, mercanti, notai e altri . Un altro paragrafo istruttivo reca il titolo De moderatione conviviorum ad que dominus invitatur , che concerne l’accoglienza del principe nelle case dei suoi sudditi: il magister hospicii deve badare a che non entrino a pranzare «nisi vocati et electi», gli altri sederanno a tavola in un «tinellum commune» esterno all’edificio in cui si tiene il convivio; non si porteranno in tavola più di «duo fercula dupla cum uno intermisso ad duas assisas». Ad analogo spirito di moderazione sono ispirati i paragrafi De modestia aliorum conviviorum inter amicos fienda e De moderatione commensationum et visitatione puerperarum . Prescrizioni anche queste con una tradizione alle spalle: Bulst ricorda analoghe leggi a Strasburgo all’inizio del Duecento e un’ordinanza di Filippo l’Ardito del 1279 . Dinanzi alla minuziosità del legislatore, resta aperto un problema: quale fu l’applicazione reale di queste norme? Secondo Neithard Bulst l’apparente assenza di ammende nelle fonti contabili ducali non autorizza a dedurre che gli Statuta non venissero applicati. Inoltre, il proposito unificatore del preambolo degli Statuti trovava un limite nel rispetto dichiarato per le consuetudini di alcune province (segnatamente Aosta e Vaud) che costituivano una considerevole porzione dello Stato. Crisi dello Stato e tendenze centrifughe Ludovico, figlio di Amedeo VIII salito al potere dapprima come luogotenente del padre (1434), poi come duca all’abdicazione di Amedeo eletto papa (1439) governa con scarsa autorità, ma a corte mostra uno sviluppato gusto artistico e per l’intrattenimento che gli verrà rinfacciato a fine secolo dalla Chronica latina Sabaudie. L’anonimo cronista enuncia una vera e propria damnatio memoriae di Ludovico: «non curabat de Deo neque de iusticia subditorum, sed gloria sua erat in habendo cantores, musicos in numero copioso et sumptuoso, et sagittarios picardos, quibus dabat quod habebat et quod non habebat, et gloriabatur audire quotidie cantus et cantilenas, nec non baladas, iocositates “falsas” vulgariter appellatas: adeo erat istis deditus, quod non curabat tractare de iusticia neque de bono sive statu dominiorum suorum, ita quod potius voluisset perdere unum bonum castrum, quam perdere unam iocositatem» . Fatte salve le joyeuses entrées , sembra che da Ludovico in poi duchi abbiano puntato non tanto sulle feste pubbliche in ordine alla propaganda, quanto sulla magnificenza interna alla corte e ai suoi intrattenimenti. La cappella musicale, di cui già Amedeo VIII aveva di che andare fiero e che tanta importanza aveva nell’apparato festivo, cresce in numero e struttura, soprattutto sotto Iolanda ; la corte stessa raddoppia i suoi numeri, e sintomatico è il ricorso sempre più insistito al meccanismo del dono per sottolineare rapporti di amicizia con i principi che inviavano i loro ambasciatori e di protezione e fedeltà con l’entourage principesco. Istruttive sono le liste delle strenne che venivano distribuite durante le feste di inizio anno, secondo Alison Rosie da 100 nel 1413 al doppio nel 1433, a 617 nel 1460 sotto Ludovico e Anna, per tornare sui 200-240 sotto Amedeo e Iolanda. Come dire che la magnificenza della corte, anziché esplicitare il potere, «was a façade to cover its vacuum at the centre» . Si può immaginare come tutto ciò andasse a detrimento delle finanze ducali, in un periodo già travagliato di per sé. Eppure, ai richiami del padre che da Losanna nel 1449 gli scrive di tagliare le spese (se ci avesse pensato prima, «res hodie melius se haberent»!), Ludovico risponde che, dinanzi all’andirivieni di nobili condotti a Torino da guerre ed ambasciate, è tenuto a rispettare le apparenze . Di fatto, la pressione sociale inchioda il duca alla largesse. Lo stesso vuoto di potere cui accenna Alison Rosie origina in parte l’uso concorrenziale del linguaggio cerimoniale e festivo da parte di forze centrifughe: i cadetti della dinastia, che nei loro appannaggi indicono feste e tornei non meno splendidi di quelli ducali, entro un più ampio fenomeno di rivendicazione d’autonomia delle singole “patrie” di cui si compone lo Stato sabaudo; e l’alta aristocrazia, ad esempio i valdostani signori di Challant, che imitano modi e tenore di vita principeschi e il cui rapporto con il duca, come scrive Alessandro Barbero, lungi dall’essere improntato a un’incondizionata fedeltà vassallatica si basa piuttosto su una sorta di alleanza . Il problema dei cadetti, a dire il vero, era stato aperto dallo stesso Amedeo nel 1424, con l’assegnazione del Piemonte al primogenito Amedeo e di Bâgé, poi del Genevese al secondogenito Ludovico, che trasmise il secondo appannaggio al fratello Filippo quando egli stesso divenne principe di Piemonte. Ludovico a sua volta, avendo generato una decina di figli maschi, distribuì loro appannaggi: il Genevese a Giano nel 1456, Romont (Vaud) a Giacomo e la Bresse a Filippo nel 1460, con grave danno delle finanze ducali. Negli ultimi anni di governo di Ludovico i tre fratelli emergono come punti di riferimento del malcontento della grande aristocrazia nei confronti del duca e dei suoi favoriti prima, e sotto il successore, l’epilettico Amedeo IX, nei confronti della reggente francese, Iolanda. Nel 1466 Filippo di Bresse e Giano del Genevese, reso omaggio al fratello Amedeo IX, fanno la loro entrata a Ginevra «in triumpho et apparatu mirabili»; qui Giano celebra solennemente le proprie nozze con la figlia del conte di Saint-Pol, connestabile di Francia, con tornei e giostre in cui si distingue mirabilmente il fratello Filippo, tra morti e feriti . Nel tenere i festeggiamenti a Ginevra – dominio vescovile e non sabaudo – anziché ad Annecy, capitale del suo appannaggio, Giano si pone in linea con gli antichi conti di Ginevra. Poco dopo lo stesso Filippo si reca nella Bresse, suo dominio, e fa il sui solenne ingresso a Bourg-en-Bresse . E’ questo il periodo in cui la joyeuse entrée - cerimonia in parte calcata sull’adventus imperiale tardoantico, nella quale il principe prende possesso di una città come Cristo in Gerusalemme - viene utilizzata dai principi subalpini, come dagli altri principi europei per affermare la sacralità del proprio potere e il legame con le comunità . Anche gli Challant ne fanno uso, stando alla Chronique de Challant stesa da Pierre Du Bois , che insiste fortemente sullo stile di vita principesco dei suoi signori. Nel descrivere le prese di possesso dei loro castelli, Du Bois usa le categorie del solenne ingresso. Vediamo alcuni esempi. Jacques de Challant, signore di Aymaville e già patrono di Du Bois – che ne traccia un ritratto eroico – rientra in Val d’Aosta dal pellegrinaggio alla Vergine di Losanna: ad Aosta si annuncia il suo arrivo, e, come si usa per gli ingressi di principi e vescovi, dalla città gli vengono incontro più di 120 notabili a cavallo. Il corteo si apre con Piemont, araldo del duca, e un araldo di Jacques, Tout Monde; vengono poi due trombetti e quattro gentiluomini, con le vesti alle armi di Challant; dodici balestrieri, sei arcieri, Jacques stesso e dietro due paggi, tutti con la sua livrea e il suo emblema. Il paragone fatto dal cronista, che era presente, è inequivocabile: «Il entra si honestement en la cité d’Aouste que, s’il fust esté filz d’ung duc de Savoye, je ne scay que plus il eust faict, ne plus grandement accompaignié» . La prima tappa in città, come d’uso nelle entrate solenni, è in una chiesa: San Francesco, la necropoli di famiglia, ove Jacques prende messa; segue una visita alla cattedrale, e infine l’approdo al suo alloggio. «Et adont eult suffit si le duc de Savoye fust arrivé de la Bresse», ribadisce Du Bois, e, a giustificare il parallelismo, ricorda gli antichi diritti pubblici degli Challant sulla città: Jacques viene ad Aosta «comme en son hostel. Car ceulx de Challand sont visconte d’Aouste anciens» , e siede poi a consiglio con i gentiluomini e gli ufficiali ducali, in un’azione cioè di governo che ricorda in qualche modo il posto degli Challant nelle udienze dei pari della Valle, nelle quali primeggiavano per importanza e rivendicazioni a fronte del duca . Il cronista sente qui il bisogno di lodare l’assoluta fedeltà del conte di Challant al suo principe, ma inevitabilmente la scena evoca un rapporto quasi paritario. Dopo i festeggiamenti di Aosta lo schema si ripete nella prosecuzione del viaggio verso i dominii propri di Jacques, Aymaville e Châtillon. Quivi il conte giunge con un corteo di un centinaio di cavalieri, al suono delle campane, arriva dinanzi alla chiesa, bacia devotamente le reliquie (come usuale nelle entrate solenni); si reca al castello dove è accolto dai suoi ufficiali e dai notabili al grido di «vive Challant» e dopo la declamazione di versi d’occasione - riportati da Du Bois in calce alla cronaca - viene posto in pacifico possesso delle sue terre. La cronaca sembra dire che l’efficacia del fasto si misura su due piani: a casa propria e all’estero. Lo spiegamento di ricchezza e di magnificenza dinanzi a testimoni stranieri, anche se sotto pretesto di difendere l’onore del proprio principe, alimenta il prestigio personale. Jacques è ritratto da Pierre Du Bois come il campione dell’onore del duca di Savoia tra le corti del duca di Orléans (che gli conferì l’Ordre du Camail), di Borbone, di Borgogna e di Milano ; alla lista va aggiunto il Delfino, che nel 1451 lo nominò suo consigliere e ciambellano . Pagine e pagine romanzate vengono dedicate alla sua partecipazione al Pas de l’Arbre de Charlemagne (Digione 1443) «pour l’honneur du pays de Savoie, de l’hostel dont estoit party et aussi pour son honneur»; e tornano i paragoni principeschi: «là tenoit court ouverte et estat de prince comme s’il fust esté filz au duc de Savoye» . La frequentazione assidua dei principi stranieri, il coinvolgimento nel loro sistema degli onori (vedi il Camail), l’incarnazione di valori cavallereschi e nobiliari contribuiscono alla costruzione di un credito politico internazionale, difficilmente discutibile sia in patria, ove Jacques è capofila dell’aristocrazia avversa a Ludovico di Savoia, sia all’estero, ove il conte si è rifugiato con gli altri congiurati per sfuggire al bando del duca . Nella cronaca di famiglia non manca nemmeno un cenno al banchetto come esibizione di potenza. Pierre Du Bois rammenta la parata degli Challant che si trovarono un giorno a convito «a la court de messire Guillaume de Challand evesque de Losaine» : oltre al vescovo, il conte François, il cardinale Antoine de Challant, il maresciallo Boniface de Challant e i due figli, Aimé e François signori di Ussel e Saint-Marcel. Si calcolò per l’occasione la spesa annua di tutti i presenti: circa 100.000 fiorini, a riprova della potenza del clan. Questo per quanto riguarda l’aristocrazia: al principe, comunque, la festa continua ad apparire indispensabile complemento del potere. A fronte della laconicità delle cronache sopravvissute, viene da chiedersi quanto la nostra percezione delle feste alla corte di Savoia – filtrata per questo periodo dai conti di tesoreria – sarebbe differente se ci fosse pervenuta la cronaca della vita di Amedeo VIII di Perrinet Dupin, segretario della duchessa Iolanda. Incaricato ufficialmente di comporre un testo destinato a un pubblico elitario (la duchessa, il giovane erede Filiberto e il suo governatore), e quindi d’intenti non propagandistici ma pedagogici , Dupin redasse un memoriale, o questionario in 56 punti per la raccolta delle testimonianze scritte e soprattutto orali che sarebbero confluite nella sua opera . Diversi punti concernono l’apparato festivo, probabilmente con fini didattici: insegnare al giovane principe la magnificenza dei suoi predecessori, necessaria al suo stato. Ad esempio, le informazioni da raccogliere intorno all’incoronazione papale di Basilea del 1440 vertevano su «le tryomphe que on mena a ceste fete cy faire, les dons qui furent donnez et a qui on les donna; l’assiepte qui fut faicte en table des haulx princes et signeurs, la forme des entremes, maurisques et exbatemens, les noms des maistres d’ostels, de sale, et de cuysine, s’il y eu nul joustes, aussi qui furent les jousteurs, le point qu’ilz vindrent sur les rans, ceulx qui gaignerent les pris» . Si è detto della preminenza, nella seconda metà del Quattrocento, delle feste « interne » alla corte: un fenomeno generalizzato ed esemplificato a fine secolo dalla vicina corte di Ludovico il Moro . Il concorso di nuovi strumenti artistici, teatrali, musicali (gli « indoor entertainments » di Alison Rosie) nell’esplicitazione del potere rientra in una tendenza generale, riscontrabile anche nel campo cerimoniale: la crisi politica stimola il ricorso a nuovi linguaggi simbolici . Tradizioniali o nuovi che siano, erano linguaggi efficaci: la passione festaiola della corte sabauda doveva sortire un qualche effetto sugli ospiti, se l’ambasciatore milanese Antonio Appiano, dopo aver celebrato il Natale con la corte a Vercelli nel 1471, tra messe e banchetti scriveva: «queste feste se solennizzano tanto quasi non se parla de cosa alcuna se non de officii, predichi et fare festa et bona ciera» . È probabile che nel «fare festa» rientrasse la forma ludica con cui la corte di Savoia festeggiava il Natale, riscontrabili anche Oltralpe: l’elezione del Re e della Regina della Fava nella Dodicesima notte, la notte dell’Epifania . Tra i nuovi elementi del fasto ducale che maggiormente colpivano i duchi di Milano vi era l’affezione di Ludovico prima e di Iolanda poi per la cappella musicale: il primo richiamò a corte Dufay, e Iolanda si adoperò per la riorganizzazione e la creazione nel 1469 di un «Collège des Innocents». Mosse vincenti in una storia non certo costellata di successi, tant’è che Galeazzo Maria Sforza e gli Este chiesero più volte a servizio i cantori dei Savoia . Un nuovo linguaggio della festa emerge soprattutto sotto il governo di Iolanda, sorella del re di Francia e sposa di Amedeo IX, che pure deve fronteggiare le mire del fratello, del duca di Borgogna, degli Sforza e dei cognati Savoia in un contesto drammatico. È con Iolanda che l’intrattenimento interno alla corte conosce un impulso inedito, soprattutto sul versante musicale, coreutico e teatrale. Dal 1465 in poi abbiamo notizia di sacre rappresentazioni a Chambéry, alcune delle quali allestite nel cortile del castello: la decollazione di San Giovanni Battista, «la Transfiguration des Trois Rois», «la moraslité de Saincte Suzanne»; nella sua biblioteca la duchessa conserva esemplari del Jeu de Barlaam, del Jeu de sainte Marie a personnaiges, dell’Histoire Saint Alexis a personnaiges, della Descruction de Jerusalem a personnaiges . A corte si fanno frequenti figure di attori professionali e stabili, i farceurs, di pari passo con l’affermarsi della farce come perfetto intrattenimento cortigiano: priva di grandi allegorie politiche, ridicola, di costi contenuti quanto ad allestimento, la farce si basa su poche situazioni e personaggi topici. Il favore di cui godono siffatti spettacoli permette carriere come quella di Perinet de Normes, che viaggia tra le corti di Borgogna e di Savoia, ove gode del titolo di «maitre des farses» o «joyeur des farses de monseigneur», e quella di Renato d’Angiò, ove termina i suoi giorni . Non sono meno apprezzati i divertimenti profani che comportano un mascheramento, cui possono partecipare, se non la duchessa, i figli, gli ospiti e dame e cavalieri della corte: momeries (pantomime in maschera: prima occorrenza ai festeggiamenti di Thonon nel 1422) e moresche (nelle quali i danzatori vestivano da mori, ornati di campanelli: prima occorrenza sotto Amedeo VII, con un «solacium vocatum la moresche»). Se ne contano una trentina almeno nei soli anni 1465-1478 . Moresche e momeries presentano temi più o meno sviluppati a seconda della circostanza, da i nani e i giganti a Davide e Golia, passando per sirene e selvatici. In breve, tra farse e moresche ci si astrae per qualche momento da una realtà precaria e preoccupante, ma si dimostra anche ad eventuali ospiti stranieri che la duchessa detiene ancora i mezzi economici necessari per affermare la sua autorità. Ciò non significa che Iolanda non sia capace di organizzare feste su larga scala, che poco hanno da invidiare a quelle di quarant’anni prima. Nel febbraio del 1475 Federico d’Aragona, principe di Taranto e promesso sposo di Anna, figlia della duchessa, viene accolto a Torino con un seguito di 500 persone, il cui vitto e alloggio viene pagato da Iolanda per i primi tre giorni «a grant triumphe et toute oultrance»; i 75 membri della cerchia del principe sono alloggiati nel palazzo vescovile. Le sole spese del banchetto tenutosi il 7 febbraio in onore dell’ospite ammontano a 400 fiorini, e il disegno della festa si evince dalle annotazioni del tesoriere generale . Intorno alla sala pendono bandiere alle armi di Savoia, re Ferrante (padre del promesso sposo), Borgogna e Milano, un rinvio alla rete di alleanze forzate del momento: il dicembre del ’74 aveva visto riuniti al castello di Moncalieri gli ambasciatori di Sicilia, Milano e Borgogna; e il 30 gennaio dell’anno successivo Iolanda aveva siglato il trattato con i suoi due potenti vicini . In questo quadro, Federico è visto come un’alternativa, oltre che come alleanza di sangue regio, e l’accoglienza deve disporlo nel migliore dei modi nei confronti della futura suocera. Il tema del banchetto, sotto la regìa dello scudiero Lancillotto di Lanzo, è il castello d’amore, appropriato per la circostanza, e a due pittori pinerolesi vengono affidati i materiali “di scena”: nove sirene, un uomo selvatico, un orso, un serpente, un cinghiale e un leone, 100 bandiere e 400 pennoncelli, una fontana d’amore. Per i preparativi, iniziati il 25 gennaio, si è affittata una casa nei pressi del castello di Torino per produrre e immagazzinare i vari artifici. Il castello d’amore, realizzato con drappi bianchi e gialli sostenuti con catene dai cantori della cappella, è munito di quattro torri, in ognuna delle quali siede una dama che getta monete d’oro al pubblico; ogni torre è custodita da una fiera o da un animale chimerico, in compagnia di tre orchi con torce, e alla porta è di sentinella un uomo selvatico. Altri due selvatici attaccano un drago meccanico, mosso da quattro uomini, che esce da un bosco. Al centro del castello è un giardino d’amore, ove si trovano un albero e un serpente e siedono un’imperatrice e due regine. Da ciascuna delle quattro torri zampillano ipocrasso, acqua di rose e acqua ardente alimentata con canfora. Al centro del banchetto è un montone d’oro – ma è difficile pensare a un nesso effettivo col Tosone borgognone, pur protagonista di un entremet molto simile offerto agli ambasciatori del duca di Borgogna nel 1467 – che porta al collo le insegne dell’Ordine di Savoia (futuro dell’Annunziata). Altri dieci collari sono stati realizzati per essere infilati al collo di altrettante lepri servite per entremet. Qui risiede forse il solo richiamo palese alla politica, oltre agli stendardi araldici: in questo periodo l’Ordine del Collare è dormiente, e la sua presenza si spiega unicamente come mezzo per mantenere i Savoia sullo stesso piano dell’ospite. Come rilevato da Alison Rosie, re Ferrante aveva fondato l’ordine dell’Ermellino, di cui aveva insignito Galeazzo Maria Sforza, il nuovo alleato di Iolanda, e l’anno successivo ne sarebbe stato insignito Carlo il Temerario ; i duchi di Borgogna avevano il loro Tosone. In questo complesso sistema degli onori i Savoia non possono mostrarsi sguarniti, anche se, di fatto, lo sono. Circondata da vicini desiderosi di impadronirsi del ducato, Iolanda sa ricorrere in modo creativo alla festa, per affermare che il potere e suoi necessari complementi simbolici sono ancora saldi nelle sue mani. Appendice Le mode qui se doit tenir quant monseigneur donra tiltre a Amé et Loys messeigneurs (1424, agosto 15, Thonon) (Archivio di Stato di Torino, Protocolli ducali, 2, cc. 130r-133v) Edizione del testo – Nell’ortografia sono stati seguiti i criteri proposti dall’École des Chartes (F. Vielliard, O. Guyotjeannin, Conseils pour l’édition des textes médiévaux, I, Paris 2001): si sono posti gli accenti acuti sulle parole la cui ultima sillaba è accentata, fatte salve quelle terminanti in -ee, -ez o -es. Punteggiatura, apostrofi, maiuscole seguono l’uso moderno. Per non appesantire la trascrizione con un numero eccessivo di note, sono state indicate solo le correzioni più significative rispetto alla precedente trascrizione del Piccard, Ceremoniale cit. (vedi supra, nota 22), che comportavano mutamenti di significato del testo. Lo stesso criterio di economia è stato seguito nella segnalazione delle numerose cancellature o correzioni presenti sull’originale. “S’ensuyt le mode qui se doit tenir quant monseigneur donra tiltre a Amé et Loys messeigneurs, qui se doit faire a l’ayde Nostre Seigneur le jour de la feste Assumpcion Nostre Dame, XVe d’aoust mil CCCC XXIIIIe. Et car toutes chouses vertueuses se doyvent commencer a l’onneur et loange de Dieu, monseigneur l’arcevesque de Tharentaise dira la grant messe devant monseigneur et mes ditz seigneurs ses enfans, et s’accomencera a VIII heures. Item sera aprestee, tappissee et tenduee la louge qu’est faite en la place de Thonon, et sera mise une cathedre sur le tribunal au mylieu, haournee comme il appartient, plus haulte que le dit tribunal d’ung degré, qui fera le marchepié. Item se mectrent deux scabeaulx a dextre et a senestre, couvert comme il appartient, et sur le bout des degres seront aprestees II quarreaux, et seront mises II espees couvertes au l’arier dextre de la cathedre de monseigneur. En oultre seront fait banchs bas au pies du tribunal, ou se puissent seoir cent ou VIXX personnes, et garderont les pourtiers la premiere barriere, et les chambriers la secunde, que nulli ne soit si hardy d’entrer dedans, jusques a l’entree de monseigneur. / [c. 130v] Item que une heure apres my jour, monseigneur soit en sa chambre apresté en habit ducal, et descendra en la chambre de parament, ou seront les prelatz, barons, banderes et aultres notables chevaliers et escuiers. Item se mectront devant, pour aler au dit tribunal, premierement les escuiers; secundement Martillet de Martel escuier d’escuirie, qui pourtera l’espee devant monseigneur; tiercement monseigneur ensemble les arcevesques de Tharentaise et de Colloce; quartement les ambaixeurs d’Engleterre et de Bourgogne . Ensemble, les aultres prelatz, barons, banderes, chevaliers et escuiers noutables, qui entreront dedans la seconde louge, et nul aultre, et autres gentilz hommes et noutables personnes desmoront en la premiere louge; et le peuple dehors autour de la dicte louge. Et lors desmouront a la garde de la secunde barriere les huissiers de monseigneur. Item montera premier au tribunal l’escuier d’escuirie et se mectra a la dextre de la cathedre tenant continuelment l’espee sur l’espale. Apres monteront monseigneur et les arcevesques de Tharentaise et Colloce, puis monseigneur le chancellier, qui desmourra a la senestre de la cathedre de monseigneur. Et estres montes, se asseira monseigneur sur sa cathedre, l’arcevesque de Tharentaise sur le scabel a la destre et l’arcevesque de Colloce sur l’aultre scabel a la senestre. Et lors desmouront bas aux pies des degres, les escuiers d’escuirie a garder que nulli ne monte au tribunal ne se tienc sur les degres, forsques ceulx qui comme se suira y seront ordonnes. / [c. 131r] Item fera lez asseoir tous ambaisseurs, prelatz, barons, conseillers, et aultres chevaliers et escuiers noutables, chescun selon ce qu’il appartiendra se faire se puet, les ambaisseurs, barons, chevaliers et escuiers noutables a la destre, les prelatz, conseillers et officiers de monseigneur a la senestre. Item se fera une voye ou IIIIe personnes joinctes puissent aler au long de la louge, sanz aucun empeschement. Et en cest moyen seront messires en la sale vestiz et haournes le mieulx que faire se pourra, acompaignies du seigneur de Valefin , du bastard de Savoye, du mareschal de Montmeur, et de messires Manfroy de Saluces etc. Et de la se partiront premierement heraulx, trompetes et menestries. Secundement tous les enfans. Tiercement mes ditz seigneurs soy menant par les mains ung dimy pas, alant Amé monseigneur plus avant, et decousté eulx les ditz IIII chevaliers. Et apres eulx leurs III maistres, et ensuyvant leurs escuiers serviteurs, et aultres noutables qui les vouldront acompaignier, et demouront, et se tiendront heraulx, trompetes et menestriers au dehors la secunde barrie, et les enfans qui vont devant entreront dendans la II barriere. / [c. 131v] Item entreront mes dits seigneurs ensemble les IIII chevaliers conduysans jusques au premier degré du tribunal; la s’agenolieront, et feront leur reverence estant en geneux, jusques monseigneur les faise demander par le chancellier, et se leveront les prelatz de sur leurs scabeaulx, et tous les aultres, si toust que messeigneurs entreront par la IIe barriere. Item monteront mes ditz seigneurs ensemble jusques au plus hault degré avec leurs IIII conduyseurs et plus bas leurs III maistres, sanz aultres, et s’ageneulierent sur les deux quarreaulx qui seront aprestes; et lors monseigneur les fera lever, et les feront monter sur le tribunal les II arcevesques, estans en pié continuelment, et desmouront les ditz IIII chevaliers presenteurs en pies sur le plus hault degré, et derreinier eulx les III maistres. Lors par le commandement de monseigneur commencera le chancellier une breve collacion appartenant a la matiere, laquelle collacion faite se rageneulieront mes dits seigneurs ensemble les IIII chevaliers presenteurs, dont le seigneur de Valefin respondra par messeigneurs que a l’ayde de Dieu ilz en suyvront les ovres et commandemens qui leur ont esté fait, dictes par la bouche du chancellier, par maniere que Dieu et le monde l’auront agré, et monseigneur en aura bon rapport, et aultres bonnes paroules qu’il saura bien dire a ce convenables, en le remerciant de l’onneur, bien et exaltacion qu’il plait a monseigneur de leur vouloir fere. Ces chouses esté dictes, monseigneur leur demandera: «Amé et Loys, fares vous les chouses que le seigneur de Valefin a dictes de vostre part ?» Lors respondront mes dits seigneurs tous deulx: «Oy monseigneur, a l’ayde de Dieu et mieulx se faire le pouras », et lors l’escuier d’escuirie baillera les deux espees au mareschal, lequel / [c. 132r] la premiere bailliera toute nue en la main de monseigneur, de laquelle sera envesty Amé monseigneur de la princee de Piemont ; apres bailliera semblablement l’aultre espee a monseigneur, de laquelle il envestira Loys monseigneur de la conté de Bagié ; et ce fait, les feront lever et baillieront les espees dont seront envestys chescun a son maistre , auxquelx le mareschal bailliera les feurres . Item leur sera dit par le mareschal de Montmeur que, affin qui soyt difference d’eux quant ilz seront en fait d’armes et soyent cogneux l’ung de l’aultre, veult monseigneur que Amé de Savoye pourte en ses armes et enseignes les armes de Savoye, et par defference III lembeaulx d’azu, ainsi que les ont acoustume de pourter les esnes filz, et le tymbre dessur l’eaume sera parelement que le pourte monseigneur, excepté par defference III lembeaux d’azu, sur l’ar(…) des eles . Item dira le dit mareschal que pour semblables raysons monseigneur veult que les armes de Loys de Savoye soyent les armes de Savoye et par defference le bour de l’escuz d’azu endenté, et le tymbre sera ung demy lyon rampant d’armenes couronné d’or. / [c. 132v] Item se aucuns chevaliers se veulent faire, messeigneurs descendront vers eulx, et les presenteront a monseigneur sur le tribunal, et la monseigneur se levera en pies et leur donera l’ordre de chivalerie; et commencant faire les chivaliers sonneront trompetes et menestrier. Complies ces chouses, se partira monseigneur, heraulx, trompetes et menestries devant, les escuiers apres, l’escuier et l’espee devant monseigneur, puis monseigneur et les deux arcevesques, apres messeigneurs, et ensuyant les ambaisseurs, prelatz, barons et aultres chivaliers et escuiers, et se retraira monseigneur en sa chambre pour soy vestir de ses robes acoustumees. Item entant que monseigneur se desabillera, pour la solempnite de la feste sera apprestee une cathedre en la louge ou preschera maistre Raphael de l’ordre des Preschieurs, et en bas seront apprestees la cathedre pour seoir monseigneur, les seiges par messeigneurs et aussi des deulx arcevesques, et se reasseront si seront aussi en leurs places les ambaisseurs etc. Item furny le sarmon, menera monseigneur messeigneurs ensemble les prelatz ouyr vespres. Vespres dictes, ceulx que monseigneur ordonnera parleront a messeigneurs ses enfans le moude veult qu’ilz tiennent ensemble, qui seront telles. / et contenance qu’il [c. 133r] Premierement que tous messeigneurs et damyselles appelleront en plain et escrivant Amé monseigneur «monseigneur mon frere», et lui les appellera «beau frere» et «belle suer», et aussi les aultres appelleront l’ung l’aultre «beau frere» et «belle suer» comme ilz ont acoustume. Item en alant a pies, faites tousiours les semonsses appartenans, Amé monseigneur ira devant Loys monseigneur ung petit pas, par maniere que a son ayse il le puisse tenir par la main, et en chevauchant le passera du coul de son chival. / [c. 131v] Item a laver les mains et a pranre vin et espieces, Amé monseigneur semondra mes aultres seigneurs et damoyselles, et apres aucunes semonsses ma damoyselle Marie, sanz creance a elle, lavera et pranra vin et espieces avec luy; tous les aultres laveront et pranront vin et espices, en sa presence sanz creance ensamble, et en son absence chescun a creance comme font maintenant, tousiours servant ma dicte damoyselle Marie devant. Item a table, quant seront ensemble, les servira Amé monseigneur premier a creance et couvert, et tous les aultres apres sans creance et couverte, et en son absence les servira chescun a couvert et a creance, comme l’on fait maintenant. Et quant a leur contenances, en conversant ensemble, en venant et prenant congié, tous mes aultres seigneurs et damoyselles s’enchineront ung petit des geneulx devant Amé monseigneur. Et lui semblablement envers eulx de la teste et des espales, et les aultres entre eux n’en feront riens, jusques comme l’ont acoustume. Et tousiours quant Amé monseigneur semondra mes aultres seigneurs, ils ousteront leur champirons et lui aussi, puis le remectra et leur apres, et mes damoyselles s’enchineront comme il appartient. Item quant les cas aviendront que les chevaliers devront aler devant monseigneur, que messeigneurs iront devant, et quant les chevalliers iront derrierement messeigneurs iront apres. / [c. 133r] Et s’il avoit aucuns bons compaignions envoyous de rompre l’ung sur l’aultre aucunes lances a la jouste encontinent apres vespres, ilz seroyent regardes des dames. , Item a V heures sera apreste le soupper, et apres feront tant messeigneurs que heraulx, trompetes et menestries crieront «largesse !», puis iront avec monseigneur ensemble mes damoyselles en la louge, ou sera apresté pour danser et pour chanter; puis seront demandes vin et espieces, et pranra de monseigneur congié qui vouldra pour aler dormir.