n.4
2
The Godfather
Michel Houellebecq
di JACOPO CIRILLO
M
agritte diceva che i titoli non sono spiegazioni dei quadri e i quadri
non sono illustrazioni dei titoli. E che la rivelazione tra titolo e quadro è poetica.Allora tra il quadro e il titolo non c’è relazione ma rivelazione,
quindi qualcosa che qualcuno deve scoprire per tutti; questa rivelazione
(contribuisce a) costituisce e fonda la poetica dell’artista.
Estensione del dominio della lotta è un bel titolo. Si riferisce al primo romanzo di Michel Houellebecq (Bompiani 2001, 152 p., 7 euro) e non lo spiega, come il libro non illustra il titolo. Anzi, tutto il contrario. Estensione del
dominio della lotta come dire che prima si lottava solo per la sopravvivenza
mentre adesso si lotta per molte più cose: il lavoro, l’amore, il sesso eccetera.
I motivi per cui si combatte, ma non ciò per cui ne vale la pena, aumentano sempre di più. Il libro però non parla di uno che lotta con il coltello tra
i denti, facendosi largo in questa società frenetica; non parla nemmeno di
uno che non lotta o che non si rende conto di questo fenomeno, altrimenti
la relazione, seppur inversa, sarebbe tale e non da rivelare. Il libro parla di
un trentenne depresso che incarna il manifesto della non-vita, dell’indifferenza, della noia che, come dicono i signori della Bompiani, “è capace di
segnare la generazione contemporanea come Lo straniero di Camus segnò
i giovani del dopoguerra”. Il protagonista si rende perfettamente conto di
quanto il dominio della lotta si stia estendendo. Solo che non gliene frega
niente. E’ fuori dal mondo non perché non lo capisce ma perché lo capisce
troppo. E sa che per chi non ha scopo, non ci può essere ontologicamente
posto. Eccolo qua il manifesto che segnerà una generazione. La poetica di
Houellebecq è tutta qui ed emerge dal rapporto tra un titolo e un libro che
non tanto lo sconfessa quanto lo costeggia.
La poetica come insieme strutturato degli intenti espressivo-contenutistici di un autore fa prima di tutto riferimento al suo metalinguaggio, che
sembra un parolone ma in realtà è un concetto divertentissimo e, a volte,
anche molto utile. La prima cosa da fare quando si entra in un ambiente
nuovo infatti, è imparare il metalinguaggio. Il gergo. Succede a scuola, succede al lavoro, succede negli spogliatoi delle palestre. A scuola permette
di non essere bocciati; al lavoro di non essere licenziati. Alle feste evita di
fare da tappezzeria e negli spogliatoi delle palestre di essere presi a calci
in culo (provate voi a parlare di libri, lì). Houellebecq è uno scrittore molto
dotto – lo dimostra disseminando alte dissertazioni metafisiche e scientifiche in tutti i suoi libri. Nelle Particelle elementari (Bompiani 2000, 316 p., 10
euro) però, usa largamente il turpiloquio parlando essenzialmente di sesso.
Lo usa nella sua accezione distensiva, per calmierare il terribile passato di
Bruno, ma soprattutto perché, per parlare dello scopare e delle sue fottute
devianze, bisogna usare il metalinguaggio adeguato. Cazzo.
3
Sommario
La citazione del mese
Beaten Beatitude
Nobel minori
Letterature Involontarie
Punizioni! Biografie Edulcorate
Sui labirinti
L’angolo del cinematografo
Viaggi
Oh, Scena!
Il Cruciverboso
5
6
7
8
10
11
12
13
14
15
16
Charlie VS Proust
Déjà lu
Pillole di Scienza
Il demone della coscienza
Scheda Libro I ferri del mestiere
La posta dei lettori
Le città letterarie
Ghost World
Iperboloser
Contributi da
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21
22
23
24
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28
29
30
Editoriale
Q
uasi quattrocento definizioni, tutte verbosissime.
Quattro pagine verbosamente occupate. Molte
parole dal significato oscuro, altre semplicemente inesistenti. Cruciverboso: benvenuti nel paese dei balocchi.
incredibile Michele Marcon, il cruciverboso appunto.
Pensate, risolverlo è talmente difficile che noi di Finzioni mettiamo in palio i numeri 5, 6, 7 e 8 aggratis
spediti direttamente a casa di chi riuscirà a mandarci
le soluzioni entro il 15 settembre alla mail redazione@
finzionimagazine.it.
E benvenuti su Finzioni numero quattro, il numero
estivo. Sul nostro sito finzionimagazine.it potete trovare i consigli di tutta la redazione sui libri da leggere
quest’estate e una giusta crociata contro i topi da biblioteca e a favore dei topi da ombrellone. La migliore lettura per luglio e agosto comunque rimane Finzioni, con
gradite conferme - le città letterarie e il demone della coscienza - e simpatici ospiti - Rosanna Lambertucci. Ma
soprattutto quel mastodonte a p. 16 prodotto dal nostro
Buona estate a tutti, ci rivediamo a settembre con le
risposte al cruciverboso (ma il sito non si ferma mai, eh)
e abaso la leteratura!
La redazione
4
L
a proposizione può rappresentare la realtà tutta. […] Ma non può rappresentare ciò che, con la
realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare – la forma logica. […] La proposizione non può
rappresentare la forma logica; questa si rispecchia in
quella. Ciò, che nel linguaggio rispecchia, il linguaggio non può rappresentare. Ciò che nel linguaggio
esprime sé, noi non possiamo esprimere mediante il
linguaggio. La proposizione mostra la forma logica
della realtà.
Lodovico Wittgenstein
La citazione del mese
Flatlandia
L
uigi Pareyson, il maestro
dichiarato di Umberto Eco,
diceva che un grande pensatore ha
la stessa idea per tutta la vita e non
fa altro che ripeterla, pur declinandola nelle diverse sue opere. È vero,
non è vero, è una provocazione?
Non lo so e, francamente, non è finzionamente interessante. La cosa
interessante è vedere come si può
dire la stessa cosa in modi differenti e, soprattutto, quanto possono
essere differenti, questi modi.
Wittgenstein parlava di forma logica, spiegandola in modo talmente verboso che piuttosto bastava
dire così: consideriamo queste due
frasi: la letteratura è noiosa e ogni
articolo di Finzioni spacca. A primo acchito sembrano diverse (ed
entrambe troppo giuste), tuttavia
hanno qualcosa in comune: affermano che tutti gli individui di un
certo tipo hanno una certa proprietà. Quella roba lì è la forma logica.
Ecco, vedi che non era difficile.
Edwin Abbott Abbott (pensare a
corrispondenze con Humpty Dumpty è quasi obbligatorio) ha scritto
un libro incredibile che si chiama
Flatlandia. Racconto fantastico a
di JACOPO CIRILLO
più dimensioni (Adelphi 1993, 166
p., 8 euro). Racconta di un mondo
a due dimensioni in cui gli abitanti
non concepiscono l’idea di “altezza”, e non è che se ne fanno un gran
problema. Poi un quadrato scopre
un punto e una sfera e alla fine ne
succedono delle belle. Ma la cosa
incredibile di questo abate (pensare a corrispondenze con Lewis
Carroll/rev. Dodgson è decisamente obbligatorio) è la sua capacità di
declinare la stessa forma logica a 3
dimensioni in un mondo talmente
diverso, talmente “inventato” in
cui nessuno sembra soffrire particolarmente il fatto che non può volgere lo sguardo verso l’altro, visto
che l’alto come concetto non esiste.
una frase. O una pila di libri!
Intanto riuscire a far finta di non
concepire l’altezza e scrivere qualcosa di coerente e organico è quasi
imbarazzante. Ma non è tanto questo, è più la trasposizione di certe
parti di realtà del 1884 in un mondo
altro talmente diverso da non mantenere neanche quasi lo stesso linguaggio. Come si fa, infatti, a parlare la stessa lingua se si è totalmente
privi di un concetto cardine come
“altezza”? Non si può nemmeno
concepire una bocca che articola
Ci restano donne-linea che, se
viste dagli uomini-poligoni di taglio, divengono praticamente invisibili, dunque poco considerate
e considerabili; ci restano donneacuminate (per forza, sono linee
rette) che per evitare di ferire i passanti devono far oscillare il posteriore, così da essere riconosciute ed
evitate. Inutili e sculettanti.
5
L’assurda impossibilità di una
trasposizione però va a farsi friggere, grazie alla forma logica. Un solo
esempio sennò diventa noioso: le
donne. Ai tempi del reverendo (che
peraltro dovrebbe anche averne
frequentate pochine) il femminismo non aveva nemmeno iniziato
le sue battaglie e le donne erano
mogli, madri e poco considerate. Se
prendiamo le frasi, molto ottocentesche: le donne sono inferiori e le
donne sono brave sono a sculettare,
ci indigniamo per la loro anacronisticità e stupidità e le buttiamo in
un mondo con una dimensione in
meno, che ci resta?
La forma logica non guarda in
faccia a nessuno.
Beaten Beatitude
Howl
di JACOPO DONATI
G
li eroi sono belli, forti e invulnerabili. E sono pure
dannati. Gli eroi della beat generation erano soprattutto dannati,
non proprio belli e, come Ginsberg
ci mostrò, vulnerabili come non
mai. Lo fece nella sua poesia più
celebre, Howl. Tanto celebre che,
se la maggior parte dei poeti muore
di fame per le poche copie vendute,
Ginsberg è subito famoso e il suo
libro diviene un distintivo portato
con fierezza in mano da molti giovani. Urlo e altre poesie non ha vita
facile: viene pubblicato in Inghilterra e importato in America; poi,
per i contenuti, viene bloccato alla
dogana e la casa editrice di un altro beat, Ferlinghetti, lo ripubblica.
Come è successo con tanti libri simili, segue un processo per oscenità dal quale Urlo e altre poesie viene
scagionato in quanto opera d’arte.
A differenza di altri autori che
scrivevano soprattutto prosa e di
rado qualche poesia, Ginsberg fa
il contrario e scrive soprattutto
poesia e poca prosa. Diventa il Kerouac della poesia e in comune vi è
anche la fama che troppo in fretta
li assedia. Troppo in fretta perché
presto, Ginsberg, si trova circondato da scimmiottatori che oggi
chiameremmo poser e che all’epoca andavano sotto il nome di beatnik. Allora Ginsberg prende l’unica
decisione saggia: in una San Francisco improvvisamente invasa da
finti bohémien dai capelli lunghi e
dalle barbe folte, lui si taglia barba
e capelli e comincia a vagare per il
mondo, soprattutto in India. Non
poteva restare nella sua America,
in quella nazione la cui allucinazione economica l’aveva coperto di
critiche prima e di impostori dopo.
Gli americani sono un popolo
strano: pervasi da un patriottismo
incredibile, si dicono fieri di essere nati in America anche quando i
governi prendono brutte strade e
si macchiano di errori indelebili.
La critica all’America contenuta in
Howl è terribile, eppure Ginsberg
continua ad essere un fiero americano. Lui non detesta gli Stati Uniti, ma la piega che sta prendendo, la
corruzione in cui affonda le proprie
gambe. È un percorso lungo quello
che porta a Ginsberg, percorso che
ha visto passarsi il testimone Whitman, Emerson, Thoreau. Perché vi
è una tirannia in atto, una tirannia non politica e per questo più
pericolosa, la tirannia sulla mente
dell’uomo a cui Thomas Jefferson
dichiarò guerra e che Ginsberg
portò avanti. È un testimone pesante questo che si porta dietro la
beat generation per intero.
Perché è questo ciò di cui parla Ginsberg in Howl. Della sete di
beni materiali che ci ha reso schiavi del denaro, più omologati di
sempre ma, incredibilmente, meno
uguali che mai; dei valori reali persi seguendo la pubblicità martellante e di quelli falsi portati da ciò
che, 10 anni dopo, Paul Simon e
Art Garfunkel avrebbero chiamato
neon god in The sound of silence: la
tecnologia.
In Italia le edizioni sono molte,
ognuna con qualcosa in più e qual-
6
cosa in meno. Una tra queste è edito da Guanda e si intitola Jukebox
all’idrogeno. Racchiude in sé i tre
libri principali di Ginsberg (Urlo e
altre poesie, Kaddish e altre poesie,
Gli agnelli d’America) e ha il pregio
del testo a fronte. Non solo, ha anche l’onore di una splendida introduzione lunga 78 pagine firmata da
Fernanda Pivano, che pure traduce
tutte le poesie. Il nome della Pivano sulla copertina di un libro della beat generation è una garanzia.
Grazie a lei ci sono pervenuti tanti
particolari che ci permettono di inquadrare Ginsberg come il grande
poeta che fu. Per Ginsberg i beat
erano gli agnelli d’America, gli innocenti di fronte ad un mondo corrotto e meschino; solo se si è agnelli
si può, sei anni dopo il processo per
oscenità, chiedersi: “Davvero sono
stato attaccato per questa specie di
gioia?”
Nobel Minori
“Un’arma in casa” di Nadine Gordimer
di VIVIANA LISANTI
I
n qualità di lettrice trovo fastidioso un romanzo che, in maniera più o meno esplicita, cerchi
di inculcarmi precetti morali, di
fare propaganda o critica sociale.
Molta narrativa nasce dall’urgenza
di denunciare una determinata situazione sociale o politica e altrettanta risente inevitabilmente del
contesto nel quale è stata creata.
Ciò non toglie che uno scrittore
dovrebbe principalmente sapere
scrivere e l’unico intento ad animarlo dovrebbe essere quello di
raccontare una storia, aperta alle
mille possibilità della lettura, non
delimitata dai rigidi confini delle
prese di posizione personali. Le
convinzioni, le requisitorie, i finali
già scritti, fanno parte della narrativa noiosa, quella che si farebbe
meglio ad accantonare per leggere
un saggio di sociologia, un manuale di storia o un pamphlet politico.
La letteratura appassionante e
godibile è sempre quella che, per
dirla con Nadine Gordimer, “privilegia l’individuo alla Storia” o, meglio ancora, parte dall’individuo
per approdare alla Storia. Un arma
in casa ( Feltrinelli, 266 pp., € 16.53)
segue questa direzione.
Parlando della costruzione del
romanzo, Gordimer ha affermato
di essere partita dall’idea di affrontare una problematica collettiva
come quella della “responsabilità
dell’amore”, attraverso la storia
privata di una coppia, e solo nel bel
mezzo del processo di scrittura, si
sarebbe resa conto di quanto gli
eventi narrati fossero strettamente
connessi all’ambiente sociale sul
quale la storia si innesta, il Sudafrica del post-apartheid.
La trama si focalizza sulle dinamiche psicologiche che scattano
all’interno di una coppia di genitori nel momento in cui viene loro
comunicato che il figlio è imputato di omicidio. Lo svolgimento
del romanzo va di pari passo con
il processo a carico del giovane,
Duncan, che parallelamente è un
processo interiore a cui i genitori si
sottopongono, nel tentativo di trovare una spiegazione ad un gesto
estraneo alla loro morale e alla morale che pensano di aver trasmesso
al figlio. Uno sfiancante viaggio a
ritroso, che fra recriminazioni e
sensi di colpa, mette a dura prova
il rapporto tra i coniugi ma anche
l’amore verso un figlio che non si
riconosce più.
Il delitto, commesso da Duncan
ai danni dell’amico e coinquilino,
è effettuato con “l’arma di casa”,
una pistola di proprietà comune ai
ragazzi, custodita nell’abitazione a
scopo difensivo. Il fatto che la pistola il giorno dell’omicidio si trovi
su un tavolo in salotto, tra un pacchetto di sigarette e un bicchiere di
vodka, a portata di chiunque entri,
innesca una riflessione ulteriore
sulla facilità con cui, in un paese come il Sudafrica, a pochi anni
dall’abolizione ufficiale dell’apartheid, sia facile procurasi una pistola e sparare; su come la violenza
sia parte di un processo di transizione da regime a democrazia che
7
il Paese sta attraversando. Le remore nutrite dai genitori nell’affidare
la difesa del figlio ad un avvocato
rispettabile ma di pelle nera, riflettono la difficoltà di estirpare il razzismo non solo dalla Costituzione
ma dalla testa delle persone.
Un’arma in casa è la dimostrazione di come una storia intima
può testimoniare problemi di portata nazionale e mondiale, senza
tralasciare l’importanza del valore
del romanzo come opera d’arte a
sé.
Sopra: Alfred Nobel con orecchie d’asino
Letterature
involontarie
Il fracasso di Fracàssia,
ovvero di come ti
azzittisco i passanti
(e i Postmodernisti!)
di EDOARDO LUCATTI
D
iciamo che sei un etnosemiotico. Diciamo che sappiamo cosa questo significhi, anche se
non è vero. Diciamo che un sindaco ti chiama perché gli serve la tua
consulenza. Diciamo che ti viene
esposto il problema di una città,
una benestante città di pianura, di
cui quel sindaco – ovviamente – è
sindaco. Questo problema è il Rumore, dice il primo cittadino. In
città non si vive più e ci vuole una
soluzione. Anche etnosemiotica, se
serve. Diciamo allora che prendi il
tuo bel trenino e raggiungi questa
città, che chiameremo Fracàssia.
E lì – diciamo - scopri la verità. Il
rumore non c’è. Non si sente. Zero.
Il più completo, monastico e pedonale silenzio. Diciamo che ne chiedi conto al sindaco. Diciamo che
il sindaco rimane sbigottito dalle
tue parole e ti fa notare che aprendo le finestre si odono le persone
che parlano. Le persone, ok? Le
persone che parlano fra loro. Ecco
il rumore di Fracàssia. Il fracasso
di Fracàssia è la società che socializza. Quello che tu devi risolvere.
Ebbene, potresti sterminare la popolazione del centro, ma diciamo
che non sei un nazista. Potresti recidere le corde vocali a tutti quelli
che superino il tetto delle quindici
parole al giorno, ma diciamo che
non sei un chirurgo. Potresti multare chi parla, ma diciamo che non
sei un vigile. Potresti dire al sindaco di farsi curare, perché è del tutto
normale che in una città le persone
parlino fra loro. Potresti, insomma, rifiutare il lavoro, ma – voglio
dire - sei un umanista: ogni lavoro
è buono.
C’è una sola cosa che puoi veramente fare: avere un’idea più malata di quella del sindaco, dargli
corda e risolvere davvero il problema. Come? Diciamo che sulle case
rivolte verso la piazza appendi ingegnosi apparecchi che emettono
un leggero brusio di fondo, il cui
volume varia in rapporto a ciò che
accade in piazza. La faccenda funziona così: non appena qualcuno
apre bocca, il brusio aumenta, ma
da principio è quasi impossibile
accorgersene. Quante più persone
parlano, tanto più il brusio si rende percepibile. Se qualcuno alza la
voce, il brusio diventa suono, au-
8
menta fino a coprire la voce stessa
e – al limite - impedisce la conversazione. Se poi uno urla per farsi
sentire lo stesso, il suono diventa
una sirena, sovrasta ogni voce e per
intendersi non rimangano che gesti e contrazioni del viso. Dopo un
po’, diciamo, il cittadino capisce:
se vuole conversare deve farlo a
bassa voce, altrimenti sarà costretto a gareggiare con un sistema di
altoparlanti incrociati che ne umilieranno puntualmente le prestazioni. In questo modo si evita che
la gente gridi da una parte all’altra
della piazza. Hai visto qualcuno
e gli vuoi parlare? Lo raggiungi e
gli parli solo quando ce l’hai a un
metro. Se no parte la sirena e tutto il resto della piazza ti odierà per
questo. Ricordate i commilitoni del
soldato Palla di Lardo – costretti a
fare flessioni ogni volta che il loro
pingue compagno veniva sorpreso
a mangiare di nascosto? Ecco, declinatelo in termini urbanistici e ci
siamo.
Ora: diciamo che tutto ciò è completamente folle. Lucido e folle. E
siamo d’accordo.
Ma diciamo anche un’altra cosa.
Diciamo cioè che tutto questo è
vero: che quell’etnosemiotico –
qualunque cosa significhi – esiste,
che io – miei cari lettori – ho il piacere di conoscerlo personalmente
– e che questo progetto, da un momento all’altro, potrebbe perfino
essere approvato. Perché quella
città, che non si chiama Fracàssia,
esiste davvero.
Esiste anche, e purtroppo, una
certa segretezza attorno alla vicenda e ragioni di ordine legale
mi impongono di essere piuttosto
parco nei dettagli. Ma due cose ve
lo posso dire. La prima: mai e poi
mai vivrei in una città che mi impedisce di sclerare. Ho un innato e
periodico bisogno di urlare e non
ho nessuna intenzione di farmi redarguire da un sistema di altoparlanti incrociati. La seconda: spero
con tutto il cuore che il progetto
venga approvato e realizzato. Un
po’ perché esso – converrete con
me - è del tutto geniale, e il genio
va premiato “a prescindere”. Un
po’ perché un’esperienza di questo tipo sarebbe le cesoia in grado
di staccare interi vagoni di cazzari
postmodernisti dalla locomotiva
della storia del pensiero, lasciandoli dove meritano di stare: in un
punto morto.
Non tutti i postmodernisti sono
cazzari, ma è vero che un alto
numero di cazzari sono postmodernisti, il che significa che nella
repubblica di Cazzària, nel parlamento dei Cazzari, la maggioranza
è postmodernista. È una maggioranza chiassosa, che va ripetendo
da anni alcune false e trite banalità. La più grande di queste banalità è quella in nome della quale
bisognerebbe “smettere di odiare
il presente” (Maffesoli 1990; trad.
it. 91) e affrancarsi così dalla logica
del dover-essere, cioè da quell’atteggiamento che assume l’esistente
– “infame” secondo Lukàs – come
qualcosa da riprogettare razionalmente, da eccedere e trasformare
in nome di un ideale. Ora, che questo pensiero ci avesse un po’ rotto
le palle è vero. Pensare sempre nei
termini di un al di là (teologico,
politico, morale), dimenticandosi
che in fin dei conti si sta qua, radicati nei propri peti, coiti e rutti è un
po’ come fare finta di Essere senza
esserci, di incarnare un’idea senza
più essere carne. Ma di qui a sostenere che ciò di cui abbiamo bisogno è una cultura “perfettamente
amorale,… fondata sul piacere e
sul desiderio di stare insieme senza
uno scopo particolare e senza un
obiettivo specifico” (ivi, 49), bè, c’è
un bel po’ di strada, la stessa – per
intenderci – che dall’insufficienza
della geometria euclidea avrebbe
condotto al rigetto della geometria
e non – come per fortuna è accaduto – alla scoperta di geometrie altre, non euclidee appunto. È il proprio delle cose di questo mondo, di
questo-mondo-qui in cui puzziamo quando fa caldo, il risultare in
qualcos’altro, il continuo trasferirsi, tradursi e trasformarsi, secondo
processi che possiamo solo decidere di subire oppure – sarà meglio
- di provare a gestire. Chi contrappone la congiunzione sensualistica
alla separazione razionalistica, chi
denuncia “dottrine ascetiche che
privilegiano il processo cognitivo
a scapito della vita dei sensi” (ivi,
63), ignora il fatto che sono i sensi
stessi – per primi – a non poter fare
a meno di traguardare la propria
attività, a non funzionare se non
in vista di un accordo con ciò che
viene dopo e che, in questo modo,
fa il loro presente. Provate a pensare a quando tendete il braccio
verso una maniglia, per aprire una
porta: in quel momento state già
educando il tono muscolare della
vostra mano alla consistenza che
supponete propria della porta, importando quindi il vostro prossimo futuro nella vostra attuale coordinazione, lasciando insomma
che il “dopo” faccia il presente. La
trasformazione è quindi condizione inemendabile, costante, che
investe in egual misura il cognitivo e il sensibile, facendoli spesso
rifluire l’uno nell’altro. Ed è così,
ad esempio, che funziona la nuova
politica acustica di Fracàssia, nella
quale il dover-essere non eccede la
modulazione sensoriale in cui e di
cui, anzi, si costituisce. Una città
dove la politica diventa questione
di volumi, ma non perché li decida
a monte o li sanzioni a valle, bensì
perché emerge dal loro incessante
regolarsi, avvicinando ogni voce
alla gestione sensibile del proprio
al di là.
Una città dove tutto questo – poderosa e geniale follia - potrebbe
accadere davvero.
9
Verboso
metro
20
15
10
5
0
Ritaglia il verb osomet ro
e attaccalo sulla schien a
del tuo amico verbos o
Punizioni!
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
Il viaggio dimagrante
di Rosanna Lambertucci
di ALESSANDRO POLLINI
I
naugurando Punizioni!, Matteo Bettoli racconta dell’amico
che giustifica la frequentazione di
ragazze brutte con argomentazioni empiriche e freudiane, laddove
si pone una contrapposizione tra il
principio di piacere e quello di realtà, ovvero “ci vado con una brutta
o no? Se ci vado, dopo mi piaceranno di più le belle”. Vi possono
essere anche altre argomentazioni per frequentare ragazze brutte,
laddove la percezione della bruttezza del partner é percepita dallo
stesso amante piuttosto che dagli
amici, per i quali, si sa, le ragazze
più belle sono sempre le proprie, a
discapito del detto secondo il quale
l’erba del vicino é sempre più verde.
Questo si traduce nella seconda argomentazione, secondo la quale il
partner “però è bello dentro”. Tutto
questo per dire che ho letto un libro
bello dentro per essere belli fuori:
Il viaggio dimagrante di Rosanna
Lambertucci (Mondadori, 174 pp.
17 euro).
Il libro di Rosanna Lambertucci
é un manuale sull’alimentazione, con la descrizione accurata
di un «nuovo metodo per perdere
peso in 6 settimane + 1», e diverse
parti autobiografiche per rendere
più umano il percorso di dimagrimento permettendo al lettore, nel
contempo, di conoscere l’autrice.
Tutto inizia proprio con un amarcord dell’autrice, che ripercorre gli
anni dell’infanzia a scuola, i momenti dolorosi della propria vita,
10
la sua crescita personale e professionale. Nella parte successiva del
libro é esposto in forma di diario
cosa mangiare, come mangiarlo, e
quando mangiarlo nelle sette settimane a seguire. Infine, in un tripudio di verdure, frutta, pesce e carni
magre, sono descritte tutte le ricette. Il viaggio dimagrante si conclude con una riflessione dell’autrice
sul rapporto tra bellezza interiore
ed esteriore e su come non si possa ricercare l’una escludendo l’altra. Quando tutto sembra pronto
per una scontata citazione del tipo
“mens sana in corpore sano”, sbuca
invece a sorpresa che «l’essenziale
é invisibile agli occhi» innovativa
ed inconsueta citazione da Il Piccolo Principe.
«Dimagrire é un po’ come fare
un viaggio» e sulla base di questa
filosofia si articola il manualediario autobiografico. Un viaggio
in tempo per la prova costume per
chiunque abbia acquistato il libro
prima dell’arrivo dell’estate. Per
tutti gli altri, in tempo per tornare
sulla strada del benessere psicofisico, dimagriti e felici. Non nascondo
però che un pensiero cinico ha velato al termine della lettura i miei
buoni propositi di dimagrimento.
In termini di viaggi dimagranti, chi
di voi ha letto Sopravvissuti?
Biografie edulcorate
Hunter Thompson
di ANDREA MEREGALLI
N
o Gonzo! No! Io non voglio
scrivere questa biografia
edulcorata in acido! Voglio restare pulito! Tu sei Hunter Stockton
Thompson, sei un idolo! Un fottutissimo fattone-colto-anticonformista-stempiato-fumatore-sceriffo-alcolizzato-politico-genio-anti
Nixon-giornalista gonzo!
Nato a Louisville nel 1937 e cresciuto criminale. Come sfuggire al
carcere? Facile. Arruoliamoci in
aviazione! Dopo varie ed eventuali
finisci finalmente in una redazione
giornalistica. Di cosa ti occupavi,
Gonzo? Di sport? Certo che sì. Almeno fino alla fine dei gloriosi anni
Sessanta. Prima di Rolling Stone.
E della venuta dello stile gonzo.
Che colpo! Io, e non solo io, ti devo
dire grazie. Per lo stile. Per la faccia come il culo. Per l’elogio e per
la cura del dettaglio. L’oggettività
come finzione. E così è sempre stato. Precursore che non sei altro!
Nel 1971 pubblichi a puntate,
sulla pietra che rotola, uno dei libri
più belli che possano capitare tra le
mani di un uomo. O di una donna.
Dai. Diciamolo tutti insieme: Paura e disgusto a Las Vegas! Che bello. Penso di non aver mai letto dei
dialoghi così. Così divertenti e nel
contempo così distaccati da una realtà proporzionalmente disastrosa.
La ricerca del sogno americano.
Che genialata!
Negli anni immediatamente
successivi ci dai dentro. Cerchi di
incularti Nixon. In Italia lo pubblicano come: Meglio del sesso, i mil-
le modi per eleggere un presidente
USA. Tu stesso lo hai detto: “Non si
può essere oggettivi su Nixon”.
Appena dopo presenti Hell’s Angels. Inchiesta interna sulla banda
di motociclisti più pericolosa di
sempre. Infiltrato in mezzo a quei
bestioni cattivi e ubriachi e ignoranti e stupratori. L’hai sfangata.
Anche se una volta, a dire il vero,
le hai prese di santa ragione. Ma
tant’è. Seguono comizi, articoli e
libri.
In Italia un paio di anni fa pubblicano Cronache del rum. Dove
torni un giovane giornalista a Portorico. E bevi e bevi e bevi. E sei
già disilluso nonostante i ventidue
anni che avevi quando lo hai scritto. Molto fico. L’anno scorso, infine,
Baldini Castoldi Dalai propone
Screwjack, tre racconti per un libricino piccino piccino. Si evince che
qui in Italia ti hanno cagato davvero in pochi. Perché hai scritto
molto di più. Almeno una dozzina
di libri. Pochi romanzi, purtroppo.
Ma molti reportage da giornalista
(gonzo) di razza pura.
Stavi lavorando anche quando
te ne sei andato. Che beffa. Un appassionato di armi da fuoco come
te. Era il febbraio del 2005 e i giornali parlavano di suicidio. Ufficialmente lo è. Suicidio. Ma io, ci credo
poco. Paul Roberts, il tuo grande
amico, dice che ti hanno sparato.
Per via di certe indagini che stavi
portando avanti riguardo gli attentati dell’11 settembre 2001. Eri al
telefono con tua moglie e ti hanno/
11
sei seccato. Peccato. Hai chiesto
che le tue ceneri venissero sparate
con un cannone verso il cielo del
Colorado. Quindi, un certo Johnny
Depp, che nella vita fa l’attore molto cool e che è stato un tuo grande
amico e ammiratore, organizza
una mega festa ed esaudisce questo
desiderio gonzo.
Parliamoci chiaro, Hunter. Hai
cambiato certi equilibri. Hai scritto Paura e disgusto e già questo ti
pone di diritto nell’olimpo dei tosti.
Non hai avuto paura. Hai provato
qualsiasi tipo di droga eccetto, forse, l’eroina. Hai descritto e sperimentato. Hai cambiato e criticato.
Hai rischiato.
“Some of the truth that doesn’t
get written is a lot more twisted
than any of my fantasies”.
R.I.P. Dr. Gonzo.
“E
ra tarda sera quando K.
arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si
vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di
luce indicava il grande Castello. K.
si fermò a lungo sul ponte di legno
che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel
vuoto apparente.”
alta, votato a metter simbolicamente alla prova la distanza infinita del
quaggiù e del lassù. Ma K. viene da
un terzo mondo. E’ doppiamente
e triplamente straniero, straniero
all’estraneità del castello, straniero
a quella del villaggio e straniero a
sé stesso poiché in maniera incomprensibile decide di rompere con
le sue origini come attratto verso
quei luoghi tuttavia senza attrazione per un’esigenza inspiegabile. Si
sarebbe tentati di dire che tutto il
senso del libro si trova già in quel
primo paragrafo, dove il ponte di
legno porta dalla strada maestra al
villaggio e su cui “K. restò a lungo
Di letterature labirintiche ne
sapeva qualcosa Kafka, maestro
del frammento. Il labirinto, e i concetti ch’esso comporta, sono allora
buoni interpretanti de Il Castello
kafkiano. Opera incompiuta, concepita
idealmente
proprio nella sua incompiutezza. L’agrimensore K. (la cui K.
rinvia a Joseph K. e
a Franz Kafka, naturalmente) si trova di
fronte alla “beffa di
dover cartografare un
terreno non cartografabile” come sostiene
il nostro Jacopo Cirillo. Sappiamo che per
definizione il labirinto
non é rappresentabile:
in quanto concetto
di MATTEO TRELEANI
possederne la mappa
significa poterne uscire. Inutile dire che il
villaggio possiede le caratteristie guardò su, nel vuoto apparente”.
che di un labirinto: l’agrimensore
K. cerca nella nebbia il punto da
K. percorre la strada che sembra
cui dovrebbe comparire il Castelportare al Castello, ma senza suclo. Come sospeso tra due mondi,
cesso. Il tentativo di raggiungere il
non riesce a entrare in quello del
centro del labirinto, ossia il CastelCastello che lo rifiuta pur avendolo, coincide con quello di poterlo
lo chiamato poiché la sua logica è
cartografare e dunque con il tentaquella della contemporanea netivo di uscirne.
gazione/affermazione. Logica del
meandro per eccellenza.
D’altra parte, parafrasando
Blanchot (Da Kafka a Kafka, FelIl vero labirinto, tuttavia, non é
trinelli, 1983, 192 pagg. 6,20 €), si
il villaggio ma il romanzo stesso.
nota che l’invenzione decisiva, e
Se il ritornare sui propri passi è un
più enigmatica, non é il castello ma
elemento portante di qualsiasi deil villaggio. Se K. fosse appartenudalo, Il Castello, sempre seguendo
to al villaggio il suo ruolo sarebbe
Blanchot, non è una serie di evenstato fin troppo chiaro, il suo persoti più o meno legati ma “una serie
naggio trasparente risoluto a metsempre più estesa di versioni eseter fine alle ingiustizie della classe
getiche che portano, alla fine, sul-
la possibilità stessa di scrivere e
interpretare Il Castello”. Romanzo
meta discorsivo dunque che si basa
sull’infinta ripetizione. Infinita in
quanto incompiuta e dunque tendente all’illimitato, cosi’come un
circolo, una spirale o un labirinto.
D’altra parte Albert Camus, che
nel Mito di Sisifo (Bompiani, pagg.
euro) illumina Kafka con raro genio, ha giustamente notato che i romanzi kafkiani obbligano il lettore
a rileggere. La mancanza di scioglimenti delle situazioni kafkiane,
suggerisce al lettore certe spiegazioni che non sono mai esplicitamente confermate dal testo. Per
apparire fondate richiedono allora che la
storia sia riletta sotto
un nuovo punto di vista. Un cambio di prospettiva, un modo per
uscire dal labirinto.
Sui labirinti
Il Castello
e il villaggio
12
Invischiato in una
situazione senza apparente via d’uscita,
K. persiste comunque nel voler entrare
nel Castello. Come
intrappolato nel suo
stesso gioco (cosa che
non puo’ non ricordare l’ingabbiamento di
Dedalo nella sua stessa opera), K. non riesce a rendersi
conto dell’assurda evidenza dei
fatti. D’altra parte, ricorda Kafka
nel brevissimo racconto, Un ponte,
“un ponte, una volta costruito, non
può cessare di essere un ponte senza precipitare”.
L’angolo del
cinematografo
assistere a una presentazione
Powerpoint di tutti gli indizi.
Uomini che odiano le donne
rimane comunque un thriller
da vedere.
Attenzione: se durante queste vacanze estive non avete
voglia di tuffarvi nelle gelide
acque del Baltico e preferite
trascorrere una serata piacevole con gli amici, magari
davanti ad una buona birra,
non preoccupatevi, godetevi
la compagnia, avrete sicuramente un’altra occasione per
recuperare la visione del socalled “Evento cinematografico
dell’anno”.
Uomini che odiano le donne
di JACOPO SGROI
Antefatto
Guardo gli orari della programmazione del film, scelgo la sala, mi
organizzo con qualche amico e decido di andare a vedere Uomini che
odiano le donne, il cui trailer promozionale recita: “E’ il libro culto
più venduto al mondo. E’ il primo
capitolo della saga Millennium. E’
l’evento cinematografico dell’anno.” Minchia! Si va!
Misfatto
Prima dell’inizio dello spettacolo, proprio davanti al cinema, io e
i miei amici ci imbattiamo in una
fantastica birreria belga. Decidiamo di assaggiare una meravigliosa
birra trappista, poi un’altra e un’altra ancora… Il film è iniziato e noi
siamo ancora lì a degustare… in
breve: la serata si è trasformata in
Uomini che amano la birra.
Morale
Amo andare al cinema con gli
amici, condividere con loro idee,
impressioni e giudizi. Se però la
serata mi porta altrove, non esito
a cambiare programma. Mai e poi
mai potrei entrare in sala a spettacolo iniziato: il mio desiderio di
andare al cinema deve rimanere
saldo, e se qualcos’altro mi distrae
allora significa che non sono pronto a godermi la proiezione.
Il film
Decido di provarci il giorno successivo e senza lasciarmi tentare
da altro, prendo il biglietto, entro
in sala e lascio fuori tutto il resto:
152 minuti, titoli di coda, fine.
S
ono tre le storie che si intrecciano: quella di Mikael
Blomkvist, giornalista d’inchiesta
sull’orlo del fallimento per una
causa che lo vede incolpato di diffamazione, quella della hacker
Lisbeth Salander, giovane punk
ribelle, con alle spalle un passato
difficile, e quella dei Vanger, una
famiglia di potentissimi imprenditori svedesi, che per anni sono
riusciti a nascondere sotto un’apparente normalità segreti e peccati
inconfessabili. La misteriosa scomparsa di Harriet Vagner, nipote del
magnate Henrik, chiamerà Mikael
e Lisbeth a indagare insieme sul
caso: il leitmotiv della narrazione
è la violenza, subita e vendicata.
Niels Arden Oplev non lascia quasi
nulla all’immaginazione e ci mostra dolore, follia e crudeltà.
A livello narrativo, Oplev è riuscito a dipanare la matassa in maniera molto chiara: i personaggi
sono ben tratteggiati ed è difficile
perdersi nella trama; tutti gli indizi sono svelati in una successione lineare. Forse è proprio questa
semplicità a non avermi convinto
del tutto. Pur non annoiandomi
durante la visione, a volte alcune
ripetizioni e dialoghi li ho percepiti come un po’ troppo didascalici;
in certi momenti mi è sembrato di
13
UOMINI CHE ODIANO LE DONNE
(Män som hatar kvinnor) di Niels
Arden Oplev con Michael Nyqvist,
Noomi Rapace, Sven-Bertil Taube
- Svezia/Danimarca 2009 - Bim Distribuzione. Tratto dall’omonimo
libro di Stieg Larsson, Marsilio ,
2007, 676 p.
«E
l viento viene, el viento
se va, por la frontera [...]
El hambre viene, el hombre se va,
cuando volvera, por la carretera»
canta Manu Chao e cantavo io sul
bus che in poche ore mi avrebbe
fatto percorrere a ritroso il tragitto
di più giorni a piedi riportandomi
da Puente de la Reina a Pamplona. Certo nel delirio di un viaggio
che vale un sogno non mi sarebbe
potuto venire in mente neppure
sforzandomi Onitsura, che a
cavallo tra il milleseicento ed
il millesettecento compone
l’haiku «Fischiando/ il vento
vaga nel cielo/ peonie di metà
inverno». Mentre valuto come
il paese del Sol Levante abbia
esportato forme d’arte migliori della composizione di haiku -avrei proprio ora voglia
di sushi- preferisco pensare
al vento che spinge le navi nei
porti di altri poeti. Dormono
le navi dall’umore vagabondo
nell’Invito al Viaggio di Charles Baudelaire, poesia tratta
da I fiori del male. Il mondo si addormenta in una luce calda colorata di oro e di giacinto. Le navi vengono dall’altro capo del mondo per
avverare ogni piccolo desiderio.
Ritorno in Giappone con Il libro
del vento, la graphic novel di Jiro
Taniguchi e Kan Furuyama. Un
tragico finale vuole che, mantenendo la spettacolarità delle storie
di Samurai del periodo Edo, Yashamaro, non riuscendo ad applicare
la tecnica del “vento contrario”
contro Jubei, utilizzi la propria
morte come strumento per la vittoria del duello. Una grande opera
che tuttavia non può nulla contro
lo splendore dei ventotto volumi di
Lone Wolf and Cub, un capolavoro
del fumetto che non merita certo la
condanna ad un titolo, nella versione italiana, tanto bieco ed anglofono. Una morte ben più spettacolare
attende Aureliano Babilonia nel
romanzo capolavoro Gabriel García Márquez. «Il primo della stirpe
é legato a un albero e l’ultimo se lo
stanno mangiando le formiche».
Cent’anni di solitudine é un’opera
d’arte dove la prima folata di vento
alla fine del libro sorprende anche
noi, dall’altra parte della pagina.
Porta le voci del passato, i sospiri di
delusioni, le nostalgie. La seconda
sradica la casa e porta la consapevolezza di una storia familiare che
il lettore vede svolgersi per tutto
il romanzo e che Aureliano legge
nelle pergamene dello zingaro Me-
Viaggi
Il vento
di ALESSANDRO POLLINI
lquiades fino al momento, anche
quello scritto nelle pergamene, di
una morte accompagnata dal vento. Mi torna alla mente un libro
semplice, meraviglioso e moralista che ho letto per la prima volta
alle scuole elementari. Il Piccolo
Principe deve prendersi cura della
sua rosa sul piccolo pianeta dove
vive. Il piccolo e noioso fiore non
ha paura delle tigri, ma orrore delle
correnti d’aria. Il Piccolo Principe,
saggio e saputello, va in cerca di un
paravento. Un mondo piccolo come
un monolocale tradotto in più di
centottanta lingue, per la gioia non
solo di noi lettori, ma anche di Antoine de Saint-Exupéry e dei suoi
eredi.
Vagare spinti dal vento, por la
carretera, o fermarsi a costruire
paravento di fronte al caos? Quanta noia, e che domande banali.
Quanta pochezza di inventiva nel
porsi tali questioni quando già si
ha un lavoro e si sta bene attenti a
non perderlo, diverso era porsi la
14
stessa domanda dieci o quindici
anni fa. Quanta miseria, quanta
paura giustificata di volare in alto.
Non ci resta che la lettura e poco
altro di fronte alla massificazione
dei gusti e dei sapori, degli stili,
della comunicazione. Non é il bar
a salvarci, non é lo sfogo sessuale
dell’atto motorio dell’accoppiamento. Soffia il vento e noi ne siamo traspostati, senza possibilità di
opporci. Ogni tanto, persi in questa
brezza costante e stanca, troviamo un poco di
quiete. Allora possiamo
rabbrividire alle parole
di Henry Miller in Tropico del Cancro: «Il mondo
é un cancro che si divora... penso a quando il
grande silenzio scenderà
su tutto e dappertutto;
allora infine trionferà la
musica. E quando tutto
si sarà ritratto in grembo
al tempo, tornerà il caos,
e il caos é la partitura su
cui é scritta la realtà. Tania, tu sei il mio caos. Ecco perché
canto».
Mi sono venuti in mente in questo articolo: Manu Chao - Clandestino (CD Virgin, 19,90 euro); Leonardo Vittorio Arena (a cura di)
- Haiku (Rizzoli, 107 pp., 5,90 euro);
Charles Baudelaire - I fiori del male
(Garzanti, 347 pp. 8,50 euro); Jiro
Taniguchi, Furuyama Kan - Il libro del vento (Panini, 226 pp. 12,50
euro); Kazuo Koike, Goseki Kojima - Lone Wolf and Cub (Panini,
28 volumi, cad. 320 pp. 5,50 euro);
Gabriel García Márquez - Cent’anni di solitudine (Mondadori, 404 pp.
12 euro); Antoine de Saint-Exupéry
- Il Piccolo Principe (Bompiani, 121
pp. 7,50 euro); Henry Miller - Tropico del Cancro (Mondadori, 382 pp.
9 euro)
Oh, Scena!
arriva solo per inquadrare questa
scelta in un più grande disegno divino che blablabla: inutile. Ma, si
sa, il deus ex machina alla fine di
una tragedia greca è un po’ come
l’esplosione alla fine di un film con
Bruce Willis.
Φιλοκτήτης [1]
di SIMONE ROSSI
Entra, trascinandosi, Filottete.
Malvagio di razza di malvagi!
Sacco di empietà! Tu, pessimo tra
gli uomini! Tu, impudentissimo!
Tu, esecrabile! Tu, incapace di alcunché di onesto e libero!
Bentornati a Oh, Scena!, la rubrica che tratta i testi teatrali come
se fossero libri, e che tratta Ulisse
come meriterebbe di essere trattato: a calci in faccia. Perché Ulisse,
diciamolo una volta per tutte e speriamo che Omero sia anche sordo,
Ulisse, diciamolo, è un farabutto.
Sofocle, almeno, lo dipinge così. E
noi non ce la sentiamo proprio di
contraddire Sofocle.
Dice Ulisse: “Lo so bene, ragazzo, che tu per nascita e natura non
sei fatto per dir menzogne e ordire
trabocchetti. E tuttavia coraggio!
E’ bello conquistare la vittoria! Ne
avremo poi delle occasioni per dimostrarci giusti. Ma ora, per il breve spazio di un giorno, concediti a
me per qualcosa di indegno. E poi,
nel tempo futuro, guadagnati pure
la fama del più pio dei mortali”. Il
giovane e sprovveduto Neottolemo
non ha colpa, è giovane e sprovveduto, e quando Ulisse ti dice
“concediti a me per qualcosa di indegno” non puoi proprio tirarti indietro, no, nemmeno se sei il figlio
di Achille (Neottolemo è il figlio di
Achille).
Siamo a Lemno, un sasso in
mezzo al mar Egeo che gli ottimisti chiamano isola. Filottete non è
ottimista: Ulisse l’ha confinato a
Lemno perché il suo piede incancrenito puzza da far schifo, e la
guerra di Troia non sta andando
per niente bene, e averci nell’accampamento uno che si lamenta di
continuo per il mal di piedi gli impedisce di leggere l’Arte della Guerra di Sun-Tzu in santa pace. Ma
cosa sto facendo, sto raccontando
la trama? La trama – irrilevante –
vede Ulisse e Neottolemo prendere il mare e raggiungere la brulla
Lemno, giacché l’indovino Eleno
ha vaticinato: “mai e poi mai avrebbero distrutto la rocca di Pergamo
se non avessero ricondotto tra loro
quest’uomo persuadendolo con le
parole e togliendolo dall’isola ove
ora si trova” (la rocca di Pergamo
sarebbe Troia). Perché Filottete, lo
zoppo fetente lamentoso Filottete,
è il tiratore con l’arco più veloce del
West, e senza di lui la guerra non si
vince.
E siamo finalmente al punto
della puntata, e il punto è una domanda: perché leggere nel 2009
una tragedia greca scritta nel 400
avanti Cristo, con tutti i cliché di
una tragedia greca, in cui la gente
parla come in un libro stampato e
l’immedesimazione del lettore nei
personaggi è pari a zero?
Risposta: perché le dieci righe
finali in cui Filottete dà l’addio
all’isola di Lemno sono di una bellezza struggente, meglio dell’Addio
ai Monti dei Promessi Sposi e, per
l’appunto, molto più corte. Ecco, a
questo punto vi è venuta una gran
curiosità di leggerle. Perché, dunque, leggere una tragedia greca?
Per curiosità.
Sofocle – Filottete (Einaudi)
Filottete, dai, torna a far la guerra con noi! No. Eddai! No. Per favore, Filottete! No. “Ferrea Necessità
lo comanda”! No. Ok, allora ciao,
rimani pure qui nel tuo buco di
culo di isola, che poi con l’arco non
sei ‘sto gran che, vieni Neottolemo,
andiamo via. No, aspettate, vengo
anch’io. Ah, la psicologia inversa.
Appare dall’alto, circonfuso di
luce, Eracle.
Ta-dààà! Il deus ex machina. Il
deus ex machina più inutile della storia della letteratura, giacché
non c’è alcun conflitto da dirimere:
Filottete ha già accettato di seguire quel farabutto di Ulisse: Eracle
15
[1]
Qui dovrebbe esserci la traduzione.
E invece, non c’è! Sorpresa!
Il Cruciverboso
1
18
1. Yourcenar, scrittrice francese
(iniziali) - 3. Leggendario sceriffo
interpretato al cinema da Kevin
Costner - 7. È comune a noi… e a
Dickens - 12. La storia di Bastian e
Atreyu - 18. La musica di Eminem 20. Blocca i Dubliners di Joyce - 22.
Comune abbreviazione di matrice
anglofona che indica il documento
d’identità - 23. Sta per satellitare
- 24. Uno dei Kennedy - 26. Genio
malefico che inventa una macchina per riprodurre la realtà in un
romanzo di Adolfo Bioy Casares 27. Famosa bibita… “per voi e per
gli amici” - 31. Prefisso che sta per
tutto, totale - 32. Ricardo, interprete in numerosi film di Manoel De
Oliveira - 34. Storico club calcistico
con sede a Ferrara che da anni milita nelle serie minori - 35. Uno dei
film meno riusciti di Hitchcock, si
dice che ne girò 5 finali, rimanendo
in ogni caso insoddisfatto - 36. Il
tamburo africano… dimezzato - 37.
Tagliar i capelli a zero e palindromo involontario - 38. Fisico danese
premio Nobel per la sua ricerca sulla struttura degli atomi - 39. Un tipo
di sushi - 40. Prima di oggi e domani in un film di De Sica - 41. Confisso odontoiatrico relativo allo smalto dei denti - 42. L’autore di Addio
alle armi (iniziali) - 43. Gravami,
obblighi - 45. Alleanza Nazionale
- 46. L’affermazione più usata - 47.
Il “padre della fantascienza” - 51.
La più piccola parte - 54. Il grande
giornalista Montanelli - 56. Marca
di laptop - 57. Sta tra Sharm e Sheikh - 59. La nazione che, da quel che
si dice in giro, ci “mangerà i risi
in testa” - 60. Niccolò, ex scrittore
cannibale (iniziali) - 61. Istituto
Europeo di Design - 62. Letteralmente scritto a mano - 65. Grido
festoso che accompagna il torero 67. Il formato di compressione Advanced Audio Coding - 69. L’Iliade
incompiuta - 71. La bocca ai tempi
di Cicerone - 72. Regina della disco
music anni ’70… ma solo d’“estate”!
- 74. Popolano la mente degli scrittori fantasy - 76. Semiologo francese citato da Guccini - 79. L’organizzazione armata che sostiene
l’indipendentismo basco - 81. È
acceso a Londra - 82. Indica l’anomalo, il diverso - 83. John, avventuriero scozzese che esplorò le terre
artiche canadesi - 85. Secondo la
Genesi generò Matusalemme, che
generò Lamech, che generò Noè…
- 87. Accompagna il gol allo stadio
- 89. Variante eufonica di una preposizione - 91. Indica il tritolo - 93.
Filosofo empirista strenuo sostenitore della rivoluzione scientifica
- 95. Andata e Ritorno - 96. Filosofo in cammino - 98. Mars Reconnaissance Orbiter, sonda spaziale
della NASA - 99. L’extraterrestre di
Spielberg - 100. Malattia degenerativa del sistema nervoso che colpisce frequentemente gli atleti - 101.
Associazione Sportiva - 102. La piaga dell’adolescenza - 104. Lo era un
mambo di Serge Gainsbourg - 105.
Famoso scrittore americano i cui
testi vennero stravolti dal proprio
editor (iniziali) - 107. Simbolo dello
zeptocouloumb - 109. Mete senza
inizio - 111. Sta con Kant secondo
Eco - 113. Internet Protocol - 114.
Tardiva nella maturazione - 117.
Jonathan, autore de La banda dei
brocchi - 118. Divinità che proteggeva la vegetazione il cui culto era
diffuso presso i fenici - 119. Acerrimo nemico di Tex Willer - 120.
World Record - 122. Filosofo islamico nato a Cordoba - 125. Ne è
affetto… chi alza troppo il gomito
- 126. Poeta inglese autore di The
16
3
19
24
di MICHELE MARCON
ORIZZONTALI
2
4
20
25
32
33
45
46
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14
191
185
192
196
193
197
17
186
Age of Anxiety - 129. Antonella, ex
presentatrice de La prova del cuoco - 130. Profonda insenatura costiera formatasi per sommersione
parziale da parte del mare di una
preesistente valle fluviale - 131. I
maturandi aspettano con ansia
quello degli esami - 133. Formato
di codice a barre utilizzato in Europa - 135. Fu uno degli Argonauti
che meno si distinse per le proprie
gesta - 137. Secondo Schopenhauer
quello di Maya separa la parvenza
dalla realtà - 139. Prima di Wu Ming
fu… - 141. Brano che tocca il culmine del nichilismo degli Smashing
Pumpkins - 143. Simulazione abbreviata - 144. Storico gruppo musicale pop svedese - 145. Romanzo
e film con il demoniaco pagliaccio
assassino - 146. Lunghissima suddivisione del tempo storico - 147.
Insieme degli organi amministrativi centrali e periferici che governano la Chiesa - 149. Incapacità,
derivata da turbe nervose, di esprimersi con i muscoli facciali e con
gli arti - 152. Differenzia dall’hardcore la musica dei Codeine o dei
Low - 153. Si firma così l’autrice (o
autore) del caso editoriale Vampiretta - 154. Nell’antichità era il fiore
sacro dei morti - 156. Sta in fondo al
corridoio - 157. Nome di donna che
unisce Boris Vian a Duke Ellington
- 159. Monte che franando provocò
il disastro del Vajont - 161. Hewitt,
tennista australiano (iniziali) - 162.
Il Flanders dei Simpson - 163. Passato remoto del verbo fingere - 165.
Io sono, a New York - 167. Località
o ubicazioni - 169. Importante etichetta discografica - 171. Balenìo di
luce riflesso da uno specchio - 174.
Fiume russo e prefisso al clero secolare - 175. Dottrina religiosa che
predica un’esistenza di assoluta
povertà - 179. L’ex Ente Nazionale
Idrocarburi - 180. Nel bel mezzo
del crollo - 181. Lettera scritta da
certe gambe di donna - 183. Prima
persona singolare del presente indicativo di tirare coniugato in forma riflessiva - 184. Il duo musicale
francese che fa musica elettronica
- 185. La prima rivoltella, dal nome
dell’inventore - 187. Il tuttofare di
Bukowski - 190. Figlio di Giuda che
disperdeva il suo seme per terra e
per questo fu punito da Dio - 192.
Congenita o implicita - 194. Libidine, frenesia, fregola - 195. Congiunzione avversativa sussurrata da
Galileo dopo l’atto di abiura - 196.
Bisogno, necessità - 197. L’isola di
Parigi
VERTICALI
1. Mister abbreviato - 2. I paladini
della giustizia che si oppongono al
Trio Drombo in un anime giapponese degli anni ‘70 - 4. Ascoli Piceno - 5. Per gli induisti è il settimo
avatar di Vishnu - 6. A favore - 7.
Prima lettera dell’alfabeto ebraico,
e non solo… - 8. Sottile pellicola di
polietilene tereftalato, resina termoplastica adatta al contatto alimentare - 9. Isabella, scrittrice pulp
italiana (iniziali) - 10. Espediente
caro al postmodernismo (abbreviato) - 11. Tentate, azzardate - 13.
Capolavoro di Borges che come un
faro ci indica la via - 14. Quelle di
Marzo furono letali a Giulio Cesare - 15. Linea che unisce tutti i luoghi aventi uguale temperatura nel
mese più caldo - 16. I sandali alati
calzati da Hermes - 17. Secondo il
greco non si possono dividere - 19.
Disposto normalmente rispetto al
terreno - 21. Secco, inaridito… addirittura bruciato - 25. Era “nuovo”
quello di Roosvelt - 28. La droga
sintetica usata nel mondo nuovo
di Aldous Huxley - 29. Società Per
Azioni - 30. Una quercia a Central
Park - 33. Insieme delle regole che
governano la corretta accentazione
dei versi - 37. Il Dio Sole dell’antico
Egitto - 38. Il palazzo sede centrale dell’Università di Padova - 39.
Il Teocoli comico - 40. Invernale
per i poeti - 42. Scrittore francese
autore de Le particelle elementari
(iniziali) - 44. Il Rota compositore
per i film di Fellini - 47. Il capitano
che dà la caccia a Moby Dick - 48.
6 in lettere - 49. Fisiologicamente
parlando, zona del corpo rifornita
18
di sangue attraverso la rete vasale - 50. Uva bianca pregiata diffusa
nel Piacentino - 52. Immagini sacre
dipinte su legno - 53. Ai lati d’Italia
- 54. Mezza Italia - 55. Elvis lo era
del rock - 56. Corrente del jazz nata
negli anni ‘80 - 58. Ha per capitale
Vientiane - 63. Eventi prodigiosi
cari agli aruspici - 64. Movimento
politico italiano di estrema destra
(acronimo) - 66. Articolo determinativo spagnolo - 68. Di cognome
fa Guthrie ed è un cantante folk
statunitense - 70. Lega Nazionale
Dilettanti - 73. Non ammette l’esistenza di un’entità soprannaturale
trascendente e immanente il cui
rapporto con l’essere umano viene
chiamato religione - 75. Dario, ultimo premio Nobel per la letteratura
italiano - 77. Patriarca della Bibbia
che fuggì da Sodoma prima della
distruzione della città - 78. Iniziali
dell’Alajmo, scrittore italiano - 80.
Aumentano col passare del tempo 82. Rifiutare, sdegnare - 84. Se non
parlo… - 86. Kenzaburo, premio
Nobel per la letteratura nel 1994 88. Scrittore turco autore di Istanbul (iniziali) - 89. L’arte dell’antica
Roma - 90. Caro, beneamato - 92.
Stressato, nervoso - 93. Lo erano le
notti di Dostoevskij - 94. La regione
abitata dagli hobbit - 95. Relativo ai
ragni - 97. Cortile interno circondato da un porticato - 98. Rendere minore - 103. Il capitano interspaziale
interpretato da Michael Jackson in
un cortometraggio diretto da Francis Ford Coppola - 104. Dilatazione
della pupilla - 106. Autore di Fight
Club (iniziali) - 107. Gradevole
brezza primaverile - 108. A detta
di (quasi) tutti, l’attuale situazione
economica - 110. La fine dei fratelli
Coen - 112. Il fondatore del nuovo
movimento religioso basato sulla credenza che gli alieni abbiano
creato la vita sulla terra - 114. La
metà di un best seller - 115. Capostipite della dinastia ottomana
e primo sultano - 116. Attendere,
aspettare… in inglese - 119. Sciagurata, afflitta da dolori e sventure
- 121. Gorge Herman, detto Babe,
fu il primo giocatore a battere 50
fuoricampo in una stagione nella MLB - 123. Si chiede
quando si è commessa una colpa non grave - 124. Istruito, informato - 127. John, dall’omonimo film di Frank
Capra - 128. Discorsi vaghi e poco comprensibili - 131.
Mircea, scrittore rumeno esperto di storia delle religioni - 132. Cogito ergo… - 134. Era chiara quella di Vasco
- 136. In chimica organica è un gruppo funzionale derivato dall’etano - 137. Il facondo epitetato con spregio
- 138. Con J fa il marchio di Jennifer Lopez - 140. Colui
che vaga senza meta - 141. Secondo Heidegger sta in
coppia con Sein - 142. Scatto conclusivo in prossimità
del traguardo - 143. Il monte su cui è costruita la città di
Gerusalemme - 147. Ninfa che nascose al mondo Ulisse
per dieci anni - 148. Simbolo chimico del rutherfordio
- 149. Il Capone gangster - 150. Ragionamento capzioso
che si fonda su artifici logici - 151. Il palazzo sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri - 152. La droga
sintetica usata nel mondo nuovo di Aldous Huxley - 155.
Pianta rampicante sempreverde - 158. Forma fissa della
poesia medievale praticata dai trovatori - 160. Coloro
che ostentano un atteggiamento sprezzante, indifferente, spesso considerato insensibile - 164. Ebay… così
come si pronuncia! - 166. Cittadina sulla costa della
Crimea dove fu deciso l’assetto politico internazionale
dopo la Seconda Guerra Mondiale - 168. La tecnica narrativa di William S. Burroughs - 170. Importante stazione spaziale russa che rimase in orbita per più di dieci
anni - 172. L’ultima offesa a Gesù Cristo - 173. Nick, attore americano - 174. La birra più amata da Homer Simpson - 176. In origine “pappone”, oggi “figo” nello slang
- 177. Nella prima serie recitava Gorge Clooney - 178.
La vecchietta del cartone animato che rimpicciolisce
grazie a un cucchiaino magico - 182. Triacetato di cellulosa - 184. Il primo presidente fu Yasser Arafat (sigla) 185. Cansei de Ser Sexy, gruppo musicale electro-indie
brasiliano - 186. L’olio per i motori delle gare americane
di NASCAR - 188. Avanguardia Operaia - 189. La bevanda dei lord inglesi - 191. Aosta - 193. Né sì né no
Charlie VS Joyce
è sempre una questione di stile
di CARLO ZUFFA
E
ro pronto, con un diario nuovo
nuovo dove trascrivre la mia
sfida con te, James! Pronto a rifarmi della debacle subita contro Marcel, ma dopo le prime dodici pagine
stavo già sudando e vecchi incubi
letterari mi tornavano alla mente!
Citando Wikipedia, il tuo Ulisse
viene considerato il libro più difficile da comprendere. Per alcuni è
considerato addirittura “illeggibile”
e sinceramente non me la sento di
dare torto a Wikipedia.
Quando pensavo di aver toccato il
fondo con la Recherche arriva la famigerata pagina 12! Sono arrivato a
pagina 12 e ora crederai che io sia
il fenomeno da bar che dice di leggere mega-classici solo per farsene
vanto con gli altri astanti... Bene, in
effetti è così. Ma questa rubrica non
si traformerà nel mio 8 e 1/2, dove
non sapendo cosa scrivere cerco di
occupare spazio scrivendo del mio
non leggere. Quindi ora rimbocchiamoci le maniche...
lo schematizzare l’intera narrazione, dividendo gli avvenimenti
secondo l’orario in cui si svolgono
e assegnare ad ognuno una precisa simbologia per rappresentarli,
ma soprattutto uno diverso stile
di narrazione. Li tratteremo uno a
uno nei prossimi mesi, parlando di
quel 16 Giugno 1904.
Ricostruire e riambientare nell’arco di una giornata, trasportandola nella Dublino dei primi ‘900,
un’epopea durata 3650 volte tanto,
bisestili esclusi, ambientata nel
Meditterraneo. Per di più un paio
di millenni dopo. Ok, parliamone.
James non credere che ti molli qui.
Ora ti porto sotto l’ombrellone e ne
riparliamo dopo le vacanze. Hai
fatto un romanzo a tua detta pieno
di enigmi e quasi impossibile da
comprendere, orbene allora chi ti
dice che anche questa mia disquisizione non lo possa essere...
Parliamo appunto dello stile e del-
19
C
hiacchierando di Rousseau, si diceva di come i suoi
amori con donne molto più grandi
avessero ispirato vivaci fantasie
nella successiva letteratura. Non
da ultimo Stendhal, nome ormai
evocatore di svenimenti improvvisi, crolli di nervi e strapazzi di
cuore di fronte alle magnificenze
artistiche.
Neanche a farlo apposta, HenriMarie Beyle, in arte Stendhal, nacque a Grenoble nel 1783 in una via
che oggi si chiama…via Stendhal?
No. Via Jean-Jacques Rousseau, per
l’appunto.
Ambizione militare e devozione
divina? Esatto. La storia è di quelle che fin dall’inizio senti già come
finirà. Da quando gli occhi si incrociano e le pelli si cercano, sai
già cosa aspettarti. Ma si aspetta
comunque volentieri. Poco importa se dopo circa 80 pagine iniziano
solo a sfiorarsi le mani, tutto quello
che resta in mezzo è una delizia di
attese, particolari, delicate supposizioni. Non per nulla Nietzsche ha
definito Stendhal come “l’ultimo
degli psicologi francesi”.
E d’altronde una storia che sia
già detta nel suo stesso annun-
in fondo le storie che girano sono
sempre quelle: lo dice prendendo
in giro i suoi impacciati amanti,
che non sanno gestire le travolgenti emozioni che d’improvviso
li assorbono fino a non sapere più
cosa ne sarà di loro. A Parigi, sarebbe stato diverso. “A Parigi gli amori
sono figli dei romanzi. Il giovane
precettore e la sua timida amante
avrebbero trovato in tre o quattro
romanzi l’esempio chiaro di quale
fosse la loro situazione: i romanzi
avrebbero tracciato loro un ruolo
da giocare, avrebbero mostrato
loro un modello da imitare…ma in
una piccola città di campagna tutto
Déjà lu
Il rosso e il nero è un romanzo rosa?
di GRETA TRAVAGLIATI
Lo pseudonimo Stendhal lo
scelse in onore di Johann Winckelmann, fondatore dell’archeologia
moderna nato a Stendhal, in Germania; decisione che lascia molto
intendere riguardo la bislacca fantasia del nostro autore. Amava tanto l’Italia, in particolare la Certosa
di Parma ed i sigari toscani, di cui
era dotto estimatore. La sua tomba,
a Montmartre, porta addirittura
l’epitaffio “Henry Beyle milanese”;
tra parentesi, mezzo coperto dalla
muffa, appare anche lo pseudonimo Stendhal e per fortuna, altrimenti vattelapesca te a riconoscerlo in mezzo a tutte le tombe.
Il Rosso e il nero, scritto nel 1830,
è un titolo la cui banalità simbolica non può lasciare indifferenti.
Cosa rappresenteranno questi colori, amore folle e odio distruttivo?
ciarsi non è certo cosa anomala.
Le strutture narrative sono spesso
molto simili tra loro, pensiamo solo
ad Anna Karenina di Tolstoj, pubblicato per la prima volta nel 1877.
Viene da chiedersi se non abbia
scopiazzato qualcosina dal nostro
Stendhal. Altrimenti significherebbe che nella fredda Russia e nella
romantica Francia la pensavano un
po’ allo stesso modo su quello che
deve imbarazzare e tormentare le
signore per bene, mischiandoci poi
dentro voci e profondità di culture
drasticamente diverse. La questione è che il piacere della lettura ha
ben poco a che fare con le trame, e
questo lo si intuisce ancora meglio
con opere dalla semplicità disarmante.
Lo dice anche Stendhal a proposito della vita reale e dei romanzi,
20
procede più lentamente, tutto si fa
a poco a poco, in modo naturale”.
Ci piace molto questa idea che gli
amori siano figli dei romanzi e non
viceversa. Ci piace meno l’idea che
non sia comunque un modo naturale di svilupparsi degli eventi. Ci
piace l’idea che le sensibilità siano
addomesticate o inselvatichite da
una cultura affamata, che divora le
nostre storie per sputacchiarcele in
faccia sulla carta, permettendoci
quindi di prenderne coscienza. In
fondo siamo già abituati a vederci
sempre solo tramite uno specchio,
che sia di parole e carta questo conta poco. Se da uno specchio in Russia poi il marito di Anna Karenina
riuscisse a vedere cosa combina
Mme de Renal quando M. de Renal
va al lavoro, allora sì che la trama si
complicherebbe. O forse no.
Aria fritta?
S
arà la calura, i granchi e la
sabbia ma tutte le estati, tra
un sudoku e un cruciverboso, qualche bamba si incaponisce e cerca
di rovinarmi il piacere della spiaggia spiegandomi come produrre
elettricità dall’idrogeno. Forse la
crisi e l’aria condizionata aiutano a
sollevare l’argomento.
Bisogna partire da Adamo ed
Eva, anzi no, bisogna partire dal
logos. La termodinamica. Parola
ad un contempo affascinante e terrificante. Potente ed arcana come
dell’idrogeno. Prendi dell’idrogeno
(H 2) e lo bruci, ottieni energia con
cui ci fai un po’ quello che ti pare, e
l’idrogeno diventa acqua. Fantastico, un sacco di energia, poco peso
e nessun prodotto tossico come
succede bruciando il petrolio. Però
risulta chiaro che l’idrogeno non lo
posso fare dall’acqua, che è il mio
prodotto finale. Per produrre idrogeno dall’acqua (elettrolisi) devo
spendere esattamente l’energia che
ottengo quando lo brucio. Anzi, di
più, a causa di questo bastardissimo secondo principio della termodinamica da cui non si scappa.
Allora da dove si può fare? Ovvio!
patente, che in un futuro non troppo lontano servirà come vettore di
energia. Una specie di pila in cui
immagazzinare con alta efficienza
e per tempi lunghi l’energia prodotta da fonti rinnovabili (eolico,
solare e compagnia bella). Queste
infatti soffrono di un grosso problema: sono discontinue e l’amministratore del parco eolico non ha
nessuna voce in capitolo per dire al
vento quando soffiare. Così l’energia è prodotta un po’ quando pare
a lei. Decisamente scomodo. Molto
più furbo quindi usare tale energia
per trasformare acqua in energia
sempre disponibile. Una trovata
Pillole di scienza
(per topi da biblioteca)
di FABIO PARIS
la magia di una strega. Il secondo
principio della termodinamica, il
condottiero più valoroso di questa
scienza, ci dice che qualunque cosa
facciamo sprechiamo energia. Lo si
può dire un po’ più correttamente
in vari modi, molto più eleganti
che vanno dall’oscura formulazione “L’entropia è proporzionale al
logaritmo dell’ipervolume nello
spazio delle fasi accessibile al sistema” al più chiaro enunciato di
Kelvin “Non è possibile, nemmeno
in linea di principio, realizzare una
macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%”.
Torniamo a noi. L’idrogeno,
atomo estremamente comune, si
trova in natura sostanzialmente
in due sostanze. Acqua e idrocarburi, ovvero petrolio. L’acqua è il
prodotto finale della combustione
Dal petrolio! Io faccio una reazione strana col petrolio e ne ottengo
anidride carbonica e idrogeno.
Wow! Mica tanto... Innanzitutto ho
un passaggio in più rispetto a bruciare direttamente il petrolio, e l’efficienza per forza di cosa diminuisce (di nuovo il secondo principio
che bussa a bastoni), poi in questo
modo emettiamo la stessa quantità di gas serra (anzi di più, perchè
l’efficenza diminuisce). Il risultato
netto è una maggior quantità di petrolio consumato per meno energia. Bella mossa!
Ad ogni modo i discorsi sull’idrogeno non sono tutta aria fritta.
Anche se non è possibile che sia il
nuovo sostituto per i combustibili
fossili questo infiammabilissimo e
pericolosissimo gas una sua utilità
ce l’ha. Può servire, e mi gioco la
21
non meno spettacolare del trasformare l’acqua in vino.
L’altro grande vantaggio del caro
amico H 2 sarà usarlo per le automobili. Addio smog. Solo un po’ di
vapore fuori dalle auto. Lo svantaggio è solo nella pericolosità del nostro caro gas. Che se non lo si tiene
per bene a bada fa dei botti che si ricordano a lungo. Parola di chimico.
In poche parole, evviva l’idrogeno ma con calma. E se sotto l’ombrellone vi importunano o volete
semplicemente fare i belli con una
turista tedesca (i tedeschi si sa che
sono avanti nel campo energetico)
potrete bussare a bastoni.
Il demone della
coscienza
Breve filologia dubbiosa
del dubbio
di MICHELE MARCON
I
l mese scorso ci siamo lasciati con alcuni interrogativi che
attendono una risposta. Se mi domandate chi è meglio tra Shakespeare e Gide, vi rispondo che non c’è
gara; vince Shakespeare 10 a 0. Io
poi sono tra quelli che preferiscono i Pearl Jam ai Nirvana, il dolce
al salato, il vino alla birra e De Sica
a Boldi. Ma se mi chiedeste “Simpson o South Park?” mi mettereste
in seria difficoltà. A me piacciono i
Griffin. E se uno deve scegliere tra
camicia dentro e camicia fuori dai
pantaloni? Dipende dalla camicia,
e dall’occasione. È allora che cominciano i problemi. È allora che
uno è nella cacca fino al collo… Ma
facciamo un passo indietro.
“Sono un uomo malato… sono
un uomo cattivo. Un uomo che non
ha nulla di attraente”. Chi vi parla
non è il sottoscritto, anche se gran
parte delle mie ex sono pronte a
giurarvi il contrario. Non è neppure il ragazzo né bello né piacente
che applica regolarmente lo scetticismo. Chi vi parla è un Autore che
ci devi per forza mettere la A maiuscola davanti. È nientepopòdimenoche Fëdor Michajlovic Dostoevskij, che qui incarna l’uomo del
sottosuolo, una figura-chiave sia
nella parabola creativa del grande
romanziere russo che nella storia
della letteratura occidentale. Co-
stui è l’uomo a noi contemporaneo,
cioè l’uomo senza miti né certezze,
lacerato da intime, insolubili contraddizioni. È proprio quello che
stiamo investigando. L’uomo la
cui coscienza ipertrofica diventa
un impedimento al quieto vivere. L’uomo che sente la mancanza
dell’Assoluto (ancora con l’ineffabile maiuscola) e per questo non
sa da che verso prendere la vita,
perché non ha alcun criterio su
cui fondare la propria esistenza.
Qualche anno più tardi si presentò
un altro uomo, questa volta veramente folle, che per bocca di Nietzsche annunciò: “Dio è morto”. E
con questo voleva dire che era stato
cancellato l’Assoluto (proprio quello lì) e che tutto era diventato relativo. Bella scoperta! C’era arrivato il
buon Fëdor con qualche decennio
d’anticipo!
Ma procediamo con ordine, ovvero andando a ritroso. La coscienza aveva cominciato a fare casini
già da tempo e la filologia del dubbio ci permette di comprendere che
questa storia è fatta di continui riposizionamenti che girano sempre
attorno allo stesso nodo centrale.
Per giunta aggrovigliato.
Agli inizi del Seicento, Shakespeare scrisse un’opera geniale
perché ancora oggi ci si può riflet-
22
tere dentro come in uno specchio. Sto parlando dell’Amleto.
Con un semplice quesito il
bardo dell’Avon cristallizzò
nei secoli il dubbio esistenziale: “Essere o non essere”. Per
prima cosa ci tengo a sottolineare che, mentre il disgraziato principe di Danimarca
pronunciava queste fatidiche
e pensantissime PAROLE,
non aveva affatto un teschio
in mano. In secondo luogo vi
invito a soffermarvi proprio
sulle parole (come debitamente segnalato dal – come non
detto – maiuscolo). Poco prima che pronunciasse il quesito capitale, Polonio si azzarda
a chiedere ad Amleto, che in
mano tiene un libro, cosa stesse
leggendo. La risposta è lapidaria:
“Parole, parole, parole”. Polonio
non era certo una cima (non per
niente è il primo a fare una brutta
fine) perciò ribadisce la domanda:
“Ma cosa dicono queste parole?”.
Non l’avesse mai chiesto… la risposta è un distillato di genialità pura.
Calunnie. Ovvero finzioni. Per
questo io credo che Shakespeare
sia un genio. Con un’encomiabile
economia verbale, ha spremuto il
succo della faccenda. Il problema
della coscienza è il problema delle
parole. Generalizzando, è il problema del linguaggio.
Ora concedetemi un ultimo salto all’indietro, ma stavolta molto
indietro nel tempo. Catapultiamoci nell’istante in cui tutto questo
dubitare che ci rode il fegato dovrebbe essere iniziato (il condizionale è d’obbligo per il dubbioso).
Potremmo addirittura spingerci
così in là da ritrovarci a fare una
grigliata con l’uomo delle caverne.
Un esemplare meno peloso degli
altri potrebbe dire “ugh” al posto
di “augh” e, riflettiamoci, in questa coppia di grugniti potrebbe già
celarsi la domanda esistenziale. Lo
so, sto esagerando, ma se ammettiamo che in questi suoni gutturali
possa celarsi la nascita del linguag-
Socrate…
gio, allora eccoci giunti al nocciolo del problema: l’invenzione del linguaggio. La parola è dubbio. La parola è
finzione. E in quanto tale ha risvegliato in noi il demone
della coscienza. Sconvolgente, vero? Andatelo a dire a
Ci rivediamo a fine estate per sciogliere finalmente
ogni dubbio.
Scheda Libro
re, geloso e fanfarone; i
passatempi al tavolo, per
quanto iperbolici nella
loro descrizione, sono
una strizzata d’occhio ai
nostri nonni; il “conosco
un posticino” è un richiamo alla gastronomia
e ai ristoranti che, nonostante pareri concordi,
non sono mai come li
dipingono e nemmeno
ubicati dove dovrebbero essere (è
vero ci si perde sempre quando si
va a provare la trattoria caldeggiata
da un amico).
“Bar Sport” di Stefano Benni
di ANDREA RINALDI
A
scuola non si ride. Sembra
che sia vietato per qualche
arcana legge strutturalista. Gli ambienti sono grigi e puzzano, i professori non sono simpatici, i voti
terrorizzano, i compiti in classe
creano ansia e in più tocca studiare Jacopo Ortis. Bandita la sci-fi,
bandito il noir (anche se dal grande
Scerbanenco derivano tutti i giallisti nostrani), in quanto considerati letteratura di genere, dalle aule
delle scuole italiane hanno cacciato anche la letteratura umoristica,
o per lo meno quella poca che è
esistita nel nostro Paese (Amurri,
Marotta, Campanile…) visto che
ora è pressoché morta. Ridere però
fa bene - è stato dimostrato da molti studi - e una bella risata è necessaria dopo cinque ore in classe. Vi
consiglio allora un libro che farà
scompisciare e che instillerà la voglia di leggerne altri del suo autore,
arrivando così ad assaggiare il concetto di satira: scordatevi quella di
Plauto e Lucilio, quella non è satira,
anzi fa piangere e poi ve la impongono, sai che ridere. Il libro in questione è Bar Sport di Stefano Benni.
Si tratta di un classico perché
l’autore è tuttora un fine analizzatore della società italiana, ma
soprattutto perché con questa
sua opera è riuscito a individuare e tratteggiare degli archetipi
“italici”, che ancora risparmiano
ai giornalisti valanghe di parole
quando devono parlare di spaccati
del mondo che ci circonda. Basta
pensare alla Luisona, la decana
delle paste che si anima e si vendica della sua profanazione o al bimbo del gelato, che fa letteralmente
impazzire il barista (e poi chi non è
mai stato un bambino del gelato nel
bar vicino a casa?).
La fauna che popola il Bar Sport
è l’Italia, siamo noi, sono i nostri
amici e i nostri vicini: il Cinno,
Renzo il playboy da bar, il professore Piscopo, Bovinelli il tuttofare,
Pasquale il barbiere e quello che
vi succede è un condensato della
Bologna che fu, ma comunque del
nostro folklore. Le trasferte per andare a vedere la squadra di calcio e
le glorie calcistiche locali (come il
famoso Piva) rappresentano la mania del calcio in Italia, che si mastica in ogni dove; la cotta del ragionier Pizzi per la nuova cassiera e le
finte conquiste di Renzo, assieme
alle catture esagerate dei pescatori della domenica, sono l’affresco
del maschio italiano conquistato-
23
Al Bar Sport siamo cresciuti e
torneremo per giocare a briscola,
nel frattempo possiamo leggerlo
per non dimenticarlo e per non dimenticare chi siamo. Vale più Benni di un trattato di sociologia.
Questo è il nuovo “classico” che
vi consiglio per la vostra lettura a
scuola. Quando lo avete finito voglio la scheda libro sulla mia cattedra.
I ferri del mestiere
Oggi devo scrivere il nuovo articolo
per Finzioni di AGNESE GUALDRINI
A
ccendo il mio Mac, apro il
programma di scrittura.
Pagina bianca. Il cursore è fermo.
Mi pervade una certa ansia perché
non so davvero cosa scrivere. La
testa è vuota e faccio mente locale a quello che dovrei raccontarvi:
uno sguardo (un altro, diverso dai
precedenti) su quello che gravita
attorno al mio lavoro in casa editrice. Telefonate, proposte respinte
con un cordiale no grazie, il mio
lavoro all’ufficio diritti…che altro
potrei dirvi? La nebbia mi pervade il cervello e non so se essere più
inquietata dall’ipotesi che questo
vuoto mentale derivi dall’aridità del mio lavoro o piuttosto dalla
mia incapacità di formulare idee
per iscritto (o, peggio ancora, dalla mancanza di idee in generale).
Penso agli scrittori di professione.
Conoscono l’ansia della pagina
bianca? Capita anche a loro la terribile sensazione di essere a corto
di pensieri? La risposta credo sia
ovvia. Scrivere è del resto un atto
creativo e creatività e lavoro non
sembrano stare troppo bene nella
stessa frase: che significa “scrittori
di professione”? Come si fa a scrivere con l’ansia di una scadenza?
(Ammesso ovviamente che c’è chi
lo fa tranquillamente, come i John
Grisham o le Patricia Cronwell che
sfornano Ultimi giurati e Cadaveri
non identificati con rigorosa cadenza annuale).
La via della pubblicazione di
un libro avviene pressoché in due
modi. Il primo è quello più diffuso:
l’editor legge un manoscritto, decide di pubblicarlo e quindi fa un
contratto all’autore. Nel secondo
caso invece l’editor fa un contratto
a un autore che si impegna a scrivere un determinato tipo di testo
entro un certo periodo di tempo.
Questa dinamica avviene solo
quando si tratta di scrittori già noti
al pubblico o in case editrici, come
la mia, che propongono idee o progetti a chi poi li realizzerà scrivendo un libro. Ora, la dimostrazione
del fatto che creatività e lavoro non
vadano di pari passo, è che di solito
i contratti vengono difficilmente rispettati. Qualche esempio: l’autore
si impegna a scrivere 200 cartelle?
La maggior parte delle volte arriva
un manoscritto che ne conta 450
(difficilmente accade il contrario).
La consegna è fissata per gennaio
2009? Siamo a luglio e non è ancora
arrivato nulla. Qualche settimana
fa’ in casa editrice è arrivato per
posta un manoscritto sulla storia
del teatro. Nella lettera di accompagnamento l’autore gioiva per la
tanto sofferta conclusione dell’opera e chiedeva un appuntamento per
decidere le illustrazioni da mettere
in copertina. Di fronte al nostro
sconcerto per l’assenza del titolo
dal programma editoriale abbiamo
fatto qualche ricerca in archivio
scoprendo che il contratto risaliva
a 11 anni prima e che la consegna
era prevista per il 1999.
Un capitolo molto divertente
sono poi le motivazioni degli autori
di fronte alla mancata consegna.
Ricordano molto le scuse che si
utilizzano a scuola quando non si
ha studiato il pomeriggio prima:
trasloco in corso con conseguente
24
perdita delle bozze negli scatoloni
(non riesco più a trovarle!); gli studenti hanno occupato l’università
da due mesi e non si ha accesso al
computer dell’ufficio; divorzio improvviso; malattie di ogni genere
e forma (una volta uno ci disse
addirittura che non poteva scrivere perché vedeva tutto rosso…?!?).
Uno dei problemi più grandi per
certi autori è poi staccarsi dal loro
manoscritto per darlo in pasto ai
redattori: vorrebbero rimetterci
le mani mille volte e ancora una
in più, per aggiungere aggettivi,
togliere intere frasi, per inserire
monologhi e per integrare il testo
di dettagliate note a piè di pagina
(insomma, il più delle volte per
peggiorarlo). Eppure tutto questo
fa parte del gioco e in questo sta la
bellezza della creazione: ogni testo
è infinitamente mutevole e perfettibile, suscettibile di assumere
mille forme nuove e diverse. E dove
non riesce l’autore interviene l’editor a fissare una forma.
Esistono quindi gli scrittori di
professione? Secondo me esistono gli scrittori e basta. C’è chi riesce a farne un mestiere scrivendo
in orario d’ufficio, chi scrive solo
sotto impulso dionisiaco, chi lo fa
per passione, chi perché non può
farne a meno, chi non riterrebbe
mai lo scrivere un “mestiere”, chi
crede di avere qualcosa di davvero importante da dire. Per fortuna
nel mio lavoro abbiamo a che fare
con tutti questi tipi di scrittori…E
per fortuna mi accorgo che da tutto
ciò è venuto fuori il mio articolo per
Finzioni.
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
G
entile Bettoli, si sarà accorto che il mondo intero
impazzisce per l’azzardo, quando
a rischiare son gli altri e a vincere
la se-medesimità. Il grado infinitesimo delle possibilità di vincita,
che ho interiorizzato tanti anni
fa a scuola quando il docente di
matematica era stato scaricato
dalla bidella e per un mese buono
adottò l’escamotage delle *lezioni
matematiche applicate alla vita*
per utilizzare la classe come terapia a basso costo, raccontandoci
fregnacce e mascherando la poca
voglia di fare lezione, pensi, non
blocca una quota consistente di
umani dal giocarsi capra e cavoli
nel miraggio di un successo. Ora
ci si mette pure l’americanissimo
Sven Youkay, che vende una *nave
cargo* di libri col romanzo-epopea sulla rivincita-fiasco di Tano
Stranciani, soffice carpentiere
italoamericano che vince al lotto
Keep It Up e con capra e cavoli viene travolto da quel successo istantaneo che un po’ lascia il segno.
Sesto, Ertinga
C
aro Sesto, sull’espressione
*capra & cavoli*: l’ha usata
due volte in poche righe e mai nel
modo giusto. E poi questo libro di
Youkay, Nave Cargo, edito da Sterlini un anno fa e già alla terza ristampa. Quando un caso letterario
è letteralmente tale non è mai un
caso. Spesso si tratta di disegnatissime catene di eventi simili a quelle
che fanno vincere il nostro Tano al
Keep It Up, lotto multimiliardario
creato nel 1879 dal principale pro-
duttore di colla coccoina del Maine, Rambald Candith. Youkay sa
che tasti pigiare, che pesci pigliare
e dove andare a parare. C’è crisi, e
la gente gioca. Pare.
Tano, affezionato alle sue origini sicule e alla nonna Castrenza,
nella più italiana delle storie mangia pesante, dorme sudato e sogna
l’amata madredellamadre sola in
un porto, fazzoletto in testa, giovane. Triste e sconsolata sta Castrenza, con recente -negli occhi
bagnati- l’abbandono della Sicilia e
il freddo di New York a febbraio, il
cuore spaccato dalla prospettiva di
non tornare a casa mai più e la testa
piena di confusione per quelle domande rapide, scandite in una lingua sconosciuta da agenti portuali
pallidissimi. Nel sogno, Castrenza
indica una nave cargo, sì, che si
avvicina al porto. Tano si sveglia
con ancora nelle narici l’odore acre
dello sterco: questo trasportava la
nave, o forse di questo era fatta, la
nave, di sterco, o forse chissà. Che
importa.
Il giorno dopo compra ad un 7,6
cents store un libruccio dalle pagine ingiallite, A’ smorfia de Compare Mommo, portato fin lì da chissà
quale paisà. Nel giocare i numeri
corrispondenti a nonna, sterco,
nave, porto, fazzoletto e 11 (il numero dei suoi figli) Tano fa il colpo
della vita, vincendo 189 miliardi di
dollari secchi. Nel 1966 diventa più
ricco dei contemporanei Beatles, e
quindi per una proprietà transitiva malinterpretata -Tano nel Sesto
capitolo legge l’intervista a Lennon
25
in cui dichiara *siamo più famosi di
Gesù*- *PIU’ FAMOSO E RICCO DI
GESU’*, come dirà davanti ai basiti
spettatori dell’Ed Molligan Show.
Poi c’è il rotolare tragico verso il
gioco compulsivo (“ma sì, punta
1 miliardo e 400 milioni di dollari sul 2 rosso, e tu che guardi?”),
una vita sregolata e -rapida- la più
grossa ridimensionata economica
mai sussistita nel mondo delle ridimensionate economiche. Tra il 66 e
il 71, lasso di tempo in cui la storia
è principalmente tratteggiata, con
i soldi della vincita Tano avrebbe
potuto comprare Singapore (non
ancora tigre asiatica) + la parte
continentale dell’Indonesia tranne
Giacarta. Youkay è amaro sul finale: nel 1973 Tano acquisterà solo un
paio di stivali con la zeppa, quelli
per tornare a lavorare, coi 7 dollari
rimasti. Che è pure il prezzo del libro. Ma voi prendetelo a nolo.
•
V
eda Bettoli, qua si parla
poco di grandi classici,
quelle belle storie d’amore, o di tristòre, ove c’è sempre una tragédia,
che poi in effetti sono quasi tutti
avvilentissimi i classici, tipo quel
romanzo sul cane bianco Belle e
sul pastorello Sebastian, lasciato solo da una famiglia degenere
a vagare per i monti. Non lo farò
nemmeno io perché sono pesanti e
perché il fisiopata cerebrale Faust
Xavier ha recentemente scoperto che davanti a una discussione
sui grandi romanzi classici la testa molla la presa entro i primi 5
minuti e si perde a pagliacciare,
uomini e donne indifferentemente, attorno a cibo trucco scarpe
calcio tette incombenze amante
sete. Parliamo di crisi. Ahhh, la
crisi! Ma che bello è cianciarne?
Gli argomenti scappatoia! Sembri
sempre intelligente, e cordiale!
Il grande merito della crisi è aver
sostituito l’usanza di parlare del
tempo quando non si ha niente da dire. Dal fruttivendolo, in
pausa caffè, in edicola, al ristorante (oh, ma evitando la politica,
procedendo piuttosto per grandi
assunti generalmente condivisibili e bipartisan!), al cimitero
(certo!), in montagna come sotto
l’ombrellone (mangiando frutta
candita!), prima di vedere Belen in
costume a Sarabanda (gli uomini
soprattutto!), davanti a una fetta
di cocomero. La crisi! Ma poi chi
ci rimette? I giovani! Che non ci
hanno voglia di fare un cazzo (sic),
dicono in tanti. Ma che finalmente
ricevono degno riconoscimento
di esistenza (il termine “giovane”,
non dimentichiamolo, fu inventato da Pasolini solamente nel 1972)
tramite il volume manifesto dei
nati negli anni 80, quindi attualmente ventenni: RassereGnati (di
Fenostra, edito da Chaudfontaine). Me ne parli.
Lionella, Fontana Milanese
L
ei non si sofferma sui classici
e io non mi soffermerò molto
su questo argomento, giovani e crisi, perché sto scrivendo il mio libro
sui giovani e la crisi e ho già poche
idee, perdoni, e quelle 3-4 che ho
non voglio bruciarle subito. Due
parole si, però, sui giovani e la crisi.
RassereGnati di Fenostra è al livello
di Diario di un garzone di Trilussa
(effettivamente prima di *giovane*
andava molto il termine *garzone*)
e Teenager smargiassi di Calvino.
Ma mentre un tempo si stava sempre in pantaloni corti und ginocchia mezze sbucciate a fischiare
dietro a ragazze/mondine flòride
ma senza tatuaggi arroganti, ai
bordi delle strade, a lanciare sguar-
di ammalianti durante le passeggiate della domenica o a scoprire
la gambina mentre si balla il liscio,
con quegli occhiali da vista con le
lenti da sole attaccate sopra, piangiamo insieme, ora si sta peggio e
si naviga in acque acquee. Ci sono
i giovani. E soprattutto, c’è la crisi.
C’è la poca voglia di cambiare,
di osare, ma pure di girare, di partire e di lasciare: non dimentichiamo che se la popolazione italiana
è di circa 60 milioni, sono altri 60
milioni i cosiddetti *oriundi* di
origine italiana sparpagliati diffusamente nel globo. Vivono lontano,
codesti, intenti a fare business, a
crearsi una nuova vita, a imbroccare straniere o anche solo a cercare
un’esistenza dignitosa e del pane
per riempire la pancia. La storia si
ripete oggi, in altri posti, con altri
attori. Che ne è stato dell’innato
istinto di arrangiarsi dei garzoni
italianeski? Pure quello è spaparanzato comodo sul divano? Sarà
triste, tra 50 anni, andare in ferie in
un qualunque sperduto arcipelago
Gañaldos e non ritrovare colonie
di italiani ivi impiantati da tempo,
che qua c’è caldo ma è un caldo
diverso -molto più secco- e i ritmi
sono moooolto più rilassati (cit.).
Ma ciò che bisogna hic affermare, e ce lo sbatte addosso già il
titolo, è che i giovani di oggi sono
rassegnati ma anche rasserenati,
consapevoli che la colpa di qualunque immobilismo-slandronata
di questi anni cadrà solo su un attore, statuario ed eccezionale: LA
CRISI! E loro sono giovani, mi ero
quasi dimenticato che di questo
si parlava. Scapegoat maravijoso,
perché definitivo, la crisi non solo
è economica, ma assolutamente e
straordinariamente pervasiva tout
court. Così si sta sereni, insomma:
quando tra 30 anni i nostri figli (che
avranno massimo tra i 5 e i 10 anni
perché mò si procrastina a bomba)
chiederanno a dei sessantenni diversamente giovani che si faceva
nella *belle époque* del 2000, mal-
26
celando il dubbio, molti rasseregnati risponderanno “c’era la crisi.
davvero, Agostino, tu non puoi immaginare cosa sia stata la crisi”.
•
B
ettoli. La storia piccola di
un coltivatore di bacche, di
Gao Morào, leggerezza orientale
con qualche puntina di malizia
cingalese, è il libro più venduto
in tutta la costa occidentale del
Vietnam, quella sull’atlantico.
L’ho letto dalla parrucchiera, ma
è bello sul serio. A me piacciono
i libri che hanno una morale, poi
mi piacciono di più se ci stanno
pure le figure, perché i personaggi non so mai come immaginarli e
se sono giapponesi poi me li penso
tutti con la faccia di Chow Yun-Fat,
quello de La tigre e il dragone. Un
po’ come Dio, che per me era il signore delle mille lire, Mario Polo.
In queste storie di cinesi, che
in questo caso sono vietnamesi,
io mi ci immedesimo perché non
pensano ad andare subito a letto,
e c’hanno la pazienza di aspettare
noi donne che vogliamo essere,
e lo dico forte! corteggiate. Qui il
protagonista, che chiamo Chow
ma che ha un altro nome simile,
è un giovanotto che coltiva bacche ma con mentalità imprenditoriale, sfruttando il terreno, poi
vende tutto a ricchi turisti americani o inglesi (insomma che parlano inglese) in belle confezioni
che pagano a peso d’oro, e invece
sono bacche. Ma è triste, e allora
corteggia Xu, che è molto bella, e
capirai però nei libri ci sta che le
attrici sono belle, è nei film che un
po’ scoccia perché mio marito poi
si fissa. Perché non consigli mai libri giapponesi?
Tiziana, Massa Ligure
M
a è cinese, giapponese,
vietnamese (sic) o cingalese? Non ho capito, Tiziana. Vabbù.
giorno e notte con uno zelo tempestoso le cura e le accudisce affinché crescano rigogliose. Spera di trarne
-lui- denaro e fama e perché no sgallettate, mentre gli
anglofoni -loro- cercano l’illusione di una ripulita arteriosa che poi però ci si beve dietro una qualche bibita gassata. Stanco fino a rischiare di addormentarsi in
continuazione, protagonista di un controverso colpo
di sonno mentre cammina, Shaw c’ha le bacche nella
testa e non pensa ad altro. Socialismo di mercato, rappresentato nella sua crudevolezza tramite le bacche e
gli sbadigli. Poi c’è Xu, e di seguito un amore lento, sussurrato, educato. A volte perverso e furioso, ma poi di
nuovo sussurrato. Poi finisce. E io metto su la moka, che
ho finito gli Special K.
Non parlo molto di questi libri perché non ne so molto, soprattutto di quelli vietnamesi. Mi tarlo sempre
di avere lacune concettuali e, relativamente al tempo,
nei ritmi. Tempo fa ho regalato un libro di Banana Yoshimoto, ma unicamente perché questo mio amico era
soprannominato Banana, ed era la fase in cui si era giovani e stupidi.
Ho preso in mano La storia piccola di un coltivatore
di bacche, però, che per il suo essere così piccola (34 pagine, 8 euri, edizioni Marticinio -ma sarebbe stato più
appropriato latrocinio-) ho finito in 27 minuti mentre
facevo colazione con una tazza di Special K. Indubbiamente leggero. Queste bacche fasulle e dal gusto livido
sono veicolo dei pensieri di Shaw, il protagonista, che
Le città letterarie
Milano
M
ilano, mi pare, ha una proprietà molto rassicurante:
(quasi) tutti i luoghi comuni che
i non-milanesi le affibbiano sono
veri. Nebbia, c’è. Smog, c’è. Lavurà
lavurà lavurà, c’è. Traffico caotico e
cielo grigio, ci sono. E la Madunina
troneggia ancora su quel meraviglioso Duomo sempre troppo poco
celebrato. Potrei continuare, ma
non vorrei affondare nelle pastoie
della sicumera. Di certo comunque, è l’attitudine al lavoro ciò che
caratterizza la “vera” capitale d’Italia, anche negli ammazzamenti.
Giorgio Scerbanenco è stato per
Milano quello che Fruttero e Lucentini sono stati per Torino. Bevilacqua per Parma. O, in maniera
minore e con i dovuti ridimensionamenti, Lucarelli per Bologna.
Ha raccontato la sua città adottiva
con lucidità e una capacità profetica straordinaria: un paese che
non si è ancora reso conto di essere
diventato una metropoli e dunque
di JACOPO CIRILLO
si trova incapace di fronteggiare la
criminalità metropolitana: puttane, droga, assassini. Del resto. è un
medico radiato dall’albo che deve
prendersi tutto lo sbattimento.
La quadrilogia del Duca, i romanzi incentrati sulla figura del
dottor Duca Lamberti, è una meravigliosa rappresentazione di Milano. E uno, in particolare, coglie
sorprendentemente l’essenza meneghina di cui si diceva prima.
I milanesi ammazzano al sabato
(Garzanti 1999, 183 p., 9 euro) è il
quarto e ultimo libro, dopo Venere
privata, Traditori di tutti e I ragazzi
del massacro (tutti Garzanti). Il libro è un noir ma l’ammazzamento
del titolo non è quello fatto dai cattivi. E quello di un padre, buono ma
non fesso, che trova gli assassini di
sua figlia prima della polizia.
Ovviamente li ammazza e ovviamente è sabato. E’ lui quel milanese che ammazza il sabato e la cosa è
così rilevante perché, come spiega
il vecchio all’incontenibile Duca,
se fosse stato infrasettimana non
avrebbe fatto nulla, visto che doveva andare a lavorare.
La milanesità più trita, quella del
lavurà lavurà lavurà, esplode insieme al cranio di tre delinquenti,
colpevoli di aver sottovalutato un
vecchio e, soprattutto, di essere
stati scoperti in un giorno feriale.
E, per la prima volta nella storia dei
noir, probabilmente, un titolo con
la parola “ammazzare” dentro non
si riferisce transitivamente ai carnefici ma alle vittime.
E l’attitudine meneghina al superlavoro giustifica e perdona più
di dieci padri nostri e qualche atto
di dolore.
Oh-oh.
Milan, col coer in man.
27
Ghost World
“Black Hole”
di Charles C. Burns
di MARINA PIERRI
G
li armadietti, le prom dance e le cheerleaders fanno
parte dell’immaginario collettivo
che si riferisce generalmente al “liceo americano”. Più di queste tre
cose, forse, a restituirci l’immagine più penetrante della gioventù
USA è il facebook o annuario. La
faccia, l’apparenza, l’aspetto: in
una parola sola, l’identità. Da qui
parte Black Hole, che arrotondando, forse per eccesso, ne illustra il
cambiamento e, nel peggiore dei
casi, la perdita in diversi gradi fino
alla morte (la cessazione definitiva
dell’essere individuale). Lo so, state
già pensando che sia un libro terribile. Invece il racconto di Charles
Burns, un feuilleton completato
in nove anni, assomiglia per molti
versi a una favola.
Immaginate un mondo in cui i
tranquilli adolescenti di una città
(forse) di provincia - che vivono
nei loro bei sobborghi coi genitori,
vanno alle feste e tutto – contraggono un virus misterioso che corrompe non la salute ma la forma del
loro corpo, in maniere imprevedibili. Lo si prende e, boom, non si sa
che succederà: verrà fuori una terza gamba? una protuberanza? una
vescica? Impossibile a dirsi. Ora
considerate che questa malattia si
trasmette sessualmente, o comunque con liquidi biologici, e colpisce
solo gli adolescenti. Non vi servirà
essere Einstein per capire che si
tratta di un’allegoria. Una doppia
allegoria. Da un lato, la più ovvia:
l’AIDS, la malattia che per anni è
stata considerata figlia di uno stile
di vita sciatto, libertino e dissipato.
Dall’altro, una appena più sottile,
ma neppure troppo, perché nessuno come i teenager conosce il
disagio.
La mia lettura preferita di Black
Hole, infatti, è proprio questa: il
male che ti cambia dal di fuori è
sinonimo del male che ti cambia
dentro; quello che non puoi portare nell’occhiello, quello che non
può vedere nessuno che, invece, si
sposta improvvisamente sull’asse del visibile, del manifesto portando a galla le istanze inconsce,
seppellite, di mostruosità. Solo che
l’universo di Burns è felliniano, in
un certo senso, o lynchiano, nella
misura in cui l’imene che separa la
realtà e il sogno è perforato, spaccato per sempre. Elementi di un
altro regno (specie quello animale,
28
come nel caso della coda di Eliza,
una delle protagoniste, o quello
della muta di Chris) penetrano
nella vita quotidiana, così come la
conosciamo: è un caso vero e proprio di “trascendenza”, ossia di migrazione di parti di un mondo in un
altro. Nelle fiabe è molto frequente:
pensate ai fagioli magici, oppure,
che so, alle civette di Hogwarts.
Per questo credo che il racconto di
Burns sia una specie - neppure così
non convenzionale - di fiaba nera,
per certi versi sociale (quello già
citato dell’AIDS) e per certi versi
semplicemente emotiva (disagio).
Che il romanzo sia una fiaba è
evidente sia dalla presenza di un
certo giudizio morale (serpeggiante) che dal finale. E da entrambi contemporaneamente, certo.
Dei tre protagonisti (Eliza, Keith,
Chris) le due donne si salvano: la
malattia fuori di loro le lascia quasi libere nella misura in cui non
sembra essere degenerativa e consentirgli comunque una vita più
o meno normale. L’una ha subito
troppo in generale, l’altra ha subito
e basta – il contagio. Si sono meritate la vita? Sul maschio resta un
punto interrogativo non definitivo,
perciò, forse, più inquietante, ma
in ogni caso anche la sua esistenza
proseguirà e, tutto sembra puntare
a una possibilità di convivenza con
la malattia, resa possibile dall’amore, o, più banalmente, dalla fiducia
negli altri.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità
e la mirabolante esagerazione dei
fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che
fare una caricatura non è altro che
privilegiare e mettere l’accento su
una parte in rapporto con il tutto,
creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria.
L’asimmetria fa ridere e fa pensare,
perché non è regolare, dunque buffa,
e va messa a posto gestalticamente
con la propria testa. L’iperbole, la
storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e
fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa
pensare.
Ci sono poi due ruoli che si alter-
nano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo
quello che doveva succedere e niente
altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che
vinca. Non si scappa.
come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare
acqua al loro mulino, si raccontano
in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo
ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva
qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo
non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della
verità in termini esistenziali. La verità per me.
Iperboloser
William Makepeace Thackeray
di JACOPO CIRILLO
N
omen omen, dicevano i latini. E uno che si chiama Makepeace dovrebbe almeno tentare
di essere conciliante. Al contrario,
William Makepeace Thackeray, il
secondo miglior scrittore inglese
durante l’era vittoriana, odiava il
suo diretto e più povero concorrente, Charles Dickens, uno straccioncello che scribacchiava di orfani e
nobili buontemponi. Le loro querelle erano frequenti e si svolgevano al Garrick Club, un po’ come
quelle tra Paperone e Rockerduck
al club dei miliardari.
Una volta l’illustratore del Circolo Pickwick si suicidò e l’autore si
mise a cercare un sostituto. Quando Thackeray si propose come disegnatore, Dickens lo sbeffeggiò
dicendo Aahahhaa, piuttosto che
usare questi scarabocchi, preferisco riesumare il mio vecchio illustratore, e in quel momento uscì
dall’armadio il presunto suicida
irridendolo. Un’altra volta Thack
sgamò Dick con un’attricetta (Ellen
Ternan) e andò subito a fare la spia
alla moglie, che lo irrise anch’ella
informandolo della loro separazione avvenuta già da qualche mese.
Un altro episodio divertente fu
quando Edmund Yeats, il re del
gossip di Londra, scrisse un articolo contro Thackeray firmandolo
C.D. Lo scrittore si infuriò e andò
da Dickens per chiedere spiegazioni e, al suo diniego, si rivolse al direttore del “Town Talk” che lo irrise
dicendo che era tutto uno scherzo.
29
Nel 1863, a soli 52 anni, Thackeray si era un po’ stufato di tutte queste burle e, psicosomaticamente, si
trovò in punto di morte. Dickens,
pentito, andò al suo capezzale e gli
disse, Dai facciamo pace, in fondo
i posteri ti ricorderanno grande
almeno quanto me. Thackeray gli
disse, Bravo, complimenti, facile
fare pace sul punto di morte ma
vabbé, confido nella gloria futura.
E si spense.
Purtroppo oggi Thackeray non se
lo ricorda praticamente nessuno,
se non per Barry Lyndon di Kubrick
e per la Fiera delle Vanità (titolo famoso ma libro poco letto).
Questa è per te, Thack!
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il
co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che
legge.
Livia Fagnocchi è curiosa, entusiasta e dentro tante
storie. Si ossessiona facilmente di canzoni, di mongolfiere, di take-away indiani, di zucca, di misteri, di treni.
Cerca analogie, coincidenze, e stare bene.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua
infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino
Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per
co-fondare Finzioni.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna
conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora
accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far
fruttare una laurea a detta di molti “inutile”.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono
di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento
all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima.
Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora
a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione
*lobbista*.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo,
di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per
non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che,
per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando
il posto a nuove manie.
Michele Marcon è un ragazzo non bello e forse neppure piacente, ma applica liberamente e con regolarità
lo scetticismo e crede nel potere dell’antitesi. Curioso
per natura, in passato è stato abbastanza ingenuo da
cercare, passando in rassegna molte discipline, la verità, naturalmente senza ottenere alcun risultato certo.
n. 4 / Luglio - Agosto 2009
[email protected]
www.finzionimagazine.it
Stampa: Tipolitografia Castello - Castel Bolognese
30
una storia appassionante e magari ride o tiene il fazzoletto a portata di mano.
Il suo scetticismo ne è uscito talmente corroborato da
essersi spinto più avanti di lui nella negazione, tanto da
fargli perdere addirittura le sue incertezze.
Andrea Rinaldi è giornalista professionista e vive a
Bologna dove scrive per le pagine culturali del Riformista e dell’edizione locale del Corriere della Sera. Comincia a credere che Hemingway avesse ragione quando affermava che “la metà degli italiani scrive e l’altra
metà non legge”.
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Come secondo lavoro, Simone Rossi scrive di musica,
teatro e amenità varie per un noto quotidiano romagnolo. Il primo lavoro lo sta cercando. Nel frattempo,
una volta, è stato in Etiopia. Il viaggetto è diventato un
libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Stonatuccio musicista da marciapiede, suona l’ukulele e ha
un gatto di nome Chomsky. Tende a scrivere sui muri
palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et
consumimur igni.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in
accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo
l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per
esperto di nanotecnologie.
Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma
è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto
a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro.
Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non
legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai
andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed
é bellissimo.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/
fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del
portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media
di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di
film e serie televisive americane.
Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini.
Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del
non voler dire nulla.
Sara Reali, puoi trovarla in mezzo al pubblico di un
concerto, dove tutti sono inevitabilmente molto più alti
di lei, ma non le importa: adora emozionarsi per due accordi ed una voce calda quanto per un bel film visto in
compagnia. Se non esce la sera, è perchè sta leggendo
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numero 4 - Finzioni