Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La scuola: “apripista” dell’educazione degli adulti Alcuni assunti di fondo: alfabeto, scuola, educazione permanente Se per educazione permanente intendiamo la durata dell’educazione lungo tutto l’arco di vita dell’individuo, di tutti gli individui, e la sua estensione in tutti i luoghi in cui si svolge la sua esistenza, diventa fondamentale concentrarci sulle basi che possono garantire questo infinito dispiegarsi del processo educativo. La principale tra queste è l’alfabetizzazione, e con essa la scuola, intesa come luogo sistematico di educazione, di raffinamento di capacità razionali che trovano nel possesso sempre più sicuro dell’alfabeto – nei suoi vari livelli – lo strumento cardine. La prima sfida che si pone all’educazione permanente e, in particolar modo all’educazione degli adulti, è quella che si intreccia al ruolo e alla funzionalità della scuola come situazione in cui – per mezzo del lavoro dell’insegnante – tutti gli individui devono essere avviati al cammino della conoscenza. Ne deriva che la qualità della professionalità docente, unitamente alla qualità dell’impianto istituzionale e organizzativo del sistema scolastico, si aggancia quindi alle reali possibilità di pensare all’educazione degli adulti come al necessario permanere dell’ideale educativo ben oltre la situazione scolastica, in cui ha preso avvio ed è stato accuratamente coltivato. Dalla scuola all’educazione degli adulti La scuola rappresenta per l’educazione degli adulti la base più solida e il presupposto (logico e teorico di fondo, in primis, così come anche a livello di sostanziale efficacia) degli apprendimenti di cui l’adulto potrà fare esperienza in molteplici ed eterogenei contesti. E questo perché nel continuum dell’educazione permanente, la scuola rappresenta un momento estremamente significativo, cruciale: essa è (e dovrebbe sempre essere) una «officina di metodo», ove si costruiscono «conoscenze generative» e «conoscenze euristiche»[1]. [1]. Cfr. F. Frabboni, Sognando una scuola normale, Palermo, Sellerio, 2009, p. 90. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Scuola Educazione permanente e degli adulti Una propedeuticità necessaria Non ci può essere vera educazione degli adulti, dunque, se non c’è stata, prima, una vera scuola. E questa affermazione solo apparentemente collide con una lunga storia di educazione degli adulti, per larga parte tuttora in corso (e necessaria), intesa come recupero e compensazione di una scuola che non c’è stata o c’è stata a intermittenza o, ancora, di una scuola dall’identità debole sul piano cognitivo e metacognitivo. Infatti, a ben vedere, non si può non rilevare quanto ciò testimoni il fatto, al fondo, che la scuola non può mai essere bypassata e che, in nome di questa necessità, si sia disposti a dar luogo a situazioni faticose e forzate nel loro anacronismo ma che sono ineludibili, come “tornare sui banchi di scuola” o, magari, sedervisi per la prima volta, anche se anagraficamente adulti Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Problema del «recupero» È davvero possibile «recuperare» del tutto la scuola? Le forme attualmente disponibili del «recupero scolastico» (CTP-CPIA) sono soddisfacenti? - monte ore ridotto - ventaglio disciplinare ridotto Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La consapevolezza di quanto avviene nell’oltrescuola, dei bisogni di formazione continua e ricorrente, del raccordo tra conoscenze/competenze maturate e acquisite, realtà del lavoro ed effettivo esercizio della cittadinanza attiva, consente di “retroilluminare” l’universo scolastico e di porre maggiormente in evidenza tutti quegli aspetti che fanno della scuola esperienza di vita e esperienza di preparazione alla vita al tempo stesso, considerando in maniera più ampia, perché prospettica, e più in profondità il ruolo e il lavoro educativo dell’insegnante. Da ciò deriva una innegabile valorizzazione dell’insegnante, la cui funzione viene esplicitamente ad essere considerata in termini di continuità, di progettualità e, non ultimo, di vera e propria propedeuticità alla vita adulta. Ma ne deriva, anche e necessariamente, il bisogno di valorizzare e potenziare il suo iter formativo, di irrobustirne il momento iniziale e di approntarne coerentemente gli aggiornamenti, su più versanti: quello culturale in senso lato, quello disciplinare specifico, quello metodologico e di ricerca, quello comunicativo-relazionale, ma anche linguistico, tecnologico e organizzativo, tutti aspetti, questi, da orchestrare in quella prospettiva di Scienza dell’educazione che costituisce la peculiarità professionale di ogni insegnante degno di tale nome. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 È evidente che non si sta andando in questa direzione: la politica ministeriale italiana degli ultimi tempi – pur prendendo atto di come la qualità o non qualità della scuola, e quindi degli insegnanti, sia gravida di ripercussioni sullo stato di più o meno “piena adultità” della vita del nostro Paese – agisce, in questo settore, al pari di altri, puntando “al ribasso”: sospensione e, di fatto, chiusura della SSIS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) [1]; a ciò è seguita l’attivazione del TFA (Tirocinio Formativo Attivo) che riduce ad un anno (rispetto ai due della SSIS) il percorso di formazione iniziale dei docenti [1]. Cfr. la Legge n. 133 del 6 agosto 2008, comma 4 ter. Tutto ciò si accompagna ad una atavica concezione svalutativa dell’insegnante… - Chi sa fa, chi non sa insegna - Chi può fa, chi non può insegna - Tutti coloro che sono incapaci di imparare, si sono messi ad insegnare Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Paradosso: proprio quando, da più parti, si invocano l’educazione e la formazione permanente, enfatizzate più che mai, lamentando al contempo le gravi lacune degli adulti di oggi, si vanno ad intaccare le fondamenta su cui quell’educazione e formazione permanente debbono innestarsi, attecchire e svilupparsi. È chiaro che ciò che più interessa è una funzionale conformazione alle esigenze politiche ed economiche del momento, ed è altrettanto chiaro che, di là di quanto proclamato, tanto la scuola militante quanto il settore dell’educazione degli adulti (laddove rifiutano questi intenti e toccano con mano la necessità di promuovere conoscenze e competenze forti e durature) operano “controcorrente”, per non dire in una situazione di “resistenza” Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Alcuni dati sull’analfabetismo degli adulti oggi… e domani Come è noto, una delle funzioni storiche dell’educazione degli adulti, in senso moderno – non l’unica, ma sicuramente la più massiccia – è quella della lotta all’analfabetismo, una funzione, cioè, che dovrebbe spettare alla scuola. E si tratta di una lotta che non solo non può dirsi conclusa, tutt’altro, ma che addirittura, nella nostra contemporaneità e anche laddove l’analfabetismo di base sembrerebbe pressoché del tutto debellato – dalla scuola, appunto – va urgentemente rinvigorita, a fronte di “nuovi” e dilaganti analfabetismi, paradossalmente “generati” anche dalla stessa scuola. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 a) analfabetismo strumentale (nel mondo) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Si tratta di una situazione che, ancora per lungo tempo, ipotecherà l’educazione degli adulti come recupero, compensazione e, di fatto, come forma, sia pure adattata, di educazione scolastica (in senso stretto): le ricerche elaborate dall’Istituto di Statistica dell’UNESCO, in particolare il Global Age Specific Literacy Projections Model (GALP), ci consegnano, a livello mondiale, un numero totale di analfabeti adulti di 677.857.600 per l’anno 2010 e di 657.259.300 per l’anno 2015[1]. Proiezioni, queste, che non possono non essere lette senza il riferimento ai dati più recenti relativi al tasso di scolarizzazione, secondo i quali, nell’anno 2007 e sempre su scala mondiale, 71.791.000 bambini e 71.033.000 adolescenti risultano non scolarizzati rispettivamente per la scuola primaria e per il primo ciclo di scuola secondaria[2]. [1]. Cfr. Statistiques Internationales sur l’alphabétisme: exsamen des concepts, de la méthodologie et des données actuelles, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2008, p. 46. Occorre inoltre precisare sia che tali dati si riferiscono alla popolazione dai 15 anni d’età in poi, sia che il significato di alfabetizzazione assunto in tali ricerche è quello relativo alla capacità “de lire et d’écrire, en le comprenant, un exposé simple et bref de faits en rapport avec la vie quotidienne” (UNESCO, Liens entre les initiatives globales en matière d’éducation. L’éducation pour le développement durable en action, Dossier technique no. 1, Paris, UNESCO, 2005, p. 64). [2]. Cfr. Adolescents non scolarisés, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2010, p. 11. b) analfabetismo strumentale (in Italia) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dalle stime dell’UNESCO per l’anno 2008 emerge un tasso di alfabetizzazione degli adulti del 98,8% e di alfabetizzazione dei giovani del 99,9% che, in numeri assoluti, corrispondono alla presenza, rispettivamente per le due categorie anagrafiche, di 619.460 e di 5.921 analfabeti[1]. [1]. Istituto di Statistica dell’UNESCO in http://stats.uis.unesco.org. Già l’Istat, in occasione del censimento del 2001, aveva evidenziato, relativamente alla popolazione residente in Italia a partire dai 6 anni di età, 782.342 analfabeti e 5.199.237 alfabeti ma privi di alcun titolo di studio (cfr. ISTAT, Annuario statistico italiano 2008, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008, p. 669). Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 b) analfabetismo funzionale In prospettiva educativa, il senso dell’alfabetizzazione travalica, infatti, il semplice e pedissequo esercizio di traduzione in/da un codice e, pure, la già più raffinata abilità di comprensione dei significati del messaggio, giacché comporta altresì: la capacità di analizzare e di riflettere sui vari livelli di significato del messaggio, cioè di utilizzare l’alfabeto come strumento non solo di acquisizione di conoscenze (intese come semplici asserzioni-prodotto) ma anche e soprattutto come strategia per lo sviluppo e l’invenzione di meta-conoscenze (intese come conoscenze-processo); la capacità di capire le conseguenze delle conoscenze e delle meta-conoscenze acquisite sui comportamenti, ovvero la loro incidenza e, talvolta, la loro prescrittività performativa; la capacità di decidere se considerare o meno tali conseguenze come fattibili, perseguibili e, non ultimo, auspicabili; infine, la volontà, cioè la disposizione consapevole e intenzionale, di considerare tutti questi aspetti come strettamente interconnessi e rilevanti per la gestione e la partecipazione alla vita comunitaria, dimensioni, queste, che si esplicano mediante la dimensione politica e la dimensione professionale e che provengono/portano dalla/alla identità adulta dell’individuo e, allegoricamente parlando, di tutta una società. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 c) 6 categorie a rischio 1) alfabetizzati (ma comunque a rischio alfabetico); 2) analfabeti di fatto (coloro che non posseggono alcun titolo di studio e non sanno né leggere né scrivere); 3) illetterati (che pur possedendo un minimo repertorio di lettura e scrittura non sono in grado di utilizzare il linguaggio scritto per ricevere o formulare messaggi); 4) analfabeti di ritorno (esposti al rischio di regresso, laddove tali capacità non siano state esercitate); 5) semianalfabeti (possessori del solo titolo di licenza elementare, che nella nostra società corrisponde a minime possibilità di inclusione sociale e culturale); 6) analfabeti funzionali (che non sanno esercitare le abilità di base per poter esprimere il loro diritto di cittadinanza)[1]. [1] Cfr. B. Schettini, Tanti analfabetismi anche oggi. La situazione italiana e le risposte a un problema che non si risolve ancora, in http://www.bdp.it, 19 luglio 2005. d) analfabetismo funzionale: alcuni dati Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Secondo la ricerca Ials-Sials (Second International Adult Literacy Survey), sviluppata dall’Oecd-Ocde in due successive tornate tra il 1994 e il 2000, il 34,6% della popolazione italiana nella fascia d’età 16-65 anni, non supera il primo livello di competenza alfabetica funzionale (“soggetti che possiedono una competenza estremamente debole, ai limiti dell’analfabetismo”). Se a questo dato, poi, sommiamo quello relativo a coloro che si arrestano al secondo livello individuato (“soggetti che possono leggere testi molto semplici, ma hanno difficoltà nell’affrontare nuovi compiti e nell’apprendere nuove competenze professionali”) la percentuale supera addirittura il 60%[1] [1]. Cfr. V. Gallina, L’analfabeta globalizzato, in “Italiano e oltre”, n. 1/2001, pp. 38-43. Da questa breve rassegna statistica e riflessione sulla portata dell’analfabetismo e sulla progressiva dilatazione del suo campo semantico oggi, non può che emergere con forza la necessità, ineludibile e non surrogabile, di investire sulla scuola Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 In questo stato di cose, un duplice fraintendimento – costringe l’educazione degli adulti, impedendole di decollare per quello che essa veramente è e dovrebbe essere: - prosecuzione dell’educazione oltre la scuola; - ulteriore fase nel cammino di perfezionamento dell’individuo; - esercizio di un’adultità in divenire al banco di prova della responsabilità sociale, politica, lavorativa; - esperienza di svariate e flessibili occasioni di: crescita personale trasformazione degli orientamenti esistenziali scoperta e coltivazione di interessi e motivazioni affermazione e gratificazione conoscenza e informazione scelta e azione effettiva partecipazione alle sorti del vivere collettivo. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 1° fraintendimento dell’EdA Logica dello “scaricabarile”: possibilità, teorica e pratica, di continuare ad apprendere al di fuori e oltre la scuola, nell’ambito del lavoro e nel tempo libero, anche grazie alla “celerità” e alle “scorciatoie” oggi facilmente rese disponibili dalle sempre più onnipresenti ed evolute tecnologie informatiche (in particolare i cosiddetti self-media) + occasioni di «recupero» in extremis, come CTP-CPIA (per i «dispersi» della scuola) Questo spinge a rimandare, a rinviare ad un indefinito tempo futuro il conseguimento di quelle conoscenze e di quelle competenze la cui mancanza, a ben vedere, è all’origine di ricorrenti, e sempre più difficili da sanare, ritardi. Si tratta di un perverso effetto del discorso sull’educazione permanente, così finalizzata ad «alleviare la tensione che si produce nella scuola man mano che diventa sempre più evidente che questa istituzione non fa ciò per cui afferma di esistere»[1]. [1]. G. Rossetti, L’educazione permanente tra innovazione e ripetizione, in M. Gattullo, A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, Firenze, La Nuova Italia, 1986, p. 224. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 2° fraintendimento dell’EdA Intenderla, se non come «recupero scolastico», come risposta alle specifiche esigenze del mercato del lavoro. Quello della professionalizzazione precoce è diventato anche il criterio regolativo delle riforme scolastiche che, negli ultimi anni, hanno interessato la scuola secondaria superiore (cfr. alcuni indirizzi del canale liceale e, soprattutto, il canale degli istituti tecnici e professionali) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Progressiva erosione del segmento finale della scuola da parte dell’oltrescuola: precorrendo ciò che verrà dopo e che deve venire dopo la scuola, si trasforma quest’ultima nell’anticamera diretta di determinati mestieri e professioni. In linea di massima, i tentativi profusi negli ultimi tempi mettono in ombra le istanze formative proprie della scuola, sbilanciandosi prematuramente sull’acquisizione di competenze particolaristiche a scapito del maturo conseguimento di competenze generali – trasferibili, declinabili, contestualizzabili, modificabili – che devono, appunto, connotare la scuola. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 È un quadro, questo, ulteriormente aggravato dalla conferma dell’obbligo formativo dal quindicesimo al diciottesimo anno di età (che, potendo essere assolto al di fuori dell’istituzione scolastica, ha fatto “tornare indietro”, dai 16 ai 14 anni d’età, l’obbligo scolastico)[1], in cui i problemi principali, allora, sono sostanzialmente due: - il fatto che la scuola secondaria di secondo grado non rientri necessariamente nell’assolvimento dell’obbligo formativo - e il fatto che essa, comunque, sia sempre più chiamata a svolgere compiti professionalizzanti in senso stretto. [1]. Cfr. la Legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 64, comma 4 bis. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Al riguardo, è infine interessare ricordare e riprendere una “supposizione futurologica” riguardante il rapporto tra educazione, scuola e mondo del lavoro elaborata da Torsten Husén: L’educazione generale e la formazione professionale saranno sempre più interconnesse, soprattutto perché non sarà più possibile prevedere quali specifiche conoscenze professionali saranno necessarie nel futuro. Paradossalmente, l’educazione generale (intesa come possesso di una serie fondamentale di capacità e conoscenze) costituirà la forma migliore di addestramento professionale. La scuola di base starà a fondamento della rieducabilità[2]. Quel futuro è arrivato, dispiegandosi nei termini prefigurati… ma lo stesso non può dirsi per l’assetto della scuola, ridimensionata tanto nel segmento di base e dell’obbligo, quanto a quel livello “superiore” che, proprio in virtù dell’articolarsi proteiforme del concetto di alfabetizzazione nella nostra società, non può che essere anch’esso considerato “di base”. [2]. T. Husén, Le nuove direzioni, in K. W. Richmond (a cura di), Educazione permanente nella società aperta. Fondamenti teorici e pratici, Roma, Armando, 1974, p. 87. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Non si può attingere per abbrivio, sic et simpliciter, al dominio del metacognitivo, della strategia concettuale, della flessibilità, senza passare attraverso un processo consapevolmente e competentemente guidato di costruzione della conoscenza, di graduale padronanza dei suoi meccanismi e, non ultimo, di progressiva maturazione, in senso etico-civile, del suo valore e delle sue direzioni d’uso. Insomma, il rafforzamento della scuola e, in prospettiva dell’educazione degli adulti, degli influssi di questa a largo raggio, richiede una decisa inversione di rotta, giacché non si può certo pensare di continuare a lungo in quella prospettiva di “controtendenza” e di “resistenza” cui si è accennato. La cittadinanza attiva non si improvvisa, dunque, si impara, si acquisisce prima di tutto come abito mentale. Ma perché il concetto che incarna non si riduca ad un simulacro svuotato di senso e di effettività, occorre che ogni individuo sia in grado di padroneggiare con competenza gli strumenti del comprendere, del comunicare, del riflettere, dell’elaborare e del restituire. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 L’uomo, il cittadino dell’educazione permanente, infatti, «è un uomo incompiuto che ha coscienza della propria incompiutezza. Sapendo che non gli è lecito ritirarsi sulla montagna, non cessa di operare nel mondo affinché il mondo sia opera sua»[1]. [1]. R. De Montvalon, Un millard d’analphabètes. Le savoir et la culture, Paris, Éditions du Centurion, 1965 ; tr. it. Un miliardo di analfabeti. Il sapere e la cultura, Roma, Armando, 1966, p. 170 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Disabilità, diversità, adultità: questioni in prospettiva educativa Appiattimento delle diversità Globalizzazione Accentuazione delle diversità = differenze Integrazione delle diversità «E non vi furono mai al mondo due opinioni uguali, non più che due peli o due granelli. La loro più universale caratteristica è la diversità» (M. de Montaigne, Essais; tr. it. Saggi, Milano Adelphi, 1992, libro II, capitolo XXXVII, p. 1043) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Uno, anzi due assunti di fondo… Uno dei connotati salienti dell’educazione così come la Scienza dell’educazione idealmente la postula è l’inclusività. Inclusività di soggetti, oggetti, situazioni, in senso lato, nella cui orchestrazione si costruiscono sempre inediti significati e possibilità di trasformazione migliorativa. La stessa tensione scientifica, in qualsiasi ambito del sapere, tende ad includere, a mettere in rapporto aspetti diversi della realtà – fattuale, fenomenica, simbolica o astratta – nella consapevolezza che la conoscenza è sistemica, ecologica e complessa e, non ultimo, almeno “tridimensionale”, ovvero si gioca sul piano dell’estensione, dell’approfondimento e del divenire. A questa consapevolezza, poi, ne corrisponde logicamente un’altra, di segno contrario: espungere, allontanare, ignorare soggetti, oggetti, situazioni significa impoverire la possibilità di conoscere di più e, soprattutto, di conoscere meglio le cose e le nostre idee, i nostri pensieri attorno ad esse. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Lo stesso affermarsi di una Scienza dell’educazione avviene secondo il parametro, unitamente ad altri, dell’inclusività, giacché esso spinge ad una concettualizzazione tendenzialmente universalistica dell’educazione, ovvero ad un’idea di educazione valida, nei suoi fondamenti, per tutti e quindi da tutti attingibile nei suoi benefici; perseguibile attraverso le occasioni formative le più disparate; rintracciabile negli eterogenei e molteplici percorsi di vita di ogni essere umano; non ultimo, tendente a ideali intitolati all’umanità come condizione comune e che accomuni. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Se è vero che l’adultità, in questo sforzo specificatamente umano che è l’educazione, rappresenta una condizione alla cui conquista ambire, perché connotata in termini di progressiva pienezza, maturità, consapevolezza e autonomia dell’essere in vita è altrettanto vero che l’adultità deve essere considerata come una meta che tutti hanno il diritto e il dovere di perseguire Pensare all’educazione – nelle tre possibili direzioni postulate da questa prospettiva (educazione degli adulti, in età adulta, per l’adultità) – in riferimento ai soggetti con problemi di disabilità è sì una sfida, ma non un discorso a parte o aggiuntivo, anzi. Si tratta, piuttosto, di una riflessione che si colloca “dentro” alla significazione stessa di adultità e al percorso verso una possibile situazione adulta, e che rimarca con più forza ancora quanto l’adultità sia non solo un involucro anagrafico, ma anche e soprattutto un contenuto, un insieme di contenuti, da costruire, sollecitandone così l’ampliamento e quindi una più completa definizione. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Considerare a tutto tondo la presenza, ideale oltre che fattuale, della diversità come manifestazione connaturata alla vita, nel suo impasto di natura/cultura, significa considerarne il valore e il potenziale, la suscettibilità trasformativa e trasformatrice e, non ultimo, ritenere che l’integrazione di tali diversità sia, al fondo, il motore stesso dell’educazione. Infatti, integrare significa, propriamente, non aggiungere o, comunque, pensare a qualcosa di addizionale rispetto ad una interezza già consolidata, bensì rendere completo dal punto di vista sia qualitativo sia quantitativo, compenetrarsi e, quindi, completarsi vicendevolmente. Significa, in altre parole, e dal punto di vista educativo, considerarsi perennemente incompiuti, imperfetti e, pertanto, avvertire come necessario il rapporto con l’altro da sé, il diverso, e le ristrutturazioni che ne derivano. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 L’integrazione si configura, perciò, come una necessità logica dell’educazione: la ricerca dell’altro da sé, del diverso con cui essere in relazione è la condizione per intraprendere il percorso che struttura progressivamente la nostra identità, giacché essa non approda mai a situazioni definite una volta per tutte. In questo senso, per via della sua indicazione dinamica e progettuale, l’integrazione non può essere considerata una realizzazione o l’assunzione di una situazione statica [1], bensì un percorso di trasformazione fondato sull’inclusione attiva, e permanente, della diversità. Quando la diversità, poi, stride fortemente con l’idea di normalità e di regolarità che guida, talvolta meccanicamente, il nostro pensare, assumendo le forme di un impianto culturale difficilmente assimilabile nell’immediato o del deficit e dell’inadeguatezza psico-fisica rispetto alle prestazioni più o meno consuetudinarie della nostra vita, la sfida si disvela in tutta la sua complessità, come sfida di conoscenza, in primis, e conseguentemente come reale coinvolgimento in essa [1]. Cfr. A. Canevaro, Integrazione, sostegno, apprendimento, in A. Canevaro, C. Balzaretti, G. Rigon, Pedagogia speciale dell’integrazione. Handicap: conoscere e accompagnare, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 183. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La disabilità, dunque, non crea nessun “cortocircuito” nel senso e nella finalità dell’educazione, anzi, ne corrobora e ne valorizza in modo più evidente la funzione ineludibile per la messa a punto di un progetto di vita “degna di essere vissuta” Semmai, il cortocircuito che provoca è sul piano di quelle tendenze, oggi prevalenti, che schiacciano quelle forme di diversità biecamente identificate come debolezze o zavorre, giudicate come improduttive e, non ultimo, relegate al di fuori dei confini dell’adultità e delle sue prerogative, soprattutto in termini di autonomia, consapevolezza, partecipazione e responsabilità. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Come se l’unica forma di crescita riservata agli individui con disabilità fosse quella di un invecchiamento fisiologico, che tra l’altro squalifica le loro prestazioni aggravandone lo stato di “salute” e rendendoli ancor di più “imbarazzanti” o comunque indesiderate presenze. E come se fossero sempre e solo destinatari e mai promotori; spettatori e mai, in definitiva, attori. Una stigmatizzazione, questa, che si acuisce e si irrigidisce oltremodo nei confronti della persona intellettivamente e mentalmente disabile, «considerata come un essere senza età, eterno bambino che passa dall’infanzia alla vecchiaia senza avere mai conosciuto la vita sociale e di relazione» [1]; in definitiva, senza mai aver conosciuto una dimensione adulta della sua vita. [1] A. Goussot, Introduzione, in A. Goussot (a cura di), Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano, Rimini, Maggioli, 2009, p. 19. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 L’educazione mira a far sì che il soggetto disabile, come chiunque altro, possa divenire artefice del proprio destino, ma questo non è possibile “se sono gli altri che decidono per lui o per lei, se il soggetto disabile viene considerato come un minorato non in grado di assumersi qualsiasi decisione, fosse la più piccola; anche il decidere e il scegliere la mattina come vestirsi oppure cosa mangiare a pranzo mette le basi per il funzionamento delle abilità della persona e la costruzione di un minimo di autocontrollo” [1] Un minimo di autocontrollo che, senza puntare ad un massimo ideale di autocontrollo cosciente, esercitandosi continuamente in tal senso nell’ampio ventaglio delle situazioni della nostra vita, non avrebbe possibilità di inverarsi né di progredire via via. [1]. A. Goussot, L’essere disabile in situazione di cambiamento, in A. Goussot (a cura di), Il disabile adulto..., cit., p. 42, corsivo mio. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Ciò richiede l’assunzione di una forma mentis possibilista e fiduciosa non solo nelle potenzialità umane e nella loro estrinsecazione, ma anche e soprattutto nell’educazione come determinante tali potenzialità, altrimenti destinate al misconoscimento, all’inutilizzazione, all’atrofizzazione o all’oblio... e già si può intuire come questo discorso valga per qualsiasi individuo. Si affaccia in questi termini una nuova prospettiva, che non si arresta ad una mera e descrittiva ricognizione di quello che c’è o di quello che non c’è in termini di abilità o disabilità, quanto, piuttosto, cerca di individuare quello che ancora non c’è ma che, grazie all’educazione (e alle ristrutturazioni intellettuali, sociali ed ambientali che ingenera) ci potrebbe essere. È la prospettiva della diversabilità: mentre i significati del termine disabilità obbediscono alla logica della staticità, dell’immutabilità, della fotografia, quelli riconducibili al termine diversabilità valorizzano le potenzialità dell’individuo e la sua suscettibilità trasformativa-educativa [1]. [1]. Cfr. l’intervento di Claudio Imprudente in A. Canevaro, D. Ianes et alii, Diversabilità. Storie e dialoghi nell’anno europeo delle persone disabili, Trento, Erickson, 2003, pp. 8-17. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Disabilità e Diversabilità Questione nominalistica??? No, questione culturale!!! capacità di essere in grado di interpretare e di chiedersi in modo meno corrivo e superficiale cosa si intende per abilità, per autonomia: Non esiste un soggetto senza un altro che lo accompagni nella sua conquista di autonomia. Ritenere a priori e globalmente che le vittime di una disabilità non siano capaci anche in parte di esistere e di vivere in modo autonomo equivale a paralizzarli nelle loro iniziative. Considerarli impossibilitati a vivere una vita autonoma a causa della loro dipendenza da terzi immobilizza irrimediabilmente qualsiasi volontà e possibilità di adattamento. Pregiudizi di questo genere si fondano su una concezione errata di autonomia, che, di fatto, è una ricerca in cui ciascuno ha bisogno degli altri. Disabili o no, tutti, a diversi gradi, dobbiamo imparare a vivere e malgrado le nostre svariate dipendenze. Non si finisce mai di diventare autonomi, poiché l’autonomia è la possibilità, sempre da sostenere e stimolare, di farsi forza e tendere verso un futuro singolare. [1] [1]. C. Gardou, Fragments sur le handicap et la vulnérabilité. Pour une révolution de la pansée et de l’action, Ramonville Saint-Agne, Édition Érès, 2005 ; tr. it., Diversità, vulnerabilità e handicap. Per una nuova cultura della disabilità, Trento, Erickson, 2006, pp. 42-43. Ma cfr. anche D. Carbonetti, G. Carbonetti, Mio figlio Down diventa grande. Lasciarlo crescere accompagnandolo nel mondo degli adulti, Milano, FrancoAngeli, 2004. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Il focus di questa impostazione: Accrescere continuamente, qualunque sia la situazione di partenza, il livello di capacità - di comprendere la propria esistenza, - di incidervi attraverso scelte nei plurimi ambiti in cui si snoda, - di fruire delle relazioni interpersonali per innescare reciproche trasformazioni, - di offrire un proprio originale contributo alla comunità, rappresenta l’orizzonte di senso di una adultità ideale che fa da sfondo a forme di transizione qualitativamente diversificate, ma non per questo meno legittime sul piano della propria autorealizzazione. È, questa, un’impostazione che porta in superficie e chiede di discutere alcune questioni più o meno tacitamente considerate off-limits per i soggetti disabili, ma che non possono essere rinnegate o trascurate laddove si intende perseguire, al contempo, un’integrazione sociale piena ed un’educazione permanente degna di tale nome: ogni remora che si frappone a tali processi, infatti, costituisce un tabù da superare. Primo tabù: disabilità e diritti della persona L’identità adulta si costruisce anche in virtù del riconoscimento sociale che gli viene attribuito, significativamente incisivo su almeno due fondamentali versanti, distinguibili ma non separabili: a) quello di approdo al ruolo adulto e di effettivo esercizio del ruolo adulto b) quello che considera il riconoscimento sociale dell’adultità un prerequisito ineludibile affinché la stessa adultità, proprio perché riconosciuta e rispettata come tale, possa consolidarsi e maturare ancora. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (New York, 13 dicembre 2006 --- definitivamente ratificata in Italia con la Legge 3 marzo 2009, n. 18) [ La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo fu adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 ] Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Tali diritti sono o possono essere dati per scontati? Nel sito ufficiale delle Nazioni Unite (www.un.org) si legge: «Why do we need a convention for persons with disabilities? Don’t they have the same rights as everyone else? The rights enumerated in the Universal Declaration of Human Rights, in a perfect world, would be enough to protect everyone. But in practice certain groups, such as women, children and refugees have fared far worse than other groups and international conventions are in place to protect and promote the human rights of these groups. Similarly, the 650 million people in the world living with disabilities – about 10 per cent of the world’s population – lack the opportunities of the mainstream population. They encounter a myriad of physical and social obstacles that: prevent them from receiving an education; prevent them from getting jobs, even when they are well qualified; prevent them from accessing information; prevent them from obtaining proper health care; prevent them from getting around; prevent them from “fitting in” and being accepted» Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Tra i diritti ribaditi dalla Convenzione, spiccano, in questa peculiare prospettiva, quelli relativi: - alla libertà di scelta come espressione di una vita indipendente e dell’inclusione sociale (art. 19) - alla mobilità personale con la maggiore autonomia possibile (art. 20) - alla libertà di espressione e di opinione e di accedere all’informazione (art. 21) - al rispetto della vita privata (art. 22) - allo sposarsi e fondare una famiglia sulla base del pieno e libero consenso dei contraenti (art. 23) - all’essere coinvolti in processi di apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita (art. 24) - al potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità (art. 27) - alla partecipazione alla vita politica e pubblica (art. 29) così come a quella culturale e ricreativa, agli svaghi e allo sport (art. 30). Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La questione dei diritti della persona disabile, dunque, si configura a pieno titolo come una questione di carattere culturale e politico, e per questo si intreccia inevitabilmente al senso dell’educazione, così come testimonia, ad esempio, la riflessione di Martha C. Nussbaum che la pone tra le nuove frontiere della giustizia. Uno dei problemi di fondo da cui muove l’argomentazione della filosofa americana, infatti, è quello intitolato al concetto di «fioritura umana» in grado di rispettare le diversità individuali nell’ambito di una concezione condivisa e condivisibile di persona (posta in relazione con una nozione politica della stessa come animale sociale, bisognoso e dignitoso) e di porsi, così impostato, come buona base per un’ideazione dei diritti politici fondamentali in una società giusta [1]. [1]. M. C. Nussbaum, Frontiers of Justice. Disability, Nationality, Species Membership, Cambridge, Mass.-London, The Belknap Press of Harward University Press, 2006; tr. it., Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Bologna, il Mulino, 2007, p. 200. In questa prospettiva, l’intento è quello di andare oltre alle ragioni della tradizione del contratto sociale per cui la piena inclusione delle persone con disabilità avviene ex post, sostenendo, quindi, che: “i cambiamenti della società tesi ad una maggiore inclusione delle persone con menomazioni, ai quali abbiamo assistito negli ultimi tempi, ci forniscono ampio motivo di credere che il riconoscimento della dignità umana mira alla giustizia nel proprio stesso interesse e ciò è spesso sufficiente per dare luogo ad un’importante svolta politica. Se questo avviene nelle società occidentali, generalmente dominate da motivi economici e da considerazioni di efficienza, tanto più potremmo aspettarci dagli individui appartenenti ad una società che supporti realmente le capacità umane di tutti i cittadini e che concepisca un sistema di istruzione che trasmetta questi valori nel tempo […] L’approccio delle capacità, quindi, può fare liberamente ricorso ad una concezione della cooperazione che tratti la giustizia e l’inclusività come fini dotati di un valore intrinseco fin dall’inizio, e che immagini gli essere umani legati insieme da molti vincoli sia altruistici sia di vantaggio reciproco […] La persona abbandona lo stato di natura (se è davvero ancora possibile l’uso di questa finzione) non perché è reciprocamente più vantaggioso accordarsi con gli altri, ma perché non può immaginare di vivere bene senza condivisione dei fini e della vita. Vivere con e per gli altri, sia con benevolenza sia con giustizia, è parte di una concezione pubblica condivisa della persona, sostenuta da tutti quando si affrontano le questioni politiche” Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Ivi, pp. 175-176, passim. Questo significa non posticipare la questione della disabilità, rinviandola a quando i principi fondamentali di una società sono già stati progettati, ma proporre ex ante una soluzione adeguata al problema che, per la Nussbaum, si inscrive appunto nell’approccio delle capacità, fondato su un’unica “lista” di fini, validi per tutti gli appartenenti alla famiglia umana, che rappresentano requisiti minimi di giustizia valutabili sulla base di almeno due soglie: una che definisca la mera vita umana e l’altra, più alta, che possa segnare il passaggio ad una buona vita [1]. [1]. Ivi, p. 198. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Tali capacità riguardano, fondamentalmente, l’essere in grado di: vivere una vita degna di essere vissuta; avere una buona salute; muoversi liberamente e di avere assicurata la sovranità del proprio corpo; usare i sensi per immaginare, pensare e ragionare; avere legami con persone e cose al di fuori di se stessi provando emozioni e sentimenti; formarsi una concezione del bene e del male e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita; vivere con gli altri, nel rispetto per gli altri e per se stessi; vivere prendendosi cura del mondo naturale; ridere, giocare e godere di attività ricreative; avere controllo sul proprio ambiente politico (partecipando alle scelte politiche che governano la propria vita) e materiale [1] [1]. La trattazione delle dieci capacità fondamentali è qui ovviamente sintetizzata: cfr. M. C. Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilieties Approach, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2000; tr. it. Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 97-105. Il riferimento al nesso tra benessere, libertà e capacitazione illustrato da Amartya Sen è d’obbligo, laddove per capacitazione si intende la libertà sostanziale dell’individuo di scegliere una vita cui (a ragion veduta) si dia valore (cfr. A. Sen, Development as Freedom, New York, A. A. Knopf, 1999; tr. it. Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000, pp. 78-79). Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Questa teoria di Nussbaum prevede altresì – e qui il riferimento alla disabilità e alle sue forme più gravi è oltremodo evidente – che la società dovrebbe sforzarsi di conferire a ciascuna persona quante più capacità possibili, individuando ed implementando, sul piano pratico, le strategie e i mezzi più idonei – ed individualizzati – per il raggiungimento di tali fini. Ciò in vista di una reale inclusione sociale dei soggetti disabili intesa sempre come affare di tutta una comunità nel suo insieme, che non solo educa ma, anche e soprattutto, si educa; una comunità ove per ciascuna persona «il bene degli altri non è affatto un ostacolo alla ricerca del proprio bene ma ne è parte»[1] e ove il significato stesso di “vantaggio reciproco” o di “altruismo” si ridefiniscono in forme nuove. [1]. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia…, cit. p. 176. Secondo tabù: disabilità e lavoro Un altro aspetto qualificante l’identità adulta è il lavoro, inteso nelle sue molteplici funzioni: - di sostegno e garanzia all’autonomia personale - di sperimentazione e realizzazione delle proprie capacità - di partecipazione alla vita sociale sul piano relazionale e produttivo insieme Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Il lavoro costituisce, nelle varie forme che può assumere, una dimensione irrinunciabile dell’adultità, connotata: - dall’impegno e dalla responsabilità - dall’essere un banco di prova, pubblico, delle capacità maturate e in progressiva maturazione - dall’essere occasione di continuo raffinamento di quelle stesse capacità e della loro socializzazione Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 RESA PRODUTTIVA DEL LAVORO: RESA ECONOMICA + RESA SOCIALE + RESA EDUCATIVA Il senso della resa produttiva del lavoro si amplia e si approfondisce in maniera sensibile, giacché non tiene più conto soltanto della produttività economica in senso stretto e assoluta (vero e proprio punctum dolens della questione, in modo particolarmente accentuato laddove viene chiamata in causa la disabilità), bensì anche di una resa sociale e di una resa educativa che fanno del lavoro qualcosa di più di uno strumento di sopravvivenza e di un indicatore di sviluppo misurabile in termini meramente quantitativi Al “tempo di lavoro” del disabile, come per qualsiasi altro soggetto, si aggancia dialetticamente alla qualità/quantità del suo “tempo libero” e, quindi, che le implicazioni della questione vanno ben oltre: «La caratteristica di “improduttività” spesso, a torto, associata al soggetto handicappato induce a due considerazioni: 1. il tempo del soggetto handicappato è un tempo libero/vuoto perciò bisogna occuparlo; 2. la persona handicappata è improduttiva, quindi il suo tempo non si divide tra libero e occupato. È piuttosto un tempo senza aggettivi. Non serve, quindi, un’educazione nel tempo libero e al tempo libero» (L. Milani, Handicap e tempo libero, Torino, Libreria Stampatori, 2002, p. 13). Garantire l’accesso al lavoro e tutelare i diritti/doveri ad esso connessi Andare oltre alle mere logiche assistenzialistiche di sistemazione protetta sfida politica e, a monte, sfida culturale ed educativa Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Legge 5 febbraio 1992, n. 104, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 febbraio 1992, n. 39 Articolo 1 (ratio e finalità del provvedimento) La Repubblica Italiana a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società; b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali; c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata; c) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La prospettiva assunta, di riconoscimento, promozione e attivazione delle potenziali capacità dei soggetti e di una integrazione diffusa e permanente, si precisa in ordine all’occupazione lavorativa agli artt. 18, 19 e 20 sia includendo tra i beneficiari del collocamento obbligatorio anche «coloro che sono affetti da minorazione psichica, i quali abbiano una capacità lavorativa che ne consenta l’impiego in mansioni compatibili» sia tenendo conto, nella valutazione finalizzata all’avviamento al lavoro, «della capacità lavorativa e relazionale dell’individuo e non solo della minorazione fisica o psichica» [1]. [1]. Ivi, art. 18. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Con la Legge 68/1999 [1], si registra l’introduzione del concetto di “collocamento mirato”, definito come quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzione dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione.[2] [1]. Legge 12 marzo 1999, n. 68, Norme per il diritto al lavoro dei disabili, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 23 marzo 1999, n. 57/L. [2]. Ivi, art. 2. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Educativamente parlando, quindi, si va in netta controtendenza rispetto al convincimento comune che può vedere nel lavoro del disabile un mero onere assistenzialistico e, quindi, in buona sostanza, una sorta di deminutio capitis del lavoro, poiché anche per la persona con disabilità intellettiva, ad esempio, se si vuole che il lavoro svolga un servizio alla persona, è necessario che l’attività lavorativa persegua e sviluppi un atto di intelligenza. Non è sufficiente, quindi, che il disabile intellettivo lavori. Il fatto di perseguire in ogni processo lavorativo un atto d’intelligenza, lo riscatta dal suo tecnicismo, dalla sua ripetitività e da un fine meramente economico-utilitaristico […] Il lavoro che incrementa lo sviluppo umano e che attiva l’intelligenza, è quello in cui il soggetto si trova coinvolto nell’attività lavorativa, non solo sotto gli aspetti connessi alla produzione materiale dei beni, ma anche in quelli che rinviano ad altre forme di coinvolgimento attivo: dalla responsabilità alla coscienza dell’apporto personale al lavoro svolto; dalla spontaneità alla cura di ciò che il proprio lavoro concorre a produrre e a realizzare. [1] [1]. A. Lascioli, Pedagogia speciale, lavoro e disabilità intellettiva, in A. Lascioli, L. Menegoi (a cura di), Il disabile intellettivo lavora, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp. 90-91, passim, corsivo nel testo. Da non trascurare, poi, il fatto che diverse ricerche hanno acclarato l’esistenza di una correlazione tra lo svolgimento di un’attività lavorativa e la normalizzazione nel percorso clinico tra il non svolgimento di alcuna attività lavorativa e la prevalenza di un quadro di decadimento (cfr., ad esempio, la ricerca “Survey sul disabile adulto” illustrata in C. Ruggerini, A. Solmi, V. Neviani, G. P. Guaraldi, La sfida tra sviluppo e ritardo mentale. Una ricerca dell’Opera Don Guanella sul divenire adulto della persona disabile, Milano, FrancoAngeli, 2004, pp. 40-42) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Si tratta, in ultima analisi, di acconsentire alla possibilità del diventare adulti, di andare oltre agli stereotipi che identificano il disabile con il malato e con l’eterno bambino, di reinvestire su altri livelli le logiche della protezione e della tutela della persona disabile. ATTENZIONE: che all’infantilizzazione protratta del disabile non faccia da contraltare una sua precoce e spuria adultizzazione, proprio per mezzo dell’inserimento lavorativo, considerato alternativa obbligata al proseguimento degli studi scolastici sino ai più alti livelli attingibili. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Terzo tabù: disabilità e sessualità L’attività sessuale, ormai ampiamente (anche se in molti casi assai superficialmente) “sdoganata” da limiti, regole, censure e repressioni di vario genere per ciò che concerne l’universo dei cosiddetti normodotati, nei generi e in tutte le fasce d’età in cui si declina, costituisce ancora una inquietante zona d’ombra se posta in relazione alle situazioni di disabilità individuale. In particolar modo, l’argomento si fa ancora più problematico laddove la diversità del soggetto assume le forme del deficit intellettivo-cognitivo, ma anche relazionale-comportamentale, e della menomazione fisica accentuata, fortemente invalidante e tale da entrare in aperto e forte contrasto con i canoni estetici prevalenti. In effetti, la relazione intima con il proprio corpo e con un corpo altrui catalizza in sé tutta una serie di implicazioni che vanno ben al di là della sfera corporea in senso stretto, coinvolgendo le entità che presiedono tanto all’integralità dell’individuo quanto allo strutturarsi delle relazioni interpersonali: dalla conoscenza profonda di sé al legame affettivo con gli altri, dall’idea di natura a quella di morale. Alla domanda: i soggetti disabili sono brutti? è opportuno rispondere interrogandosi prima sul “senso” di tale quesito e sui suoi impliciti presupposti e, poi, riflettendo sul fatto che in generale «si determina un effetto di bruttezza quando una bellezza cerca di snaturarsi e omologarsi in favore di un’altra bellezza ritenuta più vincente. Questo è un pericolo molto presente anche per un soggetto disabile: l’essere identificati in un’imitazione venuta male di un originale, di un modello naturale e normale. Un’imitazione è sempre brutta perché denota mancanza di creatività e di originalità, oltre a essere povera di vita» (R. Ghezzo, I soggetti disabili sono brutti?, in C. Imprudente, Una vita imprudente. Percorsi di un diversabile in un contesto di fiducia, Trento, Erickson, 2003, p. 248). Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Ad essere chiamato in causa è tanto l’istinto sessuale, come cifra insopprimibile dell’essere umano in quanto essere che vive, quanto la sessualità intesa come «dispositivo storico»[1], ovvero come creazione culturale ove questo stesso istinto si intreccia ad altri fattori, ad interpretazioni ed ideologie, a sistemi di credenze e conoscenze, a modalità di organizzazione politica e, non ultimo, ad un’idea di educazione come appannaggio – potremmo dire sia pure un po’ grossolanamente – di quelle persone sane e normali “naturalmente” destinate a diventare adulti altrettanto sani e normali. [1]. M. Foucault, La volonté de savoir, Paris, Editions Gallimard, 1976 ; tr. it. La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 94. L’espressione è utilizzata dall’Autore nei suoi saggi di Storia della sessualità per argomentare l’indagine sui nessi tra produzione di sapere e meccanismi di potere; nel nostro contesto, pur non perdendo questa rilevante sollecitazione, è soprattutto funzionale alla messa in luce del carattere “storico” appunto e, quindi, culturalmente ed educativamente determinato, ma anche suscettibile di trasformazione, della sessualità. Al riguardo, si veda anche A. Giddens, The Tranformation of Intimacy. Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, Cambridge, Polity Press, 1992; tr. it. La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Bologna, il Mulino, 1995. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 “Non svegliate il sesso che dorme!”. In pratica, se il sesso è dell’handicappato, meglio non parlarne. Non solo ma, quel che è peggio, è l’atteggiamento falsamente disponibile che la maggioranza delle persone interpellate adotta in merito all’argomento: l’handy, poverino, è meglio che col sesso non abbia niente a che fare, potrebbe solo soffrirne.[1] [1]. C. Imprudente, Vita! Riflessioni sulla cultura dell’handicap, Bologna, Thema, 1990, p. 86, corsivo mio. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La sfida, allora, che si prospetta è, in primo luogo, una sfida contro quei pregiudizi e stereotipi che, in generale e massimamente nei confronti dei soggetti in situazione di disabilità, portano a misconoscere e a nascondere esigenze, desideri e aspettative intitolate al piacere erotico, alla gratificazione derivante dall’intimità, al bisogno di stringere relazioni affettive complete ed appaganti: “Si dà per scontato che in un corretto rapporto educativo, volto al reale cambiamento dell’individuo, l’handicappato non debba essere un eterno bambino e per questo è fondamentale che sia rimosso l’ostinato divieto sociale e culturale ad andare verso il mondo dei grandi. Ma questo sforzo fin dove arriva, quali sfere coinvolge? La famiglia, l’educatore, l’ambiente fino a dove si sentono di arrivare nell’aiutarlo alla conquista della sua autonomia?” [1] [1]. A. Mannucci, Peter Pan vuole fare l’amore. La sessualità e l’educazione alla sessualità dei disabili, Tirrenia (Pisa), Del Cerro, 1996, p. 16, corsivo mio. Ma cfr. anche A. Mannucci, Anch’io voglio crescere. Un percorso educativo per l’autonomia dei disabili, Tirrenia (Pisa), Del Cerro, 1995. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Equazione tra disabilità e assenza di sessualità visione permanentemente infantilizzante e asessuata della persona disabile + radicata idea che le manifestazioni sessuali dei disabili siano da ascrivere alla morbosità e alla perversione o, comunque, preferibilmente da evitare. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Spesso si scambiano le cause con le conseguenze, nel senso che si ritiene che tali assunti derivino dalla realtà e non il contrario, così come alcune recenti ricerche hanno evidenziato, mettendo in luce come siano la scarsità di esperienze e di informazioni, lo stato d’animo e un’immagine corporea negativi e l’ambiente restrittivo a rischiare di accrescere la frequenza delle condotte sessuali inappropriate [1]. Ma, al punto, anche, da incoraggiare la separazione, se non la contrapposizione, tra atto sessuale e relazione affettiva, da un lato circoscrivendo l’attività sessuale alla mera genitalità e, dall’altro, inibendo l’esperienza sessuale nell’instaurarsi di un vincolo sentimentale con un’altra persona [2]. [1]. Cfr. I. Hénault, Asperger’s Syndrome and Sexuality: From Adolescence through Adulthood, London-Philadelphia, Jessica Kingsley Publishers, 2006; tr. it. Sindrome di Asperger e sessualità dalla pubertà all’età adulta, Milano, LEM, 2010, pp. 95-107. [2]. Un altro pregiudizio, infatti, è quello di ritenere che disabilità e sessualità, quando vengono in contatto, rappresentano sempre e comunque un problema a priori, misconoscendo l’esistenza, ad esempio, di persone con disabilità che vivono felici relazioni di coppia (cfr. M. Pontis, Diversità, emozioni, sessualità, in A. Mura (a cura di), Pedagogia Speciale oltre la scuola. Dimensioni emergenti nel processo di integrazione, Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 149-152. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La sfida è quella di promuovere una cultura della sessualità come dimensione portante dello sviluppo integrale della persona, la cui crescita si intreccia indissolubilmente alla conoscenza di sé, dei propri bisogni e desideri, ma anche alla conoscenza dell’altro da sé con cui si stabilisce una relazione fondata sull’attrazione e sul sentimento. È questa una componente cruciale del “viaggio” delle persone disabili verso l’adultità, viaggio che presenta diversi gradi di fattibilità ma che, comunque e per tutti, “non vuole essere verso un mondo di malattia o di handicap, bensì verso la realtà, dove cercare, come fanno gli altri, degli spazi di vita accettabili e degli equilibri corretti tra competenze e limiti” Cfr. P. Gherardini, Disabilità e adultità, in A. Goussot (a cura di), Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano, Rimini, Maggioli, 2009, pp. 100-101, passim. La sessualità non è più considerata come qualcosa di completamente inafferrabile e ineffabile, un segreto che ognuno risolve, improvvisando del tutto e a suo modo quanto, piuttosto, un qualcosa alla cui significazione si può essere avviati, guidati, informati, formati e, soprattutto, educati. Nello specifico, è il parametro della relazione e della valorizzazione dell’altro con cui si entra in contatto – aspetto, questo, sostanziale dello stesso processo educativo – che va tenuto fermo, a tutela di qualsivoglia strumentalizzazione del proprio e dell’altrui corpo o, meglio, della propria e dell’altrui persona. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Ora: questa ipotesi, che tende a ricondurre la sessualità nell’ambito della relazione rispettosa, della gratificazione affettiva e, comunque, della scelta intenzionale e responsabile anche nell’occasionalità dell’esperienza sessuale, ha un senso e una utilità solo in relazione ai soggetti disabili o, piuttosto, per tutti gli individui? La domanda è, ovviamente, retorica, e la risposta può dare la misura di questo problema, che, a ben vedere, accomuna le persone impegnate a dare un senso alla loro adultità, anziché dividerle in adulti “di serie A” e adulti “di serie B”. «Qui sta il nocciolo del problema: o continuiamo a vedere la sessualità dell’handicappato come sessualità particolare quindi “insufficiente” o anomala, oppure rivediamo tutti i rapporti sessuali come insufficienti e quindi handicappati» (C. Padovani, Note sul Convegno di Milano del 8-9 ottobre 1977 su “Sessualità e handicappati”, articolo inviato al “Corriere della Sera” il 15.10.1977 e non pubblicato, riportato integralmente in C. Padovani, I. Spano, Handicap e sesso: omissis. Elogio della disobbedienza sessuale, Verona, Bertani, 1978, p. 174I. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Affermare che, in educazione, “i giochi non sono ancora fatti” significa allontanarsi dai porti sicuri – sicuri e mortificanti al tempo stesso – dei destini già segnati, degli approdi determinati a priori, dei miopi traguardi stabiliti ancor prima di intraprendere un viaggio che, posta così la questione, non si ritiene neppure sia il caso di avviare… “tanto già si sa dove si andrà a finire”. In educazione è tutt’altro. In educazione nessuno è così arrogante da sapere con sicurezza dove e come si andrà a finire: si ha piuttosto l’intelligente umiltà di non stabilire mete ultime e conclusive, se non ideali e quindi perfettibili, ma solo tappe intermedie e procedurali, perché l’educazione è un’avventura, un percorso, un processo, una sfida che guarda lontano, che mira oltre, che punta sempre più in alto. E lo fa permanentemente. Quella dell’educazione è una sorta di arroganza al contrario, dunque, che difende con le unghie e con i denti quanto ancora non afferra ma sa di potere e volere afferrare in futuro, in un futuro che diventa presente in progress, un presente in costruzione e quindi da costruire. L’educazione, per usare un altro slogan, “non concede sconti a nessuno”, richiede a tutti il massimo, e si offre, quindi, a tutti indistintamente – di là da malcelati pregiudizi e da ipocriti buonismi – come occasione irrinunciabile per disvelarsi e costruirsi. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Educazione degli adulti e… tempo libero «Nessun dittatore ha mai amato gli ozi, e nessun ozioso ha mai preso una dittatura sul serio» (A. Torno, Le virtù dell’ozio, Milano, Mondadori, 2001, p. 21) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Un primo problema: che cos’è il “tempo libero”? Fare coincidere il tempo libero con il tempo non impiegato in attività lavorativa (e scolastica) scatena immediatamente una serie di contraddizioni tali da fare cadere qualsiasi possibilità di sostenere logicamente una simile posizione. Se così fosse, infatti, dovremmo pensare che: - chi non lavora o non va a scuola non può avere tempo libero; - il tempo libero può essere definito solo al negativo, per sottrazione da un tempo avvertito come coercitivamente occupato; - la sua unica pregnanza educativa risiede nella occasione che offre di essere utilizzato per fruire delle svariate opportunità formative messe a disposizione dalla comunità nel contesto territoriale, assecondando, al tempo stesso, i propri interessi personali e il desiderio di svago e di divertimento. Il tempo libero, adottando questi criteri, risulta essere esclusivamente una nicchia, una parentesi, un intervallo, da considerarsi sempre in rigida separazione/contrapposizione con la magna pars del tempo esistenziale… testimoniando, non di rado, una certa schizofrenia ed incomunicabilità dello stesso individuo tra sé e sé. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Un secondo problema: può esistere un tempo “libero”? Contraddizione più lampante: il tempo libero, inteso come tempo svuotato da impegni, da attività, responsabilità o regole, per essere vissuto deve riempirsi nuovamente di contenuti che, anche se differenti da quelli che vanno a rimpiazzare, comportano non meno impegni, attività, responsabilità e regole, e questo è tanto più evidente laddove si innescano situazioni educative presso centri culturali, parrocchie, partiti, associazioni di vario genere e così via. Il tempo libero, allora, sembrerebbe esistere solo nominalmente giacché, di fatto, esso si concretizza nel momento in cui lo si occupa. Paradossale è anche l’estremo soggettivismo che porta a scambiare, indifferentemente, ciò che è tempo libero e ciò che non lo è a seconda delle preferenze e delle situazioni individuali (esempio: il politico di professione potrebbe ravvisare nella lavorazione della ceramica il proprio tempo libero, mentre per un ceramista di professione, altrettanto verosimilmente, questo potrebbe consistere nell’attivismo politico) Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Quest’ultimo paradosso, a ben vedere, ci può suggerire un aspetto importante per avviare la definizione di “tempo libero” sui binari della rigorosa razionalità e per il chiarimento della sua valenza educativa. Infatti, non pare essere tanto e in assoluto il contenuto specifico a qualificare il tempo libero, bensì l’approccio ad esso e, parallelamente, il grado di gratificazione che ne deriva. Al punto che laddove il tempo liberato dal lavoro dovesse essere, per le ragioni le più svariate, impiegato in attività avvertite come sgradevoli e opprimenti, la percezione di tempo libero finirebbe con lo spostarsi verso quello che sino ad ora è apparso come tempo non-libero. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Nella prospettiva dell’educazione esiste un unico tempo, suddivisibile in diversi momenti ognuno con caratteristiche peculiari, certo, ma complessivamente coinvolto nel processo educativo. Questo testimonia, in prima istanza e ancora una volta, che l’educazione non si esaurisce nel solo contesto scolastico e, quindi, che non interessa solo gli individui in età scolare, anche se l’esserci della scuola, come occasione sistematica del suo perseguimento, è fondamentale per poter parlare di educazione, in prospettiva sia individuale sia comunitaria. Ma significa anche, in seconda istanza, considerare tutto il tempo del soggetto come tempo educativo: quindi anche quello lavorativo, quello in alternanza al lavoro (per l’individuo adulto) e, non ultimo, quello postlavorativo (per l’individuo anziano). Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 La riflessione sul tempo libero in termini educativi, pertanto, consente di andare al cuore del problema, proprio perché chiama in causa il senso della libertà e la responsabilità di significarla, a partire da una situazione, da uno spazio-tempo non preventivamente irreggimentato nelle opzioni e nelle scelte: vero e proprio banco di prova dell’educazione in termini di autoorganizzazione e, soprattutto, auto-determinazione e autoaffermazione. Questo, in definitiva, porta a domandarci se ci sia o meno permeabilità, se non coerenza e continuità, tra una condizione e l’altra in cui si esplica l’adultità o, al contrario, rigida separazione se non, addirittura, contrasto e opposizione. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 In questa prospettiva, allora, determinante diventa la percezione di una venatura di libertà del proprio tempo di vita, impegnato nel lavoro, nel divertimento, nella relazione interpersonale, nella coltivazione dei propri interessi, e considerando questi aspetti in termini di non necessaria ed automatica reciproca esclusione Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 C. Volpi, Il tempo libero tra mito e progetto, Torino, ERI, 1976, p. 196, passim, corsivo mio): «La teoria dialettica del tempo unico dell’uomo riconosce, in esso, l’esistenza di diversi momenti e di diversi aspetti costitutivi, ma non identifica meccanicamente la libertà e la necessità con determinate forme di attività. Essa sottolinea il fatto che tutte le attività dell’uomo possono essere libere od obbligate a seconda della qualità della partecipazione umana, della capacità che ha l’uomo di progettarne e controllarne la direzione e il significato. Il divertimento non è intrinsecamente liberatore, ma può trasformarsi sia in evasione passiva che in approfondimento culturale, a seconda del ruolo che l’uomo può assumere di fronte alla struttura economica e culturale degli svaghi. Il lavoro non è intrinsecamente obbligante, ma può essere creativo (secondo la funzione che gli è propria) o alienante, tenendo conto della sua organizzazione e delle sue finalità in un determinato contesto politico ed economico […] Lo sviluppo educativo dell’uomo non può cristallizzarsi su una dicotomia intrinseca che contrappone rigidamente attività in sé obbligate ed attività in sé libere, ma deve ricercare, in tutte le attività umane, quel coefficiente di libertà e di significatività che dipende dalla consapevolezza e dalla partecipazione effettiva del singolo» G. M. Bertin, Educazione alla socialità e processo di formazione, Roma, Armando, 1972, p. 167, passim, corsivo mio: a) deve essere effettivamente tempo libero dal lavoro e da obbligazioni analoghe […]; b) in esso il soggetto deve avere effettiva possibilità di scelta tra attività varie, in modo da accogliere quelle che sono effettivamente corrispondenti alle esigenze di affermazione e di sviluppo della sua personalità e al tipo particolare di socializzazione che le è congeniale[…]; c) il soggetto deve poter dedicarsi a tali attività con una carica ancora intatta di energie, poiché se esse sono fiaccate da un eccessivo e per giunta sgradevole lavoro, il tempo libero non potrà essere dedicato che al rilassamento e allo “stordimento”; d) il soggetto deve essere educato ad un impiego razionale del tempo libero, e cioè a un impiego orientato al recupero del momento della “vitalità” personale, alla sua valorizzazione in direzione di disponibilità sociale, a un suo raffinamento e ad una sua elevazione in senso culturale Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Da ciò deriva, prosegue Bertin, «che non può essere considerato razionale quell’uso del tempo libero che costituisce uno sperpero per la vitalità personale (in quanto ottunde la sensibilità, involgarisce e standardizza il gusto, incoraggia l’inerzia, porta all’anonimo e, in definitiva, alla noia», «né può esserlo quell’uso del tempo libero che, pur esercitandosi in forme intellettuali ed estetiche, crea per il singolo un mondo di evasione che lo allontana dagli altri uomini nella ricerca di emozioni, più o meno preziose, fini a se stesse. Il tempo libero sarà tanto più valido pedagogicamente quanto più stimolerà le qualità creatrici del soggetto, ma anche quanto più queste saranno indotte ad aprirsi in direzione di disponibilità agli altri e a considerare tale disponibilità come la condizione stessa principale di vigore e di rafforzamento individuale» (ivi, pp. 167-168). In definitiva, «Occorre insegnare a scegliere – come scriveva Jean Laloup – ma soprattutto insegnare ad essere: l’essere superiore sa scegliere bene, mentre l’essere inferiore impiega malamente poveri criteri di scelta faticosamente appresi» (J. Laloup, Le temps du loisir, Tournai, Editions Casterman, 1962; tr. it., Il tempo dell’ozio, Torino, SEI, 1966, p. 227). elementi cruciali: - alternativa rispetto al lavoro e, quindi, necessità di integrazione tra i due momenti, anche alla luce della sperimentazione di una varietà (per contenuti, attività, approcci, stili comunicativi) di esperienze; - possibilità e responsabilità di operare una scelta, non limitandosi, quindi, a quanto offerto-imposto ma, anche e soprattutto, assumendosi un impegno di valutazione e di autovalutazione e, al contempo, esigendo un impegno politico-sociale di offerta estesa e capillare di tali attività; - esclusione, dal tempo libero, del tempo dedicato al riposo, affinché tale alternativa non sia solo fittizia (o estremamente marginalizzata o connotata in termini di reazione/ribellione), e quindi con evidenti ripercussioni sull’assetto qualitativo e quantitativo del tempo di lavoro; - recupero di una vitalità personale in vista del proprio perfezionamento come criterio educativo sulla base del quale individuare il proprio tempo libero. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 in questo senso, il tempo libero non può e non deve essere una “consolazione” delle frustrazioni lavorative o una “fuga” temporanea e ciclica, quanto, piuttosto, occasione di ridefinizione del proprio percorso di vita. in una prospettiva di educazione degli adulti, questo aspetto, solo apparentemente lontano dagli impegni e dalle responsabilità, convoglia su di sé ed esprime al meglio l’istanza partecipativa e costruttiva dell’identità adulta a livello comunitario, come soggetto che non solo utilizza quanto è a sua disposizione ma, avendone gli strumenti, reclama migliori condizioni e occasioni Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Sembrerebbe proprio la percezione educativa del tempo libero, quindi, il criterio fondamentale per una sua definizione, e non gli aspetti quantitativi di tale tempo, la relativa allocazione o i vari contenuti che inevitabilmente lo attivano Di più: allorché si instaura tale percezione, il tempo libero, proprio in virtù della sua qualità, evidenzia le cifre, positive e negative, del tempo di lavoro. Alla luce di questo, non solo si spiega ma, anche, si giustifica l’intrinseca ambiguità del tempo libero, il suo essere spaziotempo di frontiera tra il lavoro e altro-dal-lavoro, tra l’individualità e la collettività, tra l’attività e la passività, la creazione e la fruizione e, non ultimo, l’occasione educativa e l’inganno conformativo e consumistico. [1]. S. Pivato, A. Tonelli, Italia vagabonda. Il tempo libero degli italiani, Roma, Carocci, 2001, p. 183. “Inganni” del tempo libero Si sta facendo sempre più strada un’offerta di attività per il tempo libero che, facendo leva non solo su vuoti e relative paure ma, anche, su frustrazioni e ambizioni di riscatto e di affermazione, si impone in maniera generalizzata e pervasiva. «Intemperanza ludica» (= mancanza di controllo e di moderazione; derivante sia da una insoddisfacente ed inadeguata esperienza lavorativa, sia dall’incapacità di dare una significazione originale e creativa al tempo libero) e commercializzazione (come business, ma anche come “distrattore” politico e civico), rappresentano le forme ingannevoli – illusoriamente emancipative – del tempo liberato dal lavoro e, stando così le cose, impedito nel suo farsi tempo di libertà tempo liberato tempo libero tempo di libertà Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Una realtà, questa, che porta l’educazione degli adulti a confrontarsi con le trappole di una pseudo-libertà – oggi amplificata dal virtuale, dal simultaneo e dall’onnipresenza ripetuta e ossessiva di un tempo libero modaiolo e trendy – in cui la mera esteriorità ed ostentazione (essere presenti e visibili in un luogo, mostrare un possesso) hanno il sopravvento. Al punto che scelte diverse da quelle pubblicizzate, da quelle di un’élite (economica e mediatica, soprattutto) che la massa cerca di imitare parzialmente come può, sono considerate nell’immaginario collettivo se non eccentriche, quantomeno di nicchia, in “controtendenza” e, comunque, avvertite e calcolatamente etichettate in contrapposizione con il divertimento e lo svago che devono connotare il vissuto del tempo libero. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Ma più questo tempo libero stride al confronto con il tempo lavorativo, ovvero più si connota in termini di eccezionalità rispetto alla quotidianità, più la sfida educativa si fa seria ed impegnativa. La sproporzione tra sentimenti, comportamenti e, anche, consumi esperiti in un tempo e nell’altro testimonia uno squilibrio di dimensioni tali che non si può pensare di armonizzare, se non in modo fittizio, con una media matematica tra eccessi, dalla quale far scaturire una cifra accettabile di soddisfazione. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 In questi termini, la ricerca di una possibile compensazione non solo è destinata a fallire, ma ciò che più conta, sul piano educativo, è che non si avvia alcun processo di trasformazione: si oscilla, alternativamente, da un piano di lavoro a un piano di tempo libero lasciandone inalterati gli assetti, in entrambi i casi subiti. Si continua, sostanzialmente, a perdere qualcosa e ad illudersi di recuperala; si sopporta qualcosa procrastinando un piacere che svanisce in fretta per ricominciare tutto daccapo. Per queste ragioni, non è peregrino parlare di inganni relativamente a quel tempo libero che, in realtà, è imposto da un mercato del lavoro che, in un circolo vizioso, deve potersi reggere su un corrispondente e coerente mercato del tempo libero. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Ha scritto Domenico De Masi che: “da parte mia, riesco ad individuare il seme della felicità solo nel lavoro creativo e nel tempo libero: perciò coltivo l’ipotesi che l’ozio, nella società postindustriale, possa diventare importante almeno quanto il lavoro e che via via finisca per fare tutt’uno con esso, entrambi assumendo le connotazioni del gioco”[1] Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione mentale che, da un lato, porterebbe vantaggi non meno preziosi di quelli che furono assicurati dalla rivoluzione industriale ma, anche, e moltiplicati, gli stessi ostacoli: resistenza culturale ai cambiamenti psicologici e sociali e, non ultimo, resistenza politica ad una inevitabile – in questo scenario – ridistribuzione del potere [1]. D. De Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale, Milano, Rizzoli, 1999, p. 49. “proverbio zen” MAESTRO DI VITA Chi è maestro nell'arte di vivere fa poca distinzione tra il proprio lavoro ed il proprio gioco, tra la propria fatica ed il proprio divertimento, tra la propria mente ed il proprio corpo, il proprio studio e il proprio svago, il proprio amore e la propria religione. Quasi non sa quale sia dei due. Persegue semplicemente il proprio ideale di eccellenza in tutto quello che fa, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o stia giocando. Ai suoi occhi, infatti, lui sta sempre facendo entrambi. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Il gioco… tra lavoro e tempo libero La dimensione del gioco diventa il perno di tutto il discorso: ma se, e solo se, considerato nella sua peculiare valenza educativa. L’orientamento ludico contraddistingue, quindi, la marca educativa tanto del tempo libero quanto del lavoro, disvelando le reali occasioni di crescita e di trasformazione individuale ad entrambi i livelli, in questa prospettiva solo metodologicamente distinti e distinguibili. Tracciandone le caratteristiche salienti, Johan Huizinga rilevava che: “Comunque sia, per l’uomo adulto e responsabile il gioco è una funzione che egli potrebbe anche tralasciare. Il gioco è superfluo. Il bisogno di esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale. Il gioco può in qualunque momento essere differito o non aver luogo. Non è imposto da una necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un compito. Si fa nell’ozio, nel momento del loisir dopo il lavoro. Solo in un secondo momento, facendosi il gioco funzione culturale, i concetti dovere, compito, impegno, vi si congiungono. Ecco dunque una prima caratteristica del gioco: esso è libero, è libertà” [1] [1]. J. Huizinga, Homo ludens. Versuch einer Bestimmung des Spielelmentes der Kultur, Amsterdam, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, 1939; tr. it. Homo ludens, Torino, Einaudi, 1973, p. 11. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 L’orientamento ludico diventa così una strategia di vitale importanza per la permanenza dell’educazione, una “fuga” finalizzata sempre ad un consapevole ed arricchito “ritorno” in termini di apprendimento, capacità interpretativa e di intervento sul reale. In questo senso, in quanto esperienza educativa e forma mentis, il gioco è, solo apparentemente, un parentesi, un trastullo, un passatempo, un’attività circoscritta fine a se stessa, giacché si offre come esercizio di simulazione analogica e di potenziamento immaginativo-creativo. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 E, soprattutto, si offre altresì a sua volta come criterio di scelta e di gestione del tempo libero, imponendo ad ognuno di essere, in qualche modo, giocatore, protagonista attivo, attore del gioco stesso. Ciò comporta, ancora una volta, la considerazione del tempo libero come tempo dell’impegno e della cura di tutte le dimensioni del sé, come banco di prova e di valutazione cosciente di tutto il nostro tempo. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Più che di consolazione e di recupero, dunque, il tempo libero si dimostra in primis opportunità di conoscenza di sé e della propria situazione esistenziale e, di qui, possibile molla di cambiamento e transizione ad un altro status, in cui il lavoro possa rispondere a quelle istanze di passione, coinvolgimento, gratificazione, creatività e di relazione appagante (con se stessi, con gli altri) sperimentate, appunto, come tali in un tempo libero ludicamente vissuto. E non è un caso che uno dei desideri più ricorrenti nell’adulto sia quello di conciliare, se non addirittura fare coincidere, le attività elette per il proprio tempo libero con quelle del lavoro Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Riconoscere, scegliere e, prima di tutto, desiderare di imprimere al proprio tempo libero la direzione verso “tempo di cura di sé” rappresenta una vera e propria sfida dell’educazione permanente e, in modo particolare, dell’educazione degli adulti, giacché è soprattutto l’adulto a vivere sulla propria pelle un costante rischio di dimidiazione spazio-temporale. La portata della questione coinvolge, come si vede, il piano del singolo non meno di quello della collettività, quello della domanda non meno di quello dell’offerta di attività specificatamente approntate per il tempo libero e, pertanto, si scontra con quelle logiche politico-economiche che spersonalizzano il mondo del lavoro e quello dello svago conducendo a forme fondamentalmente analoghe di alienazione Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Il tempo per sé e per la cura di sè… “È tempo per riposare, per orientarsi, per informarsi, per prendere decisioni; ancora: per ascoltarsi, per stare con se stessi; tempo per prendere distanza e per cercare di capire. Tempo per sé è condizione per l’apprendimento continuo, per l’autoconoscenza, per la costruzione della riflessività: processi che caratterizzano gli attori sociali nella vita quotidiana. Non è tempo libero e non è tempo di lavoro, anche se come il primo è caratterizzato dalla flessibilità e dall’autodirezionalità, e come il secondo è non rinunciabile e non occasionale” L. Balbo, Tempo di lavoro, tempo libero, tempo per sé, in “Storia in Lombardia”, n. 1-2/1995, p. 68 Due “livelli” nel modo di intendere il tempo libero: il primo, distaccandosi dal lavoro, per consentire all’individuo di mettere in atto, dopo il necessario recupero delle forze fisiche e psichiche, energie creativo-produttive e relazionali intitolate al perseguimento di una qualità della vita più piena e più partecipativamente pensata e goduta il secondo, riallacciandosi al tempo di lavoro per una appropriazione coerente (nei meccanismi, nelle finalità) di tutto il tempo esistenziale. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015 Una duplice sfida educativa in relazione al tempo libero: Al primo livello, la sfida educativa più impegnativa risiede nel saper fruire e nel saper richiedere occasioni di tempo libero che – lungi dall’incrementare l’acquiescenza del lavoratore verso forme alienanti di lavoro e, parimenti, l’omologazione indotta dal mercato del tempo libero come tempo di remissivo consumismo – siano di reale gratificazione per l’individuo, mobilitandone e sollecitandone il divenire di sé Al secondo livello, poi, l’impegno educativo si colora oltremodo di idealità, laddove ravvisa nel tempo libero la chance per eccellenza in grado di scardinare un’impostazione del lavoro che non va oltre la mera sopravvivenza, guardando, utopicamente, non solo ad una integrazione tra otium e negotium, ma addirittura alla possibilità dell’otium nel negotium, condizione stessa dell’inverarsi dell’educazione permanente come processo diffuso. Dispense a solo uso didattico interno © Elena Marescotti 2014/2015