VITA E OPERE DI PLATONE Labirinti dell’Anima 2015 2016 FEDRO di Platone Versione scenica e regia Nuvola de Capua Libretto di sala a cura di Claudia Braida Venerdì 29 gennaio 2016 Ore 21.00 Platone nasce Intorno al 428 a.C. da famiglia ricca e di antica nobiltà: IL suo vero nome è Aristocle e il nomignolo con cui diverrà universalmente noto gli verrà dato, sembra, dal maestro di ginnastica, per l’ampiezza delle spalle e della figura (plátos in greco significa “ampiezza”). Divenuto a vent’anni allievo di Socrate, rimane con il maestro fino alla morte di lui, nel 399 a.C., lasciando poi Atene, profondamente segnato dall’esperienza del processo e della condanna della propria guida filosofica. Dopo un soggiorno a Megara, viaggia molto, sicuramente anche in Egitto e nella Magna Grecia, dove consce il pitagorico Archita di Taranto. Lascia di nuovo Atene nel 388 a.C. per il primo dei numerosi viaggi a Siracusa, dove tenta di indurre il tiranno Dionigi I a realizzare il modello di Stato che va elaborando, anche grazie all’appoggio del cognato di Dionigi, Dione, che diviene suo allievo. Fallito questo primo tentativo, Torna ad Atene, fondandovi l’Accademia (dall’eroe di guerra Academo, che aveva donato agli ateniesi un terreno, divenuto giardino aperto al pubblico, dove Platone filosofava con i suoi discepoli). Nel 367 a.C., dopo la morte di Dionigi I, fa ritorno a Siracusa sperando di realizzare il proprio progetto politico con il nuovo tiranno, Dionigi II, anche questa volta senza successo. Il terzo viaggio a Siracusa, nel 361 a.C., rischia addirittura di concludersi tragicamente per l’ostilità di Dionigi II che minaccia di imprigionarlo, e soltanto l’intervento di Archita di Taranto gli consente di fare ritorno ad Atene, dove si dedica all’insegnamento nell’Accademia fino alla sua morte, avvenuta nel 347 a.C. L’insieme degli scritti attribuiti a Platone si compone di 36 opere: 35 dialoghi e di una raccolta di 13 lettere, di cui solo una sicuramente autentica. La classificazione delle opere principali può essere così riassunta: 1. Dialoghi giovanili, o “socratici”, scritti fra il 395 e il 388 a.C.: Apologia di Socrate, Critone, Ione, Eutifrone, Carmine, Lachete, Liside, Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ippia maggiore, Ippia minore, Repubblica libro I, Protagora, Gorgia, Menesseno, Cratilo, Eutidemo; 2. Dialoghi della maturità, scritti fra il 387 e il 367 a.C.: Menone, Fedone, Simposio, Repubblica libri II-X, Fedro; 3. Dialoghi della vecchiaia, o “dialettici”, scritti dopo il 365 a.C.: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi (incompiuto). perdersi in esercizi di recitazione fini a se stessi, si impegnano a restituire ai personaggi la freschezza e l’intensità che li contraddistinguono. Al centro della scena un incontro, quello tra il giovane Fedro, assetato di conoscenza ed entusiasta del mondo, e il maestro-amico Socrate, che sa di non sapere ma ha fatto della ricerca il senso della propria esistenza. In una giornata tiepida e luminosa, che invita ad uscire dalle mura della città per godere colori e profumi della natura, all’ombra delle fronde di un alto platano avviene lo scambio di pensieri, emozioni, desideri, visioni che porta i due amici ad affrontare i grandi temi della filosofia platonica. In questo senso si potrebbe definire il “Fedro” un’esperienza di iniziazione dell’anima: all’eros, alla bellezza, al dialogo, alla scrittura. In una parola, alla vita. FEDRO Quello che Nuvola De Capua ha condotto con il testo platonico è stato un vero e proprio ‘corpo a corpo’, un lavoro di scavo, di perforazione della parola originaria del filosofo alla ricerca dei significati più veri, capaci di far pensare e vibrare ancor oggi il lettore e lo spettatore. Questo lavoro drammaturgico si inserisce all’interno del percorso che ormai da anni la regista conduce su alcuni dei più famosi dialoghi di Platone, sviluppando in modo assolutamente personale l’eredità artistica di Carlo Rivolta: “Apologia di Socrate”, “Critone”, “Fedone”, “Simposio” e ora anche “Fedro”, fanno risuonare ancora oggi la voce della sapienza socratica, perché raggiunga e scuota giovani e meno giovani. L’analisi e l’interpretazione attente di ogni pagina nascono anche dal confronto che Nuvola De Capua intrattiene costantemente con i suoi attori, Luciano Bertoli e Davide Grioni; essi, lungi dal DAL TESTO “Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme d’una pariglia alata e di un auriga. Ora, tutti i corsieri degli dei sono buoni e di buona razza, ma quelli degli uomini sono un po’ sì e un po’ no: L’auriga conduce la pariglia e, dei due corsieri, uno è nobile e buono mentre l’altro è tutto il contrario. Così l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perda le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa complessa struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente. […] Solo la bellezza sortì questo privilegio, di essere la più percepibile dai sensi e la più amabile di tutte le essenze. Così, chi abbia goduto di una lunga visione lassù, quando scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, subito rabbrividisce e rimirando questa bellezza la venera come divina; gli subentra un sudore e un’accensione insolita perché, man mano che i suoi occhi assorbono l’effluvio di bellezza, egli s’accende e col calore si nutre la natura dell’ala. Affluendo il nutrimento essa diviene turgida e lo stelo dell’ala riceve impulso a crescere su dalla radice, investendo l’intera sostanza dell’anima. Ecco, questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali: palpita, s’irrita e prova tormento mentre le spuntano. Quando dunque contemplando la bellezza di un giovane, l’anima riceve le particelle che da quello partono e scorrono (perciò si chiama ‘fiume di desiderio’), se ne nutre, se ne riscalda, cessa l’affanno e gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza l’anima inaridisce e le aperture attraverso cui spuntano le penne disseccandosi si contraggono, sì da impedire i germogli dell’ala. Poi, riassalendola il ricordo della bellezza, ringioisce. Così, sovrapponendosi questi due sentimenti, l’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. […] Questo patimento dell’anima, mio bell’amico, è ciò che gli uomini chiamano amore”. Platone, Fedro, in Opere complete, ed. Laterza DIALOGO, DOXA E MAIEUTICA IN SOCRATE Anche se è più che probabile che Socrate sia stato il primo a usare sistematicamente il dialeghesthai (il discutere di qualcosa con qualcuno), probabilmente, al contrario di Platone, non lo considerò l’opposto e neanche la controparte della persuasione, e di certo non contrappose i risultati di questa sua dialettica alla doxa, l’opinione. Per Socrate, così come per i suoi concittadini, la doxa riguardava la comprensione del mondo così come “si apre a me”. Non era fantasia soggettiva e puro arbitrio, ma neanche qualcosa di assoluto e valido per tutti. L’assunto era che il mondo si apre in modo diverso a ogni essere umano, a seconda della posizione che ciascuno occupa in esso. La “medesimezza” del mondo, il suo essere-in-comune (koinon, in greco: comune a tutti), ovvero la sua ‘obiettività’, come diremmo noi nella prospettiva soggettivistica della filosofia moderna, risiede nel fatto che lo stesso mondo si apre a ognuno e che, malgrado tutte le differenze tra gli uomini e tra le loro posizioni nel mondo, e di conseguenza tra le loro doxai, “io e te, entrambi, siamo umani”. […] Socrate chiamava maieutica, arte dell’ostetricia, quella che più tardi Platone avrebbe chiamato dialeghesthai. Voleva infatti aiutare gli altri a partorire i loro pensieri, voleva aiutarli a trovare la verità nella doxa. Questo metodo traeva il proprio significato da un duplice convincimento. Ogni essere umano ha la propria doxa, la propria apertura al mondo, e per questo Socrate doveva sempre cominciare con delle domande: non potendo sapere in anticipo quale fosse il “mi pare” dell’altro, faceva appunto delle domande per capire la posizione del suo interlocutore nel mondo comune. D’altra parte, proprio come nessuno può conoscere in anticipo la doxa altrui, così nessuno può conoscere da solo, e senza sforzo ulteriore, la verità inerente alla propria opinione. Socrate voleva portare alla luce la verità che ognuno potenzialmente possiede. Se restiamo fedeli alla sua stessa metafora, la metafora della maieutica, possiamo dire che Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica, che porta alla luce la verità, non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità. Il compito del filosofo, allora, non è quello di governare la città, ma è quello di essere il suo “tafano”, di rendere i cittadini più veritieri. […] Questa modalità di dialogare, che non ha bisogno di una conclusione per avere un significato, è la modalità più frequente e appropriata del discorso tra amici. L’amicizia, in effetti, consiste in larga misura in discussioni di questo tipo, riguardanti qualcosa che sta “tra” gli amici, qualcosa che gli amici hanno “in comune”. Per il semplice fatto di discuterne, quel qualcosa che sta tra loro diviene ancora più comune. Non solo guadagna una sua specifica articolazione ma si sviluppa e si espande, finché, con il passare del tempo e della vita, giunge a formare un piccolo mondo a parte, che viene condiviso in amicizia. In altri termini, politicamente parlando, Socrate cercò di fare dei cittadini ateniesi degli amici. H. Arendt, Socrate, ed. Laterza IL DELIRIO DEL DESIDERIO Possiamo chiederci senza troppi giri di parole: quando diciamo “desiderio”, che genere di esperienza evochiamo? Di che cosa si tratta, cosa è in gioco nell’esperienza umana del desiderio? Qual è il suo tratto costitutivo? Possiamo provare a fissare questa radice – che accomuna tutte le diverse versioni del desiderio – nell’esperienza di sentirsi superati. Questo significa che ogni volta che si dà esperienza del desiderio “io” mi sento spossessato dal governo sicuro di me stesso, mi sento portato da una forza che mi oltrepassa, che oltrepassa il potere di governo e di controllo dell’Io. Non è superfluo ricordare che il desiderio di cui la psicoanalisi parla non va confuso con la motivazione o con il controllo dell’intenzione. Questo desiderio è inconscio, non è una proprietà del soggetto, non viene all’esperienza a partire da un atto della volontà, non è determinato dall’Io. Piuttosto, il desiderio in quanto desiderio inconscio, implica sempre che “io”, o meglio l’Io, non ne sia mai il proprietario, il detentore esclusivo. L’esperienza del desiderio è infatti un’esperienza di perdita di padronanza, di vertigine, di qualcosa che si dà a me stesso come “più forte” della mia volontà. Il desiderio in quanto forza che mi supera non è qualcosa che “io” posso governare, non è a mia disposizione, a disposizione del mio Io, ma è piuttosto l’esperienza di uno scivolamento, di un inciampo, di uno sbandamento, di una perdita di padronanza, di una caduta dell’Io. Il desiderio viene all’esperienza come qualcosa che turba il mio Io e tutte le sue convinzioni consolidate. Per questa ragione, l’elemento che accomuna i diversi ritratti del desiderio consiste nella sua esorbitanza rispetto all’Io. Lo possiamo affermare in modo radicale: non sono mai “io” che decido il “mio” desiderio, ma è il desiderio che decide di me, che mi ustiona, mi sconvolge, mi rapisce, mi entusiasma, mi inquieta, mi anima, mi strazia, mi potenzia, mi porta via. L’esperienza del desiderio è l’esperienza di una forza in eccesso, di una forza che proviene da me ma che trascende l’Io che “io” (mi) credo di essere. Il desiderio è una potenza che sovrasta e decentra l’Io. Per questa ragione Lacan associa sempre il termine “desiderio” alla figura dell’Altro. L’esperienza del desiderio non si può confinare, restringere, assimilare a quella dell’Io-padrone, non è mai esperienza dell’identico, di ciò che Io penso di essere, non è esperienza autoreferenziale e narcisistica dell’Io. L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di un’alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità, una disidentità, una non coincidenza, Lacan direbbe una divisione del soggetto. Proviamo a dirlo ancora meglio: l’esperienza del desiderio non è dell’Io ma è senza Io. Questo significa che il desiderio non è ciò che rafforza l’identità irrigidendo i suoi confini, non è il cemento dell’identità, ma è piuttosto ciò che la scompagina, la destabilizza, è un fattore di perturbazione dell’identità. M. Recalcati, Ritratti del desiderio, ed. Cortina