n.5 2 The Godfather Simone Sarasso di JACOPO CIRILLO Q uesta è una presa di posizione. Il Padrino di Finzioni non deve per forza essere Kafka, Queneau o altri semidei. Il Padrino dev’essere uno scrittore il cui approccio al mondo e alla letteratura ci ha fatto venire un’idea. Pensiamo infatti che una recensione divertente sia da scrivere che da leggere non debba partire dai libri ma da una bella idea che i libri ti hanno fatto venire. Di modo che chi legge capisca l’opera, o se ne faccia un’opinione, attraverso l’idea. Simone Sarasso sta scrivendo una trilogia sporca d’Italia dedicata alla storia recente di questo paese e, anche se il terzo è ancora nella sua penna, i primi due libri già fanno venire delle idee meravigliose (oltre ad essere proprio belli). I libri di Simone Sarasso funzionano, credo, per tentativi e differenze. Facciamo un esempio. Mettiamo che uno non sappia il significato della parola “segaligno”. Intanto, se ne conosce almeno l’esistenza, l’avrà letta o sentita da qualche parte. A quel punto, le strade sono due: o si va sul dizionario, ma è uno sbattimento, o si prova a capire il significato per i fatti propri. Si tiene la parola in stand by nella memoria e si aspetta di rincontrarla in altri contesti. Dopo due, tre, quattro occorrenze, ci si comincia a fare un’idea della nebulosa di significato di segaligno, procedendo per differenza. Frase n. 1: “Se sei basso e segaligno non puoi che farti soprannominare miccetta! [1]”. Mmm, dunque sarà qualcosa riferito alla costituzione. Non dovrebbe essere un sinonimo di basso, altrimenti sarebbe ridondante. Visto che è paragonato a una miccetta però potrebbe essere una questione di carattere. Vabbuò, chissenefrega. Qualche settimana dopo, frase numero 2: “E maggio mai arriva/piuttosto l’inverno segaligno affonda/zanne, il viso ha sfumature blande[2]”. Oh-oh, e che c’entra col Miccetta? E va bè, si è capito come va avanti. Per tentativi, per differenze, per contestualizzazioni si arriva finalmente alla definizione di segaligno, senza consultare l’umiliante dizionario. In un certo modo i libri di Simone Sarasso, Confine di stato e Settanta (entrambi Marsilio), funzionano così. La storia dei libri non è la storia dell’Italia del dopoguerra e degli anni settanta: si ispira ad essa. A volte ne ricalca le premesse divergendo gli esiti, talvolta procede parallela e altre volte riempie buchi storiografici con l’invenzione. Insomma, si impernia sul bellissimo concetto di scarto. E alla fine, quando li hai letti - se sei giovane e quegli anni non li hai nemmeno vissuti - ecco che ti ritrovi a saperne molto più di prima, ecco che ti atteggi a esperto. Eh, lo so io come andava in quegli anni. E non l’ho capito andando a leggerlo in un noiosissimo libro di storia. Ci sono arrivato per differenza. [1] [2] http://forum.giovani.it. Topic: “Problema con il pene”. http://www.poetare.it. Poesie di Cristina Bove. 3 Sommario La citazione del mese Beaten Beatitude Nobel minori Letterature Involontarie Punizioni! Biografie Edulcorate Le città letterarie Sui labirinti L’angolo del cinematografo Recensione/1 Soluzione Cruciverboso 5 6 7 8 10 11 12 13 14 15 16 Déjà lu Pillole di Scienza Viaggi Oh, Scena! Il demone della coscienza Mattoni Libri (quasi) mai letti I ferri del mestiere La posta dei lettori Ghost World Iperboloser 18 19 20 21 22 23 24 25 26 28 29 Editoriale B entornati! Noi di Finzioni, invece di andare in vacanza, ci siamo rintanati per tutto agosto nelle nostre camerette senza condizionatore per scrivere i bellissimi articoli di questo numero post-estivo. Chiudiamo augurandovi una buona ripresa autunno/inverno e presentando due nuove bellissime rubriche: Mattoni di Filippo Pennacchio, in cui si parlerà di libri che pesano più di 8 kg e Libri (quasi) (mai) letti di Maria Giovanna Ziccardi, dove l’autrice si permetterà di dare giudizi a priori su libri che, ad andar bene, ha giusto sfogliato distrattamente. Anzitutto un annuncio: il Cruciverboso è stato risolto (sì, avete capito bene) da un lettore affezionato che però ci ha chiesto di rimanere anonimo. Per lui l’abbonamento fino a dicembre. Abbonatevi e date una mano a Finzioni per crescere e diventare sempre più bello e famoso, come George Clooney o Nino Frassica. A questo proposito: da questo numero Finzioni cartaceo sarà disponibile solo su abbonamento, dunque correte sul sito http://finzioni.bigcartel.com. Prezzi stracciati e la comodità della rivista a casa vostra ogni 15 del mese. La Redazione 4 Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem. Guglielmo d’Ockham. La citazione del mese Il rosso e il nero & Le avventure di Huckleberry Finn di JACOPO CIRILLO L e lingue morte, su Finzioni, le usiamo solo per fare i belli. Adempiuto questo compito, parliamo – in italiano – del noiosissimo rasoio di Occam: non bisogna moltiplicare gli elementi senza necessità. Quindi l’assassino è sempre chi ha il movente più sospetto. Quindi una materia a vocazione teorica, piuttosto che costruire complicati sistemi di categorie e farli cadere dall’alto sugli oggetti in analisi – rendendoli dunque subordinati all’analisi stessa – dovrebbe avere poche categorie e usarle in modo consapevole e mirato. Quindi, infine, è inutile farsi mille pare per delle questioni semplicissime, come purtroppo invece tendiamo a fare noi giovani. Un giovane che si fa delle gran pare per niente è Julien Sorel de Il rosso e il nero (Einaudi 2005, p. 555, 10 euro). Il rosso e il nero è un romanzo in cui, per dirla in due parole, tutti sbroccano continuamente per qualsiasi cosa. Prima la signora di Renal che, peraltro, ne voleva fin dall’inizio (“fu colpita dall’estrema bellezza di Giuliano” a pagina 34) e che Julien prima ama, poi non ama, poi forse però è lei che non ama lui, ma magari non si amano proprio, ma alla fine sì però lui se ne va in seminario. Poi la bella e nobile Matilde de la Mole, anche lei una gran tuonata, che lo ama per tre giorni e poi lo disprezza, e allora lui prima è orgoglioso e fiero, poi si sente una nullità: all’inizio non la ama, poi ci guarda bene e invece la ama, ma quando lei non lo vuole più si mette a corteggiare le sue amiche per farla ingelosire e alla fine… che pasticcio! Non si fraintenda: Il rosso e il nero è un romanzo meraviglioso, Stendhal riesce davvero, parallelamente, a violentare l’animo di questo ragazzo e l’animo della Francia della Restaurazione, in modo sublime e terribile. Epperò Giuliano avrebbe tanto da imparare sia da Occam che da un altro grande giovane della letteratura di tutti i tempi: Huckelberry Finn. Ecco, ad Huckelberry Finn non 5 gliene frega un cazzo. Di niente. Nelle sue Avventure (Mondadori 2004, p. 334, 8 euro), c’è suo babbo che è un violento ubriacone e lui, tranquillo, lo inganna, si fa passare per morto e se ne va, a caso, su una zattera insieme a Jim, uno schiavo fuggiasco. Così! Poi vive in una botte da zucchero per un po’, si fa fregare e rifrega due truffatori e altre storie del genere. E la cosa è interessante perché Occam celebra non tanto la “verità” del rasoio, quanto la sua “semplicità”. È per questo che tutta la teoria, oltre a essere un’applicazione teorica e scientifica o la dimostrazione dell’inutilità dell’esistenza di dio, è prima di tutto un approccio alla vita, una disposizione d’animo. Che in Giuliano e Huck trova i suoi estremi e che, in mezzo, prevede tutto il resto. Ma il rasoio di Occam non era quella teoria per cui la soluzione più semplice è spesso quella giusta? Massì, massì che è la stessa cosa. Beaten Beatitude Yab-yum di JACOPO DONATI Q uando i loro vicini di casa riflettevano su quale college potesse offrire più occasioni ai loro figli, i beat sbadigliavano e pensavano ad altro. Quando quelli della casa di fronte compravano macchina e lavatrice e, ogni domenica, rasavano l’erba del giardino, i beat si cimentavano nel nobile yabyum (altresì noto rito orgiastico buddhista). Una delle prime scene de I vagabondi del Dharma si svolge nella casa di Ginsberg (Alvah, nel libro) e vede coinvolti il padrone di casa, Kerouac (Ray), Gary Snyder (Japhy) e Princess, dolce bionda ragazza fulcro dello yab-yum che si apprestano a celebrare. A parte ciò, l’intero libro descrive i vagabondaggi di Kerouac e la sua scoperta dello Zen. Gary Snyder, una sorta di Dean Moriarty de I vagabondi del Dharma, è un energico montanaro con due occhi taglienti e un immenso interesse per il buddhismo. Fu lui a istruire per primo Kerouac, anche se i suoi insegnamenti non furono ben recepiti e buona parte del buddhismo che si trova tra quelle pagine è travisato. Kerouac scrive I vagabondi del Dharma, Allan Watts Lo Zen; Kerouac dimostra di non aver capito nulla dello Zen ma forse è un po’ meno didattico di Watts che bacchetta un po’ tutti i beat. Snyder e Watts (anche quest’ultimo nel libro di Kerouac con il nome di Arthur Wane) furono i due fari Zen dei beat e in comune non ebbero quasi nulla, percorsi differenti uniti solo nella meta, il satori, l’illuminazione improvvisa. I vagabondi del Dharma esce dopo Sulla strada e I sotterranei ma né pubblico né critica lo accolgono come accolsero questi due. Leggendolo si ha la sensazione di un libro costruito a tavolino in cui pare si voglia rievocare i movimentati viaggi di Sulla strada o la spontaneità di I sotterranei, senza riuscire a fare nessuna delle due cose; Kerouac è fin troppo pieno di sé e chi mastica un po’ il buddhismo strozzerebbe il suo alter ego per certe idiozie che gli escono di bocca. Però fa una cosa che Lo Zen di Allan Watts non riesce a fare: dietro ai tanti discorsi che attanagliano entrambi i libri, in Kerouac si trova l’azione che Watts poté solo Li bacchetta perché prendono dalla dottrina le soli parti che interessano loro, creando una versione un po’ distorta di quello che normalmente si ritiene il buddhismo. 6 scrivere. L’omphalos dello Zen è l’azione e, sebbene travisino tanti concetti più o meno importanti, l’azione riesce benissimo ai beat. C’è da dire che Kerouac e compagnia bella si trovarono così a loro agio nei panni dello Zen perché, forse ancor più di altre tradizioni buddhiste, nello Zen non esiste maestro e studente e non esiste alcun dogma cementificato nella verità. I beat erano in un brodo di giuggiole perché rompendo lo status quo si trovarono presto ad essere maestri dei loro stessi maestri ed edificarono verità che l’American way of life negava categoricamente. Lo Zen e la lotta contro l’attaccamento del buddhismo diventarono per loro la prova che c’era qualcosa di marcio nelle viscere del consumismo americano, che quella non era la strada giusta. E poi, di domenica, si divertivano più dei vicini. Nobel Minori “La distruzione di Kreshev” di I. B. Singer di VIVIANA LISANTI C ome c’è finito un racconto del Nobel Isaac Bashevis Singer sul numero di gennaio del 1967 di Playboy? Non stiamo parlando di un Kerouac o di un Ginsberg ma di Singer: uno scrittore polacco naturalizzato statunitense, cresciuto in un’austera famiglia rabbinica di un piccolo villaggio ebraico vicino Varsavia; educato sui testi sacri ebraici; uno che scrive esclusivamente in yiddish per più di vent’anni, anche dopo aver lasciato l’Europa per trasferirsi definitivamente a New York nel 1935. dernità delle sue opere, la volontà di sondare la natura umana e il suo rapporto con il divino senza alcun timore reverenziale nei confronti di una tradizione antica e forte come quell’ebraica. Una volontà che gli frutta un Nobel nel 1978, ma nello stesso tempo lo espone alle critiche di una parte dell’establishment ebraico americano, che giunge a definirlo un “buffone blasfemo”, un traditore d’Israele che ha degradato la cultura ebraica riducendola ad una sfilata di puttane e pervertiti. La prima traduzione in inglese di una collezione di suoi racconti, Gimpel l’idiota (Tea, 286 p., € 8,50), ad opera di Saul Bellow, risale infatti al 1953 e coincide con la fortunata scoperta di Singer da parte del pubblico americano. Il resto è un susseguirsi di successi e pubblicazioni sui principali magazine americani quali Esquire, The New Yorker e persino Playboy… E’ indubbio che Singer sia completamente immerso nella tradizione ebraica, dalla quale trae la materia prima per i suoi romanzi: i personaggi si muovono nel microcosmo costituito dagli shtelt della provincia ebraica polacca fino al tragico scenario della diaspora negli Stati Uniti durante la persecuzione nazista. Come si spiega il successo, prima americano e poi mondiale, di un autore così calato nella realtà ebraica europea, sbarcato in America negli anni ’30 con alle spalle un romanzo pubblicato, Satana a Goray (Tea, 246 p. € 13,00) , storia di diavoli e punizioni divine ambientato in uno shtelt nell’Europa dell’est del XVIII secolo? Cos’ha da dire all’America uno scrittore che, come egli stesso racconterà in seguito, sapeva pronunciare solo tre parole in inglese :“take the chair”? Il successo si spiega con la mo- La novità sta però nell’uso che fa di questa ingombrante eredità culturale: egli infatti la sfrutta non in funzione della rievocazione nostalgica di un passato idealizzato, fatto di ordine, armonia, rispetto della legge di Dio, purezza ebraica. Al contrario il folclore ebraico è il terreno sul quale innestare un universo governato dall’irrazionale e dall’istinto, popolato da personaggi troppo umani, in balia delle proprie passioni, schiavi della propria sessualità. Un’umanità che mette continuamente in discussione il proprio credo, diventando protagonista in un gioco di opposizioni 7 ed equilibri, tra ordine e caos, fede ed eresia, virtù e peccato. La distruzione di Kreshev (Guanda, 96 p., € 8,26) è un racconto breve pubblicato nel 1940 che ben riassume i temi cari all’autore. Il narratore è Satana il quale racconta compiaciuto del matrimonio tra Lise e Shloimele, un giovane seguace di una setta ebraica facente capo a Shabbatai Zevi, sedicente messia del XVI secolo. Il movimento antinomico sabbatiano proclamava la salvezza del mondo per mezzo della trasgressione della legge: bisognava toccare il fondo per risalire; essere condannati per poter essere assolti. I seguaci si dedicavano così ad ogni tipo di aberrazione morale, fino a perversioni sessuali degradanti quali l’adulterio, l’incesto, i riti orgiastici. E’ proprio al culmine di un’escalation di perversioni sessuali alle quali i due sposi si dedicano basandosi su antichi testi cabalistici, che Shloimele convince Lise a commettere adulterio. I due saranno condannati dalla comunità ma la vera assoluzione arriverà solo attraverso il fuoco purificatore che renderà cenere l’intero villaggio. Ora è chiaro perché Singer è finito su Playboy. Letterature involontarie In “buona” sostanza. Cosa dire a Immanuel Kant prima che parta per Baltimora. di EDOARDO LUCATTI I n una scuola elementare di Baltimora sono in corso le esercitazioni di matematica. Mister Prezbo (PR) è l’insegnante, Charlene (CH) una ragazzina che non riesce a eseguire il proprio compito[1]. PR: Charlene, cos’è che non ti è chiaro? CH: Niente. PR: Okay, vediamo di trovare un modo per fartelo capire. Quant’è il diametro? CH: È 7. PR: Bene, okay. Quant’è la metà di quello? CH: Non puoi dividerlo a metà. PR: Okay, fingiamo che tu abbia 10 dollari e ne dia metà a Jasmine. CH: Perché dovrei? PR: Bhé, fingiamo e basta, okay? Gliene dai la metà. Quanti ne riceve? CH: 5 dollari. PR: Esatto. Adesso fingiamo che tu ne abbia 7 e gliene dia metà. Quanti ne riceve? CH: 3 dollari e 50. PR: Benissimo, quindi… Quindi un cazzo. Charlene scuote la testa e guarda male mister Prezbo. Forse ci vede un povero deficiente che se ne va in giro invitando i minori a elargire metà dei loro averi. Charlene non risponderà mai alla domanda e non risolverà mai il suo esercizio. Charlene, e con lei l’intera sua classe, non sta pensando alla matematica. Sta pensando a Baltimora. Baltimora è una delle città più violente e pericolose del mondo, con un tasso di delinquenza giovanile probabilmente ineguagliato. Per i ragazzi, tutti rigorosamente di colore, la scuola è una pausa piuttosto insensata fra un illecito e l’altro. La matematica non significa nulla, a meno che non riguardi soldi che entrano e soldi che escono, dosi da preparare e dosi da vendere, chilometri da percorrere a una certa velocità per incrociare un corriere o scappare da un agente. Ma anche in quel caso, per così dire, it’s not about maths, it’s about Baltimora. L’esempio in altre parole - non esemplifica nulla; racconta semplicemente se stesso, il fatto che hai 7 dollari e ne devi dare la metà a Jasmine, a quel- 8 la lì che magari è pure una stronza. Ma allora cosa rimane dell’esempio quando non è più esempio di? Rimane una storia, qualcuno che fa qualcosa. Charlene non sa fare 7 diviso 2, ma sa benissimo che la metà di 7 dollari sono 3 dollari e 50. In termini filosofici, Charlene è interessata solo alla sostanza e non alla relazione (o forma) che vi soggiace. Perché, in definitiva, è delle sostanze che si deve rendere conto. Louis Hjelmslev, celebre linguista danese, non la pensa come Charlene. Il suo obiettivo è spiegare la lingua in modo puramente algebrico, cioè attraverso il solo impiego di sistemi di relazioni. Senza dollari, senza dosi, senza chilometri, corrieri o agenti di polizia. Spiegare come funziona la lingua nella più totale assenza di esempi concreti e ‘pratici’. Quando enuncia le sue teorie, i suoi colleghi più “sostanzialisti” gli chiedono: “ad esempio?” Ma lui niente, non risponde. Tutt’al più, facendo mostra di una certa spocchia, delega “i suoi collaboratori più stretti a rispondere per lui. (…) Nel suo animo è sufficiente la profonda consapevolezza della grandiosità del suo disegno teorico” (Galassi 2009: 8). Ciò di cui Hjelmslev bellamente si pasce sembra esibire alcuni dei tratti che in Kant sono proprio del giudizio, “elemento specifico del così detto ingegno naturale, al cui difetto nessuna scuola può supplire”[2]. “Il difetto di giudizio – annota in calce lo stesso Kant - è propriamente quello che si chiama grulleria, difetto a cui non c’è modo di arrecare rimedio. Una testa ottusa o limitata, alla quale non manchi altro che una conveniente capacità di giudizio, si può bene armare mediante l’insegnamento fino a farne magari un dotto”. Il punto, sostiene Kant, è che anche se il dotto arriva a conoscere molte cose, molte “sostanze”, a colui che sia dotato di giudizio basterà, in qualche modo, conoscere una cosa soltanto, che però governa tutte le altre: la “relazione”, cioè, che vige fra esse. Ora, se Immanuel Kant avesse apostrofato come “grulla” la mite Charlene, questa – con ogni probabilità – avrebbe estratto una semiautomatica dall’astuccio e al grido di “Die, mother fucker!” avrebbe imposto una significativa cesura alla storia della filosofia. Sorte analoga sarebbe toccata anche a uno sciagurato Hjelmslev che – piuttosto incautamente - avesse cantato in terra tanto straniera le lodi della sua algebra senza esempi. E un po’, a mio parere, se la sarebbero meritata. Che cazzo, non è mica facile farsi un’idea della “pura relazione”! Ernst Cassirer infatti, che forse a Baltimora un viaggetto se l’è fatto, una volta ha scritto: “L’espressione dell’ “essere” inteso come una pura forma di relazione è soltanto un risultato tardivo e sotto diversi aspetti indiretto per il linguaggio, il quale in origine si trova ancora completamente nell’intuizione di ciò che esiste in senso sostanziale ed oggettivo, e rimane ad essa legato” (Cassirer 1923: trad. it. 347). In realtà, diciamolo pure, anche il vecchio Ernst preferisce la pura relazione[3], ma almeno s’è ricordato che nessuno nasce imparato e, ciò che più conta, ha provato a immaginarsi - da qualche parte - la piccola Charlene, i suoi 7 dollari e quella stronza di Jasmine che senza nessun diritto se ne beccherebbe la metà… [1] La conversazione che segue è tratta dall’episodio 11 della stagione 4 della serie tv The Wire. [2] Kant I., Critica della Ragion Pura, Dottr. trasc. degli elem., Parte II: Logica trasc., Anal. trasc., Lib II, Introduzione [3] Anche io la preferisco, perché ci si possono fare più cose. Verboso metro 20 15 10 5 0 Ritaglia il verb osomet ro e attaccalo sulla schien a del tuo amico verbos o 9 Punizioni! Verboso metro L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e l’avvolvere. Da 0 a 5 espressioni verbose. Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire. Da 5 a 10 espressioni verbose. Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana. Da 10 a 15 espressioni verbose. Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa. Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa. Più di 20 espressioni verbose. Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo. “Se fai un bel respiro” di Carlo Pastore di JACOPO CIRILLO B everly Hills 90210 è arrivato in Italia nel 1992 e io, appena decenne, lo guardavo sempre. Era bellissimo, pensavo fosse la serie televisiva più bella di sempre. Poi, però, ho riguardato le repliche nei mesi scorsi ed è stato orribile: anzitutto mi sono reso conto che è bruttissimo. Che Dylan si droga di peso, che Andrea è una gran nerd, che David è un rincoglionito e che Donna e Kelly hanno paura di pronunciare la parola “marijuana”. Ma soprattutto che Brandon Walsh è il più grande rompiballe della California e, forse, di tutto il mondo. Steve porta l’alcol alla festa delle matricole? Brandon lo moralizza e glielo impedisce, dicendo che è “sbagliato”. Valery si fa un cannone? Brandon la accusa per la fame chimica negandole il cibo “così impara”. David cambia due tipe in due sere? Brandon lo bacchetta chiamandolo “adultero”. Ebbasta! In Se fai un bel respiro, di Carlo Pastore (noto vj di MTV), Carlo Pastore, cioè il protagonista, è un gran Brandon. Tra le storie di vita vissuta nella provincia di Novara, tra presurie male (p. 16), essere creteeni (p. 53) o poverash (p. 152) e porrografare in santa pace con una macchina porrografica (p. 166), giovani diciassettenni in prima persona crescono, riflettendo – a volte in modo davvero intelligente, va detto – sul futuro loro e di tutti i loro coetanei. E, alla fine della fiera, 10 sono tutti contenti: vanno ai rave, cacano e urinano di peso, hanno i migliori amici, vengono intortati da omosessuali e guardano youporn. Il protagonista fa tutte queste cose – a volte contemporaneamente – e ha la fortuna di essere anche più profondo e responsabile degli altri, il tutto in bello stile e con un ritmo narrativo sinceramente coinvolgente e piacevole. Non fosse che, a un certo punto, viene fuori con la massima: “coca ed ero ti mandano in nero”. E da quel momento si trasforma in Brandon: è “deluso” dal suo amico che si fa della ketamina e altre droghe che io personalmente non conoscevo, gli “fa schifo”, anzi “vomitare” la sua amica che ha fatto un porno con due vecchi e “compatisce” un ciccione buontempone che riempie le automobili parcheggiate con la schiuma di un estintore e che, in risposta ai rimproveri del vicinato (tutti Brandon Walsh cresciutelli anche loro), gli caca davanti alla porta d’ingresso. In Se fai un bel respiro, la legittima funzione sociale dell’amico con la testa a posto trascende e si trasfigura nella personificazione hollywoodiana dello spaccamaroni. Suvvia Brandon, sono ragazzi! Biografie edulcorate Haruki Murakami di ANDREA MEREGALLI R agazzi. È arrivato il momento Japan. Andiamo gente! Era solo questione di tempo. Non fate quelle facce. Lui è Haruki Murakami. Chi? Lo scrittore, ovviamente. Quello della biografia edulcorata. Sì. Lui. Pensate la novità. È vivo! Un contemporaneo, perdiana! Anche i Japan, secondo voi, si toccano i gioielli di famiglia? Se sì, credo dovrebbe farci un pensierino. Ma bando alle ciance. La sua storia è allettante. E io non sono un poppante. Yo fratello. Ok la smetto. Murakami nasce. Cresce sano. Studia tanto. Nell’anno del Signore 1971 si accasa con una certa Yoko (ma si chiamano tutte così le giapponesi?!). La famiglia di lui era contraria, quella di lei no, sicché va a vivere dal suocero. E qui arriva il bello. Opta per prendersi una sorta di anno sabbatico dall’università di lettere di Tokyo (dove si laureerà nel 1975). Inizia a lavoricchiare. Un po’ qui, un po’ lì. Non è soddisfatto. Allora decide di fare alla italiana. Italians do it better. E quindi. Chiaro. Apre un bar. Che poi dire bar è riduttivo. Si tratta di un jazz bar. E cosa diavolo sarebbe un jazz bar? Credo sia un locale dove puoi bere come una spugna e ascoltare musica, jazz nel caso. Ok. Allora era come pensavamo tutti. appoggiati al bancone del “Peter”, un po’ sbronzi, a raccontare di mogli e fidanzate e lavori precari e problemi di salute e rimpianti sportivi? Io no. Ma tant’è. Perché Murakami ha dichiarato che questa esperienza si è rivelata determinante per la sua formazione di scrittore. Nel 1977 il locale si trasferisce nel centro di Tokyo. Tutto si fa ancora più dannatamente a forma di gatto. Sedie, tavoli, bastoncini, tazzine. Una sorta di Bukowski made in Japan. Ma non un alcolizzato nullafacente. Un imprenditore. Uno che apre locali. Che avvia attività. Uno che ha familiarità con le parole: Profitti. Ricavi. Business. Fino a quando, un bel giorno, inizia a pubblicare libri. I primi tre, solitamente presentati sotto il nome de La trilogia del ratto, valgono premi seri. Molto seri. Talmente seri da determinare la chiusura del jazz bar. Nel 1985 con La fine del mondo e il paese delle meraviglie, un libro fantastico, visionario, onirico, vince l’ennesimo riconosci- Il nostro Haruki è un po’ fissato con i gatti. Il posto lo chiama “Peter Cat”. Appende foto di gatti ovunque. Mette dischi. Prepara cocktail. Legge libri e, specialmente, ascolta le storie degli avventori. Una roba da non crederci. Ve li vedete i Japan 11 mento. Nel 1986 si scopre viaggiatore e passa del tempo in Grecia e in Italia. A Roma soprattutto. Dove scrive il libro che lo consacra. Un caso letterario. Tokyo blues, Norwegian wood. Quindi si trasferisce negli States. Collabora con delle università. Traduce i libri di Raymond Carver. E scrive un fottio. Nel 1995, in tre volumi, esce L’uccello che girava le viti del mondo, più di 800 pagine di romanzo. Un grande romanzo. Pregno di visioni che camminano sul filo. Tra realtà e fantasia. Tra sogno e magia. Stranamente, anche questo libro vale un premio. Ma è nel 2002 che il nome di Haruki Murakami viene alla ribalta. Kafka sulla spiaggia, il suo libro più conosciuto, vede la luce proprio in quell’anno. Un mosaico utopico. Due personaggi profondamente diversi. Due vite destinate a incrociarsi. Un romanzo che non si capisce dove voglia andare a parare fino a quando non si legge l’ultima pagina. L’ultima riga. Ma gio da Kafka sulla spiaggia. Che non credo di avervi fatto capire un granché. Ma non vogliatemene. non è nemmeno detto che, allora, lo si capisca. Forse nemmeno Murakami lo comprende appieno. Un pazzo? No. Certo che no. Uno scrittore da leggere. Che ti lascia libero. Di decidere. Di spostarti all’interno della sua trama. Un Japan atipico. Un filo nonsense. Ma di sostanza. Cosa sto dicendo? Boh. E chi lo sa. Di sicuro c’è che nel 2009 dovrebbe uscire un nuovo romanzo. 1Q84. Che titolo di personalità! Cosa vorrà dire? Mah. Di certo ci sarà un gatto. Uno come minimo. Che quello c’è sempre. E qualche tizio un po’ pazzerello. Anche. E donne. Molte. E sesso. Pure. E Vorrei chiudere con un passag- “C’è solo una cosa che devo fare: riuscire a vivere con questo involucro che è il mio corpo. Un compito facile, difficile? Dipende da come lo si guarda. Quello che so è che, anche se ci riuscirò, nessuno penserà che ho compiuto qualcosa di importante. Nessuno si alzerà per applaudirmi commosso”. Chiaro adesso? Le città letterarie Bologna P er Guccini, Bologna è una “ricca signora che fu contadina” e non c’è andato molto lontano. Chi la viene a visitare vede i monumenti, le vetrine delle boutique, certi portici tutti decorati, … ma facendo la spola tra la basilica di San Petronio e il santuario di San Luca, si passa davanti alle vetrine dei salumieri e dei pescivendoli, davanti ai vassoi colmi di tortellini pronti e a quelli colorati dalla frutta candita. La si ama anche per questo, ma Bologna non è soltanto la piccola città ricca fatta di ville sui colli e alte torri. Soprattutto, Bologna può anche sembrare una cittadina calma e tranquilla, ma sotto sotto… Lucarelli alza la sottana a questa ricca signora e l’immagine che ne esce non è quella stampata sulle guide turistiche. Scrive tanto su Bologna, ma un libro che ne racchiude questo lato nascosto è Falange armata. Tutta la storia gira intorno alla Uno bianca e a un odioso sovrintendente di polizia. La Uno bianca, quella vera dei fratelli Savi, venne fermata solo di JACOPO DONATI nel ‘94, due anni dopo la pubblicazione di Falange armata (Einaudi, 142pp, € 9,50), e fu uno choc per tutti i bolognesi. C’è qualcosa in Bologna che dà sicurezza: la cerchia di mura fa sentire protetti anche chi abita fuori porta, San Luca sembra vegliare giorno e notte e non c’è bolognese che, tornando a casa dopo un viaggio, non sia più felice quando scorge a mezz’aria l’immagine arancione del santuario. Quella illusione di sicurezza peggiorò dopo il 2 agosto del 1980, si incrinò sempre un po’ di più ad ogni colpo della Uno bianca e si ruppe definitivamente nel ’94, quando tutti scoprirono che chi aveva terrorizzato la città per ben 7 anni erano gli stessi che dovevano proteggerla. Lucarelli crea un protagonista da strozzare, questo è vero, ma riesca anche a descrivere quella sensazione di impotenza percepita con l’arresto della Uno bianca. Coliandro, questo il nome del sovrintendente protagonista, si ritrova 12 per caso invischiato in un giro di fanatici neonazisti che scopre avere poliziotti tra i suoi vertici. Di chi si può fidare? Di chi ci si fida quando proprio le forze dell’ordine sono i “cattivi”? Coliandro mostra la sua Bologna, quella che non è ricca e che non compare tra le mete dei turisti: la Bolognina dei cinesi, il Pilastro dove ancor oggi non è bello girare di notte, la Barca, i viali, tutti luoghi che non fanno bella Bologna ma che nel loro piccolo fanno Bologna. Perché Bologna, quella vera, è più nera di quel che sembra, ricca fin che vuoi ma nera. Un personaggio di Falange armata lo afferma esplicitamente in un passaggio, quando afferma che il problema non sono i neonazisti, il problema è questa città, quello che si porta sotto. Tutto sommato, però, si va avanti. Perché Bologna avrà anche del marcio sotto, ma basta guardare Piazza Maggiore illuminata, ripararsi sotto un portico o salire sui colli per innamorarsene e fregarsene di tutto il resto. I nternet é un labirinto? Ovvepuo’ supporre che il programmatoro, perdersi nella lettura onre prenda il ruolo del lettore dandoline rende idioti? A porre la rete, o il gli delle associazioni illimitate, ma rizoma, tra i tipi di labirinto é Umnon infinite, già presenti e dunque berto Eco (Dall’albero al labirinto, impedendogli di attivarle autonoBompiani, 2007), osservando che mamente. Breve excursus su Wikise nei labirinti unicursali (a una pedia: qualche ora fa, cerco la pasola via) e pluricursali (a più vie), la rola romanzo e alla prima riga sono base sta nel fatto che ci si perde cergià saltato su narrativa per vedere cando un uscita, dal rizoma, o dalla come la intende la presunta encirete, non si entra e non si esce. Tratclopedia collettiva e democratica. tandosi di labirinto pluridimensioNeanche il tempo per rifletterci che nale la scoperta della dimensione sono piombato su fotoromanzo per che lo trascende non implica la puro sfizio, il che mi porta con infuga. Se sulla classificazione di teresse a 8 maggio (data del primo Eco qualche dubbio puo’ sorgere, fotoromanzo in Italia nel 1947) e certo é che la navigazione on-line dunque a 8 maggio 589, giorno del é labirintica: una volta entrati non si sa dove si arriva e difficilmente si puo’ tornare sui propri passi senza perdersi. I link attivano connessioni inedite e materializzano processi mentali che sarebbero rimasti tali senza la mirabile operazione del link (si veda il classico di Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, 2001). Di Internet, poi, di MATTEO TRELEANI non si hanno mappe, e in molti si domandano se sia possibile dargli una forma. III Concilio di Toledo che non so cosa sia, il che mi fa piombare su Una delle differenze tra leggere regno visigoto e sul dettaglio della un romanzo e un testo sul web (che conversione di Sant’Ermenegildo, qualcuno chiamerebbe ancora col re dei Visigoti morto a Tarragona termine desueto di ipertesto) é che nel 585. Per caso sono stato a Taril romanzo attiva una serie di conragona e a quel punto il passaggio nessioni implicite che restano imda Catalogna a Isole Baleari a Ibiza maginarie (mondi possibili e dirafino a Chillout, il passo é breve. Del mazioni probabili) quando il testo percorso da romanzo a chillout, on-line concretizza ogni sviluppo passando per Ermeneglido, re dei grazie ai link. Le associazioni menVisigoti, naturalmente, in memotali si materializzano, appunto (il ria resta ben poco, soprattutto che fa pensare che il termine virsapendo che Wikipedia é sempre tuale sia la cosa meno adatta per disponibile per ritrovare le stesse un mezzo di comunicazione che in informazioni e che quando cadrò realtà materializza cio’ che prima anch’io nella trappola dell’Iphoera mentale). Il testo sul web é dunne, potrò consultarla in qualsiasi que stratificato su una molteplicità istante, anche in metrò. di dimensioni. E in qualche modo si Il dibattito sull’influenza della lettura sul web sui nostri cervelli é cosa nota. Il blogger Nicholas Carr l’aveva lanciato con un articolo in cui si riteneva meno attento e più superficiale da quando usava internet (tant’é che in inglese sulla rete, non si naviga ma si fa surf, surf the net, restando sulla superficie). Le polemiche naturalmente sono infinite e il percorso su Wikipedia, sopracitato, oltre al significato di Chillout, fanno pensare che Carr abbia nettamente ragione. I giovani apparentemente sviluppano un’attenzione multi tasking, capace di tenere conto di più livelli contemporaneamente ma in maniera superficiale, mentre la cosiddetta lettura di studio, che implica una concentrazione su un solo oggetto per un lungo periodo, é sempre più difficile. Le nuove generazioni saranno dunque capaci di reperirsi nel labirinto pluridimensionale di internet ma perderanno interesse per la lettura classica, troppo sequenziale e lenta? Sui labirinti Perdersi nella rete ci rende stupidi? 13 Troppo presto per dirlo, le abitudini di lettura sono cambiate spesso nel corso della storia, e a ogni cambiamento, com’é abituale, c’é chi si é scagliato contro il nuovo per salvare le tradizioni. Basti ricordare che nel Fedro di Platone, Socrate é decisamente inquieto di fronte allo sviluppo della scrittura. Quest’innovazione radicale, dice Socrate a Fedro, rischierà di rovinare la cultura: la gente smetterà di esercitare la memoria riponendo troppa fiducia nelle parole scritte e il sapere non sarà più trasmesso attraverso l’oralità finendo per essere solo un simulacro della vera conoscenza. Che Socrate avesse ragione? L’angolo del cinematografo “Lebanon” di Samul Maoz di JACOPO SGROI Al partire dei titoli di coda, dopo una brevissima pausa di silenzio, si accedono le luci e un applauso scrosciante riempie per dieci minuti la “Sala Grande” alla 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. E’ appena terminata la proiezione ufficiale di Lebanon. Il regista, Samuel Maoz, e i giovani attori che lo accompagnano, si alzano in piedi, scendono i gradini della galleria per avvicinarsi agli spettatori in platea che continuano ad applaudire. Un applauso lungo, sincero e privo di ogni forma di compassione. Io faccio lo stesso, mi alzo, volto lo sguardo verso il cast e ringrazio, con rispetto. su tutti il meraviglioso Valzer con Bashir di Ari Folman. Ma siamo veramente sicuri che non ci sia più bisogno di fermarsi e riflettere sulla follia che guida ogni conflitto? Samuel Maoz ha avuto il coraggio di raccontare la sua personale esperienza, quando da ragazzo si trovò a combattere la prima guerra del Libano. Il film si sviluppa interamente all’interno di un carro armato: buio, sporco, bagnato, claustrofobico. Quattro ragazzi rimangono bloccati dentro al mezzo durante il primo giorno di combattimenti e le possibilità Facciamo un salto indietro di un’ora e mezza. Durante il Festival le giornate passano velocissime, tra lavoro, conferenze stampa, feste e i mille tentativi di entrare in una sala, sperando di aver scelto il film giusto. Incastrando tutti i miei impegni di lavoro ero riuscito a trovare il tempo necessario per andare alla proiezione ufficiale di Lebanon. Sarò sincero e crudele: non avevo nessuna voglia di vedere l’ennesimo film sulla guerra in Medio Oriente. Mi sono poi dovuto ricredere, perché Lebanon parla a tutti, in modo originale e mai patetico, dell’assurdità della guerra. Qualcuno potrebbe dirmi che sono molti in realtà i film che hanno seguito questa linea, uno 14 di salvarsi sono remote. Io spettatore rimango stretto nel carro insieme a loro per tutta la durata del film. Il buio opprime e l’unica possibilità di guardare fuori è attraverso il mirino, ma quello che si vede è meno rassicurante del buio. Allo sporco del carro armato si mescolano le lacrime dei giovani soldati che all’ordine di sparare e uccidere crollano, perché nonostante i lunghi addestramenti, la fede totale nella causa, non trovano alcuna logica razionale in grado di giustificare l’obbligo di premere sul grilletto. La paura soffoca sempre di più i protagonisti e noi spettatori… Bloccati in mezzo ad un agguato devono spostare il mezzo fuori dal villaggio assediato, verso la campagna. Ma i ragazzi sono diventati più pesanti del carro stesso, non possono più muoversi, perché non c’è nessuna via da percorrere che possa salvarli dal tormento, dalla paura e dal caos che domina le loro menti. Come ha dichiarato Michael Moore alla Mostra di Venezia, la riuscita di un film dipende Lebanon di Samuel Maoz con Oshri Cohen, Michael Moshonov, Itay Tiran, Zohar Strauss, Reymond Amsalem - 92 min. - Israele. Leone d’Oro alla 66a Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia. innanzitutto dalla forza della storia da cui si parte. Samuel Maoz ha usato gli strumenti della finzione cinematografica per raccontare la sua storia, così forte e dolorosa da far nascere nello spettatore il desiderio di riflettere un’ennesima volta sull’assurdità della guerra. Recensione/1 Chiuso per turno Michele Marcon I libri pubblicati da Round Robin, neonata casa editrice romana, sono belli da vedere e da toccare. Vediamo un po’ come se la cavano con i contenuti. Mi sono trovato a leggere Chiuso per turno di Massimo Zanettini, giovane consulente informatico parmigiano che qui si cimenta con il suo primo romanzo. Che sia parmigiano lo capiamo piuttosto bene: storia ambientata a Parma con un protagonista che ama Parma e che con tutto quello che gli capita non smette mai di pensare e di riferirsi a Parma. Michelangelo gestisce un ristorante, è figlio di un cuoco e la sua famiglia è dedita alla ristorazione da generazioni. Manco a dirlo è un ciccione e la sua più grande paura è la frugalità. Ma, se tutti ci immaginiamo i ristoratori ciccioni come degli omaccioni bonaccioni e gioviali, amici di tutti, dei grossi orsi dal cuore d’oro, Michelangelo non è niente di tutto ciò. È fondamentalmente una persona sola. La sua bulimia alimentare cozza nettamente con la sua anoressia emotiva. La sua vita è scandita dai silenzi e le cose non dette. Incomunicabilità con il padre che muore lasciando un vuoto nella sua vita. Incomunicabilità con la madre che muore lasciando un vuoto nella sua vita. Incomunicabilità con la fidanzata Renata di cui non conosce i desideri più profondi, e che poi muore, manco a dirlo, lasciando un vuoto nella sua vita. Incomunicabilità che vuole essere scavalcata con un viaggio a Zanzibar consigliatogli da nientepopodimenoché… Sandokan! Roba da non crederci, ma sì, è proprio lui, la tigre di Mompracem, che si rivela essere una delle trovate meglio riuscite del romanzo, insieme a certi spunti d’ironia cui è impossibile sottrarre una risata. Fatto sta che, una volta in Africa, Michelangelo resta bloccato per cinque giorni in un villaggio sperduto nel bel mezzo del nulla. Paradossalmente le uniche persone con cui riesce ad entrare in contatto sono proprio gli indigeni di questo villaggio a migliaia di chilometri di distanza dalla sua cara vecchia 15 Parma. Ma presto dovrà tornare a casa e non vi farà più ritorno. Ecco il punto. Questo è un romanzo che non porta da nessuna parte (se non a Parma). Ma forse è proprio lì che vuole arrivare; non a Parma, intendo, ma da nessuna parte. Ci sono una tensione e una speranza di fondo che non vengono mai soddisfatte, e così devono rimanere. Come quando sei con la tua ragazza, o con i tuoi amici, e senti parlare di un ristorante dalle parti di Parma dove cucinano da Dio, specialità anolini in brodo, e tu è da settimane che hai una voglia inspiegabile di anolini col brodo, perciò decidi all’istante di partire. Sali in macchina, è da pazzi, così senza organizzare nulla, ma prendi parti vai, guidi per ore e poi arrivi. Il ristorante è chiuso. Salta tutto, la tua giornata è rovinata. Potresti cercarne un altro aperto, ma non ne vale la pena, ti eri già costruito un castello di aspettative che certamente verrebbe disatteso. Non sarebbe la stessa cosa. Puoi tornare a casa, ma dopo tutto quello che hai fatto per arrivare fino a lì ti farebbe incazzare ancora di più. Allora stai dritto in piedi di fronte al ristorante ad osservare quel cartello che laconicamente sancisce la fine di tutto: “Chiuso per turno”. Potresti stare lì per ore ad osservarlo e immaginare come sarebbe stato quel bel piatto di anolini. E allora stai lì a fissarlo senza pensare a niente, tanto è andato tutto a puttane e tu non hai mica fretta. Il Cruciverboso La soluzione a tutti i vostri problemi 1 18 M H 41 24 32 R A H di MICHELE MARCON 54 45 A H C arissimi e carissime, allora, come ve la siete cavata col cruciverboso? È stata dura? Lo so, lo immagino, ce l’avete messa tutta. Ma perché, a parte la possibilità di ricevere 3 numeri di finzioni gratis, vi siete dati tanta pena? Io una risposta ce l’ho. Perché fa figo. E non solo per voi stessi, sia chiaro. La figosità è una cosa che deve essere ben visibile ed esibita, altrimenti non c’è gusto. E vi posso assicurare che creare un cruciverboso fa ancora più figo. Schiere di ragazzine mi ammiravano con occhi luccicanti di fronte a cotanta sapienza, e io mi godevo il momento ridendo sotto i baffi (immaginari), sapendo bene che senza wikipedia non sarei nessuno. Ma è così che funziona: c’è chi studia filosofia e sciorina concetti astrusi, chi dipinge nature morte in garage spacciandole per opere surrealiste, e chi intorta ragazzine (o ragazzini), affascinate/i dagli oltre 500 volumi presenti nella propria libreria. In fin dei conti l’ammirazione altrui fa sempre piacere, specie quando si parla di cultura. Quando invece rischia di saltar fuori la propria ignoranza, ci si defila per evitare che gli sguardi luccicanti si trasformino in una triste pacca sulla spalla. Ma non c’è niente di cui vergognarsi. C’è talmente tanta roba al mondo che, credo, si possa riconoscere ogni persona sia da quello che sa, sia da quello che, spesso deliberatamente, sceglie di non sapere. 82 87 A B O R 105 R 113 I R 125 E H H 141 Z 146 Perciò spero di riuscire a proporre anche nei prossimi mesi dei bei giochini che mettano alla prova la nostra ignoranza. Per strada o tra amici non ponete limiti alle profusioni di conoscenza. Ma quando siete soli nella vostra cameretta, armatevi di tutta l’auto-ironia di cui siete capaci. Perché bisogna prenderla così, con un sorriso: non c’è scampo al ludico ludibrio. E 153 159 I T H 174 D U 187 F 194 F 16 H 19 T 76 E H 25 R E A P A M E L A D 61 A L L O A H C P H T H 137 99 E T S O H 188 D 69 I A H 88 96 O P H 107 Z M E F I L S R O O E E 167 S S H 119 E B H 114 P O 46 O T P R L H V R H 77 A H 33 R R H 20 E C O H 55 I R 106 H N 4 D T H 68 3 P E N I T 67 Y A R H 37 2 A H 138 L O H H H C H I T 160 N 181 I H 182 I 130 R O H 147 C 154 A 161 L I 175 P C S A C T O O I A H 5 R 6 P R A 26 H A 38 H 70 56 62 E H 108 C R I S I H 142 R U S H H A H 189 T 195 E A 89 C A R 100 S H 115 O S M A N H 148 R F H 168 C U 183 T U P A B H 90 D I L 109 E T T O H H 143 S I P H 48 S H 97 P A T I O H 131 E 139 L I A N E H P I M P H 177 E R H U H I 42 R 71 O R A 91 T A H 110 E N H H 132 S U M H 155 E D 169 H H S H T H E T 101 A H 116 A 120 W 126 A I T H 149 A L H 170 92 T E S 111 O H 121 R U T H H 150 S S A R E E R 72 D M 190 O H H A H T H R H H 127 D O E H E H 178 M I N 196 U 12 S 29 H A 51 M H L A 64 H S H 84 C I 102 C A I N 117 O C H H H T A B E F N O 93 128 N 133 E 140 B R 144 B A I M 156 I O N S 171 I G H O H N H 184 A 191 N A P O 17 13 22 30 O H I H 73 E H C O N T E 122 A H 134 E O H 103 E O H 123 V 129 E H 44 I N N I H A E L I S H 164 I B 179 E I H O H 157 C H 172 I N R 192 I H M I E R I E R I C H 165 I H 193 N 197 I E L H O C E H H 60 H 53 P N A H L 75 F I O N H D 81 95 A R M R O M I A M I N C O D O N H 104 98 R R I A 135 A R S E I H O H 136 H 124 E D E O T T 145 I T S L O L O E A M H 158 G I H 66 H H 151 A E L H A A R N A T 112 118 A O L 86 17 L 36 A A T O 31 M 74 16 T H O H 80 23 I A 40 N 65 15 S H N A B H H A T 85 N I I O 94 O I D N C N I I 43 59 79 14 Z K 52 F N A A M H S P O 58 I H H 28 E I I R V F R H 57 H I H H 50 O 163 M E T E G O N A 35 T O O S E H 63 11 T H 39 H M C I 27 L R A D 176 H 78 R H R 49 10 S A I 83 I L E H 9 Y H O 162 M E H A 8 L C H D S H 47 D N A A O I L H B H I 7 R 34 O H H 21 O M H H I H 152 A H H 173 N 180 H 166 J A O L O L T S I T A S L E H 185 C 186 L a prima persona a cui si pensa leggendo le frasi incongrue, prive di punteggiatura e zeppe di parolacce di Céline (18941961), è senz’altro Umberto Bossi. Non tanto per il ben noto nazionalismo dei nostri due eroi, quanto per la loro straordinaria capacità di parlare del popolo, al popolo, con la voce del popolo. Céline, che era anche lievemente nazista ed antisemita, non faceva altro che cogliere un fastidio, una sorta di prurito del basso ventre della società francese. Agli orgogliosi cugini questa storia del meticciato infatti all’inizio non piace- gestire. La cultura vuole essere di sinistra. Deve esserlo. Come fare con uno come Céline, che sputa sul mondo accademico e borghese di Jean-Paul Sartre e compagnia bella? A Gallimard, noto editore, aveva dato del “truffatore e vecchio maiale”. L’engagement intellettuale tutto gli sembra una “comoda rendita”, uno snobismo che sbrodola grammatiche seduto su poltrone in pelle e sorseggiando del cognac. Bhè, lo fecero fuori. Dopo che note vicissitudini storiche lo vollero sconfitto, esiliato, ignorato, si rintanò in una casetta vicino a Parigi, sporco come un la società che egli usa come pallide mascherine. “Céline, maestro, organizziamo un neo-movimento di risurrezione nazionale! Contiamo si di lei!” “Siete in errore.. io non voglio fare rivivere niente!...l’Europa è morta a Stalingrado…il Diavolo ci ha la sua anima! Che se la tenga! Maledetta puttanona!” Credeva che gli europei ormai mangiassero e bevessero tutto il giorno, e che i cinesi o gli africani li avrebbero fatti fuori perché la razza ariana si perdeva in piaceri dissoluti. Dei perditempo. Lui che amava la fame, i deliri dei senzatetto, le grida folli di chi, come uno Déjà lu Celine e Bossi super pop di GRETA TRAVAGLIATI va tanto, soprattutto ai più poveri. E Céline adorava il popolo, i bordelli sporchi, gli ospedali zeppi di appestati, le fogne dell’umanità, come le descrive Alberto Rosselli. Le zone dove “la giustizia non arriva ed il male si ripete per semplice mancanza di alternative”. Altro che i salotti illuminati della cultura. Anche a Bossi piacciono i festival della porchetta e le cravatte verdi. Certo, già Victor Hugo aveva scritto un libretto che si chiamava I Miserabili, ma Céline fa di molto meglio, Céline si inventa lo stile della pancia, e parla del rumore con un rumore sordo, con discorsi diretti ed immagini che si compongono come un delirio di fronte ai nostri occhi. La “scheggia impazzita” della cultura francese, lo definirono. Era di certo un intellettuale difficile da barbone e mezzo matto, a scribacchiare fino all’ultimo giorno di morte. Rigodon, finito il giorno prima di morire, parla del suo viaggio di rifugiato, dell’esilio in giro per l’Europa. Ma la parte sensazionale sta nelle prime pagine, dove Céline racconta appunto l’ultimo periodo della sua vita, quando accoglie giornalisti e vecchi amici a parolacce. Gente noiosa che vuole intervistarlo, sapere cosa ne pensa, sapere se lui è veramente così pazzo da professarsi filo-tedesco e antigesuita. “Ma fino a che punto potrà arrivare lei nell’egoismo, nel tradimento, nella viltà?” “Oh, vado molto lontano, cari amici!” Assurdi deliri di un uomo indignato? Nessuno saprà. Ad ogni modo, al di là di destra e sinistra, è la società benpensante che lui deride, 18 scarafaggio, è rimasto fuori da questa società di consumo sfrenato che Céline, reazionario fino al midollo, odiava come il peggiore dei mali. Quando ci si sofferma sui suoi lavori, è sempre dello stile che si parla, del suo libero indeterminato fluire di pensieri. Ebbene, sappiamo che nessuno stile si definisce senza considerare anche il contenuto che si trascina dietro: Céline ha creato un pensiero violento, fangoso, privo di figure retoriche e inutili boriosità perché sentiva, vedeva, annusava il tumultuoso brusio delle masse, “di quelle profondità spumose che più niente esiste”. Niente grammatica. Ma così, d’un tratto, il sublime si innesta in questa concrezione abominevole di fattacci. Ci sono invece predicatori che ab- bandonano la grammatica, ma che di stile non ne hanno nemmeno un filino. Di conseguenza, possiamo immaginare i contenuti. A h! Che estate questa estate! Ah! Le feste in spiaggia! Ah! Quanti freschi mojito sulla rena! Ah! Che bella ciucca, peccato dover guidare fino a casa! Ahi! Quanti uomini in divisa! Ahi! La paletta, “soffi qui, gentilmente”! Oioi!! Addio patente... Ebbene sì, a verde). Poi si confrontava il colore assunto dai sali con una scala e si determinava quanto alcool c’è nel sangue. Gli etilometri moderni funzionano allo stesso modo, solo che invece di usare una scala colorata hanno dei sensori per gas che misurano direttamente la concentrazione trasformandola in segnale elettrico (sensori ceramici a biossido di stagno, per i secchioni e gli amanti del nozionismo inutile), ma il concetto è lo stesso: noi soffiamo e l’etilometro ci dice quanto alcool c’è nel nostro sangue. Co-cosa? Io soffio e l’etilometro mi dice quanto alcool ho nel sangue? Proprio così! La chimica torna a bussare a di etanolo nell’aria espirata. Non si scappa. Infatti l’alcool ingerito nei numerosi cocktail bevuti entra in circolazione abbastanza in fretta (al massimo un’ora ci dicono i medici) e viene metabolizzato dal fegato lentamente. Quindi ci beccano. E i vari metodi come bere un paio di litri d’acqua o dell’olio aiutano ben poco. Per diluire l’alcool nel sangue bevendo acqua bisognerebbe infatti bere decine di litri di acqua (difficile) mentre l’idea di bere uno shot di olio per tappare lo stomaco e non far salire i vapori di alcool è sbagliata all’origine, dato che nell’etilometro ci si soffia e non ci si rutta. Che fare quindi? È Pillole di scienza Estetica del posto di blocco di FABIO PARIS anche noi di Finzioni guidiamo la macchina responsabilmente. E per fortuna, perché tante volte l’amico poliziotto ci ha invitato a soffiare nell’etilometro. Ma come funziona questo aggeggio maledetto? Contano i trucchi sentiti in salagiochi? Se mi bevo due litri di acqua poi mi riprendo? E un cucchiaino di olio che dovrebbe fare da tappo per lo stomaco? Ancora un volta Finzioni vi svela un arcano che sta dietro alla vita quotidiana. Andiamo con ordine. Innanzitutto cerchiamo di capire come funziona il palloncino, nonno dei moderni etilometri elettronici. Si gonfiava un palloncino, per cui si sapeva il volume di aria espirata, poi lo si sgonfiava facendolo passare in un tubo di sali che reagiscono con l’alcool espirato e cambiano di colore (da arancione bastoni, questa volta non è la termodinamica ma la legge di Henry. La legge che scoprì il buon William Henry (che mai avrebbe pensato potesse essere usata per trovare i beoni) ci dice infatti che la quantità di gas assorbito in un liquido è proporzionale, secondo una costante dipendente dalla temperatura e dalla natura di liquido e gas, alla pressione (ovvero concentrazione) di tale sostanza nella fase gassosa. Ovvero: a temperatura costante (e il nostro corpo è a temperatura costante) la quantità di etanolo nel nostro alito (che è in contatto col sangue nei polmoni) è direttamente proporzionale alla quantità di alcool nel sangue (che ci misurano). E il rapporto è incredibilmente costante. 80 mg di etanolo per 100 ml di sangue producono 35µg/100ml 19 possibile usare reattivi che reagiscono con l’alcool più velocemente rispetto alla velocità di misura? In linea di principio sì, solo che in commercio non ci sono gomme da masticare che sprigionino tali sostanze, dato che quando va bene sono incredibilmente tossiche, quando va male decisamente mortali. C’è poco da dire, c’è poco da fare, non resta che bere poco. O trovare un amico astemio a cui piaccia fare da autista a voi ubriaconi. Scienza e coscienza, che letture edificanti su Finzioni! H o installato su Firefox un gioco che si svolge durante le navigazioni in Internet. É una cosa un po’ da nerd chiamata PMOG, Passively Multiplayer Online Game. Il mio ruolo é quello di aprire porte che collegano diversi siti. In poche parole, chi ha lo stesso add-on installato, andando su un determinato sito troverà una porta creata da me che gli suggerisce di passare in un altro. Faccio la stessa cosa quando leggo libri. Non sono particolarmente interessato alle evoluzioni stilistiche, ai tripli salti mortali della lingua, alle gare di voli circolari e pindarici attorno a concetti spesso rubati ad autori passati. Certo non mi passerebbe mai per la mente di acquistare uno dei classici della mocciologia, ma neppure acclamo chi, superati i divertissement, con circonvoluzioni retoriche dice il nulla ma lo dice molto bene, corrompendo i giovani più di Socrate e con buona pace sia di Platone che di quel dio che avrebbe dovuto sapere se ad una sorte migliore sia andata Atene, e noi con lei, o il condannato a morte. Noto in verità con uno stupore mitigato dall’abitudine che vengono sfornati più libri con idee precotte di quante baguette precotte sforni la Panizzeria. Ciò che interessa maggiormente me e la mia lettura é vedere come la vita di un personaggio, o di un concetto filosofico, che poi é lo stesso, vengano ad incrociarsi con la mia vita privata. Apertura mentale, porte chiuse, connessioni. Extracogito ed ergo extrasum intitola Chumy Chùmez una serie di vignette dove tra amanti ci si dice ciò che nella realtà non si può: «Io ti amo molto! Ogni volta che desidero vederti morta, mi pento». A proposito dell’articolo sui single (Finzioni n° 3) ed alla faccia di Fermina Daza, che, dicia- mocelo, un poco se lo merita! Del resto ora che malvolentieri sopporto la routine necessaria alla quotidianità vorrei mille volte avere la macchina del tempo e ritornare all’epoca di una delle due Innominabili della mia vita, come a creare una porta tra il personaggio de I promessi sposi e le due figure che hanno segnato «i migliori anni della nostra vita» come la canzone di Renato Zero. Viaggi Porte di ALESSANDRO POLLINI L’Innominabile Runaway vaga per una cittadella che si crede città, vive una immaturità che crede edonismo, legge di Lorca Gli Incontri di una lumaca avventurosa piuttosto che Alba: «Oggi il mio cuore é arido/ come una stella spenta». L’Innominabile Return vaga per una city che si crede the world, vive una selfishness che crede indipendence, non sa chi sia Gabriel Garcia Marquez ma segue i Giant allo stadio di New York. Io riguardo le foto ispaniche nuotando nell’inquietudine che mi ha trasmesso la lettura di Senilità al liceo -la professoressa diceva che non era inquietante e che avrei dovuto leggerlo ma a me é parso comunque angosciante- ed evito di scrivere U.S. sui muri come Zeno, che nel caso potrebbe davvero significare United States e per un breve periodo lo ha significato. Scrivo di letture mentre potrei essere a lavorare da Starbucks facendo grandi sorrisi e servendo Gingersnap Latte o Peppermint Mocha 20 Twist o cos’altro bevono di orribile ed ipercalorico mentre tifano il football americano. Se avessi la macchina del tempo e ritornassi all’epoca di una delle due Innominabili della mia vita, probabilmente ne cercherei una terza. «Volere é potere e potendo rifar tutto/ forse costruirei dove prima avrei distrutto» canta Antonio di Rocco. Tutto é così denso da perdersi nei significati. Troppe parole possono portare al caos, o al caso, che talvolta é addirittura peggiore. Faccio mie le parole di una fiaba di Ermanno Bencivenga: «Quando ero piccolo avevo un grosso problema. [...] Succedeva che mi facessero male i pantaloni, quando la mamma li metteva in lavatrice e quella specie di ventola li sbatteva di qua e di là. Mi faceva male la porta se il vento la chiudeva con gran fracasso, mi faceva male il gatto se qualcuno gli tirava la coda e mi faceva male la sedia quando ci si sedeva lo zio Pasquale, che pesa più di un quintale e a momenti la sfonda». Mi sono venuti in mente in questo articolo: Platone - Apologia di Socrate Critone (Laterza, 139 pp. 7,50 euro); Chumy Chùmez - Siamo tutti di extra (Città armoniosa, 107 pp. Fuori commercio); Alessandro Manzoni - I promessi sposi (Garzanti, 540 pp. 9 euro); Gabriel Garcia Marquez - L’amore ai tempi del colera (Mondadori, 376 pp. 12 euro); Federico García Lorca - Tutte le poesie (Rizzoli, 1207 pp. 14 euro); Italo Svevo - Senilità (Garzanti, 202 pp. 7,5° euro); Italo Svevo - La coscienza di Zeno (Barbera, 424 pp. 10 euro); Ermanno Bencivenga La filosofia in quarantadue favole (Mondadori, 93 pp. 9 euro) Oh, Scena! venti mazzi da cinquantadue carte. Ce li abbiamo venti mazzi da cinquantadue carte? No? E allora non giuochiamo. E allora a cosa giochiamo? Giochiamo alla roulette russa! Sì! Come si fa? Ci vogliono sei pallottole e una pistola. Inizi lei, signor Presidente. Oh, Boris! di SIMONE ROSSI I l nome è James Audubon Wilson de la Pétardière-Frenouillou, che noia leggerlo tutto. Pétardière-Frenouillou, fa notare il solerte Massimo Castri, “potrebbe essere tradotto in BombardiniTagliolini, oppure in ScorregginiTagliatelle”. Salve, sono il Generale Scorreggini-Tagliatelle: da piccolo tuffavo il gatto nella minestra tenendolo per il tallone, per fortificarlo. Adesso ho 55 anni, a mia madre puzza il fiato, io bevo del gran pastis e lei fa finta di non saperlo. Generali, giochiamo alla guerra? Vorrei avere le bottigliette di birra vuote da mettermi sulla punta delle dita e farle tintinnare come il matto de I Guerrieri della Notte, e invece non vedrò mai Coney Island, baby. “Audubon, hai bevuto ancora quella porcheria?”. No, mamma. “D’altra parte non si può amare la guerra, a meno che non si abbia qualcosa di deviante dal punto di vista sessuale” (Atto Primo, Quadro Primo, Scena Quarta). Quadro? Ma scena di che? Ah! Oh, Scena! Bentornati, puntata 5, poche chiacchiere: qua dobbiamo fare la guerra. La guerra? E le devianze sessuali? C’è un’omosessualità in questo vaudeville paramilitare di Boris Vian, un’omosessualità così latente e irriverente che una gigantesca scritta I Militari Sono Dei Gran Froci avrebbe ottenuto lo stesso effetto di senso. Il complesso di Edipo, poi. Ah, il complesso di Edipo. La Terza Regola Aurea di questa rubrica è: Niente Edipo. Oggi parliamo di Generali a merenda. Siamo uomini o caporali? Siamo uomini o generali? Siamo generali, non uomini. Cioè bambini: il sesso ci fa ridere, ci fa venire voglia di confrontare i nostri rispettivi pistolini piuttosto che sollevare gonnelle, facciamo merenda, facciamo sempre la guerra perché non facciamo mai l’amore, siamo I Ragazzi della Via Pastis. Ho chiesto consiglio al Presidente del Consiglio, ma non ho avuto risposta, né da lui, né da suo figlio: “Scorreggini-Tagliatelle, qua le chiacchiere stanno in poco posto: dobbiamo fare la guerra. Il potere i soldi la Patria l’Arcivescovado la gloria le femmine, Scorreggini, le femmine!”. Capisco, signor Presidente. Ancora un pasticcino? Un dito di anisetta? Giorgio? No? Michele? Veramente? TUTTI INSIEME Basta così. Grazie. Siamo sazi. Salviam, salviam l’Europa nel nome di Gesù! (questa musica è così trascinante!) Con un tasso bassissimo di sangue nel pastis, i generali e gli ambasciatori e il Presidente del Consiglio mangiano e ridono e guardano spesso la telecamera. “Guardare spesso la telecamera”, in un testo teatrale, significa mettersi spesso a parte e commentare le scene con il pubblico, in un gioco dentrofuori realtà-finzione che blablabla. I potenti si annoiano alla svelta, e allora uno propone: Facciamo un gioco. Anzi, un giuoco. Il giuoco si chiama “a tutta canna”, ci giuocavo sempre con mia madre. Ci vogliono 21 “Questa commedia non verrà mai rappresentata in un teatro serio”, scrive Boris Vian in apertura del terzo atto. In realtà questa commedia è andata in scena nel ’64 e continua ad andarci tuttora, ma non conta: il testo teatrale sta in piedi anche senza traduzione scenica, possiamo leggerlo e goderne lo stesso. Lo diciamo da quando esiste Finzioni, e questo mese abbiamo incontrato un testo che se ne frega bellamente della propria messa in scena, è intelligentissimo e fa pure ridere. Lei mi invita a nozze, monsieur Vian. Boris Vian, Generali a merenda (Einaudi) Il demone della coscienza Fingersi altrove, fingersi qui di MICHELE MARCON L’estate sta finendo, le foglie stan cadendo, e noi ancora qui a parlare di coscienza, dubbio, paradossi e finzioni… e che palle, direte voi. Ma dopo tre mesi passati a cercare di trovare il bandolo della matassa, se mai ce ne fosse uno, sento proprio il bisogno concludere questa storia. Eravamo rimasti ad un Socrate sconvolto alla scoperta del suo demone interiore, una sorta di grillo parlante che ne bloccava l’azione in mancanza della conoscenza del vero bene. In parole povere, la coscienza. Ma non tutti sono coscienziosi come Socrate. Durante il secolo scorso si aggirava per le strade di Parigi un altro demone, stavolta in carne ed ossa, che metteva paura con discorsoni apocalittici a tutti coloro che gli capitavano sotto tiro. Sto parando di Cioran. E Cioran era uno scettico. Vi cito solo alcuni passi: “Senza i dubbi che abbiamo su noi stessi, il nostro scetticismo sarebbe lettera morta, inquietudine convenzionale, dottrina filosofica”; “Le verità: non vogliamo più sopportarne il peso, né esserne vittime o complici. Sogno un mondo dove si morirebbe per una virgola”; e ancora “Il pessimista deve inventarsi ogni giorno nuove ragioni di esistere: è una vittima del senso della vita”. Eh, insomma! Tutto questo cogitare, tutto questo scervellarsi! Tutto questo pessimismo cosmico… non se ne viene più ci aiutano a dare un senso al mondo e a muovercisi. fuori. Ci converrebbe scegliere il silenzio perché, come abbiamo detto, il nodo fondamentale del problema della coscienza sta nell’invenzione del linguaggio. È tutta colpa delle parole! Ma allo stesso tempo le parole sono l’unico strumento che abbiamo a disposizione per tentare di superare questa impasse. Perciò proviamoci: la parola è dubbio perché mette in crisi fin dall’inizio lo statuto ontologico (parolone, scusate) della realtà. Se la realtà è in crisi, gozzoviglia la finzione. L’uomo ha trasformato le cose del mondo in suono per poter applicare a queste cose un significato condivisibile. Il suono è per sua natura evanescente ed effimero, la sua esistenza è alla soglia della non esistenza. È, se vogliamo, il principio fondante del dubbio. Ma questo non bastava: dato che la sua curiosità si è sempre spinta oltre le cose del mondo, l’uomo sì è reso conto che con quei suoni poteva parlare anche di quello che non esiste. Ecco! Rullo di tamburi… il demone della coscienza ci logora coi dubbi, e i dubbi sono all’essenza delle parole, ma le parole ci sono necessarie perché ci nutrono di… finzioni! Non possiamo farne a meno, le finzioni sono qualcosa che sappiamo non esistere ma che 22 Che possiamo fare allora? Niente. Questo è un discorso che va avanti dall’alba dei tempi e fino ad oggi nessuno ha trovato una risposta. Come finire? Le foglie stanno ingiallendo e cominciano a cadere e sono entrato nel mood autunnale; non mi resta che ritirarmi nel mio stanzino a crogiolarmi nel dubbio esistenziale, essere o non essere, leggendo Cioran. Ma mi sembra tristissimo finirla così, a un passo dal non essere. Una risposta, seppur arbitraria, la dovrò pur trovare, e preferirei che fosse un tantino più vitale. Trovato! Scovate tra i vostri libri Il barone rampante e leggete le ultime righe “… era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine… e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”. Se vi vengono i brividi, in quel momento saprete di essere. Magari non in questo, ma in un altro mondo, nel mondo del libro o in un altro ancora, in un altro cosmo, in un altro libro, non importa, l’importante è sentire quei brividi. Che vi piaccia o no, sono finzioni, e sono un gran bel sollievo. Mattoni Rising Up and Rising Down di W. T. Vollmann di FILIPPO PENNACCHIO D ove si parla di volumi dalle cinquecento pagine e oltre, di libri, in tutti i sensi, pesanti, di opere-monstre fondamentali ma spesso illeggibili, di settimane della propria vita spese a credersi coltissimi, ma in cui – probabile – ci si annoierà a morte. Ogni mese un mattone: comprateli, leggeteli, annoiatevi. Mal che vada scalderanno (in senso più che letterale) la vostra umile dimora negli inverni a venire: il vostro caminetto ne andrà matto, tirerà avanti a scaldarvi per ore e ore e ore e ore… Rising Up and Rising Down di William T. Vollmann peso netto: 8.686 kg U n paio di parole, innanzitutto, per introdurre William T. Vollmann. Scrittore iperprolifico, visionario, a tratti geniale ma folle: ha viaggiato in solitaria fino al Polo Nord, frequentato assiduamente il mondo delle sostanze stupefacenti, conosciuto personaggi per lo meno curiosi (il Re dell’oppio, non so se avete presente, per dirne uno); pochi anni addietro, mentre un giornalista italiano lo intervistava in quel di Capri, insistette per farsi dire dove poteva trovare, in zona, qualche prostituta nigeriana. Alla laconica risposta del suddetto giornalista obiettò che una città senza puttane non è una città. Come dargli torto. Divertentissimo ma inquietante, poi, l’aneddoto contenuto ne L’opera struggente di un formidabile genio: il Nostro accetta di scrivere un pezzo per l’allora rivista di Dave Eggers mica per soldi, ma in cambio di una scatola di proiettili e di una modella da ritrarre nuda. Tant’è. Nel 2003 McSweeney’s pubblica Rising Up and Rising Down, ponderoso trattato in sette volumi con il quale Vollmann intende – parole sue – «elaborare un sistema di calcolo morale tanto semplice quanto pratico che chiarisca quando è accettabile uccidere, quante persone si possono uccidere e così via». Niente di meno che: e difatti quest’agile volumetto – ne esiste anche una riduzione approntata ad uso esclusivo del giovane, smaliziatissimo lettore modello, Come un’onda che sale e che scende (Mondadori, 2007, 1,13 kg) – altro non è che una moderna e monotematica enciclopedia contenente, letteralmente, di tutto, da reportages al limite dell’estremo che il vostro Herzog, al confronto, è una pippa, a considerazioni pseudo-filosofiche declinate in altrettante «meditazioni sulla morte», a passaggi che rimestano nel torbido di figure storiche più o meno celebri. A proposito, ecco, tra le altre, una considerazione lucidissima, ma a tal punto cinica da rasentare il ridicolo: non è forse vero, ci dice Vollmann, che «Cristo e il Suo padre terreno» sarebbero stati 23 anch’essi complici dell’«industria della morte e della violenza»? Non sono stati forse dei falegnami a produrre le croci per chi crocifiggeva? I due potrebbero insomma essere visti come «occasionali grossisti del boia». Verissimo, mi pare. Oppure si prenda la sezione inaugurale «sulla moralità delle armi», ove si conclude che «la capacità di commettere violenza è un’estensione dell’io», e magari si constati con l’autore che «il rosario – sarebbe a dire, metaforicamente, la fede nella non violenza – non dona la vita eterna». E via di questo passo. Tutto interessantissimo, ci mancherebbe. Ma a dipanarsi pagina dopo pagina è anche un’estenuante sequela di «valutazioni», «precauzioni» e caveant puntigliosissimi: qualcosa – fate voi – se ne guadagnerà di certo, ma l’integrità di lettori “diligenti” – in qualsiasi cosa essa consista – verrà messa a dura prova. E però, o forse ahimè, anche da questa amara presa d’atto discendono un paio di considerazioni di carattere generale sulla morfologia delle opere-mattone: come un’enciclopedia vanno consultate, più che lette, magari più studiate che godute, frequentate sì, ma concedendosi la possibilità, infine, di odiarle almeno un po’. D’altra parte sono spesso fisicamente illeggibili: troppo pesanti per essere lette in posizione supina, troppo ingombranti per essere trasportate al parco o sotto l’ombrellone, troppo voluminose da padroneggiare il mattino in metrò. E comunque, volente o nolente, non vi risparmieranno una certa quota di noia. Rassegnatevi o gioitene, fate un po’ voi. Però ecco, non lamentatevene. D’altro canto uno dei motti meglio riposti di Finzioni non recita forse che «la letteratura è noiosa»? Libri (quasi) mai letti “Delitto e castigo” di F. M. Dostoevskij di MARIA GIOVANNA ZICARDI L a Finzione sarebbe questa: scrivere di un libro mai letto. O meglio, di un libro, e qui sta il tabù, iniziato e abbandonato. Rimesso sullo scaffale, tolto il segnalibro per cancellare ogni traccia dell’efferato gesto. Perché io, forse con un po’ di snobismo, lo trovo un gesto davvero efferato. Tendenzialmente, pensi che succeda soltanto agli altri. Che tu non potresti, non saresti capace. Perché siamo semplicemente felici quando leggiamo un libro; di solito anche così intellettualmente onesti da riservarci ogni giudizio alla fine, a non sbottonarci prima di aver tagliato la striscia dell’ultima parola. Eppure. Ci sono stati casi, congiunture astrali, in cui il libro non lo abbiamo finito. A me è successo due volte, con lo stesso libro: arresa a un tiro di schioppo dall’inizio. E dunque: chi ha sconfitto quell’impazienza che sempre fa da ponte tra il primo e l’ultimo capitolo? Ci si è messo Dostoevskij, con Delitto e castigo. Uno dei più profondi conoscitori delle complicanze umane, uno che a esplorare l’anima ci si era messo sul serio, proprio lui, mi ha giocato questo tiro. Da Dostoevskij non me l’aspettavo. Invece è successo che della coscienza di Raskòlnikov dopo pagina 72 non ne potevo più. Non mi interessava continuare a pedinarlo tra le bettole di San Pietroburgo, osservarlo nel travaglio del suo castigo, in tutto il seguito del delitto, che facilmente immagino più orrendo del delitto stesso. Immagino. Perché nessuna introduzione, postfazione, commento o recensione possono mai essere quello che non hai letto. È con perfida minuzia che Dostoevskij tampina Raskòlnikov e racconta la sua vittima: la vecchia usuraia, con gli occhi piccoli e i capelli radi, un po’ brizzolati, unti di grasso, “attorcigliati in una treccina sottile come la coda di un topo”. Il collo “lungo e magro, simile a una zampa di gallina” e sulle spalle, nonostante il caldo, un pellicciotto logoro e ingiallito. L’aria è nera, tetra, gli spazi angusti, sporchi, rovinosi. Chi ride, come Natàsja, lo fa con risate “morbose e isteriche”. La sceneggiatura di Delitto e castigo è disgusto puro. Allontana ogni presa di posizione a buon mercato, devia dai giudizi netti con la nettezza di un orrore che è dappertutto, in ogni piega della storia. Lo avverti subito, e questa disarmonia insistita ti ostacola. Dostoevskij crea un insopportabile sottovuoto. Perché esattamente così doveva essere, la vicenda di Raskòlnikov. Si dice: “il senso di colpa”. Provateci voi a raccontarlo, a corteggiarlo, a riempirne strade e stanze, fino a renderlo insopportabile. Fino a mettermi in fuga da quella ragnatela di tende, maniglie, cassettoni, bicchieri, divani, pellicce, esaminati uno ad uno e strappati all’immaginazione. Lo spazio è chirurgicamente dissezionato. E il tempo, 24 in questa inesausta scansione di spazio, si dilata e ti divora. Come per mettere in sordina il delitto in sé per sé e amplificarne, per contro, l’orrore. Ora, sono attirata dalla tragedia nelle storie. Ma la rovina di Raskòlnikov ha annullato il mio rapporto col racconto. Ero un tutt’uno coi capelli unti della vecchia, col sangue che le sgorga dal cranio come da un bicchiere rovesciato. Il processo di catarsi, diciamo, è andato un po’ oltre il dovuto. Questo è successo, credo. Dostoevskij, quando scrive, non ti lascia scelta. È definitivo, perentorio, non tollera distanze o mezze misure. Così che ogni distanza e misura tra te e l’ultima pagina diventa impossibile. E qui sta il suo genio. O la tua fuga. I ferri del mestiere Il buon libro è quello che vende? di AGNESE GUALDRINI C ’è stato un recente dibattito su La Repubblica che ha visto coinvolti un editore indipendente e un manager di un grande gruppo editoriale italiano. Un botta e risposta su cosa vuole dire essere editori oggi in Italia. La querelle ha avuto come fulcro una basica domanda: il bravo editore è quello che vende libri buoni...ma qual è il criterio con cui un libro si definisce “buono” dal punto di vista editoriale? Le risposte possono essere due: il buon libro è quello che vende (dunque una categoria a posteriori: la bontà o meno di un libro si evince dopo un certo lasso di tempo osservando il suo ciclo di vita sugli scaffali della libreria), oppure il buon libro è tale a prescindere dalle sue sorti (dunque, un a priori). Noi, amici di Finzioni e avidi lettori, ce ne infischiamo dei dati di vendita di un libro, leggiamo tanto, confrontiamo quello che abbiamo letto e tessiamo una ragnatela di mondi possibili (o impossibili) unendo ciò che ci resta in mente dopo quelle piacevoli o spiacevoli ore passate a leggere storie altrui. Ma per un attimo allontaniamoci da questa prospettiva, dallo spettacolo intrattenuto dall’autore e applaudito (o fischiato) dal pubblico dei lettori e guardiamo per un attimo dietro le quinte, perché è da lì che si decide lo spettacolo e ed è da lì che meglio si può osservare il pubblico. Lì, dietro le quinte, stanno gli editori. Oggi è finita l’era degli editori indipendenti (i Giulio Einaudi, i Valentino Bompiani, gli Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli) e queste grandi case editrici del passato sono confluite in grandi gruppi, gestiti da manager puri provenienti da altre aree come la finanza o le fabbriche di automobili. Sono loro a occupare la maggiore fetta del mercato, a vendere di più. Le briciole se le spartiscono gli editori indipendenti. Al di là del fatturato, cosa differenzia un grande gruppo da un editore indipendente? I grandi gruppi vincono le aste, offrono anticipi altissimi (e si accaparrano gli autori più noti), hanno un margine maggiore di rischio. Pubblicano tutto, tutto quello che può avere successo e che può essere venduto. Ora, tutto questo è giustissimo, perché il mestiere dell’editore è prima di tutto un mestiere, un lavoro, e il guadagno economico pertanto, pur non essendo l’obiettivo, è la condicio sine qua non della sua realizzazione. Tuttavia, credo sia innegabile che il rischio di questa deriva sia la trasformazione delle case editrici in librifici. Fabbriche di libri come esistono le fabbriche di saponi. Non voglio qui fare la snob che arriccia il naso…che il libro da dietro le quinte è certamente un prima di tutto un prodotto. Ma un libro o una scatola di biscotti sono due cose diverse: il libro veicola idee. I biscotti no. E in questo senso, credo, il mestiere dell’editore (come lo intendo io) dovrebbe assumere su di sé una certa responsabilità perché non tutto è pubblicabile, perché se tutto fosse pubblicabile 25 non ci sarebbe bisogno degli editori (e chiunque potrebbe pubblicare il libro che ha scritto, per esempio, sul web). Il mestiere dell’editore si compone di scelte, possibilmente coerenti, e di linee editoriali da seguire. Questo comporta tanto la rinuncia di fronte a certi testi che non rispondono all’idea (onestà intellettuale), quanto alla rinuncia di un libro bello che però non può avere alcun mercato (onestà economica). L’editoria italiana è un compromesso tra questi due aspetti. Più l’editore è grande, più è vario, più l’editore è piccolo, più è identitario e riconoscibile. Il lettore si aspetta da lui certi titoli e nutre la fiducia di non rimanere deluso. Non sempre la fiducia viene mantenuta e molte volte anche un brutto libro grazie a operazioni di marketing viene spacciato per quel che non è. Un caso eclatante fu la Lettera d’Amore di Cathleen Shine, un libro brutto, un semplice romanzo rosa, divenuto caso letterario semplicemente perché inserito nelle raffinate collane letterarie di Adelphi: un piccolo inganno – che coinvolse anche la critica – che rese per un attimo fascinoso ciò che era di fatto un libro scadente. Magie e poteri, anche questi, della nostra editoria. La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI B ettoli, negli anni 80 i politici andavano a ballare e ne scrivevano pure, sdoganando davanti a un pubblico da tribuna politica l’italo disco, la new wave già un po’ romantic, il mojito, la robot dance, il ballo del qua qua, le cravatte a tastiera ed Heather Parisi. Il *locale* - inteso come luogo per l’intrattenimento - non faceva paura anche perché la letteratura, la stampa e le letture più disimpegnate lo rappresentavano come boccaccesco - certo - ma raramente come *malvagio*. Oggigiorno mi sembra si citi o si descriva un locale solo per attribuirgli una connotazione maligna che vuole trascendere forzosamente la *sospensione del dubbio* (e.g. “mi ha corrotto! tu e il lettore del romanzo dovete capire che questo locale MI HA CORROTTOOOOOOO” urlato da Rachele al fratello maggiore, paonazzo, in Troppo ammorbamento alla discoteca Kadonschi, di Seymour Citizeni). Molti romanzi degli ultimi trent’anni sono ambientati in locali sì *lerci* come quelli di Borronk, *ambigui* come quelli di Santara o *da tamarri* come quelli di Smaila, ma là non c’è condanna. Il locale rappresentava -e utilizzo le parole di Castaldello- “un personaggio onnisciente, protagonista e antagonista -oltre che riempipista- talvolta assassino bonaccione”. Nella contemporaneità i locali serrano ad orari finlandesi, si va a correre e in palestra -o dall’amante- e nessuno si fuma più 3 pacchi di paglie al banco scolandosi scotch quando ha una moglie, un figlio in arrivo e l’ufficio il giorno dopo. L’espressione del momento è *mi corico presto*. Il risultato è che nessuno *vive* il locale di Borronk, lercio ma onnisciente, e noi ne sappiamo sempre meno di queste gabbie che contengono moltitudini, *moltiplicatori di storie* al pari delle rivoluzioni. Mitraglia, Roporisi N on darei la colpa della chiusura anticipata dei locali alla letteratura o ai giornali, Mitraglia. Dice bene però quando parla del luogo-locale *moltiplicatore di storie*, che come le rivoluzioni magnifica ed espande la portata esistenziale degli individui che vi prendono parte. Rivendicare l’appartenenza ad un locale specifico, oppure alla più generica *gente della notte* protojovanottiana, forniva alle penne di Borronk e Santara un corollario di possibilità di conoscenza. Questi autori avevano l’acume per descrivere il locale intimo, raccolto, quello sfacciato e disinvolto, financo quello melanconico che sta per chiudere e con essi tante-differenti-umanità. Qualcosa sembra muoversi, in questi ultimi anni. Non sto parlando -ovviamente- delle sbrodolate di Castrandrea e della sua serie *noir da rimorchio* culminata pochi mesi fa nel volume edito da NoirPour-Boire, tale Una notte all’Havanas (cito, per definirne il tono, l’apertura: “Quella sera andammo carichi in un locale che si chiamava Havanas, ma a giudicare dal numero di mazze sarebbe stato più appropriato denominarlo Bana- 26 nas”), né mi riferisco a Balsamelli quando descrive in Bar Wunderbar un baretto che segue come un cucciolo di cane un pover’uomo (“Quel bar mi stava seguendo, ne ero certo, ma io non avevo ossa da lanciargli”). Qui i locali non parlano e non offrono nulla alla conoscenza, sono solo un ridicolo pretesto per parlare di un’avvilente *one-night stand* ubriaca o per fare della fanta-ristorazione. E allora aridàtece i locali *da tamarri* di Smaila. • C aro Bettoli, non perde l’abitudine a lanciare il sasso e nascondere la mano, come quando ha citato Pahhhllasassi [parlando di Ahhh calcio, ndr] senza approfondire alcunché. Aveva ragione la sua maestra quando le dava del superficialone. Sopperisco io. Il nostro scrittore giandone Palletti, utilizzando l’artifizio caro al Manzoni e presente pure ne La Storia Infinita (la favola col cane volante), fantastica sul ritrovamento di un antico manoscritto per parlarci di uno sport (farsa?), la pallasassi, giocato nella beozia mitologica e nelle regioni limitrofe colme di argonauti e velli d’oro. Inutile dire che il pretesto nasconde più alti propositi rispetto al semplice descrivere un gioco da decerebrati (“colpire con una palla fatta di sassi le estremità inferiori dell’avversario, comprese le natiche, fino a costringerlo a uscire dal campo per far cauterizzare le ferite via alcool denaturato”) e altro non rappresenta che un’allegra allegoria della società beota del tempo. O no? Caspio, Travella Bolognese N o. Non è che ogni libretto del menga debba per forza nascondere qualcosa in più. E poi cosa dovrei trovare da allegorare in un bouquin di 35 pagine che recita “il giocatore della pallasassi deve tornire le gambe con impegno per schivare le pallesassi che la vita ci consegna”, “la pallasassi quando colpisce provoca dolore” e “il pubblico della pallasassi può incitare gli argopallanti vociando ma senza insolentire gli dei”? E’ vero che l’autore del fantomatico libretto, ad ascoltare l’astuto Palletti, sarebbe lo stesso Atamante l’Eolio re di Beozia bla bla che aveva sposato Nefele bla bla e odiava la Vellodoro bla bla, ma neppure questa pretesa di storicità allontana la viva impressione che si tratti di una sbofonchiata. Eppoi Caspio, non le sembra di aver preso troppo sul serio un robo che viene allegato alle chewingum gusto lampone e cola e -fondamentalmente- ha la sola pretesa e funzione di non far rimpiangere come sorpresina (1) gli occhiali con cui vedi sotto i vestiti, (2) i missili a carica, (3) la ricetrasmittente per carpire i segreti pronunziati a un tavolo lontano, (4) le palline rimbalzine di ogni foggia e colore e (5) le monete in finto oro di asterix e obelix in regalo con la crema di nocciole bicolore? • C aro Bettoli, spero che le vacanze le abbiano giovato. Io ho fatto le mie sui monti, sì, continuo a cacciare PEM PEM! (ah ah) perché alla fine mi piace, e non ci trovo nulla di male. Lei? Io lo faccio per divertimento, poi per mangiare, ma anche perché la fauna (e pure la flora) è piena di animali e onestamente una sana sfoltita non fa male. Penso sempre che siamo troppi, bestie e uomini, che poi sono spesso peggio delle bestie, soprattutto gli informatici perché ti riparano il computer e non ti fanno la fattura. Io dico: date una pistola in mano a un cacciatore e ci sarà meno bisogno della polizia, io per esempio mi sfogo così, e mangio pure. Leggo sempre la sua rubrica, perché con quella non mi sento in dovere di leggere per davvero. Ho fatto un’eccezione perché la mia nipotina, che c’ha già il fucile in mano (giocattolo, per ora) mi ha regalato il libro per bambini Quello strano berretto da cacciatore di J.T. Mowlens. Che ne pensa? Pantaneo, Quartu Ingarrinu importa) e il nostro J.T. Mowlens è uno dei caccianti più popolari, co-fondatore dei caccianti canadesi e volto noto della tv. Non vorrei parlare di Quello strano berretto da cacciatore (ed. Putier, 12 euri), libercolo illustrato per marmocchi ingrifati in cui un berretto comprato ad un mercato delle pulci trasforma immediatamente l’indossatore dello stesso, il giovane divoratore di praline Ronald, in un vero cacciatore (o cacciante?) con tanto di pulci (le stesse del mercato) e fucile carico. Trattasi di mero pretesto per decantare le lodi della caccianteria, citando a sproposito Darwin, Jimmy Bo Horne (quello di Gimme Some) ed il sociobiologo Edward Osborne Wilson. Io non ci sto. Né mi convince la figura del fratello maggiore di Ronald, Denilso, che partendo da entusiasmi e suggestioni da vero cacciatore devia verso un relativismo sciapo, arrivando ad affermare “ok sparare agli animali, certo, ma solo a quelli di piccola taglia”. T utto il male possibile. Il movimento dei caccianti, che sta prendendo piede in tutto il mondo grazie al calcio di mille fucili caricati à balestra, è una piaga per la fauna. Selvaggina, scimmie e uomini, costretti in un ambiente angusto: non ci vuole la scala per capire che i fucili inducono al disimpegno. I caccianti sono ricchi, dispongono di siti, giornali e think tank (che poi in questi ultimi ci sia poco think e una grande quantità di tank - piene di alcool - non 27 scrivete a: [email protected] Ghost World “Berlin: City Of Stones” di Jason Lutes di MARINA PIERRI […] my life like a thread unspooling and intertwining with those I pass on the street. Marthe Muller in “Berlin: City of Stones” U na volta, ricordo, ero in macchina con una mia amica e parlavamo di The Reader, il flim con Kate Winslet uscito in tempi di Oscar 2009, ambientato in Germania durante e dopo il periodo nazista. Maria mi diceva: “è ok, ma è assurdo sentire questi attori americani parlare in inglese mimando l’accento tedesco”. Capii. E pensai di fatto a una tonnellata di altri film in cui succedeva la stessa cosa. Amadeus, o Il portiere di notte, lo stesso Schindler’s List. Non è un caso. La Germania e l’Austria, per ovvie ragioni, sono state raccontate fino alla sfinimento e da sensibilità altre, ossia appartenenti a luoghi e tempi diversi. L’inglese ci ha permesso di conoscere i personaggi di Berlino, o di Vienna. E sempre, sempre, li abbiamo sentiti parlare in lingue che non erano la loro. Così succede, esattamente, con i personaggi di Berlin: City Of Stones, la prima parte dell’ambiziosissima (e assolutamente magnifica) trilogia a fumetti di Jason Lutes, autore americano che ha deciso di immaginare un assurdo affastellarsi di vite nel breve decennio del- la Repubblica di Weimar. La cifra della graphic novel è un realismo spesso agghiacciante (disegni stilizzati una bella mazza! diciamo ai detrattori delle vignette) che mi ha fatto pensare ai lavori di Rossellini e De Sica: gli anni non risparmiano nessuno dei personaggi commoventi del libro, e ognuno di loro entra nel romanzo pesante, confuso, con una storia personale, spesso terribile, fatta di rughe e macerie emotive. Tutte rese perfettamente visibili dalla matita e non dalla sceneggiatura. I protagonisti sono i poveri delle due fazioni del nascente secondo conflitto mondiale: da una parte i comunisti, dall’altra quelli che ancora non sanno di chiamarsi nazisti (lo scopriranno pochi anni dopo) e, nel mezzo, una giovane coppia che rappresenta la coscienza (Kurt Severing) e l’incoscienza (Marthe Muller) della grande maggioranza dei cittadini di Berlino, presi e persi nel mezzo di un momento niente meno che decisivo nella storia della loro nazione e del mondo intero. Per capire perché City of Stones sia stato considerato una delle dieci graphic novel più belle di tutti i tempi dall’autorevolissimo Time Magazine, dovrete leggerlo, perché io non sono grado di spiegarvene le ragioni. È una cosa perfetta e tentare di capire perché lo sia non fa che guastarla; è tutto lì dentro, nero su bianco, una storia, molte storie, che non dimenticherete mai. 28 Posso però provare a incuriosirvi dicendovi che la totale verosimiglianza degli elementi del racconto e l’uso di un inglese perfettamente graduato – che va dal dialetto alla dizione oxfordiana a seconda dell’estrazione sociale del locutore – fratturano Berlin in due racconti quasi diversi, uno squisitamente storico e l’altro squisitamente fictional. Eppure, se vedere sul grande schermo un generale nazista parlare in americano crea un disturbo per certi versi non ignorabile (come quando si cambia stazione radio, ecco) è proprio in questa spaccatura del lavoro di Lutes che si innesta la magia, il rapimento, nella forma di una bizzarra coloritura fiabesca, appena surreale, che cuce insieme piuttosto che separare. Specie considerato che, in ultimo (da qui l’esergo) il filo rosso della storia è la somiglianza, non la differenza, tra i meno comuni dei denominatori. C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si alter- nano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori, In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser Ipparco di Nicea di JACOPO CIRILLO T utte le informazioni che si hanno su di te sono filtrate e tramandate da uno che si chiama Pappo, dal cui nome deriva la seconda professione più antica del mondo? Potresti essere Ipparco di Nicea. Hai scritto più di quattordici opere sull’astronomia e l’unica cosa che si è conservata è un commentario su un tuo poema scritto da ubriaco di un tale che si chiama Arato? E non si è salvato niente perché avevi fatto uno sgarbo agli amanuensi della tarda età che preferirono gli scritti di Tolomeo ai tuoi? Allora sei probabilmente Ipparco di Nicea.Sei obbiettivamente il più grande astronomo dell’antichità ma Cicerone, così per ripicca, ha messo in giro la voce che in realtà era molto meglio Aristarco di Samo, che peraltro si era anche beccato un’accusa di empietà da Cleante? Il cerchio si stringe. Hai inventato la magnitudine (misurazione della luminosità apparente di una stella) tuttora usata dai moderni astronomi ma tutti danno il merito a un tal Pogson che nel 1856 semplicemente firmò col suo nome le tue teorie? Sembra non esserci più alcun dubbio. Ma soprattutto, hai fatto una delle scoperte più grandiose della storia e davanti a te i posteri mettono i Vichinghi, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci e i vari Pizzarro e Cortez? Allora sei sicuramente Ipparco di Nicea. Ipparco di Nicea infatti aveva intuito l’esistenza di un continente tra l’Oceano Indiano e l’Oceano At- 29 lantico semplicemente sulla base di alcune storielle riguardanti certe maree del Mare Arabico, raccontate da un tal Seleuco, famoso per le sue canzonacce da osteria. Senza caravelle, senza sovvenzioni né uova, da casa sua in Tuchia Ipparco aveva scoperto l’America. E non per sbaglio, come Colombo, ma di proposito. Ovviamente non gli credette nessuno, anzi probabilmente a nessuno interessava nulla visto che erano tutti troppo occupati a screditarlo per tutto il resto, tanto da mandarlo in esilio “volontario” nell’isola di Rodi (che beffa questo nome per Ipparco e il suo fegato, roso appunto dalla possibilità mancata di chiamare un continente Ipparca) ove morì. Forse. Ma non ne siamo sicuri. Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione *lobbista*. Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. Michele Marcon è un ragazzo non bello e forse neppure piacente, ma applica liberamente e con regolarità lo scetticismo e crede nel potere dell’antitesi. Curioso per natura, in passato è stato abbastanza ingenuo da cercare, passando in rassegna molte discipline, la verità, naturalmente senza ottenere alcun risultato certo. Il suo scetticismo ne è uscito talmente corroborato da essersi spinto più avanti di lui nella negazione, tanto da fargli perdere addirittura le sue incertezze. Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. n. 5 / Settembre 2009 [email protected] www.finzionimagazine.it Stampa: Tipolitografia Castello - Castel Bolognese 30 Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo. Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini. Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del non voler dire nulla. Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed é bellissimo. Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Da questo mese Finzioni è disponibile solo su abbonamento. Abbonati o richiedi gli arretrati su http://finzioni.bigcartel.com 31 www.finzionimagazine.it