PERCHÉ “SÌ” ALLA REVISIONE COSTITUZIONALE DEL 2005
di
Carlo Fusaro
(Professore ordinario di Diritto pubblico e pubblico comparato, Università di Firenze,
Facoltà di Scienze politiche“C. Alfieri”)
14 giugno 2006
Sono dell’idea che in occasione del referendum del 25 e 26 giugno 2006 la riforma,
pur perfettibilissima, sarebbe da prendere piuttosto che da lasciare, e vorrei chiarire perché.
Con una premessa: la mia è una scelta da cittadino. Certo è corroborata da qualche
conoscenza delle problematiche coinvolte. Ma non è che uno è a favore o contro in quanto
presunto sapiente o in quanto appartenente a una categoria professionale, per esempio in
quanto “costituzionalista”. Né mi turba il sapere che gran parte dei costituzionalisti, almeno
gran parte di quelli che si sono pubblicamente pronunciati (ma pur sempre una parte limitata
ancorché particolarmente attiva della “categoria”), sono contrari. La scelta non è questione
tecnica, ma politica, e – per una volta – nel senso più alto e nobile della parola. E dunque non
serve a niente contare quanti costituzionalisti sono a favore e quanti contro, o meglio, si può:
ma ciò non ha più rilevanza del dato di quanti idraulici sono a favore e quanti contro.
“Sì” alla riforma, dunque: per ragioni di merito e ragioni più contingenti, relative alle
prospettive concrete delle riforme costituzionali nel nostro paese. Mi spiego: come cittadino,
appunto, mi sono convinto da tempo che un’incisiva revisione di alcune parti della
Costituzione sarebbe utile, anzi prioritaria. Ciò detto, il mio giudizio, come si vedrà, è
condizionato dalla risposta che dò alla domanda: per chi ritenga le riforme indispensabili, è
meglio che vinca il “sì” o è meglio che vinca il “no”? Di questo dirò alla fine.
Altra premessa a mo’ di puntualizzazione. Il progetto di revisione della parte II della
Costituzione di cui parliamo è uno dei tanti atti del centrodestra accolti da un fitto fuoco di
sbarramento, che spesso ha mostrato di prescindere dal suo effettivo contenuto. Vanno perciò
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sfatati alcuni miti e luoghi comuni. La prima cosa che è opportuno chiarire è che il progetto
non è stato il frutto di un incontro di mezza estate in Cadore: un lavoro preparatorio era stato
condotto dal Comitato di studio in materia costituzionale istituito presso il Dipartimento
riforme della presidenza del Consiglio (lo documenta un libretto regolarmente pubblicato, v.
anche [email protected]). La seconda cosa è che non si è trattato affatto di un
testo “blindato”: il testo del governo toccava 27 articoli della Costituzione, il testo approvato
poi dal Senato 34, il testo varato dalla Camera (e definitivo) 40 (al netto delle semplici
modifiche conseguenziali rispetto a quelle sostanziali). Un terzo punto è che nemmeno si è
trattato di un progetto sordo alle proposte dell’allora opposizione. Anzi: alcune delle scelte in
esso contenute (forma, di governo, bicameralismo, titolo V°) corrispondevano a proposte che
erano state avanzate dal centrosinistra e che sono state utilizzate nel presupposto che così
facendo l’opposizione avrebbe potuto essere meno forte e l’intesa più agevole. Non è stato
così. Ma il fatto resta. In effetti, il tentativo di rafforzare l’esecutivo rinunciando al semipresidenzialismo e cercando di battere la strada del c.d. premierato non è stato solo il frutto di
autonoma saggezza, quanto la scelta consapevole, fra le due opzioni che avevano
caratterizzato i più recenti tentativi in sede di Commissione D’Alema, di quella preferita
dall’altra parte; ciò vale anche in tema di bicameralismo, perché l’idea della contestualità
elettiva dei senatori e degli organi regionali era stata avanzata pochi anni prima da esponenti
del centro-sinistra (Vannino Chiti in testa); quanto al riparto delle competenze fra le due
Camere esso è ricavato da progetti all’esame del Parlamento sin dai primi anni Novanta. Ho
davanti a me mentre scrivo queste righe, infine, il fascicolo che contiene l’elenco degli
emendamenti approvati su iniziativa di parlamentari dell’opposizione oppure riprendenti
emendamenti di loro iniziativa. Ebbene: sono una cinquantina!
In più, se la svogliatezza di governo e maggioranza nel cercare un dialogo con
l’opposizione sulla riforma sono apparsi evidenti, non sono stati maggiori della indisponibilità
di questa ad avviare alcun confronto. Gli opposti estremismi hanno radicalmente distorto il
dibattito e l’hanno portato su un piano solo vagamente collegato col testo: l’ansia di apparire
rivoluzionariamente innovatori e di sventolare il vessillo di una devoluzione in realtà assai
modesta si è coniugata con il terrorismo costituzionale, come una volta l’ho chiamato, di chi
altro non cercava che la demonizzazione di proposte firmate centro-destra (e dunque più che a
ragionare su pregi e difetti, puntava a spaventare l’opinione pubblica con il timore della
“morte della Costituzione” o della dittatura del capo del governo o della morte della Patria).
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Ciò detto, vengo al merito, e chiedo: un’esigenza di adeguamento della Carta del ’48
nella sua seconda parte sull’ordinamento della Repubblica esiste oppure è un’invenzione? E
se esiste, quali sono i punti sui quali si deve incidere? Sono quelli affrontati dal progetto di
revisione o sono altri?
Io ritengo che i punti da affrontare siano proprio quelli: (a) superamento del
bicameralismo paritario e indifferenziato con ricostruzione di un bicameralismo che abbia un
“senso” costituzionale; dopo la malaugurata riforma elettorale del centro destra, il primo
punto è forse questo perché l’attuale situazione è tale da rendere lo scioglimento delle Camere
una vera e propria roulette (a parte il fatto che la seconda Camera, oggi, non dà sbocco a un
diverso circuito rappresentativo, non riflette l’ordinamento nel pluralismo dei suoi enti subnazionali, non offre alcuna integrazione delle competenze…); (b) rafforzamento
dell’esecutivo e stabilizzazione delle coalizioni per consentire una maggiore omogeneità di
indirizzo politico e governi di legislatura in un contesto destinato comunque a restare
caratterizzato da maggioranze assai composite; (c) messa a punto della riforma del titolo V°
del 2001.
Ora la riforma approvata dal Parlamento si indirizza precisamente in questa direzione,
aggiungendo ulteriori oggetti, sull’opportunità dei quali si può certamente discutere:
l’estrazione lievemente diversa dei giudici della Corte; il divieto – per gli ex-giudici della
Corte – di assumere incarichi pubblici per 3 anni (previsione che va nella direzione di chi
vuole una Corte meno politicizzata e non mi pare negativa); l’abrogazione del comma 3
dell’art. 138 (per cui il referendum eventuale diventa sempre richiedibile: il che i fautori delle
moderne oligarchie criticano per un presunto conseguente pericolo plebiscitario e per il fatto
che disincentiva dalla ricerca di larghe intese). Allora la domanda diventa: sono sufficienti
queste scelte discutibili per buttare a mare il resto? A me non pare perché nessuna di esse mi
pare tale da incidere a fondo sugli assetti costituzionali: conosco bene la propensione, che è
irresistibile soprattutto fra i giuristi, ad attribuire di volta in volta cruciale e vitale importanza
a questo o quel singolo dettaglio di un complesso normativo, ma, francamente, è questo il
frutto di vere e proprie deformazioni professionali.
Veniamo alle innovazioni principali: 23 sono gli articoli modificati del titolo I (il
Parlamento); 7 quelli del titolo II (il presidente della Repubblica); 6 quelli del titolo III (il
Governo), 1 del titolo IV (la magistratura), 11 e due aggiuntivi, del titolo V°: il totale è 50, ma
una dozzina di articoli almeno, fra questi, sono modificati solo per adeguarli alle modifiche di
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altri (esempio: il “presidente del consiglio” diventa “primo ministro” all’art. 92 e ciò fa
ritoccare tutti gli altri articoli della Costituzione dove si parla di “presidente del consiglio”,
ma l’innovazione, se pure, è una sola!).
Non analizzo nei minuti particolari (che naturalmente contano) tutto ciò che di buono
e meno buono c’è nel testo di revisione che è al vaglio del corpo elettorale. Ciò che rilevo è
che se la riforma venisse approvata, i suoi effetti principali sarebbero questi: (a) un
bicameralismo differenziato ed ineguale, con una certa prevalenza della Camera dei deputati,
anche se assicurata da un meccanismo alquanto barocco (con discutibile coinvolgimento del
presidente della Repubblica, peraltro a garanzia di retta interpretazione costituzionale); (b) un
taglio di circa 170 parlamentari; (c) un blando rafforzamento del governo e in particolare del
presidente del consiglio, diventato primo ministro, come è opportuno che sia in un sistema di
coalizioni multipartitiche fortemente concorrenziali – ancora – al loro interno (da cui la
necessità di sottolineare il ruolo unificante del capo del Governo): questo rafforzamento
peraltro è tanto limitato che illustri amici lo considerano, esagerando, di mera facciata (Bin) o
addirittura un indebolimento (Barbera, Ceccanti); (d) una timida messa a punto della figura
del presidente della Repubblica (purtroppo con rinuncia a distinguere gli atti soggetti da quelli
non soggetti a controfirma com’era in una prima versione del testo della riforma: il testo tende
a sottolinearne espressamente la natura garantista); (e) una sorta di revisione generale della
revisione del titolo V°, che studiosi del campo specifico giudicano positivamente (cito per
tutti Gian Candido De Martin, per esempio, che critica, se mai, la qualità tecnica del testo): vi
è incluso anche l’accesso – condizionato e non generalizzato – degli enti locali alla Corte (ciò
suscita la vivace contrarietà di studiosi che stimo a partire da Nicolò Zanon, ma io lo
considero utile). Le stesse materie regionali “esclusive” in cui si risolve l’assai tenue
“federalismo” del testo (nominale più che sostanziale) risultano drasticamente depotenziate; e
fa il suo reingresso esplicito in Costituzione la nozione di interesse nazionale (anche qui con
modalità che non trovano certo unanime approvazione, ma che a me non paiono del tutto
insensate).
Evidenti punti deboli della riforma sono invece: la composizione del Senato (1), il
criterio di riparto delle competenze legislative fra le due Camere, oggettivamente complesso
(2) e la modesta qualità tecnica generale del testo (3). Non sono cose da poco.
Tuttavia, per il primo aspetto, credo che criticare equivalga a sparare sulla Croce rossa.
Chi segue i vani tentativi di revisione del bicameralismo dal 1983 ad oggi, non può che
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considerare un esito semplicemente miracoloso e difficilmente ripetibile quello, pur modesto
e poco entusiasmante, che si trova in questo testo.
Per il secondo aspetto, a me pare che una sua logica il criterio individuato ce l’abbia e
che qualsiasi altro fondato sulla differenziazione della competenza comporterebbe problemi
analoghi almeno in fase iniziale. Su questo mi soffermo ancora brevemente, per osservare che
qualsiasi modifica si faccia è destinata a suscitare dubbi interpretativi; che, salvo prevedere
che sia sempre la Camera ad avere l'ultima parola, non si vede quali altri criteri si potrebbero
concepire per distinguere ciò su cui ciascuna delle due Camere ha l'ultima parola; in
particolare se il Senato ha da avere la prevalente ultima parola su qualcosa, si potrà meglio
circoscrivere materie ed oggetti, ma sembra si debba comunque trattare delle leggi cornice (o
no?); in ogni caso un qualche criterio materiale andrà individuato come del resto numerose
costituzioni prevedono. Inoltre se vale il principio di leale collaborazione, le due camere
dovrebbero ben trovare un modo di procedere insieme. Io stesso ho scritto un paio di anni fa
che il coinvolgimento sarebbe forse stato meglio evitare un coinvolgimento del capo dello
Stato; tuttavia, siccome il presupposto è che non si vuol dare solo al governo l'ultima parola
(e alla Camera neppure), effettivamente l'unica figura che rimane è il president della
Repubblica nella sua funzione, che questa riforma gli attriburebbe per la prima volta expressis
verbis, di garante della Costituzione. Un punto credo dovrebbe essere chiaro: una specie di
Bundesrat non c’è nessuno disposto a votarlo, senza contare che esso con le sue attribuzioni è
ora oggetto di revisione in base all’intesa che ha dato vita alla grande coalizione guidata da
Angela Merkl!
Quanto al terzo punto, se si studiano i prodotti del costituzionalismo più recente si
deve convenire che quasi mai – oggi – le costituzioni sono i documenti nitidi, essenziali e ben
scritti di un tempo; quasi sempre contengono formulazioni farraginose (all’inseguimento di
un’incontenibile ansia di specificazione, in realtà effetto della necessità di venire incontro a
una crescente molteplicità di legittimi interessi), e sono destinate ad essere aggiornate con
relativa frequenza, fermi certi valori di fondo.
Nel decidere come votare al referendum, è la convinzione che mi guida, occorre tenere
conto della alternativa che come cittadini abbiamo di fronte. Essa non è fra questo testo,
perfettibilissimo, e una mitica “altra riforma”, meglio scritta dietro l’angolo; è fra questo testo
e la parte II della Costituzione così come è oggi (la quale, si badi bene, già ora non è quella
del’48, per oltre la metà dei suoi articoli). Ciò vale tanto più oggi che la nuova legge elettorale
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ha iniziato a dispiegare i suoi controproducenti effetti, sì che è del tutto aperta la partita fra le
sue contrapposte anime. Prevarrà la logica maggioritaria implicita nel premio che blinda le
coalizioni contrapposte o prevarrà la logica proporzionalistica che esalta il ruolo di ciascun
singolo partito implicita in una formula che ha buttato a mare i collegi uninominali e conosce
solo candidature bloccate di liste contrapposte?
Perciò penso che sia oggi ancor più necessario predisporre qualche stampella
costituzionale che valga a favorire un più idoneo funzionamento del parlamentarismo (anche a
prezzo di alcune rigidità, rese particolarmente inestetiche per lo sforzo di attenuarne la
portata: come da bozza… Amato, peraltro): a meno di pensare che un centro-sinistra così
sparagninamente vittorioso possa trovare la compattezza e la forza per tornare alla
legislazione del 1993 o a qualche sua declinazione ravvicinata (o addirittura al mitico doppio
turno).
Mi rendo conto, dunque, degli elementi non risolti o non risolti in modo convincente
dal testo sul quale gli elettori si pronunceranno: la residua legislazione necessariamente
bicamerale; il fatto che la Camera dei deputati può prevalere sull’altra Camera solo per talune
materie e la complessità del relativo meccanismo; una composizione del Senato che rimanda
nel tempo e rende incerta la saldezza e la continuità del legame fra rappresentanza senatoriale
regionale e suo territorio d’elezione; la presenza ancor debole, nel cuore dell’ordinamento,
cioè in Parlamento e anche in Senato federale, delle Regioni intese come enti che
organizzano interessi generali, pur territorialmente individuati, dei cittadini, cui cercano di
ovviare forme surrettizie di partecipazione la cui funzionalità è tutta da verificare: tanto più
che del tutto indiretta rischia di restare la voce dei Governi regionali.
Forse davvero il punto più delicato è quello legato alla prevalenza legislativa della
Camera, e delle modalità previste per la sua affermazione: se – senza ricorrere a quel
meccanismo – esso avrà una sua efficacia preventiva, il problema potrà essere considerato
risolto: altrimenti rischia di trovare riscontro la critica di chi (Barbera per esempio) ritiene
che la competenza in materia di principi fondamentali sulla legislazione concorrente (che
possono ben toccare aspetti fondamentali del governo del Paese) attribuita a una seconda
camera nella quale per definizione il Governo può aver difficoltà a imporre il proprio
indirizzo, costituirebbe un elemento di grave debolezza della soluzione delineata.
Naturalmente questa stessa preoccupazione dovrebbe ridurre i timori di quanti continuano a
paventare una forza eccessiva del continuum maggioranza-Primo ministro nella forma di
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governo delineata. Invece, quanto ai potenziali conflitti fra le due Camere in ordine
all’esercizio della funzione legislativa, è chiaro che occorrerebbe scontare un certo rodaggio,
il cui esito e la cui durata dipenderebbero da fattori diversi, in parte legati allo strutturarsi del
sistema politico e al definirsi in concreto della gerarchia finale fra le due assemblee, magari a
seguito del ricorso in qualche occasione, e con esito favorevole alla prima Camera e alla
maggioranza, alla potestà prevista dall’art. 70 comma 4. C’è una tendenza, a mio avviso
eeccessiva, a sottolineare la rischiosità e l’entità di tali conflitti: essi sarebbero peraltro
fisiologici e in qualche misura inevitabili, come in qualsiasi caso e con qualsiasi criterio di
riparto della funzione legislativa. L’importante è che una via d’uscita praticabile – ancorché
complessa – vi sia: e potrebbe in futuro essere superata da una più immediata e diretta
previsione di prevalenza della prima Camera (svolta, per quanto auspicabile, che si è rivelata
fino ad oggi non matura).
Da parte di alcuni si è poi sollevata la questione, non nuova perché venne fuori già nel
1997-98, in ordine alla presunta non legittimità sostanziale di una revisione complessiva
della parte seconda della Costituzione, e del conseguente referendum unico. Alcuni si
spingono fino al punto di sostenere che l’art. 138 non ammetterebbe altro che revisioni
puntuali e limitate. Francamente trovo questa tesi giuridicamente del tutto infondata (un
classico caso di costruttivismo interpretativo di quelli stigmatizzati dalla giurisprudenza
recente della Corte) e nel merito pericolosissima: equivarrebbe a dire che nel nostro
ordinamento non vi è possibilità di ampie ed organiche revisioni costituzionali, laddove la
tendenza del diritto costituzionale contemporaneo è a disciplinare distintamente, ma
prevedendole entrambe in costituzione, la revisione parziale e la revisione ampia o totale
(magari individuando forme di rigidità diferenziata fra parte della Costituzione). Se ci si
riflette, il nostro ordinamento si è spontanemanete indirizzato verso una soluzione del genere,
nel momento in cui da circa 15 anni tutte le revisioni tentate hanno espressamente escluso la
parte prima (cui si riconosce opportunamente una maggior rigidità di fatto rispetto alla parte
seconda). Altri ne fanno una questione di opportunità: sarebbe meglio permettere all’elettore
di cogliere fior da fiore, votare per la revisione di questo articolo e contro la revisione di
quest’altro, a favore di quetso istituto e contro quest’altro. Ma così davvero avremmo testi
costituzionali patchwork, veri e propri vestititi d’Arlecchino: non avevamo sempre detto che
in queste materie se non tutto, certo quasi tutto e comunque molto si tiene insieme? E’ chiaro
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che vi è un equilibrio che giustifica a mio avviso il prendere o lasciare complessivo di
revisioni organiche della Costituzione.
Veniamo, infine, alla ragione contingente per cui credo che si debba votare “sì”. Essa
consente a mio avviso di superare le pur giustificate perplessità che questo o quel singolo
aspetto del progetto suscita; e in particolare dovrebbe valere a superare le obiezioni di natura
per c.d. tecnica.
Le mie considerazioni partono da questa notazione: checché se ne dica, il campo non è
occupato solo da fautori del “sì” e fautori del “no”. Anzi: il fastidio con cui alcuni di costoro
(a partire, va detto, da Giovanni Sartori in piena sintonia con la sinistra più radicale e
conservatrice) hanno accolto la posizione di Barbera, Segni, Ceccanti ed altri (“no”, ma per le
riforme) o di Tremonti (e prima di lui di altri: “sì”, ma con disponibilità a correttivi) è la
conferma che si gioca una doppia partita: non solo quella fra “sì” e “no”, ma quella fra chi
ritiene riforme istituzionali ed elettorali urgenti e necessarie e chi le ritiene dannose o
comunque secondarie e rinviabili.
Se le cose stanno così, ed io ne sono convinto, coloro i quali – fautori del “sì” come
fautori del “no” –
ritengono, con me, che le riforme ci vogliano, eccome, devono
domandarsi: favorirebbe di più una stagione di riforme la vittoria del “sì” oppure la vittoria
del “no”? Qual è l’esito del referendum che può condurre a una buona riforma, buona per la
gran parte dei riformatori? E ancora, per dirla in un modo ancora diverso: per avere una buona
riforma, è meglio partire da una riforma approvata, ma suscettibile di correzioni o è meglio
partire da zero?
Sono domande cui si deve rispondere tenendo conto del contesto politico parlamentare
in cui ci troviamo. E in particolare da una valutazione dell’atteggiamento in ordine alle
riforme delle due coalizioni, delle forze politiche e dei singoli deputati e senatori.
Ebbene nel Parlamento attuale – di strettissima misura al Senato, nettamente alla
Camera – il centrosinistra è maggioritario. Ma il centro-sinistra è anche la coalizione nella
quale l’equilibrio fra riformatori e conservatori istituzionali è meno favorevole a chi vuole
riforme nella direzione indicata sopra, e più favorevole a chi ad esse si oppone. Considerato
che la coalizione di governo – comprensibilmente –metterà la governabilità al primo posto, è
del tutto probabile, per non dire certo, che il centrosinistra non sarebbe in grado di produrre
uno sforzo riformatore su queste delicate materie, tanto meno in collaborazione con
l’opposizione. Non glielo permetterebbero mai le forti componenti antiriforma presenti al suo
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interno. Per questo, se vince il “no” è ragionevole pensare che avremo nessuna riforma o, al
più, riforme modeste, forse nemmeno nella direzione utile al rafforzamento del governo
democratico che sta a cuore a me..
Se vince, invece, il “sì”, automaticamente quasi tutto il centrosinistra diventa
spendibile per un’azione di correzione della riforma approvata. I riformatori al suo interno
avrebbero dietro di sé il vantaggio di una riforma destinata, bella o brutta e salve modifiche,
ad entrare via via in vigore. Il centrosinistra non avrebbe certamente la forza di abrogarla, ma
potrebbe pur sempre contrattare da una posizione assai influente la sua modifica. Il
centrodestra, dal canto suo, forte del successo conseguito, ma pur sempre minoranza in
Parlamento, avrebbe ogni interesse a confermare la disponibilità a cooperare a un
miglioramente bi-partisan, come si usa dire, del suo testo, per salvarlo. Insomma: chi vuole
riforme si troverebbe in condizione di oggettivo vantaggio.
La valutazione sarebbe stata diversa se maggioranza parlamentare fosse stato il
centrodestra. In quel caso, merito a parte, la vittoria del “no” avrebbe potuto essere la carta
per indurlo a negoziare con l’opposizione una riforma bi-partisan. Ma ha vinto il
centrosinistra: e per questo, torno a ripetere, coloro cui stanno davvero a cuore le riforme
dovrebbero avere interesse a un successo del”sì”, anche se non tutte le soluzioni del testo in
discussione gli appaiono convincenti.
Accade quasi sempre, in politica, che occorra scegliere fra cose imperfette. Ecco
perché io voterò “sì”, senza alcuna esitazione: è l’unica carta che possa dar forza ai
riformatori tendenzialmente bi-partisan nei due campi. Per fare un passo in avanti
straordinariamente rilevante e cercare di mettere appunto le nostre istituzioni partendo da basi
migliori di quelle attuali, è un’occasione più unica che rara. Francamente, io non vorrei che
andasse persa e che ci trovassimo un giorno a rimpiangere l’occasione mancata per ignavia,
per calcolo, per incapacità di misurarsi con la realtà, per paura di essere dalla parte data per
sicura perdente.
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perché “sì” alla revisione costituzionale del 2005