Dedico questo libro ai miei lettori In copertina: Gianfranca Cosenza Piazzetta Toscano Acquerello 2009 LE ROSE DI MEMORIA 6 FRANCHINO ‘U FUNTANARU ‘Ntra Cusenza ‘i tiempi ‘i mò MEMORIA ISBN 978-88-6093-062-0 © 2009 by Nuova Editoriale Bios snc Via Rendano, 25 - 87040 Castrolibero CS Tel. 0984/854149 - Fax 854038 ——————————————————————————————— Tutti i diritti riservati - Nessuna parte del presente volume può essere riprodotta con qualsiasi mezzo (fotocopia compresa) senza il consenso scritto dell’editore UNA BREVE PRESENTAZIONE “E cchi fai?” – disse il poeta Achille Curcio quando gli prospettai l’idea di riunire in un unico volume i versi di Franchino, di carattere satirico o lirico che fossero – “Mbischi ‘u cazzu ccu ‘u Patreternu?”. Giudizio netto, che non mi lasciò alcuna possibilità di replica; cosicché venne dapprima pubblicato nel 2001 ’Ntra Cusenza di na vota, contenente solo satire, e poi nel 2007 Stromboli, contenente solo liriche. Però adesso Franchino mi ha portato, assieme a un certo numero di composizioni satiriche, anche alcune liriche, chiedendomi di riordinarle per ricavarne un libro. Infatti sostiene Franchino che si tratta dello stesso materiale, che satira e lirica vedono da angolazioni diverse. Non ho potuto convincerlo, stavolta, della bontà dei principi dettati dall’amico poeta catanzarese e ho finito per accontentarlo, ordinando e redigendo questa terza raccolta, che comprende appunto una sezione satirica, ‘Ntra Cusenza ‘i tiempi ì mò, seguita da una concessione alla lirica, L’uortu abbannunatu, poi dal poemetto ‘Ntra Cusenza ’i l’Aldilà, che colloco sul confine tra lirica e satira, da una sezione lirica dedicata ai ricordi, Amarcord - M’arricuordu e infine da un altro poemetto ‘A perdita, tra satira e verità. Ho avuto più volte modo di “collaudare” questo libro leggendone in pubblico ora una parte, ora l’altra. Le prove sono state favorevoli, perciò ho completato il mio impegno registrando su CD una mia recitazione delle storie di Franchino, che potrà essere d’aiuto a chi è meno abituato a leggere il dialetto. Per chi ha il computer, ho aggiunto un “libro elettronico”, che permette di scorrere le pagine del testo e di ascoltare la lettura. Devo sinceramente ringraziare a nome di Franchino 7 gli eminenti letterati, Nicola Merola e Franco Crispini, che hanno voluto scrivere una loro presentazione di questo volume, rivelandone il contenuto intimo e spiegandone il senso più di come lo stesso Franchino, che è uomo di pratica, avrebbe potuto mai fare. Infine, devo ringraziare la mia editrice, dott.ssa Irene Olivieri, e gli altri soci della Nuova Editoriale Bios, per la cura e la capacità con cui hanno portato a termine l’edizione del volume. F.C. 8 FARFALLA E PAPPAGALLO Quando avvisto Franco Calomino su uno dei piani del Ponte che nella nostra università concilia il simbolico e il reale, lo confesso, non stacco più gli occhi dal suo papillon e lascio che l’incontro si trasformi in un’esperienza concentrata del riconoscimento, anzi proprio dell’agnizione classica. È lui, certo, l’amico e collega, tutto stilizzato snobismo e arguzia pungente, con o senza la sua cravatta a farfalla, ma dietro di lui, di uno così che si mette addosso una cosa del genere, come una marcetta che ne accompagni il passo, si affacciano le idee accessorie dell’università di frontiera e dell’eleganza come provocazione, della cattività dell’intelligenza e dell’estro impenitente, dell’Io sommerso e dell’allusività incontenibile, insomma la nostra storia. Non direi forse niente di così compromettente, se non sapessi che l’insigne professore di ingegneria idraulica scrive poesie in dialetto cosentino, spiritosissime e formalmente impeccabili, che hanno avuto una fortunata circolazione clandestina, prima di approdare alla pubblicazione, in cambio di un orizzonte professoralmente praticabile, rinunciando alla prerogativa poetica esaltata dall’oralità, ma solo a quella, e consistente nel trasformare ogni esecuzione in una poesia nuova e ogni poesia nuova in una ripetizione gratificante. Ascoltare per credere. O almeno guardare la farfalla. Il volume che ora presento è il suo terzo e si distingue dagli altri per il proposito di abbandonare la coerente facies o satirica o lirica dei precedenti («Priestu jamuninni, / ca ccà ‘un si tratta cchiù di quattru minni»), inserendo invece, dentro la consueta cornice delle divertenti e istruttive disavventure occorse al trasparente alter ego del poeta, Franchinu ‘u Funtanaru, momenti non banali di elegia, tra la nostalgia e la contemplazione. Solo momenti. 9 La mossa è resa meno sorprendente dalla immutata fedeltà a un’intonazione bassa e colloquiale, che non è imposta tanto dall’adozione del dialetto, quanto dall’identità personale che sul dialetto proiettano, neanche fosse l’ombra di Franchinu, l’interpretazione puristica di Calomino (tale per il lessico, la morfologia e la sintassi) e la sua inconfondibile voce, se non sono già le aspettative di chi ha imparato a conoscerlo e, ci si creda o no, lo guida con le sue risate. A scanso di equivoci, e per non rispondere a una farfalla con una mosca cocchiera, sarà bene precisare che l’identità in questione stavolta emerge e vorrei dire risplende, ben oltre il compiaciuto travestimento, da una pura e semplice accumulazione di dettagli precisi e preziosi e dal filo d’Arianna che li collega tutti in un labirinto solo. Tanto esemplarmente risulta dagli endecasillabi sciolti (e sì che Calomino è un maestro della rima) del poemetto Amarcord – M’arricuordu, dove il metodo mnemotecnico della localizzazione delle reminiscenze in una mappa si appoggia alla circolarità e alla compresenza di una vita mentale colta in flagrante, mentre la durata trascina inavvertitamente con sé e ha la meglio su qualsiasi avvenimento. Secondo Italo Calvino, «la fantasia è un posto dove ci piove dentro». Cussì si cci girava tuttu ‘ntuornu, ‘i cursa e ‘u cchiù d’i vote sicutannusi, prima cammera, cammera ‘i mangiari, barcuni, studiu, cammera ‘i guagliuni e prima cammera ppè finiscia ‘u giru. Ma si putìa fà puru cumu n’ottu, d’a cammera ‘i mangiari dintr’u studiu, e pù veniennu arrieti d’u barcuni si turnava ‘ntr’a cammera ‘i mangiari e pù ‘ntr’u studiu e ‘a cammera ‘i guagliuni. 10 Detratto tuttavia il poemetto, che tematizza le poco evangeliche beatitudini della lirica (nel loro luogo deputato tuttavia ravissantes: «Viàti i pisci, ca natanu di sutta / a sa festa di luci e di culuri, / l’ acieddri ca sa pònnu goda tutta // e viàti davèru i piscatori / ppe ‘a picca ca li resta dintr’a rizza / ‘i s’acqua luccicanti di ricchizza»), in quanto riempie di contenuti determinati e articolati la mera contemplazione di quel che c’è, le riuscite più efficaci del nuovo libretto di Calomino vanno come al solito cercate nella sua straordinaria verve satirica, cioè poi nella bravura con cui la poesia si mostra capace di «trovare» soluzioni in linea di principio estemporanee e non si limita a esibire il risultato finale. In questa circostanza, sugli effetti più francamente comici, che si lasciano apprezzare soprattutto in un altro poemetto, quello intitolato ‘A perdita, prevale una formidabile vena autoironica, se non m’inganno, mai prima d’ora tanto evidentemente strumentale, visto che attraverso di essa passano sia la già menzionata linea di fuga lirica («I numi ‘i chissu e chiru prufissuri / facìmu a gara a chini i dìcia ‘u primu, / i feste, i dischi, i balli, ‘u prim’amuri, / l’amicizia d’a nostra ca ‘un cc’è cchiù, / e nun vulìmu ammetta ca l’avimu / persa ppe sempre, cumu ‘a gioventù»), sia l’aggressività irridente che sottopone la scomodità della ufficialità linguistica e culturale al confronto schiacciante con l’agio sovrano del dialetto. ‘Ntra Cusenza ’i l’Aldilà, ideale terzo vertice del triangolo costituito da Calomino con la raccolta d’esordio ’Ntra Cusenza di na vota (2001) e con il titolo dell’ultima, o più precisamente con la sezione omonima, ‘Ntra Cusenza ‘i tiempi ‘i mò, affida a una gag apparentemente secondaria l’espressione diretta del decisivo e ambivalente egocentrismo annunciato dai titoli. Come il popolano di Belli si poteva ingenuamente domandare: «Se troveno a Ppariggi le mutanne?», così non serve neppure l’intermediazione di Franchinu ‘u Funtanaru, perché passato, presente e futuro si rivelino i tempi mediocremente variabili 11 nei quali si coniuga la stessa iperbolica e appunto irridente prosopopea di «Cusenza» (in ‘A perdita degradata a ritornello). Pazienza se la poesia va dove vuole. Proprio in quanto lo spunto comico risulta prevedibile e manierato, la gag, che invece realizza molto felicemente gli ideali espressivi di una poesia rubata al parlato e che perciò più diffusamente cito, è il formale tributo con il quale Calomino si assicura il diritto alla franchezza più sgradevole e quasi accorda il proprio strumento. Che poi la vittima diretta dell’ironia sia in realtà il personaggio della moglie, anziché rendere meno efficace la captatio benevolentiae, depone a favore della grande intimità e dell’affetto del poeta nei suoi confronti, se del suo sacrificio può essere investito e beneficiare così tranquillamente lui. Il narratore in versi è dunque appena morto nel sonno e la moglie non se n’è accorta. Haju dittu: «Signu muortu. Allura aspiettu». E signu statu n’ura e mmenza o dua quietu senza mi mova dintr’u liettu, sinca muglierma, ppe ri fatti sua, ‘un s’è comodamente risbigliata e m’ha chiamatu ccu na gumitata. Iu nenti, fermu, mi nni stava cittu ed iddra, ch’avìa persu ra pacienza, m’ha ‘mpacchiatu dua cavuci a dirittu e ppe si minta ‘mpaci a ra cuscienza m’ha pizzulatu ca m’ha fattu russu e m’ha datu nu buffu dintr’u mussu. A ra fine, a capiscia ha cuminciatu ca cc’era ‘ncunu fattu ca jìa stuortu. Iu mi nni stava fermu ‘ntisicatu ca mi spagnava ‘i dicia ch’era muortu: 12 ma cumu si nn’è accorta ha strepitatu e n’atra vota o dua m’ha pizzulatu. Ha dittu: «Chissu ‘u mm’avìa fattu ancora, ca cumu mi ripuosu nu momentu, si minta bellu bellu e mi va mora: vò dì ca ‘un tèna propriu sentimientu. Mò, prima ca mi s’inchia ‘a casa ‘i gente haju ‘i fuja ppe mmi fà na permanente». Come volevasi dimostrare. Madame Bovary c’est moi. Tanto più che, a quanto ne so, la gentilissima signora Calomino, da signorina Cosenza, esercita in proprio mirabilmente la pittura, l’arte sorella. L’autoironia fornisce il lasciapassare all’indulgenza senza la quale non si darebbe adito alla regressione. E, senza regressione, niente dialetto e forse niente poesia. Se bisogna fare un passo indietro per tornare a parlare la lingua dell’infanzia o per adibire l’informe colonna sonora della vita di tutti i giorni ai discorsi seri e alle buffonerie impegnative con le quali ci si presenta al pubblico, quanti bisogna mai farne per pretendere all’improvviso di dire senz’altro la verità, a qualsiasi costo. Ciò avviene più scopertamente nella sezione intitolata L’uortu abbannunatu e giustificata dal sottotitolo come Una concessione alla lirica. È a questo punto che, senza rilevarne gli interessi particolari, sono disposto a indossare i panni di «Nu viecchiu prufissuri di latinu / ca mi parrava d’a litteratura», pur di invocare pedantescamente il ricordo di Franchinu ‘u Funtanaru, che va «stippannu cessi ‘ntra Cusenza» e «riparannu ogni sorta ‘i tubbi rutti», ma alla fin fine rimane sempre l’autore ufficiale del libro. Allo stesso modo, ed è bene che sia così, Calomino non si sottrae agli adempimenti più prosaici che assicurano la riuscita della sua poesia (che delizia il gioco tra rima interna, assonanza e modo idiomatico: «ccu chiante rampicanti / e juri ca 13 scinnìanu / i muri muri, janchi») e gli consentono di appropriarsi, dalla postazione bassa del dialetto e dello scherzo che ormai riassumono ogni naturalezza, rivendicazioni altrimenti impronunciabili, quelle più alte della nostra tradizione. Oltre alle quartine che licenziano il volume (sto per copiarne tre) e ai «canti» in cui si articola il poemetto sull’oltretomba, Calomino incastona non pochi lacerti della sua onnicomprensiva memoria poetica (da D’Annunzio, «Ohi state longa state di silenziu», al Rino Gaetano già citato, «e viàti davèru i piscatori»). Iu quannu sientu viersi ‘mpapocchiati ca paranu ‘nsivati dintr’u grassu, ca nati ciunchi mòranu sturciati e vannu ‘ntruoppicannu ad ogni passu, mi chiamu a chiri quattru viersi mia e lli dicu: “Fujìti, viersicieddri, circati priestu priestu ‘i cangià via, escìti all’aria cumu tant’acieddri, ccu si versazzi ciunchi ‘un ci restati, ma vùa, ca siti fatti ppe ri vuli, ricurdativi sempre ca vulati, rapìti l’ali, e jati versu ‘u suli”. Chissà che il volo annunciato dalla farfalla del professore di ingegneria idraulica non lo voli davvero fino in fondo il metaforico pappagallo del «Funtanaru», dell’idraulico che ogni tanto restituisce all’ingegnere e al professore squarci di un’infanzia felice e a noi concede un insperato «riposo poetico»? Nicola Merola 14 ‘NTRA CUSENZA ‘I TIEMPI ‘I MÒ ‘U VIERSU ‘U viersu ha di sunà cumu na trumma ha di ‘ntinnà cum’a campana ‘ntinna, ha d’essa lieggiu cumu a na palumma, ha d’esciare d’u core e no d’a pinna. Ha d’essa friscu cumu a na viola, e cchiù frisca d’u viersu ha d’essa ‘a rima, ca vesta ru pensieru ccu ‘a parola, e nova ha d’essa, e no sintuta prima. Iu quannu sientu viersi ‘mpapocchiati ca paranu ‘nsivati dintr’u grassu, ca nati ciunchi mòranu sturciati e vannu ‘ntruoppicannu ad ogni passu, Il verso deve risuonare come una tromba, deve rintoccare come una campana, dev’essere leggero come una colomba e venire dal cuore, non dalla penna. Dev’essere fresco come una viola, e ancor più fresca dev’essere la rima, che veste il pensiero con la parola, e dev’essere nuova, non già sentita. Io quando sento versi raffazzonati, che sembrano unti di grasso, che nati zoppi muoiono storpi e vanno incespicando ad ogni passo, 17 mi chiamu a chiri quattru viersi mia e lli dicu: “Fujìti, viersicieddri, circati priestu priestu ‘i cangià via, escìti all’aria cumu tant’acieddri, ccu si versazzi ciunchi ‘un ci restati, ma vùa, ca siti fatti ppe ri vuli, ricurdativi sempre ca vulati, rapìti l’ali, e jati versu ‘u suli.” chiamo a me i miei quattro versi per dire: “Fuggite, versi miei, cercate subito di cambiare strada, uscite nell’aria come uccelli, non restate con questi brutti versi zoppi, ma voi, che siete fatti per volare,ricordate sempre che volate, aprite le ali e andate verso il sole.” 18 ‘A BOTTA Na botta ccu nu strusciu ‘i vitri rutti, ‘i paraurti e cofani sbunnati. ‘Un fazzu ‘ntiempu a dicia “Ti nni futti!” ca sientu fùja genti arribbellati rapu ‘a finestra, guardu dintr’a via e ‘a machina ‘mpacchiata era d’a mia. Ccu ra vestaglia signu scisu sutta, ‘ntra na pioggia jazzata di jennaru. C’era na fimmina ccu ra capu rutta ca cuntava nu fattu paru paru, ca dintr’u scuru, ccu chir’acqua e vvientu, m’avìa ‘mpacchiatu ccu ra cincucientu. Na cincucientu? Ma nu carrarmatu! Saglìa di terza viniennu di Cusenza e ‘a machina d’a mia m’avìa ‘mpacchiatu ppe ru darrieti, ma ccu na violenza ca’avìa pigliatu bagagliaiu e tuttu e ccu na botta mi l’avìa distruttu. Una botta, con un rumore di vetri rotti, di paraurti e cofani sfondati. Non faccio in tempo ad esclamare “Te ne fotti!” che sento correre una turba di persone, apro la finestra, guardo per la strada e la macchina investita era proprio la mia. Sono sceso in vestaglia, sotto una pioggia ghiacciata di gennaio. C’era una donna con la testa rotta che raccontava il fatto per com’era andato, che al buio, in quella tempesta di acqua e vento, era andata a sbattermi contro con la cinquecento. Una cinquecento! Ma piuttosto un carro armato! Saliva da Cosenza con la terza, ed era andata a sbattere alla mia macchina, di dietro, ma con violenza, prendendo il bagagliaio e tutto e distruggendolo con una botta. 19 I machine si stavanu ‘ncriccate, ppe i mova cc’è vulutu ‘u carru-attriezzi. Amu duvutu cogliare a palate i vitri rutti e tutti l’atri piezzi e ‘a fimmina, ‘ntra l’acqua e dintr’a jazza, ca gridava e ciangìa cumu na pazza. Ppe grazzia ‘i Dddiu, ca si truvava viva. L’haju ‘mpasciata a ra capu ccu na pezza, l’haju datu na picca acqua ppe ss’ a viva e pù l’haju dittu : “Mè, ppe ra certezza avìi ‘i puntari a ssu spicuni ‘i muru, ca llà ti suicidavi di sicuru.” Le macchine erano compenetrate, per spostarle c’è voluto il carro attrezzi. I vetri rotti e tutti gli altri pezzi li abbiamo dovuti raccogliere con una pala. E la donna, con quell’acqua e gelo, continuava a gridare e a piangere come una pazza. Grazie a Dio però era viva. Le ho fasciato la testa con uno straccio, le ho dato da bere un bicchiere d’acqua e infine le ho detto: “Guarda, per essere certa,dovevi puntare a quell’angolo di muro, che lì ti suicidavi sicuramente.” 20 ‘U VIZIU ‘Un si sa si ppe viziu o ppe manìa, ma ciertu ca passava a mi dà ‘mpacciu quasi ogni sira d’a putìga mia, e cchi vulìa davèru nunn’u sacciu: stava ccà, mi cuntava ‘ncunu fattu e dopu mi guardava soddisfattu. Nu viecchiu prufissuri di latinu ca mi parrava d’a litteratura e mi parìa n’anzianu accussì finu, sinca na sira, versu na cert’ura, cuntannumi i scritturi e di poeti m’ha posatu na manu a ru darrieti. Non so dire se per vizio o per mania, ma certo che passava dalla mia bottega a darmi fastidio quasi ogni sera, e non so dire cosa volesse davvero: stava lì a raccontarmi qualche storia e dopo mi guardava soddisfatto. Un vecchio professore di latino, che mi parlava di letteratura e mi dava l’impressione di essere un anziano molto distinto, finché una sera, fattasi una certa ora, raccontandomi di scrittori e di poeti, mi ha posato una mano sul didietro. 21 Ppe nun fà vida ‘i mi truvà scortese ‘un mi signu muvùtu ppe na ‘nticchia, ma ‘ntantu mi sceglìa na chiave inglese, ca cci l’haju pizzicatu ppe na ricchia e supr’a porta, senza dìcia nente, l’haju strascinatu delicatamente. E llà l’haju dittu: “Mò capisciu tuttu. Tutti si fatti, sa filosofia, su vigliaccu, su piezz’i farabuttu, ppe mi véna a tuccari ‘u culu a mia? Vatìnni fòra ‘i ccà. Spariscia. Basta. Su ricchiuni. Su bruttu pederasta.” Per non dare l’impressione di comportarmi in modo scortese, per un po’ non mi sono mosso, intanto però sceglievo una chiave inglese e con questa gli ho pizzicato un orecchio, e, senza dire niente, l’ho delicatamente trascinato verso la porta. Qui gli ho detto: “Ora capisco tutto, tutte queste storie, questa filosofia, vigliacco, pezzo di farabutto, con lo scopo di venire a toccare il culo a me? Via di qua. Sparisci e non farti più vedere, invertito, brutto pederasta.” 22 LIPARI N’aviamu fattu nu viaggettu a Lipari, ccu muglierma, canàtuma e canàtama, ppe ni gustà di l’isole eoliche tutt’i bellezze e ri specialità. Però muglierma pata ‘i mal’i stomacu e tutt’a notte ccu conati ‘i vuommicu e rutti ca parravanu ccu l’angeli è stata sofferente a s’aggità. Tuttu ppe curpa d’i spaghetti a vongole e ‘a caponata ccu cipulle e chiappari, picchì truvannusi in vacanza a Lipari avia pensatu buonu ‘i s’i mangià. Avevamo fatto un viaggetto a Lipari, con mia moglie, mio cognato e mia cognata, per goderci tutte le bellezze e le specialità delle isole Eolie. Però mia moglie soffre di mal di stomaco, e tutta la notte è stata ad agitarsi con conati di vomito e rutti che parlavano con gli angeli. Tutta colpa degli spaghetti alle vongole e della caponata con cipolla e capperi, perché trovandosi in vacanza a Lipari aveva pensato bene di mangiarseli. 23 Addui ara suoru, datu ch’è nu miedicu signu jutu a circà na citro-sodica, e m’ha rispusu stannu supr’u wateru ca na magnesia mi putia dunà. Picchì pur’iddra avia mangiatu vongole e ppe sicunnu calamari e totani e avia patutu mal’i panza a raffica na sofferenza ch’un si pò cuntà. E ra matina, ppe si fari ‘u breakfast, si sunnu presentate cadaveriche e senz’aviri ‘a forza dintr’i natiche ‘i s’assittari ppe na tazz’i tè. Sono andato dalla sorella, che è medico, a chiedere un digestivo e mi ha risposto, stando sul water, che mi poteva dare solo della magnesia. Perché anche lei aveva mangiato vongole e per secondo calamari e totani e aveva patito raffiche di mal di pancia, una sofferenza che non si può raccontare. La mattina dopo, per il breakfast, si sono presentate cadaveriche e senza avere nelle natiche la forza di sedersi per prendere una tazza di tè. 24 Iu ccu canàtuma stavamu na favola, pur’aviennu mangiatu cozze e vongole, ccu calamari, piscispata e totani, cipulle e chiappari, tuttu a volontà. Allura l’amu vùtu fà na priedica, ppe li spiegà nu fattu propriu loggicu, “Quannu si venadi ‘n vacanza a Lipari ‘un si pò stari senza spizzichià. Ma vua, ca vi spagnati ‘i perda ‘a linea, siti capaci, ccu na forza stoica, ccu nu bicchieri d’acqua e ‘ncunu crakeru tutt’a jurnata sana ‘i cci passà. Io e mio cognato stavamo una meraviglia, anche avendo mangiato cozze e vongole, con calamari, pesce spada e totani, cipolla e capperi, tutto a volontà. Allora abbiamo dovuto fargli una predica, per spiegargli un fatto che è davvero logico: “Quando si viene in vacanza a Lipari, non si può stare senza spizzicare qualcosa. Ma voi, per paura di perdere la linea, siete capaci, con una forza stoica, di passare un’intera giornata con un bicchier d’acqua e qualche cracker. 25 E quannu arriva ‘a sira ca fameliche vua vi junnate a ri spaghetti a vongole ‘un capisciti ca na cozza fracida ammienzu ‘i bone si cci pò truvà. Faciti cum’a nnua, ca ppe mantenari alternamu nu bagnu ccu nu spizzicu, n’arancinu, na pizza ccu ri chiappari, ‘a brioscia , ‘a granita di cafè. E quannu ‘a sira ni mangiamu mitili arrivamu ca simu belli lucidi, e sapimu distingua ‘a cozza fracida, e capiscimu ca l’amu di jettà.” E quando arriva la sera che fameliche vi gettate sugli spaghetti a vongole non capite che, in mezzo a quelle buone, si può trovare una cozza guasta. Fate piuttosto come noi, che per resistere alterniamo un bagno con uno spuntino, un arancino, una pizza con i capperi, la brioche e la granita di caffè. E quando la sera mangiamo mitili, arriviamo perfettamente lucidi, e sappiamo distinguere la cozza guasta, e capiamo che bisogna buttarla via.” 26 WALKIRIE Sunnu scise a ra spiaggia stamatina quattru walkirie ccu ru piettu ‘i fora ch’eranu capeggiate ‘i na signora ca forsi avia passatu ‘a sissantina. Hannu fattu ‘ntra l’acqua na mmuina, zumpettiannu e dunannusi ‘mmuttuni e ppu, ppe s’asciuttari a ri palluni, si sunnu ‘mpruscinate dintr’a rina. Iu ccu muglierma stavamu a na banna circannu ‘i piglià n’aria indifferente quannu ’a signora inopinatamente ha cuminciatu a si vascià ‘a mutanna. Allura haju dittu: “Priestu jamuninni, ca ccà ‘un si tratta cchiù di quattru minni.” Stamattina sono scese in spiaggia quattro walkirie in topless, capeggiate da una signora che aveva forse passato la sessantina. In acqua hanno fatto un gran confusione, saltellando e dandosi spintoni, e poi, per asciugarsi i palloni, si sono strofinate sulla sabbia. Io e mia moglie ce ne stavamo da un canto, cercando di assumere un’aria indifferente, quando inopinatamente la signora ha cominciato ad abbassarsi lo slip. Allora ho detto: “Presto, andiamo via, che qui non si tratta più di quattro tette.” 27 ‘A TAVULETTA (D’U WATER) ‘A fimmmina ‘unn’è grossa, ma robusta, e bona grazia ni dimustra tanta. Sapiennu d‘u serviziu quantu custa, i zie d’i mia, ca su’ supra all’ottanta, s’a vonnu tena sempre bona e cara, picchi dicianu – N’atra, chin’a ‘mpara? – Però ‘ntra tante qualità presumu ca ha di tenari puru ancunu viziu; infatti cumu viziu tena ‘u fumu, ed ogni tantu si cci caccia ‘u sfiziu. Perciò l’hannu accordatu nu permessu, ca pò fumà, ma sulu dintr’u cessu. Mò iddra stamatina passu passu dintr’u cessu nu pocu s’è appartata, e i suoru hannu sintutu nu fracassu, nu crack, nu strusciu, n’urtu, na gridata, ca mentre si fumava ‘a sigaretta ‘a fimmina ha sc-cattatu ‘a tavuletta. La donna di servizio non è grassa, ma robusta, e dimostra tanta buona grazia. Sapendo quello che costa una donna di servizio, le mie zie, che hanno passato l’ottantina, se la vogliono tenere buona e cara, perché dicono – Come si fa ad addestrarne un’altra? – Però presumo che tra tante buone qualità deve avere pure qualche vizio: infatti ha il vizio del fumo, e ogni tanto se ne toglie lo sfizio. Perciò le hanno accordato il permesso di fumare, ma solo nel bagno. Ora la donna, stamattina, se n’è andata passo passo ad appartarsi un po’ nel bagno e le sorelle hanno sentito un fracasso, un crack, un rumore, un urto, un grido: perché mentre fumava una sigaretta la donna aveva spezzato il copriwater. 28 I suoru allura coraggiosamente si su’ precipitate dintr’u cessu, addui si stava ‘a fimmina, impotente. Ppe fortuna hannu avutu nu riflessu ‘i l’afferrari forte ppe ri vrazza sinnò si sprofondava dintr’a tazza. Ripigliata na picca ‘i chiru sc-cantu, e vistu ‘u copri-wateru spezzatu, assieme a ‘ncuna lacrima di chiantu ‘a povarella ‘u fattu l’ha cuntatu : “M’era assittata llà, signora cara, ed haju duvutu fà na mossa spara.” “Vuogliu cumprà ‘u ricambiu a spise mie”, ha dittu quannu è isciuta, ed è ricota ccu na tavula curta; allura i zie hannu dittu: “Si rumpa n’atra vota.” Iu però nu cunsigliu l’haju dunatu, ‘i cci cumprà nu tipu corazzatu. Le sorelle allora coraggiosamente si sono precipitato nel bagno, dove impotentemente era rimasta la donna. Per fortuna hano avuto il riflesso di afferrarla forte dalle braccia, se no sarebbe sprofondata nella tazza. Ripresasi un po’ dallo spavento, e vista la tavoletta copriwater spezzata, la poveretta, con qalche lacrima di pianto, ha raccontato com’era andata: “Mi ero seduta là, signora cara, e probabilmente ho fatto una mossa maldestra.” “Voglio comprare il ricambio a mie spese”, ha detto quando è uscita, ed è tornata con una tavoletta corta. Allora le zie hanno detto: “Si rompe di nuovo.” Io però gli ho dato un consiglio: di comprare un modello corazzato. 29 Pù subitu haju pigliatu carta e pinna ppe mannà a ru Goviernu su bigliettu : “I sigarette vua l’aviti ‘i vinna, però, ppe d’onestà, supr’u pacchettu cci ‘ ati ‘i minta ca ‘un sulu ‘u fumu ammazza, ma fa rumpa i cuvierchi ‘i supr’a tazza.” Poi ho preso subito carta e penna per mandare al Governo questo biglietto: “Le sigarette voi le dovete vendere, però per onestà sul pacchetto dovete metterci che non solo il fumo uccide, ma fa rompere pure i coperchi dei water.” 30 OHI CCHI BELLEZZA ‘U JENNARU DENTISTA! Muglierma l’atra sira s’è curcata però s’ avia mangiatu certi nuci. Ccussì s’è risbigliata ‘ntr’a nuttata lamentannusi ccu nu filu ‘i vuci picchì l’avia pigliatu ‘u mal’i dienti e s’a passava propriu malamenti. L’avia duvutu fà na cazziata, picchì ppe sparagnari supr’i spisi stupidamente ‘a mola cariata s‘avia tinuta nu sette-ottu misi mentre iu continuamente li dicìa “Sparagna n’atra cosa, bonusia.” Ma mò tenimu ‘u jennaru dentista e a tarda notte llà ci l’haju ragata. Iddru ha capitu tuttu a prima vista, e teniennuli ‘a vucca spalancata l‘ha trapanatu ‘u benedittu dienti, e nn’ha mannata senza circà nenti. Mia moglie l’altra sera è andata a letto, ma aveva mangiato delle noci, sicché si è svegliata, durante la notte, lamentandosi con un fil di voce perché era stata colta dal mal di denti e se la passava davvero male. Avrei dovuto rimproverarla aspramente, perché, per risparmiare sulle spese, si era stupidamente tenuto il molare cariato per sette-otto mesi, mentre io le dicevo continuamente “Risparmia su qualcos’altro, per l’amor di Dio.” Però adesso abbiamo il genero dentista, e io a tarda notte gliel’ ho portata. Lui ha capito tutto a prima vista e tenendole la bacca spalancata le ha trapanato il benedetto dente e l’ha congedata senza chiedere niente. 31 I cchiù, l’ha saggiamente consigliata ‘i tena ppe tri juorni ‘a vucca chiusa, e d’accussì muglierma s’è accitata. Ed iu, quannu sa storia s’è cunchiusa haju dittu “È ppe daveru na conquista, ‘ntra na famiglia, ‘u jennaru dentista.” In più, l’ha saggiamente consigliata di tenere la bocca chiusa per tre giorni, e così mia moglie ha finalmente taciuto. E io, appena finita questa storia, ho detto: “È davvero una conquista avere in famiglia un genero dentista.” 32 ‘U DIENTICI E ‘A CERNIA ‘U Dientici è nu pisci viaggiaturi ca naviga d’u mari ‘ntra l’abissi e sempre si sta accuortu ca ‘un saglissi ppe nun scuntari ancunu piscaturi. Ma ppe sa vota spurtunatu è parsu picchì s’è avvicinatu a na distanza ca Nellu l’ha sparatu dintr’a panza. Ed era di tri chili e mienzu scarsu. Dicìennu ‘i priparari ‘u barbecù a ri nove ha chiamatu Cuncettina, però pù, vers’u l’una d’a matina ha dittu d’unn’u preparari cchiù. “Papà”, m’ha dittu, “portaci pacienza, ca ‘ a Nellu nun li va d’appiccià ‘u fuocu, e inveci ‘i ni mangiari ‘u pisci ddruocu s’u vò purtà ppe n’u mangià a Cusenza.” Il Dentice è un pesce viaggiatore, che naviga negli abissi marini, stando sempre attento a non risalire da lì per non incontrare qualche pescatore. Però per una volta è sembrato sfortunato, perché si è avvicinato a una distanza che Nello gli ha sparato nella pancia. Ed era di tre chili e mezzo scarsi. Dicendo di preparare il barbecue alle nove ha chiamato Concettina, dopo però, verso l’una della mattina, ha detto di non prepararlo più. “Papà – mi ha detto – devi avere pazienza, perché a Nello non va di accendere il fuoco, invece di mangiare il pesce qui, se lo vuolo portare per mangiarcelo a Cosenza.” 33 S’è misu allura ‘u pisci ppe ra via siccome è viaggiaturi - ed ha viaggiatu, ed iu signu rimastu llà ‘ncamatu e m’haju tinutu ‘a fame ca tenìa. ‘A duminica ‘ntantu era passata, ‘u luni e ‘u marti sù passati puru ed iu sempre aspittava ‘u viaggiaturi ppe mi fà finalmente na grigliata. Versu ‘u juovi haju chiamatu ‘u piscaturi ppe circari ‘i sapiri ‘i chiru pisci adduvi avìa pututu jì a finisci e m’ha rispusu: “Ntr’u surgelaturi.” Ppe chissa ed atri cose ca nun cuntu a mia su fattu nun mi cunvincìa, perciò l’haju cuminciatu sa poesìa e mi signu fermatu a chissu puntu. Allora il pesce s’è messo per strada, siccome è viaggiatore, ed ha viaggiato, e io sono rimasto lì affamato, tenendomi la fame cche tenevo. Intanto la domenica era passata, erano passati anche il lunedì e il martedì e io continuavo ad aspettare il viaggiatore, per farci finalmente una grigliata. Verso il giovedì ho chiamato il pescatore per cercare informazioni sul pesce, per chiedere dove era potuto andare a finire, e mi ha risposto: “Nel surgelatore.” Per questa ed altre cose che non racconto a me questa storia non mi convinceva, sicché gli ho cominciato questa poesia e mi sono fermato a questo punto. 34 Intantu ‘u Dientici ha circatu ‘u frati ppe na decina ‘i juorni sani sani cridiennulu finitu dintr’i mani ‘i chiri ca s’i fannu surgelati. Nellu ‘u sapìa, perciò cc’è statu accuortu, ed aspittannu ‘u pisci s’a ridìa, picchì m’avìa di fà finì ‘a poesia, ha sparatu, ma ‘u colpu è jutu stuortu. ‘U dientici è resciutu a spezzà ‘i fili, ccussì s’è sprofondatu ‘ntra l’abissi, e Nellu mò pritenna ch’iu cridissi ca avìa d’essari armenu ‘i cincu chili. Haju dittu “Nun fa nenti, è capitatu, i Dientici su’ pisci viaggiaturi, porta chir’atru, ch’i tiempi su maturi e n’u mangiamu, puru surgelatu.” Intanto il Dentice lo ha cercato il fratello, per una decina di giorni di fila,credendolo finito nelle mani di quelli che li fanno surgelati. Nello lo sapeva, perciò ci è stato attento, ed aspettando il pesce se la rideva, perché doveva farmi finire la poesia, ha sparato, ma il colpo è andato storto. Il dentice è riuscito a spezzare i fili e così si è sprofondato negli abissi, e Nello adesso pretende che io creda che doveva essere almeno di cinque chili. Ho detto “Non fa niente, è andata così, il Dentice è un pesce viaggiatore, porta quell’altro, che i tempi sono maturi, e ce lo mangiamo, anche se surgelato.” 35 Ccu ssa storia è passata na simàna. Nellu però, ch’è ppe davèru tuostu, ‘u sabatu è turnatu supra puostu addui sapìa ca cc’era ‘ncuna tana. A ra Punta di Santa Litterata, a cincucientu metri cc’è na sicca. Lellu si cc’è fermatu ppe na picca ccu l’idea di si fari na calata. Ma sa vota cci ha fattu bbona pisca, dua Cernie di nu chilu e mienzu l’una, ‘un sacciu s’è bravura o s’è furtuna, ma una m’ha dunata bella frisca ed iu l’haju cucinata all’usu mia e cci haju scrittu ‘u finale d’a poesia. Con questa storia è passata una settimana, ma Nello ch’è davvero pervicace, il sabato è tornato nello stesso posto, dove sapeva che c’erano alcune tane. Alla punta di Santa Litterata, a cinquecento metri c’è una secca. Nello si ci è fermato per un po’, con l’idea di fare un tuffo. Ma stavolta lì ha fatto buona pesca, due Cernie di un chilo e mezzo l’una, non so se è bravura o se è fortuna, ma una me l’ha data bella fresca e io l’ho cucinata all’uso mio, e ci ho scritto il finale della poesia. 36 ‘U TAPPETINU Sinn’era isciutu ‘u poveru Marianu na matina tranquillu ppe ra spisa d’ a villetta ca tena a Cerisanu e ca sta appierricata ‘ntra na scisa. Però dopu nu scarsu quartu d’ura ca s’era ccu ra machina sbiatu, si nn’è ricuotu muortu d’a paura, a pedi, vuozzi vuozzi e senza jatu. Ha dittu a Amanda: “Jiennu chianu chianu , ‘a machina di colpu ha acceleratu: haju circatu ‘i frenà cc’u frenu a manu ma dintr’a prima curva haju cappottatu. Pù signu isciutu di nu finestrinu, ppe furtuna ccu tutti l’ossa sani, e mi signu assittatu ddrà vicinu, ma m’hannu sicutatu cincu cani.” Una mattina il povero Mariano era uscito tranquilamente per far la spesa dalla villetta che ha a Cerisano, e che sta appesa su una strada in forte discesa. Però, dopo nemmeno un quarto d’ora che si era avviato con la macchina, è tornato morto di paura, a piedi, pieno di lividi e senza fiato. Ha detto ad Amanda: “Andando piano piano, la macchina di colpo ha accelerato: ho cercato di frenare col freno a mano, ma alla prima curva ho cappottato. Poi sono uscito da un finestrino, per fortna con tutte le ossa intere, e mi sono sedutò lì vicino, ma sono stato inseguito da cinque cani.” 37 L’ha dittu Amanda: “Tria sunnu i pedali: frizione, frenu ed acceleraturi. Quannu i canusci, nun c’è nenti ‘i mali, ma s’i cunfunni, allura su’ duluri.” ‘’È curpa ‘a tua”, Marianu ha protestatu, “ca ‘u tappetinu è fattu nu cursuni mi s’è dintr’ i pedali ‘nturciniatu ed iu signu finitu ‘ntr’u vaddruni.” Ha dittu Amanda: “E ‘a chiave l’ ha tirata?” Marianu ha dittu :”Pienzu ca di no, ‘a machina è rimasta spalancata.” Ha dittu Amanda: “Valla a chiuda mò.” Cussì dacapu ‘u poveru Marianu s’è duvutu calari ntr’u vaddruni, e i cani hannu cunchiusu: “È nu cristianu ca a ra mugliera sa dunà ragiuni.” Ha detto Amanda: “Tre sono i pedali, frizione, freno ed acceleratore. Quando uno li conosce, va tutto bene, ma se li confonde, allora sono dolori.“ “È colpa tua”, Mariano ha protestato “perché il tappetino è diventato come un serpente, mi si è attorcigliato tra i piedi e io sono finito nel burrone.” Ha detto Amanda: “E la chiave l’hai presa?” Mariano ha detto: “Penso di no. La macchina è rimasta aperta.” Ha detto Amanda: “Valla a chiudere adesso.” Così daccapo il povero Mariano si è dovuto calare nel burrone, e i cani hanno concluso: – È un cristiano che sa dare ragione alla moglie. – 38 L’ATRA BOTTA In bricichetta jìa tranquillamente ‘i Sanginetu versu Capofella: serenu quietu calmu indifferente gudiennumi ‘a jurnata ch’era bella, quannu tutt’a na vota nu curnutu ch’era scisu - chisà - di Vierbicaru a cientu all’ura ‘ncuoddru m’è vinutu pigliannumi d’arrieti paru paru. ‘A botta ha fracomiàtu ‘a bricichetta ed haju strisciatu ‘nterra vinti metri ppe finiscia curcatu ‘ntr’a cunetta tuttu scartavitratu ‘i vricciu e petri. Ppe prima cosa haju dittu : “Forsi campu, e forsi ‘un tiegnu mancu nenti ‘i ruttu.” ‘U sangu mi currìa, ma cum’u lampu sinn’era già fujutu ‘u farabuttu. Andavo tranquillamente in bicicletta, da Sangineto verso Capofella, sereno quieto calmo indifferente, godendomi la bella giornata, quando improvvisamente un cornuto, scendendo – chi lo sa – da Verbicaro, mi è venuto addosso a cento all’ora, prendendomi in pieno di dietro. Il colpo ha fracassato la bicicletta, e ho strisciato a terra per venti metri finendo disteso nella cunetta, tutto scartavetrato dal ghiaietto e dai sassi. Per prima cosa ho detto: “Forse campo, e forse non ho niente di rotto.” Ero tutto insanguinato, ma il farabutto era già fuggito via come il lampo. 39 Ccu i frecce lampeggianti appiccicati si su’ fermati dua Samaritani. Parìanu chiù di mia meravigliati ‘i mi truvà ccu tutti l’ossa sani. “Ormai su criminale nunn’u piscu” haju dittu appena azàtu a quannu a quannu, “ma quannu vaju ringraziu a San Franciscu na cosa ‘a puozzu fà : cci ‘u raccummannu.” Con le frecce lampeggianti accese si sono fermati due Samaritani. Sembravano più meravigliati di me di trovarmi con tutte le ossa intere. “Ormai questo criminale non lo ritrovo” ho detto appena alzatomi a fatica da terra, “ma quando vado a ringraziare San Francesco posso fare una cosa: glielo raccomando.” 40 ‘A BOLLA Ccu l’anni e dopu tanti sacrifici m’haju fattu na villetta a ra marina. Mi piacia a cci ricevari l’amici ed ‘a vulissi vida sempre chjina, picchì si cose, m’ati ‘i senta a mmia, è bellu di s’i goda ‘ncumpagnia. Cussì l’amici venanu ‘i luntanu, mi fannu na sorpresa e ‘un mi nni lagnu. L’atru juornu zù Cicciu e zù Gatanu su’ vinuti a ssi fà nu bellu bagnu, presentannusi ccu ri rispettive, ‘un tantu giuvineddre, ma giulive. Iu ccu muglierma, cuntienti chi ti via, l’amu purtati subitu a ru mari, addui ni simu misi tutti i sia allegramente dintra a ci sguazzari, quannu purtata di na picca brezza è arrivata na bolla di schifezza. Con gli anni, e dopo tanti sacrifici, mi sono fatto una villetta al mare: mi piace ricerverci gli amici e la vorrei vedere sempre piena, perché queste cose, mi dovete credere, è bello godersele in compagnia. Così gli amici vengono da lontano, mi fanno una sorpresa e non me ne lagno. L’altro giorno zio Ciccio e zio Gaetano sono venuti a farsi un bel bagno, presentandosi con le rispettive, non proprio giovinette, ma giulive. Io e mia moglie, davvero contenti, li abbiamo portati subito al mare, dove tutti e sei ci siamo messi allegramente a sguazzare, quando, portata da un po’ di brezza, è arrivata una bolla di schifezza. 41 Iu vaju stippannu cessi ‘ntra Cusenza e vi puozzu cuntà di cchi si tratta picchì sacciu ‘a materia ppe esperienza. Sa robba si presenta tutta sfatta, ccu carta igienica ca si cci sminuzza e spanna ‘ntuornu n’ ammorbante puzza. S’era formata già na speci ‘i chiazza, ca ni paria na gigantesca palla, fatta d’uogliu, di sc-cuma e di famazza e nnua llà dintra aviamu ‘i stari a galla. “Scappamu”, haju dittu, quannu n’ha cuviertu e trascinatu viersu ‘u mari apiertu. Tri juorni e tri nottati sani sani àmu vutu passà ‘ntra chira bolla, sbattuti ‘i ccà e di ddrà ca mancu i cani ‘ntra n’acqua attaccaticcia cumu colla. ‘U quartu juornu, spinti d’u libecciu, n’amu ‘ncrociatu ccu nu pescherecciu. Io vado a sturare cessi per tutta Cosenza, e vi so dire di cosa si tratta, conoscendo la materia per esperienza. Questa roba si presenta tutta sfatta, con carta igienica che si ci sminuzza, e spande intorno una puzza pestifera. Si era già formata una specie di chiazza che mi sembrava una palla gigantesca, fatta d’olio, di schiuma e di minute immondizie, e noi là dentro dovevamo stare a galla. “Scappiamo”, ho detto, quando ci ha travolti e trascinato verso il mare aperto. Tre giorni e tre notti intere abbiamo dovuto passare dentro quella bolla, sbattuti bruscamente da un lato e dall’altro, in un’acqua attaccaticcia come colla. Il quarto giorno, spinti dal libeccio, ci siamo incrociati con un peschereccio. 42 Ccu tutta ‘a forza nostra àmu gridatu e fattu ‘u cchiù possibile rumuri cacciannu ‘a picca rimanente jatu, sinca n’hannu sintutu ‘i piscaturi. “Salvi”, àmu dittu chjini ‘i cuntentizza, mentri ni ricuglianu ‘ntra na rizza. I piscaturi l’hannu sbacantata diciennu “Mera me’, cchi pisci strani.” Allura iu, jittannu na gridata, “Cchi pisci?” haju dittu, “simu cristi-ani.” Hannu dittu “Sarà, però puzzati ed è miegliu perciò si vi lavati.” N’ hannu jittatu cati d’acqua ‘ncuoddru ppe ni sciacquari ‘i chira porcaria ca c’eramu tri juorni stati a muoddru, però, siccome ‘a puzza ‘un sinni jia, n’hannu vutu stricari ccu l’acitu, e finalmente ‘u bagnu amu finitu. Abbiamo gridato con tutta la nostra forza e fatto il maggior rumore possibile, buttando fuori il poco fiato che ci rimaneva, finché non ci hanno sentiti i pescatori. “Salvi” abbiamo detti pieni di contentezza, mentre ci raccoglievano dentro una rete. I pescatori l’hanno svuotata dicendo: “Guarda un po’, che pesci strani.” Allora io, con un grido, ho detto: “Che pesci? siamo cristiani.” Hanno detto “Sarà, però puzzate ed è meglio perciò se vi lavate.” Ci hanno buttato addosso dei secchi d’acqua per lavarci da quella porcheria in cui eravamo stati a mollo tre giorni, però, siccome la puzza non andava via, ci hanno dovuto strofinare con l’aceto, e finalmente abbiamo finito il bagno. 43 Quannu però sbarcatu n’hannu ‘nterra Gatanu ha dichiaratu “In cumpidenza iu n’atru bagnu ‘i chissi ‘un m’u facerra, ca preferisciu ‘u cavudu ‘i Cusenza.” Ma iu tiegnu ‘a villetta, e cci rimagnu, e mi rifriscu dintr’a vasca ‘i bagnu. Però quando ci hanno sbarcati a terra, Gaetano ha dichiarato: “In confidenza, un altro bagno così non lo farei, ma preferisco il caldo di Cosenza.” Io però ho la villetta e ci rimango, e mi rinfresco nella vasca da bagno. 44 SCIATICA Jittatu a nu funnu di liettu su cchiù di dua misi ca‘aspiettu ca m’ha di passari sa sciatica e cumu mi dola sa natica e cumu mi dola sa natica. N’amicu m’ha dittu: “Si cure lassàlle, ca sù fricature: ‘u vvì ca sa natica è viola e continuamente ti dola e continuamente ti dola? Ti ‘mparu, s’accietti cunsigli, ca forse ccussì ti ripigli, na fimmina ch’è chiropratica e ti massaggia sa natica e ti massaggia sa natica.” Gettato in fondo ad un letto, sono più di due mesi che aspetto che mi passi questa sciatica e come mi duole questa natica e come mi duole questa natica. Un amico mi ha detto “Queste cure lasciale, che sono fregature: non vedi che questa natica è viola e continuamente ti duole, e continuamente ti duole? Ti insegno, se accetti consigli, in modo che forse così ti riprendi, una donna ch’è chiropratica e ti massaggia questa natica, e ti massaggia questa natica.” 45 ‘A fimmina ‘i fisicu è grossa, quantunque, ccu n’agile mossa, a panza di sutta m’ha stisu sagliennumi ‘ncuoddru di pisu sagliennumi ‘ncuoddru di pisu. E pù ccu ri jìriti tuosti, puntati diritti ‘ntr’i cuosti faciennumi pérdari ‘u jatu vi juru ca m’ha massacratu vi juru ca m’ha massacratu. Li signu fujutu di sutta diciennuli: “Vat’a fa futta” e stativi puru sicuri ch’è miegliu a ssi tena ‘u duluri ch’è miegliu a ssi tena ‘u duluri. La donna ha un fisico robusto, comunque, con un’agile mossa, mi ha disteso a pancia in giù, salendomi addosso con tutto il suo peso, salendomi addosso con tutto il suo peso. E poi, con le dita dure puntate diritte nelle mie costole, facendomi pedere il fiato, vi giuro che mi ha massacrato, vi giuro che mi ha massacrato. Le sono scappato di sotto dicendole: “Vai a farti fottere.” E statevi pure sicuri che è meglio tenersi il dolore, che è meglio tenersi il dolore 46 ‘A NASCITA (del primo nipote) Dopu si nove misi capu sutta, ccu nenti ‘ncuoddru, mancu nu pigiama, e ppe v’a dìcia veramente tutta senza mancu nu granni panorama, all’urtimu a ra fine signu natu e prim’i tuttu m’hannu scutuliatu. A ra clinica, dintr’a nu scompigliu ‘i miedici ca c’eranu venuti, iu cci haju truvatu i dua ca l’era figliu e n’atri dua ca iu l’era niputi, ca dintra su grannissimu burdellu mi ripetìanu: “Bellu, bellu, bellu!” A ru momentu ‘i mi dunà nu numi c’è statu d’opinioni nu divariu, hannu discussu e ppe circari lumi hannu sfogliatu tuttu ‘u calennariu : finalmente, mintiennusi di ‘mpiegnu hannu truvatu ‘u numi, ed iu m’u tiegnu. Dopo questi nove mesi a testa in giù, senza niente addosso, neanche un pigiama, e per dirvela davvero tutta, senza neanche un grande panorama, infine sono nato, e prima di tutto mi hanno dato degli scossoni. Nella clinica, in uno scompiglio di medici che erano venuti lì, io ci ho trovato i due a cui ero figlio e altri due a cui ero nipote, che, in questa grandissima confusione, mi ripetevano: “Bello, bello, bello.” Al momento di darmi un nome c’è stato un divario di opinioni, hanno discusso e per cercare lumi hanno sfogliato tutto il calendario: finalmente, mettendosi d’impegno, hanno trovato il nome, ed io me lo tengo. 47 Dopodicchè, ppè completà ‘u programma, c’era ‘a scelta d’a chini arrisimigliu. “A mia”, Mamma dicìa, “ca signu ‘a mamma” “A mia”, dicìa Papà, “picchì m’è figliu”, ma Nonna ha dittu, risolviennu ‘u casu, “L’uocchi d’a mamma, ma d’u patri ‘u nasu” . Pù c’è stata na fila di parienti e amici ccu bavette e ccu tutine e Mamma, ppe ri fa restà cuntienti, ccu supr’u liettu cincu o sia cugine, ‘u travagliu d’u partu, senza sbagli, cci ’ha cuntatu ‘ntr’i minimi dettagli. Tutta sa sofferenza ppe nu figliu m’ha fattu stà na picca preoccupatu, ca di notte m’a suonnu e mi risbigliu. Però Nonnu Franchinu m’ha acquetatu, “Ch’i masculi”, m’ha dittu bellu bellu, “tenanu sulu ‘u ‘mpicciu d’u pisellu.” Dopodicché, per completare il programma, c’è stata la scelta di a chi somiglio: “A me”, diceva Mamma, “perché sono la mamma”, “A me”, diceva Papà, “perché m’è figlio.” Ma nonna ha detto, risolvendo il caso: “Gli occhi sono della mamma, ma il naso del padre.” Poi c’è stata una fila di parenti e amici con bavette e con tutine, e mamma, per farli restare soddisfatti, con cinque o sei cugine sul letto, il travaglio del parto, senza nessun errore, glielo ha raccontato nei minimi dettagli. Tutta questa sofferenza per un figlio mi ha fatto restare un po’ preoccupato, e adesso me la sogno di notte e mi sveglio. Però Nonno Franchino mi ha acquietato, “Perché i maschi”, mi ha detto tranquillamente, “hanno solo il fastidio del pisello.” 48 L’UORTU ABBANNUNATU (una concessione alla lirica) L’UORTU ABBANNUNATU C’è nu prufumu ‘i zagara ‘ntra l’uortu abbannunatu, addui sténnanu i niespuli i rami ‘ntra l’aranci. Papà Luigginu è muortu cum’oji ca fa cinc’anni e mò servaggia criscia l’urtica dintra all’uortu. Ddrà dintra m’arricuordu ‘ntra nu ricuordu vagu, ‘i na sipàla virdi ccu chiante rampicanti e juri ca scinnìanu i muri muri, janchi. E ‘u giallu d’i limuni brillava ddrà ppe mia ‘u misi ‘i marzu ancora i juorni ca chiuvìa. Ma mò l’urtica criscia mmisc-cata ‘ntr’u giardinu ccu ‘a rosa, cc’u geraniu e ccu ru petrusinu. C’è un profumo di zagara nell’orto abbandonato, dove i nespoli stendono i rami tra gli aranci. Nonno Luigino è morto giusto cinque anni fa, e adesso l’ortica cresce selvaggia nell’ orto. Là dentro mi ricordo, con un ricordo vago, di una siepe verde di piante rampicanti, con fiori che scendevano bianchi lungo i muri. E il giallo dei limoni che brillava per me, ancora il mese di marzo, nei giorni di pioggia. Ma adesso l’ortica cresce selvaggia nel giardino, con la rosa, con il geranio e con il prezzemolo. 51 ‘U PINU ‘I SAN DANIELE (Davanti al convento di San Daniele, a Belvedere Marittimo) Ohi pinu ‘i San Daniele, tu ca stienni si duluruse vrazza vers’u cielu, nìvure vrazza ca portanu atri vrazza, ccu cientu vrazza ancora ‘nturciniate, vrazza ‘mpuse di l’acqua dintr’u viernu e vrusciate d‘u suli dintr’a state, tu ca sì statu ccà cchiù di cient’anni, sutt’a sa corchia tutta raggrinzita ha’ vutu vì passà cchiù di na vita. Vite di picciriddri zumpettiate vite fatti d’attese ‘i ‘nnammurati vite ccu l’ansietà di patri e matri, vite di nanni ormai troppu campate e vite ‘i picciriddri n’atra vota, una d’arrieti all’atra, ‘ntra na rota. O pino di San Daniele, tu che stendi queste dolorose braccia verso il cielo, nere braccia che portano altre braccia con cento braccia ancora attorcigliate, braccia bagnate dall’acqua d’inverno e bruciate dal sole d’estate, tu che sei stato qua più di cent’anni, sotto questa corteccia tutta raggrinzita hai dovuto veder passare più di una vita. Vite di bambini passate saltellando, vite fatte d’attese di innamorati, vite con l’ansietà di padri e madri, vite di nonni ormai vissute troppo a lungo, e di nuovo vite di bambini, una dietro l’altra, in un continuo. 52 MARI D’AGUSTU (Da villa “Le terrazze” a Cittadella del Capo) Mè cchi mari d’agustu scintillanti, e mmè quanti culuri ca ci sunnu d’u virdi cchiù sfumatu e cchiù distanti a ru viola cchiù scuru e chiù prufunnu, mè i strisce di smeraldu d’i correnti, ca svelanu diamanti dintra l’unne quannu a riva si rumpanu lucenti e disegnanu janche forme tunne. Viàti i pisci, ca natanu di sutta a sa festa di luci e di culuri, l’ acieddri ca sa pònnu goda tutta e viàti davèru i piscaturi ppe ‘a picca ca li resta dintr’a rizza ‘i s’acqua luccicanti di ricchizza. Guarda che mare d’agosto scintillante, e guarda quanti colori ci sono, dal verde più sfumato e più distante al viola più scuro e più profondo, guarda le strisce di smeraldo delle correnti che svelano diamanti dentro le onde quando a riva si infrangono lucenti e disegnano bianche forme rotonde. Beati i pesci che nuotano sotto questa festa di luci e di colori, gli uccelli che possono godersela tutta e beati davvero i pescatori per quel poco che gli resta nella rete di quest’acqua luccicante di ricchezza. 53 CARRUMAGNU (Nella Sila Grande, tra Camigliatello e Lorica) A Carrumagnu, i massi di granitu cumu vòi d’a preistoria redivivi durmìanu di nu suonnu mai finitu ‘n circhiu sutta ari faghi dintra ‘a nivi, quannu nu solitariu sciaturi, ccu nuddru ppe chilometri ddrà ‘ntuornu, s’ avvicinava senza fà rumuri ‘ntr’u suli ‘i nu silanu mienzijuornu. ‘U vòi cchiù viecchiu, ccu ra capu azata, s’è misu a riminiari a granni cuda, e vers’u vuos-cu ‘a mandria s’è sbiata, ccu ri vitieddri appriessu ppe ra chiuda, ed è sparita cumu a nu miraggiu ppe continuà nu millenariu viaggiu. A Carlomagno i massi di granito, come buoi preistorici redivivi, dormivano di un sonno mai finito in cerchio sotto i faggi, nella neve, quando un solitario sciatore, con nessuno intorno per chilometri, si avvicinava silenziosamente nel sole di un mezzogiorno silano. Il bue più vecchio, alzando la testa, ha cominciato ad agitare la grande coda e la mandria s’è avviata verso il bosco, con i vitelli dietro a chiuderla, ed è sparita come un miraggio per continuare un viaggio millenario. 54 TIMPUNE ‘A STIDDRA (Sulla Sila, tra Monte Scuro e Monte Curcio) Cumu lameddre d’oru supra ‘a nivi si sunnu i foglie ‘i fagu sparpagliate e di nu suli chiaru cum’a state i culuri riflettanu cchiù vivi. Hannu patutu tutti i mali vienti, ‘a neglia, ‘u friddu di nu viernu amaru, e mò, ’ntra l’aria fina di frevàru, su’ diventate quasi trasparienti e stannu dintr’a nivi ca si scioglia e mannad’i riflessi d’i diamanti e ‘ntra na festa ‘i luci scintillanti l’acqua ca curra chianu s’i ricoglia e purtannule adduvi vò ra sorte l’arricorda ca sunnu foglie morte. Come làmine d’oro le foglie di faggio si sono sparse sulla neve e riflettono più vivi i colori di un sole chiaro come l’estate. Hanno sofferto tutti i peggiori venti, la nebbia, il freddo di un inverno amaro, e adesso, nell’aria fina di febbraio, sono diventate quasi trasparenti e stanno nella neve che si scioglie mandando i riflessi dei diamanti e con una festa di luci scintillanti l’acqua che scorre piano le raccoglie e portandole dove vuole la sorte ricorda loro che sono foglie morte. 55 I JUORNI D’A TORTORA Ntra chiri juorni ddrà cantava ‘a tortora ccu nu continuu rùocculu d’amuri, nu cantu ca passava supra all’alberi e ca stàvamu a séntari ppe d’uri. Ohi state longa state di silenziu ‘i mari calmu e vividi culuri, tu cantavi ppe mmia cumu na tortora ed iu ti stavu a séntari ppe d’uri. Nu cantu ca restava dintra all’aria cumu a nu luongu chiantu scunsulatu, cantava di l’amuri di na tortora, d’a gioia di nu tiempu ch’è passatu e ch’ha lassatu sulu na tristezza. Ma tu stavi ccu mmia chjina ‘i bellezza. In quei giorni cantava la tortora, con un continuo lamento d’amore. Un canto che passava al di sopra degli alberi e che stavamo ad ascoltare per delle ore. Estate, lunga estate di silenzio, di mare calmo e vividi colori, tu cantavi per me come una tortora e io ti stavo ad ascoltare per delle ore. Un canto che restava nell’aria come un lungo canto sconsolato, cantava dell’amore di una tortora, della gioia d’un tempo ch’è passato e che ha lasciato solo una tristezza. Ma tu stavi con me piena di bellezza. 56 ‘A CHITARRA (A mio cognato Salvatore) Mintìtili a ri manu na chitarra e subitu ‘u viditi trasformatu : ccu su strumientu para ca vi parra e mai putìati dì ch’è n’avucatu. Ccu accordi in fa minore e sol maggiore iddru si resta ddrà piezzi ‘i sirati, e si na picca ci mintiti ‘u core vi fa para ca puru vùa sunati. Viniti ppe ru sentari sunari supr’a su patiu, na sirata ‘i stati mentri ca scinna ‘u scuru supr’u mari e dintr’a chiss’accuordi cci truvati chiru suli c’antura ddrà lucia e ‘ncuna nota di malincunia. Mettetegli in mano una chitarra e subito lo vedrete trasformato: sembra che con questo strumento vi parli e non direste mai che è un avvocato. Con accordi in fa minore e sol maggiore resta là per intere serate, e se ci mettete un po’ di sentimento, vi fa sembrare che anche voi suonate. Venite per sentirlo suonare su questo patio, una serata d’estate mentre scende il buio sul mare, e dentro questi accordi ritroverete quel sole che poco prima lì brillava e qualche nota di malinconia. 57 I CUMPAGNI Cumpagni mia d’a quinta ginnasiali, è n’emozioni ppe daveru granni ca mi piglia a ru core e mi fa mali a vi rivida dopu… quarant’anni. Ohi quanti fatti, quanta nustalgia, quanti momenti belli ricurdati i chiri juorni d’u sessantatria passati ‘nsieme cumu suoru e frati! I numi ‘i chissu e chiru prufissuri facìmu a gara a chini i dìcia ‘u primu, i feste, i dischi, i balli, ‘u prim’amuri, l’amicizia d’a nostra ca ‘un cc’è cchiù, e nun vulìmu ammetta ca l’avimu persa ppe sempre, cumu ‘a gioventù. Compagni miei di quinta ginnasio, è davvero un’emozione grande, che mi prende al cuore e mi fa male, rivedervi dopo…. quarant’anni. Quanti fatti, quanta nostalgia, quanti momenti belli che ci ricordiamo di quei giorni del sessantatre, passata insieme come sorelle e fratelli! Facciamo a gara a chi dice per primo i nomi di questo e quel professore, e le feste, i dischi, i balli, il primo amore, la nostra amicizia che non c’è più, e non vogliamo ammettere che l’abbiamo persa per sempre, come la gioventù. 58 IL MAESTRO (Per la morte del padre di carissimi amici) Dopu ch’ è morta Mamma Papà è rimastu sulu, ma appriessu ad iddra l’anima vulìa pigliari ‘u vulu e cumu ‘ntra na neglia n’ha fattu giri e giri prima ‘i putì truvari ‘a via ppe si nni jiri. All’urtimu è partutu e nenti s’è purtatu sulu ‘u vestitu buonu, na picca consumatu e i scarpe, ca ccussì pò caminà luntanu, versu i scole d’u cielu, ed è perciò ch’i manu li su’ rimaste ferme dintra a chir’attu stessu ca iddru ppe tant’anni cci ‘ avìa tinutu ‘u gessu. Dopo la morte di Mamma Papà e rimasto solo, ma la sua anima voleva prendere il volo dietro di lei e come nella nebbia girava intorno senza poter trovare la strada per andarsene. Infine è partito e non si è portato niente, solo il vestito buono un po’ consumato e le scarpe, così può camminare lontano, verso le scuole del cielo, ed è per questo che le mani gli sono rimaste immobili in quell’atto stesso che egli per tanti anni ci aveva tenuto il gesso. 59 ‘U RIZZU Tenìennusi i manuzze supra all’uocchi è muortu ‘u rizzu, quietu ‘ntr’a nuttata, dintr’a sc-catula ‘i scarpe ‘ncuoppulata addui l’avìamu misu pper riparu d’u vientu friddu d’a sira di frevàru. L’avìa truvatu Pietru ammienzu ‘a via, appallottatu mentri ca durmìa. L’avìa dunatu nu piattieddru ‘i latte e pù l’avia tinutu ‘ntr’u giardinu pensannussi ca ‘u rizzu era malatu e ca forsi ‘u circavad’a cumpagna. ‘U rizzu però è muortu ‘ntr’a nuttata e l’àmu sutterratu a ra campagna. Tenendosi sugli occhi le piccole mani è morto il riccio, quieto durante la notte, nella scatola di scarpe capovolta dove l’avevamo messo per ripararlo dal vento freddo una sera di febbraio. L’aveva trovato Pietro per la strada, mentre dormiva appallottolato. Gli aveva dato un piattino di latte e l’aveva fatto dormire nel giardino, credendo che il riccio fosse malato e che forse lo cercava la sua compagna. Però il riccio è morto durante la notte e l’abbiamo sotterrato nella campagna. 60 ‘NTRA CUSENZA ‘I L’ALDILÀ ‘NTRA CUSENZA ‘I L’ALDILÀ Canto I M’era jutu a curcà ccu nu malore ca mi tuccava ‘u stomacu e ra panza e chianu chianu mi saglìa a ru core. ‘Un ci haju vulutu dà nuddra importanza, però, ca mancu mi nni signu accuortu, mi signu risbigliatu ch’era muortu. D’a finestra trasìa na picca luci, putìa essa ‘a prim’ura d’a matina. Vulìa chiamà, ma nu ‘mm ‘escìad ‘a vuci, a muglierma curcata ddrà vicina, ca siccome ‘unn’avìa sintutu nente intantu s’a russava allegramente. Haju dittu: “Signu muortu. Allura aspiettu.” E signu statu n’ura e mmenza o dua quietu senza mi mova dintr’u liettu, sinca muglierma, ppe ri fatti sua, ‘un s’è comodamente risbigliata e m’ha chiamatu ccu na gumitata. Ero andato a letto con un malessere che mi prendeva lo stomaco e il ventre, salendomi piano piano fino al cuore. Non ho voluto dargli nessuna importanza, però, senza neanche accorgermene, mi sono svegliato che ero morto. Dalla finestra entrava un po’ di luce, poteva essere mattina presto. Volevo chiamare mia moglie ch’era coricata vicino, ma non mi usciva la voce, e lei, non avendo capito niente, intanto se la russava allegramente. Mi sono detto: “Sono morto. Allora aspetto.” E sono stato un’ora e mezza o due quieto senza muovermi nel letto, finché mia moglie non si è comodamente svegliata per i fatti suoi e mi ha chiamato con una gomitata. 63 Iu nenti, fermu, mi nni stava cittu ed iddra, ch’avìa persu ra pacienza, m’ha ‘mpacchiatu dua cavuci a dirittu e ppe si minta ‘mpaci a ra cuscienza m’ha pizzulatu ca m’ha fattu russu e m’ha datu nu buffu dintr’u mussu. A ra fine, a capiscia ha cuminciatu ca cc’era ‘ncunu fattu ca jìa stuortu. Iu mi nni stava fermu ‘ntisicatu ca mi spagnava ‘i dicia ch’era muortu: ma cumu si nn’è accorta ha strepitatu e n’atra vota o dua m’ha pizzulatu. Ha dittu: ”Chissu ‘u mm’avìa fattu ancora, ca cumu mi ripuosu nu momentu, si minta bellu bellu e mi va mora: vò dì ca ‘un tèna propriu sentimientu. Mò, prima ca mi s’inchia ‘a casa ‘i gente haju ‘i fuja ppe mmi fà na permanente.” Io niente, fermo, me ne stavo zitto, e lei, avendo perso la pazienza, mi ha tirato direttamente due calci, e per mettersi in pace la coscienza mi ha pizzicato facendomi diventare rosso e mi ha dato uno sganassone sui denti. Infine, ha cominciato a capire che c’era qualcosa di storto. Io me ne stavo fermo e immobile, avendo paura di dire che ero morto: ma lei, appena se n’è accorta, ha dato in strepiti e mi ha pizzicato un’altra volta o due. Ha detto: “Questo non me l’aveva ancora fatto, che appena cerco di riposarmi un attimo, senza farsene alcun problemia mi muore: vuol dire che non ha davvero senso comune. Ora, prima che la casa mi si riempia di gente, devo correre per farmi fare una permanente.” 64 Iu, dopu ca muglierma si nn’è isciuta, mi vulìa stà abbentatu nu minutu, quannu a nna vota ‘a porta s’ è raputa, ‘i ddrà nu bellu giuvini è trasutu, vistutu ‘i jancu, ccu nu bell’aspiettu, e s’èdi avvicinatu versu ‘u liettu. Ha pigliatu na seggia, s’è assittatu e m’ha sintutu ‘u core attentamente, s’è statu a vida si m’escìadi ‘u jatu e all’urtimu m’ha dittu “Nunn’è nente. Però sì muortu. Pigliati ‘i pacienza e jamuninni ‘nzieme di Cusenza.” L’haju dittu allura ccu nu filu ‘i vuci : “Tu chini sì? Cchi va circannu ‘i mia?” Faciennusi nu bellu signu ‘i cruci “Signu n’Angilu”, ha dittu,”bonusìa. Mò t’accumpagnu ppe ti fa curaggiu ca chini mora parta ppe nu viaggiu.” Dopo che mia moglie era uscita, io volevo stare un minuto a riposarmi, quando improvvisamente la porta si è aperta, di là è entrato un bel giovane, vestito di bianco, con un bell’aspetto, e si è avvicinato verso il letto. Ha preso una sedia, si è seduto e mi ha sentito attentamente il cuore, è stato a vedere se mi usciva il fiato e infine ha detto: “Non è niente, però sei morto. Adesso abbi pazienza, e andiamocene insieme da Cosenza.” Gli ho detto allora con un filo di voce: “Tu chi sei? Cosa cerchi da me?” Facendosi un bel segno di croce: “Sono un Angelo, ha detto, per l’amor di Dio. Adesso ti accompagno per farti coraggio, perché chi muore parte per un viaggio.” 65 “Ppe jìri adduvi?” allura haju addimmannatu. “Ppe jìri addui si tèna nu giudiziu. Chiru ca’ha fattu, vena giudicatu juornu ppe juornu, a parta di l’iniziu. E ddrà, si sì truvatu piccaturi, và pati pene eterne ccu duluri.” Ccu sa priedica curta, ma cunchiusa m’avìa ‘mparatu a ru destinu miu, ca senza cchiù truvari nuddra scusa m’avìa di presentà davanti a Ddiu. M’ha fattu azari e ni nni simu juti, senza juri, nnè chianti, né saluti. “Per andare dove?” allora ho chiesto. “Per andare dove si tiene un giudizio. Quello che hai fatto viene giudicato, giorno per giorno, partendo dall’inizio. E là, se sei trovato peccatore, andrai nel dolore a patire pene eterne.” Con questa predica corta, ma sensata, mi aveva fatto capire il mio destino, che senza più trovare nessuna scusa dovevo presentarmi davanti a Dio. Mi ha fatto alzare e ce ne siamo andati, senza fiori, né pianti né saluti. 66 Canto II Senza parrari simu isciuti fora. Jazzava. Facìa friddu. Era ‘n piggiama, ca s’unn’era già muortu, putìa mora, e l’Angilu ti sientu ca mi chiama ppe mi dicia ca senza esitazione n’avìamu di dirigia a ra stazione. Cadìa na pioggiarella fina fina, vineddre e case n’eranu ammollate e dintra ‘a luci fridda d’a matina si nni stavanu cumu ammunzellate. Quannu signu arrivatu, muoddru e ‘mpusu, a ra stazione c’era tuttu chiusu. A nu cartieddru c’era scrittu: “Orariu. Partenza: viersu i sette d’a matina.” Ma cumu m’haju affacciatu a ru binariu ‘un si vidìa nissuna littorina né ppe l’arrivu né ppe ra partenza dintr’a stazione ‘a ferrovia ‘i Cusenza. Senza parlare siamo usciti. C’era il gelo. Faceva freddo. Ero in pigiama, che se non ero già morto, ci potevo morire, e sento l’Angelo che mi chiama per dirmi che senza esitare dovevamo dirigerci alla stazione. Cadeva una pioggerella fine fine, stradine e case ne erano intrise e nella luce fredda della mattina se ne stavano come ammucchiate. Quando sono arrivato, bagnato fradicio, alla stazione era tutto chiuso. Un cartello recava la scritta: “Orario. Partenza: verso le sette di mattina.” Ma, affacciandomi al binario, non si vedeva nessuna littorina né in arrivo né in partenza, nella stazione ferroviaria di Cosenza. 67 Ha dittu l’Angilu: “È troppu priestu. Allura iu mi jissi pigliassi nu cafè. Tu statti ccà assittatu na menz’ura, tantu, sì muortu, e pressa nun ci nn’è. Anzi, ti dicu, vaju fazzu colazione e ‘ntantu tu m’aspietti a ra stazione.” L’haju dittu: “Mè, mi truovu ccà dijunu, e nu cafè pur’ iu vulissi, armènu, ch’è troppu priestu, e ancora ‘un c’è nissunu.” “Tu stattti ccà, sinnò pù perda ‘u trenu”, iddru ha rispusu, “Ca a dicia ‘a verità ‘un s’è mai vistu ch’i muorti hannu ‘i mangià.” L’Angilu si n’è jutu bieddru bieddru, iu m’haju fattu nu giru ‘ntr’a stazione e a nna vota ti vìu a nu viecchiarieddru ca mi stava guardannu ccu attenzione, cà a na rasa ‘i panchina era assittatu, ccu nu cappottu tuttu arripezzatu. L’angelo ha detto: “È troppo presto, quindi io andrei a prendere un caffè.Tu rimani qui seduto una mezz’ora, tanto sei morto e non c’è fretta. Anzi, ti dico, vado a fare colazione mentre tu mi aspetti alla stazione.” Gli ho detto: “Guarda, mi trovo qui digiuno, e anch’io prenderei almeno un caffè, visto ch’è troppo presto e ancora non c’è nessuno.” “Tu rimani qui, sennò puoi perdere il treno, quello ha risposto, che per la verità non s’è mai visto che i morti debbono mangiare.” L’angelo se n’è andato tranquillamente, io ho fatto un giro nella stazione e d’improvviso vedo un vecchietto che mi guardava con attenzione, seduto all’angolo di una panchina e vestito con un cappotto tutto rattoppato. 68 “Nannù, buongiorno”, haju dittu ccu rispiettu, “Cchi sta faciennu ccà ‘a matina priestu?” “Cchi fazzu? Su tri juorni mò ca’aspiettu”, iddru ha rispusu, “e ancora mi cci riestu, ch’ha dittu l’Angilu di nun fà casinu mentri si jìa a piglià nu cappuccinu.” “Ma tu”, l’haju dittu” allura sì defuntu?” “Sini” ha rispusu “grazzie a ru Signuri. Mò na trentina d’anni mi vaju scuntu in Purgatuoriu, ccu pene e ccu duluri. Sulu ca staju aspittannu di tri juorni e l’Angilu ‘un si vida ‘ntr’i dintuorni.” “Forsi l’Angilu ‘i tia si nn’ è scurdatu” haju dittu, “vì ca chissu ha d’essa ‘u fattu, ca m’è parsu na picca indaffaratu e quannu si nn’è jutu s’è distrattu, ca jennu ‘ngiru ppe chiamà defunti all’urtimu si ponnu perda i cunti.” “Buongiorno, Nonnino,” ho detto rispettosamente, “cosa fai qui di mattina presto?” “Che faccio? Adesso sono tre giorni che aspetto,” ha risposto, “e ancora ci devo restare, perché l’Angelo ha detto di non fare chiasso mentre andava a prendere un cappuccino.” “Ma tu”, gli ho detto, “allora sei un defunto?” “Si” mi ha risposto, “grazie a Dio. Ora vado a scontare una trentina d’anni in Purgatorio, tra pene e dolori. Solo che sto aspettando da tre giorni e l’Angelo non si vede in giro.” “Forse l’Angelo si è scordato di te” ho detto, “questo dev’essere il motivo, perché mi è sembrato un po’ indaffarato e quando se n’è andato si dev’essere distratto, perché andando in giro a chiamare defunti, all’ultimo si possono perdere i conti.” 69 “Allura cchi facìmu?” ‘u viecchiu ha dittu. A mmia, ‘u pensieru di trent’anni ‘i pena ‘un tantu m’era jutu ppe dirittu. Perciò l’haju dittu: “ L’Angilu nun vena. Nua simu suli ccà. Perciò, Nannù, fujìmuninni e ‘un ci pensamu cchiù.” “Signu jutu fujiennu ppe na vita”, m’ha dittu ‘u viecchiu, “ppe si rase rase. Signu stancatu, e mò ca l’haju finita, e m’haju ricùotu si picca rrobbe spase mi vuogliu restà ccà bellu serenu e quannu vena l’ura, pigliu ‘u trenu.” “Va buonu”, haju dittu, “allura ti ci lassu, però fammi capiscia a ru motivu ca t’ha fattu decida a fà su passu. Iu doppu mi nni fùju, o muortu o vivu. Ma ppe na picca ti fazzu cumpagnìa si tu mi cunti ‘a vita ca facìa.” “Allora cosa facciamo?” ha detto il vecchio. A me il pensiero di trent’anni di pena proprio non andava giù. Perciò gli ho detto: “L’Angelo non viene. Noi qui siamo soli. Perciò, Nonnino, fuggiamo via e non ci pensiamo più.” “Sono andato fuggendo per una vita, il vecchio ha detto, da un luogo all’altro. Sono stanco, e adesso che è finita e ho raccolto queste poche cose sparse, voglio restare qui tranquillamente e quando viene l’ora prendo il treno.” “Va bene“, ho detto, “allora ti ci lascio, però fammi capire il motivo che ti ha fatto decidere a fare questo passo. Io dopo scappo via, morto o vivo, ma ti farò compagnia per po’ se tu mi racconti la vita che facevi.” 70 Canto III Iddru ha rispusu: “Haju fattu ‘u mastru ‘i scola. Perciò mi vidi tuttu arripezzatu. Ppe quarant’anni m’haju strudùtu ‘a gola e cussì di campà m’haju guadagnatu. Tenìa na cosa sula ppe m’a vinna, l’arti ‘i fa quattru signi ccu ra pinna. Ppe fà chissu, pigliava nu salariu ‘i cincucientumila lire ‘u misi. Ppe mi cumprà nu piezzu di vestiariu quannu mai mille lire mi l’haju spisi! Ca tra ‘u fittu d’a casa e ru mangiari ‘unn’avìa mai na lira ppe campari. Quannu ‘u poeta parra, parra chiaru: si n’atra vota nàsciari putissi, chianchieri mi facissi o tavernaru. I piccati ca tiegnu sunnu chissi: a ra scola, a ri turdi, a ri crapùni iu l’unchiava di sc-caffi e buffettuni. Ha risposto: “Ero un maestro di scuola. Perciò mi vedi con gli abiti rattoppati. Per quarant’anni mi sono consumato la gola, e così mi sono guadagnato da vivere. Avevo una sola cosa da vendere, l’arte di fare pochi segni con la penna. Per far questo, prendevo uno stipendio di cinquecentomila lire al mese. Quando mai ho speso mille lire per comprare un qualsiasi vestito! Ché tra il fitto di casa e la spesa non avevo mai una lira per vivere. Quando il poeta parla, parla chiaro: se potessi nascere di nuovo, diventerei macellaio o oste. I miei peccati sono questi: a scuola i somari, i caproni, io li gonfiavo di schiaffi e scappellotti. 71 E n’haju giratu scole scancarate ! ‘A scola mia si trovadi a Turzanu, e si putìanu sentari ‘i gridate stànnusi tri chilometri luntanu. Ca ti vulissi vida cchi cci ‘mpari a trentacincu figli di crapari.” “Ma chissi”, haju dittu, “‘un paranu piccati, ca si jamu guardannu veramenti paccarià guagliuni scustumati ‘u cchiù di voti ‘un dìcia propriu nenti: l’escia d’a stessa ricchia ca li trasa, e cuntienti s’i portanu a ra casa.” ‘U viecchiu ha dittu: “Tu tieni raggiuni, considerannu ca ppe n’esistenza haju sempre combattutu ccu crapuni forsi mi puozzu liberà a cuscienza. Forsi piccati gravi unn’avìa fatti, ma pù c’è stat ‘u fattu d’a Moratti. E ne ho visto di scuole sgangherate! La mia scuola si trova a Borgo Partenope, e si potevano sentire gridare gli alunni da tre chilometri di distanza. Perché vorrei vedere cosa potresti insegnare a trentacinque figli di caprai.” “Ma questi”, ho detto, “non sembrano peccati, perché se guardiamo con attenzione, prendere a scappellotti dei ragazzacci maleducati è davvero cosa da niente: gli esce dalla stessa orecchia da cui gli entra e contenti se li portano a casa.” Il vecchio ha detto: “Hai ragione. Considerando che per un’esistenza ho sempre combattuto con caproni, forse la mia coscienza è libera. Forse non ho fatto peccati gravi, a parte la storia della Moratti. 72 Chissa, di na famiglia ‘i petrolieri avìa pensatu ‘a scola di cangiari e aviennuci jittatu cchiù pensieri ha dittu ca ppe curra a ri ripari azàva ‘u priezzu d’ a sira a ra matina cumu s’era na pompa di benzina A ri ciucci avia dittu ccu d’orgogliu ca nun l’avianu di cuntà l’assenze ma iddra li dunava ‘u portafogliu addui ci avìanu ‘i minta i competenze. Haju dittu: “Chissa, nun s’a passa liscia, ca quannu ‘u tiempu vena, s’ha d’agiscia.” Stannu a Turzanu, grazie a ru Signuri, na cosa ca nun manca è ru litame. Si trova ‘ntr’i catuoji, ‘i nu culuri nivuru cum’a pici e ru catrame. N’inchiu dua buste senza fà ciroma, mi pigliu ‘u trenu e partu versu Roma. Questa, di una famiglia di petrolieri, aveva pensato di cambiare la scuola, e dopo averci sprecato molti pensieri ha annunciato che per correre ai ripari alzava il prezzo dalla sera alla mattina, come se fosse una pompa di benzina. Ai somari aveva detto con orgoglio che non bisognava contare le assenze, ma che lei gli avrebbe dato il portafoglio dove dovevano mettere le competenze. Ho detto: “Questa non la passa liscia, che quando è tempo, occorre agire.” Stando a Borgo Partenope, grazie a Dio, una cosa che non manca è il letame: si trova nei porcili, di un colore nero come la pece e il catrame. Ne riempio due buste senza fare chiasso, mi prendo il treno e parto verso Roma. 73 Signu arrivatu di matina priestu ccu ri dua buste, ca ppe dicia ‘u veru, iu cci avia fattu dintra puru ‘u riestu. Mi signu sbiatu versu ‘u ministeru, una a ra destra e l’atra a ra sinistra ed haju aspettatu ca venia ‘a Ministra. Chissa è arrivata versu mienzijuornu, ccu na mercedes e tantu di sciaffèr, ccu ri tivvù e i giornalisti ‘ntuornu, vistuta ‘i nu bellissimu tajèr. Iu l’haju mirata a ra pirsuna augusta, e l’haju centrata ccu ra prima busta. Iddra ha duvutu subitu capiscia ca si trattava ‘i na materia vile, probabilmente mancu propriu liscia, ‘i friscu prelevata ‘i nu porcile. Ha jettatu na stridula gridata e ccu ‘a sicunna busta l’haju centrata. Sono arrivato la mattina presto, che nelle due buste, a dire il vero, io ci avevo fatto dentro anche il resto. Mi sono avviato verso il Ministero con una busta alla destra e una alla sinistra, ed ho atteso che arrivasse la Ministra. Questa è arrivata verso mezzogiorno, con una mercedes e tanto di autista, con le tivù ed i giornalisti intorno, vestita di un bellissimo tailleur. Io l’ho mirata alla persona augusta e l’ho centrata con la prima busta. Lei ha dovuto subito capire che si trattava di materia vile, probabilmente non del tutto liscia, prelevata di fresco da un porcile. Ha lanciato uno stridulo grido, e con la seconda busta l’ho centrata. 74 ‘Nterra è caduta cumu fussi morta ccu certi spasmi ca ‘unn’avia mai visti, allordannu ‘i letame tutt’a scorta e puru a ri i tivvù e i giornalisti ca l’occasione ‘un si vulianu perda ‘i fa vida ‘a Moratti dintr’a mmerda.” È caduta a terra come morta, con spasmi mai visti, sporcando di letame tutta la scorta, insieme con le tivù e i giornalisti che non volevano perdere l’occasione di mostrare la Moratti nella merda.” 75 Canto IV ‘U viecchiu avia finitu tannu tannu ca a nna vota t’arriva ‘ntr’a stazione na machina a vapore sferragliannu ca trascinava n’unicu vagone, addui scompostamente ammunzeddrati c’eranu dintra cientu e cchiù dannati. Si sintìanu di ddrà gridate e chianti mmisc-cati ccu terribili jìstime e fisc-chi ‘i bacchettate sibilanti ca nunn’avìanu d’essa state i prime, ca ‘ntuornu distribuìanu volentieri tri diavoli vistuti ‘i ferrovieri. Nu diavulu, di supra a ru convogliu m’ha dittu : “Ppe piaciri, ccà addui simu? Picchì ccù su burdellu e ccù su ‘mbruogliu finiscia ca cartieddri ‘u nni vidimu.” Iu, senza ci pensari, paru paru, haju rispusu: “Ccà simu a Catanzaru.” Il vecchio aveva appena finito, che all’improvviso arriva in stazione sferragliando una macchina a vapore, che trascinava un unico vagone, in cui ammucchiati scompostamente c’erano cento e più dannati. Da lì si sentivano provenire pianti e grida, mescolati con terribili bestemmie, e fischi di bacchettate sibilanti, che non dovevano essere state le prime, distribuite tutt’intorno volentieri da tre diavoli vestiti da ferrovieri. Un diavolo, da sopra al convoglio, mi ha chiesto: “Per piacere, qui dove siamo? Perché con questo casino e questa confusione finisce che non vediamo i cartelli.” Io, senza pensarci, tranquillamente gli ho risposto: “Qui siamo a Catanzaro.” 76 ‘U diavulu ha guardatu nu quadernu addui tenìadi registrati i viaggi e quindi jistimannu ‘u patreternu ha dittu: “D’u registru, ‘i si paraggi risulta ca cci simu già passati ppe ni fari nu carricu ‘i dannati.” “Facìmu marcia arrieti, e jamuninni – ha datu l’ordine ppe ru machinista – e si ‘ncunu protesta, fricatinni.” Quannu na faccia ca l’avìa già vista smirciu dintra i dannati ddrà ricuòti ed era chira di Catanzaroti. “Ohi presidente mia Catanzaroti, haju dittu – cchi ci fà ccu si dannati? Iddru ha rispusu: “ Ppe si quattru voti ca iu a ri Calavrisi l’haju fricati mò ccà m’hannu alligatu ccu catine tutte di fierru ‘ntuorciniatu e spine. Il diavolo ha guardato un quaderno dove teneva registrati i viaggi, e quindi bestemmiando il Padreterno ha detto: “Dal registro risulta che siamo già passati da queste parti per fare un carico di dannati.” “Facciamo marcia indietro e andiamocene – ha dato l’ordine per il macchinista – e se qualcuno protesta, fregatene.” In quel momento scorgo tra i dannati lì raccolti una faccia che avevo già vista, ed era quella di Catanzaroti. “Presidente mio Catanzaroti – ho detto – cosa fai con questi dannati?” Quello ha risposto: “Per questi pochi voti che io ho rubato ai Calabresi adesso mi hanno legato qui con catene tutte di ferro ritorto e spine. 77 Ohi, ccu quantu duluri mò mi pientu ‘i tutte si prumise ca facìa surtantu ppe ri fa purtà d’u vientu, d’a ‘mbroglia, a vanagloria e ra bugìa assunte ppe sistema di goviernu ca mò mi scuntu ccu ‘u castigu etiernu.” Ed ancun’ atra cosa avissi dittu, ma nu diavulu, armatu di vurpili, l’ha minatu ‘ntr’i rini ppe dirittu ca l’ha fattu arrizzari tutti ‘i pili, e ppu, ccu na satanica risata, l’ha addirizzatu n’atra vurpilata. “Basta, l’ha dittu, mò ccu s’intervista, ca n’ ha’ fattu abbastanza ggià di vivu, e si parri vaju scurciu ‘u giornalista ca tu cci ha dittu ‘i t’aspettà all’arrivu.” Però ‘u trenu si stava alluntanannu ed iu mi l’haju scampata a quannu a quannu. Con quanto dolore ora mi pento di tutte queste promesse che facevo solo per farle portare via dal vento, dell’imbroglio, la vanagloria e la bugia assunte per sistema di governo, che adesso vado a scontare col castigo eterno.” E avrebbe detto qulche altra cosa, ma un diavolo armato di staffile l’ha colpito precisamente nelle reni, facendogli drizzare tutti i peli, e poi, con una satanica risata, gli ha assestato un’altra staffilata. “Ora basta, gli ha detto, con quest’intervista, che già da vivo ne hai fatte abbastanza, e se parli vado a spellare il giornalista a cui hai detto di aspettarti all’arrivo.” Ma il treno intanto si stava allontanando e io l’ho scampata per un pelo. 78 Canto V Di ddrà signu fujutu a na cantina ca si chiama ‘a cantina ‘i Bifarellu. L’amici si cci trovanu ‘a matina, infatti già a chir’ura bellu bellu ‘u patruni, ch ‘i numi fa Gigginu, avia paratu ‘a damigiana ‘i vinu. C’eranu già zù Cicciu e zù Gatanu ccu nu bicchieri ‘i vinu e nu taraddru e Luviggi ‘u cucchieri, contra-manu aviennu parcheggiatu a ru cavaddru, ca ssi nn’era vinutu ddrà ammucciuni ppe ssi fà ccu l’amici nu scupuni. “Amici – haju dittu – àti ‘i sapì na cosa: vua mi viditi ccà, ma muortu signu. Si tratta di na cosa fastidiosa, ca partu e n’atra vita vaju e ‘ncignu. Però nun si pò dì ca ppe nua muorti c’ è nu buonu sistema d’i traspuorti. Fuggendo di lì, sono andato in un cantina che si chiama cantina di Bifarello. Gli amici si ci trovano di mattina, infatti già a quell’ora senza problemi il padrone, che si chiama Gigino, aveva messo sul bancone la damigiana di vino. C’erano zio Ciccio e zio Gaetano, con un bicchiere di vino e un tarallo, e Luigi, il cocchiere, che aveva parcheggiato il cavallo il contromano, e se n’era venuto là di noscosto per farsi uno scopone con gli amici. “Amici – ho detto – dovete sapere una cosa: voi mi vedete qui, ma sono morto. Si tratta di una cosa fastidiosa, perché parto e vado a iniziare un’altra vita. Però non si può dire che per noi morti c’è un buon sistema di trasporti. 79 I cchiù m’hannu dunatu cumu scorta n’Angilu ccu na faccia di galera : si chissu m’ha di riservari ‘a sorta, era miegliu si stava ddrà addui era, ca cc’è propriu na brutta cumpagnia ca ‘i l’atru munnu sta pigliannu ‘a via.” L’amici hannu rispusu: “ Si capiscia, ‘unn’è modu ‘i trattari a nu cristianu. Aspetta ca su giru mò finiscia e pù vidimu ‘i ti dunà na manu. Ca si ppe l’atru munnu t’ ha’ di parta, armenu ‘u viaggiu n’u vulimu sparta.” Gatanu, ch’è patruni ‘i na siacientu, n‘ha misa subitu a disposizi-one. Ni cci simu ‘nzaccati e cum’u vientu, ccu fisc-chi ‘i gumme e strusciu di frizione, senza di ni stà ddrà girannu ‘ntunnu amu pigliatu ‘a via di l’atru munnu. In più, mi hanno dato come scorta un Angelo con una faccia di galera: se questo mi deve riservare la sorte, era meglio se restavo lì dov’ero. Perché c’è davvero una brutta compagnia che sta prendendo la via dell’altro mondo.” Gli amici hanno risposto: “Si capisce, non è modo di trattare un cristiano. Aspetta che finisce questo giro e poi vediamo di darti una mano. Perché se devi partire per l’altro mondo, almeno il viaggio vogliamo dividerlo con te.” Gaetano, ch’è proprietario di una seicento, ce l’ha messa subito a disposizione. Ci siamo infilati dentro e come il vento, con fischi di gomme e stridore di frizione, senza stare lì a girare in tondo abbiamo preso la via dell’altro mondo. 80 ‘A via di l’atru munnu è na sagliuta ch’è nu tratturu scomodu e sbalincu. Dopu nu picca l’acqua n’è sbuddruta picchì ‘a siacientu ni purtava cincu. Ad Apriglianu, ca ‘a sagliuta è tosta, amu vutu ppe forza fà na sosta. C’era na sula luci a ru Pitruni, ca venia di na villa nobiliare, ca guarda casu c’era ddrà ‘u patruni ccu l‘amici d’i sua ppe cci cenare. Arrivati ca simu, ddrà d’ad iertu àmu bussatu, e subbitu ha rapiertu. “Ca simu cincu ccu nu trapassatu, – ha dittu a ru patruni zù Gatanu, – e si na picca postu v’è restatu, a ra cantina, puru di stramanu, chisà ni cci facissiti curcà picchì simu diretti all’Aldilà.” La via dell’altro mondo è un sentiero scomodo e accidentato in salita. Dopo un po’, l’acqua si è messa a bollire, perché la seicento ne portava cinque. Ad Aprigliano, dove la salita è dura, abbiamo dovuto per forza fare una sosta. C’era al Petrone una sola luce, che veniva da una villa nobiliare, dove guarda caso si trovava il padrone con i suoi amici per cenare. Appena siamo arrivati in cima abbiamo bussato e subito ci ha aperto. “Siamo cinque con un trapassato – ha detto al padrone zio Gaetano,– e se vi è restato un po’ di posto, in cantina, anche se scomodo, forse ci potreste far dormire lì, perché siamo diretti all’Aldilà.” 81 “No, no, trasiti dintra tutti quanti – ‘u patruni ha rispusu amabilmente – ca passanu di ccà dannati e santi e l’accuglimu senza dicia nente. Trasiti, accomodativi in giardinu ca ni vivimu nu bicchieri ‘i vinu.” ‘A nuttata era bella luminosa e ddrà si stava frischi na bellizza. Scinnia d’a Sila n’aria deliziosa, ‘a patruna ha cacciatu na sazizza, mentri adenzia circannuni ‘u patruni ha vulutu stippà nu buttigliuni. “Su vinu ccà nun vena di luntanu, – ha dittu – ma ‘i na vigna ch’è da mia ch’è di parti di Duonnici Supranu. È Mantuonicu e pura Malvasia, na vutti n’haju sarbatu di l’atr’annu, viviti a volontà ca nun fa dannu.” “No, no, entrate tutti dentro – ha risposto amabilmente il padrone – ché passano di qua dannati e santi e noi li accogliamo senza dire niente. Entrate, accomodatevi in giardino e beviamoci un bicchiere di vino.” La notte era luminosissima, e lì si stava beatamente freschi. Dalla Sila scendeva un’aria deliziosa e la padrona ha tirato fuori una salsiccia, mentre il padrone, chiedendoci ascolto, ha voluto sturare un bottiglione. “Questo vino non viene da lontano, – ha detto – ma da una mia vigna che si trova dalle parti di Donnici Soprano. È Mantonico e pura Malvasia, ne ho conservato una botte dell’anno scorso, bevete a volontà che non fa male.” 82 ‘U liquidu era russu trasparente, brillante, lisciu, chiaru cristallinu, ‘i fragola addurava leggermente e dintra a nu bicchieri chjinu chjinu faciad ‘u bell’aluni giallo e rosa ch’è signu ‘i qualità meravigliosa. Appena amu pruvatu a nu bicchieri ca tutti quanti – fattu inusitatu – si su’ misi a parrari volentieri, ognunu ricurdannusi ‘u passatu, e diciennusi ‘i numi ‘i chissu e chiddru e i fatti di quann’era picciriddru. M’ ha fattu arricurdà, ca paria vera, ‘a casa di Papà e di Mamma mia, l‘ingenuità, ca a chiri tiempi c’era, e i juochi ca faciamu ‘mmienz’a via, ed i facce m’ha fattu arricurdari d‘i cumpagni d’a prima elementari. Il liquido era rosso, trasparente, brillante, chiaro, liscio, cristallino, profumava leggermente di fragola e dentro un bicchiere ben colmo faceva il bell’alone giallo e rosa che indica una meravigliosa qualità. Non appena abbiamo assaggiato un bicchiere tutti – fatto inusitato – si sono messi volentieri a parlare ricordandosi il passato e dicendosi i nomi di questo e di quello e le storie di quando erano piccoli. Mi ha fatto ricordare, che sembrava vera, la casa di Papà e Mamma, l’innocenza che c’era a quei tempi e i giochi che facevamo per strada e mi ha fatto ricordare le facce dei compagni della prima elementare. 83 Attramentri l’amici d’u patruni ccu na chitarra e ccu nu mannulinu si sunnu misi ad intonà canzuni ca propriu cci ligavanu ccu ‘ u vinu e tanti assieme mai n’aviamu visti cantanti, ballerini, musicisti. ‘A patruna cantavad’ i rumanze ccu na vuci ‘ntonata e melodiosa e prima ‘i tutti cuminciava ‘i danze ccu movenze gentili ed armoniose, ca nenti cchiù soddisfazione duna d‘avì ntr’a casa na simile patruna. Dopu s’è fattu avanti nu poeta, ca n’ha cuntatu fatti divertienti e na nuttata ppe daveru lieta amu passatu stannuni cuntienti, ca fin’all’alba, si cuntamu a tutti, aviamu finisciutu dua o tri vutti. Intanto gli amici del padrone, con una chitarra e con un mandolino, si sono messi ad intonare delle canzoni che legavano benissimo col vino e mai avevamo visti tanti cantanti, ballerini e musicisti tutti insieme. La padrona cantava le romanze con una voce intonata e melodiosa e prima di tutti cominciava le danze con movenze gentili ed armoniose, che niente dà più soddisfazione che avere a casa una simile padrona. Dopo s’è fatto avanti un poeta che ci ha raccontato storie divertenti e abbiamo così passato una serata davvero lieta e in allegria, e fino all’alba, se contiamo tutti, avevamo finito due o tre botti. 84 Canto VI e ultimo Quann’è vinuta l’ura d’i commiati, ca s’era fattu juornu appena appena, dintr’a siacientu ni simu ‘ncufuzzati ppe dicia ‘a verità ccu granni pena. Sarà statu ppe chissu ca Gatanu ‘a via s’ha fatta tutta cuntra-manu. Arrivati a ru biviu ‘i Colle Ascione amu vistu ca ddrà cci avianu misu nu cartieddru ca avia n’indicazione : Ppe ‘Mpiernu, Purgatuoriu e Paradisu. Gatanu allura dintr’u crocevia si cc’è fermatu, nun sapiennu ‘a via. Ni stavamu indecisi ‘i piglià quale, quannu n’arriva na motocicletta e n’agente d’a polizia stradale fa signu ‘i ni fermà ccu ra paletta. Pruvati vua a ‘nnuminà chin’era: l’Angilu ccu ra faccia di galera. Quando è venuta l’ora dei commiati, che si era appena fatto giorno, ci siamo stipati nella seicento per dire la verità con gran pena. Sarà stato per questo che Gaetano la via se l’è fatta tutta contromano. Arrivati al bivio di Colle Ascione abbiamo visto che lì avevano collocato un cartello che recava un’indicazione: Per l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Gaetano allora s’è fermato nel crocevia, non sapendo che direzione prendere. Stavamo appunto indecisi su quale strada prendere, quando ci raggiunge una motocicletta e un agente della polizia stradale con la paletta fa segno di fermarci. Provate voi ad indovinare chi era : l’Angelo con la faccia di galera. 85 “Patente e documenti ‘i tutti quanti”, l‘Angilu ha dittu guardannumi ‘i traviersu. Iu mi pensava: – Ccà nun ci su’ santi, è ‘n circa d’u defuntu ca avia piersu.” E mi vidia già bellu e ‘ncatinatu e ragatu a ru ‘Mpiernu ppe dannatu. Però Gatanu, ch’era a ru volante, ha dittu: “Cca cci pierdu ‘ncunu puntu, ma na cosa mi para cchiù importante: ca si mi senta ‘u jatu, cchi lli cuntu?” Ha misu ‘a prima ed è partutu tuostu lassannu l’Angilu fermu supra puostu. ‘A via scinnia di ddrà ccu nu dirittu, ca Gatanu ha pigliatu a cchiù di cientu, passanu nu cartieddru adduvi scrittu si lejìa – Mpiernu –. ‘Ntantu cum’u vientu l’Angilu, ripigliatu d’a surprisa, ni stava sicutannu ppe ra scisa. “Patente e documenti di tutti”, ha detto l’Angelo guardandomi di traverso. Io pensavo: “Qui non ci sono santi, questo cerca il defunto che ha perduto.” E mi vedevo già incatenato e trascinato all’Inferno come dannato. Però Gaetano, che era al volante, ha detto: “Qui perdo qualche punto, ma una cosa mi sembra più importante: cosa gli racconto se mi vuole sentire il fiato?” Ha messo la prima ed è partito a gran velocità, lasciando l’Angelo fermo sul posto. La via scendeva con un rettilineo, che Gaetano ha preso a più di cento, passando un cartello dove si leggeva scritto – Inferno –. Intanto, come il vento l’Angelo, ripigliatosi dalla sorpresa, ci stava inseguendo lungo la discesa. 86 Dopu na prima curva e na sicunna ‘a via passava ppe nu vuosc-cu cupu dintra a na gola orribile e prufunna. L’Angilu appriessu a nua ppe ru pirrupu, ma nunn’era na sfida dintra ‘guali, ca supr’a motu chiru cci ‘ avia l’ali. Curria ddrà sutta cumu na jumara d’uogliu bollente tutta fiammeggiante, e ‘a via scinniennu si facia cchiu spara. Curriennu a cientu all’ura, ‘ntra n’istante, ‘a siacientu, abbordannu nu giruni, s‘e accappottata dintra a ru vaddruni. Faciennu nu terribile rumuri tri vote supr’ a roccia ha rimbalzatu, ma ‘ntantu ‘ntra nu bagnu di suduri gridannu forte m’era risbigliatu: ch’era nu suonnu chissu ca vi scrivu, ‘unn’era muortu ‘i nente, ma era vivu. Dopo una prima ed una seconda curva, la strada passava per un cupo bosco in una gola orribile e profonda. L’Angelo ci veniva dietro per il dirupo, ma non era una sfida tra uguali, perché quello sulla moto aveva le ali. Correva di sotto una specie di fiumara d’olio bollente tutta fiammeggiante, e la strada scendendo si faceva più dissestata. Correndo a cento all’ora, in un attimo la seicento, abbordando un tornante, s’è accappottata in un burrone. Facendo un rumore terribile ha rimbalzato tre volte sulla roccia, ma intanto in un bagno di sudore mi ero svegliato gridando forte: perché era un sogno questo che vi scrivo, non ero affatto morto, ma ero vivo. 87 Siccome ‘u suonnu m’era parsu veru, haju scrittu su poema semiseriu. Comunque mò, ppe d’ essari sinceru, ancora mi rimana ‘u desideriu: ca n’atra vota mi vulissi fà nu suonnu ‘ntra Cusenza ‘i l’Aldilà. Siccome il sogno mi era parso vero, ho scritto questo poema semiserio. Ora comunque, ad essere sincero, mi rimane ancora il desiderio: che un’altra volta mi vorrei fare un sogno in Cosenza dell’Aldilà. 88 AMARCORD – M’ARRICUORDU ‘A CASA (Una casa che non c’è più) Corso Telesio 196 Addui cumincia ’u Cursu, ‘a parti ‘i sutta, pocu dopu d’a Chiazza d’i Valdesi, ‘i l’Albergu Bologna e d’u suppuortu, addui mò cc’e nu spaziu ch’è vacanti, ddrà si truvava ‘a casa. C’era a latu ‘a putiga ‘i Benignu ‘i biancherìa, di fronte ‘u bar La Vespa, ca facìa i babà gialli e russi a forma ‘i pira, e na putiga i lazzi e sole ‘i scarpe, ‘i Nudo – ca ddrà cc’è d’u trentasia –, mentre ‘a putiga ‘i scarpe di Gentile ccu na scarpa gigante a ra vitrina, si truvàvadi a llatu ‘a scalinata, ca ppe Santa Lucia di ddrà si saglia. All’angolu, nu picca riparatu, nu mutilatu ‘i guerra di na gamma, ccu na carretta cci vinnìa l’aranci. C’era na scaliceddra ccu nu sartu, ca spessu ci cusìa assettatu fòra, addui armenu venìa na picca lustru. ‘Ncapu ‘a ra scalinata na cantina ccu nu cartieddru: “F.sco Bozzo – Vino.” Dove comincia il Corso, dalla parte di sotto, poco dopo della piazza dei Valdesi, dell’albergo Bologna e del vicolo coperto, dove adesso c’è uno spazio vuoto, là si trovava la casa. A lato c’era il negozio di biancheria di Benigno, di fronte il bar La Vespa, che faceva i babà gialli e rossi a forma di pera, e un negozio di lacci e suole per scarpe, di Nudo, che si trova lì dal trentasei, mentre il negozio di scarpe di Gentile, che teneva una scarpa gigante in vetrina, si trovava a lato della scalinata da dove si sale verso Santa Lucia. All’angolo, un po’ riparato, un mutilato di guerra con una sola gamba vendeva le arance con un carrettino. C’era una scaletta dove stava un sarto, che spesso cuciva seduto lì fuori, dove almeno veniva un po’ di luce. In fondo alla scalinata c’era una cantina con un cartello: “F.sco Bozzo – Vino.” 91 Ddrà nua cci jìamu a fari dopu-scola addui a ri signorine Capparelli, ch’eranu Olga, Elena e Maria. Iu l’haju ‘ncontrate dopu cinquant’anni, i stesse, sulu ca Elena mò è nonna, mentri Maria è rimasta signorina. Pù, n’atru pocu avanti supr’u Cursu, a manu destra c’era ‘u Chianarieddru, addui stava zi’ Emma ccù Giuliana mentri dop’u purtuni, ‘i l’atra parti, dopu d’u Tabacchinu e ‘u Giochilottu si putìa penetrà ‘ntr’a Chiazz’i l’ova ccu quattru o cincu case signorili, e di povera ggente tutte l’atre: nu carvunaru, na guagliuna ciòta, Molinari, n’invalidu ca avìa l’usufruttu ‘i l’offerte ‘i San Giuvanni. Ddrà cc’erad’ ‘u purtuni ‘i Papà Peppe e venìanu i turrere di matina a vinna dua palummi e na gaddrina. Là andavamo a doposcuola dalle signorine Capparelli, che si chiamavano Olga, Elena e Maria. Le ho incontrate dopo cinquant’anni – le stesse – solo che Elena adesso è nonna mentre Maria è rimasta signorina. Poi, un po’ più avanti, sul Corso, alla destra si trovava il Chianarieddru, dove stavano zia Emma e Giuliana, mentre dall’atra parte, dopo il portone, dopo il tabaccaio e il botteghino del lotto si poteva penetrare nella Piazza delle uova, dove c’erano quattro o cinque case signorili e di povera gente tutte le altre: un carbonaio, una bambina down, Molinari, un invalido che aveva l’usufrutto delle offerte della chiesa di San Giovanni. Là c’era il portone della casa di Papà Peppe e ci venivano le contadine, di mattina, a vendere qualche piccione e una gallina. 92 ‘U purtuni, i scali ‘U purtuni era nivuru, allungatu ca parìa na caverna, ccu nu scuru, e quotidianamente visitatu ‘i tutt’i gatti d’u quartieri; ‘u stessu i prime rampe ‘i scale, e si vidìa a luce forsi a ru sicunnu pianu, addui nu finestruni spalancatu facìa trasari ‘u gelu. Eranu cazzi ‘i chiri dua famiglie ‘i poveracci ca stavanu ddrà sutta. Finalmente cumparìa pù na specie ‘i chianarieddru ‘i ddui partìa na scala cchiù civile, e piastrellata, ma priestu finiscìa, e dopu nu finale paru ‘i rampe e ‘n capu a cientududici scaluni s’arrivava a ra porta ‘i dduvi a nnua. Il portone era nero, allungato come una caverna, sempre buio, e visitato quotidianamente da tutti i gatti del quartiere; così le prime rampe di scale, e si cominciava a vedere la luce al secondo piano, dove un finestrone sempre aperto faceva entrare il gelo. Erano guai per quelle due famiglie di poveracci che abitavano i primi piani. Finalmente compariva una specie di pianerottolo, da dove partiva una rampa di scale d’aspetto più civile, tutta piastrellata, che però finiva presto, e dopo un ultimo paio di rampe in capo a centododici scalini s’arrivava alla porta di casa nostra. 93 C’era nu campanieddru ccu na corda, ca pinnìa fòra e quannu si tirava chiru scampanneddrava allegramente. All’urtimu scaluni, avanti ‘a porta, a ri sia e mmenza ‘mpuntu d’a matina venìa ‘u lattaru, ca Papà ‘u rapìa, ppe si fa dà nu litru e mienzu ‘i latte, ca nu quartu ppe d’unu ci vulìa, e ccu nu pedi all’urtimu scaluni ‘u misurava. E chissu esattamente ppe quinnici anni. Pù, cangiata casa, ‘un s’ha fidata cchiù di jì girannu dintr’a Cusenza nova, e n’ha lassatu. C’era un campanello con una corda, che pendeva fuori e quando si tirava quello scampanellava allegramente. All’ultimo scalino, davanti alla porta, alle sei e mezza in punto di mattina, veniva il lattaio, e Papà gli apriva, per farsi dare un litro e mezzo di latte, che ce ne voleva un quarto per uno, e il lattaio lo misurava tenendo un piede sull’ultimo scalino. Tutto ciò esattamente per quindici anni. Poi, quando cambiammo casa, non se la sentì più di andare in giro dentro Cosenza nuova, e ci lasciò. 94 I vicini ‘I sutta stavadi ‘a Signora Gattu, ccu ru maritu ch’era machinista d’a Calabru-Lucana; avìa dua figli e ra televisione; e nnua cci jìamu ‘u juovi ppe ni vida a Mike Bongiorno. Invece, a n’atra scala ch’era a fiancu, ci stavadi ‘a Signora Bolognese, ca s’affacciava supra ‘ u terrazzinu lamentannusi sempre ‘i ncuna gatta ca ddrà sfacciatamente avìa sostatu. A l’atru latu stava Papà Peppe, ca c‘è rimasta a casa, ccu i tri logge. Di fronte, ccu na beddra loggia longa, cci stavadi ‘a Signora ccu ri gatti, ca si parrava sempre ccu zia Pia, ‘i nu latu d’u Cursu viersu l’atru. Sotto di noi abitava la signora Gatto, col marito, che era macchinista delle Calabro-Lucane; aveva due figli e la televisione, e noi ci andavamo il giovedì per vedere Mike Bongiorno. Mentre in un’altra scala laterale abitava la Signora Bolognese, che si affacciava da un terrazzino lamentandondosi sempre di qualche gatta che ci aveva sfacciatamente sostato. Dall’altro lato abitava Papà Peppe, e la casa è ancora lì, con tre lunghi balconi. Di fronte, con un bel balcone lungo, abitava la Signora dei gatti, che parlava sempre con zia Pia da un lato all’altro del Corso. 95 Avìa supr’u barcuni nu stipettu ccu na retìna supra a ri sportelli, ppe cci stipà ‘u mangiari e ‘u tena friscu – ma nun sapìamu si d‘u sua o d’i gatti.– I sutta sferragliavanu i carrozze cuminciannu ‘a sagliuta ‘u Cursu Cursu, ca ddrà i cucchieri azàvanu ‘a bacchetta facìennu vàtta a ri cavaddri i zuocculi supr’i basule lisce, ca di viernu avìa di passà n’uominu ‘a matina e ccu nu catu cci spannìad’a rina. Sul balcone teneva uno stipetto con una retina sopra gli sportelli, dove conservava il cibo per tenerlo fresco – ma non sapevamo se era suo o dei gatti. Sotto sferragliavano le carrozzelle mentre comincivano la salita del Corso, perché lì i cocchieri alzavano la bacchetta e facevano battere ai cavalli gli zoccoli sulle lastre di pietra lisce, che l’inverno doveva passare un uomo la mattina e spandere la sabbia da un secchio. 96 I cammere ‘A prima cammera, c’era ‘a porta ‘i fora, ca a latu avìa na nicchia ccu ‘a funtana, n’atri dua porte e pù na rampa ‘i scale. ‘A prima porta dava ‘ntra na granni e luminosa cammera ‘i mangiari – ca ddrà si cci mangiava i juorni ‘i festa. N’atre due porte c’eranu ‘ntra chissa, mentre di fronte c’era nu barcuni. ‘A porta a destra, ch’era ra cchiù stritta, portava dintra a cammera di liettu; si cci trasìa sagliennu tri scaluni; ddrà c’eranu ‘i nu latu na finestra e pù di fronte n’atra porticeddra ca facìa trasa dintra a nu stanzinu, – ‘a cchiù estrema propaggine d’a casa – ccu na finestra supr’u terrazzinu d’a signora di latu, ‘a Bolognese. Nell’ingresso, c’era la porta esterna, che da un lato aveva una nicchia con la fontana, altre due porte e una rampa di scale. La prima porta dava su una grande e luminosa stanza da pranzo – dove si pranzava i giorni di festa. In questa stanza c’erano altre due porte, e di fronte c’era un balcone. La porta a destra, ch’era la più stretta, portava nella stanza da letto; ci si entrava salendo tre scalini; lì c’erano da un lato una finestra e di fronte una porticina da cui si poteva entrare in uno stanzino - la propaggine più estrema della casa – con una finestra che dava sul terrazzino della signora che abitava a fianco, la Bolognese. 97 Turnannu dintr’a cammera ‘i mangiari, ‘a porta a ra mancina facìa trasa dintra a ru studiu, ch’era puru granni, ccu nu barcuni ch’era sempre ‘u stessu ‘i chiru ‘i dintr’a cammera ‘i mangiari. D’u studiu si passava a n’atra cammera, ca si chiamava ‘a cammera ‘i guagliuni, e pù di ccà, ccu n’atra porta ad angolo, si turnavadi dintra ‘a prima cammera. Cussì si cci girava tuttu ‘ntuornu, ‘ i cursa e ‘u cchiù d’i vote sicutannusi, prima cammera, cammera ‘i mangiari, barcuni, studiu, cammera ‘i guagliuni e prima cammera ppè finiscia ‘u giru. Ma si putìa fà puru cumu n’ottu, d’a cammera ‘i mangiari dintr’u studiu, e pù veniennu arrieti d’u barcuni si turnava ‘ntr’a cammera ‘i mangiari e pù ‘ntr’u studiu e ‘a cammera ‘i guagliuni. Tornando nella stanza da pranzo, la porta a sinistra dava nello studio, che era pure grande, con un balcone, ch’era lo stesso di quello della stanza da pranzo. Dallo studio si passava in un’altra stanza, che si chiamava la stanza dei ragazzi, e di qui, con un’altra porta ad angolo, si tornava nell’ingresso. Sicché si ci girava intorno inseguendosi, ingresso, stanza da pranzo, balcone, studio, camera dei ragazzi e ingresso per finire il giro. Ma si poteva anche fare come un otto, dalla stanza da pranzo nello studio e poi tornando indietro dal balcone si tornava nella stanza da pranzo e di qui nello studio e nella stanza dei ragazzi. 98 Ccà, ppe cunchiuda, c’era na finestra usata pocu, ca dava supr’u vagliu, addui si ci trasìa ‘i na porticeddra. Su vagliu era na specie di confine, picchì di na scaletta si saglìa ppe trasa dintra ‘a casa ‘i Papà Peppe. Ma turnamu a passà d’a prima cammera, addui si cci putìa jucà a palluni, ccu na palla di pezza chjin’i carta, ligata tuornu tuornu ccu nu spacu e annudicata pù magistralmente: a cavuci e a capate si pigliava, dua contro dua, di regola unu ‘mporta, n’atru all’attaccu; na porta ‘a porta ‘i fora, n’attaccapanni l’atra. A ru rilanciu chiru all’attaccu putìa tirà di testa, fussi frunti, o cuzziettu, o capu chjina, ppe cci signà nu clamoroso gollu. Qui, per concludere, c’era una finestra che veniva usata poco, che dava sul cortile interno, dove si entrava da una porticina. Questo cortile interno era una specie di confine, poiché da una scaletta si saliva per andare in casa di Papà Peppe. Ma torniamo a passare dall’ingresso, dove si poteva giocare al calcio, con una palla di pezza piena di carta, legata torno torno con uno spago e poi annodata magistralmente: si prendeva a calci e si colpiva di testa, due contro due, di regola uno in porta e l’altro all’attacco: una porta la porta esterna, l’altra un attaccapanni. Al rilancio del portiere, chi stava all’attacco poteva colpire di testa, sia con la fronte, sia con la nuca, sia di piena testa, per segnare così un clamoroso gol. 99 Ma saglìmu ppe jì a ru chianu ‘i supra. I scale eranu ‘i lignu. Si girava e s’arrivava dintra a ru passiettu addui si ci rapìa nu barcunieddru, ca s’affacciava supra i ciramili, ch’era ‘u riegnu d’i gatti e d’ i palummi. Si vidìa lungo Crati, e dopu ‘u jume, ch’ era di chiri tiempi praticatu ‘i carrette di rina e lavannare, si vidìa ‘u ponte ’a Calabro-Lucana addui passava ‘u machinista Gattu faciennu fisc-cà ‘u trenu, e si vidìa ‘a cupola d’a gghiesa ’i San Nnuminicu: dopu mangiatu sempre dua o tri monaci passiàvanu chianu supra e sutta. Ma saliamo per andare al piano di sopra. Le scale erano di legno. Si girava e si arrivava in un ballatoio dove si apriva un balconcino che si affacciava sui tetti di tegole, regno dei gatti e dei piccioni. Si vedeva Lungo Crati, e , dopo il fiume, che a quei tempi era frequentato da carretti che portavano la sabbia e da lavandaie, si vedeva il ponte della Calabro-Lucana dove passava il macchinista Gatto facendo fischiare il treno, e si vedeva la cupola della chiesa di San Domenico: là sotto dopopranzo sempre due o tre monaci passeggiavano piano da un lato all’atro. 100 ‘I ddrà si putìa trasa ‘ntr’a cucina, na bella e granni luminosa cammera, ccu dua scaluni si saglìa a ru cessu, na porticeddra dava ‘ntr’a suffitta, n’atra porta ‘ntr’a cammera ‘i mangiari, – addui si cci mangiava veramente – ch’era na bella cammera, e affacciava supra a ru vagliu, ca Papà guardava si cci jìanu i guagliuni a cci fa chiassu e a fari risbigliari a Papà Peppe. Dal ballatoio si entrava in cucina, una stanza bella grande e luminosa, da dove con due scalini si entrava nel cesso, una porticina dava nella soffitta, un’altra porta nella stanza da pranzo – dove si pranzava davvero – che era una bella stanza, e dava sul cortile interno, dove Papà guardava che non ci andassero i ragazzi a fare chiasso facendo svegliare Papà Peppe. 101 ‘A mobilia Vidìmu mò ‘a mobilia. ‘U pian’i sutta, ‘ntr’a prima cammera, sulu dua baùli, misi di fronte ccu bella simmetria, comodi pe cci poggiare ‘i borse ‘a scola, ca ognunu ddrà cci avìdi ‘u postu sua; n’attaccapanni ccu nu specchiu, e basta. ‘Ntr’a cammera ‘i mangiari, nu buffè, cc’u specchiu, e nu controbuffé, ‘a tavula e ri segge, e ‘u vasu verde ca sù a ra casa ‘i Nonna Caterina, cumu puru, d’a cammera di liettu, ‘u liettu granni, insieme ccu l’armadiu ‘u cummò ccu ru specchiu e ra toletta. A ri pèdi d’u liettu nu lettinu, ppe l’urtimu arrivatu d’a famiglia. Adesso vediamo la mobilia. Al piano di sotto, nell’ingresso solo due bauli, uno di fronte all’altro in bella simmetria, comodi per poggiarci le cartelle, e ognuno ci aveva il suo posto; un attaccapanni con uno specchio e nient’altro. Nella stanza da pranzo, un buffet con lo specchio e un controbbuffet, il tavolo con le sedie e il vaso verde che adesso sono a casa di Nonna Caterina, come pure il letto matrimoniale della stanza da letto, insieme con l’armadio, il comò con lo specchio e la toilette. Ai piedi del letto un lettino per l’ultimo arrivato della famiglia. 102 Dintr’a cammera ‘i bagnu – ossia stanzinu – unu s’avìa ‘i lavà, ma ‘un c’era l’acqua, ca si cci avìa ‘i purtà ccu nu buccali pigliannula a ra nicchia d’a funtana; c’era ‘i fierru smaltatu nu vacìli ccu nu porta-vacìli puru ‘i fierru. ‘U specchiu c’era, ma Papà ‘mpicava nu specchiettu a ra porta ppe ra varva. Jàmu a ru studiu. Ddrà cc’era nu liettu, ccu na taggerra ppe stipare i libri e nu tavulu apribile a cerniera ca ‘ avìa fattu Papà ccu ‘a masonite, e pù l’avìa pittatu tuttu nivuru. ‘Ntr’a cammera ‘i guagliuni quattru lietti, e ppe appicare i panni quattru segge, ognunu ‘a seggia sua. Ccu chissu, basta. Nella stanza da bagno, ovvero stanzino, ci si doveva lavare, ma non c’era l’acqua corrente, che si portava con un boccale prendendola dalla nicchia della fontana; c’era una bacinella di ferro con un porta-bacinella pure di ferro. Lo specchio c’era, ma Papà per farsi la barba appendeva uno specchietto alla porta. Andiamo nello studio. Lì c’era un letto, uno scaffale per conservare i libri e un tavolo apribile a cerniera che Papà aveva fatto con la masonite, e poi l’aveva pitturato di nero. Nella stanza dei ragazzi quattro letti, e quattro sedie per appendervi i panni, ognuno aveva la sua sedia. Con questo, nient’altro. 103 Sa cammera ‘ntronava ‘i pallunate. Unu si stava ‘mporta supr’u liettu, e versu l’atru lanciavad’ u palluni ppe nu colpu di testa, e ru portiere vulava ppe parà di supra ‘u liettu “Diavuli, diavuli” – si sintìa zia Pia ca murmurìava ad ogni pallunata. Saglìmu i scale ppe ru pianu ‘i supra. Dintr’u passiettu, nente. ‘Ntr’a cucina c’era nu lavandinu di cimentu, e ‘a cucina ‘a carvuni, ‘i chire antiche, ccu ri circhi di fierru e ri sportelli. Questa stanza rintronava di pallonate. Uno faceva il portiere sul letto, lanciava il pallone verso l’altro per farlo colpire di testa, e il portiere volava per parare atterrando sul letto. “Diavoli, diavoli” si sentiva zia Pia che borbottava ad ogni pallonata. Saliamo le scale per andare al piano di sopra. Nel ballatoio, niente. In cucina c’era un lavandino di cemento, la cucina a carbone, di quelle antiche, con i cerchi di ferro e gli sportelli. 104 Ddrà s’ appicciavu ‘u viernu na vrascèra, ppe ra mintari pù ccu na magara a sfiatari di supra ‘u barcunieddru. C’era ‘a cridenza ccu nu tavulinu, e nu dua segge. ‘Ntr’a cammera ‘i mangiari n’atra cridenza, ‘u tavulu ccu i segge, e supra na taggerra c’era ‘a radiu, ca nua l’estate d’u cinquantasìa cci’ àmu sintutu l’Olimpiade ‘i Melbourne. Dopu c’è stata l’Olimpiade ‘i Roma e l’urtimu papà ‘ ha chiamatu Olimpico. Lì d’inverno si accendeva un braciere, per metterlo poi con una cappa di rame sul balconcino, a sfiatare. C’era una credenza con un tavolo e due sedie. Nella stanza da pranzo un’altra credenza, il tavolo con le sedie, e sopra uno scaffale una radio, da cui l’estate del cinquantasei abbiamo ascoltato le Olimpiadi di Melbourne. Poi ci furono le Olimpiadi di Roma e Papà chiamò Olimpico l’ultimo nato. 105 ‘A MANTELLA (Novembre 1961) Mò vi cuntu na rumanza, e dicitimi s’è bella, ca ni su’ protagonisti ziu Ninì ccu na mantella. Ziu Ninì, di picciriddru, i matine ca chiuvìa, ‘i sbarcari fin’a scola raramente avìa gulia. S’a pigliava ccu ‘a mantella, ‘a truvava difettusa ed allura ppe ‘un s’a minta ammentava ancuna scusa. Tannu Nonna Caterina, ca ‘ avìa ‘ntisu protestannu, ‘u circava d’u convincia: “T’ha di minta, sta jazzannu!” Adesso vi racconto una storia, e ditemi se è bella, di cui sono protagonisti zio Ninì e una mantella. Zio Ninì, da piccolo, le mattine che pioveva, raramente aveva voglia di sbarcare fino a scuola. Se la prendeva con la mantella, la trovava difettosa e allora per non mettersela inventava delle scuse. Allora Nonna Caterina, che l’aveva sentito protestare, cercava di convincerlo: “Te la devi mettere, sta nevicando!” 106 “Sa mantella nunn’a vuogliu, picchì è vecchia di l’atr’annu, è bucata e dintr’u cuoddru tutta l’acqua va culannu !” “Mintatilla, ppe piaciri, ‘unn’u vidi cumu chiova?” “Unn’a vuogliu sa mantella, ma cumpratimilla nova!” “Mò vidìmu, ma ‘ntramentri ‘mpilatilli si stivali…. ‘unn’u vì ch’è malu tiempu, si ti ‘mpunni ti fa mali.” “’Unn’i vuogliu si stivali, sunnu tutti cunsumati, ma picchì m’aviti ‘ dari chiri viecchi ‘i ‘ncunu frati?” “Questa mantella non la voglio, perché è vecchia dell’anno scorso, è bucata e tutta l’acqua mi va scolando nel collo!” “Mettitela, per piacere, non vedi come piove?” “Non la voglio questa mantella, ma compratemela nuova!” “Adesso vediamo, ma per il momento infilati questi stivali…. non vedi ch’è cattivo tempo, se ti bagni ti fa male.” “Non li voglio questi stivali, sono tutti consumati, ma perché mi dovete dare quelli vecchi di qualcuno dei fratelli?” 107 “’Mpilatillu su cappottu!” “Mi l’haju ‘i minta puru s’ annu? Ma picchì mi date i rrobbe ca a ri frati nun li vannu?” “Mintatillu su cappieddru!” “’Unn’u vì ca nun mi trasa? cumu fazzu a jì a ra scola… miegliu ca mi staju a ra casa!” “Ma sa sciarpa mintatilla!” “No, ca ‘u friddu cci trapàna, chissa è tutta buchi buchi, datiminni ‘ncuna sana!” “Mintatilli armènu i guanti!” “M’u facìti ppe dispiettu! S’un mi date rrobbe nove iu m’ammucciu sutt’u liettu.” “Infilatelo questo cappotto!” “Me lo devo mettere anche quest’anno? Ma perché mi date i vestiti che ai fratelli non vanno più?” “Mettitelo questo cappello!” “Non lo vedi che non mi entra? Come faccio ad andare a scuola…meglio se resto a casa!” “Ma mettiti questa sciarpa!” “No, perché il freddo ci penetra, questa è tutta piena di buchi, datemene una buona!” “Mettiteli almeno i guanti!” “Me lo fate per dispetto! Se non mi date vestiti nuovi mi nascondo sotto il letto!” 108 “Ma su ‘mbrellu portatillu!” “Unn’u vuogliu, è di zà Pia! Ma picchì si ‘mbrelli ‘i fimmina mi l’avìti i dari a mmia!” “Un mi fà chiamari a patritta!” “Mò m’ammucciu e ‘un mi truvati!” “U telefono all’uffiggiu e finiscia a curriati !” Nonno Pietru trafelatu di l’uffiggiu sua fujìa e sagliennu i scali scali si cacciavad’ a currìa. “Ma portatelo questo ombrello!” “Non lo voglo, è di zia Pia! Ma perché questi ombrelli da donna li dovete dare a me?” “Non farmi chiamare tuo padre! – “Adesso mi nascondo e non mi trovate!” “Gli telefono in ufficio e finisce a colpi di cinghia!” Nonno Pietro correva trafelato dall’ufficio e salendo per le scale si slacciava la cinghia. 109 ‘U tirava ‘i sutt’u liettu ed a botta ‘i curriati li facìadi i gammarieddri cumu vùa v’immagginati. Ziu Ninì gridava “Basta ! Fazzu cumu dici tuni !.” Si nn’iscià ccu ra mantella ... e allazzava nu filuni. Lo tirava da sotto il letto e a colpi di cinghia gli faceva gli stinchi come voi vi imaginate. Zio Ninì gridava “Basta ! faccio come dici tu!” Se ne usciva con la mantella e... marinava la scuola. 110 ‘A PERDITA ‘A perdita Iu campu, cumu tutt’i funtanari, riparannu ogni sorta ‘i tubbi rutti, però su fattu ccà vi l’haju ‘i cuntari, ca mai putia pensà ca ‘u pieju ‘i tutti ppe quantu vaju girannu ‘i cca e di ddrà a ra casa m’avia di capità. Staju ‘ntra na casiceddra riserbata ca si trova na picca fora manu. Na sira ‘a fin’i giugnu, a ra scurata, mi stava ricugliennu chianu chianu quannu ‘ntr’u giardinettu avanti a mmia haju vistu na picca acqua ca curria. “È muglierma ca ‘ adacqua ancuna grasta vistu ch’ è stata cavuda ‘a jurnata – haju dittu – ma mi para mò ca ‘ abbasta, ca forsi ‘a pompa aperta s’è scurdata.” Mi signu avvicinatu cumu quannu e l’acqua ‘i suttaterra iscìa fisc-cannu. Io vivo, come tutti i fontanari, riparando ogni sorta di tubbi rotti, ma questo fatto ve lo devo raccontare, che mai potevo pensare che il peggiore di tutti, per quanto vado in giro di qua e di là, mi doveva capitare proprio a casa mia. Abito in una casetta riservata, che si trova un po’ fuori mano. Una sera di fine giugno, sul far del buio, stavo rincasando tranquillamente quando dal giardinetta davanti casa ho visto che scorreva un po’ d’acqua. “È mia moglie che innaffia qualche vaso, visto che la giornata è stata calda – mi sono detto – ma mi sembra che adesso possa bastare, che forse si è dimenticata aperta la gomma.” Mi sono avvicinato con cautela, e l’acqua usciva fischiando da sottoterra. 113 Iu signu d’u mestieri, quindi allura haju dittu, ccu chir’ acqua ca curria, “Na perdita cci‘ha d’essa o na ruttura. S’è ruttu ancunu tubbu ammienz’a via. Ha d’essa nu dua pollici zincatu ch’è nfracidutu e all’urtimu è sc-cattatu.” L’acqua saglìa d’a terra vivamente, avuta nu dua parmi ‘ntr’u giardinu e ppù ccu tutta ‘a forza ‘i na surgente si nni culava viersu nu tumminu ‘i ‘dduvi finarmente a ra bonura s’inabissava dintr’a ‘a fognatura. Faciennu ‘u funtanaru ‘i casi casi, addui vaju cuonzu cessi e lavandini, canusciu si rutturi, e di si casi sacciu ca ni derivanu casini. Allura haju dittu: “ Chiamu l’emergenza ‘i l’acquedottu d’a città ‘i Cusenza.” Io sono del mestiere, perciò vedendo tutta l’acqua che scorreva ho detto “Ci dev’essere una perdita o una rottura. Si è rotto un tubo per la strada. Dev’essere un due pollici zincato che si è corroso e infine è scoppiato.” L’acqua sgorgava dalla terra vivamente, profonda ormai due palmi nel giardino e poi con tutta la forza di una sorgente scolava verso un tombino da dove finalmente, alla buon’ora, si innabissava nella fognatura. Facendo il fontanaro per le case della gente, dove vado per riparare cessi e lavandini, conosco queste rotture e so che da questi casi ne derivano casini. Allora mi sono detto: “Chiamo l’emergenza dell’acquedotto della città di Cosenza.” 114 A ru telefonu nuddru m’ha rispusu – s’eranu fatte intantu i nove e menza –. Haju dittu: “Certamente hannu già chiusu l’uffici d’u comuni di Cusenza.” Ppe nun mi tena i mani dintr’i mani haju vulutu chiamà i vigili urbani. Ha rispusu na vuci, a ru Cummannu, ca mi parrava ccu na speci ‘i fisc-cu. Haju pututu capiscia a quannu a quannu ca avia duvutu d’essari nu discu. Ha dittu : “Simu apierti finu ‘i dua, dopodicchè v’àti ‘i sbrogliari vua .” L’acqua oramai currìa gagliardamente faciennu ‘nterra cumu na laguna, e dava nu spettaculu attraente ca si cci riflettia na bella luna, mentri d’u tubbu si sintianu botte ca janu propagannusi ‘ntr’a notte. Al telefono non ha risposto nessuno – intanto si erano fatte le nove e mezza – Ho detto: “Di certo hanno già chiuso gli uffici del comune di Cosenza.” Per non restarmene con le mani in mano ho voluto chiamare i vigili urbani. Al comando ha risposto una voce che mi parlava con una sorta di fischio. Sono riuscito a stento a capire che doveva trattarsi di un disco. Ha detto: “Siamo aperti fino alle due, dopodicché ve la dovete sbrogliare da soli.” L’acqua ormai correva gagliardamente, formando come una laguna, e dava un attraente spettacolo, perché si ci rifletteva una bella luna, mentre dal tubo si sentivano dei colpi che andavano propagandosi nella notte. 115 Allura haju dittu : “Chiamu a ri pompieri.” Ddrà m’ha rispusu nu centralinista: “Si casi ‘unn’i trattamu volentieri, comunque mò vi scrivu dintr’a lista e n’autobotte ca mi sta rientrannu appena m’è possibile, v’a mannu.” S’eranu fatte l’unnici d’a notte quannu ccu n’cunu gridu di sirena avant’a casa arriva n’autobotte, e tri pompieri ccu na picca scena ni su’ zumpati, mentri ‘u vicinatu rapìa i finestre, ca s’era risbigliatu. I vigili d’u fuocu sull’istante si su’ misi a sguazzari dintr’u stagnu, pù chiru ca avia d’essa ‘u comandante ha dittu: “Mò ca n’amu fattu ‘u bagnu na cosa si pò dìcia ch’è sicura: na perdita cci ha d’essa o na ruttura” Allora ho detto: “Chiamo i pompieri.” Là mi ha risposto un centralinista: “Questi casi non li trattiamo volentieri, comunque adesso vi metto in lista e un’autobotte che sta per rientrare, appena mi è possibile ve la mando.” S’erano fatte ormai le undici di notte, quando con urli di sirena arriva davanti casa un’autobotte e tre pomperi ne sono saltati giù, in modo un po’ teatrale, mentre il vicinato apriva le finestre, essendosi svegliato. I vigili del fuoco si sono messi immediatamente a sguazzare nello stagno, poi quello che sembrava il comandante ha detto: “Ora che abbiamo fatto il bagno una cosa si può dire che è sicura: ci dev’essere una perdita o una rottura.” 116 Haju addimmannatu: “Allura m’a cunzati?” “Amu ’i chiamà a ri vigili ‘i Cusenza – iddru ha rispusu – ca ‘un simu autorizzati.” “Hannu già chiusu”, haju dittu, “ppe cuscienza.” “Va buonu – ‘u comandante ha replicatu – chiam ‘u numeru ca ’ àmu riservatu. Picchì, signore caro, nun sapiti cchi succeda di notte a ssa città. Ni chiamanu ppe i fatti cchiù inauditi e nua fujìmu sempre ‘i cca e ddi ddrà. Qualunque cosa ca succeda ddruocu curranu sempre i vigili d’u fuocu. Si nu cani li ven’u mal’i panza e tutt’a notte abbaia ‘a chiazza chiazza, nua pronti jamu ddrà ccu l’ambulanza, si na gatta ca sàglia a na terrazza si va a d’ arrampicà supra a na ‘ntinna nua jàmu a ra convinciari di scinna. Ho chiesto: “Allora me la riparate?” “Dobbiamo chiamare i vigili di Cosenza – mi ha risposto – perché non siamo autorizzati.” “In verità”, ho detto “hanno già chiuso.” “Va bene – ha replicato il comandante – chiamo il numero che è riservato per noi. Perché, caro signore, lei non sa cosa succede di notte in questa città. Ci chiamano per i casi più inauditi e noi corriamo sempre di qua e di là. Qualunque cosa succeda in questo posto, chiamano sempre i vigili del fuoco. Se a un cane viene il mal di pancia e va abbaiando tutta la notte per la piazza, noi pronti andiamo là con l’ambulanza, se una gatta salendo su una terrazza va ad arrampicarsi su un’antenna, noi andiamo a convincerla di scendere. 117 ‘Un c’è notte ca ppe ni fa dispiettu ‘ncunu ‘unn ‘appiccia ‘u fuocu e ru va ‘mpizza ppe ssi sfiziari ‘ntra nu cassonettu, e nua fujìmu ppè stutà ‘a munnizza. Ma ppe ‘ i perdite ‘unn’àmu competenza e s’hannu ‘i futta i vigili ‘i Cusenza.” S’era fatta già quasi menzannotte, ed antramentri ‘u lacu s’era unchiatu. I pompieri, ccu tutta l’autobotte si cc’ eranu cunzati latu latu, hannu dittu “Vidimu chi succeda “ e circatu na seggia ppe si seda. Haju scisu allura cincu o sia sgabelli, quattru buttiglie i vinu e ri bicchieri e ni simu assittati belli belli ccu ‘u comandante e l’atri dua pompieri. Haju dittu ‘i scinna sutta a ru vicinu ed haju stappatu na buttiglia ‘i vinu. Non c’è notte che per farci dispetto qualcuno non accenda un fuoco e non si tolga lo sfizio di attaccarlo a un cassonetto, e noi corriamo per spegnere la spazzatura. Ma per le perdite non abbiamo competenza e se la devono vedere i vigili di Cosenza.” Si era già fatta quasi mzzanotte e nel frattempo il lago si era gonfiato. I pompieri, con tutta l’autobotte, si ci sono sistemati accanto, hanno detto “Vediamo cosa succede” e cercato una sedia per sedersi. Allora ho portato giù cinque o sei sgabelli, quattro bottiglie di vino con i bicchieri, e ci siamo seduti tranquillamente, con il comandante e gli altri due pompieri. Ho detto al vicino di scendere e ho stappato una bottiglia di vino. 118 Intantu s’è fermata na gazzella ca passava ppe casu llà vicinu e siccome ‘a nottata parìa bella ed avìanu sentutu nu casinu, ni su’ scisi na cùcchia ‘i carbinieri, ca si vulìanu viva nu bicchieri. L’haju fatti accomodari ddrà davanti, e nu par’ i sgabelli l’haju ricuotu. M’ha dittu ‘u marasciallu: “Grazzie tanti. Ca nua giràmu quasi sempre a vuotu, e si na notte avìmu cumpagnia è sempre ancunu ch’è d’a Polizia. E putiti capiscia ca ‘un ni gusta, ch’ i poliziotti si fannu nu doveri – e dicitimi vua s’a cosa è giusta – ‘i ni cuntari supr’ i carbinieri nu saccu ‘i barzellette ca sapìmu e nua l’ àmu ‘i fà vida ca ridìmu.” Intanto si è fermata una gazzella che per caso passava lì vicino e dato che la nottata sembrava bella e che avevano sentito un certo trambusto ne sono scesi due carabinieri che volevano bere un bicchiere. Li ho fatti accomodare davanti casa e ho trovato un paio di sgabelli. Il maresciallo mi ha detto: “Grazie tante. Perché noi giriamo quasi sepre a vuoto, e se una notte abbiamo compagnia, è sempre qualcuno della polizia. E lei può benissimo capire che non ci piace, perché i poliziotti si fanno un dovere – mi dica lei se la cosa è giusta – di raccontarci tante barzellette sui carabinieri che già sappiamo e noi dobbiamo fargli vedere che ridiamo.” 119 Era passata forse na menzura quannu m’arriva na telefonata : “Parra ‘u Comune. Avìti na ruttura? Ch ‘ i pompieri ni l’ hannu segnalata. Stati tranquilli, ‘u bb’ ati ‘i preoccupà ca ‘ntra nu quartu d’ura simu ddrà.” N’energumenu infatti dopu pocu quazatu ‘i zuocculi e ccu na canottiera vena addimmanna: “Sa ruttura è ddruocu? Mi cci faciti vì s’ è propriu vera? Picchì ppe vida s’a ruttura è certa a mmia mi mannanu in avanscoperta.” L’haju dittu: “È propriu ccà, si cci guardati. Ma stativicci accuortu ca cc’e ‘mpusu.” Ha rispusu: “ Nua simu preparati, i zuocculi i tenimu pronti all’usu. Comunque, ‘u bbi pigliati di pagura, na perdita cci ha d’essa o na ruttura. Era forse passata una mezz’ora quando mi arriva una telefonata: “Parla il Comune. Avete una rottura? I pompieri ce l’hanno segnalata. State tranquilli, non dovete preoccuparvi, che tra un quarto d’ora siamo da voi.” Infatti dopo poco un energumeno in canottiera e calzato di zoccoli viene a chiedere: “È qui la rottura? Mi fate vedere se è vera? Perché a me mi mandano in avanscoperta per vedere se la rottura è certa.” Gli ho detto: “È proprio qui, come lei può vedere. Ma stia attento, che c’è bagnato.” Ha risposto: “Noi siamo preparati, teniamo gli zoccoli pronti all’uso. Comunque lei non deve avere paura, ci dev’essere una perdita o una rottura. 120 Però nun puozzu agì personalmente, picchì nun tiegnu nuddra autonomia, ma ‘ntra ssi casi immedi-atamente haju ‘i chiamari ‘u superiuri mia.” Mentri chiamava ccu ru cellulari na bicchieri l’haju datu ppe pruvari. “Picchì, signore caro, cchi criditi? cussì è ra pubblica amministrazione – ha dittu, – ca ni vò tutti appiattiti, senza avì nè n’idea nè n’opinione. Ma ni l’ àmu ‘i pigliari ccu pacienza, ca chissi sù l’uffici ‘ntra Cusenza.” ‘U vicinu lavura a ru Catastu, e cumu ha ‘ntisu sa dichiarazione è parsu ca cuntientu ‘un c’è rimastu ma subbitu ha attaccatu na quistione diciennu: “Amu ‘i distingua, cari amici, picchì tuttu dipenna di l’uffici. Però non posso agire personalmente, perché non ho nessuna autonomia, ma in questi casi devo immediatamente chiamare il mio superiore.” Mentre chiamava col cellulare gli ho dato da assaggiare un bicchiere. “Perché, caro signore, cosa crede? Così è la pubblica amministrazione – ha detto – che ci vuole tutti appiattiti, senza avere un’idea né un’opinione. Ma dobbiamo prenderla con pazienza, perché questi a Cosenza sono i pubblici uffici.” Il vicino è impiegato al Catasto e, sentendo questa dichiarazione, ha fatto vedere di non essere rimasto contento ma ha attaccato subito una discussione dicendo: “Dobbiamo distinguere, cari amici, perché tutto dipende dagli uffici.” 121 All’ufficiu d’u mia, simu statali, e avimu ‘u capufficiu di Torinu, ca veramente para n’ animali, nu cani, ma cchi dicu, nu mastinu: e ddrà, chini nun sgobba ‘un c’è clemenza, atru ca ‘ u Municipiu di Cusenza!.” ‘U superiuri, ch’era fatta l’una, n’ha truvatu ca stavamu ddrà sutta. assittati a ri bordi d’a laguna, è jutu a vida ‘a tubazione rutta e ha dittu: “C’è na cosa ch’è sicura, na perdita cci’ha d’essa o na ruttura. Iu signu a capu a ra manutenzione, ma fattu sta ca signu ragiunieri, e nun sacciu sbroglià sa situazione, ca v’a cunzerra propriu volentieri, ma s’un chiamamu ‘u funtanaru capu nua ccà nun ni sapìmu vena a capu.” Al mio ufficio, siamo statali e abbiamo il capufficio di Torino, che sembra davvero un animale, un cane, ma che dico, un mastino: e lì, se non si sgobba, non c’è misericordia, altro che al Municipio di Cosenza.” Il superiore si è presentato che si era fatta l’una, e ci ha trovato che stavamo lì in giardino seduti ai bordi sella laguna, è andato a vedere la tubazione rotta e ha detto: “C’è una cosa che è sicura, ci deve essere una perdita o una rottura. Io sono a capo della manutenzione, ma il fatto è che sono ragioniere, e non so sbrogliare questa situazione, che gliela riparerei molto volentieri, ma se non chiamiamo il capo fontanaro noi qui non sappiamo venirne a capo.” 122 Ccussì ‘ ha chiamatu e l’ha cuntatu tuttu, l’ha descrittu ‘a laguna e ra cascata l’ha spiegatu ca cc’era ‘u tubbu ruttu, e ca avia di venì dintr’a nuttata. E quindi, in cumpagnia di nu bicchieri, s’è misu a ni parrari volentieri. “Signore caro, – ha dittu, – si guardati, è chissu ca succeda ‘ntra s’uffici, ca ni vidanu tutti indaffarati faciennu straordinari e sacrifici, ma simu condannati all’impotenza cumu tutt’i ‘mpiegati ‘ntra Cusenza.” ‘U vicinu ha rispusu baccagliannu ca l’uffici nun sunnu tutti ‘guali, e ch’iddru va sbattiennu tuttu l’annu a ru Catastu, e ddrà sunnu statali, e casu mai su sc-chifu, s’indecenza, riguarda ‘u Municipiu di Cusenza. Così l’ha chiamato e gli ha raccontato l’accaduto, gli ha descritto la laguna e la cascata, gli ha spiegato che c’era un tubo rotto e che doveva venire nel corso della nottata. Quindi, in compagnia di un bicchiere, s’è messo a parlarci di buon grado. “Caro signore, – ha detto, – se lei ci fa caso, è questo che capita negli uffici, che ci vedono tutti indaffarati a fare straordinari e sacrifici, ma siamo condannati all’impotenza, come tutti gli impiegati di Cosenza.” Il vicino ha risposto protestando che gli uffici non sono tutti gli stessi, che lui tira la carretta tutto l’anno al Catasto, dove sono statali, e caso mai questo schifo, quest’indecenza, riguarda il Municipio di Cosenza. 123 Ccu ssi discursi, si sù fatti i tria, quannu arriva nu certu zù Gatanu, ‘u funtanaru capu, ca parìa siccatu, datu ch’è na picca anzianu. Comunque ha dittu: “Unn’ àti avì pagura, na perdita cci ha d’essa o na ruttura.” “Scavàmu – ha dittu – ‘ntra sa direzione, ca truvamu nu tubbu ‘nfracidutu.” ‘U capu d’u serviziu, all’occasione, è parsu cumu s’unn’avìa sintutu, l’energumenu ccu ra canottiera è parsu cumu quannu mancu cc’era, i pompieri vivìanu ca ‘un vi dicu, i carbinieri studiavanu ‘a quistione, allura iu stessu m’haju pigliatu ‘u picu scavannu n’terra ccu granni decisione, senza guardà si cc’era ‘mpusu o asciuttu e all’urtimu haju truvatu ‘u tubbu ruttu. Con questi discorsi si sono fatte le tre, quando arriva un certo zio Gaetano, il capo fontanaro, che sembrava seccato, dato che è un po’ anziano. Comunque ha detto: “Non dovete aver paura, ci dev’essere una perdita o una rottura.” Ha detto “Scaviamo in questa direzione, che troviamo un tubo corroso.” Il capo servizio all’occasione è sembrato come se non avesse sentito, l’energumeno in canottiera è sembrato come se addirittura non ci fosse, i pompieri bevevano che non vi dico, i carabinieri studiavano il da farsi, allora io stesso ho preso il piccone e scavando a terra con gran decisione, senza guardare se c’era bagnato o asciutto, all’ultimo ho trovato il tubo rotto. 124 arìa di nu dua pollici zincatu, viecchiu d’armenu na trentina d’anni, era di fora tuttu ‘ntartaratu ccu ‘ntuornu nu sia o sette buchi granni sicchè d’a parte ch’era sforacchiata iscìa l’acqua ccu forza inusitata. “U piezzu ‘i tubbu è tuttu ‘nfracidutu – ha dittu ccu prudenza zù Gatànu – e guarda cum’è fattu su curnutu, ca mancu nu centimetru c’è sanu: s’ unn’era chissu ccà, ppe ssa ruttura cci avìa pututu fà na saldatura. Invece n’haju ‘i tagliari nu pezzottu, e dopu ca i dua capi haju filettatu cci haju ’ adattà nu duppiu manicottu in modu di cci ‘u mintari abbitatu: ma ad ura ca vaju truovu i piezzi e tuornu, ti fazzu vì ca già s’è fattu juornu.” Sembrava un due pollici zincato, vechio di almeno una trentina d’anni, era esternamente tutto incrostato con intorno sei o sette larghi buchi, sicché dalla parte sforacchiata usciva l’acqua con inusitata forza. “Il pezzo di tubo è tutto corroso – ha detto con prudenza zio Gaetano – e guarda com’è ridotto questo cornuto, che non ha neanche un centimetro buono: se non era così, per questa rottura avrei potuto fare una saldatura. Invece ne devo tagliare un bel pezzo, e dopo aver filettato i due monconi ci devo adattare un doppio manicotto in modo da potercelo avvitare: ma finché non vado a prendere i pezzi e torno, penso che si sarà gia fatto giorno.” 125 “E ch’ àmu ‘i fà ccu ss’ acqua ca ni spruzza e inesorabilmente sempre avanza?”haju circatu. Grattannusi ‘a cucuzza iddru ha rispusu: “L’unica speranza si vù senta cchi dìcia zù Gatànu è d’a tena ‘ntippata ccu na manu. Ténacci ‘a manu, è nu rimediu anticu ca serva ppe ssa cosa e n’atri cientu: ténacci ‘a manu, senta cchi ti dicu, e vida ca ti pù truvà cuntientu, ténacci ‘a manu supra fermamente, ca ti risolva e nun ti custa nente.” Cci haju misu ‘a manu e l’acqua s’è attagnata. I funtanari si nni sunnu juti diciennu ca però ppe ra nottata mi putìanu lassà tanti saluti, ca si prima ‘un rapìanu i ferramenta difficilmente si facienu senta. “E che dobbiamo fare con quest’acqua che ci innaffia e avanza sempre inesorabilmente?” ho domandato. Grattandosi la testa, lui ha risposto: “L’unica speranza se lei vuol sentire quello che dice zio Gaetano, è di tenerla tappata con una mano. Ci tenga una mano, è un rimedio antico, che serve per questa cosa e per altre cento, ci tenga la mano, senta quel che le dico, e vedrà che potrà rimanerne contento, ci tenga la mano di sopra con fermezza, che risolve il problema e non costa niente.” Ci ho messo la mano e il flusso d’acqua si è arrestato. I fontanari se ne sono andati, dicendo che però per quella notte mi potevano lasciare i loro saluti, che se prima non aprivano i ferramenta difficilmente si sarebbero fatti sentire. 126 Intantu puru ‘u vinu era finitu, ccussì si sù sumati i carbinieri, ca m‘hannu ringraziatu ppe ru ‘mmitu diciennu ca venìanu volentieri n’atra vota a passari na nuttata si ‘ncuna tubbazzione era sc-cattata. ’U vicinu ha pigliatu l’occasione ‘i mi dà finalmente ‘a bonanotte, e ri pompieri, vista ‘a cunchiusione, si nni su juti ccu tutta l’autobotte. Quantu a mmia, v’haju cuntatu ‘u fattu stranu e v ‘u finisciu quannu cacciu ‘a manu. Intanto pure il vino era finito, così i carabinieri si sono alzati, ringraziandomi per l’invito e dicendo che volentieri sarebbero venuti un’altra volta a passare la nottata se scoppiava un’altra tubazione. Il vicino ha colto l’occasione di darmi finalmente la buona notte, e i pompieri, vista la conclusione del caso, se ne sono andati con l’autobotte. Quanto a me, vi ho raccontato questa storia strana e ve la finisco quando tolgo la mano. 127 128 INDICE Una breve presentazione di F.C. Farfalla e Pappagallo di Nicola Merola Pag. 7 “ 9 ‘NTRA CUSENZA ‘I TIEMPI ‘I MÒ 'U vierso 'A botta 'U viziu Lipari Walkirie 'A tavuletta Ohi cchi bellezza 'u jennaru dentista 'U Dientici e 'a Cernia 'U tappetinu 'L’atra botta 'A bolla Sciatica ‘A nascita “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ 17 19 21 23 27 28 31 33 37 39 41 45 47 L’UORTU ABBANNUNATU (Una concessione alla lirica) L'uortu abbannunatu 'U pinu 'i San Daniele Mari d’agustu Carrumagnu Timpune 'a Stiddra I juorni d'a tortora ‘A chitarra I cumpagni Il Maestro 'U rizzu “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 “ “ “ 63 67 71 NTRA CUSENZA ‘I L’ALDILÀ Canto I Canto II Canto III 129 Canto IV Canto V Canto VI e ultimo “ “ “ 76 79 85 AMARCORD – M’ARRICUORDU 'A casa Corso Telesio 196 ‘U purtuni, i scale I vicini I cammere ‘A mobilia ‘A mantella “ “ “ “ “ “ “ 91 91 93 95 97 102 106 “ 113 ‘A PERDITA ‘A perdita 130 Finito di stampare nel mese di novembre 2009 presso la Grafica Cosentina, Cosenza 132