Esiste la questione settentrionale?
Percorsi di riflessione
Prof. Guido Formigoni
Villa Elena, Affi (VR)
1
La Fondazione Elena da Persico,
ispirandosi particolarmente al pensiero di
Elena da Persico (1869 –1948), giornalista
e collaboratrice di Giuseppe Toniolo
in ambito sociale, ha, tra i suoi scopi,
“la promozione di iniziative sociali e culturali
per una crescita della società secondo i valori
della solidarietà cristiana”
Con piacere inviamo la relazione
del prof. Guido Formigoni,
docente di Storia contemporanea
presso l’Università IULM di Milano
e Presidente dell’Associazione
“Città dell’uomo”, a quanti hanno
partecipato
all’iniziativa
della
Fondazione e ai simpatizzanti della
stessa.
2
3
«Questione settentrionale» è espressione fortunata e
ormai consolidata, quanto abbastanza recente. Fino a un paio di
decenni orsono, si parlava solo di «questione meridionale».
Oggi è diventata di gran moda in tutti gli aspetti del dibattito
pubblico. Non è detto che però sia chiaro cosa corrisponda a
questa espressione nel lessico giornalistico o politico. Qualche
mese fa il presidente della repubblica - non l’ultimo arrivato ha denunciato un «eccesso di retorica futile» attorno alla
questione settentrionale1. A parte la retorica, coloro che usano
questo linguaggio a cosa alludono?
Il contenuto preciso dell’espressione varia molto.
Bastino alcune citazioni sparse. Secondo Aldo Bonomi, il
problema del «malessere del nord» è strutturale e sociale: «nel
Nord del paese più che altrove sono giunte a compimento la
crisi dei modelli produttivi, la crisi della rappresentanza e
l’esaurimento della borghesia delle grandi famiglie. La
questione vera è se iniziano ad essere visibili i segnali di
un’economia in grado di produrre per competere nella
globalizzazione»2. Piero Ostellino, dopo le ultime elezioni
politiche, affermava: «Il paese è diviso tra una domanda di
modernizzazione, che soprattutto il Nord industrializzato ha
rivolto alla destra, e una domanda di protezione, che l’Italia
depressa ha rivolto al centro-sinistra»3. Un problema politico,
quindi? Qualche mese dopo, il presidente di Confindustria
parlava così all’assemblea degli associati: «Oggi sta
scoppiando una vera e propria questione settentrionale. E’ il
1
Nel discorso tenuto alla Fiera del Levante di Bari il 14 settembre 2006.
A. Bonomi, Dal male del Nord emergono tre novità, in «Corriere
economia», 5 luglio 2004.
3
P. Ostellino, Realismo di governo, in «Corriere della Sera», 14 aprile
2006.
2
4
dramma di regioni con tassi di sviluppo industriale fra i più alti
d’Europa, che incontrano limiti spaventosi alla possibilità di
crescita per un deficit di infrastrutture diventato insostenibile»4.
E via a lamentarsi per la Tav sottoposta a vincoli localistici.
Una questione di infrastrutture, quindi? Il ministro Bersani ha
invece recentemente sostenuto: «Gli italiani del nord soffrono
particolarmente del distacco fra dinamismo economico-sociale
e sclerosi dello Stato»5. Un problema di sclerosi dello Stato?
Altri hanno ormai ridimensionato il problema: non esiste una
vera questione settentrionale, ma almeno una questione del
Lombardo-Veneto, che si comporta nello stesso modo e va in
direzione opposta al resto del paese. Quindi l’asse preciso del
discorso è un po’ ondivago: ci sono dei «malesseri», ma
identificarne le cause è poco agevole.
Le radici storiche
Se l’espressione è recente, le sue radici storiche non
sono così fresche. E’ bene ricordare che un disagio del Nord fu
diffuso già dopo l’Unità, nonostante il paese sia nato nella
forma della «conquista regia» dello Stato subalpino verso il
Sud della penisola. Con la proclamazione dello Stato unitario,
però, nacquero presto le diffidenze: nel 1861 Cesare Correnti
vedeva già la finis Longobardiae, con l’annacquamento dei
buoni vecchi costumi in una realtà nuova. Il mito del Nord
industrioso, di Milano «capitale morale» contro l’inefficiente e
dispendiosa burocrazia romana si sviluppa fin dalla fine
dell’8006. In realtà si trattava di un disagio che non si incanalò
mai nel tentativo dì costruire una alternativa coerente allo Stato
4
«La Repubblica», 26 maggio 2006.
P. Bersani, Idee per un partito nuovo, in www.democraticiperilnord.it
6
Cfr. G. Rosa, Il mito della capitale morale, Comunità, Milano 1982.
5
5
unitario, forse per il prevalere dei mille municipalismi e i
sospetti reciproci verso le città e le regioni settentrionali.
Questo malessere si ridusse al massimo probabilmente
nel quarantennio postbellico segnato dalla centralità della DC.
Non
perché
questo
partito
fosse
particolarmente
«settentrionale», anzi: dopo De Gasperi portò alla carica di
primo ministro solo il piemontese Pella e il veneto Rumor
(oltre alla meteora Goria). La meridionalizzazione progressiva
del ceto politico democristiano era evidente motivo di polemica
fin dai primi anni ‘80. La mediazione nazionale del partito era
stata però sostanzialmente vincente, perché la crescita
economica e sociale del paese permetteva di usare il rubinetto
della spesa pubblica in chiave perequativa, con un «patto
sociale» inespresso verso le aree più dinamiche, che
sostanzialmente coincideva con la promessa di ritardare
l’adeguamento fiscale alla crescita della spesa. La bassa
pressione fiscale (collegata alla scarsa lotta all’evasione),
almeno dal 1955 al 1975 fu una delle concause del «miracolo»,
della crescita imprenditoriale e del consenso della piccola e
media borghesia al Nord, proprio mentre la spesa pubblica
teneva buone le aree arretrate del paese.7
Tale mediazione si è cominciata a rivelare critica nel
periodo di decelerazione della crescita e di sfida crescente per
l’apertura dei mercati con gli anni ‘80 e l’avvio della
«globalizzazione». Non a caso iniziarono i timori da
«benessere minacciato», le proteste contro l’adeguamento
fiscale, la secessione strisciante. Comparve infine
l’imprenditore politico capace di interpretare questa crisi: la
Lega. La sua affermazione fu lenta per lo stesso carattere
ondivago della sua protesta: dapprima identitariaregionalistica-localistica (la stagione del recupero del dialetto),
poi antipartitica a fronte della crisi del vecchio sistema politico
7
S. Rossi, La politica economica italiana 1968-2000, Laterza, Bari-Roma
2000, p. 54-55
6
ormai sclerotizzato e lottizzato, poi ancora il rilancio
etnonazionalista con «l’invenzione» della Padania.8 Una
invenzione con aspetti «deboli» dal punto di vista culturale, ma
indicativa di una esigenza di radicamento sul luogo, di difesa
dal nuovo (non so se ricordate l’iconografia volutamente retro
dei manifesti leghisti) . Lo smottamento dell’elettorato
democristiano a partire dal 1990, avvenne sotto i colpi di
questa pressione, non certo irresistibile. Cui si collegò dopo il
1993 il berlusconismo, che interpretava altre radici del
malessere del Nord (rappresentando non più solo la provincia
profonda e l’Italia dei distretti e delle piccole imprese familiari,
ma un capitalismo del terziario, del consumo e della finanza,
molto più spregiudicato e aggressivo), e dava altre soluzioni,
molto più individualiste-rampantiste.9 La sintesi delle due
posizioni non era affatto facile (e la storia del 1994-’95 lo
dimostrò): non a caso però si realizzò «in negativo», contro un
avversario, più che un positivo. L’avversario era lo Stato. La
sintesi fu espressa da uomini come Giulio Tremonti, fiscalista
di successo che aveva costruito la sua fortuna proprio sulla
capacità di aiutare «il popolo delle partite Iva» ad aggirare il
fisco «rapace» dello Stato lontano. Il carattere fragile di questa
sintesi si vide però già nel 1996, con l’accelerazione di Bossi
sulla secessione, rientrata senza colpo ferire per ragioni interne,
prima ancora che per reazioni altrui (proprio nel periodo in cui
gli Stati si frammentavano davvero anche in Europa, non
dimentichiamolo): la Padania era una identità troppo fasulla per
convincere più di qualche scalmanato. La Lega ha invertito
quindi la sua parabola ascendente. Il malessere quindi si è
espresso per altre vie: il berlusconismo, dopo la prima
8
Sulle prime fasi di questa protesta G. De Luna (a cura di), Figli di un
benessere minore. La Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze, 1993, pp.
1-20
9
Su questa distinzione la sintesi dii. Diamanti, 1/falso mito del Nord, «La
repubblica», 16 aprile 2006.
7
fiammata, ha tenuto senza sfondare: alla prova del governo
dopo il 2001 non è riuscito a esprimere una grande strategia per
il Nord, al di là di qualche cantiere più di forma che di
sostanza. Non a caso, nei 2006 Forza Italia è arretrata in tutto il
Nord. Sono rimaste la xenofobia e la protesta antifiscale. Ma
poco altro, in positivo.
I «miti» del Nord compatto, avanzato, rappresentato
Alla luce di questa storia contraddittoria, occorre
smontare alcuni miti. Il primo è che ci sia veramente un Nord
compatto dal punto di vista sociale e politico. Non è vero, non
solo perché Piemonte e Trentino Alto-Adige sono spesso in
controtendenza socio-culturale e politica, non solo perché la
Liguria ha fatto sempre storia a sé. Ma soprattutto, poi, c’è
l’eccezione emiliano- romagnola. Piero Ignazi su «Il Mulino»
l’ha mostrato con efficacia: l’Emilia-Romagna condivide con il
Nord moltissimi aspetti della struttura economica e del
dinamismo sociale. Se scomponiano il Nord per province, nelle
classifiche della produttività, delle esportazioni, della
ricchezza, troviamo province emiliane o romagnole ai primi
posti. Eppure in quelle zone non vince la destra. Insomma, non
funziona lo schemino: benessere e dinamismo uguale voto a
destra antistatalista, arretratezza e difficoltà uguale voto per lo
Stato «chioccia» della sinistra.10
Entrano piuttosto in gioco fattori socio-culturali di
lungo periodo. Come mai la subcultura «bianca» del Veneto è
crollata a sinistra del Po, mentre quella «rossa» emiliana ha
bene o male tenuto? La secolarizzazione moderna ha
10
P. Ignazi, Leggende metropolilane e comportamento elettorale, in «Il
Mulino», 2006, 3, pp. 434ss; e ancora sulla stessa linea F. Anderlini, Una
frontiera italiana, in «Il Mulino», 2007, 4, pp. 644ss.
8
attraversato profondamente tutte e due le zone, eppure... Forse
ci sono ragioni più lontane nel tempo, che affondano le radici
nell’Italia agricola: la zona pedemontana e veneta della piccola
e media proprietà o della colonia parziaria, ha sviluppato nei
secoli un familismo individualistico che l’epoca democristiana
ha contenuto e vellicato allo stesso tempo, e che è esploso in
chiave radicale quando quella mediazione si è rivelata
impotente. Mentre nelle zone della grande proprietà e quindi
del bracciantato una certa maggior propensione alla solidarietà
orizzontale larga e alla gestione comune della società, con il
cooperativismo e le leghe contadine, ha condotto a una
tendenza permanente verso l’investimento maggiore nei beni
pubblici.
Il secondo mito è l’equazione Nord= sviluppo. Il
problema non nasce solo da una parte del paese sviluppata che
non si sente tutelata o rappresentata o sostenuta per varie
ragioni. Il problema è che lo stesso meccanismo dello sviluppo
è in discussione: non è la premessa, è piuttosto parte
fondamentale del problema. Infatti, dopo la crisi
dell’industrializzazione di massa, della stagione fordista del
«triangolo industriale», ha preso piede (come è noto) al Nord
uno sviluppo «a macchia di leopardo», con la crescita dei
distretti industriali, della piccola e media impresa, forte
soprattutto nelle regioni orientali del settentrione e del centro.
Gli studi di Becattini, Bagnasco o Fuà, le analisi in loco di
Giorgio Lago o Ilvo Diamanti hanno delineato un modello. Al
di là degli studi rigorosi, ci sono stati i cantori e gli aedi di quel
modello. Questa struttura capillare si è rivelata flessibile e
capace di affrontare l’avvio della globalizzazione, riducendo i
costi (anche per la sua capacità di aggirare il fisco e le regole).
Ma quando la competizione sul prezzo non è stata più
sufficiente, con la crescita dei competitori asiatici, questo
modello ha mostrato drammaticamente la corda.11 Ha invece
11
M. De Cecco, Alle radici dei problemi dell’industria italiana nel secondo
dopoguerra, in «Rivista italiana degli economisti», 2004, 1; G. Berta,
9
tenuto maggiormente un modello di impresa capace di
investimenti nella ricerca, con dimensioni più adeguate e
struttura finanziaria più solida. Il modello tanto conclamato
della piccola impresa familiare ha posto esso stesso alcune
delle ragioni della crisi dello Stato al Nord: un certo modo di
sviluppo è in questione, nella ricerca delle radici del malessere.
Il terzo mito è il mito della rappresentanza. Si è pensato
che una certa Destra avesse gli uomini giusti per dar volto
politico alla rappresentanza del Nord. Ma dietro ad alcune
icone di successo, proprio la radicata propensione della
borghesia settentrionale a non occuparsi della sfera pubblica,
ha causato una crisi fortissima in questo campo. La sfera
dirigente amministrativa leghista si è dimostrata (mediamente)
di un profilo bassissimo. Berlusconi ha dovuto basarsi sugli
«amministratori di condominio» alla Albertini, là dove non
aveva abbastanza venditori di Publitalia (alcuni dei quali hanno
peraltro dato prove non banali). I fallimenti storici, tipo la crisi
di Malpensa, per citare una questione di attualità, non hanno
affatto solo ragioni «romane», ma si spiegano anche alla luce
della mancanza di strategia, di vigore, di creatività della classe
culturale-politica di centro- destra al governo del Nord. Se non
si risolve questo problema, la vigorosa razza padana non
diventerà mai capace di autogovernarsi e di influire magari
anche su Roma. Non si passerà mai nemmeno oltre la
chiacchiera sul tema del federalismo. Il federalismo vero
chiede infatti dedizione alla cosa pubblica e capacità gestionali
e progettuali ancor maggiore del centralismo, non disinteresse
e apatia. Infatti, i notevoli poteri trasferiti alla periferia in
questi anni non sono stati particolarmente ben sfruttati da
coloro che impersonavano in modo roboante la novità del Nord
che prendeva in mano il suo destino.
L’Italia delle fabbriche, Il Mulino, Bologna 2007.
10
Ripensare il rapporto Stato-cittadino
Se sta questo discorso, per andare oltre i miti, allora il
punto vero di ogni discorso sulla «questione settentrionale» è
un ripensamento profondo del rapporto Stato-cittadino. La
critica all’individualismo acquisitivo e patrimonialista, senza
regole e senza freni, così radicato nelle nostre lande
settentrionali ne è il primo ineludibile passo. Senza il
superamento di questa deriva il paese non diventerà più civile e
quindi nemmeno la sua struttura produttiva reggerà alla
competizione. Ecco perché non mi convince la geremiade
diffusa nel centro sinistra per cui «non siamo capaci di parlare
al Nord». Si sono fatti documenti da parte dei «democratici del
Nord» dove, accanto a riflessioni pacate e sensate, appaiono
altre uscite d’ingegno, che approdano surrettiziamente a dire
che per vincere al Nord occorre non solo ascoltare il malessere
- cosa di per sé ovvia - ma sostanzialmente dar ragione alla
gente che lo esprime’.12 E via quindi partono i discorsi sulla
riduzione delle tasse, sull’abolizione dell’Ici sulla prima casa,
sulle liberalizzazioni ecc.ecc. Tutte cose giuste per carità, forse
opportune, ma parziali. Troppo parziali. Rivelano uno schema
mentale pressappoco di questo tipo: io sono il loro leader,
quindi devo seguirli. Rivelano lo stesso approccio le eleganti
riflessioni di un Aldo Bonomi: «Nel Nord abbiamo a che fare
con una società dell’individualismo compiuto in cui non ci si
sente ultimi. Al contrario, ci si sente primi nel sistema paese e
collocati sul confine della competizione globale».13 Un nuovo
peana all’autonomia e alla capacità molecolare della società di
auto-organizzarsi, cui seguono le consuete geremiadi sulla
politica che non è in grado di interpretarla. Ma ne siamo sicuri?
Perché allora questi non prendono in mano il loro destino? Se
questa è l’inespressa fondazione di tante ricerche di originalità,
12
13
Cfr. i materiali raccolti su www.democraticiperilnord.it
A. Bonomi, La secessione dolce, in «Il Mulino», 2007, 4, p. 658
11
non ci siamo. Il vero leader politico deve esprimere la forza di
una posizione tale che si può permettere di spiegare alla sua
gente dove sbaglia. Certo, per poterselo permettere, occorre
una posizione «al di sopra di ogni sospetto» non solo dal punto
di vista personale (e dei privilegi di «casta»), ma anche come
capacità di progettualità e gestione della cosa pubblica.
In termini più precisi, occorre sostituire il binomio
«favori-indifferenza», con il nesso «diritti-responsabilità». Non
basta promettere che faremo più autostrade: il cittadino
indifferente alla cosa pubblica, che non riesce più a guidare nel
traffico caotico, chiede l’autostrada come un favore, non come
un diritto cui corrisponde un impegno. Negli stessi circoli
leghisti circola una petizione per istituire... udite, udite, un
Ministero per la questione settentrionale! Quanto di più
contraddittorio, se partiamo dall’idea della razza padana attiva
che si risolve i problemi da sé. Il leghismo cade quindi nello
stesso vizio assistenziale del Sud. Parla contro lo Stato ma al
momento buono chiede soldi allo Stato. Il cittadino deve essere
messo in condizione di superare questo nesso, venendo educato
al rapporto diritti-responsabilità. Se ci sono diritti ai servizi, ci
sono peraltro precisi corrispettivi: impegni finanziari e impegni
civici per far funzionare la cosa pubblica. Qui si apre la
questione enorme della necessità di rilegittimare il sistema
fiscale, come corrispettivo di responsabilità comune verso uno
Stato che funzioni. Si tratta di un approccio esigente per tutti e
due, il politico e il cittadino, ma necessario e alla lunga
produttivo.
Infine, occorre prendere sul serio il problema di
costruire nuove identità. Le esigenze identitarie crescono in
maniera confusa, surrettizia, o anche palese, nella nostra
società. Il malessere del Nord sta anche in questo: di fronte alla
incertezza della globalizzazione e dello spaesamento indotto
della «società del rischio», con che cosa posso identificarmi?
Quale realtà mi può dare quel riferimento di sicurezza che
12
manca? Occorre dar loro qualche risposta di alto livello, che
non siano le fregnacce sulla Padania, oppure il rozzo
conservatorismo catto-tradizionalista riscoperto dalla Lega
dopo anni di anticlericalismo. Se si riuscirà a costruire attorno
alle istituzioni, al «nostro» Stato, ai valori costituzionali, un
senso di riconoscimento immediato e solido, avremo vinto la
battaglia della identità e quella del dialogo maturo tra diversi.
E’ compito da far tremar le vene ai polsi, certo. Implica serietà,
capacità creativa dal punto di vista simbolico, impegno
educativo, coerenze tra parole e fatti... Ma è una sfida
necessaria. Altrimenti, il tema del «malessere» del Nord sarà
fatto proprio da qualche altro imprenditore politico disinibito, e
alla fine di questo tunnel potremmo trovarci in acque molto
pericolose.
Stampato in proprio ad uso interno
13
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Esiste la questione settentrionale?