Capitolo 4
Obiettivo lavoro
Obiettivo lavoro
L’è vegnuu giò con la pièna.
Venuto con l’alluvione.
Nuovo delle usanze di Milano.
Il baule dei ricordi personali è ancora aperto.
Nel corso dei racconti tornano alla mente i nomi di tanti colleghi, “ricordo quasi tutti i nomi dei
colleghi di lavoro, potrei fare quasi i nomi di tutti”. Ci crediamo. Molti di loro oggi non ci sono più,
tutti i presenti annuiscono, perché ricordano bene quei volti, quegli uomini, quei colleghi di Milano
e della Valtellina.
Il legame della città con la Valtellina e i valtellinesi si fa sempre più stretto e ne sono segno alcune
iniziative che vanno oltre l’ambito lavorativo. Nel 1933 l’ingegnere Albino Pasini, divenuto presidente dell’Aem nel 1928, promosse il concorso “Balconi fioriti” coinvolgendo tutte le abitazioni ai lati
della Statale dell’Alta Valtellina. Nella sua breve memoria Berbenni parla anche dei fiori,“gerani arrivati dalle due grandi serre in località Rasin-Centrale di Fraele e quella vicina alla cabina di Grosotto,
che Aem aveva costruito”.“È una cosa da ricordare - conferma De Lorenzi - tutti mettevano i fiori
lungo le strade, a partire da Isolaccia fino a Tirano”.
Tre anni più tardi, sempre Pasini incoraggiò la pescicoltura nei pressi della diga di Fusino e le trote
abbondarono sulla mensa dei dipendenti dell’Azienda. “Due grandi refettori con cucina centrale scrive ancora Berbenni - che in mezz’ora servivano sei-ottocento pasti, con la consegna delle relative marchette per il ritiro delle stoviglie.Tutti i lavoratori prenotavano, a mezzo libretto con matricola di lavoro, i pasti e l’importo era segnato su un foglio che veniva consegnato all’ufficio paghe
per l’addebito”.
Rinaldi parla anche di un gruppo folcloristico: “il presidente era lui - dice indicando Della Palma e io ero il segretario; ci sono anche le foto del gruppo con uno stendardo con la scritta ‘Gruppo
folcloristico Aem”.
A Milano fino al 1990 c’era ancora alla Ricevitrice Nord la grande serra termoriscaldata che custo-
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diva i vasi di gerani che in primavera venivano collocati sulle finestre della sede di corso di Porta
Vittoria.
La ricerca di un lavoro.
Anche se la crisi del 1929 fu pesante, si riuscì a lavorare abbastanza bene fino all’inizio della seconda guerra mondiale, soprattutto nelle città. “Si poteva lavorare e il lavoro c’era per tutti, ci voleva
la buona volontà perché nel ‘29, quando c’è stata quella famosa crisi, ero rimasto disoccupato e
piuttosto di stare a casa di peso a mio padre, ho girato tutti gli elettricisti per trovare qualcosa di
lavoro e ho fatto un po’ di qui un po’ di lì, poi sono venuto in azienda” ricorda Gambini. Il discorso resta valido qualche anno più tardi “chi voleva lavorare non faceva fatica a trovare, in zona, in
Italia o all’estero”. Negli anni seguenti la realtà cambiò, “come quando - racconta Pacciarini - noi
italiani nel ’35 andammo in Africa Orientale: c’è stata la guerra in Abissinia, per il famoso posto al
sole. Di disoccupazione ce n’era tantissima e c’era persino la barzelletta: allora alla Camera del
Lavoro in Corso di porta Vittoria c’era il sindacato dei fascisti dove noi avevamo un rappresentante. Beh, in sostanza, la barzelletta è questa: entravano nel primo ufficio e mettevano un timbro,
entravano nel secondo e mettevano un timbro, entravano nel terzo idem, nel quarto idem, alla fine
dicevano: ‘Benissimo, passi all’altro ufficio’ e si trovavano in un’uscita secondaria dello stabile in via
Enrico Dandolo, perché di lavoro non ce n’era! Ma con la tessera del PNF si otteneva la precedenza”.
Era quello il tempo in cui si pagava la tassa sul cavallo d’acciaio, la bicicletta, “si pagava dieci lire e
praticamente il bollo te lo fregavano sempre; c’erano tutte le rastrelliere per le biciclette dove si
pagavano 20 centesimi per parcheggiare. Ecco, questa era la situazione”.
Lavoratori, chi è “fortunato” e chi no.
Non era, invece, così facile trovare un’occupazione negli anni Trenta in Valtellina. Le file all’ufficio di
collocamento erano lunghe e non c’erano posti che assicurassero un lavoro per lungo tempo. “Io
mi ricordo prima della guerra, quando all’ufficio di collocamento in piazza Cavour a Bormio c’erano più di cento persone che aspettavano, per lavorare 15 giorni …” spiega Berbenni.“La coda, uno
dopo l’altro, arrivava fino in fondo alla piazza. Quelli dell’Aem li chiamavano ‘i fortunati’, noi eravamo ‘i fortunati’”, precisa De Lorenzi. Lavori brevi, dunque, e occasionali, come ad esempio “c’era la
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neve da spalare, c’era una strada da finire, cose che potevano durare 15 giorni - prosegue Berbenni
- cosa che è continuata anche dopo la guerra: a cominciare da febbraio a dicembre c’erano tutti,
che dopo venivano licenziati e a gennaio qualcuno era assunto per spazzare la neve, mentre a febbraio erano riassunti”. In quelle condizioni l’Aem rappresentava dunque la maggiore occupazione
nella valle.
Ma cosa significava l’Azienda quando questi uomini sono stati assunti? Certo qualcosa di importante, ma cosa, precisamente? Perché erano ‘i fortunati’?
Essere in Azienda voleva dire “il massimo”, “il lavoro”, “era vincere al lotto”, comportava proprio
essere “dei privilegiati” rispetto agli altri, ma anche “gente che non faceva niente” nei confronti di
chi era impegnato in attività agricole.
“Durante i lavori della diga di Cancano, se vi ricordate - chiarisce Rinaldi - c’è stato un contrasto.
Siccome la maggior parte dei capi e degli assistenti erano grosini, a Grosotto hanno bloccato i filocarri; per parlare di campanilismo, tra Grosio e Grosotto c’è un chilometro, adesso non c’è più
neanche quello e l’Aem con le linee ha lasciato solo quel corridoio che non ha fatto fondere i due
paesi; però c’era questo fatto, c’è stato un atto quasi di forza”.
Se in Valtellina coloro che lavoravano in Azienda erano chiamati ‘i fortunati’, in un altro modo si
diceva in città: “a Milano si dice ‘pan fiss’” - interviene Marinoni.
Il prezioso posto fisso era la garanzia per molti per poter mettere su famiglia: entrare in Aem per
Gambini ha significato risolvere “tanti problemi, prima di tutto la stabilità del lavoro, allora si diceva ‘Se te ve sota l’asienda te set a post’. Mi sono sposato quando ho visto che dopo due anni sono
stato assunto fisso, perché sono venuto a sostituire tutti quelli che sono andati volontari in omaggio al duce, allora c’era la guerra in Africa. Sono venuto come operaio straordinario, neanche ordinario, e all’ingegnere Leidi ho detto ‘Allora ingegnere’ e lui ‘Non preoccuparti che quando sarai
all’Azienda ti metteremo a posto’, infatti sono passato fisso e sono stato addetto alla centrale elettrica come aiuto capo turno”.
Cipolla fa un confronto con gli anni della seconda guerra: “privilegio io sinceramente… negli anni
di guerra l’unico vantaggio era il “pass”, si poteva andare di qui, di là”. “C’era il supplemento del
pane”, lo interrompe brevemente Marinoni. “Più che altro c’era la possibilità di girare, il pass era
dato dall’azienda e quando venivi fermato presentavi quello. Una sera di corsa - racconta Cipolla,
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quasi ancora con l’aria trafelata di chi sta raggiungendo al volo il tram - stavo prendendo il tram e
mi è corso dietro uno della Feldgendarmerie, mi ha visto correre, mi ha rincorso e mi ha chiesto
di presentare il pass, che l’azienda mi aveva appena ritirato. Io allora gli ho presentato la tessera del
Dopolavoro. C’era il tranviere, che era anche bigliettaio, che ha detto ‘Ma no, lasci perdere, non vede
che è un ragazzino?’. No niente da fare, mi ha portato all’Hotel Regina e il giorno dopo è venuto
Sparpaglione, che teneva i rapporti per l’Aem con tutte le istituzioni, e mi ha fatto liberare”.
Tornando al discorso dei ‘fortunati’, Cipolla fa una precisazione: “Molti di coloro che lavoravano in
Azienda erano stati assunti dalle imprese, quindi non penso che a Milano ci fosse un problema di
lavoro, certo che se veniva bombardata la fabbrica, vabbè allora uno rimaneva a casa, questo sì, ma
a parte questo non c’erano fabbriche che chiudevano in città”. La differenza sostanziale riguardava, piuttosto, lo stipendio:“Non credo fosse uguale [a quello delle altre fabbriche]: io quando sono
stato assunto prendevo quattordici lire e cinquanta centesimi al giorno, fuori uno della mia stessa
categoria prendeva 17 o 18 lire, però c’era questo: quello magari lavorava tre mesi e poi restava a
casa”.
Gli abruzzesi.
Per integrare temporaneamente la forza lavoro in Valtellina, Aem assunse squadre di lavoratori non
del luogo, ma abruzzesi in particolare, perché specializzati nella costruzione di gallerie. De Lorenzi
li ricorda così:“Allora anche i più robusti tra i minatori reggevano qualche anno e poi era finita: ben
pochi, è la verità, sono campati oltre i cinquant’anni…” .
Molti di loro si sono poi fermati e integrati. “Più di uno si è sposato qui”, dice sottovoce qualcuno
trovando il consenso dei presenti, “si poteva constatare l’affinità tra noi e loro, ci assomigliavano
perché erano montanari anche loro”, conferma Berbenni.
In quel momento segretario generale dell’Azienda, oltre che presidente dell’Azienda di Cura di
Bormio, era l’avv. Armando Mollame. Aem fece un reclutamento nella valle perché aveva bisogno
di personale da inserire in Azienda:“Sì, era sparita altra gente, di giovani non c’era più nessuno perché erano al fronte e altrove - aggiunge Berbenni -. Per costruire le gallerie in appalto erano allora venuti gli abruzzesi”. “L’Azienda aveva però i tecnici che controllavano”, aggiunge De Lorenzi.
“L’Azienda aveva per ogni betoniera un operaio che controllava la quantità di materiale utilizzato”,
conclude Berbenni.
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L’esperienza della guerra.
L’Italia era del tutto impreparata a un conflitto sia per la qualità che per la quantità degli armamenti. Ma Mussolini non temeva la guerra e solo a stento fu convinto a restarsene fuori e a dichiarare
lo stato di “non belligeranza”, una sorta di “pace armata” che avrebbe dovuto permettere al governo di portare avanti la preparazione militare e di mettere a punto la mobilitazione. La travolgente
offensiva tedesca di primavera indusse però Mussolini all’intervento. E così, quando la disfatta francese era ormai certa, dal balcone di Palazzo Venezia, il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò e spiegò agli italiani la sua decisione di muovere guerra alle democrazie occidentali. Furono coinvolti oltre
ai militari, le loro famiglie, le loro città. L’arrivo della guerra stravolse le abitudini e il lavoro, stravolse la vita di ognuno. Anche Aem, che forniva elettricità nell’area milanese a diverse grosse industrie,
fu coinvolta nella mobilitazione dell’economia del Paese e dovette fronteggiare un incremento della
domanda di elettricità per usi industriali24.
In questo nuovo scenario, la difesa degli impianti idroelettrici era di primaria importanza: erano,
infatti, strategici per lo sviluppo prima e la ricostruzione economica e sociale dell’Italia25 quando il
conflitto fosse terminato. Per questo, dopo l’8 settembre 1943, la difesa in alta Valtellina divenne
l’obiettivo principale delle brigate partigiane della zona. E come le altre società del nord Italia proprietarie di grossi impianti idroelettrici, Aem si pose l’obiettivo della loro protezione. Un modo per
difendere gli impianti dai bombardamenti aerei era di ricoprire le centrali, le condotte forzate e il
coronamento delle dighe con fascine, paglia, frasche e piante, in modo da renderne più difficile
l’identificazione. Poiché la distruzione delle dighe avrebbe comportato l’allagamento di gran parte
della valle, fu deciso di dipingere sulle case un vistoso segnale che, in caso di necessità, avrebbe indicato il livello al quale sarebbe arrivata l’acqua e, di conseguenza, dove la popolazione avrebbe potuto mettersi al sicuro. Molti, infatti, trovavano sostegno e sostentamento dalla lavorazione della terra.
“Io sono stato assunto il primo ottobre 1941, ero un ragazzo di 17 anni, avevo fatto lavori vari:
andavo dai miei cugini che avevano un negozio di alimentari e andavo a portare il pane, seguivo
Già in preparazione alla possibile entrata in guerra, nel 1939 il governo fascista aveva varato un nuovo piano autarchico che prevedeva un aumento di produzione di 5 miliardi di KWh annui. Per l’Aem tale piano prevedeva un incremento di 20 milioni di KWh annui da ottenersi con una serie di opere per le quali il genio civile di Sondrio aveva preparato un programma dettagliato (…) che a fronte di una spesa di 500 milioni di Lire avrebbe determinato un aumento della potenza installata di 45.000 HP. (…) L’Aem disattese quasi totalmente tale piano e ne sviluppò uno alternativo che con una spesa prevista di 350 milioni di Lire avrebbe dato l’incremento di produzione richiesto con un aumento della potenza installata di 55.000 HP.
C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit., pagg.
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Alle radici dello sviluppo. I primi 50 anni di storia dell’energia dagli archivi Aem, cit., pagg. 210-216
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anche quel pochino di campagna che si aveva e curavo gli animali. La realtà di quel periodo di
Bormio e della Valle era di tipo agricolo: si avevano la mucca, il vitello, le galline, si doveva tagliare
il fieno, …” spiega Berbenni.
Con il passaparola si trova lavoro.
Se in valle “era sparita altra gente, di giovani non c’era più nessuno perché erano al fronte” ed era
necessario trovare nuova forza lavoro, la stessa situazione era vissuta a Milano, dove venivano
assunte molte ragazze, come Licia Bozzi: “Sono stata assunta in Aem l’8 marzo del 1942, perché
avevo una bella calligrafia. Ho fatto le scuole magistrali, sono entrata subito in Reparto Vendita
Energia, con la formula di ‘personale femminile in sostituzione di personale maschile richiamato alle
armi’, con uno stipendio dell’8% in meno dei maschi di pari età fino ai 21 anni, e già cominciavano
le discriminazioni che poi si sono risolte con le battaglie sindacali iniziate dopo il ‘45”.
Il primo giorno di lavoro è un po’ come il primo giorno di scuola: non si scorda mai, con i tanti dettagli che sono stampati chiaramente nella memoria. “Scusate se vi interrompo - dice Tonesi - sono
entrato in azienda nel ’43, in quanto minore, con lo stipendio di 550 lire lorde al mese”. “Io invece
- interviene Bozzi - ne prendevo 700 lorde, con le ritenute diventavano 550, e non era giusto perchè un maschio della mia età ne prendeva 750. Fortunatamente i miei non ne avevano bisogno:
mio padre dirigeva un’azienda e prendeva 2.000 lire al mese, me lo ricordo benissimo. Comunque,
i primi mesi ho fatto la trafila, facevo la fatturazione con quelle terribili macchine monumentali, poi
sono passata alla fatturazione degli utenti speciali che veniva fatta a mano, per i conteggi naturalmente c’erano le calcolatrici. Gli utenti speciali erano il Comune, il Policlinico, la Scala, le diramazioni del Comune che non pagavano mai le bollette ma venivano ugualmente fatturate. Avevano una
tariffa particolare, perché in quel periodo c’erano la diurna e la notturna, tariffe differenziate e noi
avevamo un tabellone che le specificava tutte. C’erano parecchie donne perché mancavano gli
uomini, eravamo quasi tutte pressappoco della stessa età e col medesimo titolo d’istruzione”.
Il reclutamento, in particolare in Valtellina, avveniva soprattutto tramite il passaparola, come per
Berbenni:“Mi sono rivolto al capo di Rasin che mi ha detto ‘Sì, vieni’ perché aveva bisogno e il giorno dopo mi ha detto ‘Vai a Bormio’. La mia sede di lavoro era quindi Bormio. Dal Raccordo
Telefonico sono finito all’Ufficio Cucine di Digapoli col ruolo di contabile, resoconti trimestrali,
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sotto Belloni e Maganetti. Poi sono stato chiamato per il servizio militare nel maggio ’43 e sono
finito a San Pietro del Carso”.
“L’Azienda era come una famiglia”.
Come viveva Milano quel primo periodo? “Privazioni economiche sinceramente io non ne ho sofferte, per mia fortuna - ammette Cipolla, che tenta di ampliare il discorso alla città; io ragionavo
con la mente di un ragazzino e a quell’età le cose sembrano sempre belle. Allora a diciotto anni in
Aem si passava in organico, e poi cominciavi la carriera. Insomma, l’unica cosa che posso dire è che
io mi trovavo bene, l’Azienda per me era come una famiglia; l’unica cosa è che negli ultimi anni c’era
un po’ di…” Il tono cambia, la mente scappa qualche anno avanti, a quando è già assistente: “I vari
sindacalisti, e nello stesso tempo io non ho accettato per niente la storia del passaggio da operaio a qualificato solo per l’anzianità, previsto dall’articolo 15 del Contratto di lavoro, e lì è stato applicato l’automatismo, che a me non è mai piaciuto e giustamente neanche allo stesso personale. Ad
esempio, l’assistente sapeva che quello valeva e quell’altro meno, però avevano la stessa categoria
e allora, come responsabile, cercavi di mandare sul posto il più bravo, ma un bel momento quello
si stancava e diceva: ‘Ma perché semper mi, lui ha la mia stessa categoria’, ‘Ma no, ma devi capire…’
Era una situazione non bella”.
E il discorso si anima sui passaggi di categoria che non si basavano sul merito bensì sul meccanismo quasi automatico degli anni di servizio. Anche Marinoni ha qualcosa da aggiungere: “Saltava
fuori il discorso che uno diceva ‘Ma perché mi devo impegnare, tanto tra due anni avrò la stessa
categoria come te’”. Questo rapporto era accettato, non c’era contestazione, “perché dicevano
‘Fra dieci anni faccio anch’io così’”.
Le mani sono in movimento, quasi stessero girando le pagine di uno dei faldoni del prezioso archivio ed ecco Cipolla che racconta: “L’operaio aveva l’aiutante e il garzone, prendeva la pinza, faceva
quello che doveva fare, poi non la dava indietro all’aiutante, no, la lasciava cadere per fargliela tirare su, arrivavamo all’assurdo. Qualche volta c’era gente che andava persino a giocare alle bocce e
veniva pescata dall’assistente, allora l’assistente diceva ‘Come mai?’‘Non si preoccupi, domani il lavoro è fatto tutto’. L’assistente faceva finta di niente e il mattino dopo il lavoro era tutto fatto”. E
Marinoni riporta un altro esempio: “L’assistente ti dava venti metri di cavo in spezzoni da cinque
metri l’uno, per poter alimentare cinque prese, che era quello che potevi fare in una giornata, poi
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lui aveva già là le prese da fare per il giorno seguente e ti diceva ‘Facci stare dentro anche questa’
e tu ce la facevi stare dentro, era una cosa così”. In quel tempo vigeva la mentalità di privilegiare
l’esecuzione del lavoro rispetto alla continua presenza sul posto di lavoro.
“Poi col passare degli anni - riprende Cipolla - c’è stata un’ingerenza, posso dirlo, un po’ troppo esagerata del sindacato. Con i delegati di reparto si è cominciato a discutere sull’organizzazione del lavoro; per esempio un operaio doveva mettere 8 tavolette con il contatore,‘No troppo, di più, di meno’
e lì c’era una discussione che non finiva più. In realtà otto tavolette in mezza giornata si potevano
fare.” “Io - racconta Marinoni - di mattina prendevo le mie tre tavolette da installare nella zona di
Ronchetto delle Rane e se alle tre del pomeriggio avevo finito cosa facevo? Ora che rientravo in
sede era ora di smettere”. E Cipolla: “Tanto per citare un altro esempio: il mio capo, il Losi, quando
andava a controllare il personale, aveva il Mosquito su cui aveva la borsa degli attrezzi più la ciamavum la padeleta del cement e se trovava qualche cosa da fare la faceva. Era tutto un altro sistema, era
più una famiglia. Il responsabile, il capo, ciamemel come vorum, era tutto diverso perché con lui andavamo a fare le gite insieme, mentre oggi come oggi… Erano i primi anni del Dopolavoro Aziendale,
in cui si organizzavano le gite: l’8 settembre del ’43 all’Autocentro, caserma tuttora esistente in via
Caracciolo, erano scappati tutti. Il personale dell’azienda ha portato nei cortili di Caracciolo la famosa bisarca, un’ambulanza militare Isotta-Fraschini con la croce rossa; questo automezzo è stato trasformato dall’Azienda per andare a fare le gite”. “Milano-Bormio: 6 ore”, precisa Marinoni.
Fino al 1964, inoltre, - racconta Meletti - “la direzione del Personale distribuiva, fino a poco prima
di quando hanno assunto me, un libretto che dava il benvenuto al nuovo collaboratore nella famiglia dell’Aem, perché il clima che si voleva dare era di una socializzazione spinta, di amicizia e collaborazione. Era un obiettivo dell’azienda di allora”.
Non per tutti, comunque, valeva il discorso della famiglia. Alcuni della valle, ad esempio, consideravano i milanesi “un’isola a parte”, come se non ci fosse unità di trattamento e d’intenti. Anche tra
i milanesi c’erano sentimenti discordanti: Tonesi, ad esempio, che aveva un ruolo amministrativo,
non si sentiva in un’azienda unica, perché “quelli della Valtellina erano là e noi eravamo qua. Non
avevamo nemmeno rapporti.” “Tu sei stato poco tempo in Valtellina - interviene Marinoni - io che
li ho conosciuti in vacanza a Bormio e a Bellaria i valtellinesi, dicevano ai milanesi ‘voialter de Milan
ghe sfruti nun’” e lui rispondeva “Ma se a Milan ghe nisun che ve vend la curent, vialter cusa fasì?”.
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1941 - Rifugio antiaereo presso la sede di Milano - Via della Signora
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