n.5
2
The Godfather
Simone Sarasso
di JACOPO CIRILLO
Q
uesta è una presa di posizione. Il Padrino di Finzioni non deve per
forza essere Kafka, Queneau o altri semidei. Il Padrino dev’essere
uno scrittore il cui approccio al mondo e alla letteratura ci ha fatto venire un’idea. Pensiamo infatti che una recensione divertente sia da scrivere
che da leggere non debba partire dai libri ma da una bella idea che i libri
ti hanno fatto venire. Di modo che chi legge capisca l’opera, o se ne faccia
un’opinione, attraverso l’idea.
Simone Sarasso sta scrivendo una trilogia sporca d’Italia dedicata alla
storia recente di questo paese e, anche se il terzo è ancora nella sua penna, i primi due libri già fanno venire delle idee meravigliose (oltre ad essere
proprio belli). I libri di Simone Sarasso funzionano, credo, per tentativi e
differenze. Facciamo un esempio. Mettiamo che uno non sappia il significato della parola “segaligno”. Intanto, se ne conosce almeno l’esistenza,
l’avrà letta o sentita da qualche parte. A quel punto, le strade sono due: o
si va sul dizionario, ma è uno sbattimento, o si prova a capire il significato
per i fatti propri. Si tiene la parola in stand by nella memoria e si aspetta di
rincontrarla in altri contesti. Dopo due, tre, quattro occorrenze, ci si comincia a fare un’idea della nebulosa di significato di segaligno, procedendo per
differenza. Frase n. 1: “Se sei basso e segaligno non puoi che farti soprannominare miccetta! [1]”. Mmm, dunque sarà qualcosa riferito alla costituzione.
Non dovrebbe essere un sinonimo di basso, altrimenti sarebbe ridondante.
Visto che è paragonato a una miccetta però potrebbe essere una questione
di carattere. Vabbuò, chissenefrega. Qualche settimana dopo, frase numero 2: “E maggio mai arriva/piuttosto l’inverno segaligno affonda/zanne, il
viso ha sfumature blande[2]”. Oh-oh, e che c’entra col Miccetta? E va bè, si è
capito come va avanti. Per tentativi, per differenze, per contestualizzazioni
si arriva finalmente alla definizione di segaligno, senza consultare l’umiliante dizionario.
In un certo modo i libri di Simone Sarasso, Confine di stato e Settanta (entrambi Marsilio), funzionano così. La storia dei libri non è la storia dell’Italia del dopoguerra e degli anni settanta: si ispira ad essa. A volte ne ricalca
le premesse divergendo gli esiti, talvolta procede parallela e altre volte riempie buchi storiografici con l’invenzione. Insomma, si impernia sul bellissimo concetto di scarto. E alla fine, quando li hai letti - se sei giovane e
quegli anni non li hai nemmeno vissuti - ecco che ti ritrovi a saperne molto
più di prima, ecco che ti atteggi a esperto. Eh, lo so io come andava in quegli
anni. E non l’ho capito andando a leggerlo in un noiosissimo libro di storia.
Ci sono arrivato per differenza.
[1]
[2]
http://forum.giovani.it. Topic: “Problema con il pene”.
http://www.poetare.it. Poesie di Cristina Bove.
3
Sommario
La citazione del mese
Beaten Beatitude
Nobel minori
Letterature Involontarie
Punizioni! Biografie Edulcorate
Le città letterarie
Sui labirinti
L’angolo del cinematografo
Recensione/1
Soluzione Cruciverboso
5
6
7
8
10
11
12
13
14
15
16
Déjà lu
Pillole di Scienza
Viaggi
Oh, Scena!
Il demone della coscienza
Mattoni
Libri (quasi) mai letti
I ferri del mestiere
La posta dei lettori
Ghost World
Iperboloser
18
19
20
21
22
23
24
25
26
28
29
Editoriale
B
entornati! Noi di Finzioni, invece di andare in
vacanza, ci siamo rintanati per tutto agosto nelle
nostre camerette senza condizionatore per scrivere i bellissimi articoli di questo numero post-estivo.
Chiudiamo augurandovi una buona ripresa autunno/inverno e presentando due nuove bellissime rubriche:
Mattoni di Filippo Pennacchio, in cui si parlerà di libri
che pesano più di 8 kg e Libri (quasi) (mai) letti di Maria
Giovanna Ziccardi, dove l’autrice si permetterà di dare
giudizi a priori su libri che, ad andar bene, ha giusto sfogliato distrattamente.
Anzitutto un annuncio: il Cruciverboso è stato risolto
(sì, avete capito bene) da un lettore affezionato che però
ci ha chiesto di rimanere anonimo. Per lui l’abbonamento fino a dicembre.
Abbonatevi e date una mano a Finzioni per crescere e
diventare sempre più bello e famoso, come George Clooney o Nino Frassica.
A questo proposito: da questo numero Finzioni cartaceo sarà disponibile solo su abbonamento, dunque correte sul sito http://finzioni.bigcartel.com. Prezzi stracciati
e la comodità della rivista a casa vostra ogni 15 del mese.
La Redazione
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Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem.
Guglielmo d’Ockham.
La citazione del mese
Il rosso e il nero &
Le avventure di Huckleberry Finn
di JACOPO CIRILLO
L
e lingue morte, su Finzioni, le usiamo solo per fare i
belli. Adempiuto questo compito,
parliamo – in italiano – del noiosissimo rasoio di Occam: non
bisogna moltiplicare gli elementi
senza necessità. Quindi l’assassino
è sempre chi ha il movente più sospetto. Quindi una materia a vocazione teorica, piuttosto che costruire complicati sistemi di categorie e
farli cadere dall’alto sugli oggetti in
analisi – rendendoli dunque subordinati all’analisi stessa – dovrebbe
avere poche categorie e usarle in
modo consapevole e mirato. Quindi, infine, è inutile farsi mille pare
per delle questioni semplicissime,
come purtroppo invece tendiamo a
fare noi giovani.
Un giovane che si fa delle gran
pare per niente è Julien Sorel de Il
rosso e il nero (Einaudi 2005, p. 555,
10 euro). Il rosso e il nero è un romanzo in cui, per dirla in due parole, tutti sbroccano continuamente
per qualsiasi cosa. Prima la signora
di Renal che, peraltro, ne voleva fin
dall’inizio (“fu colpita dall’estrema
bellezza di Giuliano” a pagina 34) e
che Julien prima ama, poi non ama,
poi forse però è lei che non ama lui,
ma magari non si amano proprio,
ma alla fine sì però lui se ne va in
seminario. Poi la bella e nobile Matilde de la Mole, anche lei una gran
tuonata, che lo ama per tre giorni
e poi lo disprezza, e allora lui prima è orgoglioso e fiero, poi si sente
una nullità: all’inizio non la ama,
poi ci guarda bene e invece la ama,
ma quando lei non lo vuole più si
mette a corteggiare le sue amiche
per farla ingelosire e alla fine… che
pasticcio!
Non si fraintenda: Il rosso e il
nero è un romanzo meraviglioso,
Stendhal riesce davvero, parallelamente, a violentare l’animo di questo ragazzo e l’animo della Francia
della Restaurazione, in modo sublime e terribile. Epperò Giuliano
avrebbe tanto da imparare sia da
Occam che da un altro grande giovane della letteratura di tutti i tempi: Huckelberry Finn.
Ecco, ad Huckelberry Finn non
5
gliene frega un cazzo. Di niente.
Nelle sue Avventure (Mondadori
2004, p. 334, 8 euro), c’è suo babbo
che è un violento ubriacone e lui,
tranquillo, lo inganna, si fa passare
per morto e se ne va, a caso, su una
zattera insieme a Jim, uno schiavo
fuggiasco. Così! Poi vive in una botte da zucchero per un po’, si fa fregare e rifrega due truffatori e altre
storie del genere.
E la cosa è interessante perché
Occam celebra non tanto la “verità”
del rasoio, quanto la sua “semplicità”. È per questo che tutta la teoria,
oltre a essere un’applicazione teorica e scientifica o la dimostrazione
dell’inutilità dell’esistenza di dio,
è prima di tutto un approccio alla
vita, una disposizione d’animo.
Che in Giuliano e Huck trova i suoi
estremi e che, in mezzo, prevede
tutto il resto.
Ma il rasoio di Occam non era
quella teoria per cui la soluzione
più semplice è spesso quella giusta? Massì, massì che è la stessa
cosa.
Beaten Beatitude
Yab-yum
di JACOPO DONATI
Q
uando i loro vicini di casa
riflettevano su quale college potesse offrire più occasioni
ai loro figli, i beat sbadigliavano e
pensavano ad altro. Quando quelli della casa di fronte compravano
macchina e lavatrice e, ogni domenica, rasavano l’erba del giardino, i
beat si cimentavano nel nobile yabyum (altresì noto rito orgiastico
buddhista).
Una delle prime scene de I vagabondi del Dharma si svolge nella
casa di Ginsberg (Alvah, nel libro)
e vede coinvolti il padrone di casa,
Kerouac (Ray), Gary Snyder (Japhy)
e Princess, dolce bionda ragazza
fulcro dello yab-yum che si apprestano a celebrare. A parte ciò, l’intero libro descrive i vagabondaggi
di Kerouac e la sua scoperta dello Zen. Gary Snyder, una sorta di
Dean Moriarty de I vagabondi del
Dharma, è un energico montanaro
con due occhi taglienti e un immenso interesse per il buddhismo.
Fu lui a istruire per primo Kerouac,
anche se i suoi insegnamenti non
furono ben recepiti e buona parte del buddhismo che si trova tra
quelle pagine è travisato. Kerouac
scrive I vagabondi del Dharma, Allan Watts Lo Zen; Kerouac dimostra
di non aver capito nulla dello Zen
ma forse è un po’ meno didattico
di Watts che bacchetta un po’ tutti
i beat.
Snyder e Watts (anche quest’ultimo
nel libro di Kerouac con il nome di
Arthur Wane) furono i due fari Zen
dei beat e in comune non ebbero
quasi nulla, percorsi differenti uniti solo nella meta, il satori, l’illuminazione improvvisa.
I vagabondi del Dharma esce
dopo Sulla strada e I sotterranei
ma né pubblico né critica lo accolgono come accolsero questi due.
Leggendolo si ha la sensazione di
un libro costruito a tavolino in cui
pare si voglia rievocare i movimentati viaggi di Sulla strada o la
spontaneità di I sotterranei, senza
riuscire a fare nessuna delle due
cose; Kerouac è fin troppo pieno di
sé e chi mastica un po’ il buddhismo strozzerebbe il suo alter ego
per certe idiozie che gli escono di
bocca. Però fa una cosa che Lo Zen
di Allan Watts non riesce a fare:
dietro ai tanti discorsi che attanagliano entrambi i libri, in Kerouac
si trova l’azione che Watts poté solo
Li bacchetta perché prendono
dalla dottrina le soli parti che interessano loro, creando una versione
un po’ distorta di quello che normalmente si ritiene il buddhismo.
6
scrivere.
L’omphalos dello Zen è l’azione
e, sebbene travisino tanti concetti
più o meno importanti, l’azione riesce benissimo ai beat. C’è da dire
che Kerouac e compagnia bella si
trovarono così a loro agio nei panni dello Zen perché, forse ancor più
di altre tradizioni buddhiste, nello
Zen non esiste maestro e studente e
non esiste alcun dogma cementificato nella verità. I beat erano in un
brodo di giuggiole perché rompendo lo status quo si trovarono presto
ad essere maestri dei loro stessi
maestri ed edificarono verità che
l’American way of life negava categoricamente. Lo Zen e la lotta contro l’attaccamento del buddhismo
diventarono per loro la prova che
c’era qualcosa di marcio nelle viscere del consumismo americano,
che quella non era la strada giusta.
E poi, di domenica, si divertivano
più dei vicini.
Nobel Minori
“La distruzione di Kreshev” di I. B. Singer
di VIVIANA LISANTI
C
ome c’è finito un racconto
del Nobel Isaac Bashevis
Singer sul numero di gennaio del
1967 di Playboy? Non stiamo parlando di un Kerouac o di un Ginsberg ma di Singer: uno scrittore
polacco naturalizzato statunitense, cresciuto in un’austera famiglia
rabbinica di un piccolo villaggio
ebraico vicino Varsavia; educato
sui testi sacri ebraici; uno che scrive esclusivamente in yiddish per
più di vent’anni, anche dopo aver
lasciato l’Europa per trasferirsi definitivamente a New York nel 1935.
dernità delle sue opere, la volontà
di sondare la natura umana e il suo
rapporto con il divino senza alcun
timore reverenziale nei confronti di una tradizione antica e forte
come quell’ebraica. Una volontà
che gli frutta un Nobel nel 1978,
ma nello stesso tempo lo espone
alle critiche di una parte dell’establishment ebraico americano, che
giunge a definirlo un “buffone blasfemo”, un traditore d’Israele che
ha degradato la cultura ebraica riducendola ad una sfilata di puttane
e pervertiti.
La prima traduzione in inglese
di una collezione di suoi racconti,
Gimpel l’idiota (Tea, 286 p., € 8,50),
ad opera di Saul Bellow, risale infatti al 1953 e coincide con la fortunata scoperta di Singer da parte
del pubblico americano. Il resto è
un susseguirsi di successi e pubblicazioni sui principali magazine
americani quali Esquire, The New
Yorker e persino Playboy…
E’ indubbio che Singer sia completamente immerso nella tradizione ebraica, dalla quale trae la
materia prima per i suoi romanzi: i
personaggi si muovono nel microcosmo costituito dagli shtelt della
provincia ebraica polacca fino al
tragico scenario della diaspora negli Stati Uniti durante la persecuzione nazista.
Come si spiega il successo, prima americano e poi mondiale, di
un autore così calato nella realtà
ebraica europea, sbarcato in America negli anni ’30 con alle spalle
un romanzo pubblicato, Satana a
Goray (Tea, 246 p. € 13,00) , storia
di diavoli e punizioni divine ambientato in uno shtelt nell’Europa
dell’est del XVIII secolo? Cos’ha da
dire all’America uno scrittore che,
come egli stesso racconterà in seguito, sapeva pronunciare solo tre
parole in inglese :“take the chair”?
Il successo si spiega con la mo-
La novità sta però nell’uso che
fa di questa ingombrante eredità
culturale: egli infatti la sfrutta non
in funzione della rievocazione nostalgica di un passato idealizzato,
fatto di ordine, armonia, rispetto
della legge di Dio, purezza ebraica.
Al contrario il folclore ebraico è il
terreno sul quale innestare un universo governato dall’irrazionale e
dall’istinto, popolato da personaggi troppo umani, in balia delle proprie passioni, schiavi della propria
sessualità. Un’umanità che mette
continuamente in discussione il
proprio credo, diventando protagonista in un gioco di opposizioni
7
ed equilibri, tra ordine e caos, fede
ed eresia, virtù e peccato.
La distruzione di Kreshev (Guanda, 96 p., € 8,26) è un racconto breve
pubblicato nel 1940 che ben riassume i temi cari all’autore. Il narratore è Satana il quale racconta compiaciuto del matrimonio tra Lise e
Shloimele, un giovane seguace di
una setta ebraica facente capo a
Shabbatai Zevi, sedicente messia
del XVI secolo. Il movimento antinomico sabbatiano proclamava la
salvezza del mondo per mezzo della trasgressione della legge: bisognava toccare il fondo per risalire;
essere condannati per poter essere
assolti. I seguaci si dedicavano così
ad ogni tipo di aberrazione morale,
fino a perversioni sessuali degradanti quali l’adulterio, l’incesto, i
riti orgiastici.
E’ proprio al culmine di un’escalation di perversioni sessuali alle
quali i due sposi si dedicano basandosi su antichi testi cabalistici, che Shloimele convince Lise a
commettere adulterio. I due saranno condannati dalla comunità ma
la vera assoluzione arriverà solo
attraverso il fuoco purificatore che
renderà cenere l’intero villaggio.
Ora è chiaro perché Singer è finito su Playboy.
Letterature
involontarie
In “buona” sostanza.
Cosa dire a Immanuel
Kant prima che parta
per Baltimora.
di EDOARDO LUCATTI
I
n una scuola elementare di
Baltimora sono in corso le
esercitazioni di matematica. Mister Prezbo (PR) è l’insegnante,
Charlene (CH) una ragazzina che
non riesce a eseguire il proprio
compito[1].
PR: Charlene, cos’è che non ti è
chiaro?
CH: Niente.
PR: Okay, vediamo di trovare un
modo per fartelo capire. Quant’è il
diametro?
CH: È 7.
PR: Bene, okay. Quant’è la metà
di quello?
CH: Non puoi dividerlo a metà.
PR: Okay, fingiamo che tu abbia
10 dollari e ne dia metà a Jasmine.
CH: Perché dovrei?
PR: Bhé, fingiamo e basta, okay?
Gliene dai la metà. Quanti ne riceve?
CH: 5 dollari.
PR: Esatto. Adesso fingiamo che
tu ne abbia 7 e gliene dia metà.
Quanti ne riceve?
CH: 3 dollari e 50.
PR: Benissimo, quindi…
Quindi un cazzo. Charlene scuote la testa e guarda male mister
Prezbo. Forse ci vede un povero deficiente che se ne va in giro invitando i minori a elargire metà dei loro
averi. Charlene non risponderà mai
alla domanda e non risolverà mai il
suo esercizio. Charlene, e con lei
l’intera sua classe, non sta pensando alla matematica. Sta pensando
a Baltimora. Baltimora è una delle città più violente e pericolose
del mondo, con un tasso di delinquenza giovanile probabilmente
ineguagliato. Per i ragazzi, tutti
rigorosamente di colore, la scuola
è una pausa piuttosto insensata fra
un illecito e l’altro. La matematica
non significa nulla, a meno che non
riguardi soldi che entrano e soldi
che escono, dosi da preparare e
dosi da vendere, chilometri da percorrere a una certa velocità per incrociare un corriere o scappare da
un agente. Ma anche in quel caso,
per così dire, it’s not about maths,
it’s about Baltimora. L’esempio in altre parole - non esemplifica
nulla; racconta semplicemente se
stesso, il fatto che hai 7 dollari e ne
devi dare la metà a Jasmine, a quel-
8
la lì che magari è pure una stronza.
Ma allora cosa rimane dell’esempio quando non è più esempio di?
Rimane una storia, qualcuno che
fa qualcosa. Charlene non sa fare
7 diviso 2, ma sa benissimo che la
metà di 7 dollari sono 3 dollari e
50. In termini filosofici, Charlene è
interessata solo alla sostanza e non
alla relazione (o forma) che vi soggiace. Perché, in definitiva, è delle
sostanze che si deve rendere conto.
Louis Hjelmslev, celebre linguista danese, non la pensa come
Charlene. Il suo obiettivo è spiegare la lingua in modo puramente
algebrico, cioè attraverso il solo
impiego di sistemi di relazioni.
Senza dollari, senza dosi, senza
chilometri, corrieri o agenti di polizia. Spiegare come funziona la
lingua nella più totale assenza di
esempi concreti e ‘pratici’. Quando
enuncia le sue teorie, i suoi colleghi
più “sostanzialisti” gli chiedono:
“ad esempio?” Ma lui niente, non
risponde. Tutt’al più, facendo mostra di una certa spocchia, delega
“i suoi collaboratori più stretti a
rispondere per lui. (…) Nel suo animo è sufficiente la profonda consapevolezza della grandiosità del
suo disegno teorico” (Galassi 2009:
8). Ciò di cui Hjelmslev bellamente
si pasce sembra esibire alcuni dei
tratti che in Kant sono proprio del
giudizio, “elemento specifico del
così detto ingegno naturale, al cui
difetto nessuna scuola può supplire”[2]. “Il difetto di giudizio – annota
in calce lo stesso Kant - è propriamente quello che si chiama grulleria, difetto a cui non c’è modo di
arrecare rimedio. Una testa ottusa
o limitata, alla quale non manchi
altro che una conveniente capacità
di giudizio, si può bene armare mediante l’insegnamento fino a farne
magari un dotto”. Il punto, sostiene
Kant, è che anche se il dotto arriva
a conoscere molte cose, molte “sostanze”, a colui che sia dotato di
giudizio basterà, in qualche modo,
conoscere una cosa soltanto, che
però governa tutte le altre: la “relazione”, cioè, che vige fra esse.
Ora, se Immanuel Kant avesse
apostrofato come “grulla” la mite
Charlene, questa – con ogni probabilità – avrebbe estratto una semiautomatica dall’astuccio e al grido
di “Die, mother fucker!” avrebbe
imposto una significativa cesura
alla storia della filosofia. Sorte analoga sarebbe toccata anche a uno
sciagurato Hjelmslev che – piuttosto incautamente - avesse cantato
in terra tanto straniera le lodi della
sua algebra senza esempi. E un po’,
a mio parere, se la sarebbero meritata. Che cazzo, non è mica facile
farsi un’idea della “pura relazione”!
Ernst Cassirer infatti, che forse a
Baltimora un viaggetto se l’è fatto,
una volta ha scritto: “L’espressione dell’ “essere” inteso come una
pura forma di relazione è soltanto
un risultato tardivo e sotto diversi
aspetti indiretto per il linguaggio,
il quale in origine si trova ancora
completamente nell’intuizione di
ciò che esiste in senso sostanziale
ed oggettivo, e rimane ad essa legato” (Cassirer 1923: trad. it. 347).
In realtà, diciamolo pure, anche
il vecchio Ernst preferisce la pura
relazione[3], ma almeno s’è ricordato che nessuno nasce imparato
e, ciò che più conta, ha provato a
immaginarsi - da qualche parte - la
piccola Charlene, i suoi 7 dollari e
quella stronza di Jasmine che senza nessun diritto se ne beccherebbe la metà…
[1]
La conversazione che segue è tratta dall’episodio 11 della stagione 4 della
serie tv The Wire.
[2]
Kant I., Critica della Ragion Pura,
Dottr. trasc. degli elem., Parte II: Logica
trasc., Anal. trasc., Lib II, Introduzione
[3]
Anche io la preferisco, perché ci si
possono fare più cose.
Verboso
metro
20
15
10
5
0
Ritaglia il verb osomet ro
e attaccalo sulla schien a
del tuo amico verbos o
9
Punizioni!
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
“Se fai un bel respiro”
di Carlo Pastore
di JACOPO CIRILLO
B
everly Hills 90210 è arrivato
in Italia nel 1992 e io, appena
decenne, lo guardavo sempre. Era
bellissimo, pensavo fosse la serie
televisiva più bella di sempre. Poi,
però, ho riguardato le repliche nei
mesi scorsi ed è stato orribile: anzitutto mi sono reso conto che è
bruttissimo. Che Dylan si droga di
peso, che Andrea è una gran nerd,
che David è un rincoglionito e che
Donna e Kelly hanno paura di pronunciare la parola “marijuana”. Ma
soprattutto che Brandon Walsh è il
più grande rompiballe della California e, forse, di tutto il mondo.
Steve porta l’alcol alla festa delle
matricole? Brandon lo moralizza
e glielo impedisce, dicendo che è
“sbagliato”. Valery si fa un cannone? Brandon la accusa per la fame
chimica negandole il cibo “così
impara”. David cambia due tipe
in due sere? Brandon lo bacchetta
chiamandolo “adultero”. Ebbasta!
In Se fai un bel respiro, di Carlo Pastore (noto vj di MTV), Carlo
Pastore, cioè il protagonista, è un
gran Brandon. Tra le storie di vita
vissuta nella provincia di Novara,
tra presurie male (p. 16), essere creteeni (p. 53) o poverash (p. 152) e
porrografare in santa pace con una
macchina porrografica (p. 166),
giovani diciassettenni in prima
persona crescono, riflettendo – a
volte in modo davvero intelligente,
va detto – sul futuro loro e di tutti i
loro coetanei. E, alla fine della fiera,
10
sono tutti contenti: vanno ai rave,
cacano e urinano di peso, hanno
i migliori amici, vengono intortati
da omosessuali e guardano youporn. Il protagonista fa tutte queste
cose – a volte contemporaneamente – e ha la fortuna di essere anche
più profondo e responsabile degli
altri, il tutto in bello stile e con
un ritmo narrativo sinceramente
coinvolgente e piacevole.
Non fosse che, a un certo punto,
viene fuori con la massima: “coca
ed ero ti mandano in nero”.
E da quel momento si trasforma in Brandon: è “deluso” dal suo
amico che si fa della ketamina e
altre droghe che io personalmente non conoscevo, gli “fa schifo”,
anzi “vomitare” la sua amica che
ha fatto un porno con due vecchi
e “compatisce” un ciccione buontempone che riempie le automobili
parcheggiate con la schiuma di un
estintore e che, in risposta ai rimproveri del vicinato (tutti Brandon
Walsh cresciutelli anche loro), gli
caca davanti alla porta d’ingresso.
In Se fai un bel respiro, la legittima funzione sociale dell’amico con
la testa a posto trascende e si trasfigura nella personificazione hollywoodiana dello spaccamaroni.
Suvvia Brandon, sono ragazzi!
Biografie edulcorate
Haruki Murakami
di ANDREA MEREGALLI
R
agazzi. È arrivato il momento Japan. Andiamo gente!
Era solo questione di tempo. Non
fate quelle facce. Lui è Haruki
Murakami. Chi? Lo scrittore, ovviamente. Quello della biografia
edulcorata. Sì. Lui. Pensate la novità. È vivo! Un contemporaneo, perdiana! Anche i Japan, secondo voi,
si toccano i gioielli di famiglia? Se
sì, credo dovrebbe farci un pensierino. Ma bando alle ciance. La sua
storia è allettante. E io non sono un
poppante. Yo fratello. Ok la smetto.
Murakami nasce. Cresce sano.
Studia tanto. Nell’anno del Signore 1971 si accasa con una certa
Yoko (ma si chiamano tutte così le
giapponesi?!). La famiglia di lui era
contraria, quella di lei no, sicché va
a vivere dal suocero. E qui arriva il
bello. Opta per prendersi una sorta
di anno sabbatico dall’università
di lettere di Tokyo (dove si laureerà
nel 1975). Inizia a lavoricchiare. Un
po’ qui, un po’ lì. Non è soddisfatto. Allora decide di fare alla italiana. Italians do it better. E quindi.
Chiaro. Apre un bar. Che poi dire
bar è riduttivo. Si tratta di un jazz
bar. E cosa diavolo sarebbe un jazz
bar? Credo sia un locale dove puoi
bere come una spugna e ascoltare
musica, jazz nel caso. Ok. Allora era
come pensavamo tutti.
appoggiati al bancone del “Peter”,
un po’ sbronzi, a raccontare di
mogli e fidanzate e lavori precari e problemi di salute e rimpianti
sportivi? Io no. Ma tant’è. Perché
Murakami ha dichiarato che questa esperienza si è rivelata determinante per la sua formazione di
scrittore. Nel 1977 il locale si trasferisce nel centro di Tokyo. Tutto si fa
ancora più dannatamente a forma
di gatto. Sedie, tavoli, bastoncini,
tazzine. Una sorta di Bukowski
made in Japan. Ma non un alcolizzato nullafacente. Un imprenditore. Uno che apre locali. Che avvia
attività. Uno che ha familiarità con
le parole: Profitti. Ricavi. Business.
Fino a quando, un bel giorno,
inizia a pubblicare libri. I primi
tre, solitamente presentati sotto il
nome de La trilogia del ratto, valgono premi seri. Molto seri. Talmente
seri da determinare la chiusura del
jazz bar. Nel 1985 con La fine del
mondo e il paese delle meraviglie,
un libro fantastico, visionario, onirico, vince l’ennesimo riconosci-
Il nostro Haruki è un po’ fissato
con i gatti. Il posto lo chiama “Peter
Cat”. Appende foto di gatti ovunque. Mette dischi. Prepara cocktail.
Legge libri e, specialmente, ascolta
le storie degli avventori. Una roba
da non crederci. Ve li vedete i Japan
11
mento. Nel 1986 si scopre viaggiatore e passa del tempo in Grecia e
in Italia. A Roma soprattutto. Dove
scrive il libro che lo consacra. Un
caso letterario. Tokyo blues, Norwegian wood. Quindi si trasferisce
negli States. Collabora con delle
università. Traduce i libri di Raymond Carver. E scrive un fottio. Nel
1995, in tre volumi, esce L’uccello
che girava le viti del mondo, più di
800 pagine di romanzo. Un grande romanzo. Pregno di visioni che
camminano sul filo. Tra realtà e
fantasia. Tra sogno e magia. Stranamente, anche questo libro vale
un premio.
Ma è nel 2002 che il nome di
Haruki Murakami viene alla ribalta. Kafka sulla spiaggia, il suo
libro più conosciuto, vede la luce
proprio in quell’anno. Un mosaico
utopico. Due personaggi profondamente diversi. Due vite destinate a incrociarsi. Un romanzo che
non si capisce dove voglia andare
a parare fino a quando non si legge
l’ultima pagina. L’ultima riga. Ma
gio da Kafka sulla spiaggia. Che non credo di avervi fatto capire un granché. Ma non vogliatemene.
non è nemmeno detto che, allora, lo si capisca. Forse
nemmeno Murakami lo comprende appieno. Un pazzo? No. Certo che no. Uno scrittore da leggere. Che ti
lascia libero. Di decidere. Di spostarti all’interno della
sua trama. Un Japan atipico. Un filo nonsense. Ma di sostanza. Cosa sto dicendo? Boh. E chi lo sa. Di sicuro c’è
che nel 2009 dovrebbe uscire un nuovo romanzo. 1Q84.
Che titolo di personalità! Cosa vorrà dire? Mah. Di certo
ci sarà un gatto. Uno come minimo. Che quello c’è sempre. E qualche tizio un po’ pazzerello. Anche. E donne.
Molte. E sesso. Pure. E Vorrei chiudere con un passag-
“C’è solo una cosa che devo fare: riuscire a vivere con
questo involucro che è il mio corpo. Un compito facile,
difficile? Dipende da come lo si guarda. Quello che so è
che, anche se ci riuscirò, nessuno penserà che ho compiuto qualcosa di importante. Nessuno si alzerà per applaudirmi commosso”.
Chiaro adesso?
Le città letterarie
Bologna
P
er Guccini, Bologna è una
“ricca signora che fu contadina” e non c’è andato molto lontano. Chi la viene a visitare vede i monumenti, le vetrine delle boutique,
certi portici tutti decorati, … ma facendo la spola tra la basilica di San
Petronio e il santuario di San Luca,
si passa davanti alle vetrine dei salumieri e dei pescivendoli, davanti
ai vassoi colmi di tortellini pronti e
a quelli colorati dalla frutta candita. La si ama anche per questo, ma
Bologna non è soltanto la piccola
città ricca fatta di ville sui colli e
alte torri. Soprattutto, Bologna può
anche sembrare una cittadina calma e tranquilla, ma sotto sotto…
Lucarelli alza la sottana a questa ricca signora e l’immagine
che ne esce non è quella stampata
sulle guide turistiche. Scrive tanto su Bologna, ma un libro che ne
racchiude questo lato nascosto
è Falange armata. Tutta la storia
gira intorno alla Uno bianca e a
un odioso sovrintendente di polizia. La Uno bianca, quella vera dei
fratelli Savi, venne fermata solo
di JACOPO DONATI
nel ‘94, due anni dopo la pubblicazione di Falange armata (Einaudi,
142pp, € 9,50), e fu uno choc per
tutti i bolognesi.
C’è qualcosa in Bologna che dà
sicurezza: la cerchia di mura fa
sentire protetti anche chi abita fuori porta, San Luca sembra vegliare
giorno e notte e non c’è bolognese
che, tornando a casa dopo un viaggio, non sia più felice quando scorge a mezz’aria l’immagine arancione del santuario. Quella illusione
di sicurezza peggiorò dopo il 2 agosto del 1980, si incrinò sempre un
po’ di più ad ogni colpo della Uno
bianca e si ruppe definitivamente
nel ’94, quando tutti scoprirono
che chi aveva terrorizzato la città
per ben 7 anni erano gli stessi che
dovevano proteggerla.
Lucarelli crea un protagonista
da strozzare, questo è vero, ma
riesca anche a descrivere quella
sensazione di impotenza percepita
con l’arresto della Uno bianca. Coliandro, questo il nome del sovrintendente protagonista, si ritrova
12
per caso invischiato in un giro di
fanatici neonazisti che scopre avere poliziotti tra i suoi vertici. Di chi
si può fidare? Di chi ci si fida quando proprio le forze dell’ordine sono
i “cattivi”?
Coliandro mostra la sua Bologna, quella che non è ricca e che
non compare tra le mete dei turisti:
la Bolognina dei cinesi, il Pilastro
dove ancor oggi non è bello girare
di notte, la Barca, i viali, tutti luoghi che non fanno bella Bologna
ma che nel loro piccolo fanno Bologna. Perché Bologna, quella vera, è
più nera di quel che sembra, ricca
fin che vuoi ma nera. Un personaggio di Falange armata lo afferma
esplicitamente in un passaggio,
quando afferma che il problema
non sono i neonazisti, il problema
è questa città, quello che si porta
sotto. Tutto sommato, però, si va
avanti. Perché Bologna avrà anche
del marcio sotto, ma basta guardare Piazza Maggiore illuminata,
ripararsi sotto un portico o salire
sui colli per innamorarsene e fregarsene di tutto il resto.
I
nternet é un labirinto? Ovvepuo’ supporre che il programmatoro, perdersi nella lettura onre prenda il ruolo del lettore dandoline rende idioti? A porre la rete, o il
gli delle associazioni illimitate, ma
rizoma, tra i tipi di labirinto é Umnon infinite, già presenti e dunque
berto Eco (Dall’albero al labirinto,
impedendogli di attivarle autonoBompiani, 2007), osservando che
mamente. Breve excursus su Wikise nei labirinti unicursali (a una
pedia: qualche ora fa, cerco la pasola via) e pluricursali (a più vie), la
rola romanzo e alla prima riga sono
base sta nel fatto che ci si perde cergià saltato su narrativa per vedere
cando un uscita, dal rizoma, o dalla
come la intende la presunta encirete, non si entra e non si esce. Tratclopedia collettiva e democratica.
tandosi di labirinto pluridimensioNeanche il tempo per rifletterci che
nale la scoperta della dimensione
sono piombato su fotoromanzo per
che lo trascende non implica la
puro sfizio, il che mi porta con infuga. Se sulla classificazione di
teresse a 8 maggio (data del primo
Eco qualche dubbio puo’ sorgere,
fotoromanzo in Italia nel 1947) e
certo é che la navigazione on-line
dunque a 8 maggio 589, giorno del
é
labirintica: una
volta entrati non si sa
dove si arriva e difficilmente si puo’ tornare sui propri passi
senza perdersi. I link
attivano connessioni
inedite e materializzano processi mentali
che sarebbero rimasti
tali senza la mirabile
operazione del link (si
veda il classico di Lev
Manovich, Il linguaggio dei nuovi media,
2001). Di Internet, poi,
di MATTEO TRELEANI
non si hanno mappe,
e in molti si domandano se sia possibile
dargli una forma.
III Concilio di Toledo che non so
cosa sia, il che mi fa piombare su
Una delle differenze tra leggere
regno visigoto e sul dettaglio della
un romanzo e un testo sul web (che
conversione di Sant’Ermenegildo,
qualcuno chiamerebbe ancora col
re dei Visigoti morto a Tarragona
termine desueto di ipertesto) é che
nel 585. Per caso sono stato a Taril romanzo attiva una serie di conragona e a quel punto il passaggio
nessioni implicite che restano imda Catalogna a Isole Baleari a Ibiza
maginarie (mondi possibili e dirafino a Chillout, il passo é breve. Del
mazioni probabili) quando il testo
percorso da romanzo a chillout,
on-line concretizza ogni sviluppo
passando per Ermeneglido, re dei
grazie ai link. Le associazioni menVisigoti, naturalmente, in memotali si materializzano, appunto (il
ria resta ben poco, soprattutto
che fa pensare che il termine virsapendo che Wikipedia é sempre
tuale sia la cosa meno adatta per
disponibile per ritrovare le stesse
un mezzo di comunicazione che in
informazioni e che quando cadrò
realtà materializza cio’ che prima
anch’io nella trappola dell’Iphoera mentale). Il testo sul web é dunne, potrò consultarla in qualsiasi
que stratificato su una molteplicità
istante, anche in metrò.
di dimensioni. E in qualche modo si
Il dibattito sull’influenza della
lettura sul web sui nostri cervelli é
cosa nota. Il blogger Nicholas Carr
l’aveva lanciato con un articolo in
cui si riteneva meno attento e più
superficiale da quando usava internet (tant’é che in inglese sulla
rete, non si naviga ma si fa surf, surf
the net, restando sulla superficie).
Le polemiche naturalmente sono
infinite e il percorso su Wikipedia,
sopracitato, oltre al significato di
Chillout, fanno pensare che Carr
abbia nettamente ragione. I giovani apparentemente sviluppano
un’attenzione multi tasking, capace di tenere conto di più livelli
contemporaneamente ma in maniera superficiale, mentre la
cosiddetta lettura di
studio, che implica
una concentrazione
su un solo oggetto per
un lungo periodo, é
sempre più difficile.
Le nuove generazioni
saranno dunque capaci di reperirsi nel
labirinto pluridimensionale di internet ma
perderanno interesse
per la lettura classica,
troppo sequenziale e
lenta?
Sui labirinti
Perdersi nella rete ci
rende stupidi?
13
Troppo presto per dirlo, le abitudini di lettura sono cambiate
spesso nel corso della storia, e a
ogni cambiamento, com’é abituale,
c’é chi si é scagliato contro il nuovo per salvare le tradizioni. Basti
ricordare che nel Fedro di Platone,
Socrate é decisamente inquieto di
fronte allo sviluppo della scrittura.
Quest’innovazione radicale, dice
Socrate a Fedro, rischierà di rovinare la cultura: la gente smetterà
di esercitare la memoria riponendo
troppa fiducia nelle parole scritte
e il sapere non sarà più trasmesso
attraverso l’oralità finendo per essere solo un simulacro della vera
conoscenza. Che Socrate avesse
ragione?
L’angolo del
cinematografo
“Lebanon” di Samul Maoz
di JACOPO SGROI
Al partire dei titoli di coda,
dopo una brevissima pausa di
silenzio, si accedono le luci e un
applauso scrosciante riempie per
dieci minuti la “Sala Grande” alla
66a Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia. E’
appena terminata la proiezione
ufficiale di Lebanon. Il regista,
Samuel Maoz, e i giovani attori
che lo accompagnano, si alzano
in piedi, scendono i gradini
della galleria per avvicinarsi agli
spettatori in platea che continuano
ad applaudire. Un applauso lungo,
sincero e privo di ogni forma di
compassione. Io faccio lo stesso, mi
alzo, volto lo sguardo verso il cast e
ringrazio, con rispetto.
su tutti il meraviglioso Valzer con
Bashir di Ari Folman. Ma siamo
veramente sicuri che non ci sia più
bisogno di fermarsi e riflettere sulla
follia che guida ogni conflitto?
Samuel Maoz ha avuto il
coraggio di raccontare la sua
personale esperienza, quando da
ragazzo si trovò a combattere la
prima guerra del Libano. Il film si
sviluppa interamente all’interno
di un carro armato: buio, sporco,
bagnato, claustrofobico. Quattro
ragazzi rimangono bloccati dentro
al mezzo durante il primo giorno
di combattimenti e le possibilità
Facciamo un salto indietro di
un’ora e mezza. Durante il Festival
le giornate passano velocissime,
tra lavoro, conferenze stampa,
feste e i mille tentativi di entrare
in una sala, sperando di aver scelto
il film giusto. Incastrando tutti i
miei impegni di lavoro ero riuscito
a trovare il tempo necessario per
andare alla proiezione ufficiale di
Lebanon. Sarò sincero e crudele:
non avevo nessuna voglia di
vedere l’ennesimo film sulla guerra
in Medio Oriente. Mi sono poi
dovuto ricredere, perché Lebanon
parla a tutti, in modo originale e
mai patetico, dell’assurdità della
guerra. Qualcuno potrebbe dirmi
che sono molti in realtà i film che
hanno seguito questa linea, uno
14
di salvarsi sono remote. Io
spettatore rimango stretto
nel carro insieme a loro per
tutta la durata del film. Il buio
opprime e l’unica possibilità
di guardare fuori è attraverso
il mirino, ma quello che si vede
è meno rassicurante del buio.
Allo sporco del carro armato
si mescolano le lacrime dei
giovani soldati che all’ordine
di sparare e uccidere crollano,
perché nonostante i lunghi
addestramenti, la fede totale
nella causa, non trovano
alcuna logica razionale in
grado di giustificare l’obbligo
di premere sul grilletto. La paura
soffoca sempre di più i protagonisti
e noi spettatori… Bloccati in mezzo
ad un agguato devono spostare il
mezzo fuori dal villaggio assediato,
verso la campagna. Ma i ragazzi
sono diventati più pesanti del carro
stesso, non possono più muoversi,
perché non c’è nessuna via da
percorrere che possa salvarli dal
tormento, dalla paura e dal caos
che domina le loro menti.
Come ha dichiarato Michael
Moore alla Mostra di Venezia,
la riuscita di un film dipende
Lebanon di Samuel Maoz
con Oshri Cohen, Michael Moshonov, Itay Tiran, Zohar
Strauss, Reymond Amsalem - 92 min. - Israele.
Leone d’Oro alla 66a Mostra Internazionale di Arte
Cinematografica di Venezia.
innanzitutto dalla forza della storia da cui si parte.
Samuel Maoz ha usato gli strumenti della finzione
cinematografica per raccontare la sua storia, così forte
e dolorosa da far nascere nello spettatore il desiderio di
riflettere un’ennesima volta sull’assurdità della guerra.
Recensione/1
Chiuso per turno
Michele Marcon
I
libri pubblicati da Round
Robin, neonata casa editrice
romana, sono belli da vedere e da
toccare. Vediamo un po’ come se la
cavano con i contenuti.
Mi sono trovato a leggere Chiuso
per turno di Massimo Zanettini,
giovane consulente informatico
parmigiano che qui si cimenta con
il suo primo romanzo. Che sia parmigiano lo capiamo piuttosto bene:
storia ambientata a Parma con un
protagonista che ama Parma e che
con tutto quello che gli capita non
smette mai di pensare e di riferirsi
a Parma.
Michelangelo gestisce un ristorante, è figlio di un cuoco e la sua
famiglia è dedita alla ristorazione
da generazioni. Manco a dirlo è un
ciccione e la sua più grande paura è
la frugalità. Ma, se tutti ci immaginiamo i ristoratori ciccioni come
degli omaccioni bonaccioni e gioviali, amici di tutti, dei grossi orsi
dal cuore d’oro, Michelangelo non è
niente di tutto ciò. È fondamentalmente una persona sola. La sua bulimia alimentare cozza nettamente
con la sua anoressia emotiva.
La sua vita è scandita dai silenzi e
le cose non dette. Incomunicabilità
con il padre che muore lasciando
un vuoto nella sua vita. Incomunicabilità con la madre che muore
lasciando un vuoto nella sua vita.
Incomunicabilità con la fidanzata
Renata di cui non conosce i desideri più profondi, e che poi muore,
manco a dirlo, lasciando un vuoto
nella sua vita. Incomunicabilità
che vuole essere scavalcata con un
viaggio a Zanzibar consigliatogli
da nientepopodimenoché… Sandokan! Roba da non crederci, ma sì, è
proprio lui, la tigre di Mompracem,
che si rivela essere una delle trovate meglio riuscite del romanzo,
insieme a certi spunti d’ironia cui
è impossibile sottrarre una risata.
Fatto sta che, una volta in Africa,
Michelangelo resta bloccato per
cinque giorni in un villaggio sperduto nel bel mezzo del nulla. Paradossalmente le uniche persone con
cui riesce ad entrare in contatto
sono proprio gli indigeni di questo
villaggio a migliaia di chilometri
di distanza dalla sua cara vecchia
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Parma. Ma presto dovrà tornare a
casa e non vi farà più ritorno.
Ecco il punto. Questo è un romanzo che non porta da nessuna
parte (se non a Parma). Ma forse è
proprio lì che vuole arrivare; non
a Parma, intendo, ma da nessuna
parte. Ci sono una tensione e una
speranza di fondo che non vengono mai soddisfatte, e così devono
rimanere.
Come quando sei con la tua
ragazza, o con i tuoi amici, e senti
parlare di un ristorante dalle parti
di Parma dove cucinano da Dio,
specialità anolini in brodo, e tu è
da settimane che hai una voglia
inspiegabile di anolini col brodo,
perciò decidi all’istante di partire.
Sali in macchina, è da pazzi, così
senza organizzare nulla, ma prendi
parti vai, guidi per ore e poi arrivi.
Il ristorante è chiuso. Salta tutto,
la tua giornata è rovinata. Potresti
cercarne un altro aperto, ma non
ne vale la pena, ti eri già costruito
un castello di aspettative che certamente verrebbe disatteso. Non
sarebbe la stessa cosa. Puoi tornare
a casa, ma dopo tutto quello che hai
fatto per arrivare fino a lì ti farebbe
incazzare ancora di più. Allora stai
dritto in piedi di fronte al ristorante
ad osservare quel cartello che laconicamente sancisce la fine di
tutto: “Chiuso per turno”. Potresti
stare lì per ore ad osservarlo e immaginare come sarebbe stato quel
bel piatto di anolini. E allora stai lì
a fissarlo senza pensare a niente,
tanto è andato tutto a puttane e tu
non hai mica fretta.
Il Cruciverboso
La soluzione a tutti i
vostri problemi
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di MICHELE MARCON
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arissimi e carissime, allora, come ve la siete cavata col cruciverboso?
È stata dura? Lo so, lo immagino, ce l’avete messa tutta. Ma perché,
a parte la possibilità di ricevere 3 numeri di finzioni gratis, vi siete dati tanta
pena? Io una risposta ce l’ho. Perché fa figo. E non solo per voi stessi, sia chiaro.
La figosità è una cosa che deve essere ben visibile ed esibita, altrimenti non
c’è gusto. E vi posso assicurare che creare un cruciverboso fa ancora più figo.
Schiere di ragazzine mi ammiravano con occhi luccicanti di fronte a cotanta
sapienza, e io mi godevo il momento ridendo sotto i baffi (immaginari), sapendo bene che senza wikipedia non sarei nessuno. Ma è così che funziona:
c’è chi studia filosofia e sciorina concetti astrusi, chi dipinge nature morte in
garage spacciandole per opere surrealiste, e chi intorta ragazzine (o ragazzini), affascinate/i dagli oltre 500 volumi presenti nella propria libreria. In fin
dei conti l’ammirazione altrui fa sempre piacere, specie quando si parla di
cultura.
Quando invece rischia di saltar fuori la propria ignoranza, ci si defila per
evitare che gli sguardi luccicanti si trasformino in una triste pacca sulla spalla. Ma non c’è niente di cui vergognarsi. C’è talmente tanta roba al mondo che,
credo, si possa riconoscere ogni persona sia da quello che sa, sia da quello che,
spesso deliberatamente, sceglie di non sapere.
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Perciò spero di riuscire a proporre anche nei prossimi mesi dei bei giochini
che mettano alla prova la nostra ignoranza. Per strada o tra amici non ponete
limiti alle profusioni di conoscenza. Ma quando siete soli nella vostra cameretta, armatevi di tutta l’auto-ironia di cui siete capaci. Perché bisogna prenderla così, con un sorriso: non c’è scampo al ludico ludibrio.
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C
186
L
a prima persona a cui si
pensa leggendo le frasi incongrue, prive di punteggiatura e
zeppe di parolacce di Céline (18941961), è senz’altro Umberto Bossi.
Non tanto per il ben noto nazionalismo dei nostri due eroi, quanto
per la loro straordinaria capacità di
parlare del popolo, al popolo, con
la voce del popolo.
Céline, che era anche lievemente
nazista ed antisemita, non faceva
altro che cogliere un fastidio, una
sorta di prurito del basso ventre
della società francese. Agli orgogliosi cugini questa storia del meticciato infatti all’inizio non piace-
gestire. La cultura vuole essere di
sinistra. Deve esserlo. Come fare
con uno come Céline, che sputa sul
mondo accademico e borghese di
Jean-Paul Sartre e compagnia bella? A Gallimard, noto editore, aveva
dato del “truffatore e vecchio maiale”. L’engagement intellettuale
tutto gli sembra una “comoda rendita”, uno snobismo che sbrodola
grammatiche seduto su poltrone
in pelle e sorseggiando del cognac.
Bhè, lo fecero fuori.
Dopo che note vicissitudini storiche lo vollero sconfitto, esiliato,
ignorato, si rintanò in una casetta
vicino a Parigi, sporco come un
la società che egli usa come pallide
mascherine. “Céline, maestro, organizziamo un neo-movimento di
risurrezione nazionale! Contiamo
si di lei!” “Siete in errore.. io non voglio fare rivivere niente!...l’Europa
è morta a Stalingrado…il Diavolo
ci ha la sua anima! Che se la tenga!
Maledetta puttanona!”
Credeva che gli europei ormai
mangiassero e bevessero tutto il
giorno, e che i cinesi o gli africani
li avrebbero fatti fuori perché la
razza ariana si perdeva in piaceri
dissoluti. Dei perditempo. Lui che
amava la fame, i deliri dei senzatetto, le grida folli di chi, come uno
Déjà lu
Celine e Bossi super pop
di GRETA TRAVAGLIATI
va tanto, soprattutto ai più poveri. E
Céline adorava il popolo, i bordelli
sporchi, gli ospedali zeppi di appestati, le fogne dell’umanità, come le
descrive Alberto Rosselli. Le zone
dove “la giustizia non arriva ed il
male si ripete per semplice mancanza di alternative”. Altro che i
salotti illuminati della cultura. Anche a Bossi piacciono i festival della
porchetta e le cravatte verdi. Certo,
già Victor Hugo aveva scritto un libretto che si chiamava I Miserabili,
ma Céline fa di molto meglio, Céline si inventa lo stile della pancia,
e parla del rumore con un rumore
sordo, con discorsi diretti ed immagini che si compongono come
un delirio di fronte ai nostri occhi.
La “scheggia impazzita” della cultura francese, lo definirono. Era di
certo un intellettuale difficile da
barbone e mezzo matto, a scribacchiare fino all’ultimo giorno
di morte. Rigodon, finito il giorno
prima di morire, parla del suo viaggio di rifugiato, dell’esilio in giro
per l’Europa. Ma la parte sensazionale sta nelle prime pagine, dove
Céline racconta appunto l’ultimo
periodo della sua vita, quando accoglie giornalisti e vecchi amici a
parolacce. Gente noiosa che vuole
intervistarlo, sapere cosa ne pensa, sapere se lui è veramente così
pazzo da professarsi filo-tedesco
e antigesuita. “Ma fino a che punto potrà arrivare lei nell’egoismo,
nel tradimento, nella viltà?” “Oh,
vado molto lontano, cari amici!”
Assurdi deliri di un uomo indignato? Nessuno saprà. Ad ogni modo,
al di là di destra e sinistra, è la società benpensante che lui deride,
18
scarafaggio, è rimasto fuori da questa società di consumo sfrenato che
Céline, reazionario fino al midollo,
odiava come il peggiore dei mali.
Quando ci si sofferma sui suoi lavori, è sempre dello stile che si parla, del suo libero indeterminato fluire di pensieri. Ebbene, sappiamo
che nessuno stile si definisce senza
considerare anche il contenuto che
si trascina dietro: Céline ha creato un pensiero violento, fangoso,
privo di figure retoriche e inutili
boriosità perché sentiva, vedeva,
annusava il tumultuoso brusio delle masse, “di quelle profondità spumose che più niente esiste”. Niente
grammatica. Ma così, d’un tratto,
il sublime si innesta in questa concrezione abominevole di fattacci.
Ci sono invece predicatori che ab-
bandonano la grammatica, ma che
di stile non ne hanno nemmeno un
filino. Di conseguenza, possiamo
immaginare i contenuti.
A
h! Che estate questa estate! Ah! Le feste in spiaggia!
Ah! Quanti freschi mojito sulla
rena! Ah! Che bella ciucca, peccato dover guidare fino a casa! Ahi!
Quanti uomini in divisa! Ahi! La
paletta, “soffi qui, gentilmente”!
Oioi!! Addio patente... Ebbene sì,
a verde). Poi si confrontava il colore assunto dai sali con una scala
e si determinava quanto alcool c’è
nel sangue. Gli etilometri moderni
funzionano allo stesso modo, solo
che invece di usare una scala colorata hanno dei sensori per gas che
misurano direttamente la concentrazione trasformandola in segnale
elettrico (sensori ceramici a biossido di stagno, per i secchioni e gli
amanti del nozionismo inutile), ma
il concetto è lo stesso: noi soffiamo
e l’etilometro ci dice quanto alcool
c’è nel nostro sangue. Co-cosa? Io
soffio e l’etilometro mi dice quanto alcool ho nel sangue? Proprio
così! La chimica torna a bussare a
di etanolo nell’aria espirata. Non
si scappa. Infatti l’alcool ingerito
nei numerosi cocktail bevuti entra
in circolazione abbastanza in fretta (al massimo un’ora ci dicono i
medici) e viene metabolizzato dal
fegato lentamente. Quindi ci beccano. E i vari metodi come bere un
paio di litri d’acqua o dell’olio aiutano ben poco. Per diluire l’alcool
nel sangue bevendo acqua bisognerebbe infatti bere decine di litri
di acqua (difficile) mentre l’idea di
bere uno shot di olio per tappare
lo stomaco e non far salire i vapori di alcool è sbagliata all’origine,
dato che nell’etilometro ci si soffia
e non ci si rutta. Che fare quindi? È
Pillole di scienza
Estetica del posto di blocco
di FABIO PARIS
anche noi di Finzioni guidiamo la
macchina responsabilmente. E per
fortuna, perché tante volte l’amico
poliziotto ci ha invitato a soffiare
nell’etilometro. Ma come funziona
questo aggeggio maledetto? Contano i trucchi sentiti in salagiochi?
Se mi bevo due litri di acqua poi mi
riprendo? E un cucchiaino di olio
che dovrebbe fare da tappo per lo
stomaco? Ancora un volta Finzioni vi svela un arcano che sta dietro
alla vita quotidiana. Andiamo con
ordine. Innanzitutto cerchiamo di
capire come funziona il palloncino,
nonno dei moderni etilometri elettronici. Si gonfiava un palloncino,
per cui si sapeva il volume di aria
espirata, poi lo si sgonfiava facendolo passare in un tubo di sali che
reagiscono con l’alcool espirato e
cambiano di colore (da arancione
bastoni, questa volta non è la termodinamica ma la legge di Henry.
La legge che scoprì il buon William
Henry (che mai avrebbe pensato
potesse essere usata per trovare i
beoni) ci dice infatti che la quantità
di gas assorbito in un liquido è proporzionale, secondo una costante
dipendente dalla temperatura e
dalla natura di liquido e gas, alla
pressione (ovvero concentrazione)
di tale sostanza nella fase gassosa.
Ovvero: a temperatura costante
(e il nostro corpo è a temperatura
costante) la quantità di etanolo nel
nostro alito (che è in contatto col
sangue nei polmoni) è direttamente proporzionale alla quantità di alcool nel sangue (che ci misurano).
E il rapporto è incredibilmente costante. 80 mg di etanolo per 100 ml
di sangue producono 35µg/100ml
19
possibile usare reattivi che reagiscono con l’alcool più velocemente rispetto alla velocità di misura?
In linea di principio sì, solo che
in commercio non ci sono gomme da masticare che sprigionino
tali sostanze, dato che quando va
bene sono incredibilmente tossiche, quando va male decisamente
mortali. C’è poco da dire, c’è poco
da fare, non resta che bere poco.
O trovare un amico astemio a cui
piaccia fare da autista a voi ubriaconi. Scienza e coscienza, che letture edificanti su Finzioni!
H
o installato su Firefox un
gioco che si svolge durante le navigazioni in Internet. É
una cosa un po’ da nerd chiamata
PMOG, Passively Multiplayer Online Game. Il mio ruolo é quello di
aprire porte che collegano diversi
siti. In poche parole, chi ha lo stesso add-on installato, andando su
un determinato sito troverà una
porta creata da me che gli suggerisce di passare in un altro. Faccio
la stessa cosa quando leggo
libri.
Non sono particolarmente
interessato alle evoluzioni stilistiche, ai tripli salti mortali
della lingua, alle gare di voli
circolari e pindarici attorno
a concetti spesso rubati ad
autori passati. Certo non mi
passerebbe mai per la mente
di acquistare uno dei classici
della mocciologia, ma neppure acclamo chi, superati i
divertissement, con circonvoluzioni retoriche dice il nulla
ma lo dice molto bene, corrompendo i giovani più di Socrate e con
buona pace sia di Platone che di
quel dio che avrebbe dovuto sapere
se ad una sorte migliore sia andata
Atene, e noi con lei, o il condannato a morte. Noto in verità con uno
stupore mitigato dall’abitudine
che vengono sfornati più libri con
idee precotte di quante baguette
precotte sforni la Panizzeria. Ciò
che interessa maggiormente me e
la mia lettura é vedere come la vita
di un personaggio, o di un concetto
filosofico, che poi é lo stesso, vengano ad incrociarsi con la mia vita
privata.
Apertura mentale, porte chiuse,
connessioni. Extracogito ed ergo
extrasum intitola Chumy Chùmez una serie di vignette dove tra
amanti ci si dice ciò che nella realtà
non si può: «Io ti amo molto! Ogni
volta che desidero vederti morta,
mi pento». A proposito dell’articolo sui single (Finzioni n° 3) ed alla
faccia di Fermina Daza, che, dicia-
mocelo, un poco se lo merita! Del
resto ora che malvolentieri sopporto la routine necessaria alla quotidianità vorrei mille volte avere
la macchina del tempo e ritornare
all’epoca di una delle due Innominabili della mia vita, come a creare
una porta tra il personaggio de I
promessi sposi e le due figure che
hanno segnato «i migliori anni della nostra vita» come la canzone di
Renato Zero.
Viaggi
Porte
di ALESSANDRO POLLINI
L’Innominabile Runaway vaga
per una cittadella che si crede città, vive una immaturità che crede
edonismo, legge di Lorca Gli Incontri di una lumaca avventurosa piuttosto che Alba: «Oggi il mio cuore
é arido/ come una stella spenta».
L’Innominabile Return vaga per
una city che si crede the world, vive
una selfishness che crede indipendence, non sa chi sia Gabriel Garcia
Marquez ma segue i Giant allo stadio di New York. Io riguardo le foto
ispaniche nuotando nell’inquietudine che mi ha trasmesso la lettura
di Senilità al liceo -la professoressa
diceva che non era inquietante e
che avrei dovuto leggerlo ma a me
é parso comunque angosciante- ed
evito di scrivere U.S. sui muri come
Zeno, che nel caso potrebbe davvero significare United States e per
un breve periodo lo ha significato.
Scrivo di letture mentre potrei essere a lavorare da Starbucks facendo grandi sorrisi e servendo Gingersnap Latte o Peppermint Mocha
20
Twist o cos’altro bevono di orribile
ed ipercalorico mentre tifano il
football americano. Se avessi la
macchina del tempo e ritornassi
all’epoca di una delle due Innominabili della mia vita, probabilmente ne cercherei una terza. «Volere é
potere e potendo rifar tutto/ forse
costruirei dove prima avrei distrutto» canta Antonio di Rocco.
Tutto é così denso da perdersi
nei significati. Troppe
parole possono portare al caos, o al caso, che
talvolta é addirittura
peggiore. Faccio mie le
parole di una fiaba di
Ermanno Bencivenga:
«Quando ero piccolo
avevo un grosso problema. [...] Succedeva che
mi facessero male i pantaloni, quando la mamma li metteva in lavatrice
e quella specie di ventola
li sbatteva di qua e di là.
Mi faceva male la porta se il vento la chiudeva con gran
fracasso, mi faceva male il gatto
se qualcuno gli tirava la coda e mi
faceva male la sedia quando ci si
sedeva lo zio Pasquale, che pesa
più di un quintale e a momenti la
sfonda».
Mi sono venuti in mente in questo articolo: Platone - Apologia di
Socrate Critone (Laterza, 139 pp.
7,50 euro); Chumy Chùmez - Siamo tutti di extra (Città armoniosa,
107 pp. Fuori commercio); Alessandro Manzoni - I promessi sposi
(Garzanti, 540 pp. 9 euro); Gabriel
Garcia Marquez - L’amore ai tempi
del colera (Mondadori, 376 pp. 12
euro); Federico García Lorca - Tutte
le poesie (Rizzoli, 1207 pp. 14 euro);
Italo Svevo - Senilità (Garzanti, 202
pp. 7,5° euro); Italo Svevo - La coscienza di Zeno (Barbera, 424 pp.
10 euro); Ermanno Bencivenga La filosofia in quarantadue favole
(Mondadori, 93 pp. 9 euro)
Oh, Scena!
venti mazzi da cinquantadue carte.
Ce li abbiamo venti mazzi da cinquantadue carte? No? E allora non
giuochiamo. E allora a cosa giochiamo? Giochiamo alla roulette
russa! Sì! Come si fa? Ci vogliono
sei pallottole e una pistola. Inizi lei,
signor Presidente.
Oh, Boris!
di SIMONE ROSSI
I
l nome è James Audubon
Wilson de la Pétardière-Frenouillou, che noia leggerlo tutto.
Pétardière-Frenouillou, fa notare
il solerte Massimo Castri, “potrebbe essere tradotto in BombardiniTagliolini, oppure in ScorregginiTagliatelle”. Salve, sono il Generale
Scorreggini-Tagliatelle: da piccolo
tuffavo il gatto nella minestra tenendolo per il tallone, per fortificarlo. Adesso ho 55 anni, a mia madre puzza il fiato, io bevo del gran
pastis e lei fa finta di non saperlo.
Generali, giochiamo alla guerra?
Vorrei avere le bottigliette di birra
vuote da mettermi sulla punta delle
dita e farle tintinnare come il matto
de I Guerrieri della Notte, e invece
non vedrò mai Coney Island, baby.
“Audubon, hai bevuto ancora
quella porcheria?”. No, mamma.
“D’altra parte non si può amare la
guerra, a meno che non si abbia
qualcosa di deviante dal punto di
vista sessuale” (Atto Primo, Quadro Primo, Scena Quarta). Quadro?
Ma scena di che? Ah! Oh, Scena!
Bentornati, puntata 5, poche chiacchiere: qua dobbiamo fare la guerra. La guerra? E le devianze sessuali? C’è un’omosessualità in questo
vaudeville paramilitare di Boris
Vian, un’omosessualità così latente e irriverente che una gigantesca
scritta I Militari Sono Dei Gran Froci avrebbe ottenuto lo stesso effetto
di senso. Il complesso di Edipo, poi.
Ah, il complesso di Edipo. La Terza
Regola Aurea di questa rubrica è:
Niente Edipo. Oggi parliamo di Generali a merenda.
Siamo uomini o caporali? Siamo
uomini o generali? Siamo generali,
non uomini. Cioè bambini: il sesso
ci fa ridere, ci fa venire voglia di
confrontare i nostri rispettivi pistolini piuttosto che sollevare gonnelle, facciamo merenda, facciamo
sempre la guerra perché non facciamo mai l’amore, siamo I Ragazzi
della Via Pastis.
Ho chiesto consiglio al Presidente del Consiglio, ma non ho avuto
risposta, né da lui, né da suo figlio:
“Scorreggini-Tagliatelle, qua le
chiacchiere stanno in poco posto:
dobbiamo fare la guerra. Il potere
i soldi la Patria l’Arcivescovado la
gloria le femmine, Scorreggini, le
femmine!”. Capisco, signor Presidente. Ancora un pasticcino? Un
dito di anisetta? Giorgio? No? Michele? Veramente?
TUTTI INSIEME Basta così. Grazie. Siamo sazi. Salviam, salviam
l’Europa nel nome di Gesù! (questa
musica è così trascinante!)
Con un tasso bassissimo di sangue nel pastis, i generali e gli ambasciatori e il Presidente del Consiglio mangiano e ridono e guardano
spesso la telecamera. “Guardare
spesso la telecamera”, in un testo
teatrale, significa mettersi spesso
a parte e commentare le scene con
il pubblico, in un gioco dentrofuori realtà-finzione che blablabla.
I potenti si annoiano alla svelta, e
allora uno propone: Facciamo un
gioco. Anzi, un giuoco. Il giuoco si
chiama “a tutta canna”, ci giuocavo
sempre con mia madre. Ci vogliono
21
“Questa commedia non verrà
mai rappresentata in un teatro serio”, scrive Boris Vian in apertura del terzo atto. In realtà questa
commedia è andata in scena nel
’64 e continua ad andarci tuttora,
ma non conta: il testo teatrale sta in
piedi anche senza traduzione scenica, possiamo leggerlo e goderne
lo stesso. Lo diciamo da quando
esiste Finzioni, e questo mese abbiamo incontrato un testo che se
ne frega bellamente della propria
messa in scena, è intelligentissimo
e fa pure ridere. Lei mi invita a nozze, monsieur Vian.
Boris Vian, Generali a merenda
(Einaudi)
Il demone della
coscienza
Fingersi altrove, fingersi qui
di MICHELE MARCON
L’estate sta finendo, le foglie
stan cadendo, e noi ancora qui
a parlare di coscienza, dubbio, paradossi e finzioni… e che palle, direte voi. Ma dopo tre mesi passati a
cercare di trovare il bandolo della
matassa, se mai ce ne fosse uno,
sento proprio il bisogno concludere
questa storia. Eravamo rimasti ad
un Socrate sconvolto alla scoperta
del suo demone interiore, una sorta
di grillo parlante che ne bloccava
l’azione in mancanza della conoscenza del vero bene. In parole povere, la coscienza.
Ma non tutti sono coscienziosi
come Socrate. Durante il secolo
scorso si aggirava per le strade di
Parigi un altro demone, stavolta in
carne ed ossa, che metteva paura
con discorsoni apocalittici a tutti
coloro che gli capitavano sotto tiro.
Sto parando di Cioran. E Cioran
era uno scettico. Vi cito solo alcuni
passi: “Senza i dubbi che abbiamo
su noi stessi, il nostro scetticismo
sarebbe lettera morta, inquietudine convenzionale, dottrina filosofica”; “Le verità: non vogliamo
più sopportarne il peso, né esserne vittime o complici. Sogno un
mondo dove si morirebbe per una
virgola”; e ancora “Il pessimista
deve inventarsi ogni giorno nuove
ragioni di esistere: è una vittima
del senso della vita”. Eh, insomma!
Tutto questo cogitare, tutto questo
scervellarsi! Tutto questo pessimismo cosmico… non se ne viene più
ci aiutano a dare un senso al mondo e a muovercisi.
fuori.
Ci converrebbe scegliere il silenzio perché, come abbiamo detto, il
nodo fondamentale del problema
della coscienza sta nell’invenzione
del linguaggio. È tutta colpa delle parole! Ma allo stesso tempo le
parole sono l’unico strumento che
abbiamo a disposizione per tentare
di superare questa impasse.
Perciò proviamoci: la parola è
dubbio perché mette in crisi fin
dall’inizio lo statuto ontologico
(parolone, scusate) della realtà.
Se la realtà è in crisi, gozzoviglia
la finzione. L’uomo ha trasformato le cose del mondo in suono per
poter applicare a queste cose un
significato condivisibile. Il suono è
per sua natura evanescente ed effimero, la sua esistenza è alla soglia
della non esistenza. È, se vogliamo,
il principio fondante del dubbio.
Ma questo non bastava: dato che
la sua curiosità si è sempre spinta
oltre le cose del mondo, l’uomo sì è
reso conto che con quei suoni poteva parlare anche di quello che non
esiste.
Ecco! Rullo di tamburi… il demone della coscienza ci logora coi
dubbi, e i dubbi sono all’essenza
delle parole, ma le parole ci sono
necessarie perché ci nutrono di…
finzioni! Non possiamo farne a
meno, le finzioni sono qualcosa
che sappiamo non esistere ma che
22
Che possiamo fare allora? Niente. Questo è un discorso che va
avanti dall’alba dei tempi e fino ad
oggi nessuno ha trovato una risposta. Come finire? Le foglie stanno
ingiallendo e cominciano a cadere
e sono entrato nel mood autunnale;
non mi resta che ritirarmi nel mio
stanzino a crogiolarmi nel dubbio
esistenziale, essere o non essere,
leggendo Cioran. Ma mi sembra
tristissimo finirla così, a un passo
dal non essere. Una risposta, seppur arbitraria, la dovrò pur trovare,
e preferirei che fosse un tantino più
vitale. Trovato! Scovate tra i vostri
libri Il barone rampante e leggete le
ultime righe “… era un ricamo fatto
sul nulla che assomiglia a questo
filo d’inchiostro, come l’ho lasciato
correre per pagine e pagine… e corre e corre e si sdipana e avvolge un
ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
Se vi vengono i brividi, in quel
momento saprete di essere. Magari
non in questo, ma in un altro mondo, nel mondo del libro o in un altro
ancora, in un altro cosmo, in un altro libro, non importa, l’importante
è sentire quei brividi. Che vi piaccia o no, sono finzioni, e sono un
gran bel sollievo.
Mattoni
Rising Up and Rising Down
di W. T. Vollmann
di FILIPPO PENNACCHIO
D
ove si parla di volumi dalle
cinquecento pagine e oltre,
di libri, in tutti i sensi, pesanti, di
opere-monstre fondamentali ma
spesso illeggibili, di settimane della propria vita spese a credersi coltissimi, ma in cui – probabile – ci
si annoierà a morte. Ogni mese un
mattone: comprateli, leggeteli, annoiatevi. Mal che vada scalderanno
(in senso più che letterale) la vostra
umile dimora negli inverni a venire: il vostro caminetto ne andrà
matto, tirerà avanti a scaldarvi per
ore e ore e ore e ore…
Rising Up and Rising Down
di William T. Vollmann
peso netto: 8.686 kg
U
n paio di parole, innanzitutto, per introdurre William T. Vollmann. Scrittore iperprolifico, visionario, a tratti geniale
ma folle: ha viaggiato in solitaria
fino al Polo Nord, frequentato assiduamente il mondo delle sostanze
stupefacenti, conosciuto personaggi per lo meno curiosi (il Re dell’oppio, non so se avete presente, per
dirne uno); pochi anni addietro,
mentre un giornalista italiano lo
intervistava in quel di Capri, insistette per farsi dire dove poteva
trovare, in zona, qualche prostituta
nigeriana. Alla laconica risposta
del suddetto giornalista obiettò
che una città senza puttane non è
una città. Come dargli torto. Divertentissimo ma inquietante, poi,
l’aneddoto contenuto ne L’opera
struggente di un formidabile genio:
il Nostro accetta di scrivere un pezzo per l’allora rivista di Dave Eggers
mica per soldi, ma in cambio di una
scatola di proiettili e di una modella da ritrarre nuda. Tant’è.
Nel 2003 McSweeney’s pubblica
Rising Up and Rising Down, ponderoso trattato in sette volumi con
il quale Vollmann intende – parole sue – «elaborare un sistema
di calcolo morale tanto semplice
quanto pratico che chiarisca quando è accettabile uccidere, quante
persone si possono uccidere e così
via». Niente di meno che: e difatti
quest’agile volumetto – ne esiste
anche una riduzione approntata
ad uso esclusivo del giovane, smaliziatissimo lettore modello, Come
un’onda che sale e che scende (Mondadori, 2007, 1,13 kg) – altro non è
che una moderna e monotematica
enciclopedia contenente, letteralmente, di tutto, da reportages al
limite dell’estremo che il vostro
Herzog, al confronto, è una pippa, a
considerazioni pseudo-filosofiche
declinate in altrettante «meditazioni sulla morte», a passaggi che
rimestano nel torbido di figure storiche più o meno celebri.
A proposito, ecco, tra le altre,
una considerazione lucidissima,
ma a tal punto cinica da rasentare il ridicolo: non è forse vero,
ci dice Vollmann, che «Cristo e il
Suo padre terreno» sarebbero stati
23
anch’essi complici dell’«industria
della morte e della violenza»? Non
sono stati forse dei falegnami a produrre le croci per chi crocifiggeva?
I due potrebbero insomma essere
visti come «occasionali grossisti
del boia». Verissimo, mi pare. Oppure si prenda la sezione inaugurale «sulla moralità delle armi»,
ove si conclude che «la capacità di
commettere violenza è un’estensione dell’io», e magari si constati
con l’autore che «il rosario – sarebbe a dire, metaforicamente, la fede
nella non violenza – non dona la
vita eterna». E via di questo passo.
Tutto interessantissimo, ci mancherebbe. Ma a dipanarsi pagina
dopo pagina è anche un’estenuante
sequela di «valutazioni», «precauzioni» e caveant puntigliosissimi:
qualcosa – fate voi – se ne guadagnerà di certo, ma l’integrità di lettori “diligenti” – in qualsiasi cosa
essa consista – verrà messa a dura
prova.
E però, o forse ahimè, anche da
questa amara presa d’atto discendono un paio di considerazioni
di carattere generale sulla morfologia delle opere-mattone: come
un’enciclopedia vanno consultate,
più che lette, magari più studiate che godute, frequentate sì, ma
concedendosi la possibilità, infine,
di odiarle almeno un po’. D’altra
parte sono spesso fisicamente illeggibili: troppo pesanti per essere
lette in posizione supina, troppo
ingombranti per essere trasportate
al parco o sotto l’ombrellone, troppo voluminose da padroneggiare
il mattino in metrò. E comunque,
volente o nolente, non vi risparmieranno una certa quota di noia.
Rassegnatevi o gioitene, fate un po’
voi. Però ecco, non lamentatevene.
D’altro canto uno dei motti meglio
riposti di Finzioni non recita forse
che «la letteratura è noiosa»?
Libri (quasi) mai letti
“Delitto e castigo” di F. M. Dostoevskij
di MARIA GIOVANNA ZICARDI
L
a Finzione sarebbe questa:
scrivere di un libro mai letto. O
meglio, di un libro, e qui sta il tabù,
iniziato e abbandonato. Rimesso
sullo scaffale, tolto il segnalibro
per cancellare ogni traccia dell’efferato gesto. Perché io, forse con un
po’ di snobismo, lo trovo un gesto
davvero efferato.
Tendenzialmente, pensi che succeda soltanto agli altri. Che tu non
potresti, non saresti capace. Perché siamo semplicemente felici
quando leggiamo un libro; di solito
anche così intellettualmente onesti
da riservarci ogni giudizio alla fine,
a non sbottonarci prima di aver tagliato la striscia dell’ultima parola.
Eppure. Ci sono stati casi, congiunture astrali, in cui il libro non lo abbiamo finito.
A me è successo due volte, con
lo stesso libro: arresa a un tiro di
schioppo dall’inizio. E dunque: chi
ha sconfitto quell’impazienza che
sempre fa da ponte tra il primo e
l’ultimo capitolo?
Ci si è messo Dostoevskij, con Delitto e castigo. Uno dei più profondi conoscitori delle complicanze
umane, uno che a esplorare l’anima ci si era messo sul serio, proprio
lui, mi ha giocato questo tiro. Da
Dostoevskij non me l’aspettavo. Invece è successo che della coscienza
di Raskòlnikov dopo pagina 72 non
ne potevo più.
Non mi interessava continuare a
pedinarlo tra le bettole di San Pietroburgo, osservarlo nel travaglio
del suo castigo, in tutto il seguito
del delitto, che facilmente immagino più orrendo del delitto stesso.
Immagino. Perché nessuna introduzione, postfazione, commento
o recensione possono mai essere
quello che non hai letto.
È con perfida minuzia che Dostoevskij tampina Raskòlnikov e
racconta la sua vittima: la vecchia
usuraia, con gli occhi piccoli e i capelli radi, un po’ brizzolati, unti di
grasso, “attorcigliati in una treccina sottile come la coda di un topo”.
Il collo “lungo e magro, simile a una
zampa di gallina” e sulle spalle, nonostante il caldo, un pellicciotto logoro e ingiallito. L’aria è nera, tetra,
gli spazi angusti, sporchi, rovinosi.
Chi ride, come Natàsja, lo fa con risate “morbose e isteriche”.
La sceneggiatura di Delitto e castigo è disgusto puro. Allontana ogni
presa di posizione a buon mercato,
devia dai giudizi netti con la nettezza di un orrore che è dappertutto, in ogni piega della storia. Lo avverti subito, e questa disarmonia
insistita ti ostacola. Dostoevskij
crea un insopportabile sottovuoto.
Perché esattamente così doveva essere, la vicenda di Raskòlnikov. Si
dice: “il senso di colpa”. Provateci
voi a raccontarlo, a corteggiarlo,
a riempirne strade e stanze, fino
a renderlo insopportabile. Fino a
mettermi in fuga da quella ragnatela di tende, maniglie, cassettoni,
bicchieri, divani, pellicce, esaminati uno ad uno e strappati all’immaginazione. Lo spazio è chirurgicamente dissezionato. E il tempo,
24
in questa inesausta scansione di
spazio, si dilata e ti divora. Come
per mettere in sordina il delitto in
sé per sé e amplificarne, per contro,
l’orrore.
Ora, sono attirata dalla tragedia
nelle storie. Ma la rovina di Raskòlnikov ha annullato il mio rapporto
col racconto. Ero un tutt’uno coi
capelli unti della vecchia, col sangue che le sgorga dal cranio come
da un bicchiere rovesciato. Il processo di catarsi, diciamo, è andato
un po’ oltre il dovuto.
Questo è successo, credo. Dostoevskij, quando scrive, non ti lascia
scelta. È definitivo, perentorio, non
tollera distanze o mezze misure.
Così che ogni distanza e misura tra
te e l’ultima pagina diventa impossibile. E qui sta il suo genio. O la tua
fuga.
I ferri del mestiere
Il buon libro è quello che vende?
di AGNESE GUALDRINI
C
’è stato un recente dibattito su La Repubblica che
ha visto coinvolti un editore indipendente e un manager di un
grande gruppo editoriale italiano.
Un botta e risposta su cosa vuole
dire essere editori oggi in Italia. La
querelle ha avuto come fulcro una
basica domanda: il bravo editore è
quello che vende libri buoni...ma
qual è il criterio con cui un libro si
definisce “buono” dal punto di vista editoriale? Le risposte possono
essere due: il buon libro è quello
che vende (dunque una categoria
a posteriori: la bontà o meno di un
libro si evince dopo un certo lasso
di tempo osservando il suo ciclo di
vita sugli scaffali della libreria), oppure il buon libro è tale a prescindere dalle sue sorti (dunque, un a
priori).
Noi, amici di Finzioni e avidi lettori, ce ne infischiamo dei dati di
vendita di un libro, leggiamo tanto,
confrontiamo quello che abbiamo letto e tessiamo una ragnatela
di mondi possibili (o impossibili)
unendo ciò che ci resta in mente
dopo quelle piacevoli o spiacevoli
ore passate a leggere storie altrui.
Ma per un attimo allontaniamoci
da questa prospettiva, dallo spettacolo intrattenuto dall’autore e
applaudito (o fischiato) dal pubblico dei lettori e guardiamo per
un attimo dietro le quinte, perché
è da lì che si decide lo spettacolo e
ed è da lì che meglio si può osservare il pubblico. Lì, dietro le quinte,
stanno gli editori. Oggi è finita l’era
degli editori indipendenti (i Giulio
Einaudi, i Valentino Bompiani, gli
Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli) e queste grandi case editrici
del passato sono confluite in grandi gruppi, gestiti da manager puri
provenienti da altre aree come la
finanza o le fabbriche di automobili. Sono loro a occupare la maggiore
fetta del mercato, a vendere di più.
Le briciole se le spartiscono gli editori indipendenti.
Al di là del fatturato, cosa differenzia un grande gruppo da un editore indipendente? I grandi gruppi
vincono le aste, offrono anticipi altissimi (e si accaparrano gli autori
più noti), hanno un margine maggiore di rischio. Pubblicano tutto,
tutto quello che può avere successo
e che può essere venduto. Ora, tutto
questo è giustissimo, perché il mestiere dell’editore è prima di tutto
un mestiere, un lavoro, e il guadagno economico pertanto, pur non
essendo l’obiettivo, è la condicio
sine qua non della sua realizzazione. Tuttavia, credo sia innegabile
che il rischio di questa deriva sia la
trasformazione delle case editrici
in librifici. Fabbriche di libri come
esistono le fabbriche di saponi.
Non voglio qui fare la snob che
arriccia il naso…che il libro da dietro le quinte è certamente un prima
di tutto un prodotto. Ma un libro o
una scatola di biscotti sono due
cose diverse: il libro veicola idee. I
biscotti no. E in questo senso, credo, il mestiere dell’editore (come
lo intendo io) dovrebbe assumere
su di sé una certa responsabilità
perché non tutto è pubblicabile,
perché se tutto fosse pubblicabile
25
non ci sarebbe bisogno degli editori (e chiunque potrebbe pubblicare
il libro che ha scritto, per esempio,
sul web). Il mestiere dell’editore si
compone di scelte, possibilmente coerenti, e di linee editoriali da
seguire. Questo comporta tanto la
rinuncia di fronte a certi testi che
non rispondono all’idea (onestà
intellettuale), quanto alla rinuncia
di un libro bello che però non può
avere alcun mercato (onestà economica).
L’editoria italiana è un compromesso tra questi due aspetti. Più
l’editore è grande, più è vario, più
l’editore è piccolo, più è identitario
e riconoscibile. Il lettore si aspetta
da lui certi titoli e nutre la fiducia di
non rimanere deluso. Non sempre
la fiducia viene mantenuta e molte
volte anche un brutto libro grazie
a operazioni di marketing viene
spacciato per quel che non è.
Un caso eclatante fu la Lettera
d’Amore di Cathleen Shine, un libro
brutto, un semplice romanzo rosa,
divenuto caso letterario semplicemente perché inserito nelle raffinate collane letterarie di Adelphi:
un piccolo inganno – che coinvolse
anche la critica – che rese per un
attimo fascinoso ciò che era di fatto
un libro scadente. Magie e poteri,
anche questi, della nostra editoria.
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
B
ettoli, negli anni 80 i politici andavano a ballare e
ne scrivevano pure, sdoganando
davanti a un pubblico da tribuna
politica l’italo disco, la new wave
già un po’ romantic, il mojito, la
robot dance, il ballo del qua qua, le
cravatte a tastiera ed Heather Parisi. Il *locale* - inteso come luogo
per l’intrattenimento - non faceva
paura anche perché la letteratura,
la stampa e le letture più disimpegnate lo rappresentavano come
boccaccesco - certo - ma raramente come *malvagio*. Oggigiorno
mi sembra si citi o si descriva un
locale solo per attribuirgli una
connotazione maligna che vuole
trascendere forzosamente la *sospensione del dubbio* (e.g. “mi ha
corrotto! tu e il lettore del romanzo dovete capire che questo locale
MI HA CORROTTOOOOOOO” urlato da Rachele al fratello maggiore, paonazzo, in Troppo ammorbamento alla discoteca Kadonschi,
di Seymour Citizeni). Molti romanzi degli ultimi trent’anni sono
ambientati in locali sì *lerci* come
quelli di Borronk, *ambigui* come
quelli di Santara o *da tamarri*
come quelli di Smaila, ma là non
c’è condanna. Il locale rappresentava -e utilizzo le parole di Castaldello- “un personaggio onnisciente, protagonista e antagonista
-oltre che riempipista- talvolta
assassino bonaccione”. Nella contemporaneità i locali serrano ad
orari finlandesi, si va a correre e in
palestra -o dall’amante- e nessuno si fuma più 3 pacchi di paglie al
banco scolandosi scotch quando
ha una moglie, un figlio in arrivo
e l’ufficio il giorno dopo. L’espressione del momento è *mi corico
presto*. Il risultato è che nessuno
*vive* il locale di Borronk, lercio
ma onnisciente, e noi ne sappiamo
sempre meno di queste gabbie che
contengono moltitudini, *moltiplicatori di storie* al pari delle rivoluzioni.
Mitraglia, Roporisi
N
on darei la colpa della chiusura anticipata dei locali
alla letteratura o ai giornali, Mitraglia. Dice bene però quando parla
del luogo-locale *moltiplicatore
di storie*, che come le rivoluzioni
magnifica ed espande la portata
esistenziale degli individui che vi
prendono parte. Rivendicare l’appartenenza ad un locale specifico,
oppure alla più generica *gente
della notte* protojovanottiana, forniva alle penne di Borronk e Santara un corollario di possibilità di
conoscenza. Questi autori avevano l’acume per descrivere il locale
intimo, raccolto, quello sfacciato
e disinvolto, financo quello melanconico che sta per chiudere e
con essi tante-differenti-umanità.
Qualcosa sembra muoversi, in questi ultimi anni. Non sto parlando
-ovviamente- delle sbrodolate di
Castrandrea e della sua serie *noir
da rimorchio* culminata pochi
mesi fa nel volume edito da NoirPour-Boire, tale Una notte all’Havanas (cito, per definirne il tono,
l’apertura: “Quella sera andammo
carichi in un locale che si chiamava Havanas, ma a giudicare dal
numero di mazze sarebbe stato più
appropriato denominarlo Bana-
26
nas”), né mi riferisco a Balsamelli
quando descrive in Bar Wunderbar
un baretto che segue come un cucciolo di cane un pover’uomo (“Quel
bar mi stava seguendo, ne ero certo, ma io non avevo ossa da lanciargli”). Qui i locali non parlano e
non offrono nulla alla conoscenza,
sono solo un ridicolo pretesto per
parlare di un’avvilente *one-night
stand* ubriaca o per fare della fanta-ristorazione. E allora aridàtece i
locali *da tamarri* di Smaila.
•
C
aro Bettoli, non perde l’abitudine a lanciare il sasso e
nascondere la mano, come quando ha citato Pahhhllasassi [parlando di Ahhh calcio, ndr] senza
approfondire alcunché. Aveva
ragione la sua maestra quando le
dava del superficialone. Sopperisco io. Il nostro scrittore giandone Palletti, utilizzando l’artifizio
caro al Manzoni e presente pure
ne La Storia Infinita (la favola col
cane volante), fantastica sul ritrovamento di un antico manoscritto
per parlarci di uno sport (farsa?),
la pallasassi, giocato nella beozia
mitologica e nelle regioni limitrofe colme di argonauti e velli d’oro.
Inutile dire che il pretesto nasconde più alti propositi rispetto al
semplice descrivere un gioco da
decerebrati (“colpire con una palla fatta di sassi le estremità inferiori dell’avversario, comprese le
natiche, fino a costringerlo a uscire dal campo per far cauterizzare
le ferite via alcool denaturato”) e
altro non rappresenta che un’allegra allegoria della società beota
del tempo. O no?
Caspio, Travella Bolognese
N
o. Non è che ogni libretto
del menga debba per forza
nascondere qualcosa in più. E poi
cosa dovrei trovare da allegorare in un bouquin di 35 pagine che
recita “il giocatore della pallasassi
deve tornire le gambe con impegno per schivare le pallesassi che
la vita ci consegna”, “la pallasassi
quando colpisce provoca dolore”
e “il pubblico della pallasassi può
incitare gli argopallanti vociando
ma senza insolentire gli dei”? E’
vero che l’autore del fantomatico
libretto, ad ascoltare l’astuto Palletti, sarebbe lo stesso Atamante
l’Eolio re di Beozia bla bla che aveva sposato Nefele bla bla e odiava
la Vellodoro bla bla, ma neppure
questa pretesa di storicità allontana la viva impressione che si tratti
di una sbofonchiata. Eppoi Caspio,
non le sembra di aver preso troppo
sul serio un robo che viene allegato alle chewingum gusto lampone
e cola e -fondamentalmente- ha la
sola pretesa e funzione di non far
rimpiangere come sorpresina (1)
gli occhiali con cui vedi sotto i vestiti, (2) i missili a carica, (3) la ricetrasmittente per carpire i segreti
pronunziati a un tavolo lontano, (4)
le palline rimbalzine di ogni foggia
e colore e (5) le monete in finto oro
di asterix e obelix in regalo con la
crema di nocciole bicolore?
•
C
aro Bettoli, spero che le vacanze le abbiano giovato. Io
ho fatto le mie sui monti, sì, continuo a cacciare PEM PEM! (ah ah)
perché alla fine mi piace, e non ci
trovo nulla di male. Lei? Io lo faccio per divertimento, poi per mangiare, ma anche perché la fauna (e
pure la flora) è piena di animali e
onestamente una sana sfoltita non
fa male. Penso sempre che siamo
troppi, bestie e uomini, che poi
sono spesso peggio delle bestie,
soprattutto gli informatici perché
ti riparano il computer e non ti
fanno la fattura. Io dico: date una
pistola in mano a un cacciatore e
ci sarà meno bisogno della polizia, io per esempio mi sfogo così, e
mangio pure. Leggo sempre la sua
rubrica, perché con quella non mi
sento in dovere di leggere per davvero. Ho fatto un’eccezione perché
la mia nipotina, che c’ha già il fucile in mano (giocattolo, per ora)
mi ha regalato il libro per bambini
Quello strano berretto da cacciatore di J.T. Mowlens. Che ne pensa?
Pantaneo, Quartu Ingarrinu
importa) e il nostro J.T. Mowlens
è uno dei caccianti più popolari,
co-fondatore dei caccianti canadesi e volto noto della tv. Non vorrei
parlare di Quello strano berretto
da cacciatore (ed. Putier, 12 euri),
libercolo illustrato per marmocchi
ingrifati in cui un berretto comprato ad un mercato delle pulci
trasforma immediatamente l’indossatore dello stesso, il giovane
divoratore di praline Ronald, in un
vero cacciatore (o cacciante?) con
tanto di pulci (le stesse del mercato) e fucile carico. Trattasi di mero
pretesto per decantare le lodi della
caccianteria, citando a sproposito
Darwin, Jimmy Bo Horne (quello
di Gimme Some) ed il sociobiologo
Edward Osborne Wilson. Io non ci
sto. Né mi convince la figura del
fratello maggiore di Ronald, Denilso, che partendo da entusiasmi
e suggestioni da vero cacciatore
devia verso un relativismo sciapo,
arrivando ad affermare “ok sparare
agli animali, certo, ma solo a quelli
di piccola taglia”.
T
utto il male possibile. Il
movimento dei caccianti,
che sta prendendo piede in tutto il
mondo grazie al calcio di mille fucili caricati à balestra, è una piaga
per la fauna. Selvaggina, scimmie
e uomini, costretti in un ambiente
angusto: non ci vuole la scala per
capire che i fucili inducono al disimpegno. I caccianti sono ricchi,
dispongono di siti, giornali e think
tank (che poi in questi ultimi ci sia
poco think e una grande quantità di tank - piene di alcool - non
27
scrivete a:
[email protected]
Ghost World
“Berlin: City Of Stones”
di Jason Lutes
di MARINA PIERRI
[…] my life like a thread unspooling and intertwining with those I
pass on the street.
Marthe Muller
in “Berlin: City of Stones”
U
na volta, ricordo, ero in
macchina con una mia
amica e parlavamo di The Reader,
il flim con Kate Winslet uscito in
tempi di Oscar 2009, ambientato in
Germania durante e dopo il periodo nazista. Maria mi diceva: “è ok,
ma è assurdo sentire questi attori
americani parlare in inglese mimando l’accento tedesco”. Capii. E
pensai di fatto a una tonnellata di
altri film in cui succedeva la stessa
cosa. Amadeus, o Il portiere di notte, lo stesso Schindler’s List. Non è
un caso. La Germania e l’Austria,
per ovvie ragioni, sono state raccontate fino alla sfinimento e da
sensibilità altre, ossia appartenenti
a luoghi e tempi diversi. L’inglese
ci ha permesso di conoscere i personaggi di Berlino, o di Vienna. E
sempre, sempre, li abbiamo sentiti
parlare in lingue che non erano la
loro.
Così succede, esattamente, con
i personaggi di Berlin: City Of Stones, la prima parte dell’ambiziosissima (e assolutamente magnifica)
trilogia a fumetti di Jason Lutes,
autore americano che ha deciso di
immaginare un assurdo affastellarsi di vite nel breve decennio del-
la Repubblica di Weimar. La cifra
della graphic novel è un realismo
spesso agghiacciante (disegni stilizzati una bella mazza! diciamo ai
detrattori delle vignette) che mi ha
fatto pensare ai lavori di Rossellini
e De Sica: gli anni non risparmiano
nessuno dei personaggi commoventi del libro, e ognuno di loro entra nel romanzo pesante, confuso,
con una storia personale, spesso
terribile, fatta di rughe e macerie
emotive. Tutte rese perfettamente visibili dalla matita e non dalla
sceneggiatura. I protagonisti sono
i poveri delle due fazioni del nascente secondo conflitto mondiale:
da una parte i comunisti, dall’altra quelli che ancora non sanno di
chiamarsi nazisti (lo scopriranno
pochi anni dopo) e, nel mezzo, una
giovane coppia che rappresenta la
coscienza (Kurt Severing) e l’incoscienza (Marthe Muller) della
grande maggioranza dei cittadini
di Berlino, presi e persi nel mezzo
di un momento niente meno che
decisivo nella storia della loro nazione e del mondo intero.
Per capire perché City of Stones
sia stato considerato una delle dieci graphic novel più belle di tutti i
tempi dall’autorevolissimo Time
Magazine, dovrete leggerlo, perché
io non sono grado di spiegarvene le
ragioni. È una cosa perfetta e tentare di capire perché lo sia non fa che
guastarla; è tutto lì dentro, nero
su bianco, una storia, molte storie, che non dimenticherete mai.
28
Posso però provare a incuriosirvi
dicendovi che la totale verosimiglianza degli elementi del racconto
e l’uso di un inglese perfettamente graduato – che va dal dialetto
alla dizione oxfordiana a seconda
dell’estrazione sociale del locutore
– fratturano Berlin in due racconti
quasi diversi, uno squisitamente
storico e l’altro squisitamente fictional. Eppure, se vedere sul grande
schermo un generale nazista parlare in americano crea un disturbo
per certi versi non ignorabile (come
quando si cambia stazione radio,
ecco) è proprio in questa spaccatura del lavoro di Lutes che si innesta
la magia, il rapimento, nella forma
di una bizzarra coloritura fiabesca,
appena surreale, che cuce insieme piuttosto che separare. Specie
considerato che, in ultimo (da qui
l’esergo) il filo rosso della storia è la
somiglianza, non la differenza, tra
i meno comuni dei denominatori.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità
e la mirabolante esagerazione dei
fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che
fare una caricatura non è altro che
privilegiare e mettere l’accento su
una parte in rapporto con il tutto,
creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria.
L’asimmetria fa ridere e fa pensare,
perché non è regolare, dunque buffa,
e va messa a posto gestalticamente
con la propria testa. L’iperbole, la
storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e
fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa
pensare.
Ci sono poi due ruoli che si alter-
nano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo
quello che doveva succedere e niente
altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che
vinca. Non si scappa.
come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare
acqua al loro mulino, si raccontano
in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo
ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva
qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo
non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della
verità in termini esistenziali. La verità per me.
Iperboloser
Ipparco di Nicea
di JACOPO CIRILLO
T
utte le informazioni che si
hanno su di te sono filtrate
e tramandate da uno che si chiama Pappo, dal cui nome deriva la
seconda professione più antica del
mondo? Potresti essere Ipparco di
Nicea. Hai scritto più di quattordici opere sull’astronomia e l’unica
cosa che si è conservata è un commentario su un tuo poema scritto
da ubriaco di un tale che si chiama Arato? E non si è salvato niente perché avevi fatto uno sgarbo
agli amanuensi della tarda età che
preferirono gli scritti di Tolomeo ai
tuoi? Allora sei probabilmente Ipparco di Nicea.Sei obbiettivamente
il più grande astronomo dell’antichità ma Cicerone, così per ripicca, ha messo in giro la voce che in
realtà era molto meglio Aristarco
di Samo, che peraltro si era anche
beccato un’accusa di empietà da
Cleante? Il cerchio si stringe. Hai
inventato la magnitudine (misurazione della luminosità apparente
di una stella) tuttora usata dai moderni astronomi ma tutti danno il
merito a un tal Pogson che nel 1856
semplicemente firmò col suo nome
le tue teorie? Sembra non esserci
più alcun dubbio. Ma soprattutto, hai fatto una delle scoperte più
grandiose della storia e davanti a te
i posteri mettono i Vichinghi, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci e i vari Pizzarro e Cortez? Allora
sei sicuramente Ipparco di Nicea.
Ipparco di Nicea infatti aveva
intuito l’esistenza di un continente
tra l’Oceano Indiano e l’Oceano At-
29
lantico semplicemente sulla base
di alcune storielle riguardanti certe maree del Mare Arabico, raccontate da un tal Seleuco, famoso per
le sue canzonacce da osteria. Senza caravelle, senza sovvenzioni né
uova, da casa sua in Tuchia Ipparco aveva scoperto l’America. E non
per sbaglio, come Colombo, ma di
proposito. Ovviamente non gli credette nessuno, anzi probabilmente
a nessuno interessava nulla visto
che erano tutti troppo occupati a
screditarlo per tutto il resto, tanto
da mandarlo in esilio “volontario”
nell’isola di Rodi (che beffa questo
nome per Ipparco e il suo fegato, roso appunto dalla possibilità
mancata di chiamare un continente Ipparca) ove morì. Forse. Ma non
ne siamo sicuri.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il
co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che
legge.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua
infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino
Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per
co-fondare Finzioni.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna
conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora
accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far
fruttare una laurea a detta di molti “inutile”.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono
di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento
all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima.
Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora
a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione
*lobbista*.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Michele Marcon è un ragazzo non bello e forse neppure piacente, ma applica liberamente e con regolarità
lo scetticismo e crede nel potere dell’antitesi. Curioso
per natura, in passato è stato abbastanza ingenuo da
cercare, passando in rassegna molte discipline, la verità, naturalmente senza ottenere alcun risultato certo.
Il suo scetticismo ne è uscito talmente corroborato da
essersi spinto più avanti di lui nella negazione, tanto da
fargli perdere addirittura le sue incertezze.
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo,
di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per
non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che,
per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando
il posto a nuove manie.
n. 5 / Settembre 2009
[email protected]
www.finzionimagazine.it
Stampa: Tipolitografia Castello - Castel Bolognese
30
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto
dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è
stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La
luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo
in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si
chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in
accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo
l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per
esperto di nanotecnologie.
Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma
è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto
a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla
figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam,
frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano,
leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo.
Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini.
Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del
non voler dire nulla.
Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non
legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai
andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed
é bellissimo.
Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza
a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale,
ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si
barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale.
Pensa che la matematica sia alla base del declino della
civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie.
Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha
scritto.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/
fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del
portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media
di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di
film e serie televisive americane.
Da questo mese Finzioni è disponibile
solo su abbonamento.
Abbonati o richiedi gli arretrati su
http://finzioni.bigcartel.com
31
www.finzionimagazine.it
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di Carlo Pastore