n.4 2 The Godfather Michel Houellebecq di JACOPO CIRILLO M agritte diceva che i titoli non sono spiegazioni dei quadri e i quadri non sono illustrazioni dei titoli. E che la rivelazione tra titolo e quadro è poetica.Allora tra il quadro e il titolo non c’è relazione ma rivelazione, quindi qualcosa che qualcuno deve scoprire per tutti; questa rivelazione (contribuisce a) costituisce e fonda la poetica dell’artista. Estensione del dominio della lotta è un bel titolo. Si riferisce al primo romanzo di Michel Houellebecq (Bompiani 2001, 152 p., 7 euro) e non lo spiega, come il libro non illustra il titolo. Anzi, tutto il contrario. Estensione del dominio della lotta come dire che prima si lottava solo per la sopravvivenza mentre adesso si lotta per molte più cose: il lavoro, l’amore, il sesso eccetera. I motivi per cui si combatte, ma non ciò per cui ne vale la pena, aumentano sempre di più. Il libro però non parla di uno che lotta con il coltello tra i denti, facendosi largo in questa società frenetica; non parla nemmeno di uno che non lotta o che non si rende conto di questo fenomeno, altrimenti la relazione, seppur inversa, sarebbe tale e non da rivelare. Il libro parla di un trentenne depresso che incarna il manifesto della non-vita, dell’indifferenza, della noia che, come dicono i signori della Bompiani, “è capace di segnare la generazione contemporanea come Lo straniero di Camus segnò i giovani del dopoguerra”. Il protagonista si rende perfettamente conto di quanto il dominio della lotta si stia estendendo. Solo che non gliene frega niente. E’ fuori dal mondo non perché non lo capisce ma perché lo capisce troppo. E sa che per chi non ha scopo, non ci può essere ontologicamente posto. Eccolo qua il manifesto che segnerà una generazione. La poetica di Houellebecq è tutta qui ed emerge dal rapporto tra un titolo e un libro che non tanto lo sconfessa quanto lo costeggia. La poetica come insieme strutturato degli intenti espressivo-contenutistici di un autore fa prima di tutto riferimento al suo metalinguaggio, che sembra un parolone ma in realtà è un concetto divertentissimo e, a volte, anche molto utile. La prima cosa da fare quando si entra in un ambiente nuovo infatti, è imparare il metalinguaggio. Il gergo. Succede a scuola, succede al lavoro, succede negli spogliatoi delle palestre. A scuola permette di non essere bocciati; al lavoro di non essere licenziati. Alle feste evita di fare da tappezzeria e negli spogliatoi delle palestre di essere presi a calci in culo (provate voi a parlare di libri, lì). Houellebecq è uno scrittore molto dotto – lo dimostra disseminando alte dissertazioni metafisiche e scientifiche in tutti i suoi libri. Nelle Particelle elementari (Bompiani 2000, 316 p., 10 euro) però, usa largamente il turpiloquio parlando essenzialmente di sesso. Lo usa nella sua accezione distensiva, per calmierare il terribile passato di Bruno, ma soprattutto perché, per parlare dello scopare e delle sue fottute devianze, bisogna usare il metalinguaggio adeguato. Cazzo. 3 Sommario La citazione del mese Beaten Beatitude Nobel minori Letterature Involontarie Punizioni! Biografie Edulcorate Sui labirinti L’angolo del cinematografo Viaggi Oh, Scena! Il Cruciverboso 5 6 7 8 10 11 12 13 14 15 16 Charlie VS Proust Déjà lu Pillole di Scienza Il demone della coscienza Scheda Libro I ferri del mestiere La posta dei lettori Le città letterarie Ghost World Iperboloser Contributi da 19 20 21 22 23 24 25 27 28 29 30 Editoriale Q uasi quattrocento definizioni, tutte verbosissime. Quattro pagine verbosamente occupate. Molte parole dal significato oscuro, altre semplicemente inesistenti. Cruciverboso: benvenuti nel paese dei balocchi. incredibile Michele Marcon, il cruciverboso appunto. Pensate, risolverlo è talmente difficile che noi di Finzioni mettiamo in palio i numeri 5, 6, 7 e 8 aggratis spediti direttamente a casa di chi riuscirà a mandarci le soluzioni entro il 15 settembre alla mail redazione@ finzionimagazine.it. E benvenuti su Finzioni numero quattro, il numero estivo. Sul nostro sito finzionimagazine.it potete trovare i consigli di tutta la redazione sui libri da leggere quest’estate e una giusta crociata contro i topi da biblioteca e a favore dei topi da ombrellone. La migliore lettura per luglio e agosto comunque rimane Finzioni, con gradite conferme - le città letterarie e il demone della coscienza - e simpatici ospiti - Rosanna Lambertucci. Ma soprattutto quel mastodonte a p. 16 prodotto dal nostro Buona estate a tutti, ci rivediamo a settembre con le risposte al cruciverboso (ma il sito non si ferma mai, eh) e abaso la leteratura! La redazione 4 L a proposizione può rappresentare la realtà tutta. […] Ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare – la forma logica. […] La proposizione non può rappresentare la forma logica; questa si rispecchia in quella. Ciò, che nel linguaggio rispecchia, il linguaggio non può rappresentare. Ciò che nel linguaggio esprime sé, noi non possiamo esprimere mediante il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà. Lodovico Wittgenstein La citazione del mese Flatlandia L uigi Pareyson, il maestro dichiarato di Umberto Eco, diceva che un grande pensatore ha la stessa idea per tutta la vita e non fa altro che ripeterla, pur declinandola nelle diverse sue opere. È vero, non è vero, è una provocazione? Non lo so e, francamente, non è finzionamente interessante. La cosa interessante è vedere come si può dire la stessa cosa in modi differenti e, soprattutto, quanto possono essere differenti, questi modi. Wittgenstein parlava di forma logica, spiegandola in modo talmente verboso che piuttosto bastava dire così: consideriamo queste due frasi: la letteratura è noiosa e ogni articolo di Finzioni spacca. A primo acchito sembrano diverse (ed entrambe troppo giuste), tuttavia hanno qualcosa in comune: affermano che tutti gli individui di un certo tipo hanno una certa proprietà. Quella roba lì è la forma logica. Ecco, vedi che non era difficile. Edwin Abbott Abbott (pensare a corrispondenze con Humpty Dumpty è quasi obbligatorio) ha scritto un libro incredibile che si chiama Flatlandia. Racconto fantastico a di JACOPO CIRILLO più dimensioni (Adelphi 1993, 166 p., 8 euro). Racconta di un mondo a due dimensioni in cui gli abitanti non concepiscono l’idea di “altezza”, e non è che se ne fanno un gran problema. Poi un quadrato scopre un punto e una sfera e alla fine ne succedono delle belle. Ma la cosa incredibile di questo abate (pensare a corrispondenze con Lewis Carroll/rev. Dodgson è decisamente obbligatorio) è la sua capacità di declinare la stessa forma logica a 3 dimensioni in un mondo talmente diverso, talmente “inventato” in cui nessuno sembra soffrire particolarmente il fatto che non può volgere lo sguardo verso l’altro, visto che l’alto come concetto non esiste. una frase. O una pila di libri! Intanto riuscire a far finta di non concepire l’altezza e scrivere qualcosa di coerente e organico è quasi imbarazzante. Ma non è tanto questo, è più la trasposizione di certe parti di realtà del 1884 in un mondo altro talmente diverso da non mantenere neanche quasi lo stesso linguaggio. Come si fa, infatti, a parlare la stessa lingua se si è totalmente privi di un concetto cardine come “altezza”? Non si può nemmeno concepire una bocca che articola Ci restano donne-linea che, se viste dagli uomini-poligoni di taglio, divengono praticamente invisibili, dunque poco considerate e considerabili; ci restano donneacuminate (per forza, sono linee rette) che per evitare di ferire i passanti devono far oscillare il posteriore, così da essere riconosciute ed evitate. Inutili e sculettanti. 5 L’assurda impossibilità di una trasposizione però va a farsi friggere, grazie alla forma logica. Un solo esempio sennò diventa noioso: le donne. Ai tempi del reverendo (che peraltro dovrebbe anche averne frequentate pochine) il femminismo non aveva nemmeno iniziato le sue battaglie e le donne erano mogli, madri e poco considerate. Se prendiamo le frasi, molto ottocentesche: le donne sono inferiori e le donne sono brave sono a sculettare, ci indigniamo per la loro anacronisticità e stupidità e le buttiamo in un mondo con una dimensione in meno, che ci resta? La forma logica non guarda in faccia a nessuno. Beaten Beatitude Howl di JACOPO DONATI G li eroi sono belli, forti e invulnerabili. E sono pure dannati. Gli eroi della beat generation erano soprattutto dannati, non proprio belli e, come Ginsberg ci mostrò, vulnerabili come non mai. Lo fece nella sua poesia più celebre, Howl. Tanto celebre che, se la maggior parte dei poeti muore di fame per le poche copie vendute, Ginsberg è subito famoso e il suo libro diviene un distintivo portato con fierezza in mano da molti giovani. Urlo e altre poesie non ha vita facile: viene pubblicato in Inghilterra e importato in America; poi, per i contenuti, viene bloccato alla dogana e la casa editrice di un altro beat, Ferlinghetti, lo ripubblica. Come è successo con tanti libri simili, segue un processo per oscenità dal quale Urlo e altre poesie viene scagionato in quanto opera d’arte. A differenza di altri autori che scrivevano soprattutto prosa e di rado qualche poesia, Ginsberg fa il contrario e scrive soprattutto poesia e poca prosa. Diventa il Kerouac della poesia e in comune vi è anche la fama che troppo in fretta li assedia. Troppo in fretta perché presto, Ginsberg, si trova circondato da scimmiottatori che oggi chiameremmo poser e che all’epoca andavano sotto il nome di beatnik. Allora Ginsberg prende l’unica decisione saggia: in una San Francisco improvvisamente invasa da finti bohémien dai capelli lunghi e dalle barbe folte, lui si taglia barba e capelli e comincia a vagare per il mondo, soprattutto in India. Non poteva restare nella sua America, in quella nazione la cui allucinazione economica l’aveva coperto di critiche prima e di impostori dopo. Gli americani sono un popolo strano: pervasi da un patriottismo incredibile, si dicono fieri di essere nati in America anche quando i governi prendono brutte strade e si macchiano di errori indelebili. La critica all’America contenuta in Howl è terribile, eppure Ginsberg continua ad essere un fiero americano. Lui non detesta gli Stati Uniti, ma la piega che sta prendendo, la corruzione in cui affonda le proprie gambe. È un percorso lungo quello che porta a Ginsberg, percorso che ha visto passarsi il testimone Whitman, Emerson, Thoreau. Perché vi è una tirannia in atto, una tirannia non politica e per questo più pericolosa, la tirannia sulla mente dell’uomo a cui Thomas Jefferson dichiarò guerra e che Ginsberg portò avanti. È un testimone pesante questo che si porta dietro la beat generation per intero. Perché è questo ciò di cui parla Ginsberg in Howl. Della sete di beni materiali che ci ha reso schiavi del denaro, più omologati di sempre ma, incredibilmente, meno uguali che mai; dei valori reali persi seguendo la pubblicità martellante e di quelli falsi portati da ciò che, 10 anni dopo, Paul Simon e Art Garfunkel avrebbero chiamato neon god in The sound of silence: la tecnologia. In Italia le edizioni sono molte, ognuna con qualcosa in più e qual- 6 cosa in meno. Una tra queste è edito da Guanda e si intitola Jukebox all’idrogeno. Racchiude in sé i tre libri principali di Ginsberg (Urlo e altre poesie, Kaddish e altre poesie, Gli agnelli d’America) e ha il pregio del testo a fronte. Non solo, ha anche l’onore di una splendida introduzione lunga 78 pagine firmata da Fernanda Pivano, che pure traduce tutte le poesie. Il nome della Pivano sulla copertina di un libro della beat generation è una garanzia. Grazie a lei ci sono pervenuti tanti particolari che ci permettono di inquadrare Ginsberg come il grande poeta che fu. Per Ginsberg i beat erano gli agnelli d’America, gli innocenti di fronte ad un mondo corrotto e meschino; solo se si è agnelli si può, sei anni dopo il processo per oscenità, chiedersi: “Davvero sono stato attaccato per questa specie di gioia?” Nobel Minori “Un’arma in casa” di Nadine Gordimer di VIVIANA LISANTI I n qualità di lettrice trovo fastidioso un romanzo che, in maniera più o meno esplicita, cerchi di inculcarmi precetti morali, di fare propaganda o critica sociale. Molta narrativa nasce dall’urgenza di denunciare una determinata situazione sociale o politica e altrettanta risente inevitabilmente del contesto nel quale è stata creata. Ciò non toglie che uno scrittore dovrebbe principalmente sapere scrivere e l’unico intento ad animarlo dovrebbe essere quello di raccontare una storia, aperta alle mille possibilità della lettura, non delimitata dai rigidi confini delle prese di posizione personali. Le convinzioni, le requisitorie, i finali già scritti, fanno parte della narrativa noiosa, quella che si farebbe meglio ad accantonare per leggere un saggio di sociologia, un manuale di storia o un pamphlet politico. La letteratura appassionante e godibile è sempre quella che, per dirla con Nadine Gordimer, “privilegia l’individuo alla Storia” o, meglio ancora, parte dall’individuo per approdare alla Storia. Un arma in casa ( Feltrinelli, 266 pp., € 16.53) segue questa direzione. Parlando della costruzione del romanzo, Gordimer ha affermato di essere partita dall’idea di affrontare una problematica collettiva come quella della “responsabilità dell’amore”, attraverso la storia privata di una coppia, e solo nel bel mezzo del processo di scrittura, si sarebbe resa conto di quanto gli eventi narrati fossero strettamente connessi all’ambiente sociale sul quale la storia si innesta, il Sudafrica del post-apartheid. La trama si focalizza sulle dinamiche psicologiche che scattano all’interno di una coppia di genitori nel momento in cui viene loro comunicato che il figlio è imputato di omicidio. Lo svolgimento del romanzo va di pari passo con il processo a carico del giovane, Duncan, che parallelamente è un processo interiore a cui i genitori si sottopongono, nel tentativo di trovare una spiegazione ad un gesto estraneo alla loro morale e alla morale che pensano di aver trasmesso al figlio. Uno sfiancante viaggio a ritroso, che fra recriminazioni e sensi di colpa, mette a dura prova il rapporto tra i coniugi ma anche l’amore verso un figlio che non si riconosce più. Il delitto, commesso da Duncan ai danni dell’amico e coinquilino, è effettuato con “l’arma di casa”, una pistola di proprietà comune ai ragazzi, custodita nell’abitazione a scopo difensivo. Il fatto che la pistola il giorno dell’omicidio si trovi su un tavolo in salotto, tra un pacchetto di sigarette e un bicchiere di vodka, a portata di chiunque entri, innesca una riflessione ulteriore sulla facilità con cui, in un paese come il Sudafrica, a pochi anni dall’abolizione ufficiale dell’apartheid, sia facile procurasi una pistola e sparare; su come la violenza sia parte di un processo di transizione da regime a democrazia che 7 il Paese sta attraversando. Le remore nutrite dai genitori nell’affidare la difesa del figlio ad un avvocato rispettabile ma di pelle nera, riflettono la difficoltà di estirpare il razzismo non solo dalla Costituzione ma dalla testa delle persone. Un’arma in casa è la dimostrazione di come una storia intima può testimoniare problemi di portata nazionale e mondiale, senza tralasciare l’importanza del valore del romanzo come opera d’arte a sé. Sopra: Alfred Nobel con orecchie d’asino Letterature involontarie Il fracasso di Fracàssia, ovvero di come ti azzittisco i passanti (e i Postmodernisti!) di EDOARDO LUCATTI D iciamo che sei un etnosemiotico. Diciamo che sappiamo cosa questo significhi, anche se non è vero. Diciamo che un sindaco ti chiama perché gli serve la tua consulenza. Diciamo che ti viene esposto il problema di una città, una benestante città di pianura, di cui quel sindaco – ovviamente – è sindaco. Questo problema è il Rumore, dice il primo cittadino. In città non si vive più e ci vuole una soluzione. Anche etnosemiotica, se serve. Diciamo allora che prendi il tuo bel trenino e raggiungi questa città, che chiameremo Fracàssia. E lì – diciamo - scopri la verità. Il rumore non c’è. Non si sente. Zero. Il più completo, monastico e pedonale silenzio. Diciamo che ne chiedi conto al sindaco. Diciamo che il sindaco rimane sbigottito dalle tue parole e ti fa notare che aprendo le finestre si odono le persone che parlano. Le persone, ok? Le persone che parlano fra loro. Ecco il rumore di Fracàssia. Il fracasso di Fracàssia è la società che socializza. Quello che tu devi risolvere. Ebbene, potresti sterminare la popolazione del centro, ma diciamo che non sei un nazista. Potresti recidere le corde vocali a tutti quelli che superino il tetto delle quindici parole al giorno, ma diciamo che non sei un chirurgo. Potresti multare chi parla, ma diciamo che non sei un vigile. Potresti dire al sindaco di farsi curare, perché è del tutto normale che in una città le persone parlino fra loro. Potresti, insomma, rifiutare il lavoro, ma – voglio dire - sei un umanista: ogni lavoro è buono. C’è una sola cosa che puoi veramente fare: avere un’idea più malata di quella del sindaco, dargli corda e risolvere davvero il problema. Come? Diciamo che sulle case rivolte verso la piazza appendi ingegnosi apparecchi che emettono un leggero brusio di fondo, il cui volume varia in rapporto a ciò che accade in piazza. La faccenda funziona così: non appena qualcuno apre bocca, il brusio aumenta, ma da principio è quasi impossibile accorgersene. Quante più persone parlano, tanto più il brusio si rende percepibile. Se qualcuno alza la voce, il brusio diventa suono, au- 8 menta fino a coprire la voce stessa e – al limite - impedisce la conversazione. Se poi uno urla per farsi sentire lo stesso, il suono diventa una sirena, sovrasta ogni voce e per intendersi non rimangano che gesti e contrazioni del viso. Dopo un po’, diciamo, il cittadino capisce: se vuole conversare deve farlo a bassa voce, altrimenti sarà costretto a gareggiare con un sistema di altoparlanti incrociati che ne umilieranno puntualmente le prestazioni. In questo modo si evita che la gente gridi da una parte all’altra della piazza. Hai visto qualcuno e gli vuoi parlare? Lo raggiungi e gli parli solo quando ce l’hai a un metro. Se no parte la sirena e tutto il resto della piazza ti odierà per questo. Ricordate i commilitoni del soldato Palla di Lardo – costretti a fare flessioni ogni volta che il loro pingue compagno veniva sorpreso a mangiare di nascosto? Ecco, declinatelo in termini urbanistici e ci siamo. Ora: diciamo che tutto ciò è completamente folle. Lucido e folle. E siamo d’accordo. Ma diciamo anche un’altra cosa. Diciamo cioè che tutto questo è vero: che quell’etnosemiotico – qualunque cosa significhi – esiste, che io – miei cari lettori – ho il piacere di conoscerlo personalmente – e che questo progetto, da un momento all’altro, potrebbe perfino essere approvato. Perché quella città, che non si chiama Fracàssia, esiste davvero. Esiste anche, e purtroppo, una certa segretezza attorno alla vicenda e ragioni di ordine legale mi impongono di essere piuttosto parco nei dettagli. Ma due cose ve lo posso dire. La prima: mai e poi mai vivrei in una città che mi impedisce di sclerare. Ho un innato e periodico bisogno di urlare e non ho nessuna intenzione di farmi redarguire da un sistema di altoparlanti incrociati. La seconda: spero con tutto il cuore che il progetto venga approvato e realizzato. Un po’ perché esso – converrete con me - è del tutto geniale, e il genio va premiato “a prescindere”. Un po’ perché un’esperienza di questo tipo sarebbe le cesoia in grado di staccare interi vagoni di cazzari postmodernisti dalla locomotiva della storia del pensiero, lasciandoli dove meritano di stare: in un punto morto. Non tutti i postmodernisti sono cazzari, ma è vero che un alto numero di cazzari sono postmodernisti, il che significa che nella repubblica di Cazzària, nel parlamento dei Cazzari, la maggioranza è postmodernista. È una maggioranza chiassosa, che va ripetendo da anni alcune false e trite banalità. La più grande di queste banalità è quella in nome della quale bisognerebbe “smettere di odiare il presente” (Maffesoli 1990; trad. it. 91) e affrancarsi così dalla logica del dover-essere, cioè da quell’atteggiamento che assume l’esistente – “infame” secondo Lukàs – come qualcosa da riprogettare razionalmente, da eccedere e trasformare in nome di un ideale. Ora, che questo pensiero ci avesse un po’ rotto le palle è vero. Pensare sempre nei termini di un al di là (teologico, politico, morale), dimenticandosi che in fin dei conti si sta qua, radicati nei propri peti, coiti e rutti è un po’ come fare finta di Essere senza esserci, di incarnare un’idea senza più essere carne. Ma di qui a sostenere che ciò di cui abbiamo bisogno è una cultura “perfettamente amorale,… fondata sul piacere e sul desiderio di stare insieme senza uno scopo particolare e senza un obiettivo specifico” (ivi, 49), bè, c’è un bel po’ di strada, la stessa – per intenderci – che dall’insufficienza della geometria euclidea avrebbe condotto al rigetto della geometria e non – come per fortuna è accaduto – alla scoperta di geometrie altre, non euclidee appunto. È il proprio delle cose di questo mondo, di questo-mondo-qui in cui puzziamo quando fa caldo, il risultare in qualcos’altro, il continuo trasferirsi, tradursi e trasformarsi, secondo processi che possiamo solo decidere di subire oppure – sarà meglio - di provare a gestire. Chi contrappone la congiunzione sensualistica alla separazione razionalistica, chi denuncia “dottrine ascetiche che privilegiano il processo cognitivo a scapito della vita dei sensi” (ivi, 63), ignora il fatto che sono i sensi stessi – per primi – a non poter fare a meno di traguardare la propria attività, a non funzionare se non in vista di un accordo con ciò che viene dopo e che, in questo modo, fa il loro presente. Provate a pensare a quando tendete il braccio verso una maniglia, per aprire una porta: in quel momento state già educando il tono muscolare della vostra mano alla consistenza che supponete propria della porta, importando quindi il vostro prossimo futuro nella vostra attuale coordinazione, lasciando insomma che il “dopo” faccia il presente. La trasformazione è quindi condizione inemendabile, costante, che investe in egual misura il cognitivo e il sensibile, facendoli spesso rifluire l’uno nell’altro. Ed è così, ad esempio, che funziona la nuova politica acustica di Fracàssia, nella quale il dover-essere non eccede la modulazione sensoriale in cui e di cui, anzi, si costituisce. Una città dove la politica diventa questione di volumi, ma non perché li decida a monte o li sanzioni a valle, bensì perché emerge dal loro incessante regolarsi, avvicinando ogni voce alla gestione sensibile del proprio al di là. Una città dove tutto questo – poderosa e geniale follia - potrebbe accadere davvero. 9 Verboso metro 20 15 10 5 0 Ritaglia il verb osomet ro e attaccalo sulla schien a del tuo amico verbos o Punizioni! Verboso metro L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e l’avvolvere. Da 0 a 5 espressioni verbose. Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire. Da 5 a 10 espressioni verbose. Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana. Da 10 a 15 espressioni verbose. Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa. Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa. Più di 20 espressioni verbose. Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo. Il viaggio dimagrante di Rosanna Lambertucci di ALESSANDRO POLLINI I naugurando Punizioni!, Matteo Bettoli racconta dell’amico che giustifica la frequentazione di ragazze brutte con argomentazioni empiriche e freudiane, laddove si pone una contrapposizione tra il principio di piacere e quello di realtà, ovvero “ci vado con una brutta o no? Se ci vado, dopo mi piaceranno di più le belle”. Vi possono essere anche altre argomentazioni per frequentare ragazze brutte, laddove la percezione della bruttezza del partner é percepita dallo stesso amante piuttosto che dagli amici, per i quali, si sa, le ragazze più belle sono sempre le proprie, a discapito del detto secondo il quale l’erba del vicino é sempre più verde. Questo si traduce nella seconda argomentazione, secondo la quale il partner “però è bello dentro”. Tutto questo per dire che ho letto un libro bello dentro per essere belli fuori: Il viaggio dimagrante di Rosanna Lambertucci (Mondadori, 174 pp. 17 euro). Il libro di Rosanna Lambertucci é un manuale sull’alimentazione, con la descrizione accurata di un «nuovo metodo per perdere peso in 6 settimane + 1», e diverse parti autobiografiche per rendere più umano il percorso di dimagrimento permettendo al lettore, nel contempo, di conoscere l’autrice. Tutto inizia proprio con un amarcord dell’autrice, che ripercorre gli anni dell’infanzia a scuola, i momenti dolorosi della propria vita, 10 la sua crescita personale e professionale. Nella parte successiva del libro é esposto in forma di diario cosa mangiare, come mangiarlo, e quando mangiarlo nelle sette settimane a seguire. Infine, in un tripudio di verdure, frutta, pesce e carni magre, sono descritte tutte le ricette. Il viaggio dimagrante si conclude con una riflessione dell’autrice sul rapporto tra bellezza interiore ed esteriore e su come non si possa ricercare l’una escludendo l’altra. Quando tutto sembra pronto per una scontata citazione del tipo “mens sana in corpore sano”, sbuca invece a sorpresa che «l’essenziale é invisibile agli occhi» innovativa ed inconsueta citazione da Il Piccolo Principe. «Dimagrire é un po’ come fare un viaggio» e sulla base di questa filosofia si articola il manualediario autobiografico. Un viaggio in tempo per la prova costume per chiunque abbia acquistato il libro prima dell’arrivo dell’estate. Per tutti gli altri, in tempo per tornare sulla strada del benessere psicofisico, dimagriti e felici. Non nascondo però che un pensiero cinico ha velato al termine della lettura i miei buoni propositi di dimagrimento. In termini di viaggi dimagranti, chi di voi ha letto Sopravvissuti? Biografie edulcorate Hunter Thompson di ANDREA MEREGALLI N o Gonzo! No! Io non voglio scrivere questa biografia edulcorata in acido! Voglio restare pulito! Tu sei Hunter Stockton Thompson, sei un idolo! Un fottutissimo fattone-colto-anticonformista-stempiato-fumatore-sceriffo-alcolizzato-politico-genio-anti Nixon-giornalista gonzo! Nato a Louisville nel 1937 e cresciuto criminale. Come sfuggire al carcere? Facile. Arruoliamoci in aviazione! Dopo varie ed eventuali finisci finalmente in una redazione giornalistica. Di cosa ti occupavi, Gonzo? Di sport? Certo che sì. Almeno fino alla fine dei gloriosi anni Sessanta. Prima di Rolling Stone. E della venuta dello stile gonzo. Che colpo! Io, e non solo io, ti devo dire grazie. Per lo stile. Per la faccia come il culo. Per l’elogio e per la cura del dettaglio. L’oggettività come finzione. E così è sempre stato. Precursore che non sei altro! Nel 1971 pubblichi a puntate, sulla pietra che rotola, uno dei libri più belli che possano capitare tra le mani di un uomo. O di una donna. Dai. Diciamolo tutti insieme: Paura e disgusto a Las Vegas! Che bello. Penso di non aver mai letto dei dialoghi così. Così divertenti e nel contempo così distaccati da una realtà proporzionalmente disastrosa. La ricerca del sogno americano. Che genialata! Negli anni immediatamente successivi ci dai dentro. Cerchi di incularti Nixon. In Italia lo pubblicano come: Meglio del sesso, i mil- le modi per eleggere un presidente USA. Tu stesso lo hai detto: “Non si può essere oggettivi su Nixon”. Appena dopo presenti Hell’s Angels. Inchiesta interna sulla banda di motociclisti più pericolosa di sempre. Infiltrato in mezzo a quei bestioni cattivi e ubriachi e ignoranti e stupratori. L’hai sfangata. Anche se una volta, a dire il vero, le hai prese di santa ragione. Ma tant’è. Seguono comizi, articoli e libri. In Italia un paio di anni fa pubblicano Cronache del rum. Dove torni un giovane giornalista a Portorico. E bevi e bevi e bevi. E sei già disilluso nonostante i ventidue anni che avevi quando lo hai scritto. Molto fico. L’anno scorso, infine, Baldini Castoldi Dalai propone Screwjack, tre racconti per un libricino piccino piccino. Si evince che qui in Italia ti hanno cagato davvero in pochi. Perché hai scritto molto di più. Almeno una dozzina di libri. Pochi romanzi, purtroppo. Ma molti reportage da giornalista (gonzo) di razza pura. Stavi lavorando anche quando te ne sei andato. Che beffa. Un appassionato di armi da fuoco come te. Era il febbraio del 2005 e i giornali parlavano di suicidio. Ufficialmente lo è. Suicidio. Ma io, ci credo poco. Paul Roberts, il tuo grande amico, dice che ti hanno sparato. Per via di certe indagini che stavi portando avanti riguardo gli attentati dell’11 settembre 2001. Eri al telefono con tua moglie e ti hanno/ 11 sei seccato. Peccato. Hai chiesto che le tue ceneri venissero sparate con un cannone verso il cielo del Colorado. Quindi, un certo Johnny Depp, che nella vita fa l’attore molto cool e che è stato un tuo grande amico e ammiratore, organizza una mega festa ed esaudisce questo desiderio gonzo. Parliamoci chiaro, Hunter. Hai cambiato certi equilibri. Hai scritto Paura e disgusto e già questo ti pone di diritto nell’olimpo dei tosti. Non hai avuto paura. Hai provato qualsiasi tipo di droga eccetto, forse, l’eroina. Hai descritto e sperimentato. Hai cambiato e criticato. Hai rischiato. “Some of the truth that doesn’t get written is a lot more twisted than any of my fantasies”. R.I.P. Dr. Gonzo. “E ra tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente.” alta, votato a metter simbolicamente alla prova la distanza infinita del quaggiù e del lassù. Ma K. viene da un terzo mondo. E’ doppiamente e triplamente straniero, straniero all’estraneità del castello, straniero a quella del villaggio e straniero a sé stesso poiché in maniera incomprensibile decide di rompere con le sue origini come attratto verso quei luoghi tuttavia senza attrazione per un’esigenza inspiegabile. Si sarebbe tentati di dire che tutto il senso del libro si trova già in quel primo paragrafo, dove il ponte di legno porta dalla strada maestra al villaggio e su cui “K. restò a lungo Di letterature labirintiche ne sapeva qualcosa Kafka, maestro del frammento. Il labirinto, e i concetti ch’esso comporta, sono allora buoni interpretanti de Il Castello kafkiano. Opera incompiuta, concepita idealmente proprio nella sua incompiutezza. L’agrimensore K. (la cui K. rinvia a Joseph K. e a Franz Kafka, naturalmente) si trova di fronte alla “beffa di dover cartografare un terreno non cartografabile” come sostiene il nostro Jacopo Cirillo. Sappiamo che per definizione il labirinto non é rappresentabile: in quanto concetto di MATTEO TRELEANI possederne la mappa significa poterne uscire. Inutile dire che il villaggio possiede le caratteristie guardò su, nel vuoto apparente”. che di un labirinto: l’agrimensore K. cerca nella nebbia il punto da K. percorre la strada che sembra cui dovrebbe comparire il Castelportare al Castello, ma senza suclo. Come sospeso tra due mondi, cesso. Il tentativo di raggiungere il non riesce a entrare in quello del centro del labirinto, ossia il CastelCastello che lo rifiuta pur avendolo, coincide con quello di poterlo lo chiamato poiché la sua logica è cartografare e dunque con il tentaquella della contemporanea netivo di uscirne. gazione/affermazione. Logica del meandro per eccellenza. D’altra parte, parafrasando Blanchot (Da Kafka a Kafka, FelIl vero labirinto, tuttavia, non é trinelli, 1983, 192 pagg. 6,20 €), si il villaggio ma il romanzo stesso. nota che l’invenzione decisiva, e Se il ritornare sui propri passi è un più enigmatica, non é il castello ma elemento portante di qualsiasi deil villaggio. Se K. fosse appartenudalo, Il Castello, sempre seguendo to al villaggio il suo ruolo sarebbe Blanchot, non è una serie di evenstato fin troppo chiaro, il suo persoti più o meno legati ma “una serie naggio trasparente risoluto a metsempre più estesa di versioni eseter fine alle ingiustizie della classe getiche che portano, alla fine, sul- la possibilità stessa di scrivere e interpretare Il Castello”. Romanzo meta discorsivo dunque che si basa sull’infinta ripetizione. Infinita in quanto incompiuta e dunque tendente all’illimitato, cosi’come un circolo, una spirale o un labirinto. D’altra parte Albert Camus, che nel Mito di Sisifo (Bompiani, pagg. euro) illumina Kafka con raro genio, ha giustamente notato che i romanzi kafkiani obbligano il lettore a rileggere. La mancanza di scioglimenti delle situazioni kafkiane, suggerisce al lettore certe spiegazioni che non sono mai esplicitamente confermate dal testo. Per apparire fondate richiedono allora che la storia sia riletta sotto un nuovo punto di vista. Un cambio di prospettiva, un modo per uscire dal labirinto. Sui labirinti Il Castello e il villaggio 12 Invischiato in una situazione senza apparente via d’uscita, K. persiste comunque nel voler entrare nel Castello. Come intrappolato nel suo stesso gioco (cosa che non puo’ non ricordare l’ingabbiamento di Dedalo nella sua stessa opera), K. non riesce a rendersi conto dell’assurda evidenza dei fatti. D’altra parte, ricorda Kafka nel brevissimo racconto, Un ponte, “un ponte, una volta costruito, non può cessare di essere un ponte senza precipitare”. L’angolo del cinematografo assistere a una presentazione Powerpoint di tutti gli indizi. Uomini che odiano le donne rimane comunque un thriller da vedere. Attenzione: se durante queste vacanze estive non avete voglia di tuffarvi nelle gelide acque del Baltico e preferite trascorrere una serata piacevole con gli amici, magari davanti ad una buona birra, non preoccupatevi, godetevi la compagnia, avrete sicuramente un’altra occasione per recuperare la visione del socalled “Evento cinematografico dell’anno”. Uomini che odiano le donne di JACOPO SGROI Antefatto Guardo gli orari della programmazione del film, scelgo la sala, mi organizzo con qualche amico e decido di andare a vedere Uomini che odiano le donne, il cui trailer promozionale recita: “E’ il libro culto più venduto al mondo. E’ il primo capitolo della saga Millennium. E’ l’evento cinematografico dell’anno.” Minchia! Si va! Misfatto Prima dell’inizio dello spettacolo, proprio davanti al cinema, io e i miei amici ci imbattiamo in una fantastica birreria belga. Decidiamo di assaggiare una meravigliosa birra trappista, poi un’altra e un’altra ancora… Il film è iniziato e noi siamo ancora lì a degustare… in breve: la serata si è trasformata in Uomini che amano la birra. Morale Amo andare al cinema con gli amici, condividere con loro idee, impressioni e giudizi. Se però la serata mi porta altrove, non esito a cambiare programma. Mai e poi mai potrei entrare in sala a spettacolo iniziato: il mio desiderio di andare al cinema deve rimanere saldo, e se qualcos’altro mi distrae allora significa che non sono pronto a godermi la proiezione. Il film Decido di provarci il giorno successivo e senza lasciarmi tentare da altro, prendo il biglietto, entro in sala e lascio fuori tutto il resto: 152 minuti, titoli di coda, fine. S ono tre le storie che si intrecciano: quella di Mikael Blomkvist, giornalista d’inchiesta sull’orlo del fallimento per una causa che lo vede incolpato di diffamazione, quella della hacker Lisbeth Salander, giovane punk ribelle, con alle spalle un passato difficile, e quella dei Vanger, una famiglia di potentissimi imprenditori svedesi, che per anni sono riusciti a nascondere sotto un’apparente normalità segreti e peccati inconfessabili. La misteriosa scomparsa di Harriet Vagner, nipote del magnate Henrik, chiamerà Mikael e Lisbeth a indagare insieme sul caso: il leitmotiv della narrazione è la violenza, subita e vendicata. Niels Arden Oplev non lascia quasi nulla all’immaginazione e ci mostra dolore, follia e crudeltà. A livello narrativo, Oplev è riuscito a dipanare la matassa in maniera molto chiara: i personaggi sono ben tratteggiati ed è difficile perdersi nella trama; tutti gli indizi sono svelati in una successione lineare. Forse è proprio questa semplicità a non avermi convinto del tutto. Pur non annoiandomi durante la visione, a volte alcune ripetizioni e dialoghi li ho percepiti come un po’ troppo didascalici; in certi momenti mi è sembrato di 13 UOMINI CHE ODIANO LE DONNE (Män som hatar kvinnor) di Niels Arden Oplev con Michael Nyqvist, Noomi Rapace, Sven-Bertil Taube - Svezia/Danimarca 2009 - Bim Distribuzione. Tratto dall’omonimo libro di Stieg Larsson, Marsilio , 2007, 676 p. «E l viento viene, el viento se va, por la frontera [...] El hambre viene, el hombre se va, cuando volvera, por la carretera» canta Manu Chao e cantavo io sul bus che in poche ore mi avrebbe fatto percorrere a ritroso il tragitto di più giorni a piedi riportandomi da Puente de la Reina a Pamplona. Certo nel delirio di un viaggio che vale un sogno non mi sarebbe potuto venire in mente neppure sforzandomi Onitsura, che a cavallo tra il milleseicento ed il millesettecento compone l’haiku «Fischiando/ il vento vaga nel cielo/ peonie di metà inverno». Mentre valuto come il paese del Sol Levante abbia esportato forme d’arte migliori della composizione di haiku -avrei proprio ora voglia di sushi- preferisco pensare al vento che spinge le navi nei porti di altri poeti. Dormono le navi dall’umore vagabondo nell’Invito al Viaggio di Charles Baudelaire, poesia tratta da I fiori del male. Il mondo si addormenta in una luce calda colorata di oro e di giacinto. Le navi vengono dall’altro capo del mondo per avverare ogni piccolo desiderio. Ritorno in Giappone con Il libro del vento, la graphic novel di Jiro Taniguchi e Kan Furuyama. Un tragico finale vuole che, mantenendo la spettacolarità delle storie di Samurai del periodo Edo, Yashamaro, non riuscendo ad applicare la tecnica del “vento contrario” contro Jubei, utilizzi la propria morte come strumento per la vittoria del duello. Una grande opera che tuttavia non può nulla contro lo splendore dei ventotto volumi di Lone Wolf and Cub, un capolavoro del fumetto che non merita certo la condanna ad un titolo, nella versione italiana, tanto bieco ed anglofono. Una morte ben più spettacolare attende Aureliano Babilonia nel romanzo capolavoro Gabriel García Márquez. «Il primo della stirpe é legato a un albero e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche». Cent’anni di solitudine é un’opera d’arte dove la prima folata di vento alla fine del libro sorprende anche noi, dall’altra parte della pagina. Porta le voci del passato, i sospiri di delusioni, le nostalgie. La seconda sradica la casa e porta la consapevolezza di una storia familiare che il lettore vede svolgersi per tutto il romanzo e che Aureliano legge nelle pergamene dello zingaro Me- Viaggi Il vento di ALESSANDRO POLLINI lquiades fino al momento, anche quello scritto nelle pergamene, di una morte accompagnata dal vento. Mi torna alla mente un libro semplice, meraviglioso e moralista che ho letto per la prima volta alle scuole elementari. Il Piccolo Principe deve prendersi cura della sua rosa sul piccolo pianeta dove vive. Il piccolo e noioso fiore non ha paura delle tigri, ma orrore delle correnti d’aria. Il Piccolo Principe, saggio e saputello, va in cerca di un paravento. Un mondo piccolo come un monolocale tradotto in più di centottanta lingue, per la gioia non solo di noi lettori, ma anche di Antoine de Saint-Exupéry e dei suoi eredi. Vagare spinti dal vento, por la carretera, o fermarsi a costruire paravento di fronte al caos? Quanta noia, e che domande banali. Quanta pochezza di inventiva nel porsi tali questioni quando già si ha un lavoro e si sta bene attenti a non perderlo, diverso era porsi la 14 stessa domanda dieci o quindici anni fa. Quanta miseria, quanta paura giustificata di volare in alto. Non ci resta che la lettura e poco altro di fronte alla massificazione dei gusti e dei sapori, degli stili, della comunicazione. Non é il bar a salvarci, non é lo sfogo sessuale dell’atto motorio dell’accoppiamento. Soffia il vento e noi ne siamo traspostati, senza possibilità di opporci. Ogni tanto, persi in questa brezza costante e stanca, troviamo un poco di quiete. Allora possiamo rabbrividire alle parole di Henry Miller in Tropico del Cancro: «Il mondo é un cancro che si divora... penso a quando il grande silenzio scenderà su tutto e dappertutto; allora infine trionferà la musica. E quando tutto si sarà ritratto in grembo al tempo, tornerà il caos, e il caos é la partitura su cui é scritta la realtà. Tania, tu sei il mio caos. Ecco perché canto». Mi sono venuti in mente in questo articolo: Manu Chao - Clandestino (CD Virgin, 19,90 euro); Leonardo Vittorio Arena (a cura di) - Haiku (Rizzoli, 107 pp., 5,90 euro); Charles Baudelaire - I fiori del male (Garzanti, 347 pp. 8,50 euro); Jiro Taniguchi, Furuyama Kan - Il libro del vento (Panini, 226 pp. 12,50 euro); Kazuo Koike, Goseki Kojima - Lone Wolf and Cub (Panini, 28 volumi, cad. 320 pp. 5,50 euro); Gabriel García Márquez - Cent’anni di solitudine (Mondadori, 404 pp. 12 euro); Antoine de Saint-Exupéry - Il Piccolo Principe (Bompiani, 121 pp. 7,50 euro); Henry Miller - Tropico del Cancro (Mondadori, 382 pp. 9 euro) Oh, Scena! arriva solo per inquadrare questa scelta in un più grande disegno divino che blablabla: inutile. Ma, si sa, il deus ex machina alla fine di una tragedia greca è un po’ come l’esplosione alla fine di un film con Bruce Willis. Φιλοκτήτης [1] di SIMONE ROSSI Entra, trascinandosi, Filottete. Malvagio di razza di malvagi! Sacco di empietà! Tu, pessimo tra gli uomini! Tu, impudentissimo! Tu, esecrabile! Tu, incapace di alcunché di onesto e libero! Bentornati a Oh, Scena!, la rubrica che tratta i testi teatrali come se fossero libri, e che tratta Ulisse come meriterebbe di essere trattato: a calci in faccia. Perché Ulisse, diciamolo una volta per tutte e speriamo che Omero sia anche sordo, Ulisse, diciamolo, è un farabutto. Sofocle, almeno, lo dipinge così. E noi non ce la sentiamo proprio di contraddire Sofocle. Dice Ulisse: “Lo so bene, ragazzo, che tu per nascita e natura non sei fatto per dir menzogne e ordire trabocchetti. E tuttavia coraggio! E’ bello conquistare la vittoria! Ne avremo poi delle occasioni per dimostrarci giusti. Ma ora, per il breve spazio di un giorno, concediti a me per qualcosa di indegno. E poi, nel tempo futuro, guadagnati pure la fama del più pio dei mortali”. Il giovane e sprovveduto Neottolemo non ha colpa, è giovane e sprovveduto, e quando Ulisse ti dice “concediti a me per qualcosa di indegno” non puoi proprio tirarti indietro, no, nemmeno se sei il figlio di Achille (Neottolemo è il figlio di Achille). Siamo a Lemno, un sasso in mezzo al mar Egeo che gli ottimisti chiamano isola. Filottete non è ottimista: Ulisse l’ha confinato a Lemno perché il suo piede incancrenito puzza da far schifo, e la guerra di Troia non sta andando per niente bene, e averci nell’accampamento uno che si lamenta di continuo per il mal di piedi gli impedisce di leggere l’Arte della Guerra di Sun-Tzu in santa pace. Ma cosa sto facendo, sto raccontando la trama? La trama – irrilevante – vede Ulisse e Neottolemo prendere il mare e raggiungere la brulla Lemno, giacché l’indovino Eleno ha vaticinato: “mai e poi mai avrebbero distrutto la rocca di Pergamo se non avessero ricondotto tra loro quest’uomo persuadendolo con le parole e togliendolo dall’isola ove ora si trova” (la rocca di Pergamo sarebbe Troia). Perché Filottete, lo zoppo fetente lamentoso Filottete, è il tiratore con l’arco più veloce del West, e senza di lui la guerra non si vince. E siamo finalmente al punto della puntata, e il punto è una domanda: perché leggere nel 2009 una tragedia greca scritta nel 400 avanti Cristo, con tutti i cliché di una tragedia greca, in cui la gente parla come in un libro stampato e l’immedesimazione del lettore nei personaggi è pari a zero? Risposta: perché le dieci righe finali in cui Filottete dà l’addio all’isola di Lemno sono di una bellezza struggente, meglio dell’Addio ai Monti dei Promessi Sposi e, per l’appunto, molto più corte. Ecco, a questo punto vi è venuta una gran curiosità di leggerle. Perché, dunque, leggere una tragedia greca? Per curiosità. Sofocle – Filottete (Einaudi) Filottete, dai, torna a far la guerra con noi! No. Eddai! No. Per favore, Filottete! No. “Ferrea Necessità lo comanda”! No. Ok, allora ciao, rimani pure qui nel tuo buco di culo di isola, che poi con l’arco non sei ‘sto gran che, vieni Neottolemo, andiamo via. No, aspettate, vengo anch’io. Ah, la psicologia inversa. Appare dall’alto, circonfuso di luce, Eracle. Ta-dààà! Il deus ex machina. Il deus ex machina più inutile della storia della letteratura, giacché non c’è alcun conflitto da dirimere: Filottete ha già accettato di seguire quel farabutto di Ulisse: Eracle 15 [1] Qui dovrebbe esserci la traduzione. E invece, non c’è! Sorpresa! Il Cruciverboso 1 18 1. Yourcenar, scrittrice francese (iniziali) - 3. Leggendario sceriffo interpretato al cinema da Kevin Costner - 7. È comune a noi… e a Dickens - 12. La storia di Bastian e Atreyu - 18. La musica di Eminem 20. Blocca i Dubliners di Joyce - 22. Comune abbreviazione di matrice anglofona che indica il documento d’identità - 23. Sta per satellitare - 24. Uno dei Kennedy - 26. Genio malefico che inventa una macchina per riprodurre la realtà in un romanzo di Adolfo Bioy Casares 27. Famosa bibita… “per voi e per gli amici” - 31. Prefisso che sta per tutto, totale - 32. Ricardo, interprete in numerosi film di Manoel De Oliveira - 34. Storico club calcistico con sede a Ferrara che da anni milita nelle serie minori - 35. Uno dei film meno riusciti di Hitchcock, si dice che ne girò 5 finali, rimanendo in ogni caso insoddisfatto - 36. Il tamburo africano… dimezzato - 37. Tagliar i capelli a zero e palindromo involontario - 38. Fisico danese premio Nobel per la sua ricerca sulla struttura degli atomi - 39. Un tipo di sushi - 40. Prima di oggi e domani in un film di De Sica - 41. Confisso odontoiatrico relativo allo smalto dei denti - 42. L’autore di Addio alle armi (iniziali) - 43. Gravami, obblighi - 45. Alleanza Nazionale - 46. L’affermazione più usata - 47. Il “padre della fantascienza” - 51. La più piccola parte - 54. Il grande giornalista Montanelli - 56. Marca di laptop - 57. Sta tra Sharm e Sheikh - 59. La nazione che, da quel che si dice in giro, ci “mangerà i risi in testa” - 60. Niccolò, ex scrittore cannibale (iniziali) - 61. Istituto Europeo di Design - 62. Letteralmente scritto a mano - 65. Grido festoso che accompagna il torero 67. Il formato di compressione Advanced Audio Coding - 69. L’Iliade incompiuta - 71. La bocca ai tempi di Cicerone - 72. Regina della disco music anni ’70… ma solo d’“estate”! - 74. Popolano la mente degli scrittori fantasy - 76. Semiologo francese citato da Guccini - 79. L’organizzazione armata che sostiene l’indipendentismo basco - 81. È acceso a Londra - 82. Indica l’anomalo, il diverso - 83. John, avventuriero scozzese che esplorò le terre artiche canadesi - 85. Secondo la Genesi generò Matusalemme, che generò Lamech, che generò Noè… - 87. Accompagna il gol allo stadio - 89. Variante eufonica di una preposizione - 91. Indica il tritolo - 93. Filosofo empirista strenuo sostenitore della rivoluzione scientifica - 95. Andata e Ritorno - 96. Filosofo in cammino - 98. Mars Reconnaissance Orbiter, sonda spaziale della NASA - 99. L’extraterrestre di Spielberg - 100. Malattia degenerativa del sistema nervoso che colpisce frequentemente gli atleti - 101. Associazione Sportiva - 102. La piaga dell’adolescenza - 104. Lo era un mambo di Serge Gainsbourg - 105. Famoso scrittore americano i cui testi vennero stravolti dal proprio editor (iniziali) - 107. Simbolo dello zeptocouloumb - 109. Mete senza inizio - 111. Sta con Kant secondo Eco - 113. Internet Protocol - 114. Tardiva nella maturazione - 117. Jonathan, autore de La banda dei brocchi - 118. Divinità che proteggeva la vegetazione il cui culto era diffuso presso i fenici - 119. Acerrimo nemico di Tex Willer - 120. World Record - 122. Filosofo islamico nato a Cordoba - 125. Ne è affetto… chi alza troppo il gomito - 126. Poeta inglese autore di The 16 3 19 24 di MICHELE MARCON ORIZZONTALI 2 4 20 25 32 33 45 46 37 41 54 55 61 67 68 69 76 77 82 87 88 96 99 105 106 107 113 114 119 125 130 137 138 141 146 147 153 154 159 160 161 167 174 175 181 187 194 188 182 5 6 7 8 9 10 11 12 13 21 27 34 28 29 30 36 40 42 43 49 50 56 57 62 51 58 63 70 53 59 60 65 72 73 78 79 83 90 84 91 92 44 52 64 71 93 66 74 85 81 86 94 95 98 100 101 109 110 115 102 120 122 127 128 132 133 143 124 129 134 135 136 144 149 145 150 151 155 156 162 157 163 168 169 164 170 171 177 158 165 166 173 179 180 184 190 152 172 178 183 195 123 140 148 189 118 121 139 176 104 112 117 126 142 103 111 116 131 75 80 97 108 17 31 39 48 16 23 35 38 47 15 22 26 89 14 191 185 192 196 193 197 17 186 Age of Anxiety - 129. Antonella, ex presentatrice de La prova del cuoco - 130. Profonda insenatura costiera formatasi per sommersione parziale da parte del mare di una preesistente valle fluviale - 131. I maturandi aspettano con ansia quello degli esami - 133. Formato di codice a barre utilizzato in Europa - 135. Fu uno degli Argonauti che meno si distinse per le proprie gesta - 137. Secondo Schopenhauer quello di Maya separa la parvenza dalla realtà - 139. Prima di Wu Ming fu… - 141. Brano che tocca il culmine del nichilismo degli Smashing Pumpkins - 143. Simulazione abbreviata - 144. Storico gruppo musicale pop svedese - 145. Romanzo e film con il demoniaco pagliaccio assassino - 146. Lunghissima suddivisione del tempo storico - 147. Insieme degli organi amministrativi centrali e periferici che governano la Chiesa - 149. Incapacità, derivata da turbe nervose, di esprimersi con i muscoli facciali e con gli arti - 152. Differenzia dall’hardcore la musica dei Codeine o dei Low - 153. Si firma così l’autrice (o autore) del caso editoriale Vampiretta - 154. Nell’antichità era il fiore sacro dei morti - 156. Sta in fondo al corridoio - 157. Nome di donna che unisce Boris Vian a Duke Ellington - 159. Monte che franando provocò il disastro del Vajont - 161. Hewitt, tennista australiano (iniziali) - 162. Il Flanders dei Simpson - 163. Passato remoto del verbo fingere - 165. Io sono, a New York - 167. Località o ubicazioni - 169. Importante etichetta discografica - 171. Balenìo di luce riflesso da uno specchio - 174. Fiume russo e prefisso al clero secolare - 175. Dottrina religiosa che predica un’esistenza di assoluta povertà - 179. L’ex Ente Nazionale Idrocarburi - 180. Nel bel mezzo del crollo - 181. Lettera scritta da certe gambe di donna - 183. Prima persona singolare del presente indicativo di tirare coniugato in forma riflessiva - 184. Il duo musicale francese che fa musica elettronica - 185. La prima rivoltella, dal nome dell’inventore - 187. Il tuttofare di Bukowski - 190. Figlio di Giuda che disperdeva il suo seme per terra e per questo fu punito da Dio - 192. Congenita o implicita - 194. Libidine, frenesia, fregola - 195. Congiunzione avversativa sussurrata da Galileo dopo l’atto di abiura - 196. Bisogno, necessità - 197. L’isola di Parigi VERTICALI 1. Mister abbreviato - 2. I paladini della giustizia che si oppongono al Trio Drombo in un anime giapponese degli anni ‘70 - 4. Ascoli Piceno - 5. Per gli induisti è il settimo avatar di Vishnu - 6. A favore - 7. Prima lettera dell’alfabeto ebraico, e non solo… - 8. Sottile pellicola di polietilene tereftalato, resina termoplastica adatta al contatto alimentare - 9. Isabella, scrittrice pulp italiana (iniziali) - 10. Espediente caro al postmodernismo (abbreviato) - 11. Tentate, azzardate - 13. Capolavoro di Borges che come un faro ci indica la via - 14. Quelle di Marzo furono letali a Giulio Cesare - 15. Linea che unisce tutti i luoghi aventi uguale temperatura nel mese più caldo - 16. I sandali alati calzati da Hermes - 17. Secondo il greco non si possono dividere - 19. Disposto normalmente rispetto al terreno - 21. Secco, inaridito… addirittura bruciato - 25. Era “nuovo” quello di Roosvelt - 28. La droga sintetica usata nel mondo nuovo di Aldous Huxley - 29. Società Per Azioni - 30. Una quercia a Central Park - 33. Insieme delle regole che governano la corretta accentazione dei versi - 37. Il Dio Sole dell’antico Egitto - 38. Il palazzo sede centrale dell’Università di Padova - 39. Il Teocoli comico - 40. Invernale per i poeti - 42. Scrittore francese autore de Le particelle elementari (iniziali) - 44. Il Rota compositore per i film di Fellini - 47. Il capitano che dà la caccia a Moby Dick - 48. 6 in lettere - 49. Fisiologicamente parlando, zona del corpo rifornita 18 di sangue attraverso la rete vasale - 50. Uva bianca pregiata diffusa nel Piacentino - 52. Immagini sacre dipinte su legno - 53. Ai lati d’Italia - 54. Mezza Italia - 55. Elvis lo era del rock - 56. Corrente del jazz nata negli anni ‘80 - 58. Ha per capitale Vientiane - 63. Eventi prodigiosi cari agli aruspici - 64. Movimento politico italiano di estrema destra (acronimo) - 66. Articolo determinativo spagnolo - 68. Di cognome fa Guthrie ed è un cantante folk statunitense - 70. Lega Nazionale Dilettanti - 73. Non ammette l’esistenza di un’entità soprannaturale trascendente e immanente il cui rapporto con l’essere umano viene chiamato religione - 75. Dario, ultimo premio Nobel per la letteratura italiano - 77. Patriarca della Bibbia che fuggì da Sodoma prima della distruzione della città - 78. Iniziali dell’Alajmo, scrittore italiano - 80. Aumentano col passare del tempo 82. Rifiutare, sdegnare - 84. Se non parlo… - 86. Kenzaburo, premio Nobel per la letteratura nel 1994 88. Scrittore turco autore di Istanbul (iniziali) - 89. L’arte dell’antica Roma - 90. Caro, beneamato - 92. Stressato, nervoso - 93. Lo erano le notti di Dostoevskij - 94. La regione abitata dagli hobbit - 95. Relativo ai ragni - 97. Cortile interno circondato da un porticato - 98. Rendere minore - 103. Il capitano interspaziale interpretato da Michael Jackson in un cortometraggio diretto da Francis Ford Coppola - 104. Dilatazione della pupilla - 106. Autore di Fight Club (iniziali) - 107. Gradevole brezza primaverile - 108. A detta di (quasi) tutti, l’attuale situazione economica - 110. La fine dei fratelli Coen - 112. Il fondatore del nuovo movimento religioso basato sulla credenza che gli alieni abbiano creato la vita sulla terra - 114. La metà di un best seller - 115. Capostipite della dinastia ottomana e primo sultano - 116. Attendere, aspettare… in inglese - 119. Sciagurata, afflitta da dolori e sventure - 121. Gorge Herman, detto Babe, fu il primo giocatore a battere 50 fuoricampo in una stagione nella MLB - 123. Si chiede quando si è commessa una colpa non grave - 124. Istruito, informato - 127. John, dall’omonimo film di Frank Capra - 128. Discorsi vaghi e poco comprensibili - 131. Mircea, scrittore rumeno esperto di storia delle religioni - 132. Cogito ergo… - 134. Era chiara quella di Vasco - 136. In chimica organica è un gruppo funzionale derivato dall’etano - 137. Il facondo epitetato con spregio - 138. Con J fa il marchio di Jennifer Lopez - 140. Colui che vaga senza meta - 141. Secondo Heidegger sta in coppia con Sein - 142. Scatto conclusivo in prossimità del traguardo - 143. Il monte su cui è costruita la città di Gerusalemme - 147. Ninfa che nascose al mondo Ulisse per dieci anni - 148. Simbolo chimico del rutherfordio - 149. Il Capone gangster - 150. Ragionamento capzioso che si fonda su artifici logici - 151. Il palazzo sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri - 152. La droga sintetica usata nel mondo nuovo di Aldous Huxley - 155. Pianta rampicante sempreverde - 158. Forma fissa della poesia medievale praticata dai trovatori - 160. Coloro che ostentano un atteggiamento sprezzante, indifferente, spesso considerato insensibile - 164. Ebay… così come si pronuncia! - 166. Cittadina sulla costa della Crimea dove fu deciso l’assetto politico internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale - 168. La tecnica narrativa di William S. Burroughs - 170. Importante stazione spaziale russa che rimase in orbita per più di dieci anni - 172. L’ultima offesa a Gesù Cristo - 173. Nick, attore americano - 174. La birra più amata da Homer Simpson - 176. In origine “pappone”, oggi “figo” nello slang - 177. Nella prima serie recitava Gorge Clooney - 178. La vecchietta del cartone animato che rimpicciolisce grazie a un cucchiaino magico - 182. Triacetato di cellulosa - 184. Il primo presidente fu Yasser Arafat (sigla) 185. Cansei de Ser Sexy, gruppo musicale electro-indie brasiliano - 186. L’olio per i motori delle gare americane di NASCAR - 188. Avanguardia Operaia - 189. La bevanda dei lord inglesi - 191. Aosta - 193. Né sì né no Charlie VS Joyce è sempre una questione di stile di CARLO ZUFFA E ro pronto, con un diario nuovo nuovo dove trascrivre la mia sfida con te, James! Pronto a rifarmi della debacle subita contro Marcel, ma dopo le prime dodici pagine stavo già sudando e vecchi incubi letterari mi tornavano alla mente! Citando Wikipedia, il tuo Ulisse viene considerato il libro più difficile da comprendere. Per alcuni è considerato addirittura “illeggibile” e sinceramente non me la sento di dare torto a Wikipedia. Quando pensavo di aver toccato il fondo con la Recherche arriva la famigerata pagina 12! Sono arrivato a pagina 12 e ora crederai che io sia il fenomeno da bar che dice di leggere mega-classici solo per farsene vanto con gli altri astanti... Bene, in effetti è così. Ma questa rubrica non si traformerà nel mio 8 e 1/2, dove non sapendo cosa scrivere cerco di occupare spazio scrivendo del mio non leggere. Quindi ora rimbocchiamoci le maniche... lo schematizzare l’intera narrazione, dividendo gli avvenimenti secondo l’orario in cui si svolgono e assegnare ad ognuno una precisa simbologia per rappresentarli, ma soprattutto uno diverso stile di narrazione. Li tratteremo uno a uno nei prossimi mesi, parlando di quel 16 Giugno 1904. Ricostruire e riambientare nell’arco di una giornata, trasportandola nella Dublino dei primi ‘900, un’epopea durata 3650 volte tanto, bisestili esclusi, ambientata nel Meditterraneo. Per di più un paio di millenni dopo. Ok, parliamone. James non credere che ti molli qui. Ora ti porto sotto l’ombrellone e ne riparliamo dopo le vacanze. Hai fatto un romanzo a tua detta pieno di enigmi e quasi impossibile da comprendere, orbene allora chi ti dice che anche questa mia disquisizione non lo possa essere... Parliamo appunto dello stile e del- 19 C hiacchierando di Rousseau, si diceva di come i suoi amori con donne molto più grandi avessero ispirato vivaci fantasie nella successiva letteratura. Non da ultimo Stendhal, nome ormai evocatore di svenimenti improvvisi, crolli di nervi e strapazzi di cuore di fronte alle magnificenze artistiche. Neanche a farlo apposta, HenriMarie Beyle, in arte Stendhal, nacque a Grenoble nel 1783 in una via che oggi si chiama…via Stendhal? No. Via Jean-Jacques Rousseau, per l’appunto. Ambizione militare e devozione divina? Esatto. La storia è di quelle che fin dall’inizio senti già come finirà. Da quando gli occhi si incrociano e le pelli si cercano, sai già cosa aspettarti. Ma si aspetta comunque volentieri. Poco importa se dopo circa 80 pagine iniziano solo a sfiorarsi le mani, tutto quello che resta in mezzo è una delizia di attese, particolari, delicate supposizioni. Non per nulla Nietzsche ha definito Stendhal come “l’ultimo degli psicologi francesi”. E d’altronde una storia che sia già detta nel suo stesso annun- in fondo le storie che girano sono sempre quelle: lo dice prendendo in giro i suoi impacciati amanti, che non sanno gestire le travolgenti emozioni che d’improvviso li assorbono fino a non sapere più cosa ne sarà di loro. A Parigi, sarebbe stato diverso. “A Parigi gli amori sono figli dei romanzi. Il giovane precettore e la sua timida amante avrebbero trovato in tre o quattro romanzi l’esempio chiaro di quale fosse la loro situazione: i romanzi avrebbero tracciato loro un ruolo da giocare, avrebbero mostrato loro un modello da imitare…ma in una piccola città di campagna tutto Déjà lu Il rosso e il nero è un romanzo rosa? di GRETA TRAVAGLIATI Lo pseudonimo Stendhal lo scelse in onore di Johann Winckelmann, fondatore dell’archeologia moderna nato a Stendhal, in Germania; decisione che lascia molto intendere riguardo la bislacca fantasia del nostro autore. Amava tanto l’Italia, in particolare la Certosa di Parma ed i sigari toscani, di cui era dotto estimatore. La sua tomba, a Montmartre, porta addirittura l’epitaffio “Henry Beyle milanese”; tra parentesi, mezzo coperto dalla muffa, appare anche lo pseudonimo Stendhal e per fortuna, altrimenti vattelapesca te a riconoscerlo in mezzo a tutte le tombe. Il Rosso e il nero, scritto nel 1830, è un titolo la cui banalità simbolica non può lasciare indifferenti. Cosa rappresenteranno questi colori, amore folle e odio distruttivo? ciarsi non è certo cosa anomala. Le strutture narrative sono spesso molto simili tra loro, pensiamo solo ad Anna Karenina di Tolstoj, pubblicato per la prima volta nel 1877. Viene da chiedersi se non abbia scopiazzato qualcosina dal nostro Stendhal. Altrimenti significherebbe che nella fredda Russia e nella romantica Francia la pensavano un po’ allo stesso modo su quello che deve imbarazzare e tormentare le signore per bene, mischiandoci poi dentro voci e profondità di culture drasticamente diverse. La questione è che il piacere della lettura ha ben poco a che fare con le trame, e questo lo si intuisce ancora meglio con opere dalla semplicità disarmante. Lo dice anche Stendhal a proposito della vita reale e dei romanzi, 20 procede più lentamente, tutto si fa a poco a poco, in modo naturale”. Ci piace molto questa idea che gli amori siano figli dei romanzi e non viceversa. Ci piace meno l’idea che non sia comunque un modo naturale di svilupparsi degli eventi. Ci piace l’idea che le sensibilità siano addomesticate o inselvatichite da una cultura affamata, che divora le nostre storie per sputacchiarcele in faccia sulla carta, permettendoci quindi di prenderne coscienza. In fondo siamo già abituati a vederci sempre solo tramite uno specchio, che sia di parole e carta questo conta poco. Se da uno specchio in Russia poi il marito di Anna Karenina riuscisse a vedere cosa combina Mme de Renal quando M. de Renal va al lavoro, allora sì che la trama si complicherebbe. O forse no. Aria fritta? S arà la calura, i granchi e la sabbia ma tutte le estati, tra un sudoku e un cruciverboso, qualche bamba si incaponisce e cerca di rovinarmi il piacere della spiaggia spiegandomi come produrre elettricità dall’idrogeno. Forse la crisi e l’aria condizionata aiutano a sollevare l’argomento. Bisogna partire da Adamo ed Eva, anzi no, bisogna partire dal logos. La termodinamica. Parola ad un contempo affascinante e terrificante. Potente ed arcana come dell’idrogeno. Prendi dell’idrogeno (H 2) e lo bruci, ottieni energia con cui ci fai un po’ quello che ti pare, e l’idrogeno diventa acqua. Fantastico, un sacco di energia, poco peso e nessun prodotto tossico come succede bruciando il petrolio. Però risulta chiaro che l’idrogeno non lo posso fare dall’acqua, che è il mio prodotto finale. Per produrre idrogeno dall’acqua (elettrolisi) devo spendere esattamente l’energia che ottengo quando lo brucio. Anzi, di più, a causa di questo bastardissimo secondo principio della termodinamica da cui non si scappa. Allora da dove si può fare? Ovvio! patente, che in un futuro non troppo lontano servirà come vettore di energia. Una specie di pila in cui immagazzinare con alta efficienza e per tempi lunghi l’energia prodotta da fonti rinnovabili (eolico, solare e compagnia bella). Queste infatti soffrono di un grosso problema: sono discontinue e l’amministratore del parco eolico non ha nessuna voce in capitolo per dire al vento quando soffiare. Così l’energia è prodotta un po’ quando pare a lei. Decisamente scomodo. Molto più furbo quindi usare tale energia per trasformare acqua in energia sempre disponibile. Una trovata Pillole di scienza (per topi da biblioteca) di FABIO PARIS la magia di una strega. Il secondo principio della termodinamica, il condottiero più valoroso di questa scienza, ci dice che qualunque cosa facciamo sprechiamo energia. Lo si può dire un po’ più correttamente in vari modi, molto più eleganti che vanno dall’oscura formulazione “L’entropia è proporzionale al logaritmo dell’ipervolume nello spazio delle fasi accessibile al sistema” al più chiaro enunciato di Kelvin “Non è possibile, nemmeno in linea di principio, realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%”. Torniamo a noi. L’idrogeno, atomo estremamente comune, si trova in natura sostanzialmente in due sostanze. Acqua e idrocarburi, ovvero petrolio. L’acqua è il prodotto finale della combustione Dal petrolio! Io faccio una reazione strana col petrolio e ne ottengo anidride carbonica e idrogeno. Wow! Mica tanto... Innanzitutto ho un passaggio in più rispetto a bruciare direttamente il petrolio, e l’efficienza per forza di cosa diminuisce (di nuovo il secondo principio che bussa a bastoni), poi in questo modo emettiamo la stessa quantità di gas serra (anzi di più, perchè l’efficenza diminuisce). Il risultato netto è una maggior quantità di petrolio consumato per meno energia. Bella mossa! Ad ogni modo i discorsi sull’idrogeno non sono tutta aria fritta. Anche se non è possibile che sia il nuovo sostituto per i combustibili fossili questo infiammabilissimo e pericolosissimo gas una sua utilità ce l’ha. Può servire, e mi gioco la 21 non meno spettacolare del trasformare l’acqua in vino. L’altro grande vantaggio del caro amico H 2 sarà usarlo per le automobili. Addio smog. Solo un po’ di vapore fuori dalle auto. Lo svantaggio è solo nella pericolosità del nostro caro gas. Che se non lo si tiene per bene a bada fa dei botti che si ricordano a lungo. Parola di chimico. In poche parole, evviva l’idrogeno ma con calma. E se sotto l’ombrellone vi importunano o volete semplicemente fare i belli con una turista tedesca (i tedeschi si sa che sono avanti nel campo energetico) potrete bussare a bastoni. Il demone della coscienza Breve filologia dubbiosa del dubbio di MICHELE MARCON I l mese scorso ci siamo lasciati con alcuni interrogativi che attendono una risposta. Se mi domandate chi è meglio tra Shakespeare e Gide, vi rispondo che non c’è gara; vince Shakespeare 10 a 0. Io poi sono tra quelli che preferiscono i Pearl Jam ai Nirvana, il dolce al salato, il vino alla birra e De Sica a Boldi. Ma se mi chiedeste “Simpson o South Park?” mi mettereste in seria difficoltà. A me piacciono i Griffin. E se uno deve scegliere tra camicia dentro e camicia fuori dai pantaloni? Dipende dalla camicia, e dall’occasione. È allora che cominciano i problemi. È allora che uno è nella cacca fino al collo… Ma facciamo un passo indietro. “Sono un uomo malato… sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente”. Chi vi parla non è il sottoscritto, anche se gran parte delle mie ex sono pronte a giurarvi il contrario. Non è neppure il ragazzo né bello né piacente che applica regolarmente lo scetticismo. Chi vi parla è un Autore che ci devi per forza mettere la A maiuscola davanti. È nientepopòdimenoche Fëdor Michajlovic Dostoevskij, che qui incarna l’uomo del sottosuolo, una figura-chiave sia nella parabola creativa del grande romanziere russo che nella storia della letteratura occidentale. Co- stui è l’uomo a noi contemporaneo, cioè l’uomo senza miti né certezze, lacerato da intime, insolubili contraddizioni. È proprio quello che stiamo investigando. L’uomo la cui coscienza ipertrofica diventa un impedimento al quieto vivere. L’uomo che sente la mancanza dell’Assoluto (ancora con l’ineffabile maiuscola) e per questo non sa da che verso prendere la vita, perché non ha alcun criterio su cui fondare la propria esistenza. Qualche anno più tardi si presentò un altro uomo, questa volta veramente folle, che per bocca di Nietzsche annunciò: “Dio è morto”. E con questo voleva dire che era stato cancellato l’Assoluto (proprio quello lì) e che tutto era diventato relativo. Bella scoperta! C’era arrivato il buon Fëdor con qualche decennio d’anticipo! Ma procediamo con ordine, ovvero andando a ritroso. La coscienza aveva cominciato a fare casini già da tempo e la filologia del dubbio ci permette di comprendere che questa storia è fatta di continui riposizionamenti che girano sempre attorno allo stesso nodo centrale. Per giunta aggrovigliato. Agli inizi del Seicento, Shakespeare scrisse un’opera geniale perché ancora oggi ci si può riflet- 22 tere dentro come in uno specchio. Sto parlando dell’Amleto. Con un semplice quesito il bardo dell’Avon cristallizzò nei secoli il dubbio esistenziale: “Essere o non essere”. Per prima cosa ci tengo a sottolineare che, mentre il disgraziato principe di Danimarca pronunciava queste fatidiche e pensantissime PAROLE, non aveva affatto un teschio in mano. In secondo luogo vi invito a soffermarvi proprio sulle parole (come debitamente segnalato dal – come non detto – maiuscolo). Poco prima che pronunciasse il quesito capitale, Polonio si azzarda a chiedere ad Amleto, che in mano tiene un libro, cosa stesse leggendo. La risposta è lapidaria: “Parole, parole, parole”. Polonio non era certo una cima (non per niente è il primo a fare una brutta fine) perciò ribadisce la domanda: “Ma cosa dicono queste parole?”. Non l’avesse mai chiesto… la risposta è un distillato di genialità pura. Calunnie. Ovvero finzioni. Per questo io credo che Shakespeare sia un genio. Con un’encomiabile economia verbale, ha spremuto il succo della faccenda. Il problema della coscienza è il problema delle parole. Generalizzando, è il problema del linguaggio. Ora concedetemi un ultimo salto all’indietro, ma stavolta molto indietro nel tempo. Catapultiamoci nell’istante in cui tutto questo dubitare che ci rode il fegato dovrebbe essere iniziato (il condizionale è d’obbligo per il dubbioso). Potremmo addirittura spingerci così in là da ritrovarci a fare una grigliata con l’uomo delle caverne. Un esemplare meno peloso degli altri potrebbe dire “ugh” al posto di “augh” e, riflettiamoci, in questa coppia di grugniti potrebbe già celarsi la domanda esistenziale. Lo so, sto esagerando, ma se ammettiamo che in questi suoni gutturali possa celarsi la nascita del linguag- Socrate… gio, allora eccoci giunti al nocciolo del problema: l’invenzione del linguaggio. La parola è dubbio. La parola è finzione. E in quanto tale ha risvegliato in noi il demone della coscienza. Sconvolgente, vero? Andatelo a dire a Ci rivediamo a fine estate per sciogliere finalmente ogni dubbio. Scheda Libro re, geloso e fanfarone; i passatempi al tavolo, per quanto iperbolici nella loro descrizione, sono una strizzata d’occhio ai nostri nonni; il “conosco un posticino” è un richiamo alla gastronomia e ai ristoranti che, nonostante pareri concordi, non sono mai come li dipingono e nemmeno ubicati dove dovrebbero essere (è vero ci si perde sempre quando si va a provare la trattoria caldeggiata da un amico). “Bar Sport” di Stefano Benni di ANDREA RINALDI A scuola non si ride. Sembra che sia vietato per qualche arcana legge strutturalista. Gli ambienti sono grigi e puzzano, i professori non sono simpatici, i voti terrorizzano, i compiti in classe creano ansia e in più tocca studiare Jacopo Ortis. Bandita la sci-fi, bandito il noir (anche se dal grande Scerbanenco derivano tutti i giallisti nostrani), in quanto considerati letteratura di genere, dalle aule delle scuole italiane hanno cacciato anche la letteratura umoristica, o per lo meno quella poca che è esistita nel nostro Paese (Amurri, Marotta, Campanile…) visto che ora è pressoché morta. Ridere però fa bene - è stato dimostrato da molti studi - e una bella risata è necessaria dopo cinque ore in classe. Vi consiglio allora un libro che farà scompisciare e che instillerà la voglia di leggerne altri del suo autore, arrivando così ad assaggiare il concetto di satira: scordatevi quella di Plauto e Lucilio, quella non è satira, anzi fa piangere e poi ve la impongono, sai che ridere. Il libro in questione è Bar Sport di Stefano Benni. Si tratta di un classico perché l’autore è tuttora un fine analizzatore della società italiana, ma soprattutto perché con questa sua opera è riuscito a individuare e tratteggiare degli archetipi “italici”, che ancora risparmiano ai giornalisti valanghe di parole quando devono parlare di spaccati del mondo che ci circonda. Basta pensare alla Luisona, la decana delle paste che si anima e si vendica della sua profanazione o al bimbo del gelato, che fa letteralmente impazzire il barista (e poi chi non è mai stato un bambino del gelato nel bar vicino a casa?). La fauna che popola il Bar Sport è l’Italia, siamo noi, sono i nostri amici e i nostri vicini: il Cinno, Renzo il playboy da bar, il professore Piscopo, Bovinelli il tuttofare, Pasquale il barbiere e quello che vi succede è un condensato della Bologna che fu, ma comunque del nostro folklore. Le trasferte per andare a vedere la squadra di calcio e le glorie calcistiche locali (come il famoso Piva) rappresentano la mania del calcio in Italia, che si mastica in ogni dove; la cotta del ragionier Pizzi per la nuova cassiera e le finte conquiste di Renzo, assieme alle catture esagerate dei pescatori della domenica, sono l’affresco del maschio italiano conquistato- 23 Al Bar Sport siamo cresciuti e torneremo per giocare a briscola, nel frattempo possiamo leggerlo per non dimenticarlo e per non dimenticare chi siamo. Vale più Benni di un trattato di sociologia. Questo è il nuovo “classico” che vi consiglio per la vostra lettura a scuola. Quando lo avete finito voglio la scheda libro sulla mia cattedra. I ferri del mestiere Oggi devo scrivere il nuovo articolo per Finzioni di AGNESE GUALDRINI A ccendo il mio Mac, apro il programma di scrittura. Pagina bianca. Il cursore è fermo. Mi pervade una certa ansia perché non so davvero cosa scrivere. La testa è vuota e faccio mente locale a quello che dovrei raccontarvi: uno sguardo (un altro, diverso dai precedenti) su quello che gravita attorno al mio lavoro in casa editrice. Telefonate, proposte respinte con un cordiale no grazie, il mio lavoro all’ufficio diritti…che altro potrei dirvi? La nebbia mi pervade il cervello e non so se essere più inquietata dall’ipotesi che questo vuoto mentale derivi dall’aridità del mio lavoro o piuttosto dalla mia incapacità di formulare idee per iscritto (o, peggio ancora, dalla mancanza di idee in generale). Penso agli scrittori di professione. Conoscono l’ansia della pagina bianca? Capita anche a loro la terribile sensazione di essere a corto di pensieri? La risposta credo sia ovvia. Scrivere è del resto un atto creativo e creatività e lavoro non sembrano stare troppo bene nella stessa frase: che significa “scrittori di professione”? Come si fa a scrivere con l’ansia di una scadenza? (Ammesso ovviamente che c’è chi lo fa tranquillamente, come i John Grisham o le Patricia Cronwell che sfornano Ultimi giurati e Cadaveri non identificati con rigorosa cadenza annuale). La via della pubblicazione di un libro avviene pressoché in due modi. Il primo è quello più diffuso: l’editor legge un manoscritto, decide di pubblicarlo e quindi fa un contratto all’autore. Nel secondo caso invece l’editor fa un contratto a un autore che si impegna a scrivere un determinato tipo di testo entro un certo periodo di tempo. Questa dinamica avviene solo quando si tratta di scrittori già noti al pubblico o in case editrici, come la mia, che propongono idee o progetti a chi poi li realizzerà scrivendo un libro. Ora, la dimostrazione del fatto che creatività e lavoro non vadano di pari passo, è che di solito i contratti vengono difficilmente rispettati. Qualche esempio: l’autore si impegna a scrivere 200 cartelle? La maggior parte delle volte arriva un manoscritto che ne conta 450 (difficilmente accade il contrario). La consegna è fissata per gennaio 2009? Siamo a luglio e non è ancora arrivato nulla. Qualche settimana fa’ in casa editrice è arrivato per posta un manoscritto sulla storia del teatro. Nella lettera di accompagnamento l’autore gioiva per la tanto sofferta conclusione dell’opera e chiedeva un appuntamento per decidere le illustrazioni da mettere in copertina. Di fronte al nostro sconcerto per l’assenza del titolo dal programma editoriale abbiamo fatto qualche ricerca in archivio scoprendo che il contratto risaliva a 11 anni prima e che la consegna era prevista per il 1999. Un capitolo molto divertente sono poi le motivazioni degli autori di fronte alla mancata consegna. Ricordano molto le scuse che si utilizzano a scuola quando non si ha studiato il pomeriggio prima: trasloco in corso con conseguente 24 perdita delle bozze negli scatoloni (non riesco più a trovarle!); gli studenti hanno occupato l’università da due mesi e non si ha accesso al computer dell’ufficio; divorzio improvviso; malattie di ogni genere e forma (una volta uno ci disse addirittura che non poteva scrivere perché vedeva tutto rosso…?!?). Uno dei problemi più grandi per certi autori è poi staccarsi dal loro manoscritto per darlo in pasto ai redattori: vorrebbero rimetterci le mani mille volte e ancora una in più, per aggiungere aggettivi, togliere intere frasi, per inserire monologhi e per integrare il testo di dettagliate note a piè di pagina (insomma, il più delle volte per peggiorarlo). Eppure tutto questo fa parte del gioco e in questo sta la bellezza della creazione: ogni testo è infinitamente mutevole e perfettibile, suscettibile di assumere mille forme nuove e diverse. E dove non riesce l’autore interviene l’editor a fissare una forma. Esistono quindi gli scrittori di professione? Secondo me esistono gli scrittori e basta. C’è chi riesce a farne un mestiere scrivendo in orario d’ufficio, chi scrive solo sotto impulso dionisiaco, chi lo fa per passione, chi perché non può farne a meno, chi non riterrebbe mai lo scrivere un “mestiere”, chi crede di avere qualcosa di davvero importante da dire. Per fortuna nel mio lavoro abbiamo a che fare con tutti questi tipi di scrittori…E per fortuna mi accorgo che da tutto ciò è venuto fuori il mio articolo per Finzioni. La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI G entile Bettoli, si sarà accorto che il mondo intero impazzisce per l’azzardo, quando a rischiare son gli altri e a vincere la se-medesimità. Il grado infinitesimo delle possibilità di vincita, che ho interiorizzato tanti anni fa a scuola quando il docente di matematica era stato scaricato dalla bidella e per un mese buono adottò l’escamotage delle *lezioni matematiche applicate alla vita* per utilizzare la classe come terapia a basso costo, raccontandoci fregnacce e mascherando la poca voglia di fare lezione, pensi, non blocca una quota consistente di umani dal giocarsi capra e cavoli nel miraggio di un successo. Ora ci si mette pure l’americanissimo Sven Youkay, che vende una *nave cargo* di libri col romanzo-epopea sulla rivincita-fiasco di Tano Stranciani, soffice carpentiere italoamericano che vince al lotto Keep It Up e con capra e cavoli viene travolto da quel successo istantaneo che un po’ lascia il segno. Sesto, Ertinga C aro Sesto, sull’espressione *capra & cavoli*: l’ha usata due volte in poche righe e mai nel modo giusto. E poi questo libro di Youkay, Nave Cargo, edito da Sterlini un anno fa e già alla terza ristampa. Quando un caso letterario è letteralmente tale non è mai un caso. Spesso si tratta di disegnatissime catene di eventi simili a quelle che fanno vincere il nostro Tano al Keep It Up, lotto multimiliardario creato nel 1879 dal principale pro- duttore di colla coccoina del Maine, Rambald Candith. Youkay sa che tasti pigiare, che pesci pigliare e dove andare a parare. C’è crisi, e la gente gioca. Pare. Tano, affezionato alle sue origini sicule e alla nonna Castrenza, nella più italiana delle storie mangia pesante, dorme sudato e sogna l’amata madredellamadre sola in un porto, fazzoletto in testa, giovane. Triste e sconsolata sta Castrenza, con recente -negli occhi bagnati- l’abbandono della Sicilia e il freddo di New York a febbraio, il cuore spaccato dalla prospettiva di non tornare a casa mai più e la testa piena di confusione per quelle domande rapide, scandite in una lingua sconosciuta da agenti portuali pallidissimi. Nel sogno, Castrenza indica una nave cargo, sì, che si avvicina al porto. Tano si sveglia con ancora nelle narici l’odore acre dello sterco: questo trasportava la nave, o forse di questo era fatta, la nave, di sterco, o forse chissà. Che importa. Il giorno dopo compra ad un 7,6 cents store un libruccio dalle pagine ingiallite, A’ smorfia de Compare Mommo, portato fin lì da chissà quale paisà. Nel giocare i numeri corrispondenti a nonna, sterco, nave, porto, fazzoletto e 11 (il numero dei suoi figli) Tano fa il colpo della vita, vincendo 189 miliardi di dollari secchi. Nel 1966 diventa più ricco dei contemporanei Beatles, e quindi per una proprietà transitiva malinterpretata -Tano nel Sesto capitolo legge l’intervista a Lennon 25 in cui dichiara *siamo più famosi di Gesù*- *PIU’ FAMOSO E RICCO DI GESU’*, come dirà davanti ai basiti spettatori dell’Ed Molligan Show. Poi c’è il rotolare tragico verso il gioco compulsivo (“ma sì, punta 1 miliardo e 400 milioni di dollari sul 2 rosso, e tu che guardi?”), una vita sregolata e -rapida- la più grossa ridimensionata economica mai sussistita nel mondo delle ridimensionate economiche. Tra il 66 e il 71, lasso di tempo in cui la storia è principalmente tratteggiata, con i soldi della vincita Tano avrebbe potuto comprare Singapore (non ancora tigre asiatica) + la parte continentale dell’Indonesia tranne Giacarta. Youkay è amaro sul finale: nel 1973 Tano acquisterà solo un paio di stivali con la zeppa, quelli per tornare a lavorare, coi 7 dollari rimasti. Che è pure il prezzo del libro. Ma voi prendetelo a nolo. • V eda Bettoli, qua si parla poco di grandi classici, quelle belle storie d’amore, o di tristòre, ove c’è sempre una tragédia, che poi in effetti sono quasi tutti avvilentissimi i classici, tipo quel romanzo sul cane bianco Belle e sul pastorello Sebastian, lasciato solo da una famiglia degenere a vagare per i monti. Non lo farò nemmeno io perché sono pesanti e perché il fisiopata cerebrale Faust Xavier ha recentemente scoperto che davanti a una discussione sui grandi romanzi classici la testa molla la presa entro i primi 5 minuti e si perde a pagliacciare, uomini e donne indifferentemente, attorno a cibo trucco scarpe calcio tette incombenze amante sete. Parliamo di crisi. Ahhh, la crisi! Ma che bello è cianciarne? Gli argomenti scappatoia! Sembri sempre intelligente, e cordiale! Il grande merito della crisi è aver sostituito l’usanza di parlare del tempo quando non si ha niente da dire. Dal fruttivendolo, in pausa caffè, in edicola, al ristorante (oh, ma evitando la politica, procedendo piuttosto per grandi assunti generalmente condivisibili e bipartisan!), al cimitero (certo!), in montagna come sotto l’ombrellone (mangiando frutta candita!), prima di vedere Belen in costume a Sarabanda (gli uomini soprattutto!), davanti a una fetta di cocomero. La crisi! Ma poi chi ci rimette? I giovani! Che non ci hanno voglia di fare un cazzo (sic), dicono in tanti. Ma che finalmente ricevono degno riconoscimento di esistenza (il termine “giovane”, non dimentichiamolo, fu inventato da Pasolini solamente nel 1972) tramite il volume manifesto dei nati negli anni 80, quindi attualmente ventenni: RassereGnati (di Fenostra, edito da Chaudfontaine). Me ne parli. Lionella, Fontana Milanese L ei non si sofferma sui classici e io non mi soffermerò molto su questo argomento, giovani e crisi, perché sto scrivendo il mio libro sui giovani e la crisi e ho già poche idee, perdoni, e quelle 3-4 che ho non voglio bruciarle subito. Due parole si, però, sui giovani e la crisi. RassereGnati di Fenostra è al livello di Diario di un garzone di Trilussa (effettivamente prima di *giovane* andava molto il termine *garzone*) e Teenager smargiassi di Calvino. Ma mentre un tempo si stava sempre in pantaloni corti und ginocchia mezze sbucciate a fischiare dietro a ragazze/mondine flòride ma senza tatuaggi arroganti, ai bordi delle strade, a lanciare sguar- di ammalianti durante le passeggiate della domenica o a scoprire la gambina mentre si balla il liscio, con quegli occhiali da vista con le lenti da sole attaccate sopra, piangiamo insieme, ora si sta peggio e si naviga in acque acquee. Ci sono i giovani. E soprattutto, c’è la crisi. C’è la poca voglia di cambiare, di osare, ma pure di girare, di partire e di lasciare: non dimentichiamo che se la popolazione italiana è di circa 60 milioni, sono altri 60 milioni i cosiddetti *oriundi* di origine italiana sparpagliati diffusamente nel globo. Vivono lontano, codesti, intenti a fare business, a crearsi una nuova vita, a imbroccare straniere o anche solo a cercare un’esistenza dignitosa e del pane per riempire la pancia. La storia si ripete oggi, in altri posti, con altri attori. Che ne è stato dell’innato istinto di arrangiarsi dei garzoni italianeski? Pure quello è spaparanzato comodo sul divano? Sarà triste, tra 50 anni, andare in ferie in un qualunque sperduto arcipelago Gañaldos e non ritrovare colonie di italiani ivi impiantati da tempo, che qua c’è caldo ma è un caldo diverso -molto più secco- e i ritmi sono moooolto più rilassati (cit.). Ma ciò che bisogna hic affermare, e ce lo sbatte addosso già il titolo, è che i giovani di oggi sono rassegnati ma anche rasserenati, consapevoli che la colpa di qualunque immobilismo-slandronata di questi anni cadrà solo su un attore, statuario ed eccezionale: LA CRISI! E loro sono giovani, mi ero quasi dimenticato che di questo si parlava. Scapegoat maravijoso, perché definitivo, la crisi non solo è economica, ma assolutamente e straordinariamente pervasiva tout court. Così si sta sereni, insomma: quando tra 30 anni i nostri figli (che avranno massimo tra i 5 e i 10 anni perché mò si procrastina a bomba) chiederanno a dei sessantenni diversamente giovani che si faceva nella *belle époque* del 2000, mal- 26 celando il dubbio, molti rasseregnati risponderanno “c’era la crisi. davvero, Agostino, tu non puoi immaginare cosa sia stata la crisi”. • B ettoli. La storia piccola di un coltivatore di bacche, di Gao Morào, leggerezza orientale con qualche puntina di malizia cingalese, è il libro più venduto in tutta la costa occidentale del Vietnam, quella sull’atlantico. L’ho letto dalla parrucchiera, ma è bello sul serio. A me piacciono i libri che hanno una morale, poi mi piacciono di più se ci stanno pure le figure, perché i personaggi non so mai come immaginarli e se sono giapponesi poi me li penso tutti con la faccia di Chow Yun-Fat, quello de La tigre e il dragone. Un po’ come Dio, che per me era il signore delle mille lire, Mario Polo. In queste storie di cinesi, che in questo caso sono vietnamesi, io mi ci immedesimo perché non pensano ad andare subito a letto, e c’hanno la pazienza di aspettare noi donne che vogliamo essere, e lo dico forte! corteggiate. Qui il protagonista, che chiamo Chow ma che ha un altro nome simile, è un giovanotto che coltiva bacche ma con mentalità imprenditoriale, sfruttando il terreno, poi vende tutto a ricchi turisti americani o inglesi (insomma che parlano inglese) in belle confezioni che pagano a peso d’oro, e invece sono bacche. Ma è triste, e allora corteggia Xu, che è molto bella, e capirai però nei libri ci sta che le attrici sono belle, è nei film che un po’ scoccia perché mio marito poi si fissa. Perché non consigli mai libri giapponesi? Tiziana, Massa Ligure M a è cinese, giapponese, vietnamese (sic) o cingalese? Non ho capito, Tiziana. Vabbù. giorno e notte con uno zelo tempestoso le cura e le accudisce affinché crescano rigogliose. Spera di trarne -lui- denaro e fama e perché no sgallettate, mentre gli anglofoni -loro- cercano l’illusione di una ripulita arteriosa che poi però ci si beve dietro una qualche bibita gassata. Stanco fino a rischiare di addormentarsi in continuazione, protagonista di un controverso colpo di sonno mentre cammina, Shaw c’ha le bacche nella testa e non pensa ad altro. Socialismo di mercato, rappresentato nella sua crudevolezza tramite le bacche e gli sbadigli. Poi c’è Xu, e di seguito un amore lento, sussurrato, educato. A volte perverso e furioso, ma poi di nuovo sussurrato. Poi finisce. E io metto su la moka, che ho finito gli Special K. Non parlo molto di questi libri perché non ne so molto, soprattutto di quelli vietnamesi. Mi tarlo sempre di avere lacune concettuali e, relativamente al tempo, nei ritmi. Tempo fa ho regalato un libro di Banana Yoshimoto, ma unicamente perché questo mio amico era soprannominato Banana, ed era la fase in cui si era giovani e stupidi. Ho preso in mano La storia piccola di un coltivatore di bacche, però, che per il suo essere così piccola (34 pagine, 8 euri, edizioni Marticinio -ma sarebbe stato più appropriato latrocinio-) ho finito in 27 minuti mentre facevo colazione con una tazza di Special K. Indubbiamente leggero. Queste bacche fasulle e dal gusto livido sono veicolo dei pensieri di Shaw, il protagonista, che Le città letterarie Milano M ilano, mi pare, ha una proprietà molto rassicurante: (quasi) tutti i luoghi comuni che i non-milanesi le affibbiano sono veri. Nebbia, c’è. Smog, c’è. Lavurà lavurà lavurà, c’è. Traffico caotico e cielo grigio, ci sono. E la Madunina troneggia ancora su quel meraviglioso Duomo sempre troppo poco celebrato. Potrei continuare, ma non vorrei affondare nelle pastoie della sicumera. Di certo comunque, è l’attitudine al lavoro ciò che caratterizza la “vera” capitale d’Italia, anche negli ammazzamenti. Giorgio Scerbanenco è stato per Milano quello che Fruttero e Lucentini sono stati per Torino. Bevilacqua per Parma. O, in maniera minore e con i dovuti ridimensionamenti, Lucarelli per Bologna. Ha raccontato la sua città adottiva con lucidità e una capacità profetica straordinaria: un paese che non si è ancora reso conto di essere diventato una metropoli e dunque di JACOPO CIRILLO si trova incapace di fronteggiare la criminalità metropolitana: puttane, droga, assassini. Del resto. è un medico radiato dall’albo che deve prendersi tutto lo sbattimento. La quadrilogia del Duca, i romanzi incentrati sulla figura del dottor Duca Lamberti, è una meravigliosa rappresentazione di Milano. E uno, in particolare, coglie sorprendentemente l’essenza meneghina di cui si diceva prima. I milanesi ammazzano al sabato (Garzanti 1999, 183 p., 9 euro) è il quarto e ultimo libro, dopo Venere privata, Traditori di tutti e I ragazzi del massacro (tutti Garzanti). Il libro è un noir ma l’ammazzamento del titolo non è quello fatto dai cattivi. E quello di un padre, buono ma non fesso, che trova gli assassini di sua figlia prima della polizia. Ovviamente li ammazza e ovviamente è sabato. E’ lui quel milanese che ammazza il sabato e la cosa è così rilevante perché, come spiega il vecchio all’incontenibile Duca, se fosse stato infrasettimana non avrebbe fatto nulla, visto che doveva andare a lavorare. La milanesità più trita, quella del lavurà lavurà lavurà, esplode insieme al cranio di tre delinquenti, colpevoli di aver sottovalutato un vecchio e, soprattutto, di essere stati scoperti in un giorno feriale. E, per la prima volta nella storia dei noir, probabilmente, un titolo con la parola “ammazzare” dentro non si riferisce transitivamente ai carnefici ma alle vittime. E l’attitudine meneghina al superlavoro giustifica e perdona più di dieci padri nostri e qualche atto di dolore. Oh-oh. Milan, col coer in man. 27 Ghost World “Black Hole” di Charles C. Burns di MARINA PIERRI G li armadietti, le prom dance e le cheerleaders fanno parte dell’immaginario collettivo che si riferisce generalmente al “liceo americano”. Più di queste tre cose, forse, a restituirci l’immagine più penetrante della gioventù USA è il facebook o annuario. La faccia, l’apparenza, l’aspetto: in una parola sola, l’identità. Da qui parte Black Hole, che arrotondando, forse per eccesso, ne illustra il cambiamento e, nel peggiore dei casi, la perdita in diversi gradi fino alla morte (la cessazione definitiva dell’essere individuale). Lo so, state già pensando che sia un libro terribile. Invece il racconto di Charles Burns, un feuilleton completato in nove anni, assomiglia per molti versi a una favola. Immaginate un mondo in cui i tranquilli adolescenti di una città (forse) di provincia - che vivono nei loro bei sobborghi coi genitori, vanno alle feste e tutto – contraggono un virus misterioso che corrompe non la salute ma la forma del loro corpo, in maniere imprevedibili. Lo si prende e, boom, non si sa che succederà: verrà fuori una terza gamba? una protuberanza? una vescica? Impossibile a dirsi. Ora considerate che questa malattia si trasmette sessualmente, o comunque con liquidi biologici, e colpisce solo gli adolescenti. Non vi servirà essere Einstein per capire che si tratta di un’allegoria. Una doppia allegoria. Da un lato, la più ovvia: l’AIDS, la malattia che per anni è stata considerata figlia di uno stile di vita sciatto, libertino e dissipato. Dall’altro, una appena più sottile, ma neppure troppo, perché nessuno come i teenager conosce il disagio. La mia lettura preferita di Black Hole, infatti, è proprio questa: il male che ti cambia dal di fuori è sinonimo del male che ti cambia dentro; quello che non puoi portare nell’occhiello, quello che non può vedere nessuno che, invece, si sposta improvvisamente sull’asse del visibile, del manifesto portando a galla le istanze inconsce, seppellite, di mostruosità. Solo che l’universo di Burns è felliniano, in un certo senso, o lynchiano, nella misura in cui l’imene che separa la realtà e il sogno è perforato, spaccato per sempre. Elementi di un altro regno (specie quello animale, 28 come nel caso della coda di Eliza, una delle protagoniste, o quello della muta di Chris) penetrano nella vita quotidiana, così come la conosciamo: è un caso vero e proprio di “trascendenza”, ossia di migrazione di parti di un mondo in un altro. Nelle fiabe è molto frequente: pensate ai fagioli magici, oppure, che so, alle civette di Hogwarts. Per questo credo che il racconto di Burns sia una specie - neppure così non convenzionale - di fiaba nera, per certi versi sociale (quello già citato dell’AIDS) e per certi versi semplicemente emotiva (disagio). Che il romanzo sia una fiaba è evidente sia dalla presenza di un certo giudizio morale (serpeggiante) che dal finale. E da entrambi contemporaneamente, certo. Dei tre protagonisti (Eliza, Keith, Chris) le due donne si salvano: la malattia fuori di loro le lascia quasi libere nella misura in cui non sembra essere degenerativa e consentirgli comunque una vita più o meno normale. L’una ha subito troppo in generale, l’altra ha subito e basta – il contagio. Si sono meritate la vita? Sul maschio resta un punto interrogativo non definitivo, perciò, forse, più inquietante, ma in ogni caso anche la sua esistenza proseguirà e, tutto sembra puntare a una possibilità di convivenza con la malattia, resa possibile dall’amore, o, più banalmente, dalla fiducia negli altri. C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si alter- nano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori, In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser William Makepeace Thackeray di JACOPO CIRILLO N omen omen, dicevano i latini. E uno che si chiama Makepeace dovrebbe almeno tentare di essere conciliante. Al contrario, William Makepeace Thackeray, il secondo miglior scrittore inglese durante l’era vittoriana, odiava il suo diretto e più povero concorrente, Charles Dickens, uno straccioncello che scribacchiava di orfani e nobili buontemponi. Le loro querelle erano frequenti e si svolgevano al Garrick Club, un po’ come quelle tra Paperone e Rockerduck al club dei miliardari. Una volta l’illustratore del Circolo Pickwick si suicidò e l’autore si mise a cercare un sostituto. Quando Thackeray si propose come disegnatore, Dickens lo sbeffeggiò dicendo Aahahhaa, piuttosto che usare questi scarabocchi, preferisco riesumare il mio vecchio illustratore, e in quel momento uscì dall’armadio il presunto suicida irridendolo. Un’altra volta Thack sgamò Dick con un’attricetta (Ellen Ternan) e andò subito a fare la spia alla moglie, che lo irrise anch’ella informandolo della loro separazione avvenuta già da qualche mese. Un altro episodio divertente fu quando Edmund Yeats, il re del gossip di Londra, scrisse un articolo contro Thackeray firmandolo C.D. Lo scrittore si infuriò e andò da Dickens per chiedere spiegazioni e, al suo diniego, si rivolse al direttore del “Town Talk” che lo irrise dicendo che era tutto uno scherzo. 29 Nel 1863, a soli 52 anni, Thackeray si era un po’ stufato di tutte queste burle e, psicosomaticamente, si trovò in punto di morte. Dickens, pentito, andò al suo capezzale e gli disse, Dai facciamo pace, in fondo i posteri ti ricorderanno grande almeno quanto me. Thackeray gli disse, Bravo, complimenti, facile fare pace sul punto di morte ma vabbé, confido nella gloria futura. E si spense. Purtroppo oggi Thackeray non se lo ricorda praticamente nessuno, se non per Barry Lyndon di Kubrick e per la Fiera delle Vanità (titolo famoso ma libro poco letto). Questa è per te, Thack! Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. Livia Fagnocchi è curiosa, entusiasta e dentro tante storie. Si ossessiona facilmente di canzoni, di mongolfiere, di take-away indiani, di zucca, di misteri, di treni. Cerca analogie, coincidenze, e stare bene. Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione *lobbista*. Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. Michele Marcon è un ragazzo non bello e forse neppure piacente, ma applica liberamente e con regolarità lo scetticismo e crede nel potere dell’antitesi. Curioso per natura, in passato è stato abbastanza ingenuo da cercare, passando in rassegna molte discipline, la verità, naturalmente senza ottenere alcun risultato certo. n. 4 / Luglio - Agosto 2009 [email protected] www.finzionimagazine.it Stampa: Tipolitografia Castello - Castel Bolognese 30 una storia appassionante e magari ride o tiene il fazzoletto a portata di mano. Il suo scetticismo ne è uscito talmente corroborato da essersi spinto più avanti di lui nella negazione, tanto da fargli perdere addirittura le sue incertezze. Andrea Rinaldi è giornalista professionista e vive a Bologna dove scrive per le pagine culturali del Riformista e dell’edizione locale del Corriere della Sera. Comincia a credere che Hemingway avesse ragione quando affermava che “la metà degli italiani scrive e l’altra metà non legge”. Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Come secondo lavoro, Simone Rossi scrive di musica, teatro e amenità varie per un noto quotidiano romagnolo. Il primo lavoro lo sta cercando. Nel frattempo, una volta, è stato in Etiopia. Il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Stonatuccio musicista da marciapiede, suona l’ukulele e ha un gatto di nome Chomsky. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro. Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed é bellissimo. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini. Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del non voler dire nulla. Sara Reali, puoi trovarla in mezzo al pubblico di un concerto, dove tutti sono inevitabilmente molto più alti di lei, ma non le importa: adora emozionarsi per due accordi ed una voce calda quanto per un bel film visto in compagnia. Se non esce la sera, è perchè sta leggendo Da oggi puoi ricevere ogni mese Puoi richiedere anche gli arretrati di Finzioni direttamente a casa tua! Finzioni e riceverli direttamente a casa! Abbonati su Ordinali su http://finzioni.bigcartel.com http://finzioni.bigcartel.com 31 www.finzionimagazine.it