Bénin, dove nasce il Vudù
Ennesima trasferta africana al seguito della Nazionale di calcio Algerina. Questa volta la meta sarà
il Bénin, la missione invece una qualificazione per i Campionati del Mondo di Brasile 2014. La
Repubblica del Bénin è uno stato dell' Africa Occidentale già conosciuto con il nome di Dahomey.
Il Paese si affaccia a sud sull’omonimo golfo e confina ad ovest con il Togo, ad est con la Nigeria
ed a nord con Burkina Faso e Niger. La Repubblica del Bénin niente ha a che fare con il Regno del
Bénin, conosciuto anche come Regno di Edo, che è oggi scomparso e che ebbe origine nella zona
ad ovest del delta del fiume Niger. Dell’antico Regno del Bénin rimane ai giorni nostri lo Stato di
Edo, che fa parte della Repubblica Federale di Nigeria ed ha la sua capitale a Bénin City. La lingua
ufficiale del Paese è il Francese, dato che l’antico regno Africano del Dahomey entrò a far parte
dell’Africa Occidentale Francese nel 1899. Solamente nel 1958 la Francia garantì alla nuova
Repubblica del Dahomey l’autonomia, mentre la sua piena indipendenza arrivò nel 1960.
L’indipendenza, caratterizzata da un periodo di forti tensioni sociali e politiche, fu costellata da una
serie di golpe e cambi di regime, che durarono sino a quando Mathieu Kérékou non assunse il
controllo del Paese. Kérékou instaurò un regime di tipo marxista, rinominando il Paese Repubblica
Popolare del Bénin. Oltre al Francese, le lingue autoctone maggiormente diffuse sono il Fon e lo
Yoruba. Il Paese è povero, il PIL procapite è di 1.620 $ annui (dati del 2011), il che lo piazza al
156° posto della classifica mondiale. Malauguratamente in compenso è alto il numero di figli per
nucleo familiare che si attestava, sempre secondo i dati del 2011, a ben 5.2. Il parlamento del Benin
è costituito dall'Assemblea Nazionale eletta ogni quattro anni. Il capo del governo e dello Stato è il
Presidente, che è eletto in elezioni presidenziali che si tengono separatamente ogni cinque anni.
Un agricoltura di sussistenza ma …
Appena sbarcato all’aeroporto internazionale di Cotonou, l’unico del Paese, vengo aggredito da un
caldo, e soprattutto da un’umidità, soffocanti. L’aeroporto è ne più ne meno come tutti gli altri
aeroporti dell’Africa nera. D’internazionale ha poco o niente e sembra piuttosto un pittoresco luogo
d’incontro di mille razze e personaggi del tutto improbabili ma qui paradossalmente tanto reali da
rappresentare la normalità. Le cose non cominciano bene, aspettiamo per ben due ore i nostri
bagagli, anche se siamo uno dei pochi aerei atterrati sin’ora in giornata. Dopo un po’ comincio a
sospettare che sia una trovata locale che possa far parte della strategia pre-competitiva per
mettere, sin dall’inizio, pressione alla squadra algerina. Quando ero ormai convinto di questo,
debbo mio malgrado ricredermi quando un funzionario della dogana viene a scusarsi adducendo
come giustificazione il fatto che qui all’aeroporto internazionale Bernardin Cardinal Gantin De
Cadjehoun sono attrezzati per far fronte allo scalo di solamente due voli giornalieri…ed il nostro
era il terzo. Arrivo in albergo già stanchissimo, ma non posso proprio rinunciare a fare una prima
visita alla città. Cotonou, con i suoi 120.000 abitanti, è la città più grande del Bénin, situata nel
Dipartimento del Litorale, è un agglomerato urbano verdissimo e caotico. Oltre ad ospitare l’unico,
anche se invero non molto efficiente, aeroporto internazionale, possiede anche un importante porto
marittimo. Il nome “Cotonou”deriva da un'espressione in lingua Fon che significa "presso il lago
dei morti" , facendo riferimento alla laguna che lambisce la città. Il riferimento ai morti è invece
legato alla credenza che le stelle cadenti rappresentino le anime dei morti che precipitano negli
inferi. Una leggenda Béninoise narra infatti che quando fu fondata Cotonou, le luci del villaggio
lacustre di Ganvié, un villaggio di palafitte che sorge dalla parte opposta della laguna stessa, si
riflettessero nelle sue acque, suggerendo in tal modo l'idea delle stelle cadenti. Esco a piedi
dall’albergo, debbo dire più che dignitoso per essere a queste latitudini , e mi incammino per un
lungo, largo e malmesso viale che va in direzione del porto e del centro città. Sono ormai le sei di
sera ma la calura è ancora insopportabile e l’umidità mi fa grondare di sudore già dopo solamente
poche centinaia di metri. Noto immediatamente che lungo il viale, da entrambi i lati, ogni pur
piccolo spazio verde è coltivato. E’ un susseguirsi di orti e piccole piantagioni, ordinate e razionali,
che godono di un approvvigionamento idrico più che eccellente a giudicare dalla rigogliosità messa
in mostra da pomodori, insalata, cavoli, piselli che si allineano in lunghe ed ordinatissime file. Un
esempio straordinario di agricoltura di sussistenza, raro a vedersi in Africa, e certamente favorito
dall’abbondante risorsa idrica della zona costiera, il nord del Paese è invece costituito
principalmente da altipiani semi aridi e da savana. Avevo già notato atterrando una gran presenza di
acqua, con una fitta rete di fiumi imponenti , laghi, rivi e rigagnoli che apportavano alla zona questa
risorsa essenziale così rara e preziosa da queste parti del mondo. In verità dubitavo della capacità
dei Béninois di saperne trar profitto. Mi sono immediatamente dovuto ricredere. Arrivo sino alla
zona portuale, uguale a tante altre e decido di lasciare il viale e dirigermi verso la spiaggia, che
dall’aereo mi sembrava straordinariamente bella. Anche qui mi sono dovuto però immediatamente
ricredere. Questa volta in negativo. La lordura del litorale avrebbe potuto offendere mortalmente
anche la coscienza ecologica meno sensibile. Faccio poche centinaia di metri e decido che forse è
meglio tornare ad ammirare piselli, patate e melanzane.
Tutta la miseria del mondo
Il mattino dopo affitto una macchina per visitare la città. Spiego al mio autista, che di nome fa
Alexis, che vorrei fare delle fotografie a qualche zona particolare della città e lui con una semplicità
disarmante mi risponde: “bene allora andiamo nei quartieri poveri” . Non ci vuole poi molto a
capire che in questo Paese il vero spettacolo è in effetti la povertà. In fondo me ne vergogno un po’.
Io la fotografo e loro ne muoiono. Alexis appartiene all’etnia dei Fon, il gruppo etnico più
numeroso del Bénin, ma come quasi tutti gli abitanti del Paese parla un perfetto francese. Dopo
circa una ventina di minuti di viaggio, durante i quali percorriamo strade e quartieri del tutto
anonimi, o meglio pervasi di quell’ “africanità” che per me è divenuta ormai consueta, arriviamo in
prossimità del Marché Dantorpka, il quartiere del “gran mercato”. Dantorpka è enorme, baracche,
casupole, tende e banchi di ogni fattezza e dimensione si estendono sino al bordo della grande
laguna. La concentrazione di gente è impressionate. Quella di povertà pure. Ad ogni semaforo
veniamo letteralmente assaliti da orde di mendicanti e poveri infelici storpi, veri o falsi, di ogni
tipo. In tutta l’Africa non avevo mai visto nulla di simile, nemmeno in Paesi poverissimi come la
Repubblica Centro Africana od il Burkina Faso. Tutta la miseria del mondo sembra essersi
concentrata qui, tra queste strade polverose perennemente spazzate dall’ harmattan, un vento secco
ed impetuoso che solleva nuvole di terra rossissima, e questa gente disperata. La laguna è ridotta ad
una cloaca a cielo aperto, immensi cumuli di nefandezze di ogni sorta si riversano nelle sue acque
fangose di un colore marrone intenso. Unica nota meno triste le tante pittoresche piroghe che la
solcano. Dal centro di Dantorpka diparte la lunghissima strada di terra battuta, anch’essa di un
colore rosso mattone acceso, che porta sino in Nigeria. Il mio autista mi dice che è una strada
frequentatissima ma nel contempo pericolosissima, come d’altro canto anche la Nigeria stessa.
Capisco immediatamente che i Béninois non nutrono un grande feeling per il loro ingombranti
vicini, anche se la maggior parte della loro economia scalcinata si basa sul traffico di petrolio tra
Niger e Nigeria, dal momento che il Bénin funge da cuscinetto geografico tra i due Paesi.
Arriviamo in una zona in cui i poveri sembrano ancor più poveri di tutta quella misera umanità nella
quale siamo stati immersi sin’ora. Alexis mi spiega che quella è la zona del mercato riservata agli
emigrati, provenienti dagli stati confinanti, Togo, Niger, Burkina Faso e Nigeria. Anche in Sud
Africa Michael, la mia guida, mi spiegò che i più poveri, gli abitanti delle sondela, erano gli
emigrati, lì soprattutto provenienti da Botswana, Zimbabwe, Mozambico, Namibia. E’ strano che in
questi Paesi, in cui Dio sembra aver dimenticato la sua misericordia, i “poveri” siano sempre gli
altri. Faccio finta di crederci. Dopo un largo giro stiamo per uscire dalla zona del mercato, ma
Alexis fa ancora una piccola deviazione per arrivare alla Moschea piccola ed alla Moschea grande.
Qui la maggioranza della popolazione, oltre il 40%, è cattolica ma ben il 25 % è Mussulmana.
L’Islam, è la seconda religione del Paese, seguito dalla religione, perché qui è considerato come
tale, Vudù che raccoglie oltre il 17% degli abitanti del Paese. Alexis mi spiega che la Moschea
grande è frequentata dei ricchi, mentre quella piccola è il luogo di culto dei poveri. Io vedo poveri
dappertutto. Comincio a chiedere informazioni alla mia guida riguardo al Vudù. Ne parla senza
remore di sorta, mi spiega, come già sapevo, che qui è una vera e propria religione, una religione
“buona” come tiene a sottolinearmi, che niente ha a che fare con l’attributo di magia nera che le
conferiamo noi Europei. Continua spiegandomi che in Bénin esistono delle vere e proprie “capitali”
del Vudù, la vicina Porto Novo, e Ouhida a sud di Cotonou. La nostra conversazione viene
bruscamente interrotta da un poliziotto che ci sbarra la strada parandosi dinnanzi alla vettura. Con
toni più bruschi che decisi chiede a Alexis patente, libretto e carte grise. Contesta al mio autista il
fatto di guidare con una patente Bénonoise invece che con un permis de conduire international.
Dopo una decina di minuti di discussione dai toni che si fanno sempre più concitati, in cui Alexis
sostiene giustamente l’assurdità della tesi, senza peraltro ottenere nessun risultato se non quello
d’inacidire ancor più il tutore dell’ordine che stava diventando sempre più intrattabile, il mio
chauffeur, rassegnato, mi spiega che siccome il buon poliziotto ha visto sulla macchina un
passeggero bianco, ossia me, ha pensato bene di arrotondare il suo magro salario. Costo
dell’operazione per il rilascio dieci dollari. Pago, la patente locale riacquisisce la sua validità e noi
siamo liberi di proseguire. Sulla strada del ritorno le emittenti locali sulle quali la radio è
sintonizzata non fanno altro che parlare in maniera ripetitiva ed ossessiva della partita di domani tra
Bénin ed Algeria valida per la qualificazione ai Campionati del Mondo del 2014. Tutti temono che
un’eventuale sconfitta della squadra nazionale possa gettare il calcio Béninois in una crisi profonda,
come se invece il resto del Paese goda di ottima salute… Appena rientrato in albergo mi aspetta la
riunione tecnica e vengo letteralmente reinghiottito dall’assurda farsa del calcio che, ovviamente,
di tutto quello che c’è la fuori se ne infischia.
Ma il vudù dove è finito?
Avevo letto con curiosità che il Vudù ( dal termine africano “vodu” che significa “entità”,
“presenza”) questo misterioso rito che per noi è, da sempre e probabilmente a torto, sinonimo di
magia nera, era nato in Bénin, all’incirca nel XVIII secolo e da lì poi era stato poi esportato, sulla
rotta dei mercanti di schiavi, nelle isole Caraibiche e nell’America centrale. Avevo anche da poco
visto, non senza un certo sconcerto, un documentario trasmesso da Al Jazeera e facente parte della
serie “ People and Power”, in cui il conduttore, Charles Stratford, affrontava il raccapricciante tema
dell’infanticidio rituale in Bénin. Questa barbara pratica viene ancor oggi praticati in alcuni Paesi
africani - come appunto il Bénin ma anche in Nigeria e Congo - in cui i riti magici e le tradizioni
tribali sono particolarmente forti. In Bénin, sulla scia della tradizione Vudù, i bambini che nascono
con alcune particolari deformità fisiche, ma alcune volte anche quelli che nascono solamente
podalici, vengono considerati alla stregua di streghe e pertanto uccisi. Durante la trasmissione
Stratford intervistava un anziano guaritore tradizionale di un villaggio Béninois , al secolo Alidou
Boukari, il quale spiegava che in caso di un bimbo accusato di stregoneria si ricorre ad una
strategia d’intervento ben precisa, che prevede in prima istanza un semplice esorcismo, se
quest’ultimo fallisce si ricorre alla magia nera, e se anche in questo caso si registra un insuccesso il
bimbo viene ucciso. Il vecchio guaritore spiegava poi, candidamente, che all’interno di ogni
villaggio vi è sempre un anziano preposto a questo compito. Il ruolo di boia è trasmesso di
generazione in generazione, in modo che il posto non sia mai vacante. Ancor più scioccanti però le
dichiarazioni di Roland Djagaly, Assistant Director for the Department of Childhood and
Adolescence in Atacora-Donga, il quale testualmente dichiara che “Il vero problema non è
l’uccisione dei bambini ma piuttosto il fatto che questi vengano accusati giustamente o meno” ,
prosegue poi dicendo che “L’uomo ha un aspetto fisico ed uno spirituale, ecco perché ancor oggi
esistono streghe tra i bambini, streghe tra i giovani, streghe tra gli adulti, streghe tra i contadini,
streghe tra gli intellettuali, streghe tra i professionisti… Oggi gli adulti che sono streghe hanno un
metodo di trasmissione del loro potere ai bambini che può essere esercitato anche senza il loro
consenso. Per cui esistono dei bambini innocenti che però, loro malgrado, sono streghe”. Omette
però di chiarire se i bambini innocenti, divenuti loro malgrado streghe, siano comunque passibili di
pena di morte o possano usufruire di una speciale grazia. Approfondendo poi l’argomento sul web
ho potuto trovare la conferma di quanto raccontato da Charles Stratford nel suo servizio. Tutta
questa strana storia di Vudù, riti magici, uccisioni rituali che alleggiava intorno al Bénin aveva
suscitato in me una forte, quasi morbosa, curiosità. Pertanto speravo di riuscire a coglierne almeno
qualche testimonianza, visto anche che Porto Novo era l’indiscussa capitale del Vudù. Non mi
aspettavo certo di trovare il Vudù, con i suoi galletti neri e le sue bambole rituali, all’angolo delle
strade dove, dopo poco, ho capito che si trova solo la miseria. Probabilmente, anzi ovviamente,
avrei avuto bisogno di più tempo per riuscire a cogliere qualche cosa che avesse a che fare con il
Vudù e le sue misteriose pratiche che da magiche sembrerebbero, con il passare degli anni, aver
assunto le caratteristiche di una vera e propria religione. Ma del Vudù nemmeno l’ombra, anche la
gente sembra saperne veramente poco. Solamente un cartellone pubblicitario di un “guaritore
tradizionale” che intravedo sulla strada che da Cotonou conduce a Porto Novo, mi fa pensare a
qualche cosa che con il Vudù, forse, abbia a che fare. Sono un po’ deluso ma poi in fondo capisco
che la miseria qui ha finito con l’inghiottire tutto, Vudù compreso.
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