“Esiste ancora il laicato?”
Conversazione con Paola Bignardi
in occasione della Visita Pastorale di mons. Diego Coletti
mercoledì 30 ottobre 2013
Don Emanuele Corti
Introduzione alla S. Messa
Grazie Eccellenza, per essere qui con noi questa sera a presiedere l’Eucaristia.
Il nostro Centro Pastorale è abitato e vissuto da molte realtà diversificate, una pluralità di esperienze, di
storie, di percorsi. Sono nel cuore e nei volti delle persone qui presenti. Dalle più recenti (penso allo
studentato universitario), alle più storiche, quelle delle origini che hanno condiviso la scommessa dell’allora
Vescovo mons. Ferraroni.
Celebriamo la Messa per i Laici questa sera, e Le chiediamo di aiutarci a trovare nell’Eucaristia il senso, il
contenuto, lo stile di ciò che facciamo. A trovare nell’Eucaristia la fonte prima del nostro stare insieme, la
fonte della comunione.
Introduzione alla serata di riflessione sul laicato
Buona sera a tutti voi, a quanti sono presenti nella sala “Card. Ferrari” del nostro Centro e a quanti sono
collegati tramite streaming in Seminario, a Cagno, Morbegno, Livigno, Chiavenna e Sondrio.
Benvenuti, o meglio, ‘bentrovati’ nel nostro Centro Pastorale.
Non siamo qui come ospiti, ma da ‘abitanti’, da persone che qui vivono e sono di casa. E per molti di voi certo
è casa più che per me che vivo qui da soli tre anni.
Casa, che a partire da questa Visita pastorale e dalla riflessione di questa sera vogliamo che torni ad essere
casa davvero come luogo di incontro, pensiero, riflessione.
La “Fondazione Card. Ferrari”, dopo aver ricevuto in donazione tutto l’immobile da parte del Seminario, ha
un nuovo Statuto e un nuovo Consiglio di Amministrazione. Ma soprattutto ha da sempre la vostra presenza,
quella di tante realtà e persone che qui vivono, lavorano, prestano servizio, donano tempo, creatività,
energie. Tante persone per la quali il Centro è comunque sempre stato un punto di riferimento.
Abbiamo una rinnovata presenza di tutti gli Uffici, Centri e Servizi pastorali della Diocesi; abbiamo le tante
realtà che da molto tempo trovano qui la loro sede (Azione Cattolica, Centro S. Filippo, Il Settimanale, Centro
di Aiuto alla Vita, “Consultorio La Famiglia”, Comunione e Liberazione, Centro Culturale Paolo VI, FISM, MAC,
MEIC, AGESC, AIART, UCIIM, Forum comasco delle Associazioni Famigliari, Associazione Amici del Seminario
di Beit Jala, IPASVI, Cooperativa Biosfera, Club Esperia); inoltre dagli inizi di ottobre abbiamo la presenza di
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dodici studenti universitari e di una famiglia che si occupa di loro; infine, a breve, una parte della struttura
servirà a dare ospitalità notturna ai senza tetto durante il tempo più rigido dell’inverno.
Una bella pluralità di esperienze e di carismi laicali che non solo convivono in uno spazio, ma che hanno la
possibilità di crescere in una collaborazione e in un’azione unitaria.
Questo è quello che tutti ci auguriamo. Quindi di nuovo a tutti benvenuti, bentrovati in questa casa e buona
serata. Passo la parola a Laura, Presidente della Fondazione.
Laura Legnani
Buonasera a tutti. Ci ritroviamo tutti insieme qui, questa sera, per dare un avvio alle nostre attività al Centro.
Piano piano vorremmo che diventi sempre di più in città uno spazio di libero confronto aperto a tutti in, uno
di quei luoghi di discernimento che il convegno di Palermo e poi di Verona ci hanno consegnato come aiuto
per la nostra vita di credenti.
Perché il nostro problema non è, come dice Paola, solo quello di formarsi sui contenuti dottrinali, che “sono
importanti, ma non sufficienti in un contesto in cui ciò che è messo alla prova non è il DIRSI cristiani, ma il
VIVERE da cristiani, dando senso da credenti alle esperienze comuni di ogni giorno”.
Ringrazio innanzitutto mons. Vescovo, che ha voluto questo momento di visita pastorale anche al centro
Card. Ferrari all’interno della visita alla realtà più vasta dei vicariati della città e del suo circondario.
Quasi a ricordarci che abbiamo un posto nella Chiesa locale, ed un posto anche impegnativo, di fermento e
testimonianza, di cui dobbiamo essere consci.
Grazie a tutti voi che avete creduto in questa occasione, grazie soprattutto agli amici di Livigno, Sondrio,
Morbegno, Chiavenna, Cagno che sono presenti con noi, grazie alla presenza del Seminario, di cui noi laici
abbiamo bisogno, perché è il luogo di crescita dei nostri futuri sacerdoti, con i quali vogliamo crescere e ai
quali assicuriamo la nostra preghiera.
E grazie, finalmente a Paola. Presidente nazionale di Aci (’99-05), relatrice al Convegno di Verona, pedagogista
e pubblicista.
Sappiamo che la ‘questione’ laicale (non il problema, come le piace sottolineare) le è molto cara e io
personalmente (a parte il suo intervento al Convegno di Verona) sono stata molto colpita dalla lettura di
questo piccolo libretto, scritto dopo Verona ed ora ‘riaggiornato’, che ha regalato il titolo anche alla nostra
conversazione di questa sera, e che ne è all’origine.
Questo incontro nasce infatti davvero da lontano, e da noi laici, da amici che sono qui presenti fisicamente e
da altri virtualmente in Valtellina.
Nasce dicevo da questo piccolo libretto, “Esiste ancora il laicato?”,capitato quasi per caso sulla mia scrivania,
letto tutto d’un fiato, e poi riletto e centellinato, perché qui ho trovato, nero su bianco, riflessioni lucide e
coraggiose, forse anche impietose, ma serene, piene di fiducia e speranza, sulla nostra missione di laici oggi
nella Chiesa. Ho trovato qui l’espressione di un nostro disagio, se non addirittura di una sofferenza, e di una
certa rassegnazione che molti stanno sperimentando.
Abbiamo cominciato a parlarne tra amici, con sullo sfondo la preoccupazione e la sofferenza per tante
vicende dolorose che hanno segnato la Chiesa (anche la nostra) in questi ultimi tempi.
La domanda di fondo emersa dal nostro parlare e confrontarci, mi sembra che sia: i laici dove erano in tutte
queste occasioni di sofferenza? Dove siamo, nella vita della nostra Chiesa locale? Ci siamo ancora? Abbiamo,
alla lontana o in prima persona, una responsabilità in quello che succede, qui e altrove; siamo
sufficientemente presenti con una modalità profonda di corresponsabilità e condivisione? Con un’attenzione
alle persone, tutte, oppure siamo solo degli ‘esecutori’ di compiti, o ‘organizzatori’ di belle iniziative? Siamo
un arcipelago di isole vicine ma lontane, indipendenti, autonome le une dalle altre, o siamo una rete di isole
sì, ma legate da ponti sui quali passare liberamente dall’una all’altra? Siamo dei ‘volti’ (cfr. piano pastorale)
o ci siamo anche noi rassegnati ad essere ‘virtuali’? E come ci poniamo nei confronti del ‘mondo’? Siamo
missionari o stiamo diventandone antagonisti?
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Come si dice bene nell’introduzioni di Luigi Alici al libro, lasciamo a Paola il compito di aiutarci a togliere il
punto interrogativo a queste domande così impegnative e per molti versi inquietanti (così come inquietante
abbiamo voluto la locandina).
Io posso solo ricordare (e mi sembra significativo farlo in questo luogo) le parole dalla 2° lettera di S. Paolo ai
Corinti che ascoltiamo nella messa il giorno di Sant’Abbondio, patrono della nostra città e della diocesi:
[2 ]La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. [3] E' noto
infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio
vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori. (Corinti 2, cap. 3)
Siamo noi, ognuno di noi, responsabili della trasmissione del Vangelo agli uomini d’oggi nelle situazioni di
oggi, negli ambienti di vita, lavoro, studio dove quotidianamente viviamo.
Ascoltiamo Paola.
Paola Bignardi
Ci auguriamo reciprocamente una buona serata, su un tema molto impegnativo.
La riflessione che farò sarà una riflessione disincantata e sincera, almeno dal mio punto di vista, però non
scorata. Una riflessione che cerca di guardare in faccia la realtà, anche con la convinzione che questo è un
momento appassionante e creativo, dal quale può venir fuori di tutto, dunque anche prospettive nuove,
creative, inedite, per l’esperienza nostra di cristiani e quella della nostre Chiese.
Il Vaticano II è stato definito da qualcuno il Concilio dei laici. Forse eccessiva questa definizione, tuttavia,
aldilà dei documenti espliciti che il Concilio ha dedicato ai laici e alla loro vocazione, l’impostazione
complessiva del Concilio, il modo ad esempio di intendere le realtà umane, la relazione con il mondo,
soprattutto il senso di una Chiesa che è popolo di Dio, mi pare che tutto questo porti in questa direzione,
quella di una particolare valorizzazione dei laici cristiani.
Cinquant’anni dopo il Concilio ci chiediamo che cosa è successo nella vita dei laici e nella vita delle nostre
comunità sulla scorta di questo magistero così abbondante, così ricco e così coraggioso, così innovativo.
Il documento che è stato scritto a conclusione del Sinodo sui laici, la Christifideles Laici, fa una valutazione di
quello che è accaduto dopo il Concilio; è un documento che si colloca ormai lontano da noi, ma mi pare che
la valutazione che fa del modo con cui è stato accolto il magistero conciliare sui laici possa avere una sua
attualità e una sua plausibilità anche oggi.
Al n. 2 si legge che “con lo sguardo rivolto al dopo-Concilio i Padri sinodali hanno potuto costatare come lo
Spirito abbia continuato a ringiovanire la Chiesa, suscitando nuove energie di santità e di partecipazione in
tanti fedeli laici”.
Vengono indicati cinque indicatori di questo ringiovanimento della Chiesa attraverso il segno delle energie
di santità suscitati tra i laici: “nuovo stile di collaborazione tra sacerdoti, religiosi e fedeli laici; partecipazione
attiva nella liturgia, nell'annuncio della Parola di Dio e nella catechesi; molteplici servizi e compiti affidati ai
fedeli laici e da essi assunti; rigoglioso fiorire di gruppi, associazioni e movimenti di spiritualità e di impegno
laicale; partecipazione più ampia e significativa delle donne nella vita della Chiesa e nello sviluppo della
società”.
E’ una elencazione molto significativa. Se poniamo attenzione agli aspetti che vengono evidenziati come
aspetti di crescita della vita ecclesiale, credo che possiamo riconoscere come riguardino sostanzialmente tutti
la vita (se posso esprimere con un termine che capisco possa essere improprio) ‘interna’ della comunità, la
vita pastorale della comunità, la vita della comunità nella relazione con se stessa.
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E allora facciamo un passo avanti e ci chiediamo: ma era proprio questo che il Concilio aveva indicato nel
tratteggiare la fisionomia del laico cristiano, la sua missione nella Chiesa e nel mondo?
Provo a riassumere molto rapidamente, perché do per conosciuto il magistero del Concilio sui laici, e provo
ad elencare sette aspetti che mi pare possano costituire una sintesi per mettere in comune, all’inizio di
questa riflessione, almeno alcuni punti fermi.
Mi pare di poter dire che il Concilio riconosce che, attraverso il Battesimo, il laico, come ogni cristiano
è inserito nel mistero della comunione di Dio.
Poi che il Battesimo rende partecipe anche i laici cristiani della vita del popolo di Dio con piena
dignità.
E ancora: per il Battesimo ogni laico cristiano è chiamato a vivere da santo, è chiamato alla santità,
che dunque non è una prerogativa di pochi cristiani straordinari o eroici, ma è la chiamata per tutti.
Il Battesimo rende anche il laico cristiano partecipe della missione della Chiesa, nel modo che è
proprio della sua vocazione e che, soprattutto nella Lumen gentium, al n. 31 e 33, vengono
rapidamente ma efficacemente descritti.
Vi è un modo proprio dei cristiani laici di partecipare alla vita della Chiesa, ed è quello che passa
attraverso ciò che il Concilio chiama l’indole secolare, cioè quella natura che pone il laico cristiano a
vivere nel mondo la sua vocazione condividendo la vita e le responsabilità di tutti e soprattutto
avendo un particolare compito nel contribuire a trasformare dall’interno, quasi fermento, le realtà
create.
Il Concilio parla della legittima autonomia delle realtà terrene e questo rende i laici che sono
protagonisti della politica, della famiglia, della cultura, dell’economia, responsabili delle loro scelte
di testimonianza di vita cristiana.
Da ultimo mi piace citare, e credo che sia storia comune anche di tutti i presenti, che lo statuto di
vita adulta che caratterizza la condizione dei laici cristiani dà loro l’autonomia di dar vita ad
esperienze associative che essi si prendono la responsabilità di guidare e di condurre.
Il magistero conciliare ha certamente contribuito a svegliare molte energie nuove nelle comunità cristiane,
oltre che grandi entusiasmi; è l’entusiasmo di cristiani che si sono sentiti spesso un po’ come delle figure di
secondo piano, di ‘serie B’, dei cristiani con una non piena dignità di partecipazione e di coinvolgimento nella
vita della Chiesa, e che qui vedevano riconosciuta invece la loro piena dignità, la loro chiamata a partecipare
senza sconti alla missione della Chiesa in maniera responsabile.
Grandi entusiasmi e tante energie nuove tirate fuori in maniera talvolta forse anche un po’ scomposta, ma
certamente indici di grande generosità e anche di come vi fosse una componente della vita della Chiesa che
in qualche modo attendeva di essere riconosciuta, chiamata fuori, di essere chiamata a responsabilità.
Ma dopo gli entusiasmi del primo dopo Concilio ha avuto inizio una stagione difficile, non per i laici, ma per
tutta la comunità cristiana e per tutta la Chiesa, soprattutto nel mondo occidentale, e ha avuto inizio un
processo di secolarizzazione che appariva (ma non così a tutti) molto più intenso di quello che si era
annunciato negli anni precedenti e in qualche modo irreversibile, un processo che metteva alla prova le
Chiese, le comunità cristiane, anche se molti operatori pastorali in quegli anni e anche negli anni successivi
sembrano non essersi sempre resi conto fino in fondo della portata dei cambiamenti in atto, della loro
progressività, del fatto che lungo questa china il futuro della presenza cristiana nel contesto sociale
occidentale sarebbe stato breve, esangue soprattutto.
La Chiesa italiana e le comunità cristiane si sono interrogate soprattutto sulle conseguenze sociali, culturali e
politiche della presenza dei cristiani, ma come fa notare Benedetto XVI nel documento che ha scritto a
indizione dell’Anno della fede, “Porta fidei”, le comunità cristiane non si sono rese conto che il problema non
era appunto sulle conseguenze sociali, culturali e politiche di questa crisi di fede, non si sono rese conto che
il problema era altrove, hanno continuato a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune,
ma questo presupposto non solo spesso non è più tale, ma spesso viene persino negato”.
La risposta più frequente a questa situazione è stata quella di cercare di fare sempre meglio, spesso con una
generosità commovente, fare sempre meglio quello che si è sempre fatto, con alcuni aggiustamenti, cercando
di ridurre però la complessità, di rafforzare l’organizzazione, nell’illusione di costruire un argine all’affermarsi
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di una situazione che sembra erodere il terreno su cui la Chiesa aveva appoggiato la propria attività pastorale.
Così si è accelerato ed accentuato un processo di riorganizzazione della pastorale che è iniziato all’indomani
del Concilio, che era il modo con cui le comunità cristiane pensavano, riformulavano il loro essere concreto
sull’immagine conciliare di Chiesa (perché l’immagine di Chiesa aveva poi bisogno di esser tradotta in vita
concreta), ma questa traduzione dell’ecclesiologia del Concilio ha avuto, nella difficoltà imprevista del
confronto con un contesto secolare così accentuato, una accentuazione dell’aspetto organizzativo, dunque
una riorganizzazione dove le esigenze di efficienza, di ordine, qualche volta di visibilità vissuta come una
forma della testimonianza cristiana, sono stati molto forti.
L’organizzazione che ha preso piede è stata caratterizzata da un movimento un po’ di ‘risucchio’ verso il
centro (ogni comunità ha il suo centro, la Chiesa nel suo insieme ha un suo centro, le Chiese diocesane hanno
un loro centro, ma anche le parrocchie hanno un loro centro) perché questo modello organizzativo è un
modello più semplice, che si gestisce meglio, è un modello più efficace, che permette, o dà l’illusione, di
tenere tutto sotto controllo meglio; ma questa impostazione mal sopporta la soggettività. Se tutto deve
essere sotto controllo le soggettività tendono a sfuggire a questa impostazione. Le soggettività rendono
complesso il modello, rischiano di disturbare, di creare disordine. E quali sono le soggettività che cominciano
a soffrire di questa impostazione? Sono quelle vocazionali, sono quelle dei laici, delle religiose, quelle
associative, perché negli anni dal Concilio e dal primo dopo Concilio in poi credo sia vistosa la crisi che ha
segnato le esperienze associative tradizionali. Sono sorte certo nuove espressioni, che però non sono
associative e che rispondono a logiche ecclesiali diverse.
Dunque un modello organizzativo molto stretto è un modello che lascia poco respiro alle soggettività.
Un’azione pastorale molto affidata alle iniziative e alla realizzazione di progetti, in un contesto molto
strutturato, ha bisogno di tante risorse. E ha finito, questa impostazione, di coinvolgere tutte le energie
disponibili, anche dei laici cristiani, spesso gratificati dal fatto di essere così intensamente assorbiti nella vita
della comunità cristiana. Le diverse vocazioni e ministeri sono richiesti però in una prospettiva funzionalistica,
rendendo difficile l’esprimersi del valore vocazionale e carismatico delle vocazioni stesse. Questo modello
produce come conseguenza il rafforzamento della dimensione istituzionale della comunità, e finisce con
l’appoggiarsi alla vocazione del presbitero, particolarmente legato all’istituzione.
La vita delle comunità cristiane mi pare che oggi tendenzialmente sia molto centrata sulla comunità, sulle
sue iniziative, sulle sue attività e tendenzialmente è una pastorale senza mondo, nel senso che il legame con
la vita di ogni giorno, con la mentalità delle persone comuni, con i luoghi e le esperienze della secolarità è un
legame debole. Il dialogo con il mondo oggi mi pare che sia un dialogo fragile, da parte dei cristiani e delle
comunità.
E in questa impostazione della pastorale, dov’è il posto dei laici?
Faccio questa lettura dal punto di vista soggettivo del laico, del laico comune che non ha particolari
responsabilità ecclesiali, che non ha particolari compiti nella pastorale, un laico che cerca semplicemente di
vivere la sua vita cristiana, di viverla onestamente e di portare avanti le responsabilità che sono quelle di un
laico comune nella sua vita di ogni giorno. Il laico ha questa percezione di sé: la mia vocazione (il Concilio
parla di ‘vocazione’) mi colloca prioritariamente (non esclusivamente, sia chiaro) dentro le realtà della vita di
tutti giorni comuni a tutti, quindi nella mia famiglia, nel mio lavoro, nelle mie responsabilità sociali, nelle
attività che fanno la vita di ciascuno di noi.
Ma se di queste cose alla mia comunità importa poco, allora che cosa se ne fa di me la mia comunità? Certo
posso essere utile, perché se faccio catechesi, se sono l’educatore dei ragazzi, se vado a trovare le persone
malate, questo è certamente utile per la mia comunità, ma della mia vita, di donna, di persona che lavora,
che ha delle responsabilità, che cosa importa alla mia Chiesa? Il respiro della mia vita di tutti i giorni è lo
stesso respiro della mia Chiesa?
E allora quando un laico si mette davanti a questi interrogativi, quando sente questa esperienza, diciamo di
‘lontananza’ della comunità dalla sua vita, allora ha un senso di soffocamento, di sofferenza, di disagio, e
questa è l’esperienza che fanno soprattutto i laici che non hanno responsabilità pastorali, perché chi ha delle
responsabilità pastorali comunque si sente parte di una comunità. Attraverso la nostra esperienza quotidiana
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di vita, di una vita non subita, con tutte le sue luci e le sue ombre, amata, vissuta con gusto, di questa vita un
laico cristiano sente che alla sua comunità non dico che importi poco, ma non sente che per la comunità è
importante come per lui. E allora cresce il senso di estraneità dalla Chiesa di molti laici cristiani, che in qualche
modo si sentono di nessuno, cristiani senza casa e senza famiglia, perché la condizione comune di un laico
cristiano è una condizione di solitudine. Voi direte che facciamo parte di una comunità, ma non siamo angeli
che vivono una comunità fatta solo di ideali, di intenzioni e di scelte astratte. La comunità, dove uno la
sperimenta? Un laico cristiano la sperimenta nell’assemblea della domenica, che voi direte è il culmine della
vita cristiana, ma si vive anche in pianura, non si vive solo sulle vette.
Allora in questo percorso matura dentro un laico consapevole, al quale importa della sua vita cristiana e della
dimensione ecclesiale della sua vita cristiana, la percezione di essere invisibile e irrilevante; invisibile perché
la comunità cristiana sembra non accorgersi di chi, privo di un ruolo pastorale, vive sostanzialmente da solo
la sua fede sul versante complesso delle responsabilità secolari. E poi irrilevante: in una comunità che fa fatica
ad ascoltare e ad accogliere quanti hanno una intensa esperienza di vita nel mondo, ma che nell’attuale
impostazione delle comunità non trovano spazio perché si renda presente questa esperienza di vita.
La lontananza alla lunga genera estraneità, e porta a vivere una fede soggettiva, a modo proprio, e questa è
soprattutto l’esperienza dei giovani, i quali forse a noi adulti possono sembrare disinteressati ad una
esperienza di fede, lontani dalla dimensione religiosa della vita, e forse sono lontani più dalla comunità
cristiana che dalla fede, dal modo con cui la comunità cristiana interpreta e propone loro la fede, perché la
loro esperienza di vita oggi è dentro un contesto molto diverso da quello in cui la fede è nata, si è radicata e
si è sviluppata. E dunque il problema non è di fede, ma è di forme della fede.
Così la percezione che un laico cristiano, sensibile osservatore di quanto accade anche nelle esperienze della
vita cristiana, ha l’impressione di una crescente lontananza sua dalla comunità, e della comunità dalla sua
vita quotidiana. E questa lontananza attraversa anche la coscienza dei credenti, dei cristiani, di noi.
E’ un’analisi certamente molto parziale, se volete anche impietosa, però io preferisco guardare in faccia la
realtà, chiamare la sofferenza con il suo nome, e allargare in questo modo il numero delle persone che
vengono incluse dentro la considerazione della comunità cristiana, anche di quelli che soffrono di questa
condizione che si è creata nel tempo. Perché solo con questa consapevolezza possiamo farci delle domande
che ci portano oltre.
Allora la domanda che mi faccio per andare oltre è: la Chiesa oggi, può fare a meno di laici che vivono ai
confini della vita pastorale della comunità ma vivono una vita secolare da cristiani, intensa, coinvolgente e
che magari lascia loro anche poco tempo per poter dire “faccio il catechista” oppure “mi occupo delle attività
della comunità”?
Credo che solo una comunità cristiana che sappia ascoltare e valorizzare la presenza dei laici cristiani potrà
dare un futuro alla fede nel nostro contesto, nel senso che solo una Chiesa che ascolta la vita quotidiana dei
laici cristiani, con le sue inquietudini, i suoi dubbi, con la sua grandezza, con le sue risorse potrà coinvolgerli
nella interpretazione dell’esperienza cristiana nell’oggi. Perché credo che la vita cristiana, il modo di vivere
da cristiani, di tempo in tempo ha bisogno di essere collocata dentro il tempo, se no non capisco il Concilio,
il discorso che ha fatto Giovanni XXIII ad apertura del Concilio, in cui diceva che il compito che assegnava al
Concilio era quello non di ripetere una dottrina certa ed immutabile, né quello di lanciare anatemi contro
chicchessia, ma quello di far incontrare la parola del Vangelo con le persone di questo tempo e questo è il
perenne compito del Concilio, che è davanti a noi, non perché non sia stato attuato prima, ma perché è un
compito permanente.
Allora il futuro della Chiesa nel nostro paese, e forse in molti contesti occidentali, passa attraverso i laici.
Quindi non dico la vitalità, le attività, gli impegni, la missione, ma dico prima alla radice la fede, il futuro della
fede ha bisogno, dal punto di vista storico (anche se poi Dio fa quello che vuole, nei modi più imprevisti),
delle logiche e delle dinamiche umane, per dare volto attuale alla fede e dunque per renderla incontrabile
dalle persone di oggi, credo che i laici siano una presenza necessaria, una voce , un’esperienza necessaria per
la comunità cristiana, perché i laici l’attuale vicenda storica ed esistenziale la conoscono dall’interno, la
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condividono giorno per giorno con le persone che lavorano accanto a loro, che studiano accanto a loro, che
stanno in famiglia con loro, forse nella stessa famiglia ci sono generazioni di giovani che portano il segnale
del disagio di questa comunicazione difficile tra la Chiesa e le persone di oggi.
Allora mi pare che a cinquant’anni dall’inaugurazione del Concilio come la Chiesa non possa fare a meno dei
laici è una domanda che è ancora davanti a noi, ed è una sfida per le comunità cristiane, ma anche per noi
laici, per noi singoli laici, e per noi laici organizzati che abbiamo in qualche modo una responsabilità in più
oltre che una opportunità in più.
Penso che non siano pochi i percorsi che si aprono davanti a chi vuol rispondere alla domanda come la Chiesa
e i laici possono trovare o ritrovare una sintonia significativa. Ho raccolto sei possibili percorsi, sei
affermazioni che faccio e ne illustrerò poi un paio.
Il primo percorso è quello che vede il recupero di iniziative di progettualità sia da parte delle
comunità cristiane che da parte dei laici;
un secondo percorso è quello che riguarda la formazione, che credo nel contesto attuale abbia
bisogno di essere reinventata, soprattutto quella degli adulti e dei giovani e trovo che questo sia un
compito straordinariamente bello ed appassionante;
un terzo percorso: penso che si debbano rigenerare le forme della partecipazione ecclesiale;
quarto: occorre che i laici e le comunità cristiane sappiano guardare in faccia i dubbi e le domande,
le inquietudini che i cristiani condividono con le persone di oggi;
quinto: penso sia necessario maturare da parte di tutti, o casomai convertirci, a un nuovo interesse e
amore per il mondo;
da ultimo, penso sia importante, come strumento, valorizzare l’associazionismo e le realtà aggregate
che sono una grande risorsa.
Tocco i punti che ritengo siano particolarmente importanti.
Innanzitutto ritengo sia necessario recuperare iniziative e progettualità, superando passività, dipendenza,
stili ossequiosi e modalità pigre di stare nella comunità cristiana.
La storia del laicato del ‘900, ancora prima del Concilio, è una storia ricca di esperienze di laici che in ambito
ecclesiale, politico, economico, sociale, spirituale hanno aperto strade nuove, che hanno reso ricca la Chiesa
e la società. Si è trattato di un laicato consapevole e attivo che ha avvertito che i problemi della comunità e
della Chiesa erano problemi di tutti e interpellavano tutti. Non sono stati ad aspettare che qualcuno
inventasse un modo per affrontarli.
Alla scuola della nostra storia mi pare che occorra, da parte di noi laici, riappassionarsi, occorra osare,
inventare, superare forme di ripiegamento narcisistico e pigro che generano solo stanchezza e frustrazione
(perché quando si vivono questi atteggiamenti uno non ha più voglia, non ha più iniziative). Ma perché nei
laici si superi questa situazione di stanchezza e si susciti una nuova volontà di impegno creativo occorre che
i laici possano sentirsi partecipi di una comunità nella quale sono qualcuno, anche se non fanno cose, portano
avanti impegni; devono sentire che la loro presenza è desiderata e apprezzata.
Allora affrontare la questione dei laici credo significhi per una comunità cristiana dare loro un ruolo per la
comunità, aprire percorsi verso un’appartenenza che suscita responsabilità e domanda corresponsabilità.
Sarebbe illudere le persone farle sentire responsabili e poi non riconoscere nella corresponsabilità il loro
atteggiamento attivo verso i problemi e verso le situazioni. Responsabilità e appartenenza mi pare si
alimentino reciprocamente: dove c’è senso di appartenenza è facile che si sviluppi un senso di responsabilità
verso la realtà di cui ci si sente appartenenti e d’altra parte la responsabilità rinforza il senso di appartenenza,
lo rende via via più maturo e più determinato.
Secondo aspetto su cui vorrei soffermarmi: l’attenzione e l’ascolto di tutte quelle situazioni in cui il dubbio,
l’inquietudine, le domande sono presenti nella vita delle persone. Non solo nella vita di chi non crede e sta
sulla soglia, ma anche nella vita di molti di noi. Quante inquietudini portiamo dentro di noi, quante domande!
Quanti di noi hanno una fede così tranquilla, senza scosse? Se siamo persone umane e crediamo veramente
in maniera non scontata ci poniamo degli interrogativi.
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Questo credo sia una opportunità: le nostre inquietudini e domande sono una opportunità, perché sono
quelle che condividiamo con tante persone, che sono i nostri compagni di tavolo in ufficio, o che vivono
magari nella nostra stessa famiglia; cedere alla tentazione di difendersi dalle domande che molti si pongono
accettando una fede abitudinaria e scontata penso significhi mettersi sulla strada della chiusura e in definitiva
della lontananza e della non comunicazione con la maggior parte delle persone che vivono attorno a noi. Solo
avvicinandosi alle persone con cui condividiamo la vita noi laici possiamo trovare suggestioni per quel
ripensamento del modo di credere che interpreta le tensioni in cui tutti viviamo.
Se ci pensiamo questa è una questione che pone il rapporto tra la comunità cristiana e la cultura, almeno
nell’accezione con cui il Concilio ha posto la questione della cultura, nel suo significato antropologico, non la
cultura intesa in senso alto, come esperienza di pochi. In una stagione di trapasso culturale e di
disorientamento che riguarda le questioni della vita, ma riguarda anche il modo di pensare la fede,
abbandonare il pensiero come esercizio che appartiene alla responsabilità e alla possibilità di tutti alla fine
produce come frutto una fede esangue, senza motivazioni, una fede in fondo che non ha le radici nella
profondità delle persone e non può nemmeno interpretare la vita.
Già Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi parlava di rapporto tra Chiesa e cultura come di un sentiero interrotto e
che non si è ricostruito, mi pare, con l’andare del tempo.
Allora i laici cristiani con le inquietudini che portano (le loro e quelle delle persone con cui vivono) possono
favorire un credere pensoso, di una pensosità che non nasce semplicemente dall’approfondimento della
dottrina, ma che nasce dal fatto che la vita interroga la fede. Certo, la fede interroga la vita, ma anche la vita
interroga la fede.
Terzo aspetto su cui vorrei soffermarmi è quello che riguarda un più maturo, aperto interesse e amore per il
mondo. Uno dei limiti delle nostre comunità oggi mi pare che sia quello appunto di uno scarso interesse per
il mondo e per la vita che fa il mondo, oppure di un interesse per la vita molto orientato in senso morale,
senza che vi sia anche la capacità di comprendere il senso delle diverse dimensioni della vita quotidiana di
tutte le persone, perché in fondo questa è la questione oggi: prima del ‘come vivere?’ è ‘ma che senso ha, a
che cosa mi serve la fede per il mio andare a lavorare tutti i giorni, per il mio fare famiglia, per il mio
impegnarmi? Che cosa mi dà la fede?”. Non come devo vivere, che presuppone che io l’abbia già fatta una
scelta per la fede. La domanda è prima: la fede può aiutarmi a capire più in profondità il senso della mia vita?
Allora posso capire come la fede allarga gli orizzonti della mia esistenza, come il vivere da credenti sia un
vivere enormemente più intenso, più profondo. Quindi non è un altro vivere, è il mio vivere che nella fede
acquista delle dimensioni di pienezza che chi è credente ha la fortuna e il dono di poter avere a disposizione.
Mi pare che se c’è oggi una difficoltà per la vocazione laicale questo sia legato proprio al non pieno interesse
della Chiesa per il mondo e per le dimensioni umane del vivere, quindi una Chiesa che ha poco interesse per
il mondo in fondo è una Chiesa che non ha un gran bisogna dell’impegno laicale dei laici, della loro
responsabilità nelle dimensioni secolari della vita. Mi pare che vi sia una sottile tentazione che oggi percorre
la comunità cristiana: quella di prendere le distanze da un mondo che sente ostile, oppure coltivare un
sotterraneo disprezzo per una umanità ritenuta indifferente a Dio. Certo nessuno lo dice con queste parole,
però, se si esaminano alcuni atteggiamenti, ci si accorge che dietro vi è questa posizione.
Oggi in molti cristiani vi è una pericolosa paura del mondo, quasi che il contatto con la realtà potesse
contaminarci e minacciare la nostra fedeltà al Vangelo.
Mi pare che dunque questo sia uno dei punti che impegnano la nostra conversione, come laici cristiani e
come comunità cristiana. Comunità cristiane che hanno bisogno di tornare invece a un confronto fiducioso
con il mondo di oggi: in fondo è quello che aveva immaginato il Concilio, questa è la forza generativa che il
Concilio ci ha consegnato.
E al tempo stesso quando dico mondo vorrei dire anche le dimensioni della vita, una considerazione più
positiva della vita: noi non ci trasciniamo nella vita, noi assumiamo la nostra vita con consapevolezza e gusto,
abbiamo, veramente sperimentiamo, che il nostro essere cristiani laici è l’esperienza di chi non nonostante il
mondo vive da cristiano, ma vive da cristiano e incontra Dio dentro la vita, dentro il mondo, dentro la sua
esperienza di ogni giorno.
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Ma se non c’è stima per la vita, se non c’è stima per la nostra umanità questa esperienza è molto difficile che
si realizzi. Con questo stile invece di attenzione positiva verso la vita l’azione dei laici non solo torna ad avere
un senso, ma può contribuire ad alimentare questa continua interpretazione da credenti della vita comune,
della vita quotidiana. Questa in fondo è la forma che può prendere per i laici cristiani la profezia, è quel modo
di interpretare anche l’esperienza del Concilio che ebbe a dire Paolo Vi nell’omelia di conclusione, quando
disse che “il Magistero della Chiesa durante il Concilio è giunto a dialogare con l’uomo contemporaneo, e ha
assunto in questo dialogo la voce amica e famigliare della carità pastorale. E l’ha fatto non indirizzandosi solo
all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche nello stile della conversazione ordinaria. La
Chiesa si è proclamata serva dell'umanità’ “.
Un’omelia bellissima che dice di una Chiesa non solo aperta al mondo, ma in cordiale attenzione, apertura,
quasi contemplazione della bellezza dell’umanità. Allora lo stile del Vaticano II è la parola amica indirizzata
all’umanità, la proposta di un insegnamento offerto come servizio, una voce famigliare ed amica che vuole
farsi ascoltare da tutti, che è disposta al dialogo e che per questo fa appello all’esperienza della vita
collegandola alla Parola.
Ai laici e alle comunità cristiane mi pare che possa essere chiesto di mostrare interesse ed attenzione a quello
che accade nel mondo e nella società, e non per fare muro, o per far sentire che anche i cristiani ci sono, ma
piuttosto per produrre pensiero da cristiani sulle situazioni della vita, sui problemi della società, perché oggi
c’è grande bisogno di pensiero, anche nella Chiesa, e di quel pensiero che non è riservato a pochi studiosi e
a una aristocrazia del pensiero da cristiani, ma un pensiero che coinvolga il popolo di Dio, una comunità
cristiana pensosa, che sappia di continuo con passione e con apertura leggere la vita e la Parola del Signore
e reinterpretare la vita in questa prospettiva, mostrando la bellezza della vita e al tempo stesso la bellezza
del Vangelo, che dà sapore alla vita.
Credo che questi percorsi possano togliere il punto di domanda all’interrogativo da cui siamo partiti in questa
nostra serata. Il problema non è quello di far vivere i laici, né come singole persone né come espressione
organizzata; il problema è quello di valorizzare un dono, che è dono di Dio come ogni vocazione, valorizzarlo
perché possa parlare alle persone di oggi, perché il Vangelo possa parlare alle persone di oggi e possa parlare
alla nostra vita prima di tutto, e dunque in questa prospettiva la questione dei laici non è una questione di
laici, ma è una questione della chiesa, è la questione della possibilità, anche attraverso l’esperienza dei laici,
(esperienza non unica ma insostituibile), ritrovare il rapporto vivo tra il Vangelo e la vita concreta di oggi.
Dunque alla fine è una questione che riguarda la fede.
Risposte ad alcuni interventi
Come vede il rapporto tra i preti e i laici oggi? Non ci sono delle difficoltà di comunicazione?
E’ una domanda vastissima. Certo che è un rapporto difficile, e difficile a diversi livelli. Partiamo da quello più
banale, ma importante: ci sono fatiche a capirsi e a comunicare che sono legate proprio alla concretezza dei
nostri caratteri, del nostro modo di gestire le relazioni, che è un aspetto della nostra persona su cui penso
ognuno di noi cerca di lavorare; non sempre però si è sufficientemente convinti che lavorare sul nostro modo
di entrare in relazione sia un compito importante, anche per la nostra formazione, per costruire la nostra
persona. E questo vale per i laici e vale anche per i preti. E’ un capitolo della nostra umanità che non sempre
riteniamo così importante, e dunque a volte si creano delle incomprensioni che non sono proprio legate a
nessuna teologia e a nessuna spiritualità, ma, terra terra, ai nostri cattivi caratteri, non sufficientemente
educati. Ed educarci ad essere persone pienamente umane è un compito che dura tutta la vita.
Poi ci sono altre difficoltà legate al modo di pensare la Chiesa, cioè legate a culture ecclesiali diverse, ed è
normale che un prete e un laico abbiano culture ecclesiali diverse, perché se non le avessero vuol dire che
qualcosa non funziona, che non hanno una sensibilità nella quale la loro vita quotidiana ha una qualche
influenza. Avere però culture ecclesiali diverse non vuol dire non comunicare: vuol semplicemente dire che
queste culture ecclesiali diverse vanno messe in relazione, in dialogo, a partire dal presupposto che nessuno
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di noi ha ‘la’ cultura ecclesiale giusta, perché la sensibilità, la spiritualità, il modo di pensare, oltre che la
Chiesa anche le cose di Chiesa, non appartengono alla realtà di Dio, ma appartengono a cose opinabili, che
dunque si possono discutere e confrontare, a livelli diversi, da quelli più impegnativi, di mentalità, a quelli più
banali e organizzativi.
In particolare mi pare che nella nostra mentalità di laici c’è una certa tendenza, una certa presunzione a volte,
ad entrare in relazione; nel modo in cui i preti entrano in relazione con i laici c’è una tendenza a sentirsi in
qualche modo i depositari della vita della comunità. Sono i due difetti più rilevanti che mi pare di constatare
nella fatica di capirsi. Detto questo bisogna percorrere la lunga strada di un’ascesi che parte anche dal
mettersi a confronto con un modo di pensare la Chiesa che il Concilio ci ha consegnato che è così fine, così
profondo e bello che dovrebbe avere tutti noi dedicati a diffondere questa finezza spirituale della vita della
Chiesa che il Concilio ci ha affidato.
E insieme a questo l’altro elemento che potrebbe muovere la nostra maggiore capacità di comunicazione è
il fatto che il campo della missione è infinito. E dunque non possiamo perdere il tempo dietro le nostre piccole
cose, perché l’urgenza del Vangelo, di tante persone che potrebbero incontrarlo a fronte di modalità diverse
di vivere come Chiesa, se questo veramente ci sta a cuore, allora non si vola rasoterra, si viaggia.
Ci ha richiamato alla necessità dell’interesse con cui guardare il mondo. Oggi siamo in un atteggiamento
di inginocchiarsi davanti al mondo, o di difenderci da esso. Un atteggiamento quindi molto diverso, anche
storicamente, da quello del Concilio. Abbiamo più bisogno quindi di avere fiducia verso le realtà temporali.
Poi ha parlato al problema della secolarizzazione, di individualizzazione. Anche nel mondo cattolico si è
assistito a frammentazioni e soggettivizzazioni di esperienze, che da una parte sono ricchezze e dall’altra
ci fanno però perdere un po’ di vista il legame comune.
Mi commuove poi vedere la gente comune che parla dei cristiani ‘impegnati’ come cristiani veri, mentre
loro vivono una quotidianità di fede meravigliosa, e questo è il Cristianesimo vissuto, mentre mi dispiace
che si sentano cristiani ‘di serie B’.
Per quanto riguarda il guardare al mondo, lo spirito della Gaudium et spes è maturato in un clima culturale
completamente diverso, è vero. A me piace pensare che anche per quel clima culturale la Chiesa è arrivata a
dire che le gioie e le speranze delle persone sono le sue, però non può dire ‘cambiato il clima, torniamo
indietro’. L’ha capito, lo deve vivere, anche quando il clima cambia.
La frammentazione del mondo cattolico è il frutto di una vivacità che certamente c’è, di una vivacità di carismi
che hanno dato vita ad esperienze che qualche volta, qua e là, in contesti diversi, hanno viaggiato anche un
po’ per conto loro, non hanno interagito con la vita della Chiesa di tutti. La percezione di frammentazione
nasce proprio da questo, perché vivere sentendosi parte della Chiesa di tutti non vuole dire che dobbiamo
essere tutti uguali, anzi la differenza, diverse sensibilità e modalità di interpretare la missione della Chiesa
sono un dono, anzi è come dire che in un mondo ‘plurale’ lo Spirito ha suscitato persone che parlano lingue
diverse: se parlassimo tutti la stessa lingua in un mondo plurilingue, ci capirebbe solo chi parla nostra, invece
in questa Chiesa ‘plurale’ lo Spirito ha suscitato persone che parlano lingue diverse; però parlare lingue
diverse non vuol dire andare per la propria strada, ma saper riconoscere che ci sono degli elementi comuni
che non solo ideali, ma che in qualche momento possono diventare anche momenti di comunione concreta,
mostrando anche concretamente che la Chiesa di tutti supera la particolarità della nostra esperienza.
Sul fatto che abbiamo creato una nuova graduatoria tra i cristiani questo è veramente triste. Ci ricordiamo
che prima del Concilio, e anche dopo sopravvive ancora un po’ questa mentalità, la Chiesa è la piramide, e
alla base della piramide c’erano i cristiani senza nome e senza volto; il Concilio ha spazzato via questa
impostazione, anche se non nella mentalità di tutti, ha detto che non è così che si deve pensare la Chiesa, ma
se tra questo popolo che si è creata una nuova gerarchia tra quelli che sono più impegnati e quelli che lo sono
meno sarebbe proprio un guaio. Allora bisogna recuperare, non so come, forse con modalità di vita ecclesiale
molto umane, molto accoglienti, molto capaci di valorizzare tutte le persone, creare l’idea che quello che fa
la grandezza della nostra vita non sta in quello che facciamo, ma nel dono che tutti abbiamo ricevuto di vivere
la comunione con Dio, nella possibilità che tutti abbiamo di ascoltare la sua parola e lasciarci aprire il cuore
dal suo Vangelo.
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Cristiani invisibili e irrilevanti: quello che è importante oggi penso sia essere umani (anche all’interno della
Chiesa), cioè cercare di comprendere le persone, mettersi anche in ascolto di tutte le realtà che non sono
Chiesa, cercando di imparare anche da queste realtà. E se ti dedichi ad altre situazioni non ti rimane molto
tempo per impegnarti in parrocchia, e capita Invece effettivamente che se non ‘fai’ qualcosa in parrocchia,
sei nessuno, e questo è profondamente sbagliato.
Riprendo solo un aspetto che anch’io sento molto: la bellezza del vivere in pieno la nostra umanità. La nostra
vita, con la sua grandezza, le sue ricchezze, i suoi momenti belli e anche i suoi momenti tragici, che non
rendono la vita meno bella o meno grande, la nostra umanità, è il dono che Dio ci ha fatto e che ci rende
immagine sua, e che abbiamo in comune con tutte le persone: questo è elemento di condivisione con tutti.
E la grandezza della nostra umanità, se uno non ne fosse convinto, la può ritrovare leggendo il Vangelo,
semplicemente. Ci hanno forse insegnato quando eravamo piccoli che il Vangelo è la rivelazione della vita di
Dio, ma è la rivelazione di una umanità piena e forse proprio in questo è rivelazione della vita di Dio, questo
Dio che ha il nostro volto, il volto di tutte le persone. E questa rivelazione passa attraverso incontri
umanissimi: l’umanità degli incontri del Vangelo è una cosa straordinaria. Allora come possiamo pensare che
la umanità è quasi come il piedistallo su cui si innesta qualche altra cosa? L’umanità è la nostra vita di cristiani,
la nostra vita di fede sta dentro la nostra vita di donne e di uomini, non è fuori niente.
Quando uno legge il Vangelo con questa chiave della umanità lo trova di una bellezza commovente e se la
nostra umanità ha questa grandezza, questa è a grandezza di tutte le persone che incontriamo, credenti o
non credenti che siano, e dunque questo è un elemento di comunione, di vicinanza, di universalità che io
trovo affascinante. Ogni persona allora è una parola, non solo ‘mi dice’ delle parole, la sua vita è una parola,
che dice dal suo punto di vista, in quella originalità, un modo di esprimersi di Dio.
In una tradizione cristiana un po’ spiritualista, non sempre così attenta alle dimensioni dell’umanità penso
che andrebbe riscoperta e che sarebbe una grande base comune; penso al modo di parlare di questo Papa:
mi affascina, perché parla in maniera semplicissima, con i suoi gesti che sono molto forti, ma parla anche con
un linguaggio umanissimo. Pensate alla ricchezza delle metafore che utilizza, che sono quelle della vita
comune, e non è che le persone sono conquistate da questo Papa perché lo capiscono, ma lo sentono, che è
diverso, e sentono l’autorevolezza di questa parola. Con la semplicità del suo linguaggio ha avuto la forza –
unica autorità al mondo, direi – di convocare in tutto il mondo una giornata di preghiera per la pace. Chi
avrebbe avuto l’autorità oggi di fare questo, quale autorità in questo mondo avrebbe potuto avere
l’autorevolezza di una convocazione simile?
Parte del clero ha avuto paura delle innovazioni portate dal Concilio, frenando o ignorando una
partecipazione attiva e costruttiva dei laici, e mi sembra che questo atteggiamento sia presente ancora in
diverse comunità cristiane.
Traduco questa domanda: i preti hanno affossato il Concilio? Penso di no, non si può pensare che la paura
del Concilio abbia determinato la situazione un po’ di stagnazione nella quale ci troviamo. Credo che sia in
generale la paura che preti e laici insieme abbiamo avuto dei cambiamenti avvenuti e che stanno avvenendo
nella nostra società; forse abbiamo avuto insieme poca fede per credere che quei cambiamenti potessero
essere una parola da cui Dio non era escluso, la crisi di una fede che è capace di guardare a quello che accade
nella storia comunque sempre con speranza.
Come possiamo rendere più accessibile e diretta la comunicazione verso le nuove generazioni e verso chi
non si occupa delle attività pastorali?
La dimensione dell’appartenenza è una realtà un po’ faticosa nei giovani, un po’ per il rapporto tra
generazioni diverse, ma forse anche per percorsi di formazione che hanno iniziato alla fede ma un po’ meno
alle forme della fede, quindi ad una appartenenza alla comunità cristiana. Non può forse essere utile far
riscoprire anche ai giovani la dignità di essere laici nel mondo una via per riscoprire di essere parte viva e
vera di essere generante anche all’interno della comunità e del mondo?
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Unisco queste due domande. Bisognerebbe fare uno studio dal punto di vista sociale, culturale e direi anche
antropologico per capire come la generazione di oggi sia diversa dalla generazione dei suoi educatori, di come
la rapidità con cui sta cambiando la società renda in un breve tempo molto distanti le generazioni. Un tempo
da una generazione all’altra passavano molti anni, e le differenze tra di esse, pur essendo rilevanti, rendevano
le due generazioni ancora nella possibilità di comunicare. Oggi invece la rapidità dei cambiamenti accresce le
distanze in maniera tale da rendere molto difficile la comunicazione e direi quasi che con le nuove generazioni
quello che convince è la forza della testimonianza che gli adulti fanno, l’autorevolezza degli adulti, e quindi
la parola proposta è problematica, proprio perché questi cambiamenti stanno producendo nelle nuove
generazioni un bisogno di personalizzazione di tutto (che è diverso dall’individualismo), cioè la capacità di
rendersi conto di tutto personalmente, quindi anche della fede. Queste rende necessario sul piano della fede
dei percorsi che partano dagli elementi sorgivi, generativi. A un giovane che vuol rendersi conto anche
personalmente della sua fede, vediamolo anche come elemento molto positivo, anche se è molto difficile
consegnargli una fede fatta: si deve fargli percorrere il cammino che porta alla fede, bisogna fare rivivere e
ripercorrere i percorsi generativi della fede. Il fatto che ci sia questa esigenza non dice che l’educazione
ricevuta negli anni dell’iniziazione cristiana non sia stata buona, anzi mi pare che mediamente oggi questi
percorsi siano più qualificati di quelli di anni fa. Solo che questi avvengono in anni in cui questa esigenza di
personalizzazione non c’è ancora e nel momento in cui inizia questo processo il giovane ha perso qualsiasi
contatto con la comunità cristiana.
Quali percorsi a questo punto? Il fatto che un giovane abbia perso i contatti non significa che abbia perso
ogni possibilità. Provate a pensare alla scuola: non è un luogo dove si annuncia la fede, ma è un luogo dove
si educano le persone a pensare, e questo non è poca risorsa; si educa a lavorare sulle domande, è un luogo
dove comunque c’è l’insegnamento della religione cattolica, che anche se è fatto da un punto di vista
culturale, suscita comunque domande, interrogativi; chi non frequenta più la parrocchia frequenta però
alcuni ambienti dove ci può essere qualche figura educativa significativa, figure forti, che non dicono ‘adesso
ti insegno a vivere’, ma che hanno uno stile di vita così chiaro che fa pensare, che comunque costituisce un
inciampo. Allora i percorsi di iniziazione alla fede del mondo giovanile vanno dunque decisamente ripensati,
ma non quelli della iniziazione cristiana, ma dai 16 anni in poi si deve pensare come stabilire la comunicazione
con lui. Certo, c’è la pastorale giovanile organizzata, ma quanti giovani intercetta? E tutti gli altri? E non è
neanche solo un problema di giovani, ma anche di adulti, come dice il Vescovo.
Appartenenza: penso a quel sentimento che fa sentire ad una persona che è dentro un contesto, di legami,
di compiti, di impegni, di responsabilità e che precedono un modo di pensare. Prima però bisogna ‘prender
dentro’ una persona, quindi esiste un percorso di relazione, dialogo personale che sono il percorso che può
portare a farsi delle domande. E’ un processo rovesciato rispetto a quello al quale siamo abituati.
Un rischio e una tentazione: vivere la propria relazione con la Chiesa come una questione individuale, molto
centrati su stessi, volendo cercare spazi conquistarli e anche difenderli.
L’antidoto sta nella educazione alla presenza associata all’interno di una parrocchia e una diocesi, anche
nella rotazione di incarichi e ruoli, in ottica di servizio piuttosto che di conservazione del proprio ruolo.
Le responsabilità secolari: nella vita della nostra Chiesa locale in questi ultimi anni sono state fatte scelte
importanti, nella direzione soprattutto delle soggettività e di una rinnovata progettualità pastorale. Però
forse queste scelte sono scarsamente incidenti, quindi si deve reinventare la formazione, e valorizzare
l’associazionismo, che mi sembrano questioni centrali nella vita della Chiesa oggi.
Esiste ancora il laicato? Se non esistesse non esisterebbe più la Chiesa, perché i laici sono persone scelte da
Dio per far parte del popolo di Dio, in cui ci sono ruoli e carismi diversi, ma il punto di partenza è quello del
laico, anche perché numericamente laici sono la parte più importante, e i preti sono in minoranza. Il
battezzato è sacerdote, re e profeta e ci sono campi in cui solo il laico può esercitare questa chiamata, come
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la famiglia, l’economia, in cui sono i laici a portare avanti l’attività economica, il campo politico…. Mi pare
siano aspetti fondamentali per la vocazione dei laici.
Il laico è sfidato dalla cultura e della società nel campo della libertà: libertà nell’appartenenza, e sembra
quasi una contraddizione essere liberi ed appartenere, quindi appartenenza alla Chiesa e alla verità; poi
una seconda riflessione che è stata richiamata è l’elemento del pensare: la fede che interroga la vita e la
vita che interroga la fede. Non è che anche la fatica del pensare, presi dall’affanno pastorale, del fare,
viene ritenuta inutile, mentre è quella che dà sostanza a tutte le altre fatiche? Forse qui dobbiamo noi laici
compiere ancora dei passi con più decisione, futuro e speranza.
Posso accorpare tutte queste domande intorno alla questione del come dare significato ecclesiale
all’esperienza secolare dei laici. In che rapporto stanno con questo compito la formazione e le esperienze
associative possibili?
Come faccio a fare in modo che tutte le mie esperienze della mia vita quotidiana rendano importante la mia
vita per la comunità in quanto faccio e vivo queste cose?
Credo che prima ci sia un elemento di mentalità nella comunità da acquisire: capire che queste cose sono
importanti, non quando la comunità si occupa in proprio di queste esperienze, e fa politica o economia, ma
quando affida ai laici riconoscendo il valore del loro impegno il compito di essere testimoni da cristiani in
questi contesti. E dunque quando parlavo di interesse per il mondo pensavo anche allo sguardo con cui si
guardano queste dimensioni della vita.
Come vanno a finire queste cose nelle comunità cristiane? Organizzate come sono le comunità oggi penso ci
sia poco margine, a meno che le comunità cristiane accettino che ci siano dei contesti in cui vi sia la possibilità
di una relazione che non è solo come questa, ma una relazione circolare, con esperienze di piccolo gruppo,
che siano ecclesialmente riconosciute come luoghi vivi della comunità, in cui le esperienze della vita vengono
narrate, elaborate, interrogate alla luce del Vangelo: il discernimento comunitario lo si fa anche dentro
esperienze di formazione e in questa narrazione della vita secolare con la sua problematicità, le sue questioni
e le sue ricchezze, con la fatica della testimonianza ma anche con la sua bellezza, in questo si elabora un
pensiero che cresca nella comunità, che confluisca in essa. È il Consiglio pastorale? Sono i momenti di
assemblea della comunità? Ogni comunità se le inventi. Certamente comunque questa esperienza della
secolarità arriva alla comunità se ci sono dei luoghi intermedi, perché non sono cose che si vivono in
un’assemblea, ma si vivono in un contesto umanamene e dal punto di vista relazionale significativo. Ci sono
anche i luoghi della vita che si possono valorizzare: la casa, ad esempio, come luogo di incontro di esperienze
di narrazione della missione e della testimonianza e che può esser un luogo riconosciuto come luogo dove si
elaborano pensieri, racconti, in cui la secolarità confluisce. Allora vedete che la comunità che si delinea non
è sempre e soltanto la comunità che si raccoglie intorno all’ombra del campanile, ma è una comunità che si
dissemina sul territorio e che diventa una comunità plurale, ma non per questo liquida, perché dipende da
come la si tiene insieme.
Questi diventano anche luoghi di formazione. Quando penso a ‘reinventare’ la formazione, soprattutto quella
degli adulti, che hanno una modalità di formarsi che ormai è molto diversa da quella di giovani, perché
nell’adulto l’esperienza della vita è molto rilevante, allora l’esperienza della vita deve poter diventare in
qualche modo scuola, cioè imparo dalla vita e poiché sono un adulto imparo non perché prendo tutto quello
che viene acriticamente, ma da cristiano, che sta sempre sotto il giudizio della Parola, interrogo la vita e la
verifico alla luce della Parola. Allora è una formazione molto diversa rispetto al nostro modello tradizionale.
Tutto questo credo che può avere nell’associazionismo un regista privilegiato, oltre che un luogo privilegiato,
non so se per sempre, ma certamente in questa fase questo passaggio avviene se c’è un associazionismo che
fa da mediazione, perché in fondo è l’associazionismo che dà valore allo stare insieme delle persone, che può
avere luoghi diversi da quelli della comunità, senza che per questo si dissolva il legame con la comunità,
altrimenti abbiamo finito di ragionare. Ed è’ l’associazionismo che può avere la flessibilità, anche la
competenza in alcuni casi per lavorare in questa direzione. Penso che l’associazionismo possa avere un
compito importante, quello di rendere evidente la vocazione laicale attraverso un coinvolgimento che rende
non il singolo, ma l’insieme di laici laicalmente significativi.
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Mons. Diego Coletti
Anzitutto un ringraziamento molto vero, profondo e fraterno a Paola con la quale abbiamo fatto un po’ di
cammino insieme. La ringrazio pubblicamente per alcune riflessioni, idee, lotte, impegni vissuti insieme che
mi hanno arricchito nella mia esperienza sacerdotale.
Userò quattro rapide immagini:
Le due ali. Tutti avete senz’altro letto il Messaggio di S. Abbondio di quest’anno, dove è scritto che una fede
non pensata è una fede da buttare, ed ecco allora l’importanza di un laicato maturo, perché quando
riduciamo la fede ad una serie di buone abitudini religiose, cultuali e morali, dei laici non c’è bisogno. Quando
invece pensiamo ad una crescita di fede che vuol dire la crescita del ‘pensare’ la vita, e del viverla in maniera
critica e riflessa, non si può fare senza di questa partecipazione.
Se c’è solo la fede non si vola, e allora, lasciatemi dire anche alcune cose sgradevoli, io ho l’impressione che
almeno qualche volta tanti dei nostri fedeli e anche qualcuno dei nostri preti continuino a credere - o a
pensare di credere - a forza di non pensare, perché se dovessero incominciare a pensare si accorgerebbero
che la loro fede è in mutande. E’ una formazione che non deve essere solo quella accademica, ma la
formazione di base a una fede adulta, senza la quale quello che rimane nella vita delle nostre comunità è una
larva vuota, un’apparenza.
Le due piramidi. Si, la Chiesa è piramidale, ha un suo centro e un suo vertice, solo che è girata dall’alto in
basso, e il laicato è la parte più importante, e Santo Padre, vescovi, presbiteri, diaconi permanenti, religiosi e
religiose sono a servizio – l’ha detto Gesù, l’ultimo di tutti è il servo di tutti – perché se pensiamo invece alla
piramide in cui è il laicato che sostiene il clero, abbiamo sbagliato l’immagine. È il clero che sostiene il laicato
e lo serve perché faccia quello che deve fare.
La spazzatura e il corpo. Mi riferisco a due espressioni violente di S. Paolo (capitolo 3 della Lettera ai Filippesi
e inizio del capitolo 12 della Lettera ai Romani) che fa un elenco sacrosanto di cose, che S. Paolo definisce
‘spazzatura’. Quindi se nelle nostre parrocchie c’è un capospazzino e qualche altro aiutante spazzino noi
faremo un pessimo servizio al Cristianesimo. Ci occupiamo di queste cose. Dice S. Paolo che non sono
spazzatura in sé, ma sono spazzatura nella misura in cui non è quella cosa che mi stimola continuamente e
mi permette di correre verso Gesù. E quando parliamo di innamorarci del mondo e della vita della gente
dobbiamo ricordarci che questa non è un a nostra benevolenza, che adesso ci mettiamo insieme e facciamo
filantropia, ci innamoriamo della vita e della realtà concreta delle persone perché ci innamoriamo di Gesù,
perché tutta quella umanità di cui ci ha parlato Paola questa sera con accenti molto belli è l’umanità di Gesù,
non è il sentimento, la simpatia: anche tutto questo, ma visto con gli occhi di Gesù.
Allora quanto di cristocentrismo c’è nelle nostre comunità, e quanta spazzatura? Questo è il punto, perché
poi tutto viene di conseguenza.
Senza colpa di nessuno, perché non è il problema della salvezza dell’anima, ma è il problema di chiedersi cosa
sta al mondo a fare una parrocchia, una comunità cristiana? Se l’idea è che produce servizi religiosi decenti,
a basso prezzo e con sconti per comitive, cosa volete che ci servano i laici? L’importante è che mettano mano
al portafoglio al momento giusto! Ma se lo scopo della parrocchia o dell’associazione o del gruppo di cristiani
è quello di dire che bisogna che in questo mondo, in questa vita concreta di persone concrete con i loro guai
e speranze, le loro gioie venga fuori l’incontro con Gesù Cristo, perché per questo siamo qui. Tutto il resto è
prezioso, comprese le candeline e le novene, nella misura in cui permette di andare in questa direzione. Il
‘corpo’ dice San Paolo: questo è il culto finalmente secondo il logos, cioè secondo la logica, il culto vero:
offrire i vostri corpi come sacrificio. Gesù ha offerto il suo corpo come sacrificio, nella propria concretezza di
vita, quella che Paola chiamava il mondo e la nostra vita nel mondo. Questo va offerto come l’ha offerto
Gesù, ed è questo che salva e cambia il mondo.
Quindi tutti interroghiamoci se ci stiamo interessando di spazzatura o se stiamo correndo verso Gesù,
invitando tutti a questa corsa verso Lui per poter in qualche modo partecipare alle sue sofferenze, che sono
il massimo possibile della fedeltà nell’amore. Per partecipare così alla sua gloria: non c’è altra strada.
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La cattedrale di Chartres: nella cattedrale di Chartres, finita al termine del XIV secolo, c’è una statua: “Dieu
créant Adam”. C’è inequivocabilmente Gesù Cristo, perché nel nimbo c’è la croce, che ha ai suoi piedi un
uomo che gli somiglia e che lui sta in qualche modo mettendo insieme con le sue mani. Dico questo perché
se non c’è questa percezione che la fede comincia con Gesù e da Gesù è portata a termine (Ebrei 12), parliamo
di fede pensando a dieci cose diverse.
Benedetto XVI l’ha detto nella Deus Caritas est: la fede cristiana non è un bell’insieme di idee religiose, e
neanche di abitudini morali, ma è un incontro con una persona, così significativo che ti cambia la vita. Senza
fondamentalismi, perché i laici ci insegneranno che c’è una autonomia preziosissima nei confronti
dell’apparato ecclesiastico, ma saranno insieme a tutti gli altri cristiani, religiosi, preti a costruire un mondo
che non è autonomo nei confronti di Gesù Cristo, perché orientato a lui come unico capo. E’ autonomo nei
confronti della Chiesa, ma l’autonomia della laicità a cui siamo profondamenti legati, l’autonomia della laicità
è autonomia dall’ecclesiale, non da Gesù Cristo, che invece va offerto gratis, senza bisogno neanche che tu
venga in chiesa. Te lo porto in casa amandoti come mi ha amato Gesù, perché questo è Gesù Cristo. E’ quello
che dice Papa Francesco. Con che cosa giustifichiamo che cosa e con che cosa diamo senso a che cosa? Perché
si può osservare strettamente, rigorosamente, fino alla virgola i dieci comandamenti e non essere cristiani.
Credo allora che il Concilio Vaticano II sia stato un momento fantastico e ci abbia riconsegnato un po’ ripulita
dalla polvere che si era depositata nei secoli questa idea (cfr. Lumen gentium 9). E’ questa l’idea che va tenuta
splendente tutte le mattine, perché prende la ruggine. Dentro a questa idea di fede che ha in Gesù Cristo il
suo centro, nella sua parola (perché la fede viene dall’ascolto), se non c’è questa centratura in Gesù Cristo,
nella sua parola, che ha il suo vertice nella Eucaristia non andremo da nessuna parte a fare la missione. La
fede viene dall’ascolto, si nutre della comunione con Gesù e allora si parte di corsa da Emmaus e si va a dire
a tutti l’abbiamo trovato, finalmente il senso della vita, della vita, non dei tre quarti d’ora mal sopportati della
domenica mattina. In questa ottica io credo che non solo si salva il laicato, al quale va tutta la mia simpatia,
che sarebbe poco, e lo si mette finalmente nella condizione di essere se stesso, al vertice della sua chiamata
alla santità, ma si salvano anche i preti, e si salveranno anche i vescovi.
Laura Legnani
Quando il 24 ottobre 1987 mons. Teresio Ferraroni inaugurò il Centro ci ricordò con vigore che questa
nasceva e doveva crescere come ‘casa dei laici’. Da tutto quanto abbiamo ascoltato da Paola e dal Vescovo
abbiamo pensato ad una piccola iniziativa che ci aiuti ad andare da laici incontro al mondo e a guardare alla
storia sempre con speranza. Ce la illustra don Angelo.
Don Angelo Riva
Abbiamo bisogno di pensiero, come abbiamo sentito dire. Qui al Card. Ferrari abbiamo avuto una piccola
iniziativa, da un po’ di anni, Agorà, che significava trovarsi insieme e riflettere; ora viene ripresentata, grazie
anche alla collaborazione di Paolo Bustaffa che la condurrà. La chiameremo Pensieri al Centro e inizieremo
con incontri mensili al mercoledì. Il primo nucleo sarà sulle migrazioni oggi, con due incontri a novembre e a
dicembre. Vi aspettiamo e ci chiediamo di diffonderlo, soprattutto nelle parrocchie della città di Como.
Laura Legnani
Ringrazio a nome di tutti Paola, soprattutto per il suo amore alla Chiesa e all’uomo.
Dice R. Guardini:
«L’uomo è designato a essere l’ascoltatore della parola che ė il mondo. Dev’essere anche colui che risponde.
Mediante lui, tutte le cose devono tornare a Dio in forma di risposta»
Da registrazione – non corretta dal relatore
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Centro Card.Ferrari_30.10.2013_Relazione