Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XIII n° 4/2009
Accogliere la diversità
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SOMMARIO
3
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Primapagina
I nuovi Magi
4
Le ragioni dell'altro
8
Il dono della diversità
10 La sana follia di Alda
Il cammino inarrestabile dei migranti
12
14 Così come sei
Maurizio Maggiani e la profezia della vita
18
20 Il giovane poeta che è in noi
La Madonna del latte
22
Nuova veglia
26
Graffiti
29
24 Nuove pubblicazioni
28 Avvisi
trimestrale
Anno XIII - Numero 4 - Dicembre 2009
REDAZIONE
località Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)
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Massimo Orlandi
REDAZIONE e GRAFICA:
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Copertina: Massimo Schiavo
Hanno collaborato:
Luigi Verdi, Pier Luigi Ricci,
Maria Teresa Marra Abignente,
Gianni Marmorini, Luca Buccheri.
Filiale E.P.I. 52100 Arezzo
Aut. N. 14 del 8/10/1996
PRIMAPAGINA
Avete mai sentito parlare di Charles Fourier? Il suo nome è appena citato nei libri di storia.
Poche righe per raccontare il suo sogno.
Era uno dei cosiddetti socialisti utopisti. A inizio Ottocento aveva pensato a un modello
di società nella quale l’uomo si sarebbe realizzato valorizzando le sue inclinazioni, in cui
ciascuno avrebbe potuto contribuire secondo il suo talento, offrendo come ricchezza la sua
diversità.
Mi hanno sempre incuriosito i pensatori come Fourier, e ora capisco meglio perché: avevano
fiducia nell’uomo, pensavano che non bastava il progresso a rendere migliore la vita, che
per il passo decisivo sarebbero stati necessari migliori rapporti umani.
Le comunità ispirate al suo pensiero fallirono. Ma non è questo che circoscrive la bontà
della sua aspirazione.
Oggi la nostra società occidentale che, da Fourier in poi ha pure compiuto tanta strada verso
l’emancipazione dell’uomo, si è chiusa in se stessa: le sue conquiste sono diventate il misurino su cui si giudica il valore delle altre culture, il suo benessere è diventato una cortina di
superbia che punta a escludere chi si ritiene non vi abbia contribuito direttamente.
Cresce una paura, una paura irrazionale, alimentata ad arte, per ogni contaminazione con
chi ci porta esperienze che non si inquadrino nell’ambito di una presunta normalità.
Questa chiusura sempre più ermetica, indirizzata soprattutto verso le migrazioni che caratterizzano questa fase della nostra storia, non è un segno di forza, ma di un progressivo
impoverimento.
Lo diceva bene Fabrizio De André quando spiegava perché si appassionasse tanto a minoranze
come gli indiani d’America e i rom: “Se non arricchiamo il nostro mondo con esperienze
come queste, noi rischiamo di pensare che il mondo sia finito, che non ci sia più futuro”.
Ci sono mille e più ragioni umane e religiose per accogliere chiunque bussi alla nostra porta.
Ma siccome evidentemente gli imperativi etici non bastano, proviamo almeno a renderci
consapevoli che questi popoli, in cambio di un pezzo di pane e di un sorso di speranza, ci consegnano a domicilio una freschezza nuova, potenzialità che non abbiamo mai conosciuto.
È un travaso prezioso anche per la nostra anima: “In Italia e in Europa – scrive Antonietta
Potente – non arrivano solo degli emigranti che cercano uno spazio per vivere, arriva anche
una sapienza differente e un’immagine di Dio differente. Quando si sposta una persona non si
muove solo una cultura, quando i popoli emigrano non si spostano solo i loro modi di vivere,
cambia anche Dio. E il Dio più bello è un Dio itinerante, un Dio che cammina”.
Accogliere, allora. Perché accogliere vuol dire ascoltare la vita, qualunque linguaggio essa
parli.
Accogliere, anche perché non è vero che la nostra coscienza personale e di gruppo si afferma
proteggendola da ogni innesto. Al contrario scopriamo chi siamo solo grazie al confronto con
chi è diverso da noi, perché lì sperimentiamo la nostra identità, la liberiamo, la ritroviamo
rafforzata da una consapevolezza nuova.
Nessuno nega la fatica. Le differenze culturali e sociali sono spesso rilevanti, le incomprensioni inevitabili.
Però quello che conta è ritrovare la spinta, è riprendere la direzione verso il sogno.
Il sogno che il mondo diventi una casa per tutti. Abitata da una meravigliosa, straripante
varietà.
Massimo Orlandi
I nuovi Magi
“È la casa di mio Padre, ma freddi stanno gli
oggetti l’uno accanto all’altro, come se ciascuno
badasse ai fatti suoi che in parte ho dimenticati, in
parte mai conosciuti. Quanto più si indugia fuori
dalla porta, tanto più si diventa estranei” . Queste
parole di Kafka mi ricordano quello che anch’io
provavo tornando a casa dopo il primo anno passato in seminario; per la prima volta compresi che
la nostalgia non nasce solo come rimpianto di una
terra perduta, ma anche quando sperimentiamo in
noi una diversità.
Il minimo di felicità per ogni persona nasce dal
sentirsi a casa da qualche parte, quando trova un
luogo dove gli oggetti sono caldi, la porta è aperta
e il focolare acceso.
Oggi sono ormai successe troppe cose che non
dovevano succedere e quel che doveva arrivare
non è arrivato. In tutti noi, i segni della debolezza
umana, la vigliaccheria, la diffidenza e la paura
dettata dal “buon senso”.
Ci lamentiamo di tutto quello che cambia e abbiamo paura di capire quello di cui il vento parla.
Lo straniero viene presentato come un “nemico”
che invade i nostri paesi del benessere, come
qualcuno che disturba l’ordine sociale, che crea
dei problemi senza soluzioni. Un clima di paura,
di insicurezza si diffonde nelle nostre città e purtroppo non solo nei paesi sviluppati, ma anche in
quelli poveri.
L’altro vale tanto quanto serve. Infatti si rifiuta la
sua presenza quando costituisce un rischio o un
impedimento alla propria.
Non si uccide solo con la spada, ma anche affermando che il senso del vivere altrui è funzionale
al proprio vivere. Accogliere l’altro a livello
funzionale non vuol dire necessariamente che
in tutti i momenti si cerchi di usarlo in vista dei
propri scopi. Vuol dire però che lo si accoglie o
lo si rifiuta a determinate condizioni, cioè in base
al suo piegarsi o non piegarsi ad esse.
Un’amica, Nelya, per altri “straniera”, per me
“in cammino” verso l’unico monte della vita, mi
dice: “Sì, sono straniera e non sono povera, come
pensano tante persone. Sì, sono venuta in Italia
per denaro però ho trovato di più e mi sento come
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di Luigi Verdi
una ricchissima persona del mondo… Questo
periodo di prova mette in gioco in me pazienza
e coraggio”. Sì, sono proprio la pazienza e il
coraggio che noi non abbiamo più, il regalo che
Nelya e gli altri portano come nuovi Magi al nostro
pezzo di mondo.
Abramo accoglie tre ospiti nella sua tenda, lava
loro i piedi, offre cibo e ristoro, e ci indica le due
condizioni che muovono in noi l’accogliere la
diversità.
La prima condizione è che uno accoglie l’altro
senza neppure conoscere il suo nome e la sua
storia; per questo accogliere è un rischio, puoi
trovare un bandito o un angelo. L’accoglienza
ci chiede di aprire gli occhi a modi di essere che
non sono i nostri, fioriti sotto altri soli, bagnati da
acque diverse, ma che sono altrettanto rifrazioni
dell’unico Essere in cui affondano le radici di
ogni uomo.
La seconda condizione è che Abramo vive in una
tenda e per questo anche lui si sente forestiero
in questa terra. Rotta l’armonia con Dio e tra le
persone, il rapporto con la terra sarà un rapporto
di dominio, un rapporto guidato dalla logica del
possesso e della difesa l’uno dall’altro.
L’immigrato è ansioso di non essere più considerato come uno straniero, sa che questo bisogno cessa
quando diventa se stesso e non più un modello
sospetto. Lo straniero paga il prezzo alla sua e
alla nostra estraneità cercando di essere se stesso
in qualunque luogo, diventando così portavoce
della solidarietà umana.
Ogni tempo di crisi e quindi di passaggio esprime
il peggio di sé, di razzismo e di egoismo, di violenza e di paure.
Ma anche se le cose sembrano non cambiare,
anche se tutto sembra continuare come prima, dobbiamo scrutare l’orizzonte, fiutare l’aria e gettare
il seme. Il sogno di futuro è tutto dentro la realtà,
occasione non prevista dai programmi.
Torniamo al sogno di Dio e ai sogni profondi del
cuore umano, tornino le campane delle Chiese
a lanciare colombe, ogni schiavitù sia liberata e
ognuno sia sciolto dal vento in cenacoli di carezze
delicate.
Foto di Massimo Schiavo
Mi sento come un piccolo
campo di battaglia
su cui si combattono
i problemi
del nostro tempo.
L'unica cosa
che si può fare
è offrirsi umilmente
come campo
di battaglia.
Quei problemi devono
pur trovare ospitalità
da qualche parte,
trovare un luogo in cui
possano combattere
e placarsi.
Etty Hillesum
Il dono della diversità
di Gianni Marmorini
Nella Bibbia come nella natura, nell'arte come nel nostro cammino quotidiano non è difficile
accorgersi di come la diversità sia l’alimento della vita.
Nell’ultima lezione che ho seguito sulla il Libro dell’Esodo con il Libro del QoTeologia del Vangelo di Marco il profes- hèlet? Uno pieno di speranza e l’altro di
sore si è comportato in un modo molto cinismo. Mi chiedo spesso anche come
strano. Come per tutti gli insegnanti an- avranno fatto a decidere che i Vangeli sache lui credo che abbia dei problemi con cri erano “quattro non uno di più e non
il tempo e la mole immensa del program- uno di meno”; chissà quante discussioni!
ma da svolgere, eppure ha dedicato qua- Sono così diversi che sembrano parlare di
si un’ora intera a spiegare le posizioni di Gesù diversi. Gesù aveva una doppia naalcuni studiosi che lui non condivideva, tura, non una quadruplice personalità! Se
posizioni oggi decisamente superate dalla avessimo dovuto decidere oggi certamente
ne avremmo scelto uno solo.
maggioranza degli studiosi.
Le ha spiegate accuratamente, senza fret- La stessa dinamica succede nella musica:
ta, direi con delicatezza, scrivendo i loro come è bello, ad esempio, quando nella
Bohème di Puccini Rodolfo e Mimì si
nomi e le date alla lavagna.
parlano d’amore e di morOgnuna di queste posite piangendo mentre Marzioni era superata dalla
La
diversità
cello e Musetta litigano
successiva, ma qualcosa
non ci chiede di cambiare, per gelosia, la contempodella precedente rimaneva
raneità delle voci è straornella nuova. Mi è piaciuto
ma di essere noi stessi.
dinaria.
molto questo parlare e lo
E la natura intorno a noi?
confronto con il mio modo
di cercare sempre una sola parola, quella I boschi con la varietà dei colori dell’autunno? Quasi che la natura volesse darci
vera e definitiva.
Penso anche a quel libro, patrimonio una scorta di bellezza per sopportare la
dell’umanità, ma aperto solo da alcuni, il nudità.
Talmud. Nel mezzo della pagina ci sono Tutto della vita intorno a noi ci parla della
alcune parole e tutt’intorno le spiegazio- diversità, della varietà. Non c’è vita senza
ni di tanti maestri che mai concordano fra diversità, senza contrasto. Anche quando
loro. Ognuna però è conservata accan- lo spermatozoo è entrato nell’ovulo per dito all’altra. Come se oggi intorno ad un ventare uomo deve cominciare a dividersi
evento si conservassero con cura e affetto e a dividersi ancora tante volte.
i pensieri di Bossi, Berlusconi, Bertinotti, Ovunque ci si giri la vita ha bisogno di diDalai Lama, Bush… ammettendo che sia- versità. Fu così anche secondo la Bibbia
no tutti maestri. Un libro veramente stra- quando Dio per creare la vita separò le acno, un sogno.
que di sopra da quelle di sotto, la terra dal
Ma forse anche la Bibbia è questo tipo mare… Fino a che tutto era Uno non c’era
di sogno. Ci sono così tante diversità da posto per la vita, non c’era posto per l’uofar paura: come si fa a mettere insieme mo. A noi uomini Dio ha affidato il compi-
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to di portare avanti l’opera della creazione,
ma invece di salvaguardare la diversità abbiamo la tendenza di riportare tutto a uno.
Ci fu un momento in cui “Tutta la terra
aveva un’unica lingua e uniche parole”,
fermarono il cammino e costruirono una
Torre, simbolo di forza e di potenza.
Una prigione e un’immobilità da cui Dio
ci liberò con il dono della diversità delle
lingue. Il problema delle diversità è che
assomigliano molto ai contrasti più che
all’armonia. E i contrasti noi cerchiamo
sempre di superarli, è inevitabile. Ma c’è
stato il giorno della Pentecoste: gli apostoli per le strade di Gerusalemme non parlavano un’unica lingua che tutti potevano
comprendere, parlavano la propria lingua,
ma i rappresentanti dei popoli di tutta la
terra li comprendevano “ognuno nella
propria lingua”.
C’è quindi un’alternativa all’uniformità o
ai contrasti, se si parla la propria lingua
gli altri possono capirci nella loro. Parlare la propria lingua: essere se stessi, non
la bella o brutta copia di altri, essere se
stessi. La diversità, potremmo dire, non ci
chiede di essere migliori, di cambiare, ma
di essere se stessi.
Per questo Dio alla Torre di Babele ci ha
fatto il dono delle lingue diverse, della diversità, per imparare ad essere noi stessi,
per tornare ad esserlo. Siamo così sicuri
che meriti diventare se stessi e non qualcosa di meglio? Un problema antico, anche Adamo ed Eva ci pensarono e decisero di non essere se stessi, ma di diventare
qualcosa di meglio.
Da allora non abbiamo mai smesso di
mangiare il frutto proibito, di prendere
strade sbagliate.
Ma non ce la faremo, Dio ci vuole troppo
bene, manterrà le diversità e queste diversità continueranno a farci del male fino a
che non impareremo ad essere noi stessi,
a riconoscere i nostri bisogni, i nostri desideri e gli altri intorno a noi.
Le ragioni dell'altro
di Pierluigi Ricci
Siamo sempre così attenti alla difesa delle nostre convinzioni, sempre pronti a portare anche gli
altri dalla nostra parte. Ma è sana, ci fa bene, e soprattutto ci fa crescere questa difesa a oltranza
dei nostri punti di vista?
Dovunque vai nel mondo trovi gente che per farlo. Però se insisterà su quelle
litiga, anzi, magari litigasse…
aumenteranno le tensioni.
Il più delle volte le persone passano giorni e C’è una chiave diversa che potrebbe aiutarci,
giorni a rimuginare rancori e a creare fazioni. ne esiste una soltanto, utile a risolvere i
Così vai in un ufficio e scopri che quelli nostri litigi o le nostre piccole o grandi
del piano di sotto ce l’hanno con quelli del guerre. Si chiama “le ragioni dell’altro”.
piano di sopra e… si fanno la guerra. È così È una chiave difficile, complicata perché
nei posti di lavoro e pure in tante famiglie. non è sovrapponibile ai nostri valori. È tutta
Così è nei gruppi, nelle associazioni, nei un’altra cosa che ti impone un cambiamento
luoghi del tempo libero.
di ottica e di valutazione.
È come se non si riuscisse mai a trovarsi A volte si accoglie l’altro, partendo dai
d’accordo e a smetterla di pensare all’altro nostri valori, perché si vuol essere buoni, per
come ad un antagonista. E
esempio, o si vuole essere
tutto questo porta a buttar
giusti, ma questo si chiama
Il mondo
via un sacco di risorse e a
sopportare, non accogliere.
cresce sulle differenze,
coltivarsi dei mal di stomaco
A volte ci facciamo in
che ci rovinano le giornate.
quattro per cercare di
non sulle somiglianze,
Chi si occupa di queste
convincere qualcuno delle
sennò gonfia, non cresce.
problematiche, penso alle
nostre verità, ma questo
organizzazioni, al mondo
si chiama pretesa, non
educativo, alle famiglie, alle chiese di tutte accoglienza. È la pretesa di cambiare gli
le latitudini, in genere imposta il discorso altri, di portarli ad assomigliarci.
intorno ai valori. Si richiama la gente alla La pace nasce da un rovesciamento di
buona volontà e a tutta quella serie di grandi fronte. L’altro, ogni altro, nella sua diversità
principi in cui ognuno crede, i valori appunto. ha le sue ragioni e cercare di scoprirle e
Ma questo non funziona più o forse non ha di accoglierle potrebbe essere la nostra
mai funzionato. Per un motivo semplice: fortuna.
anche il terrorista, paradossalmente, agisce Il mondo cresce sulle differenze, non sulle
e ammazza in nome dei valori, i suoi somiglianze, sennò gonfia, non cresce.
certamente. Ma anche chi lo contrasta in Non ci si sposa forse con persone diverse da
realtà fa lo stesso gioco, agisce in nome dei noi perché ci possano completare e ci siano
propri. Non sto dicendo che bisogna lasciar utili? Se uno è uguale a te, cosa potrebbe
stare i terroristi, dico che bisogna cambiare darti in più di quello che tu già hai?
strategia, perché più si insiste su questo Non ha senso quindi passare il tempo a
tasto, sul difendere i propri valori, più si spararci addosso, magari sbandierando l’idea
che stiamo facendo chiarezza, che è giusto
creano barricate e distanze.
Hai mai parlato, per esempio, con una dire quello che pensiamo. C’è un solo gesto
coppia in crisi? Ti sarai accorto che ognuno che porta luce alla vita, si chiama accogliere:
dei due pensa e difende le proprie posizioni in tutto ciò che è diverso da noi potrebbe
e in quello spazio magari ha tutte le ragioni esserci un’opportunità, anche per noi.
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Foto di Massimo Schiavo
La gloria di Dio
è la gloria di chi entra
nella casa dell'altro,
di chi sbenda gli occhi,
di chi apre tombe
ammuffite dicendoti
"Vieni fuori".
Angelo Casati
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La sana follia di Alda
di Milly Mammoliti
La scomparsa di Alda Merini è occasione di un ricordo commosso di tutta la poesia che ci ha
lasciato. Ma anche occasione per pensare a quanta bellezza ci sia nella diversità, e quanto
siano limitanti e grigi i recinti di chi vuol salvaguardare la normalità propria e giudicare quella
degli altri.
L’anno scorso avevo scritto una poesia dedicata
ad Alda Merini, e gliel’avevo mandata. C’erano
possibilità – seguendo le sue modalità e i suoi
tempi – che io potessi anche incontrarla. Purtroppo ora non è più possibile.
Mi sono chiesta cosa mi avesse spinto a scrivere
di getto quella poesia: in fondo io la Merini non
l’ho mai conosciuta personalmente, l’ho solo
molto amata attraverso i sui scritti e la sua storia.
La risposta è che sono rimasta attratta, colpita e
anche affascinata dalla sua diversità.
Una diversità che per certi versi, racchiude
tutte le diversità di cui solitamente parliamo.
Una personalità complessa, come ce ne sono
tante, fuori dagli schemi di normalità che ci
siamo dati. Ma tant’è. Lei è le sue poesie e le
sue poesie sono lei.
Amarla ed accoglierla nel cuore come una cara,
vecchia amica è stato perciò un volo spontaneo
della mia anima.
Alda è passata attraverso i suoi 78 anni con eccezionale lievità, in punta di piedi, con apparente
fragilità, ma con forza straordinaria. I tanti anni
passati dentro e fuori il manicomio non sono
riusciti a scalfire la sua anima. O forse l’hanno scalfita, non so. Certamente lei ha avuto la
straordinaria capacità di trasformare la propria
sofferenza sia fisica che spirituale in un groviglio di fili d’oro che poi ha tessuto e ricomposto
attraverso la sua poesia. Lei, rispetto ad altri “diversi”, è stata senz’altro privilegiata.
Ha sofferto nelle proprie viscere l’abbandono
e la resa alla malattia mentale, i tanti tremendi
elettroshock, l’allontanamento delle sue figlie, la
negazione di poterle vedere, mentre una madre
– diversamente malata – avrebbe potuto vederle;
i suoi amori al di fuori e al di sopra di tutte le
regole dove la differenza di età non ha costituito
né scandalo né vergogna perché l’amato, l’oggetto dell’amore, è al di là di convenzioni morali
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o sociali, dove la passione, la carnalità e il gioco
hanno fatto gridare la sua anima.
Ha vissuto l’amore per l’amore, punto e basta.
Forse solo le creature pure, incontaminate, quelle definite “folli” riescono a provare questo tipo
di sentimenti perché sono al di sopra delle parti
e possono provarli e viverli nel cuore e nel grembo, senza colpa. È stata discriminata e additata
per il suo passato da malata mentale, ha vissuto
molti anni in condizioni economiche precarie. Si
è sentita straniera nella sua città.
Quando finalmente si sono accorti di lei, il più
della vita era ormai passato e anche la sua salute
fisica cominciava a venir meno. Invece, da parte
sua, né risentimenti, né rimpianti, ma il ricordo
di quegli anni passati in manicomio dove lei era
“felice” con i suoi amici malati e dove il sostegno reciproco e la solidarietà erano le uniche
cose per cui andare avanti.
Lei “diversa” accoglieva i suoi compagni di
malattia “diversi” anch’essi, senza dare giudizi.
Con loro riusciva anche a ridere e a divertirsi per
qualcosa che solo lei e loro sapevano. Quello che
li univa era il comune linguaggio della cosiddetta
follia.
Quella follia che, secondo Mario Tobino, sta dalla parte dei giusti, delle anime candide. Quella
follia che fa piazza pulita di tutte le ipocrisie,
le convenienze, i formalismi e che noi, pervicacemente, vorremmo che non esistesse. Così
come vorremmo che ogni diversità non esistesse,
perché limita i nostri spazi, i nostri pensieri, ci
obbliga a guardarci nello specchio e ci crea imbarazzo e timore perché ci fa sentire inadeguati
e allora diventiamo distratti, a volte aggressivi e
spesso anche cattivi. Persone come Alda Merini
nel mondo ce ne sono tante e tantissime di loro
– paradossalmente meno “fortunate” di lei – rimarranno per sempre nell’ombra, ostaggio della
nostra normalità.
Foto di Massimo Schiavo
La bellezza
non è che che il disvelamento
di una tenebra caduta
e della luce
che ne è venuta fuori.
Alda Merini
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Il cammino inarrestabile dei migranti
di Erri de Luca
«Nascesse oggi sarebbe in una barca di immigrati insieme a Maria, gettato a mare in vista della
costa di Puglia o Calabria”. Gesù, secondo Erri de Luca, nasce ogni giorno al largo dei nostri mari.
È tra gli ultimi del mondo, che cercano un riparo. È tra gli invincibili, cioè tra coloro che, pur
costantemente vinti, sono sempre pronti a rialzarsi.
Erri, in che modo la Bibbia, libro che frequenti assiduamente, si occupa di chi bussa alla nostra porta e
ci chiede accoglienza?
“Che dà allo straniero pane e vestito” questo dice di sé
la divinità nella Scrittura sacra. E alla creatura umana
dice “e amerai lo straniero perché stranieri foste in terra
d’Egitto”. Circa cento volte la Bibbia scrive la tutela
dello straniero. Insiste la divinità col verbo amare, con
il più forte sentimento e la più potente energia del corpo
umano. Amare, che fa del bene prima di tutto a chi ama
prima di far del bene all’altro, allo straniero.
Non è certo così che oggi vengono accolti i tanti stranieri che bussano alla nostra porta. Vorrei che tu mi
dicessi qualcosa di una parola che rispecchia bene i
nostri tempi. La parola “clandestino”.
“Clandestino” è una parola che non rimanda a un reato penale, ma solo a un disagio amministrativo. Indica
non un criminale, ma una persona che deve mettersi in
regola con alcune pratiche. Il problema è che con questa
parola si vuole bollare tutta l’umanità che si sposta a
piedi per il mondo in cerca di una vita migliore. Per me
è una parola neutra dal punto di vista legale, nobile dal
punto di vista umano.
Hai dedicato un tuo recente spettacolo agli “invincibili”, cioè a quei vinti come Don Chisciotte che per
il fatto stesso di essere costantemente vinti sono, in
fondo, imbattibili. Anche i migranti di oggi sono invincibili?
Questa nozione di invincibile me l’ha suggerita un
poeta turco, Nazim Hikmet che chiama Chisciotte “il
cavaliere invincibile degli assetati”. Lì per lì mi sono
detto: “Ma come gli viene in mente? Che razza di invincibile potrebbe essere mai Chisciotte se è un vinto
a oltranza?”. Invece è così, ha ragione Hikmet, gli invincibili sono quelli che, continuamente battuti, senza
potersi arrendere mai, si rialzano in piedi e sono pronti
a battersi di nuovo.
Oggi gli invincibili sono i migranti, perchè nessuno
può fermare chi viaggia a piedi. I migranti partono su
qualsiasi imbarcazione, da qualsiasi sponda e compiono
un viaggio di sola andata, senza biglietto, tantomeno
quello di ritorno. Sono questi gli invincibili, quelli che
non possono essere sbaragliati.
Nessuna polizia, niente e nessuno può essere peggio
di quello che già gli è stato fatto e per il quale si sono
decisi a togliersi di casa, abbandonare tutto e percorrere
il mondo a piedi.
Che cosa unisce, secondo te, questi milioni di migranti?
Il coraggio sfegatato. Ci vuole uno straordinario coraggio a strapparsi dal proprio posto e cercarne un altro,
qualunque sia. Il problema è che oggi non avvertiamo
questo coraggio, non lo riconosciamo. Oggi avvertiamo
piuttosto la paura.
Di cosa è fatta questa paura?
La paura è un sentimento politico, che si può cavalcare
e che produce maggioranze. La paura però acceca, fa
dimenticare tutto, nasconde provenienza e appartenenza, ci fa sentire dei nati ieri senza passato.
La paura, poi, spinge a misure che non sono utili, perché né sbarramenti, né espulsioni, né naufragi fermeranno un’ondata migratoria che arriverà comunque e
che ci cambierà i connotati.
Secondo te questo atteggiamento di paura contiene del
razzismo?
Il razzismo da noi è come la mafia, non esiste. Nessuno lo ammette. Invece c’è un anticipo di razzismo,
non quello catastrofico che si è manifestato nella prima
metà del Novecento, ma uno strisciante, secondo, imbarazzato, ma efficace lo stesso.
Cosa si può fare, Erri?
Occorre programmare sistematicamente il sentimento
della fraternità. Non quello della tolleranza che è insufficiente. La tolleranza è qualcosa che qualcuno si deve
sforzare di suscitare dentro di sé. No, la fraternità, questo è l’argomento all’ordine del giorno.
*La conversazione è tratta dall’incontro di Massimo Orlandi con Erri de Luca in occasione del meeting di San Rossore, Pisa, del 2008.
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Invincibile
non è chi sempre vince,
ma chi mai
si fa sbaragliare
dalle sconfitte,
chi mai rinuncia
a battersi di nuovo.
Erri De Luca
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Così come sei
di Christine Reimann
Fabio è un ragazzo “speciale”. È nato con una malattia genetica rarissima, la IDIC 15.
Mamma Cristina, in occasione dei suoi 16 anni, gli ha scritto una lettera che ci permette di condividere. È un documento bellissimo, intenso, profondo. Che testimonia di quanto sia difficile e
doloroso staccarsi dalle proprie aspettative. Ma anche di quanta forza abbia l’amore, quando
ci permette di accogliere l’altro così come è.
Oggi è il tuo sedicesimo compleanno.
Vorrei farti i migliori auguri possibili. Cerco
di abbracciarti, ma come al solito non ti
piacciono gli abbracci delle persone, solo
quelli che fai tu.
Mi stringi di dietro, afferri i miei capelli con
i tuoi denti e tiri. Un attimo ti lascio fare, non
ti voglio respingere. Poi sento il bagnato sul
collo, mi giro e cerco di liberarmi.
La tua festa oggi sarà diversa dai compleanni
di altri ragazzi della tua età. Non mi dici
cosa vorresti come regalo. Non hai amici
che possiamo invitare. Quando stasera
mangeremo la pizza insieme con le persone
che si prendono cura di te, forse sarai già a
letto. Per te sarà un giorno come qualsiasi
altro.
Avevo delle idee diverse sul percorso della tua
vita. Certo, non ne ero cosciente, ma avevo
un piano ben preciso per te: dovevi avere
due mani e saperle usare, due piedi che ti
portavano ad esplorare le vie vicine e lontane,
due occhi per vedere il mondo e una testa per
capirlo e trovare la tua strada.
16 anni fa ti hanno messo sulla mia pancia
appena nato, e tu hai preso il mio latte. (…)
In genere, quando i figli crescono, i genitori
hanno il tempo per staccarsi lentamente dalle
loro aspettative.
Volevano uno che facesse il dottore, invece ha
smesso la scuola superiore e ora lavora come
giardiniere. Volevano una ragazza sportiva,
invece è diventata sovrappeso e non c’è verso
di farla mangiare meno. Volevano uno che
fa carriera, invece ha avuto un bambino a 17
14
anni e ora deve lavorare per tirare avanti.
Qualunque fosse stato il mio progetto per
te, quando avevi 6 mesi l’ho messo da parte
per sempre e ho cercato di camminare verso
nuove mete. Mete molto più piccole, ma nello
stesso tempo grandi come le montagne. Farti
sedere senza aiuto. Farti girare la testa quando
sentivi chiamare il tuo nome. Farti guardare
nei miei occhi.
Staccarsi dal mio progetto sulla tua vita è
stato molto doloroso. Ma lo dovevo fare per
vederti come sei. Non avrei potuto aiutarti nel
tuo cammino senza accettarti per quello che
sei. Se rimanevo attaccata alla mia immagine
del bambino perfetto non avrei potuto
accompagnarti su questa tua strada. (…)
Il dolore però era il mio, ed è rimasto mio. Tu
eri e sei tranquillo e felice come sei. Non ti
sei mai chiesto come sarebbe se fossi diverso.
Non ti misuri con gli altri. Ti sei accettato fin
dall’inizio per quello che sei. In questo sei
molto più bravo di me. Infatti, mi chiedo, se
non sono io quella che soffre di più in tutto
questo.
Che vedo quello in cui non riesci. Che ho
paura pensando a cosa ne sarà di te quando
non ci saremo più noi.
Ti devo confessare che nei momenti più
neri mi sono immaginata che la mattina
quando apro la tua porta te ne sei andato per
sempre. Mi ricordo che una volta dormivi
così profondo che per un attimo la mia
immaginazione sembrava essere diventata
vera. Che spavento ho provato, e che senso di
colpa! So bene che non volevo assolutamente
perderti. Volevo solo avere un po’ più respiro,
una vita quotidiana meno “pesa”. Ma se ti
dovesse succedere qualcosa, sicuramente
mi sentirei responsabile a causa di queste
fantasie.
Tante volte mi hanno accompagnata sensi di
colpa. Faccio abbastanza per te? Faccio le
cose giuste? Nel momento giusto?
Tu invece sei senza colpe. Sei una persona
vicina a Dio, come dicono in Irlanda. Tu vivi
in un’altra dimensione. La tua piccola anima è
pura come quella di un bambino appena nato.
Nessuno ti darebbe
mai colpe, anche se
delle volte qualcuno
alza la voce con te
per un momento,
quando lecchi il
muro o tiri capelli
o butti il piatto
in terra. Tu non
conosci il male.
In tutti questi anni
ho cercato di proteggerti dal mondo, da un mondo
dove contano solo
le persone che rendono. E le persone
potenti, che definiscono cosa rende.
In quella scala di
valori non esiste
quello che puoi
dare tu. Quello che
ho imparato da te
e che mi ha fatto così tanto più ricca: capire
cosa è veramente importante nella vita, vivere
momento per momento, senza prendere per
scontato quello che abbiamo.
Ma ho dovuto anche proteggere il mondo da te,
che sei diventato così veloce e forte, con le mani
dappertutto, con i tuoi urli insopportabili, con
la tua forza che non reggo più. Per alleggerire
la fatica ti abbiamo dato tanti soprannomi:
tempesta, Fabio il terribile, terremoto.
Non prendertela con noi per questo.
L’abbiamo fatto con un occhio che piange e
uno che ride.
Poi ho dovuto anche imparare a difendermi da
te, dalle tue carezze così violente da aggiungere
al dolore nel mio cuore anche quello fisico, e
dalle tue aspettative infinite verso di me, che
sono la mamma infinita per te.
Non sono infinita. Per dire la verità, dopo
questi 16 anni sono abbastanza finita…
Ora succede che qualche mattina mi giro
ancora nel letto, e anche se ti ho già sentito
trafficare nella tua
stanza, invece di
correre da te, vado
prima a prendere
un sorso di caffè
che il tuo babbo nel
suo infinito amore
mi prepara tutte le
mattine.
Sto per tagliare il
secondo cordone
ombelicale, quello
invisibile, che crea
quel legame particolare fra le mamme e i figli come
te. Questo non vuol
dire che non ti voglio più bene. Per
te, ci sarà sempre
un posto speciale
nel mio cuore, e
questo tu lo sai. Ma
sento ora, dopo 16
anni, che non sei più una parte di me.
Fai le tue esperienze, a modo tuo.
Certo, ti ci vorrà sempre una mano che ti guidi
e ti aiuti, ma non sempre sarà la mia.
Devi essere protetto, perché non ti puoi
proteggere da solo, ma non sarà solo mio il
compito di farlo. Avrai la tua vita con le tue
gioie e i tuoi dolori, come tutte le persone
di questo mondo, e io non li potrò dividere
tutti con te.
16
Foto di Checcaglini Piero
Vieni di nuovo
ad aprirci la porta del futuro
quando davanti
c'è così poco da vedere.
Vieni di nuovo
oggi che s'innalzano nuovi muri
io ti saluterò sulla porta
con la lanterna oscillante.
Luigi Verdi
17
Maurizio Maggiani e la profezia della vita
di Luca Buccheri
Quali sono i semi di speranza che possiamo leggere nel presente? Cosa ci chiama dal futuro? Sono
le domande degli incontri che abbiamo organizzato quest’anno. Le stesse che apriamo a Maurizio
Maggiani, scrittore. E per parlare di futuro lui parte da un libro antico. La Bibbia. Con una premessa.
“Non sono un cattolico romano, forse un cristiano”. E uno svolgimento. Tutto da ascoltare.
È voluto partire da un passo della “Bibbia dei
giudei e dei cristiani”, quasi per annunciare
delicatamente la prospettiva da cui fiorisce
la sua riflessione e testimonianza. Maurizio
Maggiani – autore tra i tanti del romanzo
“Il coraggio del pettirosso” – ha inteso così
affermare il primato del Dio della vita: «Non
rincorrete la morte, abbandonando la strada
che porta alla vita. Non distruggetevi con le
vostre mani. Ricordate: Dio non ha creato la
morte e non vuole la morte degli uomini. Ha
creato le cose perché esistano; le forze presenti
nel mondo sono per la vita, e non hanno in
sé nessun germe di distruzione. Sulla terra
non sarà della morte l’ultima parola. Chi fa
quel che piace a Dio vive per sempre, i cattivi
invece aprono alla morte la porta di casa, la
chiamano e la invitano a venire, la credono
amica e spasimano per lei, arrivano a fare un
patto con lei e meritano così di riceverla in
sorte» (cf. libro della Sapienza 1,13-16).
«Questo passo – ha spiegato lo scrittore ligure
– nega che Dio abbia compreso la morte nel
18
suo piano, nel suo disegno di universo». Sono
gli uomini che si alleano con la morte; le
camicie nere avevano come emblema la morte,
Francisco Franco ha combattuto la sua guerra
civile spagnola al grido di “Viva la muerte”.
Lì c’è alleanza con la morte. Ma «la morte non
può appartenere al pensiero di un vivente, alla
fecondità di un vivente, perché un vivente è
solo futuro».
Nato nel 1951 in una famiglia contadina e
poverissima (i suoi genitori dal macellaio
ci sono andati la prima volta per il loro
primogenito), Maurizio Maggiani non ha
però alcun ricordo negativo di quegli anni.
Come è possibile che non abbia conservato
il ricordo angosciante della fatica di quel
vivere miserabile, e che anzi abbia sentito di
appartenere ad una “famiglia di signori”?
«Perché sono vissuto in nome di ciò che
sarebbe potuto accadere, di ciò per cui io
sono nato e avrei potuto far accadere. Se
avessi chiesto a mio padre “dov’è il futuro?”,
mio padre mi avrebbe detto “vieni qui,
guarda”, e mi avrebbe mostrato le mani. Sì,
io ho vissuto in una famiglia che ha vissuto
per il futuro, nella certezza che nelle proprie
mani risiedeva il futuro, una vita promettente;
sono stato cresciuto a pensare che le cose non
avrebbero potuto che andare meglio, e che io
ero lì proprio per quello, per far andare le
cose meglio».
«Sono inciampato diverse volte e sono caduto, anche fisicamente – ha continuato nel suo
racconto carico di toccanti riferimenti autobiografici –. Sono pieno
di ferite e di cicatrici,
ho fatto incidenti di
ogni genere e natura.
Alla base delle mie
ferite ho sempre trovato una distrazione,
non una distrazione
dal codice della strada, ma una distrazione dalla vita. Sì, sono
andato da un’altra
parte. E la ruvidità,
gli spigoli in cui si
è trasformato il mio
corpo, è la mia anima
quando ho rinunciato
al mandato di vivere. La rinuncia alla vita è
un’infermità. Rinunciare alla vita è rinunciare
al futuro, perché la vita è solo fecondità. Non
c’è altra possibilità di vivere se non in modo
prolifico e fecondo».
E che significa generare – si è chiesto
Maggiani – se non costruire futuro, costruire
vita, vita che verrà? La vita è in sé una
profezia, una visione ulteriore delle cose. C’è
profezia nella bellezza, quella bellezza che i
nostri nonni neanche sapevano pronunciare,
tant’era lontana dalle loro categorie mentali;
per loro era importante fare un lavoro “ben
fatto”. Ma quanta bellezza c’era in un lavoro
“ben fatto”! «Anche se loro non lo sapevano,
costruivano bellezza; lì, in un lavoro ben
fatto, c’è profezia, c’è gratuità e futuro, c’è
un vedere oltre…».
Gettando poi uno sguardo attuale sulla nostra
“mortifera” epoca, il nostro amico scrittore si
è chiesto come e se sia possibile arrendersi ad
un’epoca. «Io credo di no. Arrendersi ad uno
spirito di morte non è umano». Non è naturale
che l’operaio si arrenda al suo salario, come
non era naturale per un partigiano arrendersi
allo spirito di morte. «Non è ragionevole
vivere una vita che rinuncia alla sua
fecondità», neanche nei posti più orribili della
terra; «neanche nel campo profughi di Kigali
( R w a n d a , n d r. ) ,
o n e l q u a r t i e re
b o m b a rd a t o d i
Tuzla in Bosnia, o
nella favela di Rio
de Janeiro ho visto
uomini e donne
arresi alla morte.
Anche nel posto più
fetido e rivoltante
c’era qualcuno che
si dava da fare per
renderlo più umano,
più vivibile. Una
baracca ben fatta
contiene in sé un
grano di profezia e
quindi di bellezza. Ci sono delle belle baracche
nelle favelas… sembra una follia e invece no,
è quello che ho visto. Se non si arrende alla
morte l’uomo costruisce futuro, è prolifico,
fecondo, profetico. Vivere umanamente
necessita di avere in sé una bellezza e quindi
di avere in sé un poco di profezia e dunque un
grado di futuro».
«Non possiamo vivere una vita senza
profezia, senza un racconto più grande di
ciò che vediamo». E ha concluso: «Il futuro
è cammino, è andare», come quei 17 passi
che Maggiani, reduce da un incidente in
motocicletta, ha impiegato 3 anni a percorrere
dal suo letto al bagno. È facile arrendersi al
primo degli orizzonti. Ecco il futuro: «Se sono
riuscito a farlo è perché ho visto oltre, il passo
successivo».
19
Il giovane
poeta
che è in noi
di Maria Teresa Marra Abignente
Maria Teresa ci invita questa volta non
a scoprire, ma a ritrovare un grande
autore, Rainer Maria Rilke.
L'obiettivo? Rileggere le “Lettere a un
giovane poeta” in veste di destinatari.
In comune abbiamo il giorno della nascita. “Lettere ad un giovane poeta”, questo il
Mi piacerebbe però avere di lui la capacità suo titolo. E non pensate che il fatto che siadi raggiungere i segreti delle cose e dar loro no destinate ad un poeta significhi che non
voce, e possedere quel meraviglioso talento siano indirizzate anche a noi, perché Rilke
che riesce a plasmare le parole, trasforman- in queste pagine non parla solo di poesia o
dole in emozioni.
dello scrivere in generale, ma piuttosto del“Abituerò il mio cuore al suo orizzonte più la poesia che è nella vita, in ogni vita, per
lontano” e cos’altro è, in ultima analisi, la quanto banale o monotona possa sembrarci.
poesia se non questo impa“Se la vostra vita quotidiarare ad andare oltre le apEd ogni cosa a cui mi dono na vi sembra povera, non
parenze fugaci della vita, ed
l’accusate; accusate voi
diventa ricca
avvicinarsi, in un dialogare
stesso che non siete assai
e mi spende.
incessante, alle sue sorgenti
poeta da evocarne la ricpiù indistinte e nascoste?
Rainer Maria Rilke chezza”.
Ma oggi, più che delle poeÈ uno di quei libri da tenere
sie di Rilke, voglio parlarvi di un suo piccolo sempre sul comodino, per aprirlo la sera e
e prezioso libricino, poche pagine intrise di leggerne qualche riga, o da tenere in borsa
una saggezza tutta speciale, tanto profonda per cercare, magari durante un viaggio in
e urgente. E sono certa che, se frugassimo treno o in fila alla posta, un’eco alla propria
ben bene nella parte più intima del nostro inquietudine. E ti sorprende sempre, perché
cuore, di certo scopriremmo un frammento sempre riesce a raggiungere quell’ansia sfodi quello stesso desiderio, perchè in ognu- cata e spesso oscura di un infinito che reclano c’è, più o meno nascosto, il sogno di un ma in noi e che altro non è che un semplice
“orizzonte più lontano”.
ed umile bisogno di vita. “Quanto ci credo
20
nella vita! Non a quella vita che si esaurisce
nel tempo; ma a quell’altra vita, la vita delle cose piccole, degli animali e delle grandi
pianure. Questa vita che dura nei millenni,
apparentemente senza partecipazione e tuttavia piena di movimento, di crescita e di
calore nell’equilibrio delle sue forze… Per
questo voglio deporre ogni superbia, non levarmi più al di sopra del più piccolo fra gli
animali e non considerarmi più splendido
di una pietra”.
Sarà forse perchè la vita è infinita e sottile e
non si lascia rinchiudere dalle parole che vogliono descriverla ed esaurirla e sarà perchè
tutti noi proviamo questa fatica del dire l’indicibile, che questo libretto ci diventa così
caro? Sarà perché ci richiama assiduamente
e dolcemente ad imparare l’arte difficile e
paziente dell’ascolto della vita, a partire dalla nostra vita, che nel leggerlo ci sentiamo
incoraggiati, compresi, sostenuti?
“Voi avete avuto molte e grandi tristezze,
che se ne sono andate… Ma vi prego, riflettete se quelle grandi tristezze non siano
piuttosto passate attraverso di voi. Se molto
in voi non si sia trasformato… Ci fosse dato
di veder più oltre che non giunga il nostro
sapere, forse allora sopporteremmo in noi
le nostre tristezze con maggior fiducia che
le nostre gioie. Ché sono in esse i momenti
in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi,
qualcosa di sconosciuto; i nostri sentimenti
ammutoliscono in casta timidezza, tutto in
noi indietreggia, sorge una calma, e il nuovo, che nessuno conosce, vi sta nel mezzo e
tace”.
No, non è solo destinato ai poeti questo libro, perché la poesia è nella vita e per questo tutti ne siamo partecipi; tutti possiamo
cercarne il sorriso, anche se insicuri, anche
se impazienti, anche se tremanti. E con l’arroganza tipica dei giovani a volte la calpesteremo o fingeremo di poterne fare a meno,
ma ci saranno attimi in cui ci verrà incontro
e non potremo sfuggirla. E ne saremo come
trafitti. E saranno attimi di eterno.
“Voglio restare in questa tempesta e sentire
tutti i brividi di questa grande commozione.
Voglio avere autunno. Voglio coprirmi d’inverno e con nessun colore voglio tradire la
mia presenza. Voglio essere sepolto dalla
neve per amore di una primavera futura,
affinchè ciò che germoglia in me non si levi
troppo presto dai solchi…”.
Che questo amore per “una primavera futura” possa aiutare tutti noi, giovani poeti
della vita, a sopportare le aride stagioni, i
giorni sbiaditi o violenti; e nel silenzio, tutto teso all’ascolto, prepararci al nostro orizzonte più lontano e puro.
Lettere a un giovane poeta
Rainer Maria Rilke
Nel 1903, Franz Kappus, giovane
aspirante poeta scrive una lettera
con alcuni suoi versi a Rainer Maria
Rilke, celebre poeta e scrittore ceco
(era nato a Praga nel 1876), chiedendogli consigli. Inizia così un breve
carteggio fatto di umili consigli e
insegnamenti preziosi sul “mestiere”
del poeta che diventano pagina dopo
pagina, un invito all'ascolto interiore.
Con toni accorati, Rilke espone i temi
principali della sua poetica: esorta
Kappus a indagare se veramente lo
scrivere sia per lui una necessità, gli
indica il peso e la grandezza dell'essere artista, lo esorta alla solitudine
come unico mezzo per giungere alla
maturazione di sé. Dal poeta maturo
scaturisce una sorta di lezione fatta
di consigli stilistici e, soprattutto,
di insegnamenti spirituali. Le dieci
lettere diventano così un profondo
e accorato richiamo ad ascoltarsi e
ascoltare la voce del silenzio, troppo
spesso dimenticata.
21
Verso il Natale
La Madonna
del latte
di Angelo Casati
Don Angelo ci regala quest’immagine inconsueta nelle immagini della natività: l’immagine
reale di una mamma che nutre suo figlio. Di Maria che allatta Gesù. Eppure, è questo l’invito, è
in quest’immagine concreta, viva, reale, che si esprime il senso vero e profondo del Natale.
Arrivo ogni anno a Natale con il fiato corto. Ma
anche, e forse ancor più, con il fiato sospeso.
Il fiato corto è fiato di fatica. Fatica a reggere.
Il fiato sospeso è fiato di contemplazione. Di
occhi sgranati. Il fiato lo sospendi o lo trattieni
perché neppure il più esile fruscio possa violare
l’incantamento.
Penso al fiato sospeso nella grotta della nascita.
Penso al fiato sospeso di Maria, fiato delle mani
che toccano e non toccano il bambino. Era suo o
non era suo? Baciava, ma solo sfiorando.
Penso al fiato sospeso di Giuseppe… Quel
bambino era da proteggere, quella moglie,
ragazza madre, era da custodire. E teneva il fiato.
Capiva e non capiva.
Fiato sospeso, fiato caldo di una grotta che ogni
anno veniamo a visitare. Ma perché dura questo
nostro fiato ancora oggi sospeso, ancora oggi
caldo? Perché dopo il migrare di generazioni e
generazioni nella storia?
Perché Dio ha visitato la nostra terra, ha
cancellato la distanza. Facendosi carne: “il Verbo
si è fatto carne”.
E si gridò allo scandalo e non poteva non
succedere. Scandalo e buona notizia, evangelo.
Ma se non patisci lo scandalo, se l’evento non ti
lascia con il fiato sospeso, non è vero Natale.
Sarai come tanti cristiani che, a protezione di
scandalo, pensano che Gesù fosse un po’ uomo e
un po’ no, che toccasse la terra e non la toccasse.
E invece no. La toccava, era fatto di terra. Come
noi. E il bambino si attaccava al seno, come i
nostri bambini. Un Dio che ha bisogno di latte.
Ti dirò che per me Natale fu anche un pomeriggio
di fine novembre quando entrai in una casa di
piazza Bernini, una delle tante case ospitali di
questo avvento. Notai un attimo di esitazione
sul volto della mamma. “Nicoletta” mi disse
“sta allattando il bambino”, ma subito la vidi
affacciarsi nella sala con il suo bimbo che le
succhiava il seno. Gli occhi erano bellissimi e
felici. Come gli occhi di una Madonna.
La mente mi corse quella mattina alle
raffigurazioni della Madonna del latte. “Una
Madonna da nascondere” così il titolo di un
libro di uno scrittore lecchese, Natale Perego,
che parla di questa iconografia della Madonna
che ebbe la sua massima fioritura a cavallo tra
il quattrocento e il cinquecento, registrando
poi una progressiva costante emarginazione
* L'intervento è tratto da “Fiato sospeso fiato caldo”, in Sussulti di speranza, edizioni Ancora, 2009
22
quasi fosse un soggetto religioso sconveniente,
imbarazzante, da accantonare.
Si preferì dare a Maria gesti e movenze che forse
mai le appartennero e velare invece un gesto che
di certo fu suo. Ma ritenuto troppo umano, troppo
terrestre, quasi un eccesso di incarnazione.
Il bambino che succhiava il seno di Nicoletta mi
riportò al cuore la Madonna del latte, ora in esilio
nell’iconografia religiosa. Ma non solo. In esilio,
mi sembra di capire, anche nella spiritualità,
legata per lo più alle mani giunte e molto meno,
quasi mai, a un seno che allatta. Quasi un processo
di disincarnazione, di disumanizzazione. Di Dio
e della spiritualità. E di conseguenza un attentato
alla buona notizia. Di un Dio che tocca la terra ed
è nutrito dalla terra.
Più volte, andando per case in questa lunga vigilia
di Natale, entrando, osservando, ascoltando, mi
è passato e ripassato nel cuore il sospetto che
al Dio dell’incarnazione, al Dio che prende
casa, si stia rispondendo con una religione fuori
dalle case, fuori da ciò che accade nella casa e
nel cuore. Con documenti e interventi nati nei
palazzi freddi e lontani e non nell’inquieta vita
delle donne e degli uomini del nostro tempo,
fuori da una vera appassionata frequentazione
della loro vita.
E si ripropone la distanza. Proprio là dove buona
notizia era che la distanza era stata cancellata.
Forse è per questo che mi sembra di cogliere
sempre più nell’aria che respiriamo un invito
urgente e forte: ritornate a fare come faceva lui,
Gesù, lui non era l’uomo delle piazze, le piazze
odorano di esibizione. Era l’uomo delle strade,
dove ci si fa compagni di viaggio, compagni
delle domande della vita, scrutatore di volti, delle
tristezze e delle gioie dei volti. Lui uomo delle
case: “Oggi voglio fermarmi in casa tua”. E a
tavola lo trovi con i pubblicani e i peccatori.
Entrando nelle case, osservando ascoltando,
avverto e misuro con sgomento tutta la distanza
che per colpa nostra si è ricreata tra il Verbo e la
carne dell’umanità.
Penso sia venuta l’ora, e sia questa, in cui si
debba riprendere con serietà e coraggio la via
che il Verbo facendosi carne ci ha lasciato. Meno
esternazioni e più condivisione delle speranze e
delle gioie, dei drammi e delle sofferenze delle
donne e degli uomini del nostro tempo.
La Madonna del latte.
23
IL NUOVO LIBRO DI "PAROLE E IMMAGINI"
Giovanni Vannucci
fede - speranza - amore
N
Parole e ImmagInI
GIOVANNI VANNUCCI
fede - speranza - amore
con un testo di
David maria Turoldo
ato a Pistoia nel
1913, Giovanni
Vannucci ha percorso i 71 anni della sua
esistenza da viandante dell’infinito, cercando continuamente di aprire domande
e di ribaltarle, come
fa la vanga nella zolla, per rendere la sua
terra, e la nostra, più
fertile.
Uomo di poche parole, come quelle
raccolte in questo libro, distillato
genuino della sua sapienza,
accompagnate da immagini che
evocano il suo orizzonte di Fede,
Speranza e Amore.
Il libro apre con un ricordo inedito
di David Maria Turoldo scritto
venticinque anni fa alla morte di
Giovanni Vannucci.
GIOVANNI VANNUCCI
Frate dell’ordine dei Servi di Maria, è stato
studioso e insegnante di materie bibliche e di
storia delle religioni. Protagonista negli anni
Cinquanta e Sessanta del rinascimento spirituale fiorentino con David Turoldo, Lorenzo
Milani, Ernesto Balducci, ha vissuto, come
loro, le dure resistenze di una Chiesa che non
sapeva accettare uno sguardo così aperto sul
futuro.
Nel 1967, in un angolo nascosto del Chianti, ha trovato il suo frutto maturo: un eremo
dove vivere e accogliere ogni persona in uno
stile armonioso e libero, con un’apertura sincera e profonda verso tutte le religioni.
Il 18 giugno 1984 è entrato in contatto diretto
con quel Dio cui si è rivolto per tutta la vita.
Ma non ha interrotto il suo cammino sulla
terra: dal seme delle sue idee continuano a
nascere frutti preziosi.
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NUOVA VEGLIA
Con altri occhi
“L’unico vero viaggio,
non è andare verso nuovi paesaggi,
ma avere altri occhi.”
Marcel Proust
Continua il viaggio. Di porto in porto, di città in città, anche quest’anno la Fraternità
Fraternità di Romena
Veglia 2009-2010
viene a trovarvi per trascorrere una serata di incontro, di riflessione, di silenzio, di
preghiera. “Con altri occhi” è il titolo della veglia di quest’anno.
“Con altri occhi” per guardare alla nostra vita in trasparenza, con lo sguardo ripulito
dal superfluo, concentrato sull’essenziale, aperto al dono dell’esistere.
ALBA (CN)
Parrocchia Cristo Re - Piazza Cristo Re
ore 21,00
SIENA
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ore 21,00
AREZZO
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17 Dicembre
27 Gennaio
3 Febbraio
DATE E LUOGHI
GROSSETO
Centro Giovanile Salesiani - via degli Apostoli, 1
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Parrocchia di San Matteo - via Prov. Pisana
ore 21,00
LE PIAGGE
Comunità delle Piagge
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BOLOGNA
Chiesa S.M. della Misericordia - Piazza di Porta Castiglione ore 21,00
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Parr. S. Stefano in Candelara - Strada della Pieve 4
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Parrocchia Nostra S. Natività
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Parrocchia Sant’Antonio di Padova
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Chiesa di San Marcello
ore 20,30
SAN SEVERO (FG)
Casa Ecumenica "Eirene"
ore 20,30
NAPOLI
Istituto Maria Ausiliatrice - via Cimarosa - Vomero
ore 21,00
FONDI (LT)
Monastero San Magno
ore 21,00
ROMA
Parrocchia San Frumenzio - via Prati Fiscali
ore 21,00
PERUGIA
Chiesa di Santo Spirito - via Parione, 17
ore 21,00
9 Febbraio
10 Febbraio
17 Febbraio
23 Febbraio
24 Febbraio
25 Febbraio
8 Marzo
9 Marzo
10 Marzo
11 Marzo
12 Marzo
23 Marzo
24 Marzo
25 Marzo
20 Maggio
27
AVVISI
NATALE
CAMMINATE BIBLICHE
IN CASENTINO
con Luca Buccheri
20 Dicembre
MERCATINO DI NATALE
Messa ore 16,30
24 Dicembre
Messa di Natale ore 22,30
25 Dicembre
Messa di Natale ore 16,30
1 Gennaio
Messa ore 16,30
Immersi nella natura e nella bellezza dei paesaggi
del Casentino, vogliamo ripercorrere alcune
bellissime pagine della Bibbia in spirito di fraternità
e semplicità. Le camminate non sono particolarmente
impegnative (2-3 ore) ed è previsto il rientro in tempo
utile per partecipare alla Messa a Romena.
• 17 gennaio 2010:
“Adamo, Eva e il giardino” (Genesi 2-3), con partenza da San Martino
Sopr’Arno (Capolona – AR) alle ore 9,30 per raggiungere la Pieve a
Sietina e Ponte a Buriano (Km 8; dislivello m. 250). Portare Bibbia
e pranzo al sacco.
• 18 aprile 2010:
“La fraternità spezzata” (Genesi 4), con partenza da Ponte a Poppi
alle ore 10 (Piazza principale), per raggiungere Strumi e l’eremo di S.
Torello (Km 5; dislivello m. 300). Portare Bibbia e pranzo al sacco.
• 26 giugno 2010:
“La lotta notturna di Giacobbe con Dio” (Genesi 32), con partenza da
Quorle alle ore 21 (camminata notturna in compagnia di Wolfgang
Fasser). Durata: ca. 3 h. Portare Bibbia, lampadina tascabile,
telo per sedersi. Possibilità di cena e pernotto a Quorle, previa
prenotazione.
N.B. Per chi volesse arrivare la sera prima è possibile fermarsi a dormire
a Papiano previa prenotazione. Info e prenotazioni: 335.6505904
(Luca)
28
GRAFFITI
i dice che siamo fatti a somiglianza di
Dio, e credo che questa somiglianza sia
l’unica di cui valga la pena andar fieri.
Gesù a trent’anni abbandonò la sua famiglia, la
falegnameria, i suoi amici, il suo paese, per
vivere a pieno il suo progetto, senza più
nascondersi dietro un’appartenenza a un branco
o un nascondiglio sicuro. Andava dicendo: “Il
Figlio dell’Uomo non ha dove poggiare il capo”.
Il Figlio di Dio è stato un diverso per eccellenza.
Ha ribaltato tavoli, sovvertito regole. E finì su
una croce, additato come estraneo, eretico,
pazzo, pericoloso per la società. Forse, come il
tao, in cui si mischiano il bianco ed il nero, il
nostro DNA divino è mischiato con altri pezzi
scuri, fatti da tutto ciò che Amore invece non è.
Ma non credo ce ne dobbiamo vergognare. Il tao
è un disegno bellissimo. Accogliere il male che
c’è nel nostro corpo e nel nostro cuore,
individuarlo pezzo per pezzo al microscopio,
cercarlo e ascoltarlo con pazienza, abbracciarlo,
come il bianco del tao abbraccia il puntino nero,
viverlo fino in fondo, per poi scoprire quando
meno ce l’aspettiamo che, pur essendo ancora lì
dentro di noi, non ci dà più fastidio, ce ne siamo
liberati per sempre. Il progetto del Cristo sulla
croce finisce proprio così, con l’accoglienza
drammatica di tutto ciò che è tanto diverso da
Dio, l’accettazione di tutto ciò che non è Amore,
dell’odio, della sofferenza, del male. La storia
del Cristo finisce come il puntino bianco di un
tao in mezzo al nero, un puntino di Amore che,
accogliendo la diversità, ci ha dato una dritta per
diventare lentamente delle persone migliori.
S
Elisabetta Persiani
o sempre saputo e pensato di “essere
diversa”. Era un’idea chiara, in mezzo
a un mare di idee confuse. Oggi, in
questo tempo che io trovo pesante e poco pensante, si crede e ci si concentra sull’accogliere
la diversità fuori da noi. Questo è bello e onorevole. Ma mi chiedo: non sarà forse più urgente
e necessario accogliere e quindi ripartire dalla
diversità dentro di noi? Dalla diversità che noi
siamo e incarniamo. Per abbracciare il diverso
fuori dobbiamo essere capaci di abbracciare il
diverso dentro. In un mondo appiattito, omologato, schiacciato su modelli uguali per tutti, non ha
più senso il lavorare sull’accoglienza del nostro
divergente? Credo di sì. Nella mia esperienza,
solo quando ho capito che il mio percorso di
“quasi adatta” aveva la stessa dignità dei percorsi apparentemente perfetti di altri, ho potuto
davvero riconoscermi e accettarmi e poi, solo
in un secondo momento, vedere e apprezzare
la diversità degli altri attorno. Qui inizia uno
sguardo autentico e vero su noi e sugli altri; qui
inizia l’accoglienza.
H
Cristina
n un mondo che ormai è diventato un
“villaggio planetario” – secondo la
felice e profetica intuizione di padre
Ernesto Balducci proposta alla fine degli anni
80 – noi stiamo sempre più chiudendoci in gruppi
di simili dove riaffiorano fenomeni razzisti e di
crescente intolleranza verso l’altro, verso chi
è diverso da noi. Il diverso da me mi inquieta,
inquieta il mio quieto vivere, mi disorienta e
mi mette in discussione. Significative, a questo
proposito, sono le violenze del tutto gratuite
contro gli zingari, ma anche contro i barboni o i
I
29
gay, violenze sempre più frequenti e sempre di
gruppo: la paura diventa odio e si organizza e non
ha nemmeno più pudore di mostrarsi.
La scoperta dell’alterità, la scoperta dell’altro
come diverso da me è impegnativa, difficile ma
è l’unica strada perché il mondo abbia un futuro
o, se vogliamo rimanere in una dimensione solo
personale, perché io possa conoscermi meglio
e crescere. Dove, se non nel volto dell’altro, io
posso scoprire il mio volto, i miei limiti e le mie
potenzialità? Penso che questo sia il progetto di
Dio all’origine della creazione, la costruzione di
una grande famiglia umana nella bellezza delle
differenze, la costruzione di un mondo nuovo
dove si ricrei una nuova armonia nell’umanità
e fra questa e il creato, premessa indispensabile
per una nuova unità con il Creatore.
d. Carlo Prezzolino
gni tipo di diversità, ha sempre suscitato reazioni, paure e un tempo di “elaborazione” che non necessariamente
corrisponde all’urgenza dell’accoglienza! Niente
può essere dato per scontato e la diversità può
sorprendere sempre. Non si annunzia, arriva.
Può essere chiamata in mille modi questa diversità: malattia, morte, dolore, cambiamento
di stato sociale… Penso che tutti nella nostra
vita abbiamo dovuto farne i conti: accogliere il
diverso da noi che come arriva grida e pretende
un posto, diventa, a volte, una dura battaglia! Chi
eravamo noi, prima di questo arrivo? Chi siamo
noi in questa lotta, in questa resa?
O
Paola Fabbri
ari amici, ricevo il giornalino con grande gioia perché porta sprazzi di luce in
questa “bruma lombarda” e mi fa sentire
ancora “a casa” come quando ho fatto il primo
corso a Romena. Sentirmi diversa è una delle prime sensazioni che ricordo nitidamente nella mia
infanzia, pur essendo sana e intelligente, la mia
sensibilità e l’esser stata precocemente responsabilizzata per problemi in famiglia, mi facevano
sentire inadeguata tra i miei coetanei. Per buona
parte della vita ho lottato contro questa insidiosa
sensazione, cercando di capire cos’era che non
andava in me. Solo in un luogo sentivo di poter
C
30
essere veramente me stessa, era nel mio lavoro con
i miei ragazzi. Sono un’insegnante di sostegno,
anche se questa definizione non mi piace, perché
penso che nei momenti più bui della mia vita siano
stati loro ad accogliere e sostenere me. Sono una
maestra “diversamente abile” perché da loro ho
imparato la tenacia e la pazienza nel seguire un
obiettivo, la capacità di accettare il limite e la frustrazione, ma soprattutto la semplicità del volersi
bene. La mia esperienza mi ha insegnato a cercare
di accostarmi agli altri con empatia, di andare oltre
le parole, di non chiudermi quando mi sento non
compresa, di ascoltare quel sano disagio che mi
prende quando mi adagio in umane certezze e che
mi dice di rimettermi in viaggio.
Maria Grazia De Angeli
ono ormai 13 anni che non vivo più
nella città in cui sono nata e, sebbene
siano solo 600 i chilometri che mi
distanziano da essa, mi sono sempre sentita
diversa, o più precisamente mi hanno fatto
sentire tale! Anche se parliamo tutti italiano ci
sono alcune cose che qui hanno un significato
diverso! Io sono sempre quella della “bassa”, ci
si ricorda solo della delinquenza e mai del cuore
immensamente grande che hanno i napoletani!
Quanti Natali da sola… Al mio paese non si va
a tavola sapendo che il tuo vicino cena solo la
notte di Natale. Qui i miei vicini ignorano anche
il mio nome, alcuni non rispondono neanche al
saluto! Ma io sono diversa e al mattino mi sveglio col sorriso e anche se ho la morte nel cuore
saluto tutti. La mia mamma mi ha insegnato
che il “buongiorno” è dell’Angelo! Per cui mi
domando: “Se sono diversa io nella mia stessa
Italia, quale sarà il trattamento per coloro che
effettivamente non sono italiani?”. Vi lascio con
S
questa domanda e vi ringrazio per aver dato voce
al mio pensiero.
Susy Mar tone
o fatto fatica ad accogliere la diversità.
Si può lottare contro chi alberga nelle
nostre città, per le nostre strade, nei
nostri quartieri. Ma è tutto un altro discorso se
l’ospite non si vede. E non si vede, infatti, per
un motivo molto semplice: è dentro di noi. Così
il caro nemico abitava dentro di me. Passeggiava
scomodamente nelle stanze del mio io, con tutta
la sua artiglieria. Dispone di un carico pesante di
insicurezze, paure, fragilità, sensibilità, orgoglio
ferito. Non potevo fargli nulla perché… ero io. Il
diverso. E non mi piacevo. Sì stavo per schiacciarlo il diverso che ero, fatto di insicurezze,
scrupoli, attenzioni fuori posto, partecipazione.
Ma quando il diverso è invece l’altro, quando
quel che brucia sulla sua pelle non brucia la
mia, tutto cambia, vero? Ecco perché masse di
umanità soffrono sotto il fardello delle loro differenze di colore, razza, idee, ceto o religione. Ho
vissuto sulla mia pelle – pur bianca – la durezza
della guerra per debellare il diverso. E infine ho
accettato l’emarginazione. Sì, mi sono arreso e
ho aperto le braccia al diverso; ho aperto il mio
cuore al suo essere altro, al suo essere fuori dalle
righe, al suo volere essere cose che gli altri non
cercano, al mio cercare cose che altri non vogliono. Un diverso posso dire di averlo salvato;
e oggi questo diverso ama i diversi.
H
Mario Meola
i trovo a volte davanti a persone che mi
raccontano la vita, la loro stessa vita nei
più svariati aspetti. Normalmente nel
discorso, quando sfocia in ambito religioso, si
sprecano le espressioni del tipo “io penso, io credo,
io dico, a me sembra…”. E mentre ascolto mi nasce
naturale la domanda: Ma questa non è forse una
religiosità fatta di monologhi dove tutto ha inizio
dall’io e in esso termina? Mentre mi lascio penetrare dal racconto del mio interlocutore attendo il
momento propizio per donargli questa domanda,
a bruciapelo: «Ma scusa un po’: l’Altro cosa ne
pensa?». L’Altro da accogliere nella sua diversità
è Dio, ben sapendo che lui vuole solo il nostro
M
bene. Solo così riceviamo la forza e la capacità di
accogliere disinteressatamente i fratelli, le sorelle,
perché in loro vediamo Lui. Terminato il colloquio
col mio interlocutore vedo nel suo sguardo una luce
nuova… è pensoso, serenamente pensoso. Ora ho
la gioia di portare nel cuore un amico in più, un
amico con cui camminare, un amico che spero di
rincontrare presto!
Cesare
ggi sento nel cuore un vago tremolio
di stelle, però il mio sentiero si perde
nell’anima della nebbia. La luce che
tronca le ali e il colore della mia tristezza bagna i ricordi nelle sorgenti del pensiero.
Tutte le rose sono bianche, tanto bianche, come
la mia sofferenza, e non sono bianche loro, ma la
neve che le copre… anche nell’anima nevica…
La neve cade dalle rose, però quella dell’anima
resta…
Stefan Cristian Ionut
O
PROSSIMO NUMERO: il giornale in
uscita a Marzo approfondirà il tema:
“La responsabilità”.
Inviateci lettere, idee, articoli, foto (termine
ultimo: 28 febbraio 2010), preferibilmente
alla nostra e-mail: [email protected]
UN CONTRIBUTO: se volete darci una mano a
realizzare il giornalino e a sostenere le spese potete
inoltrare il vostro contributo col bollettino allegato, oppure effettuare un’offerta ai seguenti conti
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PASSAPAROLA: se sai di qualcuno a cui non è arrivato il giornale o ha cambiato indirizzo, se desideri
farlo avere a qualche altra persona, informaci.
SEGRETERIA: l’orario per le iscrizioni ai corsi è
preferibilmente dal mercoledì al venerdì dalle 17,30
alle 19,30, sabato e domenica quando vuoi.
Le iscrizioni ai corsi si aprono il primo giorno del
mese precedente al corso stesso.
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Foto di Massimo Schiavo
Più che dissipare l'ombra di Caino,
dobbiamo accoglierla.
Perché ci talloni in termini critici.
Perché censuri le violenze quotidiane
di cui siamo protagonisti.
L'ombra di Caino non dobbiamo
scrollarcela di dosso,
ma dobbiamo accoglierla.
Tonino Bello
32
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2009/4-Accogliere la diversità