A.J. Cronin
Neve incantata
Titolo originale: Enchanted Snow
Traduzione di Maria Martone
© 1970 Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Supplemento di Confidenze n. 1200
Anno XXV – 24 maggio 1970
Indice
Profilo dell’autore a cura di Bluebook ............................................................................. 3
Neve incantata ............................................................................................................... 5
Primo capitolo............................................................................................................. 6
Secondo capitolo....................................................................................................... 10
Terzo capitolo ........................................................................................................... 13
Quarto capitolo ......................................................................................................... 18
Quinto capitolo ......................................................................................................... 22
Sesto capitolo............................................................................................................ 28
Settimo capitolo........................................................................................................ 31
Ottavo capitolo ......................................................................................................... 37
Nono capitolo ........................................................................................................... 39
Decimo capitolo........................................................................................................ 45
Undicesimo capitolo ................................................................................................. 52
Dodicesimo capitolo ................................................................................................. 57
Tredicesimo capitolo ................................................................................................ 66
Quattordicesimo capitolo.......................................................................................... 74
Quindicesimo capitolo.............................................................................................. 79
Sedicesimo capitolo.................................................................................................. 84
Diciassettesimo capitolo........................................................................................... 88
Diciottesimo capitolo................................................................................................ 92
Diciannovesimo capitolo .......................................................................................... 95
Profilo dell’autore
a cura di Bluebook
Archibald Joseph Cronin (1896-1981) fu un famoso e prolifico scrittore scozzese.
Studente precoce, vinse vari premi ed una borsa di studio in medicina per
l’Università di Glasgow: si laurea con lode nel 1919, e la sua compagna di corso,
Agnes Mary Gibson, diventerà in seguito sua moglie.
Servì come chirurgo nella Royal Navy durante la Prima guerra mondiale: queste
esperienze le riverserà nel romanzo La via di Shannon (1948). Finita la guerra lavorò
in una zona mineraria del Galles del sud, divenendo ispettore medico delle miniere
nel 1924. Anche queste esperienze verranno usate per alcuni romanzi, i più famosi
dei quali sono E le stelle stanno a guardare (1935) e La cittadella (1937).
Nel 1931 Scrisse il suo primo romanzo, Il castello del cappellaio, durante delle
vacanze nelle Scottish Highlands: il successo ottenuto lo spinge a continuare l’attività
letteraria.
Sul finire degli anni ’30, per sfuggire la guerra, si trasferisce negli Stati Uniti con
la famiglia, stabilendosi nel Connecticut; tornerà in Europa negli anni ’50,
stabilendosi in Svizzera fino alla morte.
Bibliografia italiana
1931 - Il castello del cappellaio (Hatter’s Castle)
1932 - Tre amori (Three Loves)
1933 - Gran Canaria (Grand Canary)
1935 - E le stelle stanno a guardare (The Stars Look Down)
1937 - La cittadella (The Citadel)
1939 - Angeli della notte (Vigil in the Night)
1941 - Le chiavi del paradiso, o Le chiavi del regno (The Keys of the Kingdom)
1943 - La valigetta del dottore (The Adventures of a Black Bag)
1944 - Gli anni verdi (The Green Years)
1948 - La via di Shannon (Shannon’s Way)
1950 - Il giardiniere spagnolo (The Spanish Gardener)
1952 - Avventure in due mondi (Adventures in Two Worlds) - autobiografia
1953 - Viviamo ancora (Beyond This Place)
1956 - La bellezza non svanirà (A Thing of Beauty)
1958 - La luce del nord (The Northern Light)
1961 - L’albero di Giuda (The Judas Tree)
1964 - La canzone dei sei soldi (A Song of Sixpence)
1969 - Uno strano amore (A Pocketful of Rye)
1970 - Neve incantata (Enchanted Show) RomanziRosa 13
1975 - Ma il cielo non risponde (Desmonde, oppure The Minstrel Boy)
1976 - La dama dei garofani (Lady with Carnations)
1978 - Dottor Finlay (Doctor Finlay, oppure Tannochbrae)
1978 - Grazia Lindsay (Gracie Lindsay)
Neve incantata
Primo capitolo
La ragazza era appena salita sul treno che Merrid si sentì invadere da una strana
esaltazione. Era poco dopo l’alba di una gelida mattina di febbraio e la nebbia
rendeva quasi illeggibile l’insegna della stazione: “Seldkirche”. Svegliato di
soprassalto, lui continuò a fissare la viaggiatrice che si era seduta nell’angolo più
lontano del sedile di fronte. Il viso girato verso il finestrino, indifferente al suo esame,
così immobile e assorta su quello sfondo bianco di neve e di abeti, gli appariva più
una creazione della sua fantasia che una donna in carne e ossa.
Un gong fu percosso e il treno riprese a correre attraverso il paesaggio invernale
del Tirolo, sfiorando senza rumore le rotaie gelate, col rombo delle sue due
locomotive così soffocato dalla neve che sembrava muoversi in un sogno. Neve
dappertutto, alta e candida, ammassata ai lati della linea, sugli alberi e i tetti delle
cabine di segnalazione e sui piccoli chalet annidati al riparo dei monti.
Ma per Lewis Merrid, ora completamente sveglio, quella scintillante scenografia
alpina non aveva alcun interesse. Scorrendo sulla figura addormentata di sua sorella
Connie, i suoi occhi continuavano a posarsi sulla nuova arrivata, studiandola con una
strana, confusa intensità: lo sguardo di un uomo insieme affascinato e sgomento.
Avvertì a un tratto l’impulso violento, inesplicabile, di rivolgere la parola a
quell’estranea. Ma fu Connie a rompere per prima il silenzio. Si raddrizzò con una
smorfia dalla sua scomoda posizione e stirandosi e strofinandosi gli occhi dichiarò
che non poteva più dormire.
«Questo treno mi ucciderà!», proclamò lamentosamente. «Dio solo sa perché non
siamo tornati a Kehl, dove avremmo potuto prendere l’Orient Express. Ma se non è
possibile riposarci potremo almeno mangiare un boccone, no?»
Tirandosi sulle ginocchia un sacco da montagna pieno da scoppiare e facendo buon
viso alla cattiva sorte la sorellina di Lewis dispose sul sedile la loro prima colazione:
panini e burro fresco, prosciutto e würstel, pretzel e un doppio termos di caffè caldo,
che si erano fatti dare la sera prima al loro albergo di Monaco. Sturato, il caffè emanò
un profumo irresistibile. Ma quando Connie gliene tese un bicchiere di alluminio
colmo Lewis lo accettò senza neppure sorridere. Dopo aver esitato si girò
bruscamente di nuovo verso la sorella indicandole con uno sguardo perentorio la loro
compagna di viaggio. Connie seguì sorpresa i suoi occhi. In un uomo abitualmente
riservato e taciturno come Lewis quell’interesse improvviso la sbalordiva. Aveva
alzato le spalle appuntando le labbra in una delle sue tipiche smorfiette infantili. Ma
obbedendo all’ingiunzione del fratello si affrettò a piegarsi amichevolmente verso la
ragazza rannicchiata nell’angolo.
«Attaccheranno soltanto a Innsbruck il vagone ristorante. Non vuole dividere
intanto la nostra colazione?»
Poiché la ragazza conservava la sua aria remota e assorta, Connie pensò di non
essere stata udita. La vide infine girare lentamente la testa.
«No, grazie», si limitò a mormorare.
Prima di potersene rendere conto, Lewis si era ansiosamente intromesso nella
conversazione.
«La prego... È una colazione più che modesta, ma saremmo felici se volesse
tenerci compagnia.»
Quando la ragazza gli posò per la prima volta addosso lo sguardo, Lewis avvertì
come l’urto di una forza sconosciuta, talmente quei grandi occhi dell’azzurro
trasparente dei ghiacciai erano velati da un’intensa, disperata tristezza.
«Mi scusi», replicò la ragazza, «ma non potrei toccare niente.»
«Beva almeno un po’ di caffè», insistette premuroso lui. «Qui si gela. Questi treni
non sono mai ben riscaldati e stiamo continuando a salire...»
Nella pausa che seguì, staccandosi da Lewis, gli occhi della ragazza si alzarono per
un istante sulle vette altissime che sembravano avvolte in sudari bianchi.
«Sì, fa freddo.» Riavendosi con sforzo la sconosciuta tentò di sorridere. «Lei è
molto gentile. Gradirei un sorso di caffè... se ne avanzasse.»
Felice di averla convinta, Lewis le tese il proprio bicchiere che non si era ancora
portato alle labbra. La ragazza bevve con avidità il caffè caldo. Un po’ di colore le
salì alle guance.
Lewis notava intanto il suo modesto vestito di lana blu troppo leggero, un po’
lucido ai gomiti, le sue scarpette nere quasi logore. La ragazza non aveva una
pelliccia; prima di sedersi si era sfilato per metterlo sulla rastrelliera soltanto un
cappotto scuro di una stoffa qualunque. E la valigetta posata accanto a lei sul sedile
era di volgare fibra marrone. Lewis cercò istintivamente un’etichetta che gli avrebbe
forse rivelato il suo nome. Ma non ne vide.
Nello scompartimento cadde uno strano, imbarazzante silenzio. Ma per poco. I
silenzi non duravano mai molto quando c’era di mezzo Connie, campionessa del
mondo delle chiacchiere.
Dopo essersi accesa una sigaretta lei si raggomitolò sul sedile.
«Sarebbe ora che facessimo le presentazioni», disse vivacemente. «lo sono Connie
Merrid e questo è mio fratello Lewis. Siamo americani e giriamo da più di tre
settimane l’Europa. Strasburgo e Salisburgo, sa?, e così,via. Ora andiamo a Vienna a
ritrovare un amico, Steve Lennard, il corrispondente, del “New York Dispatch”. Io
non vedo l’ora di essere a Vienna, ma...»: e Connie accennò al finestrino: «passerei
prima volentieri, lo confesso, qualche giorno su quei monti». S’interruppe per
riprendere fiato. «È davvero esaltante, non le pare?, quel meraviglioso, sconfinato
deserto di neve!»
Presa così di petto la ragazza nell’angolo fu costretta a rialzare gli occhi. Lewis,
che non aveva smesso di fissarla, notò che contraeva leggermente le labbra.
«No», la sentì dichiarare gravemente, «quei monti non hanno niente che mi attiri».
Nello scompartimento ricadde un silenzio penoso.
Pur non avendo nulla di scortese, la risposta della ragazza tradiva uno strano
avvilimento che mentre acuì l’interesse di Lewis lo sconcertò ancora di più. Meno
sensibile alla tensione che gli altri due dovevano avvertire nell’aria, Connie aspirò
dalla sua sigaretta una lunga boccata.
«Lei è inglese, vero?», chiese amabilmente alla ragazza.
«Sì. Ma non vivo in Inghilterra. Ho passato quasi tutta la mia vita sul continente.
Vengo...», la ragazza esitò prima di finire la frase, «da Monaco.»
«Davvero? Allora dovrà salire spesso, immagino, su questi monti», osservò
interessata Connie.
Vedendo la ragazza arrossire e smarrirsi, Lewis si sentì costretto da un interesse
sempre più vivo a intervenire. Lanciò a sua sorella uno sguardo irritato.
«Connie, non credi che sia un po’ troppo presto per tempestare di sciocche
domande la signorina?»
Gli sembrò di vedere per un attimo sul viso della sconosciuta un’espressione di
sollievo. Mentre il treno continuava la sua corsa – incontrando difficoltà sempre
maggiori e dopo aver affrontato una salita ripida entrava in una gola rocciosa quasi
completamente coperta dalla neve indurita e incrostata come una grotta azzurra di
pesanti stalattiti di ghiaccio, – non riuscì quasi a staccare gli occhi dalla sua
misteriosa dirimpettaia. Il suo cuore pieno di confusione tentava invano di resistere al
fascino di quella strana creatura. Non sapeva spiegarsi l’ossessione che, favorita forse
dalle circostanze e da un brusco cambiamento di scena, sembrava essersi impadronita
di lui.
Lewis Merrid era un uomo sensato e pratico, alieno da romanticismi e vuote
fantasticherie. Considerava colpi di fulmine e innamoramenti a prima vista ridicole
esagerazioni. Eppure non riusciva a contenere i battiti precipitosi del suo cuore, o a
scacciare il pensiero che l’incontro con quella ragazza così bella e fragile, su cui
sembrava gravare l’ombra di un dramma, fosse voluto dal destino.
Il silenzio si prolungò di quasi mezz’ora. Immobile, la guancia appoggiata al
palmo della mano, gli occhi risolutamente fissi sul libro che aveva tolto nel frattempo
dalla sua valigia, la ragazza sembrava a mille miglia di lì.
Improvvisamente la porta dello scompartimento fu fatta scorrere e il controllore
mise dentro la testa.
«Prossima fermata Lächen!», annunziò con voce stentorea. «Preparare i passaporti,
prego!»
Le dita che stringevano il libro s’irrigidirono bruscamente, Lewis l’avrebbe
giurato. Se fosse stato possibile la ragazza diventò ancora più pallida.
Mentre con uno stridio di freni il treno cominciava a rallentare, la sconosciuta
abbassò il libro e posò la mano sul manico della valigia. Voleva forse metterla sulla
rastrelliera?
«Posso aiutarla?», chiese Lewis.
«Molte grazie», rispose quasi in un soffio lei: «Ma scendo qui a Lächen».
Era già apparsa la bassa costruzione, grigia e squallida, della stazione. Quando il
treno si fermò, dopo un violento scossone, la ragazza si era già alzata. Facendo
evidentemente appello a tutte le sue forze, paurosamente pallida, prese la sua valigia
e dopo aver gettato a Lewis e a Connie un breve sguardo di commiato scese sul
marciapiede. Un istante dopo la sua figura esile spariva dietro il velo della neve che
cadeva fitta.
«Non la definirei un tipo socievole!», commentò indignata Connie.
Suo fratello scosse lentamente la testa.
«Era semplicemente spaventata a morte.»
Connie rimase a bocca aperta. «Aveva comunque una fretta del diavolo! Guarda,
ha dimenticato il suo libro.»
Era vero. Il volume che poco prima la ragazza fingeva forse di leggere era rimasto
sul sedile. Prima che Connie potesse intervenire, Lewis allungò il braccio e lo prese.
Il libro era un romanzo di Heinrich Mann. Quando l’aprì Lewis si sentì battere di
nuovo il cuore. Sulla prima pagina c’era una dedica: “A Sylvia Ullwin da Karl”. e
sotto: “Gasthof Hohne, Kriegeralp”.
Mentre fissava quella rude scrittura maschile Lewis avvertì attraverso la nebbia
della sua emozione un rumore di passi che si avvicinavano. Istintivamente si ficcò in
tasca il libro. Un istante dopo entrarono nello scompartimento due poliziotti austriaci.
Dopo aver frugato accuratamente dappertutto dedicarono un’attenzione esagerata ai
passaporti che Lewis tese loro.
«Non c’era nessun altro, qui?» chiese poi, aggrottandosi, il più anziano dei due.
«No», rispose con calma Lewis.
Dopo averlo scrutato con severità, evidentemente convinto l’uomo piegò in un
breve saluto militaresco il busto e lui e il suo compagno si ritirarono.
«Che cosa volevano?», chiese incuriosita Connie.
«Oh, niente.» Lewis sedette di nuovo nel suo angolo. «Le solite formalità.» Ma
dietro alla sua apparente indifferenza lo possedeva una profonda, insospettata
emozione. E mentre il treno usciva dalla stazione il rumore ritmico del convoglio si
trasformava nel suo cervello in una specie di beffarda litania. Prima quel bel nome,
Sylvia Ullwin; poi quella strana, oscura indicazione: “Gasthof Hohne, Kriegeralp”.
Secondo capitolo
L’Hotel Bristol si trova di fronte alla Ringstrasse, a un minuto dall’Opera, ed è
facile, osservando i galloni del suo portiere, riconoscerlo come il migliore di tutta
Vienna.
Erano le sei del pomeriggio. Erano passati tre giorni da quell’episodio a prima
mattina nel treno locale da Seldkirche.
Seduto sul divano dell’elegante appartamento che Connie aveva scelto per loro,
Lewis Merrid tentava invano di concentrarsi sull’edizione continentale del “New
York Dispatch”.’Era solo. L’alto specchio dalla sontuosa cornice dorata rifletteva la
sua figura lunga e slanciata, in quel momento nervosamente tesa. Aveva una ruga
profonda fra gli occhi. La sua faccia dai tratti energici e fini, dalle sopracciglia
momentaneamente increspate, era quella di un uomo che si è imposto fin dalla prima
gioventù il traguardo di un ideale di perfezione fisica.
Lewis Merrid lavorava da anni per indurirsi, per irrobustire la sua fibra perché
potesse durare. Erede di una grande società di navigazione, aveva chiesto egli stesso
al padre di cominciarvi il suo apprendistato dall’ultimo scalino per poter arrivare un
giorno in cima sicuro delle sue qualità di marinaio e d’uomo. Aveva dormito per mesi
steso sulla tolda, e fatto come un vero uomo il suo turno di guardia sulla coffa,
incurante delle tempeste che gl’infuriavano intorno. Si era orgogliosamente imposto
per tutta l’adolescenza e la prima gioventù un tenore di vita spartano.
A trent’anni, ora, alla testa della “Merrid Shipping Company”, da quando, tre anni
prima, gli era morto il padre, sembrava più un giovane lupo di mare che l’abile uomo
di affari che era. Finora le donne avevano avuto poca parte nella sua vita, ma non
perché fosse timido o goffo, o non gli piacessero; la sua indifferenza per le belle
figliole era stata una delusione cocente per molte signore del bel mondo desiderose di
accasare le proprie figlie.
Ma adesso, in questo viaggio in Europa. che aveva intrapreso più che altro per far
piacere a Connie, improvvisamente, inesplicabilmente, era successo l’impossibile. Un
fortuito, brevissimo incontro... una ragazza sconosciuta, che Lewis vedeva per la
prima volta e che non avrebbe più rivista. Eppure era bastato perché gli si accendesse
nel cuore una scintilla che lo bruciava. Perfino mentre fingeva, ora, d’interessarsi agli
articoli del “Dispatch”, interponendosi fra lui e la pagina del giornale quel viso
diafano gl’impediva di capire ciò che leggeva.
Seduto su quel divano d’albergo Lewis continuava inutilmente a difendersi da
quell’ossessione. A un tratto la porta dell’appartamento si aprì e preannunziati da uno
scoppio di risa entrarono Connie e Steve Lennard. Avevano l’aria di due che arrivano
soddisfatti da qualche luogo interessante e non hanno ancora esaurito il programma
della loro giornata.
«Guarda un po’ l’uomo che viene a Vienna per chiudersi in una stanza d’albergo!»,
esclamò Steve indicando Lewis. «Si può sapere che cosa ti ha preso, caro? Perché ti
ostini a startene segregato qui dentro? Ti stai perdendo una quantità di bellissime
cose.»
«Siamo stati al Kaltzenberg», Connie informò vivacemente il fratello. «Non
immagini che vista stupenda! Poi Steve mi ha portata in una pasticceria favolosa e mi
ha offerto cioccolata e paste... Non credo di averne mai gustate in vita mia di più
squisite!»
«Connie si è fatta onore», la interruppe Steve. «Ne ha divorate sei... o erano sette?
Mi dispiace di doverti avvertire, Lewis, che tua sorella non ha l’ombra del pudore. Se
non l’avessi trascinata via a viva forza sarebbe ancora lì a rimpinzarsi. Per me Connie
rappresenta un problema insolubile. Ogni volta che siamo insieme offende nella
maniera più brutale la mia sensibilità raffinata... Eppure, da quando non aveva più di
sei anni, credo, continuo a vuotarmi il portafoglio per offrirle divertimenti e
ghiottonerie! Per non parlare dei regali!»
«Io lo chiamerei amore», intervenne l’interessata.
Steve sospirò. «Odio convenirne, ma... forse hai ragione.»
Dopo aver sospirato di nuovo Steve si sistemò comodamente su una poltrona. Era
un giovanotto di aspetto gradevole, che cercava di dissimulare sotto un’aria di
cinismo sofisticato una natura inguaribilmente candida e affettuosa.
«Parlando dal punto di vista di un uomo tappato in un albergo», rispose fissando
perplesso Lewis, «che cosa te ne pare, di questo paese?»
«Non ne ho visto molto. Ma non ci si sta male.»
«È solo l’apparenza, purtroppo!», protestò Steve. «Ma sai quello che si sente
sussurrare sui campi di concentramento...»
«Sono davvero spaventosi come dicono?», chiese Connie.
«Peggio. E li stanno riempiendo talmente che finiranno per esplodere. Uomini e
donne civili e onesti, specie intellettuali e professori sbattuti lì perché si rifiutano di
leccare le scarpe al governo. È un vero... Ehi, Lewis!», gridò raddrizzandosi
bruscamente Steve, «non abbiamo tempo da perdere! L’opera comincia alle otto e
dobbiamo prima pranzare.»
Lewis fece un gesto di diniego. «L’opera? Credo che la lascerò perdere.»
«Che cosa? Dopo che mi sono ammazzato per procurarmi i biglietti? Senti, Lewis,
non so cosa diavolo ti sia capitato, ma ho il dovere di dirtelo: stai diventando un
cataplasma!»
Accorgendosi che il suo amico era veramente addolorato Lewis si arrese.
«E va bene, Steve, verrò.»
«Bravo, così va meglio.»
«Sarò pronta fra un minuto, e più bella che mai!», promise Connie avviandosi
verso la sua stanza.
Impiegò, per essere precisi, quasi venti minuti a vestirsi. Né Lewis né Steve
s’incomodarono a cambiarsi. Dopo aver pranzato in fretta nel ristorante a terreno
dell’albergo, attraversarono la strada per entrare nell’atrio di luci dell’“Opernhaus”.
Quando arrivarono il sipario stava per alzarsi. “La Bohème”, una delle opere
preferite dai viennesi, aveva riempito come al solito l’enorme teatro. Ma lo spettacolo
di quella folla elegantissima, in una cornice di un lusso sfarzoso, lasciò indifferente
Lewis. Quando l’orchestra attaccò l’ouverture la bellezza alata della musica
pucciniana lo avvinse per un momento. Ma sebbene la messinscena fosse di un gusto
squisito e le voci superbe, scoprì presto che i suoi pensieri erano molto lontani dalle
vicende amorose di Mimì e Rodolfo. Si sorprese a guardarsi intorno nella sala in
penombra, come se cercasse un viso che gli sfuggiva. Il suo sguardo si posò su molte
delle belle donne che occupavano le poltrone vicine alla sua solo per ritrarsene subito
deluso.
Lewis Merrid non sarebbe riuscito, cominciava a intuirlo, a fermare la corrente
segreta del suo destino. Mentre, nell’intervallo, passeggiava nell’atrio, si voltò
improvvisamente verso Steve Lennard. La domanda gli sfuggi prima che potesse
rendersene conto.
«Dimmi, Steve, che cosa è, se lo sai, il Kriegeralp?»
Interrotto nel bel mezzo di una frase l’altro lo guardò interdetto.
«Una montagna. Perché?»
«E dove si trova?»
«Molto lontano di qui. È sulla frontiera, oltre Burgstegg, a miglia e miglia da
qualunque luogo abitato. Soltanto rocce, neve e ghiacciai. Non ci crescono neppure
gli edelweiss.»
Lewis sorrise lievemente, remotamente, come di un pensiero che si custodisse
dentro con gelosia. Sembrava rasserenato. Per tutta la sera tenne a quei due un’ottima
compagnia. Ma ad onta delle proteste di Steve, rifiutandosi di andare a cenare con
loro in uno dei famosi ristoranti di Vienna rientrò subito dopo lo spettacolo
all’albergo.
La mattina seguente, mentre quasi tutti dormivano ancora, Lewis scrisse a sua
sorella un biglietto dicendole che sarebbe rimasto per qualche giorno lontano da
Vienna e esortandola a continuare con Steve la visita della città. Poi partì, avendo
cura di non dare nell’occhio, per il Kriegeralp.
Terzo capitolo
Dopo essere tornato abbastanza facilmente a Lächen, Lewis incontrò qui le sue
prime difficoltà. La gioia che provò smontando dal treno nel vento gelido, sullo
stesso marciapiede dove aveva visto sparire Sylvia, svanì appena, all’uscita dalla
stazione, scoprì che era impossibile affittare una slitta. Ce n’erano soltanto un paio
nell’apposito capanno, con i cavalli sepolti sotto montagne di coperte davanti a un
braciere acceso. E ambedue i cocchieri si rifiutarono d’intraprendere il lungo viaggio
fino al Kriegeralp. Anche se Heinrich, aggiunsero alzando le spalle, si sarebbe
lasciato forse indurre ad accettare, loro non erano pazzi come lui.
In fondo alla strada incrostata di neve che partiva dalla stazione c’era un piccolo
caffè da cui usciva la musica stridula di una radio economica. Fu lì che Lewis trovò
Heinrich, seduto ``comodamente davanti alla stufa panciuta, con un libro in mano.
Sulle prime, quando Lewis gli fece la sua proposta, l’uomo non rispose neppure.
Era un contadino torpido, con due occhietti neri in una faccia dalla fronte bassa,
incredibilmente segnata dalle intemperie. Lewis lo vide a un tratto raddrizzarsi
riavvicinando le sopracciglia folte.
«Il Kriegeralp è lontanissimo, caro signore. Bisogna arrampicarsi fino a più di
duemila metri. E il “Gasthof Hohne”...», e alzò, come avevano fatto gli altri, le spalle
grasse, «non è un posto per lei».
«Perché?»
«Non è come Burgstegg. Lassù non troverà un “Grand Hotel”. Niente tabarin o
bar.»
«Lei me lo sta raccomandando», lo informò, fissandolo, Lewis. «Mi fa desiderare
più che mai di andarci.»
Inaspettatamente Heinrich scoppiò a ridere. “Sa stare agli scherzi” si disse Lewis.
«Così va meglio», approvò. «Un’altra parola sul “Gasthof”. Vorrei arrivarci più in
fretta che le riesca». Si tolse di tasca una banconota e la tese in silenzio.
Alla vista della cifra gli occhi di Heinrich si dilatarono.
«È lontano... molto in alto», borbottò. «Due o tre ore al minimo con la slitta. E
nevicherà presto di nuovo.» Accennò col pollice al cielo. «E forte...»
Heinrich s’interruppe per inumidirsi le labbra, ma senza staccare gli occhi dal
denaro. La tentazione era troppo forte. A un tratto il biglietto fu nella sua mano,
mentre, facendo un gesto come per alleggerirsi da ogni responsabilità, il cocchiere
emetteva un suono gutturale di assenso. Finì la sua birra e si alzò, intimando con un
cenno a Lewis di prepararsi a partire immediatamente.
Dieci minuti dopo il cavallo era bardato e avvolti in pesanti coperte Lewis e
Heinrich si sistemavano sulla slitta. Heinrich lanciò all’animale un breve, esplosivo
comando, e partirono.
Lasciatasi alle spalle Lächen cominciarono presto l’ascesa del valico, che
raggiungeva, descrivendo una serie di aspri zig zag, livelli impressionanti. Il
paesaggio era superbo. Mentre alle loro spalle il villaggio si rannicchiava come un
uccello nel seno bianco della valle, davanti e ai loro lati sorgevano in tutta la loro
incomparabile maestà le Dolomiti.
Grandi, aguzzi picchi svettavano intorno a loro, ammonticchiandosi, fondendosi
quasi, irti di rocce e coperti di abeti, salendo con infinita maestà fino a forare quasi –
avresti detto – la volta stessa del cielo. In quel mondo sconfinato di neve e silenzio il
pensiero dell’insignificanza dell’uomo ti assaliva con una brutale, terrificante
intensità. Quei due avevano l’impressione di muoversi come formiche sulla faccia di
un enorme universo gelato.
Si parlavano poco, ma Lewis si accorse che Heinrich sembrava preoccupato dal
tempo. Continuava a guardare il cielo, e verso le undici, quando i primi fiocchi incerti
si trasformarono in una spessa nevicata, lo sguardo che lanciò al suo passeggero
traboccava di protesta e rimprovero.
Poco prima del mezzogiorno raggiunsero un piccolo rifugio dove Heinrich fece
riposare il cavallo e lo sfamò. Si trattava di una misera baracca, l’ultima abitazione
umana prima del deserto del Kriegeralp. La colazione che fu loro servita consisteva
in pane nero e formaggio, e una bottiglia di birra. Mentre mangiavano, Heinrich non
smise di parlottare col custode del rifugio. Pur non comprendendo una parola Lewis
decise, e non si sbagliava, che discorrevano di lui.
Misera com’era, a confronto con la tormenta che dovettero affrontare, la baracca
sembrò loro, appena l’ebbero lasciata, un paradiso di comodità e calore.
Ripresero a salire, seguendo una pista ancora più ripida e stretta. Gli alberi erano
spariti, e ululando sinistramente su quelle alture desolate il vento scagliava loro in
faccia la neve accecandoli, soffocandoli quasi, in particelle così fini che davano
l’impressione di sbuffi di vapore. Continuarono faticosamente a inerpicarsi. Nei tratti
peggiori dovevano smontare e trascinarsi dietro la slitta, piegati in due per difendersi
dal vento, affondando con ogni passo barcollante nella neve fino al disopra dei
ginocchi.
Lewis Merrid non avrebbe saputo dire per quanto tempo lottarono contro gli
elementi. Era così imbacuccato e carico che non sarebbe riuscito nemmeno a farsi
uscire l’orologio dalle molte maniche sovrapposte. Ma nel tardo pomeriggio, proprio
quando cominciava a temere che sarebbero stati sorpresi dalla notte, superarono
un’ultima gola dalle pareti quasi a picco e a un tratto, come un miraggio
misteriosamente apparso davanti a lui, Lewis vide l’albergo.
Il “Gasthof Hohne” era una lunga, bassa costruzione interamente di legno, con
grondaie larghe, spioventi, circondato da numerosi piccoli annessi in forma di chalet.
Una casa ormai molto vecchia, come Lewis poté giudicare dai piccoli pannelli
cerchiati di piombo delle finestre dal tetto inclinato e dai larghi davanzali.
Nell’albergo era già stato acceso, vide rincuorandosi, un lume a petrolio di cui la
luce traspariva da una delle finestre a terreno. Irrigidito, gelato, smontò faticosamente
dalla slitta e andò a bussare alla porta d’ingresso.
Venne ad aprirgli un uomo che doveva aver superato da un pezzo la mezza età:
pallido, dall’ossatura pesante, con una massa di capelli incolti e il mento coperto da
una barba ispida, ma dai bei tratti regolari e dal portamento signorile.
Immobilizzandosi per un momento fissò su Lewis i grandi occhi luminosi.
Lewis fu il primo a parlare.
«Potrei avere una stanza? Ho fatto un viaggio faticoso e sarei contento di potermi
riposare.»
L’albergatore sembrava stupito. Ma fece presto un gesto cortese di scusa. «Mi
perdoni», rispose, «se sorpreso com’ero l’ho lasciato fuori. Con una simile tormenta
non ci aspettavamo davvero dei clienti. Entri, la prego. Le mostrerò la sua stanza.»_
L’interno dell’albergo confermò a Lewis la sua prima impressione. Era una strana,
antica costruzione, con corridoi angusti e una ripida scala di legno con la balaustra
decorata da semplici intagli. La stanza di Lewis, piccola e nuda, aveva le pareti e il
pavimento di legno di pino, brillanti di pulizia. L’albergatore posò su un tavolino la
candela accesa con cui aveva fatto strada al cliente.
«Spero che non le manchi niente», disse con la stessa grave dignità. «La cena è
quasi pronta. La serviamo alle sei in punto nella sala a terreno.»
Lasciato solo, Lewis fece girare lo sguardo nella stanza in penombra, tranquillo
come chi è abituato a sistemarsi nei luoghi più strani. Fatto l’inventario andò a
spalancare la finestrella dai vetri impiombati. Subito la tormenta s’ingolfò con tutta la
sua forza nella stanza facendogli sentire l’isolamento pauroso di quel minuscolo
avamposto costruito da animosi sullo sperone aguzzo del Kriegeralp, così lontano e al
disopra del mondo abitato.
Ma ormai niente avrebbe potuto più sgomentarlo. “Sono qui”, si disse: “Ho
raggiunto la mia vera destinazione, perché, ne sono sicuro, dev’essere qui anche lei.”
Il suono di un campanaccio da mucche insistentemente agitato al pianterreno gli
ricordò la cena. Si lavò in fretta mani e faccia nell’acqua gelida della brocca, si
asciugò con una salvietta ruvida e scese.
La sala da pranzo stretta e bassa come la casa stessa occupava metà del
pianterreno. Uno stretto tavolo di abete su cui pendevano due lumi a sospensione,
circondato da nude panche egualmente di abete, la riempiva quasi.
Mentre vi entrava Lewis sentì spegnersi di colpo l’ansia felice che gli gonfiava il
cuore. Al tavolo sedevano tre persone. Ma nessuna di loro era Sylvia. Nascondendo
la sua delusione s’inchinò leggermente e andò ad occupare il suo posto.
I tre altri avevano smesso di mangiare per esaminarlo apertamente. La ragazza
seduta a capotavola, la prima che Lewis notò, aveva un bel viso un po’ troppo
truccato e l’aria smarrita, quasi macabra, di un’ammalata grave. Respirava
affannosamente, soffocando ogni tanto un colpettino di tosse. Indossava un pullover
di un rosso fiammante e una corta gonna beige. E sebbene il suo stato fosse anche
troppo evidente conservava i resti di una aristocratica, dolce grazia. Aveva accanto un
fonografo portatile e ai piedi un minuscolo bassotto. Fumava accanitamente senza
quasi toccare il cibo che aveva davanti.
Ai suoi lati Lewis vide un uomo e una donna, una coppia dall’aspetto trasandato,
col marchio di un onesto, lungo matrimonio stampato sui tratti banali,
dall’espressione arcigna. Occupati com’erano a mangiare voracemente, smisero
presto di esaminare Lewis per concentrarsi di nuovo sulla minestra.
Senza staccare gli occhi dal nuovo arrivato la ragazza aspettò che la giovane
chellerina gli riempisse il piatto. Poi, dopo essersi accesa una sigaretta, gli sorrise.
«Hello!», lo salutò con un ottimo accento inglese.
«Hello», replicò Lewis.
«Bella sera, eh?»
«Bella, sì», confermò senza entusiasmo Lewis.
Inaspettatamente la ragazza ruppe in una risata che si confuse con un nuovo colpo
di tosse.
«Non si preoccupi», disse quando si fu calmata. «Voglio solo farle un po’
d’accoglienza. Sarà forse meglio che mi presenti: Fräulein Rudi, di Vienna, quando è
a casa. E questo è il mio Cirillino». Udendo il suo nome, il bassotto si sollevò sulle
zampe posteriori tirando fuori la lingua rossa e fissando supplichevolmente gli occhi
lucidi su Lewis. «Alla mia destra abbiamo Herr e Frau Schatz, di Rosenheim».
Sentendosi nominare i due alzarono gli occhi e fecero a Lewis, come un paio di
fantocci meccanici, un leggero inchino. «Poiché non conoscono bene come me
l’inglese, potrò parlargliene senza mentire. Sono due poveri diavoli che passano le
loro giornate mangiando e prendendo lezioni di sci da Karl Edler. Chi viene qui, o è
un patito dello sci o deve curarsi come me. Non si spaventi...» S’interruppe per
scoccargli il suo freddo sorriso, «ho solo qualche piccola incrinatura ai polmoni.»
«Capisco», disse imbarazzato Lewis.
In quel momento la porta si aprì per far entrare un ometto dall’aria riservata e
tranquilla. Portava occhiali cerchiati d’oro, una grossa catena d’oro gli sbarrava il
gilé, e indossava un corretto abito blu e un’impeccabile camicia di lino bianco.
Avvicinandosi vivacemente al tavolo fece a Lewis, prima di sedersi e battendo i
tacchi, un inchino cerimonioso.
«Herr Oberholler», lo presentò col suo ironico tono Rudi. «Di Innsbruck. Non
beve. Non fuma. Ama solo le montagne.»
«Sì!» Oberholler sorrise cordialmente a Lewis attraverso le sue spesse lenti. «È
perciò che sono qui. Vengo sempre a passare sui monti le mie vacanze. Altrimenti il
mio lavoro non mi permetterebbe di allontanarmi dalle città. Faccio il piazzista,
vede.»
Lewis annuì.
Dopo essersi portato alla bocca facendo schioccare le labbra un cucchiaio di
minestra Oberholler si voltò paternamente verso Rudi.
«Perché non mangia, cara? In una sera così fredda un po’ di minestra calda fa
bene. Ti ridà forza.»
«Ne ho abbastanza», replicò con amarezza inattesa lei. «Quando vedrete sfasciarsi
questo dannato albergo saprete che gli ho sferrato io un pugno!»
L’ometto si passò con aria compunta una mano nei capelli tagliati a spazzola. Ma
riprendendosi presto si voltò di scatto verso Lewis.
«E lei perché è venuto qui caro amico? È appassionato di sport invernali?»
«Amo tutti gli sport», lo informò amabilmente l’interpellato.
«Davvero! E si tratterrà molto?»
«Non so. Dipende.»
«E da dove viene? Forse da Monaco?»
«No», rispose vagamente Lewis. «Sto facendo un giro, senza itinerario preciso, del
paese.»
«Bene», approvò sorridendo l’ometto. I suoi occhi, buffamente impiccoliti dalle
lenti da miope, rimasero posati ancora un momento su Lewis prima di staccarsi
amabilmente da lui.
Seguì una pausa. Finita la minestra, la seconda portata fu servita dall’albergatore
stesso, Anton, come Lewis aveva scoperto nel frattempo che costui si chiamava.
Dopo aver fatto il giro del tavolo riempiendo generosamente i piatti. Anton, prima di
ritirarsi in silenzio, si trattenne per alcuni minuti, massiccio, con un’aria forse un
tantino minacciosa, nello sfondo. Ma no, si disse subito Lewis, dev’essere senza
dubbio colpa della penombra.
Perfettamente consapevole della curiosità dei suoi compagni di tavola, Lewis
teneva gli occhi abbassati sul piatto. Ma mentre i loro sguardi non lo imbarazzavano
cominciò gradualmente ad avvertire come un’ombra scura che gli si appesantisse
addosso. L’euforia del suo arrivo era scomparsa, sostituita da un senso di fallimento e
tristezza. Si rendeva bruscamente conto della situazione assurda in cui si era cacciato.
È stata una pazzia, si disse, venire ad isolarmi quassù, in mezzo a questi stranieri di
cui non so niente. Si sentiva la vittima di una folle allucinazione, di un miraggio che
si sarebbe certamente dissolto presto nel nulla.
Quarto capitolo
Ma proprio mentre toccava il fondo del suo abbattimento la porta fu di nuovo
aperta. Lewis alzò d’istinto gli occhi e il cuore gli fece un balzo brusco. Nella stanza
stava entrando un giovanotto robusto, in una pesante tenuta da sci. La ragazza che lo
accompagnava era Sylvia Ullwin.
Mentre lei si avanzava verso il tavolo, più reale e bella che non gliel’avesse mai
dipinta la sua fantasia, i dubbi di Lewis scomparvero per sempre. Era stata lei, adesso
ne era sicuro, ad attirarlo qui, dopo aver popolato per anni le sue aspirazioni più
segrete e i suoi sogni.
Passarono diversi minuti prima che Sylvia si accorgesse di essere osservata.
Abbassava gli occhi e il suo bel viso esprimeva la stessa triste preoccupazione che
aveva colpito sul treno Lewis.
Seduta accanto al suo ingombrante compagno prestava appena attenzione agli altri
commensali. Assillata dalle continue premure del giovanotto, lo ascoltava parlare
concitatamente, rispondendogli ogni tanto a bassa voce.
Lewis, che li studiava da quando erano entrati, si sentì assalire da un antagonismo
acuto per quell’estraneo così invadente e possessivo. Il giovanotto andava sui
ventisette anni, giudicò, e doveva essere svizzero. Aveva una figura atletica, ma
pesante, taurina; su una guancia la sottile cicatrice bianca di una sciabolata, e le sue
ampie, grosse spalle rivelavano un’eccezionale forza muscolare.
Alzando improvvisamente gli occhi, a questo punto, Sylvia subì in pieno lo choc
dello sguardo di Lewis. La sua reazione fu impressionante. S’interruppe nel bel
mezzo di una frase e lo fissò a sua volta, riconoscendolo pietrificata, mentre un’onda
di sangue le invadeva il viso. Poi impallidì lentamente e tutto il colore le si ritirò dalle
guance lasciandole esangui, quasi livide.
Lewis temé per un secondo di vederla svenire. Ma Sylvia riuscì con uno sforzo
evidente a staccare gli occhi da lui e dopo aver bevuto un sorso d’acqua tentò di
riprendere la conversazione interrotta.
Sennonché, invece di secondarla, il suo compagno, a cui l’incidente non era
sfuggito, si girò a guardare Lewis con insistenza insolente.
«Il mio nome è Edler», disse arrogante. «Karl Edler di Basilea, istruttore di sci qui
al “Gasthof Hohne”.»
Lewis infilò la forchetta in una patatina fritta, finse di esaminarla e se la ficcò con
cura in bocca. Mentre masticava si studiò l’istruttore di sci del “Gasthof Hohne”.
«Karl Edler di Basilea? Bene!»
L’altro arrossì. I muscoli del collo possente gli si erano gonfiati.
«Se le ho detto il mio nome», esplose con ira, «è perché mi aspettavo di conoscere
a mia volta il suo!»
Lewis tacque quanto bastava perché l’altro pensasse: “non mi risponderà”. Poi
gettò lì, casualmente:
«Mi chiamo Lewis Merrid.»
«È americano, vero?»
«Ha qualcosa in contrario?»
Seguì un silenzio. Tutti fissavano i due uomini. Avvertendo l’elettricità dell’aria,
perfino la grassa Frau Schatz aveva smesso di mangiare e seguiva con gli occhi fuori
delle orbite la scena.
«È venuto forse qui per imparare a sciare?»
Il modo come Edler lo disse, sputando quasi le parole fra i denti, era un insulto.
«Forse», replicò calmo Lewis. «Quanto fa pagare le sue lezioni?»
Inaspettatamente, Rudi scoppiò a ridere, e da rosso Edler diventò color mattone.
Non si aspettava evidentemente quell’ironica, gelida opposizione. Non riuscì più a
controllarsi.
«Molto meno di quello che valgo! Ho vinto non so quanti premi. Lei lo ignorava,
forse? Ebbene, ora lo sa!»
«Mi congratulo», commentò sorridendo freddamente Lewis. «Come faranno a
trattenerlo qui i proprietari dell’albergo, con Kitzbuhel e Burgstegg, e tutte quelle
altre famose stazioni alpine, pronte a fare qualunque sacrificio per poterselo
accaparrare?»
«Sono qui perché mi fa comodo!», urlò Edler.
Si era alzato a metà dalla panca, furioso. Ma trattenuto da una brusca cautela si
sedé di nuovo fissando Lewis come se volesse ucciderlo. Accanto a lui Sylvia era
rimasta muta e rigida.
Fu il piccolo Oberholler, chi se lo sarebbe aspettato?, a spezzare la tensione.
Strofinando sulla finestra accanto a lui una piccola mano bianca e liscia, guardò fuori.
«Non nevica più, guardate», disse, versando con la sua voce mite olio su quelle
acque in tempesta. «E il vento sta cadendo. Herr Edler, non si dimentichi che domani
mattina dovrà onorarmi di una sua lezione. Disse alle dieci, o sbaglio? Me lo sono
segnato comunque nel mio libriccino.»
La risposta di Edler fu un grugnito. Piegandosi sul piatto, fini a precipizio la sua
cena riprendendo a parlare piano, acidamente, con Sylvia.
Sospirando dolcemente Rudi permise al suo corpo esile di rilasciarsi. Se la brusca
conclusione della lite l’aveva delusa, evitò di mostrarlo. Schiacciando in un
posacenere il mozzicone della sua quinta sigaretta, sorrise a Lewis.
«La mia cena è finita. Ora vi suonerò per dessert un po’ di musica».
Allungando il braccio caricò con mano esperta il fonografo, scelse un disco in un
album posato accanto a lei e abbassò l’ago sul piatto. Nell’atmosfera sgradevolmente
tesa si allargarono le dolenti, solenni note della Marcia Funebre di Chopin.
«Bello, no?», chiese Rudi a Lewis, sorridendogli di nuovo. «È il mio pezzo
preferito».
Edler era balzato in piedi.
«Lo sa che non lo sopporto, quel dannato disco! Uno di questi giorni, se continuerà
a suonarlo, l’avverto che lo troverà sfasciato!» Si voltò per sussurrare, aggrottandosi,
a S loia: «Vado nel mio laboratorio. Mi ci troverai quando avrai finito». Girò sui
tacchi e uscì dalla stanza.
Nella stanza cadde il silenzio, perché Rudi aveva tolto dal piatto il disco.
Lewis si piegò verso di lei.
«Lo suoni ancora», le disse garbatamente. «Piace anche a me.»
«Davvero?»
La faccetta esangue di Rudi si era illuminata. Caricò di nuovo l’apparecchio e
ascoltarono fino alla fine il pezzo.
Lewis si era accorto che Sylvia non riusciva più a mangiare. Posò infine la
forchetta e fece il gesto di alzarsi. Era il momento che lui aspettava. Si alzò a sua
volta e la raggiunse nello stretto corridoio che continuava tortuosamente, dopo le
scale, fino all’ingresso laterale del “Gasthof”.
«Signorina Ullwin», le disse, «vorrei parlarle.»
Udendo pronunziare il suo nome, Sylvia si voltò di scatto a guardarlo
appoggiandosi al muro del corridoio. Respirava troppo in fretta, penosamente.
«Perché mi ha seguita fin qui?»
«Non abbia paura. Voglio solo aiutarla.
«Non desidero il suo aiuto. Perché mi rivolse la parola nel.- treno? Perché è venuto
qui?»
«Lei ha delle gravi difficoltà. Lo vedo. Lo so.»
Il tono calmo e rassicurante di Lewis la turbò fino a farle tremare la voce: «Non ha
il diritto d’introdursi nella mia vita... Non ne ha nessuno...!», protestò focosamente.
«Se desidera davvero aiutarmi, se ne vada, per favore. Parta a prim’ora domani
mattina.»
Lui scosse gravemente la testa.
«Non me né andrò prima di averle ridato la tranquillità e la fiducia in sé. Ho
l’impressione di aver atteso tutta la vita di poterlo fare. E ci sono molte altre cose che
desidero mettere in chiaro prima di lasciarla. Prima di tutto Karl. Chi è?»
Senza distogliere gli occhi Sylvia respirò con forza.
«Karl», rispose, «è un bravo ragazzo: il migliore del mondo. Siamo fidanzati.»
Lì per lì Lewis non percepì esattamente quello che lei gli stava dicendo. Fu come
se Sylvia lo avesse colpito fra gli occhi.
«Per favore, se ne vada», ripeté lei in un bisbiglio ansioso. «Le chiedo soltanto di
partire. Non può fare altro, per me.»
Prima che Lewis potesse replicare era scivolata verso la porta e spalla.
Lui rimase per un momento a contemplare il battente insensibile dietro il quale
Sylvia si era dileguata. Domando l’impulso di correrle dietro si girò, infine, e salì
lentamente le scale fino alla sua stanza.
“Karl è il suo fidanzato...”, si ripeteva sgomento.
Si era fermato, assorto nei suoi pensieri amari, in mezzo alla stanza, quando il suo
sguardo fu attirato da qualcosa che non quadrava, nella sua valigia... Si piegò a
controllarne in fretta il contenuto. Non mancava niente. Ma Lewis si accorse che la
valigia era stata frugata sistematicamente.
Rialzandosi fece giare lo sguardo nella stanza sollevando la candela in modo da
lasciarne piovere la luce negli angoli più lontani. Mentre era lì, nettamente delineato
davanti alla finestra, gli arrivarono uno schianto di vetri frantumati e una lontana
esplosione, e si sentì nell’orecchio il sibilo di un proiettile che andava a conficcarsi
nel muro alle sue spalle.
Buttarsi in ginocchio e sbattere le pesanti imposte fu l’affare di un secondo. Poi
Lewis si rialzò e assicurò con la pesante spranga di ferro la finestra.
Il colpo, sparato, giudicò, da una distanza di un duecento metri, aveva mancato la
sua testa per pochi centimetri. Più tardi, si disse, avrebbe avuto forse l’occasione di
congratularsi col tiratore. Ma per adesso non poteva far niente. Uscire ad aggirarsi al
buio, sotto una fitta nevicata, in un luogo sconosciuto;, sarebbe stata pura pazzia.
Con le labbra distese in un sorriso assorto Lewis attraversò la stanza e usando il
suo temperino estrasse la pallottola dal legno morbido della parete. Era di un fucile
Mauser, di un vecchio tipo in dotazione all’esercito.
Quinto capitolo
Il giorno seguente si levò chiaro e luminoso. Svegliandosi presto dopo un sonno
leggero, Lewis andò a togliere la sedia con cui aveva momentaneamente fermato la
porta e spalancò le imposte che la sera prima lo avevano salvato.
L’alba era quasi più bella di quelle che aveva ammirato sui mari tropicali, col cielo
delicatamente trasparente e i monti impennacchiati di neve, sfumati in rosa dal sole
appena spuntato.
Era una di quelle mattine che fanno saltare il cuore per la gioia di vivere. E
riempiendosi i polmoni di quell’aria che sembrava champagne Lewis si sentì tornare
la fiducia in sé e il coraggio di affrontare qualsiasi cimento. La situazione fra Karl e
Sylvia gli sembrava già meno precisa e irrevocabile. C’è dietro qualcosa, si disse, che
debbo ancora scandagliare...
Si sbarbò, si fece con la sua spugna e il bacile una doccia primitiva, e dopo essersi
infilati un paio di spessi calzoni e un pesante golf scese a far colazione.
Nella sala da pranzo c’erano soltanto Heinrich – il suo cocchiere del giorno innanzi
– e la giovane chellerina Anna. Asserragliato dietro una grande ciotola di caffelatte e
mezza pagnotta di pane di avena, Heinrich sembrava di nuovo di ottimo umore.
Mentre Lewis gli si sedeva davanti e Anna riempiva la tazza al nuovo arrivato gli
sorrise perfino.
«Torna indietro con me?», gli chiese accennando con la testa alla finestra,
attraverso cui si vedeva la sua slitta col cavallo già attaccato, in attesa.
«Un’altra volta», replicò restituendogli il sorriso Lewis.
«Meglio subito», grugnì nel suo caffelatte Heinrich. «Non si sa mai, potrebbe
cadere da questa montagna e farsi male.»
«Adoro cadere dalle montagne», lo tranquillizzò Lewis, tagliandosi una grossa
fetta di pane. «E non mi faccio facilmente male.»
Heinrich fece sentire di nuovo il suono sibilante che gli serviva da riso. Ma
quando, scegliendo un qualunque argomento, Lewis cercò di farlo parlare, la sua
faccia riprese la solita espressione di astuzia sorniona, contadinesca. Se sapeva
qualche cosa che potesse interessare quello straniero era chiaro che aveva deciso di
non dirgliela. Mentre il cocchiere si alzava per andarsene, Lewis gli mise nella mano
alcune monete.
«Per compensarti, caso mai tu fossi obbligato a risalire quassù per portarti via il
mio cadavere!»
Apprezzando i soldi e la battuta, Heinrich scoppiò a ridere fragorosamente.
«Lei è generoso, Herr Americano», dichiarò quando si fu calmato. «Ma stia
attento. Non vorrei che l’avesse imbroccata... Che il suo scherzo... si avverasse.»
Terminata la colazione e partito Heinrich, Lewis decise di risalire di sopra. Intuiva
che la sua presenza al pianterreno avrebbe potuto ritardare il corso normale degli
avvenimenti. Rientrò perciò nella sua stanza e si sedé davanti alla finestra da cui si
godeva per fortuna una vista ideale del cortile dell’albergo e delle sue vicinanze
immediate.
Prescindendo dalla lenta sparizione della slitta di Heinrich giù per la pista tortuosa,
per un po’ non accadde niente. Ma verso le dieci Lewis vide uscire Edler,
accompagnato dal piccolo Oberholler. L’ometto, si ricordò, teneva molto alla sua
lezione di sci. Ma Karl non si curava di nascondere che aveva poca voglia di
dargliela. D’altra parte, in qualunque modo lui occupasse il suo tempo libero, il suo
impiego all’albergo gl’imponeva senza dubbio dei doveri. I due entrarono nel
capanno dove Edler doveva avere il suo laboratorio per uscirne poco dopo muniti dei
loro sci e dirigersi verso i pendii più bassi a ovest dell’albergo.
Passò mezz’ora. Lewis si era quasi rassegnato, quando Sylvia uscì dalla porta
proprio sotto la sua stanza. Mentre il sangue gli scorreva a un tratto più rapido la vide
dirigersi verso il laboratorio, prendere i suoi sci dalla rastrelliera sotto i travi del tetto
e attaccarseli in fretta. Si mise poi in spalla un sacco da montagna e dopo essersi
guardata rapidamente intorno, come per assicurarsi che nessuno la vedesse, sfrecciò
via girando intorno all’angolo dello chalet.
Lewis balzò sull’istante in piedi, deciso a seguirla.
Il contegno di Sylvia era chiaramente quello di chi ha una meta precisa; bisognava
quindi scoprire dov’era diretta.
Gli ci volle meno di un minuto per precipitarsi a sua volta al capanno vuoto di
Edler. Si scelse da quelli ammucchiati contro la finestra un paio di sci da corsa di
hickory, piuttosto stretti, del modello norvegese che si era abituato a usare al Canadà.
Dovevano essere quelli di competizione di Edler, ragionò, perché sembravano
costruiti esattamente per un uomo della sua statura.
Lewis non si fermò a riflettere sull’indelicatezza di quell’appropriazione. Anzi,
impaziente com’era, quel particolare quasi lo divertì. Avrebbe fatto poi i conti con
Karl.
Con gli sci ai piedi, nelle mani un paio di racchette e intorno alla fronte una benda
di lana che aveva trovato su una panca, partì infine. Si sentì fremere di un’esaltazione
fisica appena le punte dei suoi sci si affondarono nella superficie indurita della neve.
Lewis era un abile sciatore, un esperto in quell’arte difficile. Il suo corpo scarno e
duro, senza un filo di grasso, era fatto per quelle altitudini vertiginose.
Avendo già su di lui un vantaggio di quasi un miglio, Sylvia sembrava dirigersi
intanto verso la cresta della montagna. Sebbene, evidentemente ansiosa di affrettarsi,
non si fosse ancora mai voltata indietro, Lewis giudico prudente inseguirla cercando
di non farsi vedere e imponendosi come meta un punto ancora più alto. La salita era
difficile, forse pericolosa. Ma così era sicuro di rimanere fuori del campo visivo della
ragazza.
Lewis seguiva da più di mezz’ora quell’alta rotta parallela quando,
inaspettatamente, superata l’ultima cresta, si vide davanti un altopiano, un grande
mare bianco abbagliante, ondulante per miglia sotto il vento che ne alterava di
continuo i contorni. Quel punto nero, lontanissimo da lui, – simile a una rondine che
volasse sfiorando appena con le ali quel deserto candido tra le cime altissime – era
Sylvia. Sparì all’orizzonte mentre Lewis la fissava riparandosi con la mano gli occhi
dal riflesso accecante della neve.
Senza esitare lui le si mise dietro. Non aveva bisogno di una bussola. Lo guidavano
le tracce degli sci di Sylvia pulite e dritte nella neve vergine.
Passò mezz’ora – poi un’ora, mentre la febbre dell’inseguimento gli scaldava il
sangue. Bruscamente il cuore gli si dilatò per la gioia: dopo un’ultima curva della
pista scintillante la sua visuale si era infine allargata. Ormai a pochi metri da lui,
contro l’ultimo sperone di quella terra di nessuno, proprio dove finivano i solchi degli
sci di Sylvia, Lewis vide un piccolo casotto di legno. Questa era dunque la meta della
ragazza, il traguardo della sua corsa alata.
Cautamente, Lewis riprese a correre verso il casotto. Mentre si avvicinava si
accorse che si trattava di un vecchio rifugio primitivo, di tronchi di abete quasi marci.
Evidentemente abbandonato da un pezzo doveva avere adesso un abitante, perché dal
suo comignolo arrugginito usciva un filo sottile di fumo.
Quando fu a una decina di metri dalla sua meta, Lewis si tolse gli sci e li conficcò
nella neve. Poi, lentamente, si avvicinò alla finestrella del casotto. Sì, Sylvia era lì,
seduta a un rozzo tavolo su cui stava disponendo togliendole dal sacco aperto, delle
provviste: un pollo arrosto, due pagnotte, arance e qualche mela. Seduto davanti a lei
un uomo anziano – calvo e corpulento, dall’aria grave, quasi venerabile – l’ascoltava
approvando ogni tanto con la testa ciò che lei gli diceva – ma staccando a fatica gli
occhi dai cibi.
Vergognandosi di starsene a spiare quei due, Lewis andò ad aprire risoluto la porta
e entrò nel casotto.
Quando lo vide, Sylvia ammutolì di colpo e si voltò a fissarlo spalancando
esterrefatta gli occhi. Colorita dalla sua corsa, con i piccoli seni ben modellati dal
maglione, non gli era mai sembrata più bella. Seguì un istante di silenzio.
«Lei!», esclamò Sylvia. «Papà», disse votandosi con un gesto quasi angoscioso
verso il vecchio, «ecco la persona di cui ti stavo parlando.»
Gli occhi del vecchio si posarono con un’umida benevolenza su Lewis. Ma dietro
quell’aria amichevole, quasi patriarcale, l’altro, intuì Lewis, doveva scrutarlo senza
dubbio con attenzione. Gli tese la mano con un sorriso accogliente.
«Il signor Merrid?» disse. «Ma sì, lo sospettavo. Stavamo parlando di lei, mia
figlia ed io. Mi permetta di presentarmi a mia volta». Si alzò con patetica dignità.
«Sono il professor Ullwin, dell’Università di Heidelberg.»
Lewis strinse quella mano umida e molle. «Molto lieto di fare la sua conoscenza,
professore.»
«Grazie, caro ragazzo. La sua spontaneità è un balsamo per il mio vecchio cuore
stanco. Sylvia mi stava esponendo, se mi è concesso alludere senza offenderlo
all’argomento della nostra conversazione, la sua offerta di aiutarci nelle nostre gravi
difficoltà... Sebbene mia figlia sia rimasta un po’ perplessa io non sarei alieno, glielo
confesso, dal prenderle in considerazione. Ma, povero me, dove ho la testa? Si segga,
la prego, signor Merrid. Posso offrirle un leggero spuntino? Non credo che le nostre
misere provviste possano invogliarlo. Ma ci farà un vero piacere e un grande onore se
vorrà approfittarne.»
Lewis si sedé dopo aver cortesemente rifiutato di dividere la cena di quei due.
Sebbene Sylvia si ostinasse nel suo mutismo scoraggiante l’atteggiamento di suo
padre era quello di un uomo civile e colto, contento di aver trovato infine qualcuno
con cui potersi intrattenere da eguale.
«Se ho ben capito, signor Merrid, lei è un americano che viaggia per diletto in
questo paese sfortunato. Come le invidio la possibilità di andare e venire a suo
piacimento, “questa preziosa libertà” come l’ha chiamata il poeta Cowper. Ma
torniamo al punto. Mi perdonerà se parlando continuo a rifocillarmi. Per colpa del
maltempo da qualche giorno i miei pasti sono un po’ meno regolari e abbondanti di
quanto sarebbe auspicabile. Sylvia cara, non sei proprio riuscita a trovare della frutta
migliore? Questa è quasi immangiabile!» il professore s’interruppe per lamentarsi
bonariamente con la figlia.
«Signor Merrid», riprese, «io mi vanto di essere un buon giudice di caratteri. Per
me gli uomini portano sulla faccia i loro passaporti. Sono perciò disposto, per
ingenuo che possa sembrarle, a fidarmi di lei. Caro amico», continuò con commossa
dignità, dopo una pausa solenne, «lei si vede davanti un povero fuggiasco.»
Nel silenzio che seguì il professore si ficcò in bocca uno spicchio di arancia e dopo
averlo masticato gravemente sorrise con mestizia a Lewis.
«La definizione più adatta, signor Merrid, sarebbe una vittima dell’attuale regime
politico. Le ho già detto che sono un professore universitario. Occupavo fino a poco
fa la cattedra di letteratura inglese all’Università di Heidelberg. Non voglio più
pensare a quei giorni felici, quando la mia moglie adorata era ancora viva; alle nostre
passeggiate, la sera, sulle rive erbose della Neckar, con Sylvia allora ancora una
bambinetta. A patto di sembrarle presuntuoso, posso affermarle che mi facevo amare
e rispettare dai miei allievi per la larghezza e la liberalità delle mie idee. Ma com’è,
ahimè, ingannevole e fallace l’umana vanità! Quando le presenti autorità
s’impossessarono del potere, furono proprio la mia liberalità e la mia larghezza d’idee
a perdermi.»
Sylvia fece un gesto impulsivo di protesta.
«Papà... ti sembra proprio necessario...?»
Uno sguardo di affettuoso rimprovero le impose il silenzio.
«Come stavo dicendo, quando mia figlia mi ha interrotto», riprese Ullwin, «con
l’avvento di un governo totalitario, la vita mi fu resa a poco a poco intollerabile
finché un bel giorno non mi costrinsero addirittura a darmi alla fuga con una grossa
taglia sulla testa. La mia cara Sylvia, che è stata sempre la mia forza e il mio
sostegno, si rifugiò con me a Monaco. Sospettati e minacciati anche lì riuscimmo
fortunatamente, eludendo i nostri inseguitori, a raggiungere questa stazione alpina
isolata, dove, in tempi migliori, mia figlia veniva ogni anno a sciare e dove ha la
fortuna di possedere ancora degli amici meravigliosamente devoti.»
Dopo un’altra pausa il professore allargò le braccia.
«Signor Merrid», concluse retoricamente il suo discorso, «sono ormai tre settimane
che un uomo della mia cultura e della mia posizione è costretto a starsene chiuso
come una bestia in questa capanna mantenendosi in vita con quel poco che riescono a
portargli sua figlia ed Edler, e nascondendosi come un criminale. Mi dica
francamente, apertamente, mio caro ragazzo, non merito compassione e aiuto?»
Ad onta della sua pinguedine, dei suoi abiti logori, e della sua faccia grassa e
ispida, quest’uomo, si disse Lewis, riesce a comportarsi con una certa istrionica
dignità. Tutto ciò che il suo amico Steve Lennard gli aveva detto dei rifugiati politici
e degli orrori dei campi di concentramento gli attraversò in un lampo la mente.
«Direi che è stato sfortunato, professore. Ma non potrebbe mettersi in contatto col
suo console?»
L’altro alzò mestamente le spalle.
«Per un espatriato, signor Merrid, rivolgersi alle autorità è spesso un errore fatale.
Per me potrebbe significare la condanna a morte. Cerchi d’immaginarsi quello che
accade quasi ogni giorno in quei campi di prigionieri. No! In questa triste vicenda io
debbo contare soltanto su me stesso e sul coraggio e il buon senso dei miei amici.»
«Che cosa conta di fare, allora?», chiese Lewis.
Affrettandosi a frenare la sua ansia il professore si piegò sul tavolo per sorridergli
di nuovo blandamente.
«Ho deciso di tagliare al più presto la corda, mio caro signor Merrid. Potrei
sopportare ancora il freddo, la fame, lo sconforto... Ma se rimango ancora qui la rete
si chiuderà presto intorno a me e sarà la fine. L’unica speranza che mi rimane è di
attraversare la frontiera svizzera. Una volta laggiù il resto sarà facile. Potrò essere in
pochi giorni a Parigi. Ciò che conta è che avrò riacquistata la libertà. La vera
difficoltà, il pericolo serio stanno nell’attraversare clandestinamente la frontiera. Herr
Edler, un giovanotto veramente bravo e in gamba, il fidanzato di mia figlia, come lei
probabilmente saprà, ha concepito un piano molto abile. Vogliamo attuarlo al più
presto, ma abbiamo disperatamente bisogno di aiuto. Perciò il suo arrivo in questo
preciso momento è così provvidenziale, signor Merrid, ed è perciò che mi sto
mettendo senza riserve nelle sue mani.»
Prima che Lewis potesse replicare Sylvia si piegò a toccare con un gesto
supplichevole il braccio del padre.
«Papà... non hai il diritto di coinvolgere il signor Merrid in quest’avventura. Ce le
caveremo da soli. Per lui aiutarci sarebbe troppo pericoloso.»
«Corro dei pericoli – ne ho perlomeno l’impressione – anche soltanto perché sono
qui», ribatté Lewis. «Ieri sera qualcuno per poco non mi ha colto con una fucilata.»
Il professore sorrise come per scusarsi.
«Temo che... possa essere stato Karl. Che stupido! Perde la testa, quando pensa che
qualcuno possa insidiarci. Questo banale incidente non le farà cambiare idea, vero?»
«Al contrario», dichiarò senza sorridere Lewis. «Mi ha aiutato a decidermi. Da
quest’istante sono al vostro servizio.»
«Mio caro ragazzo!», esclamò commosso il professore. Si alzò a metà della sedia e
sollevando gli occhi al cielo strinse calorosamente la mano del suo nuovo amico. «Ho
capito appena l’ho visto poco fa che era la Provvidenza a mandarcelo.»
Lewis si svincolò appena poté da quella stretta micidiale. Il vecchio gli era
simpatico, anche se la sua eloquenza melliflua lo lasciava un po’ dubbioso. Ma quel
particolare non aveva importanza, in fondo. Tutto quello che avrebbe potuto fare per
il professor Ullwin lui l’avrebbe fatto soltanto per Sylvia. Si voltò d’istinto verso di
lei.
«Poiché siamo ormai dei soci, vuole stringermi anche lei la mano?»
«Lo farò per amore di mio padre.»
Quando Sylvia mise la mano nella sua Lewis si accorse che tremava. I suoi occhi
avevano un’espressione smarrita, quasi vergognosa.
Il professore non sembrò avvedersene. Felice di essersi assicurata la collaborazione
di Lewis attaccò di nuovo, avidamente, la sua colazione.
Sesto capitolo
Quando, quella sera, i clienti dell’albergo si riunirono per la cena, Edler era cupo e
aggrottato. Dovevano averlo informato, ragionò Lewis, di ciò che era successo quella
mattina.
Piegato sul suo piatto il maestro di sci conservò per tutto il pasto un silenzio cupo,
oppressivo.
Proprio, forse, perché lui non partecipava alla conversazione, gli altri poterono
parlare più liberamente. Chi si mostrava particolarmente loquace era il piccolo
Oberholler. Dopo aver fatto ai presenti una descrizione dettagliata della sua lezione di
sci di quella mattina, si voltò spianando le labbra nel suo sorriso cordiale e aperto,
verso Lewis.
«E lei, dove ha passato tutta la mattina, caro amico?»
«Oh, qua e là... Non avevo una meta precisa.»
Il sorriso di Oberholler si accentuò. «Se non sbaglio l’ha già detto. Non fa dunque
mai un programma? Nei suoi giri di stamattina ha visto almeno qualcosa
d’interessante?»
Lewis girò verso il suo interlocutore un viso impenetrabile. «Lei che ne pensa,
signor Oberholler?»
«Non si sa mai.» L’altro s’interruppe per ridere giovialmente. «Su questi monti
accadono a volte cose... imprevedibili.»
«La prossima volta farò più attenzione», dichiarò gravemente Lewis. «E se notassi
qualcosa d’inconsueto, non mancherò di avvertirlo.»
«Bene. Bravo», approvò con effusione il piccolo piazzista. «Sto molto attento
anch’io, le dirò. È straordinario come due occhi bene aperti tengano i piedi lontani
dai precipizi...»
Rudi si lasciò sfuggire un’esclamazione che sembrava un sospiro. «A me
piacerebbe ficcarceli, invece. Qualcuno è disposto a farmi ballare, stasera?»,
domandò, facendo girare intorno lo sguardo. Sembrava stanca e sofferente. «Ho
passato una giornata orribile, sola come un cane, senza nemmeno un’anima con cui
scambiare due parole. Vogliamo stare almeno un po’ allegri adesso?»
La signora Schatz alzò con aria disapprovante gli occhi dal piatto. «Appena avrò
finito io me ne vado a letto.»
«Naturalmente», sospirò Rudi. «Karl, lei li farebbe, due giri di valzer?»
Dopo il grugnito di diniego di Edler, Rudi si volse a Lewis. «Come vede nessuno
ha purtroppo voglia di ballare. Mi accontento di meno... Lei è disposto a fare con me
almeno una partita... diciamo di picchetto? È il mio giuoco preferito.»
Lewis gettò un’occhiata a Edler.
«Mi dispiace», rispose. «Forse un’altra volta.»
Rudi alzò le spalle, si accese una ennesima sigaretta e tossì mentre ne aspirava il
fumo. «Come dovrebbe occuparsi una come me?», chiese dolcemente. «Non è molto
divertente, stare ad aspettare che i polmoni ti si consumino.
Aveva un’aria così avvilita che strappandosi al suo solito assorbimento Sylvia fece
verso di lei un gesto affettuoso. «Posso giocare io con lei, Rudi.»
Il visetto capriccioso dell’ammalata si rianimò.
«È molto gentile, cara. Corriamo a prendere le carte... prima che la signora Schatz
si metta a russare».
Quando quelle due ebbero cominciato a giocare Edler si alzò e uscì senza salutare
nessuno. Un minuto dopo Lewis lo seguiva. I due uomini si ritrovarono nel
“laboratorio” del maestro di sci.
«Si direbbe» osservò Karl Edler, «che lei cerchi davvero guai.»
«Glielo avevo detto.»
«Mi permetta allora di avvertirlo che ha scelto il luogo più adatto per averne.
Qualche ora fa sono andato a trovare Ullwin nel suo casotto. Mettiamo subito in
chiaro un punto: lei parteciperà alla nostra spedizione soltanto perché lo vuole il
professore.»
Lewis si appoggiò al banco da falegname. L’insolenza volgare di quell’uomo lo
esasperava. Ma riuscì a nascondere la propria reazione. Quel giovane rozzo e
aggressivo, così sicuro della propria forza bestiale, non gli faceva paura.
«È bene che lei sappia alcune cose», riprese con lo stesso tono offensivo l’altro.
«Parliamo prima di tutto di Sylvia. Appena il vecchio sarà in Svizzera noi due ci
sposeremo.»
«Devo anticiparle le mie congratulazioni?», chiese senza scomporsi Lewis.
Edler arrossì cupamente. «Voglio che rifletta bene a quello che sta facendo. Io non
mi sono messo in questa faccenda per divertirmi. Lei la troverà abbastanza
pericolosa, anche prescindendo da me.»
«Allora è pericolosa?»
«Peggio, direi. Ullwin è ricercato accanitamente dai nazisti. Per adesso abbiamo
avuto fortuna; nessuno sa ancora che è qui. Ma io mi aspetto da un minuto all’altro, le
peggiori difficoltà.» Gettò un’occhiata ostile a Lewis. «Ieri ero sicuro che lei fosse
venuto ad arrestarlo.»
«Mi tirò perciò addosso?»
Karl atteggiò le labbra ad un sorriso acido.
«Ma che dice? Sono ormai compromesso fino al collo in questa storia. Prima che
Ullwin possa passare la frontiera dovranno essere sparati molti altri colpi. Ora ha
capito?»
«Quanto me lo consente la mia intelligenza limitata.»
«La sforzi, allora! Faremo domani sera il nostro tentativo. E forse qualcuno come
lei potrà esserci utile. Perché non sarà facile, vedrà...»
«Non ho mai amato le cose troppo semplici.»
Karl sorrise –di nuovo sgradevolmente. Si tolse di tasca un pezzo di cera da sci e
cominciò a disegnare sulla superficie liscia del banco. «Guardi!», ordinò perentorio:
«Questa linea è la frontiera svizzera; quest’altra, più in alto, quella tedesca. Noi
siamo in quest’angolo dei monti fra le due linee. Per uscirne abbiamo due strade:
l’alta e la bassa. La bassa non presenta problemi; basta attraversare la frontiera qui,
dopo Breintzen, e percorrere una settantina di chilometri su una comoda strada fino a
Zurigo. Solo... è un po’ troppo semplice. Ogni poliziotto di ogni comoda strada è
all’erta per non lasciarsi sfuggire il professor Ullwin. E a Breintzen ci sono più
“giacche azzurre” che case. La strada alta è meno agevole. Rappresenta anzi l’ascesa
più dura di questi monti. Dovremo attaccare il Kriegeralp da una parete che pochi
osano scalare. E bisognerà farlo di notte. Ma arriveremo così a una frontiera molto
meno vigilata e saremo quasi subito in salvo in Svizzera.»
«Il suo piano è dunque questo?»
«Sì. L’attueremo domani sera. Finora, se non volevamo romperci il collo, abbiamo
dovuto aspettare la luna. Ma adesso non possiamo più rimandare. Sta per arrivare il
vento caldo che fa precipitare le valanghe. Le valanghe lo attirano?»
«Non c’è niente che mi piaccia di più.»
Edler rise sprezzantemente. La sua villania dava voglia a Lewis di sferrargli un
buon diretto alla mascella.
«Vedremo come se la caverà alle prese col Kriegeralp», continuò beffardo. «Forse
prima che ci diciamo addio avrà cambiato i connotati.»
Non aveva finito di parlare che la porta si aprì e apparve Sylvia. Ferma sulla
soglia, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa piegata sulle spalle,
evitava di guardare quei due. Ma i suoi occhi tradivano un’ansia acuta.
Vedendola Karl corse a metterle con ostentata intimità il braccio intorno alla vita.
«Cara», le domandò teneramente, tenendo d’occhio Lewis per spiarne la reazione,
«com’è andata la partita? L’hai vinta?»
«No», disse con una strana voce Sylvia. «Temo, di averla perduta.»
Settimo capitolo
Il giorno dopo si trascinò grigio e pesante. Arrivata la notte, la luna si levò
puntualmente, velata da grandi banchi di nuvole in movimento. Quando, all’ora
convenuta, le otto, Lewis attraversò il cortile spazzato dal vento ed entrò nello chalet,
Karl stava aiutando Sylvia ad applicare agli sci delle pelli di foca per evitare di
scivolare all’indietro sulle salite più ripide. Sembrava insolitamente nervoso. Udendo
entrare Lewis gli gettò un’occhiata ostile.
«È in ritardo.»
Lewis finse di non udire.
«Si sta levando il vento», disse casualmente. «Ha guardato il cielo? Non mi sembra
incoraggiante.»
«Quando uno ha voglia di sganciarsi» lo insultò l’altro, «tutti pretesti sono buoni.»
«Lei saprà quello che sta facendo, immagino. Ma se dipendesse da me, io
rimanderei.»
«Questo devo deciderlo io», tagliò corto Karl. «Partiremo com’era stabilito.»
Lewis non fece altre proteste.
Mentre si raddrizzava dopo essersi messi gli sci, lanciò a Sylvia un sorriso
rassicurante. Lei non glielo restituì ma per la prima volta non evitò i suoi occhi.
«È molto buono a venire con noi», disse fissandolo. «Abbiamo terribilmente
bisogno di qualcuno per aiutare papà quando saremo sul valico. Mio padre è goffo e
pesante ed ha poca dimestichezza con gli sci. Ma anche così non si faccia scrupoli, se
avesse cambiato parere.»
Senza risponderle Lewis continuò a sorriderle finché lei non ebbe abbassato gli
occhi.
Partirono in fila indiana con Karl in testa. Come aveva predetto Lewis, appena
cominciarono a salire furono investiti da un forte vento. Ma il ritmo furioso imposto
da Karl alla piccola comitiva li fece avanzare rapidamente e raggiunsero verso le
dieci il vecchio rifugio.
Il professore li aspettava imbacuccato in un pesante cappotto e diverse sciarpe. La
sua faccia bianca e flaccida era contratta in una smorfia apprensiva.
«Miei cari ragazzi!», li salutò con espansione. «Mia carissima Sylvia! Non
dimenticherò mai quello che state facendo per me. Come vedete sono pronto a
partire, povero fuggiasco che sono. Ho tenuto a lasciare pulito e in ordine il mio
rifugio e mi sono cinto da misero pellegrino i lombi.»
«Non può viaggiare con quel cappotto!», lo interruppe Karl. «Questa non è
un’escursione turistica!»
«Ma mio caro, buon Karl, non vorrei prendere freddo sui monti!» «Lo prenderà se
sarà necessario. Sarà sempre meglio che torcersi una caviglia e rotolare in un
crepaccio!» Il professore aveva un’aria così sconsolata che Lewis ne ebbe pietà.
Mentre il vecchio si sfilava faticosamente il cappotto, si fece avanti.
«Qua, me lo dia. Lo legherò al mio sacco.»
Dopo avergli gettato brontolando un’occhiata astiosa, Karl corse ad aprire la
finestra e guardò fuori. Sebbene il vento fischiasse intorno al capanno il cielo si era
momentaneamente schiarito.
«Ma perché vogliamo sprecare altro tempo?», gridò voltandosi. Si piegò furioso
sul professore che, consegnato a Lewis il suo cappotto, aspettava con le grasse mani
incrociate sul ventre. «Desidera forse che prima di partire le, sia servito un pranzo di
sette portate? O aspetta che una deputazione dell’università venga a supplicarlo di
tornare a Heidelberg?»
«No, caro ragazzo», replicò con sorprendente mitezza il professore. «Volevo
soltanto chiederti di poter rivolgere prima di rimetterci in cammino una breve
preghiera al mio Creatore. Ci stiamo imbarcando in un’avventura pericolosa.
Chiediamo a Dio di poterla coronare col successo.»
La scena fece a Lewis un effetto strano, quasi grottesco. Mentre dalle labbra del
vecchio uscivano le parole di una pia supplica, una sensazione sempre più forte di
disagio cominciò a invaderlo. Si trattava di un sincero fervore religioso, non poté fare
a meno di chiedersi, o di una farsa? Non seppe deciderlo.
Sylvia ascoltava con un’espressione infelice, tenendo bassi gli occhi. Ma mentre il
professore pregava la sua faccia rossa e sudata aveva un’aria estatica; i suoi occhi
erano velati da lacrime autentiche. Finito che ebbe si soffiò il naso.
«Precedetemi, amici», disse con un tono di virtuosa rassegnazione. «Qualunque
difficoltà ci attenda sono sicuro che Dio mi darà ora la forza di sopportarla.»
Lewis prese un’estremità della corda che era sul banco, e afferrando l’altra Karl se
l’arrotolò intorno a una spalla. Uscirono in fila dal casotto. La loro audace avventura
era cominciata.
La scorciatoia che si proponevano di prendere attraversava la spalla nord-est del
Kriegeralp. Dopo essere arrivati, arrampicandosi quasi verticalmente, in fondo al
crinale più basso, affrontarono un lungo passaggio in una sella coperta di neve
ghiacciata.
La luna piena ancora alta illuminava come se fosse giorno la scena. Lewis capì
quanto il successo della loro impresa dipendesse da quella luce sfavillante. Alle loro
spalle il capanno sembrava una minuscola navicella scura su un gran mare bianco.
Sulle loro teste torreggiavano imponenti le Alpi.
Dopo essersi riposati prima di giungere al primo ghiacciaio, si legarono in cordata:
Karl per primo, seguito da Sylvia, Lewis e il professore. Quando cominciò
l’ascesa,del ghiacciaio Lewis capì perché Edler aveva accettato senza troppo
protestare che lui li accompagnasse. Come gli aveva detto Sylvia, il professore si
reggeva appena sugli sci. Giunti su quel ghiaccio azzurro rimase molto indietro e
Lewis dové trascinarlo quasi di peso su per il pendio.
Non fu un’impresa facile. Stringendo i denti Lewis faceva appello a tutte le sue
forze per tirarsi dietro quel fardello che ritardava considerevolmente l’avanzata.
Dopo il primo ghiacciaio ebbero un istante di tregua mentre scivolavano su uno
stretto cornicione gelato sotto una coltre fitta di neve.
Per cimentarsi poi col secondo dovettero togliersi gli sci e caricarseli sulle spalle.
Karl li precedeva come capocordata, affondando la piccozza nel ghiaccio per ricavare
appoggi dalla superficie liscia. A quest’altitudine il vento che aggrediva con furore le
cime aguzze li flagellava crudelmente.
Continuarono per forse dieci minuti a strisciare trasversalmente verso l’alto. Poi,
mentre si avvicinavano al tratto più difficile della loro ascensione, la luna si oscurò
bruscamente. La sua luce brillante li aveva già abbandonati per brevi intervalli. Ma
questa volta fu come se una candela consumata si spegnesse definitivamente.
S’immobilizzarono quasi si fossero accecati di colpo. Il dubbio che li colpì fu di
breve durata. Si sentirono quasi subito sulle guance un palpito di ali leggere. Aveva
cominciato a nevicare.
Pur essendo lontano da lui forse venti metri Lewis udì Karl lanciare una violenta
bestemmia. Conoscendo il significato di quella neve si preoccupò anche lui.
Accidenti a quel Karl, si disse, avrebbe dovuto prevederlo. Riprendendo ad avanzare
faticosamente nell’oscurità, col professore dietro come un cavallo zoppo attaccato a
una fune, arrivò infine dove Edler si era fermato con Sylvia, sotto una specie di
tettoia di stalattiti.
«Non durerà», lo aggredì l’altro senza lasciargli il tempo di parlare. «E questa neve
farinosa ci gioverà sull’altro versante. Attraversare la frontiera sarà uno scherzo.»
«Intanto», replicò Lewis, «sarà meglio rimanere al riparo.»
Si tolse dal sacco il cappotto del professore e ne coprì il vecchio e Sylvia. Si erano
accovacciati tutti sotto la tettoia di ghiaccio. Faceva un freddo crudele e il vento
spazzava come una lama tagliente il ghiacciaio. Anche la neve diventava a poco a
poco inesorabilmente più fitta. Fingendo disinvoltura Edler tentò tre volte,
inutilmente, di accendersi una sigaretta finché, esasperato, non buttò via imprecando
l’ultimo fiammifero spento. Era sempre buio pesto e i fiocchi turbinavano fitti e
densi.
Lewis guardò Sylvia. Distingueva appena il suo viso contratto dal freddo, ma
premuto quasi contro di lei la sentiva rabbrividire. Se ne moriva di prenderle le mani
nelle sue per riscaldargliele col suo alito. Si decise.
«Non possiamo rimanere ancora a lungo qui.»
«Come si permette?», esplose indignato Karl. «Aspetteremo qui che smetta di
nevicare. Poi, si capisce, ci rimetteremo in cammino.»
Lewis abbassò gli occhi sul quadrante luminoso del suo orologio da polso.
«Aspetteremo ancora esattamente trenta minuti. Se fino allora non avesse smesso
di nevicare torneremo indietro.»
«Neanche per sogno! Dobbiamo attraversare di notte questo ghiacciaio, se
vogliamo passare inosservati la frontiera.»
«Potremmo passarla da cadaveri», intervenne il professore. «Non mi sento già più
le gambe.»
«Io sono un marinaio, non un montanaro», disse sempre più deciso Lewis. «Ma
non occorre essere esperti per giudicare la nostra situazione. Se rimarremo qui,
geleremo. Se riprenderemo a camminare, quasi ciechi in questa tormenta,
precipiteremo. Ripeto: se il tempo non si schiarirà entro mezz’ora torneremo al
casotto.»
Seguì una pausa, in cui Lewis ebbe paura di dover venire alle mani con Edler. Gli
occhi dell’altro avevano un luccichio pericoloso. Ma per fortuna dopo alcuni
momenti di tensione acuta il maestro di sci si limitò, borbottando parole
inintelligibili, a prendere a calci un masso col suo pesante scarpone.
Dopo venticinque minuti Lewis si alzò in piedi. Disse due sole parole:
«Dietro front!»
L’ordine di marcia risultò stranamente invertito. In quel momento di crisi il
comando era passato insensibilmente a Lewis. Non opponendo, per il momento
almeno, resistenza, Karl rimase silenzioso indietro mentre, dopo aver sistemato le
corde, Lewis iniziava la marcia di ritorno attraverso il ghiacciaio.
Non fu comodo riportare indietro la piccola comitiva in quel buio pesto e
affrontando una tormenta accecante di neve. Ma Lewis poteva contare sulla sua fibra
robusta e sul senso sicuro di direzione di un marinaio nato. I lunghi turni di guardia
sostenuti per tanti anni avevano abituato i suoi occhi a vedere al buio quasi come in
piena luce. Stabilì la sua rotta regolandosi sul vento.
Dopo aver ridiscesi senza incidenti i due ghiacciai, si rimisero gli sci e si accinsero
a riattraversare il passaggio nella sella ghiacciata. Improvvisamente, mentre avanzava
sulla neve fresca, Lewis sentì la crosta di ghiaccio spezzarsi sotto i suoi sci. Urlando
per mettere in guardia gli altri spiccò un salto temerario andando miracolosamente ad
approdare su della neve solida. Ma, proprio allora, la corda legata alla vita gli si tese
come quella di un arco e prima di essere trascinato Lewis capì che Sylvia era caduta
nel crepaccio.
Si buttò istintivamente in avanti e piegando con forza il corpo lontano dal
crepaccio si girò puntando gli sci di traverso e cominciando a tirare a sé la fune.
Sentiva la voce irosa di Edler urlargli degli ordini, ma non ne tenne alcun conto.
Tutt’i suoi sforzi erano concentrati sulla difficile impresa di salvare Sylvia.
Aveva il cuore in gola mentre continuava a tirare a sé la corda. Conosceva i
pericoli di una simile caduta di un urto violento contro il ghiaccio più duro della
pietra. Sylvia si era forse rotta un braccio o una gamba. O peggio... Lewis aveva
sentito di sciatori estratti da un crepaccio col cranio fratturato.
Un ultimo sforzo la fece infine affiorare. Non resistendo più all’angoscia Lewis
abbandonò la corda e corse a circondare col braccio la ragazza.
«È ferita?»
Sylvia gli si era abbandonata sul petto e lui le sentiva palpitare un seno contro il
suo fianco. I suoi occhi scuri, ancora dilatati dal terrore, si affondavano nei suoi.
Rimasero per un istante allacciati, poi con un sussulto brusco Sylvia si svincolò.
«Sto bene», gli sussurrò abbassando lo sguardo. «Non è stato niente.»
Prima che Lewis potesse parlare, Karl e il professore li raggiunsero girando intorno
al crepaccio. Karl balbettava per la rabbia.
«Che diavolo sta facendo? Perché non mi ha aspettato? Non si rende conto che
sarebbe bastato un passo falso per farvi precipitare tutti e due per sempre in quel
crepaccio?»
Senza degnarsi di rispondere Lewis girò sui tacchi e riprese ad avanzare a testa
bassa nel cunicolo bianco lucente. Mezz’ora dopo erano sull’altopiano e dopo altri
dieci minuti nel capanno. Cominciava ad albeggiare. Avevano passato fuori tutta la
notte e il risultato era un penoso insuccesso.
Completamente esausto il professore si accasciò come un fantoccio su una sedia.
Dopo essersi guardato rapidamente intorno Lewis avvicinò un fiammifero al
fornello e mise a bollire la cuccuma. Poi, perché la legna era quasi finita, uscì a
cercarne dell’altra.
Arrivato dietro il casotto dov’era la catasta della legna si era piegato a prenderne
quando si accorse di avere alle spalle Edler, che l’aveva seguito.
Lewis si raddrizzò lentamente. Karl aveva un’espressione minacciosa: stringeva i
denti e respirava con affanno.
«Lei si sta comportando come se le avessimo dato il comando! Si sbaglia!»
Lewis si limitò a scuotere guardingo la testa.
«Non questa volta.»
Per tutta risposta Karl gli si avventò vibrandogli a tradimento un pesante diretto al
mento. Lewis, che se lo aspettava, si buttò in tempo di lato. Mentre il pugno di Karl
gli sfiorava l’orecchio pensò con fredda ira a quei due nel capanno.
«Si controlli», disse duramente. «Non faccia lo stupido...»
Ma sollevando di nuovo i pugni Karl si precipitò ancora a testa bassa contro di lui.
Lasciando cadere la legna raccolta Lewis gli tenne senza scomporsi testa. Quello
stile di lotta gli era familiare per averlo praticato spesso in molti porti. Difendersi fu
perciò per lui quasi un giuoco.
Parò facilmente ogni colpo che Karl cercò di sferrargli finché non giudicò arrivato
il momento di assestargli a sua volta un magistrale, fulmineo uppercut. Quando il suo
pugno percosse il mento dell’altro ne sostenne con l’intero peso del suo corpo
l’assalto furioso. Dopo un breve, violento corpo a corpo, uno sguardo di stupore velò
gli occhi di Edler e Lewis lo vide afflosciarsi in ginocchio e rotolare a terra.
Lewis si strofinò con calma le nocche sul maglione inzuppato, si chinò a
raccogliere una manciata di neve e cominciò a massaggiare la nuca del suo
avversario.
«Coraggio...», gli disse conciliante, appena l’altro riaprì gli occhi. «Noi due
abbiamo avuto soltanto una piccola spiegazione. Non ci faccia caso e torni dentro
come se non fosse accaduto niente.»
Karl si raddrizzò intontito a sedere. Quando si rese infine conto di ciò che era
accaduto sembrò per un momento che volesse tornare all’attacco. Ma il freddo
luccichio degli occhi di Lewis dové dissuaderlo, perché si alzò senza dire una parola
e rientrò zoppicando nel casotto.
Un minuto dopo Lewis lo segui. Fece bollire l’acqua nella cuccuma e un istante
dopo posava sul tavolo un bricco di cacao fumante, di cui ognuno vuotò con avidità
una tazza colma. Sylvia aveva un’aria imbarazzata e evitava di guardarlo. Edler
ruminava in silenzio il suo rancore accanto alla finestra. Il professore si era tolto f
suoi indumenti bagnati gettandoli a terra, e sedeva avvolto in una coperta accanto alla
stufa.
Starnutì a un tratto violentemente. E mentre allungava la mano verso il suo
fazzoletto umido, cominciò a piagnucolare.
«A quest’ora avrei dovuto essere in Svizzera. E grazie alla mia gita fra i ghiacci mi
sono acchiappato invece un raffreddore mostruoso!» Fece una pausa. «Dovrei farmi,
se potessi, un bagno caldo condito di mostarda. Povero me! Il suo cacao è
meraviglioso, Lewis», concluse. «Ma che cosa non darei per una goccia di whisky!»
Lewis tentò di confortare il povero vecchio.
«Coraggio, professore. Non è il caso di scoraggiarsi perché il nostro primo
tentativo è fallito. Dobbiamo farci forza e trovare una soluzione.»
«La trovi lei, visto che è un tale genio!», intervenne astioso Karl, togliendosi la
mano dalla guancia gonfia.
«Pace, caro ragazzo», lo redarguì il professore. «Calmati. Dopotutto il danneggiato
principale sono io. Dover continuare a fuggire e a nascondersi è già un bel guaio. Ma
prendersi anche l’influenza... eccì!... supera davvero tutti limiti!»
«Si diverta pure a fare il pagliaccio!», s’imbestialì Karl. «Scommetterei che
dall’Università di Heidelberg non dev’esserne mai uscito uno più bravo! Ma questa
situazione è già durata abbastanza. Lei non può rimanere nascosto qui più di altri due
giorni al massimo. Ormai li abbiamo alle calcagna. Ne sono sicuro come di
chiamarmi Edler!»
Improvvisamente, nel silenzio che seguì queste parole, si udì bussare con violenza
alla porta. Tutti si guardarono esterrefatti.
«Chi è?» Lewis trovò il coraggio di chiedere.
Mentre i colpi venivano ripetuti andò ad aprire. I due che il vento scaraventò quasi
nel casotto gli strapparono una esclamazione di. stupore. Erano Steve Lennard e sua
sorella Connie.
Ottavo capitolo
«Sei qui, dunque, Lewis?», esclamò Connie sfogando in quelle parole tutta la sua
indignazione a lungo repressa di sorella, «Ti sembra bello averci piantati così, senza
una parola? Non volevamo crederlo, che l’avessi scritto tu, quel biglietto.
Cominciavamo a pensare che ti avesse arrestato la polizia politica.
Karl, che stava osservando accigliato i due, aggredì a un tratto Lewis. «Si può
sapere chi sono costoro?»
«Mia sorella... e un vecchio amico.»
«Come hanno fatto a scoprire che eravamo qui?»
Fu Connie a rispondere.
«È stato il proprietario dell’albergo a dircelo. Si è deciso a parlare dopo che...
Steve se lo era un po’ lavorato, insomma. Ma sei tu, Lewis», protestò Connie, «che
dovresti spiegarci...»
Suo fratello li mise con poche frasi al corrente. Dopo averlo ascoltato, Connie si
girò impulsivamente verso Sylvia.
«Mi dispiace tanto, cara. Non potevo immaginare... Se si fosse confidata con noi
sul treno avremmo fatto tutto quello che era in nostro potere per aiutarla...»
Steve continuava ad esaminare con aria perplessa il professore. «Non ci siamo già
incontrati in qualche posto?», proruppe. «La sua faccia non mi riesce nuova.»
«Si sbaglia, caro ragazzo. Noi due non ci siamo mai visti.»
«Buffo, ma... Be’, non ha importanza. Lewis, dicci quello che ti preoccupa.»
L’interpellato aggrottò per un momento le sopracciglia.
«Io la vedo così», disse. «Delle due strade ne abbiamo tentata una inutilmente. Ci
rimane l’altra. Rappresenta un rischio maggiore di farci acchiappare, ma per il
professore un pericolo molto minore di spezzarsi il collo.»
«Grazie, caro ragazzo», intervenne compunto il padre di Sylvia. «La sua
preoccupazione per le mie vertebre cervicali mi commuove.»
«Secondo me non, dobbiamo rimanere insieme. È troppo pericoloso. E bisogna
cercare di fare molto più in fretta. Significa che ci occorre un’auto. Non una vecchia
caffettiera, ma una macchina solida e veloce. Il mio piano è questo. Voi, Steve e
Connie, potete darci una mano. Partirete immediatamente di qui, per tornare a
Vienna, se credete. Vi procurerete la macchina e andrete ad aspettarci in quel
villaggio.» Si tolse di tasca una carta della regione che aveva presa all’albergo, e
dopo averla spiegata sul tavolo appuntò il dito sulla frontiera svizzera. «Eccolo, si
chiama Breintzen. Vi raggiungeremo lì. È un posticino poco frequentato a dieci
chilometri da Lächen, da dove potremo forse squagliarcela senza dare nell’occhio.»
Steve abbatté il pugno sul tavolo: «Ci sono già stato due o tre volte per il mio
lavoro!», esclamò. «Sono soltanto poche case, con un posto stradale di frontiera sul
ponte. Laggiù ho degli amici...»
Lewis annuì senza staccare gli occhi dalla carta.
«Tanto meglio», approvò. «Mentre voi due, Connie e Steve, vi dirigerete dunque
verso Breintzen in macchina, noialtri potremo arrivarci in slitta, o perfino a piedi,
viaggiando di notte. Ci daremo un appuntamento...»
«E poi?», lo interruppe col solito furore astioso Karl. «Conosco anch’io abbastanza
bene Breintzen e negli ultimi giorni mi sono arrivate di laggiù notizie preoccupanti.
Hanno triplicato le guardie al ponte – ad ambedue le estremità, pare, e gli hanno fatto
montare delle mitragliatrici. Lei parla di squagliarcela non visti?»: imprecò: «ma
neppure un gatto, anche ammettendo che avesse nove vite, riuscirebbe ad attraversare
in queste condizioni quel ponte.»
«Piano», lo interruppe Steve. «Non ho finito. Come ho già detto ho a Breintzen
degli amici fidati, soprattutto un certo Johann Schwartz, un piccolo antiquario che
affitta ai turisti le due stanze al disopra del suo negozio. Johann è non solo un tipo
intelligente e in gamba ma, dopo il favore che gli feci due anni fa, so che per me si
butterebbe nel fuoco. Per dire l’esatta verità, quelli che hanno le loro buone ragioni
per voler passare di nascosto in Svizzera ricorrono proprio a lui. Perciò se mi
raggiungerete come ha detto Lewis a Breintzen, posso promettervi che varcherete la
frontiera. E poi sarete a non più di due ore di macchina da Zurigo.»
Il professore assentì sorridendo.
«Magnifico, caro ragazzo! Le confesso che questo nuovo piano mi convince.»
«Il piano è dunque approvato», intervenne inaspettatamente, con garbo, Connie.
«Con una sola variante: per diverse ragioni Sylvia verrà con noi due a Vienna.»
Quella dichiarazione cadde nel silenzio.
«Ma perché vogliono portarsela via?», chiese dopo un intervallo Karl a Ullwin.
«Sylvia deve rimanere qui e venire con noi!»
«E fare a piedi tutta la strada fino a Breintzen?», gli fece osservare Connie.
«Stanca com’è, al buio e con quella neve? Io direi di no. Sylvia ha bisogno, tanto per
cambiare. di riposo e di cure. E ho deciso di provvedere io», concluse.
«Per me va bene», replicò il professore. «Purché rimanga fermo il nostro
appuntamento nel negozio di antiquariato del bravo Herr Schwartz a Breintzen.
Vogliamo fissarlo?»
Steve lanciò un’occhiata a Lewis.
«Che ne direste delle dieci di domani sera?», propose quest’ultimo.
«D’accordo.»
Karl fece un gesto di disgusto. Dopo essersi voltato, nero di collera e diffidenza,
verso la finestra, raggiunse Sylvia.
«Ha smesso di nevicare», la informò aspramente. «Se come afferma la signorina
Connie, sei stanca, torniamocene all’albergo.»
«Ottima idea», approvò Connie. «Verrò anch’io con voi. Sento il bisogno di una
buona mangiata e di una dormitina, tanto più che com’è inteso Steve, Sylvia ed io
partiremo nel primo pomeriggio per Vienna.»
Dopo aver respirato con forza Karl si arrese.
«Sarò naturalmente felice di averla con noi», borbottò.
Il suo goffo sarcasmo fu sprecato per Connie, occupata in quel momento a far
infilare a Sylvia il suo pesante pullover. Un istante dopo i tre uscirono dal casotto.
Nono capitolo
Dopo aver sorriso con riconoscenza a Steve e Lewis, il professore si strofinò
contento le mani.
«Signori», riprese a declamare, «il grande Tayllerand ebbe a dire una volta che il
nemico peggiore dell’uomo è uno stomaco vuoto. Mi scuso di non aver pensato prima
a prepararvi un po’ di colazione.» S’interruppe per sorridere di nuovo come per
implorare indulgenza. «Ma conoscendo le scarse risorse della mia dispensa mi
rendevo conto – con vivo rimpianto – che mentre sarebbero forse bastate per tre era
escluso che potessero sfamarne sei. La necessità sono parole di Cicerone, è la madre
della discrezione.»
Continuando a parlare Ullwin si avvicinò al piccolo armadio a muro e col are di un
abile prestigiatore ne estrasse ad uno ad uno diversi oggetti agitandoli sotto gli occhi
dei presenti.
«Come vedete, signori, le mie razioni sono davvero magre. Articolo primo: un
uovo. Secondo, un altr’uovo un po’ più piccolo. Terzo, un sacchetto quasi vuoto di
farina. Infine qualche cucchiaino di caffè in polvere e i miseri resti di un panetto di
burro. Sì, cari ragazzi, c’è poco da scialare. Ma... chissà, con un po’ di abilità e di
pazienza riuscirò a sorprendervi. Voi due forse lo ignorate, ma ai bei tempi di
Heidelberg ero considerato, forse non a torto, un emulo del grande Escoffier. Le mie
insalate erano famose in tutta l’Università... per non parlare dei miei soufflés!»
Allontanandosi dall’armadio il professore cominciò a darsi da fare sui fornelli.
Dopo aver mescolato in una terrina farina e uova riempì la caffettiera senza smettere
di chiacchierare per intrattenere allegramente i suoi ospiti. Poco dopo metteva in
tavola un gran piatto di frittelle bollenti e un bricco di discreto caffè. Si sedé a sua
volta e senza perdere tempo assaggiò, com’è uso dei grandi cuochi, ansiosamente ciò
che aveva cucinato. Soltanto quando poté considerarsene soddisfatto fece agli altri un
largo gesto d’invito.
«Sedetevi, prego, signori, e servitevi. Che cosa consiglia il grande poeta Burns?
Sfamare i raffreddori, dice, e affamare le coliche. Obbediamogli.»
Per alcuni minuti, mentre i tre mangiavano con gusto, il silenzio regnò nel casotto.
Ma increspando con aria sempre più perplessa la fronte, Steve, strano, non staccava
gli occhi da Ullwin.
«Professore», dichiarò infine, «mi aiuti a risolvere il dubbio che mi assilla!»
«Che dubbio?», chiese il vecchio, lanciando a Steve di sotto le sue sopracciglia
cespugliose uno sguardo inquieto.
«A meno che lei non abbia in qualche posto un sosia, l’ho certamente già visto non
so dove. Sono pronto a giurarlo!»
Il professore si ficcò in bocca l’ultima frittella e dopo essersi leccato le dita sorrise
a Steve.
«Non si preoccupi, caro ragazzo. La memoria, lei lo saprà, può fare strani scherzi.
La sua, ne sono sicuro, avrà conservato l’immagine di altri lineamenti, di altre
fisionomie somiglianti alle mie umili sembianze. Un naso, per esempio, che si
direbbe copiato dal mio. Ma perché, se non mi appartiene, dovrei rivendicarlo?»
Lewis, che assisteva interessato alla scena. avrebbe giurato che a questo punto il
professore gli si era voltato ammiccando. Ma fu cosa di un attimo.
«Ed ora, caro ragazzo», stava già continuando Ullwin, «ci rimane da riempire
un’ora, o forse più, prima del vostro ritorno all’albergo. Che ne direste di farci una
partitina – soltanto per passare il tempo, si capisce?»
«Giuocare a carte?», disse Steve. «Non è una cattiva idea. Un pokerino vi
andrebbe?»
«Ha detto poker?» gli fece eco blandamente il professore. «È uno di quegli
esecrandi giuochi di azzardo, no? Mi sono lasciato indurre qualche volta, lo ammetto,
a prendervi parte. Ma lei, caro signor Lennard, dev’essere un esperto.»
«Oh, me la cavo», disse Steve.
«Facciamocela, allora, questa partitina», accettò, illuminandosi, il professore.
«Sarei perfino disposto ad arrischiare qualche centesimo.»
Ullwin andò a prendere un pacchetto di carte coperte di ditate sporche; i piatti
furono respinti e la partita ebbe inizio. I tre usavano fiammiferi al posto di fiches, e
poiché il professore si affannava a proporlo, la vile moneta corrente del paese fu
sdegnosamente esclusa e il valore di ogni fiche fissato in un dollaro.
Il professore, evidentemente un novizio, giocava come un bambino innocente.
Prima di farsi dare una carta tempestava di domande ansiose gli altri. Puntava con
beata prodigalità le sue fiches. Le sue osservazioni divertivano Steve e strappavano a
Lewis sorrisi un po’ particolari. Eppure le carte di quel giocatore inesperto erano
sempre, immancabilmente, le migliori.
Mentre, malgrado le sue evidenti ingenuità, il professore continuava
sorprendentemente a vincere, il sorriso di Steve cominciò ad attenuarsi. E poiché
Lewis aveva smesso presto di puntare la partita continuò come un vero duello senza
esclusione di colpi fra Steve e il professore. Steve odiava parlare. Dopo quasi un’ora
il suo sorriso si era trasformato in una smorfia dolorosa.
«Accidenti!», esplose infine gettando sul tavolo le carte. «Non avevo mai avuto
una jella simile. Finora debbo averci rimesso più di duecento dollari.»
«Di solito, caro ragazzo, la fortuna arride ai principianti» ribatté raggiante il
professore. «Mi dispiace che si sia accanita a neutralizzare la sua evidente bravura...»
«Vogliamo fermarci?», propose Lewis.
«Nemmeno per sogno!», protestò Steve. «Riguadagnerò quei soldi, dovessi
crepare!»
Il professore distribuì di nuovo amabilmente le carte. Mentre Steve prendeva le
sue, i suoi occhi ebbero un breve luccichio. Avrà delle buone carte, si disse,
accorgendosene, Lewis. Comunque, siccome le sue erano pessime, le buttò e si
accinse a seguire con interesse le mosse di quei due.
Con studiata indifferenza Steve gettò in mezzo al tavolo due gettoni. Il professore
lo imitò. Steve ne puntò ancora due e di nuovo Ullwin fece la stessa puntata; coprì
anche, con tre gettoni, gli altri tre rilanciati da Steve.
La partita si stava ora svolgendo secondo il piano di Steve. «Altre dieci», dichiarò
con l’aria di chi è deciso ad affrontare il peggio.
«Benissimo, caro ragazzo.»
«E altre dieci ancora!»
«Come vuole.»
Soffocando con uno sforzo enorme un sorriso di soddisfazione, Steve si tolse di
tasca il portafoglio e ne sfilò un fascio di banconote, che buttò sul tavolo.
«Non ho più gettoni. Ma queste parlano la stessa lingua.»
«Mio caro ragazzo», protestò dolcemente il professore, lanciando una occhiata
cupida alle banconote, «lei ha un coraggio da leone. Finirà per rovinarsi.»
Gettoni e biglietti di banca formavano in mezzo al tavolo un bel mucchietto
appetitoso. Decidendo evidentemente che potevano bastare, Steve si dichiarò con un
cenno pronto a “vedere” e mostrò le sue carte.
«Quattro re, professore. Mi dispiace per lei.»
Sorridendo con aria rassegnata Ullwin carezzava con le sue dita bianche le proprie
carte. Si decise infine, quasi umilmente, a scoprire quattro assi.
«Morte e dannazione!», imprecò sottovoce Steve.
Il sorriso di trionfo gli si era gelato sul viso. Tentò invano di farsi uscire la voce
dalla strozza. Inghiottì penosamente, come se un grosso boccone gli ostruisse la gola.
Aveva una faccia così avvilita che Lewis dové contenersi per non ridere.
Il professore stava intascando urbanamente la sua vincita. «Grazie, caro ragazzo, di
avermi insegnato questo giuoco. Confesso che mi sono divertito. Forse dopo altre due
o tre lezioni di un esperto pari suo riuscirò a diventare un mediocre giocatore di
poker. E ora mi pare che il fornello si stia spegnendo. Avreste la cortesia, cari
ragazzi, di andare a prendere fuori un po’ di legna?»
Steve si alzò con sforzo dal tavolo e uscì dal casotto. Quando, un istante dopo,
Lewis lo seguì, il guerriero sconfitto si stava stillando il cervello seduto sulla pila di
legna.
«Darei non so che cosa», Lewis lo udì borbottare, «per ricordarmi dove l’ho già
veduto!»
«Forse in qualche bisca», gli suggerì Lewis piegandosi a prendere una bracciata di
rami per la stufa.
Dopo aver gettato all’amico uno sguardo addolorato Steve continuò, premendosi le
nocche sulla fronte, a riflettere accigliato. Passarono dei minuti. Poi,
improvvisamente, il giovanotto si batte la palma sulla coscia lanciando un grido di
trionfo:
«Ci sono!»
Balzando a terra dai ceppi su cui si era seduto Steve raggiunse eccitato Lewis.
«Lo sapevo, che qualcosa di quel tipo non mi quadrava. Quel bravo, degno
professore di Heidelberg, ingiustamente privato della sua cattedra, quel povero
vecchio perseguitato e costretto a nascondersi come perseguitato politico, il nostro
caro Ullwin, è un truffatore e un ladro di fama internazionale. Appena pochi giorni fa
la sua foto era su tutti i giornali austriaci. Il mese scorso rubò all’“Istituto di Credito
Vienna Equitable” degli smeraldi favolosi, del valore di più di duecentomila scellini.
Non è la gendarmeria politica che lo insegue, ma la polizia!»
Seguì un lungo silenzio. Rabbuiandosi improvvisamente Lewis lasciò cadere il
fascio della legna.
«Ne sei proprio sicuro?»
«E me lo chiedi? Assolutamente! Quel furfante riuscì a farsi assumere alla
“Equitable” come contabile e poco dopo prese il largo col bottino. La “Vienna
Equitable” è, se non lo sai, un vecchio istituto specializzato in prestiti e ipoteche. Di
solito non prendono in deposito contanti o gioielli. Ma avevano fatto un’eccezione
per un paio di fiabeschi orecchini di smeraldi, appartenenti una volta a una regina, di
un’antica nobile famiglia di cui avevano liquidato il patrimonio... esattamente quelli
che Ullwin ha sgraffignato. La città è tappezzata di manifesti con la sua faccia e
l’offerta di una fastosa ricompensa, e la polizia gli dà la caccia da una settimana!»
Seguì un altro silenzio elettrico. Pur conoscendo la fantasia sbrigliata del suo
amico, Lewis sapeva che questa volta Steve non si sbagliava. Il padre di Sylvia era un
ladro, un criminale che si era assicurato sotto false apparenze il suo aiuto. L’intera
situazione era basata su una volgare truffa di cui Sylvia si era fatta complice.
Lewis rimase per un pezzo a testa bassa. Poi il suo amico lo vide raddrizzarsi di
scatto, come se avesse preso una brusca decisione.
«Torna dentro con me, Steve», lo invitò. «Vedremo quello che quel vecchio ha da
dirci.»
Trovarono il professore in maniche di camicia, con i piedi immersi in un caldaio
pieno di acqua calda.
«Entrate, cari ragazzi», ridacchiò vedendoli. «Come vedete sto cercando di
arrangiarmi anche senza la mostarda. Non vi sembro un quadretto di pura felicità
domestica? Ah, se uno di voi sapesse almeno cucinare!»
Lewis non replicò. Come al solito l’allegra bonomia del vecchio gli faceva un
effetto stranamente disarmante. Ma questa volta non si sarebbe lasciato abbindolare.
Avvicinandosi alla giacca del professore appesa dietro la porta tolse da una delle
tasche il pacchetto di carte e le esaminò attentamente. Erano quasi tutte segnate.
«Se le è portate dietro dall’Università?», chiese a Ullwin fissandolo.
Il sorriso non abbandonò le labbra del vecchio. Se mai diventò più ingraziante.
«Si capisce, caro ragazzo. Non me ne separo mai.»
«Lo pensavo», disse annuendo Lewis. «A Heidelberg debbono sentire molto la sua
mancanza; o sbaglio?»
Il professore capì di essere stato smascherato, ma non batté ciglio. Anzi il suo
sorriso si accentuò.
«Sono inconsolabili, caro ragazzo.»
«Non faccia lo spiritoso, Ullwin! Li ha rubati lei, vero, alla “Equitable”, quegli
smeraldi?»
Il vecchio si limitò a sbattere leggermente le palpebre sui suoi occhi verdastri.
«Non lo nego, caro ragazzo. Quei famosi orecchini sono stati uno dei colpi più
abili della mia carriera.»
«Non era il primo, dunque?»
«Oh, no, caro ragazzo. Solo che qualche volta mi è andata meglio; e qualche altra
peggio.»
«Lei è dunque un vero professionista?»
«Esatto.»
Il professore si tolse dal taschino del panciotto una sigaretta e se l’accese con
calma. «Sono molti anni che svolgo una carriera, diciamo non esattamente ortodossa,
interessante e varia. Dopo una prima truffa davvero geniale in Inghilterra, passai in
Francia, dove un colpetto in una banca di Parigi mi riuscì al di là delle mie speranze.
Lavorai poi a lungo sulla Riviera. Avevo un mio sistema infallibile da usare ai tavoli
da giuoco. Altri colpi di cui non posso che vantarmi li ho fatti in Svizzera, in
Germania e in Austria. Non lo indovinereste, ma è stata proprio la perfezione del mio
metodo a meritarmi il mio nomignolo di “professore”. Ho avuto i miei rovesci di
fortuna, certo, chi non ne ha? Ma finora, tutto sommato ho sempre condotto una vita
dinamica, eccitante e proficua.»
«E sua figlia», chiese duramente Lewis, «collaborava a queste sue imprese
proficue?»
I due amici videro Ullwin turbarsi per la prima volta. Il sangue gli affluì
violentemente alle guance.
«Noi», protestò con forza, lanciando a Lewis uno sguardo quasi di odio. «Sylvia
mi ha raggiunto qui soltanto perché ero nei guai. Mia figlia è l’unica cosa pulita della
mia vita. E lei lo sa!»
Lewis fu travolto, come da un’onda rinfrescante, da un enorme sollievo. Riprese a
esaminare il vecchio furfante che, ritrovata tutta la dignità di un autentico professore,
gli occhi brillanti come di una sfida maliziosa, aveva ripreso tranquillo a fumare. Ad
onta di tutto, quel delinquente aveva una sua carica di simpatia a cui era difficile
resistere.
«Il nostro dovere sarebbe di consegnarlo alla polizia», dichiarò Lewis. «Ma lei sa
che lo faremo.» Fece una pausa. «Ad una condizione: se l’aiuteremo a mettersi al
sicuro in Svizzera dovrà restituire gli smeraldi che rubò alla “Equitable”.»
Ullwin alzò sorridendo compunto le spalle.
«Magari potessi, caro ragazzo! Purtroppo gli smeraldi, e quello che ne ricavai,
sono spariti da un pezzo. Il mio palo, se mi concede di usare un termine così volgare,
mi versò, vede, soltanto una frazione del valore di quelle gemme.»
«E se lo frugassimo per accertarcene?»
«Accomodatevi, cari ragazzi. Smantellate pure, se volete, questo mio misero
rifugio. Ma vi do la mia parola d’onore che non ho più gli smeraldi.»
Per una volta la sua voce aveva il suono convincente della verità. Lewis si lasciò
sfuggire un sospiro.
«Dovremo crederle, immagino. Ma se vuole che l’aiutiamo a uscire da questa
sgradevole situazione deve impegnarsi almeno a rigare d’ora in poi diritto. Guai a lei
se non manterrà la parola.»
Ullwin piegò sorridendo commosso la testa.
«Non può sapere, caro ragazzo, che conforto e che incoraggiamento siano per me
le sue parole. Era un pezzo che mi auguravo un’occasione simile: la possibilità di
affrontare un orizzonte diverso, di ricostruirmi una vita nuova sulle rovine della
vecchia.»
Alzandosi nel suo bagno di piedi il professore afferrò la mano che Lewis cercava
di sottrargli e la strinse fervidamente. Poi stritolò con eguale slancio quella di Steve.
Nel silenzio imbarazzato che seguì, quei due si domandarono come diavolo quel
vecchio diabolico fosse riuscito a intrappolarli di nuovo. Eppure eccoli lì, conquistati
dal suo fascino, legati ormai irrimediabilmente alla sua causa.
Lewis si guardò l’orologio. «È ora di tornare all’albergo», disse a Steve. «Hai
dimenticato che devi ripartirne fra tre ore?»
Il professore li accompagnò a piedi nudi alla porta.
«Arrivederci, cari ragazzi, e che le mie benedizioni vi accompagnino.»
«Ne avremo bisogno», replicò con un sorriso enigmatico Steve. «E non ricorra a
qualche altro dei suoi diabolici trucchi prima del nostro appuntamento a Breintzen, o
l’avverto che io non mi limiterò a benedirlo!»
Erano quasi a metà strada, quando Steve aprì di nuovo la bocca.
«Sai, Lewis», disse scuotendo solennemente la testa. «Quel vecchio sarà un
furfante... Ma che vuoi che ti dica, non riesco a volergliene!»
Lewis annuì. Improvvisamente vide il suo amico raddrizzarsi furioso.
«Acc...!», esplose Steve. «Ho dimenticato di farmi restituire i dollari che mi ha
truffato!»
Decimo capitolo
All’albergo, due ore dopo, Connie, Sylvia e Steve erano pronti a partire. La slitta li
aspettava davanti alla porta, e avevano consumato un pasto leggero.
Nella sua stanza anche Lewis, che all’ultimo momento – non sarebbe riuscito a
spiegare perché – aveva deciso di accompagnare il gruppetto, si stava preparando a
partire. Le sue reazioni nei riguardi di Sylvia erano terribilmente confuse; il suo
cervello un turbine di dubbi contrastanti. Eppure intraprendeva quella lunga, tediosa
corsa fino alla stazione unicamente per rimanerle accanto ancora poche ore.
Mentre scendeva al pianterreno, essendosi infilato cappotto e berretto e avvolta una
sciarpa calda intorno al collo, si vide a un tratto sbarrata la strada. Oberholler, il
piccolo piazzista, si era seduto sull’ultima scalino. Vedendo Lewis gli sorrise
cordialmente, ma senza togliersi di mezzo.
«Buongiorno!», lo salutò. «Non vorrà uscire di nuovo, spero.»
«Sì», si limitò a rispondere Lewis.
«Ma ha già fatto sui monti una lunga e direi sgradevole spedizione», protestò
l’altro. «Non le conviene, mi creda, tentare di nuovo la provvidenza.»
Se non fosse stato così immerso nei propri pensieri Lewis si sarebbe stupito di
quella strana insistenza. Preoccupato com’era si limitò invece a guardare
distrattamente l’altro.
«Lei è un bravo giovanotto», riprese a ragionare amichevolmente con lui
Oberholler. «Sebbene lo abbia appena conosciuto, ho già per lei molta simpatia. E
non vorrei che avesse dei fastidi.»
«Che fastidi?»
«Chi lo sa?», replicò Oberholler, facendo un gesto di scongiuro. «Siamo in un
luogo pericoloso dove non ci si può fidare del tempo né della gente. Mio caro
giovane americano, sono sinceramente preoccupato per lei.»
«So badare a me», tagliò corto Lewis, accingendosi a proseguire.
Ma non solo Oberholler continuò imperterrito a sbarrargli la strada, ma tutta la sua
sorridente affabilità sembrò abbandonarlo. Dietro le sue spesse lenti i suoi occhi
erano diventati freddi e acuti.
«Guardi che non scherzo, signor Merrid», riprese con una voce bassa e grave,
alzandosi e avvicinandosi a Lewis. «Mi ascolti: porti immediatamente via di qui sua
sorella e il suo amico. Andatevene a Parigi, a Berlino, a New York, o a Timbuctù, se
vi garba. Ma non rimanete in Austria. E non impicciatevi di faccende che non vi
riguardano.»
Non era possibile ignorare la gravità, la preoccupazione sincera del buffo ometto.
Ma Lewis era troppo angustiato e confuso per poter dare a quell’avvertimento il peso
che meritava.
«Mi dispiace, signor Oberholler», disse più leggermente che poté, «ma Timbuctù
non m’interessa. E purtroppo le faccende che non dovrebbero riguardarmi mi hanno
sempre terribilmente attirato. Ma grazie egualmente.» E respingendolo con garbo uscì
dall’albergo.
Fuori, gli altri erano già seduti nella slitta.
Piegato su Sylvia, Karl si stava accomiatando lungamente e con fare da
proprietario, da lei. Era come se esigesse una tassa per averle permesso di allontanarsi
per due soli giorni. Lo sguardo di Lewis s’indurì. Non riusciva a decidere se Sylvia si
sottoponesse volentieri o no a quell’abbraccio prepotente. Ma quello spettacolo bastò
a rendergli ancora più penosi i suoi pensieri.
Partirono infine.
Per la maggior parte della corsa fino a Lächen, – sebbene Steve e Connie
continuassero a chiacchierare allegramente, – Lewis non disse una parola. Lui e
Sylvia erano come paralizzati da un mutismo freddo, quasi ostile. Oppresso da uno
sconforto enorme Lewis non poteva più nascondersi di amare quella ragazza. Aveva
riconosciuto in lei, appena si erano incontrati, l’ideale che inseguiva inutilmente da
anni. Ma, si domandò adesso, chi e che cosa è questa Sylvia? La figlia di un
commediante abilissimo, di un ladro famoso, che gli aveva mentito dal primo istante
col suo stesso silenzio.
Lewis si ripeté amaramente, come già tante volte, che doveva vincere ad ogni
costo la sua ridicola infatuazione, dimenticarne l’oggetto e liberarsi per sempre da
quella selvaggia, tormentosa angoscia.
Il suo stato d’animo, poco prima dell’arrivo a Lächen, era questo. Modesto
com’era, quel piccolo centro abitato formava un contrasto violento con la solitudine
bianca che Lewis aveva appena lasciata. L’unica strada del villaggio era piena di
gente; la stessa radio economica dell’altra volta funzionava a tutto volume nello
stesso caffè e un merci passava in quel momento rumorosamente sui binari che
congiungevano con la civiltà la stazione.
La comitiva entrò nel caffè e Steve si affrettò a battere il pugno sul tavolo per
ordinare dei drink. A un tavolino d’angolo nel fondo, piegato sul suo inevitabile
bicchiere di birra, Lewis riconobbe subito Heinrich, il cocchiere che lo aveva portato
all’albergo tra i monti.
Udendo entrare quei tre L’uomo li guardò sospettosamente. Ma sorrise con aria di
complicità a Lewis.
«È di nuovo qui, eh?», lo apostrofò. «Glielo aveva detto, che non sarebbe rimasto
molto lassù!»
Lewis si limitò ad annuire.
«Posso offrirle qualcosa?», chiese affabilmente Steve. Nei bar l’amico di Lewis si
sentiva a casa sua. Heinrich accettò un’altra birra. Mentre la beveva il suo sguardo,
solo apparentemente torpido e ottuso, scivolò sul gruppo per andare a fermarsi sulla
finestra della saletta. Più ciarliero del solito il cocchiere attaccò a parlare forte del
tempo, della neve, della radio che si era rotta e che avevano infine riparata, e del
bellissimo motivo che la bella radio riparata stava suonando. Interrompendo
improvvisamente quelle sue stupide, rumorose chiacchiere, si piegò poco dopo verso
Lewis per mormorargli con un tono né stupido né sguaiato: «Attento. Lo stanno
cercando». Un istante dopo lodava rumorosamente la birra prelibata che gli avevano
servita.
Dimenticando tutto il resto sotto lo choc di quell’avvertimento inatteso, Lewis
sentì, come in altri momenti di pericolo, acuirsi e indurirsi le sue facoltà. Dopo aver
pagato il conto Steve stava uscendo in quel momento dal locale con Connie. Il loro
treno sarebbe arrivato fra cinque minuti. Lewis li seguì a una certa distanza con
Sylvia. Mentre stava per uscire dal bar un istinto oscuro lo indusse a fermarsi.
Allungando il braccio attirò di nuovo Sylvia nell’ombra dell’arco della porta.
Ignari, intanto, Steve e Connie avevano attraversato la strada per raggiungere la
stazione. Si fermarono davanti al botteghino proprio di fronte. Mentre Steve
acquistava i biglietti due uomini si staccarono improvvisamente dal muro opposto,
dov’erano appoggiati con apparente indolenza, e avvicinandosi con pochi passi rapidi
a quei due li arrestarono.
La scena si svolse con la massima rapidità e senza che nessuno vi prestasse
attenzione. Nemmeno un minuto dopo che si erano avvicinati al botteghino Connie e
Steve venivano già condotti via dai poliziotti. E nell’istante preciso in cui i primi
agenti li ammanettarono ne sbucarono da dietro il muro altri quattro, due in uniforme
e due in borghese, che si diressero verso il caffè.
Era chiaro, si disse in un lampo Lewis, che l’oggetto di quella manovra combinata
dovevano essere lui e Sylvia. Mentre con la coda dell’occhio vedeva il merci
cominciare a muoversi sulla linea principale, il suo cervello funzionò con rapidità
fulminea.
«Dobbiamo assolutamente prenderlo!», disse con tono perentorio a Sylvia. E
afferrandole il braccio attraversò con lei, correndo, la strada.
Ma erano appena usciti dall’ombra del caffè che i poliziotti li adocchiarono e
lanciando un urlo cominciarono ad inseguirli. Comprendendo che era ormai
impossibile raggiungere la stazione Lewis trascinò Sylvia verso i binari di raccordo.
Il cancello essendo per fortuna aperto poterono attraversarli di corsa. Sylvia era
leggera e rapida, ma il treno stava guadagnando in fretta velocità. Facendo un ultimo
sforzo disperato, Lewis, mentre il convoglio gli passava davanti, saltò sugli scalini
dell’ultimo vagone afferrandosi alla maniglia e tirandosi dietro con tutta la sua forza
Sylvia riuscì a farsela salire accanto. Dopo essere rimasti per un secondo in bilico
sullo scalino oscillante Lewis spinse nel vagone Sylvia. Rotolarono insieme sul duro
tavolato nella oscurità calda, ansando, soffocati dai battiti urgenti dei loro cuori,
mentre fischiando e sferragliando la locomotiva li portava via rapidamente da
Lächen.
Lewis fu il primo a riaversi. Sedendosi sulla paglia che copriva il piancito del
vagone, si girò serio verso Sylvia.
«Mi dispiace», le disse, «di aver dovuto prendere questa decisione. Ma altrimenti
saremmo stati arrestati.»
Lei si tolse da una guancia la ciocca che vi era piovuta. «Sono io», disse a voce
bassa, fissandolo con i suoi begli occhi neri, «che dovrei chiederle scusa per averlo
coinvolto in questa brutta storia.» Le labbra le tremavano. «Ormai non c’è più niente
da fare. Ci hanno visti. Tanto vale arrendersi.»
Vedendola così sconvolta Lewis sentì di nuovo una fitta di pietà.
«La situazione non mi sembra disperata. Siamo ancora liberi, no? Connie e Steve
non parleranno. Non vedo perché suo padre non dovrebbe giungere, com’era
previsto, a Breintzen. Se potessimo arrivarci anche noi con una macchina penso che
riusciremmo a fargli passare la frontiera.»
La vide rasserenarsi lentamente.
«Crede davvero», la sentì mormorare, «che potremo portarlo in salvo?»
«Perché no? Abbiamo davanti a noi un’impresa difficile. Ma riunendo le nostre
forze penso che potremo farcela. Prima di tutto bisogna scendere da questo treno.
Quei poliziotti avranno certamente avvertito la prossima stazione. Se ci trovassero su
questo merci non sarebbe facile spiegare perché ci siamo saliti.»
Sylvia fece girare con rimpianto lo sguardo nel vagone, che doveva sembrarle un
asilo sicuro in un universo improvvisamente ostile. Ma non esitò.
«Farò tutto quello che vorrà», promise fermamente.
Non si dissero altro. Alzandosi, Lewis andò ad aprire lo sportello del vagone e
guardò fuori. Il paesaggio era sconfortante, piatto e coperto di neve. Lewis non aveva
modo di capire in che direzione andassero. Ma si rincuorò vedendo che cadeva già il
crepuscolo.
Rimase per quasi venti minuti davanti allo sportello mentre gli passava davanti una
lunga fila ininterrotta di pali telegrafici. Si accorse a un tratto che la velocità del treno
cominciava a diminuire, e si girò verso Sylvia.
«Stiamo per fermarci. Mi ascolti bene. Tutto dipende dalla nostra calma e dalla
nostra prontezza di spirito. Salti quando mi vedrà saltare e mi segua. Ha capito?»
Piegando in silenzio la testa lei gli si mise al fianco. Rimasero così mentre
nell’oscurità che s’infittiva il treno si fermava lentamente. Vedendo quella
stazioncina così piccola dove sarebbe stato molto più facile arrestarli, Lewis imprecò
sottovoce. Poi il cuore cominciò a battergli febbrilmente. Davanti a loro, sull’altro
binario, era pronto a muoversi uno di quei lenti treni locali, argomentò Lewis,
notando i suoi vagoni antiquati e la locomotiva dalla lunga ciminiera che aveva
cominciato a sbuffare prima di mettersi in movimento.
Il suo piano fu subito fatto. Fece cenno a Sylvia nell’istante in cui il merci si
fermava. Saltarono quasi insieme a terra, e, tuffandosi sotto le ruote immobili, ne
emersero davanti al trenino locale. Meno di trenta secondi dopo erano seduti in un
decrepito, ammuffito scompartimento.
Seguì un intervallo di attesa angosciosa. Lewis digrignava per l’ansia i denti.
Quella dannata locomotiva non si sarebbe mai mossa? Ogni minuto rendeva più
precaria la loro situazione. Sul marciapiede passò in quell’istante un facchino che si
fermò a gettare un’occhiata nello scompartimento. Il suo sguardo si era insospettito?
Li aveva forse visti attraversare i binari? L’uomo non si decideva a proseguire.
Mentre Lewis cominciava a temere che sarebbe salito a interrogarli, il treno, dopo
aver fischiato, partì a un tratto con uno scossone.
Lewis gettò fuori, prima che uscissero dalla stazione, uno sguardo prudente. Ciò
che vide lo fece ributtarsi indietro con un sospiro di sollievo. Un drappello di
poliziotti aveva cominciato a perquisire affannosamente il merci.
Aveva dovuto vederli anche Sylvia. «Ha scelto il momento giusto per filare», gli
sussurrò.
Il treno correva abbastanza velocemente nell’oscurità. Lewis non avrebbe saputo
dire dov’era diretto. Quell’incertezza sulla loro destinazione lo tormentava. E se
dovessimo andare a Lächen? si chiese con un brivido.
Dopo più o meno un’ora si avvicinarono infine alla periferia di una città piuttosto
grande, come arguì soddisfatto Lewis dalle molte luci tremolanti nel crepuscolo.
Mentre entravano nell’ampia stazione coperta ne lesse infine il nome: «Innsbruck».
Avvertì con un nuovo cenno Sylvia, aprì la porta dello scompartimento e scesero con
diversi altri passeggeri sul marciapiede. Avendo cura di rimanere mescolato alla folla
Lewis prese di nuovo il braccio della ragazza e si diresse con lei verso l’uscita della
stazione.
Fuori cadeva una pioggerella fredda mista a nevischio. Si trovarono in una specie
di piazza con due grandi alberghi a riscontro. In pochi minuti divenuta torrenziale, la
pioggia li aveva inzuppati fino all’osso. Temendo che qualcuno li seguisse Lewis non
osò fermarsi a prendere un tassì. Proseguirono nella strada principale della città,
fiancheggiata da caffè e ristoranti brillantemente illuminati. A un tratto Lewis
adocchiò in una traversa l’insegna al neon di un piccolo cinema. Spinse senza esitare
Sylvia in quella direzione e si precipitarono dentro.
Al sicuro nell’oscurità della sala poté infine respirare augurandosi che nessuno
avesse notato il loro ingresso. Lui e Sylvia si trovavano in un piccolo cinema di
terz’ordine, con la tappezzeria delle poltrone scricchiolanti sporca e sdrucita e un
vecchio proiettore sfrigolante. Il programma era limitato a un unico film scolorito.
Ma almeno per un breve intervallo loro due avevano trovato un asilo. Lewis gettò di
sfuggita uno sguardo alla sua compagna. Si accorse, perfino nella poca luce riflessa
dallo schermo, che Sylvia era paurosamente pallida, inzuppata, e sfinita dalle
emozioni e le fatiche della loro fuga. Non può rimanere a lungo in questo stato,
decise, senza arrischiare di prendersi un malanno serio. Doveva trovare al più presto
un alloggio qualunque dove potessero passare la notte.
Si trattava, Lewis se ne rendeva benissimo conto, di affrontare un rischio molto
grave. Ormai senza dubbio al corrente della loro fuga la polizia doveva già cercarli
nell’intera città. Bisognava quindi escludere assolutamente gli alberghi, si disse
Lewis. Per non parlare di un’altra difficoltà che gli si presentò alla mente. Per
impedire che quell’avventura finisse in un fiasco disastroso era urgente trovare il
modo di mettersi in comunicazione con Karl e il professore.
Tenendo gli occhi fissi sullo schermo si concentrò intensamente su quel problema.
Per una strana coincidenza la storia raccontata dal film si svolgeva su un’isola del
Pacifico sfavillante di sole. Quel particolare bastò a spingere all’azione Lewis.
«Se la sente di rimanere per un po’ qui, mentre vado a dare un’occhiata in giro?»,
chiese a Sylvia piegandosi verso di lei. «Non corre alcun rischio.»
Dopo avergli restituito brevemente lo sguardo lei annuì.
Lewis avrebbe voluto continuare a parlare, esporle succintamente il suo piano e
sentire in lei un’alleata e un’amica. Ma di nuovo il contegno scoraggiante di Sylvia
gli fece morire sulle labbra le parole. Si alzò e uscì senza. aggiungere altro dal
cinema.
La pioggia si era trasformata intanto decisamente in neve. Dopo aver percorso con
lo sguardo la strada, Lewis si rialzò il bavero del cappotto avviandosi risolutamente.
Sapeva di affrontare un serio pericolo, ma non poteva farne a meno.
L’ufficio postale che cercava si trovava nella strada principale. Lewis vi entrò
tenendo prudentemente abbassata la testa. Entrò in una delle cabine a destra e riempì
per Heinrich, indirizzandolo alla “Locanda della Ferrovia”, il seguente telegramma
poco compromettente: “Arrivati bene. Prego avvertire amici raggiungerci come
stabilito. Riceverai bel regalo”.
Heinrich, Lewis lo sapeva, era già ben disposto verso di lui. E il miraggio di una
ricompensa non avrebbe potuto che accrescere il suo zelo. Anche se venisse
intercettato o si perdesse, si disse, un simile messaggio non potrebbe danneggiarci. Il
cuore gli batteva quando andò a portarlo allo sportello, ma per fortuna l’impiegata
che lo prese, una ragazza dall’aria ottusa e sonnolenta, si limitò a spedirlo
apaticamente. Soddisfatto di sé Lewis riattraversò in fretta la strada.
La sua fermata seguente fu in un grande bazar popolare dove acquistò una valigia
di fibra, una pesante vestaglia da donna, un golf, una sciarpa di lana e due
impermeabili. Dopo essersi infilato il più grande, mise l’altra roba nella valigia.
Finora i suoi andirivieni non avevano apparentemente destato sospetti. Rincuorato,
Lewis si accinse alla parte più difficile del suo compito. Portando la valigia e
evitando le strade più affollate, si spinse fino al quartiere più tranquillo della città.
Dopo aver errato per quasi un quarto d’ora in stradicciole vuote esaminando le
facciate cieche delle case arrivò infine davanti a un isolato di costruzioni nuove, sulle
finestre delle quali spiccavano qua e là cartelli con “Affittansi camere”. Scelse a caso
una casa del centro della fila e bussò alla porta.
Dopo un breve intervallo venne ad aprirgli un donnone di mezza età, con una
faccia paffuta e bonaria.
«Buona sera», la salutò più cortesemente che poté Lewis. «Ho l’onore di parlare
con la padrona di casa? Vorrei due stanze, per mia sorella e per me.»
«Ah, sì...?», disse la donna, evidentemente poco incoraggiata dalla valigia di fibra
e la tenuta tutt’altro che elegante di quell’estraneo.
«Siamo americani», spiegò Lewis, «in vacanza qui in Austria e abbiamo lasciato
alla stazione il resto del nostro bagaglio. Quest’orribile tempo ci ha complicato le
cose. Mia sorella è rimasta ad aspettare in un caffè che trovassi una sistemazione per
la notte.»
«Americani...», ripeté il donnone. «Avete i passaporti?»
«Si capisce». Lewis le tese il suo. Mentre la padrona di casa lo esaminava,
aggiunse sorridendo: «Mia sorella si è tenuto il proprio.»
«Si capisce», approvò il donnone, decidendosi infine a sorridere a sua volta,
sollevata. «Sì», continuò, «ho due belle stanze per voi! Ma dovrete pagarmi, com’è
l’uso, l’affitto anticipato di una settimana. Vuole che gliele faccia vedere?»
«Sì, grazie.»
Lewis entrò e seguì di sopra il donnone. Soddisfatto delle stanze pulite e spaziose
che gli furono mostrate si affrettò a versare alla padrona di casa i trenta scellini che
lei gli chiese e la informò che sarebbe andato a prendere sua sorella.
La perplessità del donnone, ora che aveva in mano il denaro, era completamente
svanita. Esaminò con premura materna Lewis.
«Com’è bagnato, mio povero giovanotto! Vi farò trovare il fuoco acceso nelle
vostre stanze. E lei e sua sorella prenderete prima di coricarvi un bel bagno caldo.»
«Gradiremmo anche una buona cenetta», suggerì Lewis.
«Si capisce», annuì enfaticamente il donnone. «Non vi lamenterete della mia
cucina.»
Scesero insieme le scale. Prima di uscire Lewis si girò un’ultima volta. «Sarò di
ritorno fra una ventina di minuti», avvertì l’affittacamere.
Dopo aver annuito di nuovo lei corse in cucina.
Animato da una nuova speranza Lewis si diresse verso il cinema. Perlomeno le
loro difficoltà immediate erano state vinte.
Quando rientrò nel piccolo cinema, non riuscendo sulle prime a ritrovare Sylvia si
sentì quasi fermare il cuore. Poi la vide, sulla poltrona dove l’aveva lasciata, e corse a
sedersi accanto a lei.
«Ho sistemato tutto», le sussurrò. «Prima di uscire aspettiamo ancora cinque
minuti per non attirare l’attenzione.»
Lei si era voltata. Un sorriso scherzoso le sfiorò per la prima volta gli angoli delle
labbra.
«Dobbiamo proprio andarcene così presto? Ho visto appena tre volte il film...»
Undicesimo capitolo
Quando arrivarono nella casa della periferia Lewis constatò soddisfatto che il
donnone aveva mantenuto la sua parola. In ognuna delle stanze ardeva un bel fuoco
sfavillante e nella più grande un tavolo rotondo, apparecchiato per due con una
tovaglia di bucato e stoviglie e posate modeste, sembrava promettere un pasto
sostanzioso.
Imbarazzati forse dalla porta di comunicazione aperta fra le loro stanze lì per lì
quei due non riuscivano a rompere il silenzio.
Lewis se lo impose.
«Per prima cosa», disse autorevolmente a Sylvia, «lei prenderà un bagno caldo. E,
per favore, si sbrighi. Poi s’infilerà quella vestaglia, per pranzare, se non le dispiace,
con me. L’avverto che non tollero proteste idiote. Non voglio avere sulle braccia
anche una bella polmonite!»
Giudicandolo il mezzo migliore per indurre Sylvia all’obbedienza Lewis aveva
usato di proposito quel tono brusco, quasi sgarbato. L’idea che lei potesse prendersi
un malanno lo preoccupava seriamente. Ma, strano, non suscitò l’opposizione che si
aspettava. Senza replicare, Sylvia raccolse la roba che lui le aveva portata e uscì.
Rimasto solo Lewis andò nella propria stanza, si tolse la giacca e il golf fradici, e
dopo essersi sfilata anche la camicia si strofinò vigorosamente con un asciugamano
davanti al fuoco. Quando si fu messo il maglione caldo che si era comprato cominciò
a sentirsi meglio. Abituato com’era a trascorrere notti intere sui ponti, spesso inondati
d’acqua, delle navi, la lunga corsa sotto la pioggia nelle strade di Innsbruck era
servita soltanto a stimolare la sua robusta vitalità.
Dopo una diecina di minuti sentì Sylvia rientrare nella sua stanza, la voce
premurosa della padrona di casa che le faceva delle raccomandazioni e infine i rumori
del pranzo che veniva servito. Attese un momento prima di battere alla porta di
comunicazione. Udì quasi subito Sylvia che lo invitava a entrare e aprì la porta, ma
trattenendosi al di qua della soglia.
Lei lo aspettava in piedi davanti al caminetto. Il modesto accappatoio bianco che si
era infilato legandoselo alla vita metteva ancora più in evidenza la sua delicata
bellezza. Il bagno caldo l’aveva confortata e rianimata; si era raccolti i bei capelli
bruni in un nodo morbido e i suoi occhi non erano più velati e stanchi.
«Così va meglio», disse piano Lewis. «Immagino che preferirà rimanere sola,
vero? Mi porto di là la mia cena.»
La vide avvampare.
«Ma è ridicolo!», protestò Sylvia. «Non vede che è stato preparato tutto qui?»
Dopo aver esitato Lewis entrò aspettando per sedersi che lo avesse fatto lei.
Cominciarono a mangiare in silenzio. L’eccellente minestra, spessa e calda, una
specialità campagnuola della regione, fu per il loro sangue una frustata benefica.
Sylvia alzò una o due volte timidamente gli occhi su Lewis soltanto per
riabbassarli scoraggiata dalla sua impassibilità. Come lui aveva previsto si sentì
infine costretta a rivolgergli per prima la parola.
«È stato bravissimo, a trovare questa pensione...»
La sua sincera, commossa gratitudine dava a quelle parole banali, che le uscivano
con sforzo dalle labbra, un valore speciale.
«Non so come mostrarle la mia riconoscenza... Non potrò mai ringraziarlo
abbastanza.» S’interruppe confusa, sbriciolando per darsi un contegno un pezzetto di
pane.
Lewis continuò per un momento a tacere. Non solo era già abbastanza emozionato
di trovarsi per la prima volta in una tale intimità con Sylvia ma lo tormentava da
molte ore il pensiero della slealtà di quella ragazza – che lui aveva messo fin dal
primo istante su un piedistallo. Adesso che almeno i pericoli più imminenti
sembravano scongiurati gustava un piacere morboso nel ferirla – o meglio nel ferirsi
lui stesso.
«Le ho già detto», ribatté infine freddamente, «che non ha nessun bisogno di
ringraziarmi. Sarò lieto di poter aiutare in qualunque modo suo padre. Non ho mai
tollerato di veder soffrire un innocente senza tentare almeno d’intervenire.»
La vide mordersi bruscamente le labbra e distogliere gli occhi. «La situazione in
cui ci troviamo», continuò, «non mi preoccupa eccessivamente. Ma per lei, dopo gli
anni sereni e felici passati con i suoi a Heidelberg questa vita di dissimulazione e
palpiti dev’essere molto dolorosa.»
Nella pausa che seguì Sylvia diventò di un pallore impressionante. Ma si costrinse
con uno sforzo visibile a fissare negli occhi Lewis.
«Io non vivevo a Heidelberg.»
«Ah, no?» ribatté, fingendosi sorpreso lui.
«M’ero stabilita a Parigi», continuò Sylvia. «Negli ultimi anni ho studiato lì pittura
e arte decorativa.»
«Studiava pittura a Parigi? Non so immaginare niente di più romantico!»
Il tono beffardo di Lewis la fece arrossire. Ma sebbene la voce le tremasse si fece
forza per protestare.
«Non quanto lei possa credere. Temo purtroppo di non possedere un grande
talento. E per mantenermi avevo soltanto quel poco che riuscivo a guadagnare
disegnando cartelloni e altro materiale pubblicitario. Un lavoro poco interessante e a
volte estremamente duro, mi creda.»
«Lei mi stupisce. Mi perdoni, ma come mai, col suo stipendio senza dubbio lauto
di professore universitario, suo padre non contribuiva almeno in parte al suo
mantenimento?»
Sylvia cominciava a smarrirsi. «Gli voglio un gran bene, ma... non avrei mai
accettato un soldo da lui.»
Quei due si fissarono per un breve, sconvolgente istante. A un tratto la tensione fu
rotta da un colpo alla porta. Sylvia e Lewis videro entrare la padrona di casa con un
vassoio appoggiato all’ampio seno.
«La mia minestra vi è piaciuta?», chiese sorridendo affettuosamente a quei due.
«Gusterete ora una delle mie specialità: zampetti di vitello alla bavarese. Sono sicura
che vi leccherete le dita!». S’interruppe mentre cambiava loro rapidamente i piatti.
«Poveri ragazzi... com’eravate bagnati e stanchi, poco fa. Sono sicura che dovevate
morire di fame. Ma non è una novità, per me. Mi vedo arrivare in tutte le stagioni dai
monti clienti anche più malridotti di voi. Ospito anche molti turisti, perfino quelli che
fanno il tour del paese a piedi e col sacco in spalla. Ma preferisco, si capisce, le
persone distinte come voi due. L’ho capito appena vi ho visti, che eravate dei veri
signori.»
Dopo aver deposto davanti a loro il piatto fumante, il donnone aspettò, guardandoli
con i suoi occhietti neri sfavillanti di bonaria malizia, che si servissero. «Siete una
gran bella coppia, voi due... Ma mi lasciate un po’ perplessa. Se non lo sapessi, che
siete fratello e sorella... vi prenderei per due innamorati.» Piantandosi le mani sui
fianchi e mandando indietro la testa il donnone rise della propria assurdità. «E adesso
assaggiate i miei zampetti e ditemi se vi piacciono.»
«Sono squisiti», si affrettò a tranquillizzarla Sylvia. Ma la voce le tremava
leggermente.
Quando la padrona di casa fu uscita, Lewis fece un gesto ironico di rimpianto.
«Non faccia caso a quello che ha detto quella brava donna. Ho dovuto raccontarle
delle balle, o non ci avrebbe dato le stanze. Non si offenderà, spero, se mi sono
permesso di farla passare per mia sorella. È dopotutto una parentela perfettamente
rispettabile. Nemmeno Karl potrebbe trovarci a ridire.»
«No», si costrinse ad ammettere Sylvia.
«Deve rimpiangere, vero?, che non sia qui lui, al mio posto.»
«Lo crede?»
«Certo.» Lewis le scoccò un sorriso insultante. «Voi due vi amate, no? È il
contorno ideale per un’avventura come questa.»
Vedendo il viso di Sylvia scolorirsi di nuovo e i suoi occhi velarsi, Lewis fu
assalito da rimorsi violenti. Come aveva potuto compiacersi di ferirla con tanta
crudeltà?
«Domani ci procureremo una macchina», riprese cambiando voce. «Non sarà
difficile, penso, trovarne qui a Innsbruck una di seconda mano in buone condizioni. E
partiremo per Breintzen avendo cura di prendere soltanto strade secondarie e di
campagna. Con un po’ di fortuna non vedo perché non dovremmo arrivare prima di
sera all’appuntamento con suo padre e gli altri.»
Ma Sylvia continuò a fissarlo come per fargli capire che non accettava quel
cambiamento di discorso. Lewis la vide inumidirsi le labbra e serrarsi le mani come
per farsi coraggio prima di prendere una decisione.
«C’è qualcosa che debbo dirle», cominciò infine. «Ma prima di tutto le rivolgerò
una domanda: ha mai riflettuto a quello che potrebbe accaderle se ci arrestassero
prima della conclusione di quest’avventura?»
«Non ci arresteranno.»
«Potrebbe accadere. Me ne rendo conto molto più di lei. So quanta importanza
gl’inseguitori di mio padre attribuiscono alla sua cattura.»
«Lasci stare. Ne riparleremo», la interruppe lui.
«Ma è necessario!». La voce penosamente incrinata di Sylvia fece capire a Lewis
che la ragazza era sull’orlo di un collasso. Eppure, fissandolo coraggiosamente, lei
s’impose di continuare.
«Vede», dichiarò, «mio padre non è come lei crede un perseguitato politico. Non è
ricercato per le sue opinioni liberali. È un ladro, ed ha alle calcagna la polizia per il
suo ultimo colpo...»
Lewis la guardava pietrificato. Sylvia gli aveva detto deliberatamente, senza
esservi costretta, la verità. Si sentì salire dentro una gioia enorme, ma riuscì,
dominandosi, a non cambiare espressione.
«Tutta questa storia», riprese con una unta d’isterismo Sylvia, «è stata finora
soltanto una volgare truffa.» Accavallava le parole come se la diga del suo riserbo
ostinato fosse infine crollata. «Ma io non permetterò che continui. Lei non può sapere
fino a che punto mi sia odiata e disprezzata per la mia complicità forzata con quei
due. Mi chiudevano la bocca lo choc del suo arrivo improvviso, e soprattutto l’affetto
che ho per mio padre. Sono stata cinque o sei volte sul punto di parlare... Ma poi
guardavo quel povero vecchio e il coraggio mi mancava. So che è un debole e un
disonesto, ma in questo frangente è anche sprovveduto come un bambino, – ed è mio
padre. E se lo sbattessero in una prigione qui in Austria sono sicura che non ne
uscirebbe più vivo. Ma tutto questo non conta ormai più. Ci sono dei limiti che non
debbo superare, – oltre i quali preferirei veder morto lui e morire anch’io. Non posso
continuare ad abusare della sua bontà, della sua lealtà, con delle menzogne indegne.
Ed ora che le ho detto tutto», concluse dopo un singhiozzo Sylvia, «deve andarsene al
più presto. Le converrà partire durante la notte. Io cercherò di arrivare da sola a
Breintzen. Spero che dimentichi presto anche di averci conosciuti, me e mio padre...»
Dopo un lungo silenzio Lewis allungò il braccio per prendere nella sua la mano
della ragazza.
«Tutto quello che lei mi sta chiedendo è impossibile», replicò sorridendole
teneramente. «Non potrei mai dimenticarla, Sylvia... E tanto meno posso permettere
che prosegua sola per Breintzen.»
Lei gli fissava addosso interdetta i suoi dolci occhi gonfi di lacrime.
«Anche dopo quello che le ho detto?», riuscì a balbettare.
«Sapevo già tutto.»
Passò un lungo silenzio prima che Sylvia riuscisse a parlare. «Sapeva tutto? E non
ha smesso di aiutarci?»
«Si capisce.»
«Ma perché?», chiese in un bisbiglio lei.
Lewis sostenne con calma il suo sguardo. «Perché l’amo.»
Sembrò ancora una volta che un muro di silenzio si fosse elevato fra loro.
«Ma non capisce che è inutile?», protestò infine, con voce quasi inaudibile, Sylvia.
«Ho dato la mia parola a Karl. Era... necessario.»
«La promessa di sposarlo era il compenso che lui esigeva per aiutare suo padre?»
«Sì. Ma non potrei mai mancare al mio impegno.»
Significa... che lei non ama Karl, ragionò Lewis, travolto da un’onda enorme di
felicità.
«Capisco», disse. «Ma io l’aiuterò senza metterle condizioni.»
Sylvia abbassò la testa. Le lacrime trattenute così a lungo le rigavano le guance.
Profondamente sconvolto da quello spettacolo Lewis non ebbe il coraggio d’insistere.
«Non pianga... la supplico...», mormorò. «Mi fa soffrire troppo...»
Per tutta risposta lei posò la testa sul tavolo squassata da singhiozzi ancora più
amari. Quando Lewis tentò di carezzarle la mano per confortarla, si svincolò
violentemente.
«Non mi tocchi, per favore. Vorrei rimanere sola.»
Non c’era altro da fare. Lewis attese ancora un momento fissandola smarrito. Ma
temendo che la sua presenza le impedisse di calmarsi si alzò e uscì infine in silenzio
dalla stanza.
Dodicesimo capitolo
L’alba seguente si levò, tersa e sfumata nei colori più teneri, con la promessa
sicura di un bel giorno caldo.
Lewis, che aveva dormito male, si svegliò presto. Cosciente della presenza di
Sylvia nella stanza attigua rimase ancora per un poco a letto. Mentre riviveva gli
ultimi avvenimenti si sentì invadere da un grande sollievo. La confessione di Sylvia
gli aveva tolto dal cuore un peso enorme. Adesso era pronto a tutto; niente aveva più
il potere di spaventarlo.
Saltò dal letto e andò a sollevare l’avvolgibile per scrutare il cielo. Era ancora
davanti alla finestra quando il suo viso prese a un tratto un’espressione fissa e dura.
Non esattamente davanti a lui, ma all’angolo, un po’ più in giù, della strada, tre
uomini erano impegnati in un vivace battibecco. Lewis riconobbe il bigliettaio della
stazione di Innsbruck, un poliziotto in uniforme, e infine, non credeva ai suoi occhi, il
piccolo piazzista Oberholler dell’albergo “Hohne”.
Alla vista di costui la sua incredulità si trasformò in nero sgomento. Il ricordo della
conversazione avuta con l’ometto, e dei suoi strani avvertimenti, gli attraversò in un
lampo la mente. Si rendeva conto, troppo tardi, che Oberholler non era, come voleva
farsi credere un viaggiatore di commercio, ma un detective.
Mentre lui continuava a osservarli, i tre uomini si separarono. Dopo aver impartito
agli altri le sue ultime istruzioni Oberholler, che dirigeva evidentemente le
operazioni, si allontanò solo. Poliziotto e bigliettaio cominciarono a passeggiare su e
giù sul marciapiede, a pochi metri dall’angolo della strada.
Un istante dopo Lewis si staccò insultandosi per la sua ingenuità dalla finestra. Si
era creduto libero, perlomeno provvisoriamente, dai suoi inseguitori, – al sicuro con
Sylvia in un piccolo paradiso. E invece la polizia sapeva, o perlomeno sospettava, che
loro due erano in quelle vicinanze, – forse in quella strada e in quella stessa casa.
Era un colpo duro da incassare a quell’ora del mattino! Per non parlare di
Oberholler... Lewis non riusciva a capire che piano potesse avere il detective. Ma
sapeva ormai di avere a che fare con un abilissimo dissimulatore, un avversario
intelligente e astuto.
Spinto all’azione proprio dal senso della propria inferiorità, Lewis gettò in fretta
un’occhiata al suo orologio. Erano esattamente le otto. Con un po’ di fortuna, si disse,
potrei trovare un garage già aperto. Doveva tentare a tutt’i costi di procurarsi una
macchina. Senza un mezzo di trasporto lui e Sylvia erano perduti.
Afferrato il suo feltro uscì cautamente dalla sua stanza e scese in punta di piedi le
scale. Mentre percorreva il corridoio gli arrivò dalla cucina l’armeggio della padrona
di casa che doveva preparare la colazione. La porta di servizio della casa era per
fortuna aperta. Un istante dopo Lewis correva giù per uno stretto sentiero e dopo aver
scavalcato un muretto in fondo al cortile si trovava in una specie di vicolo,
punteggiato da pattumiere, che gli permise di arrivare senza essere visto nel quartiere
est della città. Dopo aver girellato per un po’ escludendo uno o due garage che gli
sembravano troppo eleganti e in vista, ne scelse uno dall’aria modesta, – che doveva
aver visto senza dubbio giorni migliori, – e vi entrò audacemente.
Vide soltanto un uomo in una combinazione sporca, occupato a lavare una
decrepita Fiat. Com’è abitudine di tutt’i garagisti in ogni parte del mondo, quel tipo,
diritto come un soldato malgrado il suo misero abbigliamento, si degnò soltanto dopo
un lungo intervallo di alzare gli occhi su Lewis.
«Posso vedere il proprietario?»
«Perché?», chiese a sua volta seccamente l’altro.
«Mi occorre una macchina.»
Dopo aver esaminato brevemente Lewis, l’uomo, per mostrargli che la richiesta
non lo interessava, riprese la sua pompa e ricominciò a inondare d’acqua la Fiat.
«Il proprietario sono io», disse infine brevemente. «Ma non vendo macchine, o
altro. Se le occorre una di quelle caffettiere tirate a lucido vada all’angolo da
Schmitz. Quel genere di giocattoli li hanno loro. Io sono soltanto un meccanico,
piuttosto bravo, direi. Ma sotto questo governo», concluse amaramente, «non è più un
mestiere che rende.»
«È un vero peccato», replicò calcando sulle parole Lewis. «Perché io ho bisogno
urgentemente di un’auto e ho il denaro per pagarla. Non voglio una fuoriserie, o uno
di quei giocattoli, come li chiama lei, brillanti di vernice, ma una comune macchina,
purché sia in buono stato e veloce, come potrebbe averne forse nel suo garage un
bravo, serio meccanico.»
«Ah, sì?» Nascondendo male il suo interesse l’uomo si era raddrizzato. «Dice sul
serio?»
«Se ne convincerà.»
Mentre l’uomo lasciava cadere la pompa, tutta la sua ostilità svanì. Sottopose
Lewis a un ultimo, rapido esame, e lo accettò.
«Io ne avrei una», cominciò abbassando la voce. «Ma non so se lei potrà
pagarmela... quello che ne voglio.»
«Credo di sì», si affrettò a dichiarare Lewis. «Purché sia la macchina giusta.»
«Giusta!» ripeté offeso il garagista. «Se è capace di trovarne una migliore me ne
lascerò mettere sotto: va bene? Venga qua.»
Si avvicinò a un box e ne spalancò la porta. C’era dentro una lunga, bassa berlina
dalla vernice nera non più lucida, con la tappezzeria logora ma dallo chassis perfetto:
un maligno, sinistro strumento di velocità. Il suo proprietario la contemplò con
orgoglio.
«Eccola, la mia macchina. L’ho costruita interamente io. La carrozzeria l’ho presa
da una “Mercedes”, il motore da un aereo. Ha due carburatori. Durante la guerra»,
l’uomo si voltò per sputare, «ero nell’aviazione. Li conosco, i motori. Questo l’ho
messo così bene a punto, che canta.» Aprì il cofano rivelando un motore in perfetto
stato, scintillante di pulizia. «Con questa ho fatto fino a duecento all’ora. Il prezzo,
per lei, è di diecimila scellini.»
Senza una parola Lewis si tolse di tasca il portafoglio e ne estrasse dieci
banconote. L’uomo – un ex-aviatore di guerra, ormai rassegnato alla sua sfortuna, –
contemplava, non credendo ai suoi occhi, i biglietti. Le guance gli si erano
leggermente arrossate.
«È denaro vero...» mormorò. «Non ne vedevo da un diavolo di tempo, e non ho
quasi il coraggio di prenderlo. Ma la macchina è sua. Cerchi soltanto di ricordarsi una
cosa molto importante», raccomandò serio, mentre piegava i biglietti e andava a
riporli, «se lo fermassero non faccia per nessun motivo al mondo il mio nome. Dica
magari che l’ha rubata.»
«Benissimo», approvò Lewis. «L’ho rubata. E adesso mi faccia il pieno e mi aiuti a
partire. Ho fretta.»
L’uomo prese nel portabagagli della macchina una lunga manovella, la inserì e
fece forza, nel girarla, come se dovesse sollevare una montagna. Il motore si avviò
con un boato fragoroso, mentre i vetri del garage vibravano rumorosamente.
«Sente?» disse orgogliosamente il vecchio proprietario della macchina.
«Come no!» rispose soddisfatto Lewis. Allungò la mano per stringere cordialmente
quella del garagista e salì al volante. Il semplice contatto del piede col pedale
dell’acceleratore gli diede un terribile senso di potere. Mentre usciva lentamente nella
strada l’uomo gli gridò dietro:
«Stia attento, amico, se ha cara la pelle! Si ricordi che nelle curve, quella macchina
è una rondine. Ma se non la terrà in pugno sulle strade bagnate potrebbe ucciderlo!»
Lewis impiegò appena un minuto per girare intorno all’immobile. Percorse lo
stretto vicolo, andò a mettersi più tranquillamente che poté dietro il muro e spense il
motore.
Ancora un minuto e era rientrato per la porta di servizio nella casa e aveva
raggiunto la sua stanza. Si affrettò a sporgersi dalla finestra. I due agenti erano ancora
di guardia allo stesso posto. Lewis si domandò quanto ci sarebbero rimasti ancora
senza intraprendere qualcosa di più drastico. Erano esattamente le otto e mezza;
Sylvia doveva essere certamente sveglia. Lewis andò a bussare alla sua porta. Se la
trovò quasi subito davanti completamente vestita.
«Buongiorno», la salutò sforzandosi di apparire calmo. «Ha dormito bene?»
«Benissimo, grazie.»
Avendo senza dubbio dominato il suo smarrimento della sera innanzi Sylvia
appariva composta e seria.
«Ha fatto colazione?»
«No.» Sylvia s’interruppe. «Fuori ci sono due uomini... dei poliziotti, immagino.
Mi hanno fatto passare l’appetito.»
Lewis sorrise debolmente.
«Non permetta a quegli stupidi di allarmarla. Si tratta del nostro amico Oberholler,
che si è fatto vivo in veste molto originale. Deve sospettare che siamo in
quest’isolato, e sarà andato a prendere dei rinforzi per perquisire l’intero blocco di
appartamenti. Perciò se è pronta ci converrebbe filare. Le prometto di farle fare una
buona colazione in campagna.»
«Sono pronta», disse senza sorridere Sylvia.
Lewis impiegò appena un minuto per scribacchiare alla loro padrona di casa un
biglietto in cui le manifestava il suo rammarico per essere stato costretto a partire a
precipizio senza salutarla e la ringraziava di tutte le sue bontà. Finì promettendole di
tornare a trovarla appena gli sarebbe stato possibile, per fare debita ammenda.
Dopo aver messo il biglietto bene in vista sul tavolo raggiunse con Sylvia, per la
strada più breve, la macchina. Mentre sgattaiolavano dalla porta della cucina udirono
bussare autorevolmente a quella principale della casa. Abbiamo fatto appena in
tempo, pensò Lewis. Aiutò Sylvia a scavalcare il muretto, la fece salire in macchina e
ingranò in fretta la marcia.
Non aveva forse imparato ancora a tener testa a quella belva, o forse il motore
presentava delle difficoltà particolari. Certo è che continuò a premere per un po’,
senza alcun risultato, la leva della messa in marcia. Infine, quando il viso gli si era già
coperto di sudore freddo, il motore si accese di colpo, scoppiettando come la
girandola finale di un fuoco d’artificio. Ansando Lewis ingranò la marcia, premé
sull’acceleratore e si avventò sulla strada.
Non aveva la più lontana idea della topografia del quartiere. La sua unica
preoccupazione era di allontanarsi al più presto possibile da Innsbruck. Ma nella sua
fretta di lasciarsi alle spalle Oberholler commise un grave errore. Infilata una traversa
che secondo lui doveva portare fuori della città, si trovò invece improvvisamente
nella strada principale di Innsbruck, senza neppure la possibilità di fare dietro front.
Costretto a seguire il lento flusso dei veicoli nella strada gremita, un istante dopo
era fermato da un fitto ingorgo del traffico.
Lewis imprecò fra i denti. Non solo la lunga, bassa auto nera era già appariscente
di per sé ma faceva, anche ferma, un rumore che attirava lo sguardo dei passanti. A
testa nuda, in maglione e impermeabile, Lewis si sentiva anche lui il bersaglio di
molti sguardi curiosi. Sylvia si era legata un fazzoletto intorno alla testa. Formavano
una coppia che non avrebbe potuto rimanere a lungo inosservata.
L’attesa sembrò loro interminabile, ma dopo un intervallo di una suspense terribile
riuscirono infine a districarsi dall’ingorgo e Lewis poté riprendere a correre.
La strada saliva verso le colline descrivendo molte curve, correndo quasi sempre
tra foreste di pini. Lewis andava forte frenando di rado. Dopo aver attraversato per
una ventina di chilometri alcuni villaggi simili a delle pittoresche cartoline a colori si
trovò improvvisamente in una piccola città di provincia con un grande mercato e
tutt’intorno alla piazza botteghe bene approvvigionate. Senza spegnere il motore
Lewis si fermò davanti a una delle più vistose e si precipitò dentro. Quando riapparve
poco dopo fu per attraversare correndo la piazza diretto a una latteria di fronte. Ne
uscì con le tasche dell’impermeabile gonfie da scoppiare. Mentre risaliva al volante
sorrise a Sylvia.
«Le avevo promesso una colazione in campagna e gliela servirò fra poco. Latte,
formaggio fresco e biscotti. Mi dispiace ma non ho potuto fare di più.»
Lei gli sedeva accanto rigida e seria.
«Non doveva fermarsi», disse. «Siamo quasi certamente inseguiti.»
«Non potevo fare a meno di una carta della regione. Senza, avremmo
probabilmente descritto un bellissimo circolo per ritrovarci, al tramonto, a Innsbruck
e nelle braccia dell’uomo che si fa chiamare Oberholler.»
«Herr Oberholler», ripeté con la stessa voce sorda Sylvia.«Non scherzava, quando
me ne ha parlato stamattina?»
«Nemmeno per sogno. Il nostro piccolo piazzista viaggia ora per una ditta... un po’
diversa.»
Sylvia ebbe una breve esitazione.
«Mi hanno detto», mormorò arrossendo, – di vergogna, intuì Lewis, – «che la
“Vienna Equitable” ha assunto un famoso detective privato per rintracciare mio
padre.»
Lewis capì quanto doveva costarle dirglielo.
«Assodarlo non è possibile. Ma secondo me deve trattarsi del nostro amico.»
«Non capisco!» Sylvia si premé disperata le mani sulle tempie. «Perché, allora,
Oberholler non ci ha arrestati, non ha cercato di fermarci in qualche modo, mentre
eravamo all’albergo sui monti?»
«La prossima volta che lo incontrerò», Lewis sorrise amaramente, «non mancherò
di domandarglielo.»
Sylvia ricadde nel silenzio.
Mentre i minuti passavano, Lewis si accorse sempre più di quanto lei misurasse
ogni gesto, ogni parola. Dopo pochi altri chilometri portò la macchina fuori della
strada per andare a fermarsi in una piccola radura dei boschi. Dispose l’occorrente
per il loro breakfast su un soffice tappeto di aghi di pino e si decise a parlare.
«Mi dica: l’ho forse offesa in qualche modo senza avvedermene? Credevo che fra
noi tutto fosse infine chiarito.»
«Infatti.» Ma lo sguardo di Sylvia lo eludeva come la sua risposta.
«Allora perché si comporta così stranamente? Perché è sempre così fredda e
distante?»
Lei arrossì, impallidì, e Lewis le vide palpitare febbrilmente la gola bianca. Ma i
suoi occhi non si abbassarono.
«Mi dispiace di farle quest’impressione. Dovrebbe saperlo, ormai, quanto le sono
grata e amica.»
Intuendo il vero significato delle parole di Sylvia Lewis si sentì stringere
dolorosamente il cuore. Che cosa avrebbe potuto risponderle? Lasciò cadere il
discorso mentre spiegava lentamente la carta che aveva comprata e la posava a terra
davanti a loro. Studiata che l’ebbe mise il dito su un punto corrispondente più o meno
al luogo dove si trovavano.
«Siamo qui, vede, appena fuori da questa piccola città di Garsbad. Ed ecco qui
Breintzen, a un duecentocinquanta chilometri di distanza. Se prenderemo, per
maggior sicurezza, questa scorciatoia», il suo indice seguì una sottile linea rossa,
«diventeranno un duecento e potremo essere con facilità a destinazione in meno di
quattr’ore. E poiché suo padre arriverà verso sera, con un po’ di fortuna dovremmo
precederlo.»
Sylvia annuì per dimostrargli che aveva capito.
«Non ha ancora toccato la sua colazione», protestò con la stessa voce
studiatamente incolore.
«Mi rifiuto di mangiare se non mi tiene compagnia.»
Lei gli concesse infine l’ombra di un sorriso. Finirono fra tutti e due latte
formaggio e biscotti. Quando furono risaliti in macchina Lewis diede a Sylvia la carta
perché potesse controllare il loro itinerario, e riprese il volante.
La macchina correva ronzando sulla tranquilla strada di campagna. Qui, alle falde
delle colline, c’era già nell’aria il presentimento della primavera. Sylvia e Lewis si
sentivano carezzare le guance da un vento quasi languido.
Sebbene parlassero poco, lui avvertiva fra loro una corrente soffocata di emozione.
Sylvia si era rannicchiata nell’angolo opposto del sedile e Lewis non la sfiorava
neppure. E tuttavia li univa un fluido misterioso che, anche volendo, Sylvia non
riusciva ad annullare.
Evitando i centri principali della regione la macchina attraversò le cittadine
pastorali di Arlene e Brucken. Si fermarono soltanto per farsi dare sessanta litri di
benzina a un piccolo distributore alle porte del villaggio di Halsen.
Cullati dalla loro corsa misurata e dal ronzio eguale del motore quei due erano
riusciti a distrarsi dalle loro preoccupazioni. Ma, mentre entravano nella valle della
Laar, Sylvia si piegò verso Lewis.
«Credo», gli bisbigliò, «che una macchina ci stia seguendo.»
Lui si raddrizzò fissando gli occhi sul retrovisore. Ma non riuscì a distinguere
niente alle loro spalle.
«Non ne ho viste nemmeno io», riprese a sussurrargli Sylvia. «Ma sento da una
mezz’ora il brusio di un motore.»
«Potrebb’essere l’eco del nostro.»
Sylvia scosse dubbiosa la testa e Lewis si rimise in ascolto. Ma udiva soltanto il
rumore della loro macchina. O forse percepiva davvero come un lieve battito?
Arrivarono in questo stato penoso d’incertezza all’inizio di una lunga discesa.
Lewis si affrettò a spegnere il motore e proseguirono in silenzio mentre lui
continuava ad aguzzare le orecchie. E a un tratto sentì chiaramente, attraverso il
fruscio dei loro pneumatici, il palpito inequivocabile di un altro motore.
Scambiò uno sguardo con Sylvia.
«Sì, abbiamo dietro una macchina. Di un coltivatore locale senza dubbio. Ma
dobbiamo accertarcene.»
Riaccese il motore, ma riducendo la velocità a una trentina di chilometri all’ora. La
macchina che li inseguiva era sempre invisibile sebbene, ascoltando attentamente,
Lewis e Sylvia ne sentissero ora bene il ronzio lontano.
Lewis continuò cautamente a rallentare e a un tratto l’altra auto, che in principio
aveva ridotto anch’essa la sua velocità, superò la curva avvicinandosi rapidamente a
loro. Non era l’utilitaria di un coltivatore locale ma un’austera macchina verde oliva
con dentro, visibili attraverso i finestrini, degli uomini in uniformi dello stesso colore.
«La polizia!», disse piano Lewis, premendo violentemente sull’acceleratore. La
macchina nera balzò in avanti come un cavallo che si sente affondare nei fianchi gli
speroni. Pochi secondi dopo Lewis era risalito ai settanta e continuava ad accelerare.
Ma anche l’altra auto andava sempre più forte. Ora che non si nascondeva più era
facile capire che non voleva più seguire ma raggiungere la sua preda. Quando ebbe
toccato i novanta cominciò a suonare furiosamente il clacson suscitandosi intorno il
caos.
Lewis stringeva inferocito i denti. Con quel pandemonio alle calcagna la loro
situazione era diventata di nuovo molto pericolosa. Tutto dipendeva dalla velocità
della loro macchina e dalla garanzia che gliene aveva data il garagista.
Aggrappandosi più forte al volante Lewis riprese a premere sull’acceleratore. Capì
subito che poteva fidarsi di quella splendida macchina. L’ago del tachimetro salì
ancora mentre il telaio della berlina nera vibrava come una creatura viva.
Continuarono a filare velocemente, accelerando sempre, finché il vento della corsa
non diventò un uragano e gli alberi che fiancheggiavano là strada poco più di
macchie confuse che li accompagnavano.
Dopo aver tenuto testa per un paio di minuti a quella di Lewis, la macchina della
polizia cominciò a rimanere a poco a poco indietro. Attraverso la tormenta che lo
assordava Lewis sentì smorzarsi l’urlo della sirena. Lo scarto più leggero, il più lieve
errore di calcolo nell’abbordare le curve li avrebbero uccisi entrambi, lo sapeva,
eppure non osò rallentare. Sylvia gli sedeva accanto come una statua, senza battere
ciglio.
Infine la macchina della polizia non fu più visibile e la sua sirena assordante
tacque.
Continuando a guidare furiosamente Lewis non aveva diminuito la sua vigilanza.
Vedendosi a un tratto davanti un crocicchio frenò di colpo per prendere la traversa.
Dopo altre due curve brusche si trovò in una rete di sentieri orlati da terrapieni o da
siepi incolte, che si affondavano tortuosamente in un terreno accidentato, deserto. Pur
continuando a correre quasi con la stessa velocità Lewis fu contento di smarrirvisi
momentaneamente, sapendo che doveva accadere per forza lo stesso ai suoi
inseguitori.
Era comunque sicuro che Breintzen si trovasse a ovest. E pur svoltando e girando
ebbe cura di seguire più o meno sempre quella direzione.
Verso le due del pomeriggio, informato da un cartello stradale che si trovava a
cinque chilometri da Melkeburg, Lewis diede un’occhiata alla carta. Melkeburg era
una cittadina situata sulla strada maestra, a non più di cento chilometri da Breintzen.
Buttandosi nei campi avevano risparmiato, come lui prevedeva, una cinquantina di
chilometri, e, ciò che più contava, si erano sbarazzati dei loro inseguitori.
Sicuro di non sbagliare Lewis continuò ad avanzare meno velocemente in quel
terreno basso e paludoso, finché, al limite di un campo una volta invaso dalle erbacce,
non vide un capanno abbandonato che doveva servire una volta di riparo al bestiame.
Decidendosi, vi fece entrare la macchina, spense il motore e si concesse di rilasciarsi.
«Poiché la polizia continuerà senza dubbio a cercarci», disse a Sylvia, «finché c’è
luce sarà meglio rimanere lontano dalle strade. Dovrebbe annottare fra un paio d’ore.
Passeremo questo intervallo qui, discorrendo, dormendo, cantando o risolvendo
indovinelli. Purtroppo i biscotti e il formaggio sono finiti. Sarebbero stati un
conforto.»
Sylvia non abbandonò il riserbo dietro il quale si era trincerata tutto il giorno.
«Affrontare un pericolo è facile», disse con tristezza. «Riuscirci sorridendo...
molto meno. Posso congratularmi con lei anche per come guida?»
Lewis non avrebbe potuto dirle che si era imposto il buon umore soltanto per
combattere l’avvilimento che li minacciava. Cambiò discorso.
«Che cosa pensava poco fa mentre correvamo come pazzi?»
Sylvia non esitò a rispondere.
«Soltanto che se ci fossimo ribaltati... saremmo morti insieme.»
Ridotto di nuovo al silenzio Lewis si mise a frugare nella macchina sperando di
trovare qualche biscotto. Fu deluso. Ma improvvisamente si lasciò sfuggire
un’esclamazione. Aveva scoperto in uno dei ripostigli del cruscotto una vecchia
armonica. La mostrò sorridendo a Sylvia.
«Non lo sapeva, vero, che sono un musicista? Ecco il. mio strumento. Gradirebbe
un saggio della mia abilità?
Dopo avergli lanciato uno sguardo indecifrabile Sylvia annuì.
Così incoraggiato Lewis si avvicinò alle labbra la vecchia armonica e dopo aver
eseguito, per provarla, alcune scale attaccò piano le vecchie canzoni marinaresche
che aveva appreso da ragazzo sulle navi di suo padre. Si era impadronito di quella
semplice arte per ingannare le lunghe ore in cui doveva rimanere di guardia a bordo
in tanti porti stranieri, e poteva considerarsi quasi un virtuoso.
Pur sapendo che Lewis suonava soltanto per distrarla Sylvia si lasciò conquistare
dal fascino di quelle arie antiche. Quando ebbe finito lui si stupì di sentirla sospirare.
«Dev’essere bello, viaggiare per mare...» In quel momento, Lewis lo capì, le navi
incarnavano per Sylvia la sua sete ardente di evasione. «Vedere paesi lontani,
sconosciuti...»
«Il mare le piace?»
«Non lo so. Non ho mai avuto la possibilità di deciderlo. La mia vita», continuò
impulsivamente Sylvia, «non è stata come la sua. Io non ho mai conosciuto la libertà,
l’aria fresca e pulita del mare e delle campagne, la pace del cuore. Tranne, forse,
quando ero molto piccola e mia madre ancora viva. Ho dovuto abituarmi a campare
alla giornata... chiusa quasi sempre fra quattro mura. A volte non riuscivo neppure a
vedere le stelle.»
S’interruppe bruscamente premendosi la mano sul petto come per arginare quel
flutto di confidenze troppo intime.
Che vita amara e difficile ha dovuto avere, si diceva in silenzio Lewis. Gli
sembrava di vedere Sylvia bambina, trasportata da un rifugio clandestino all’altro,
costretta a respirare sempre l’aria inquinata delle città, a vedersi intorno gente
equivoca. Sempre più avvilita e repressa a misura che cresceva aveva dovuto
reprimere senza dubbio i suoi sentimenti migliori, come un fiore soffocato dalle
erbacce; chiudersi dentro le sue ripugnanze e i suoi scrupoli.
Irresistibilmente commosso Lewis si giurò che l’avrebbe aiutata, qualunque cosa
dovesse costargli. Si rendeva ancora una volta conto che il suo vero destino, lo scopo
fino allora segreto della sua esistenza era quello.
Si era fatto quasi buio. Lewis mise in moto l’auto e fece più dolcemente che poté
marcia indietro per uscire dal capanno. Ritornato sulla strada si accinse ad affrontare
l’ultimo tratto del loro viaggio avventuroso.
Poco dopo le undici, superarono l’ultima collina e si videro davanti la valle
dov’erano diretti.
Breintzen non era una grande città, ma la luce tremolante delle stelle ne faceva
risaltare la bellezza medievale, quasi magica: sottili guglie addensate intorno al fiume
largo, viuzze acciottolate che si snodavano nell’ombra scura dei muri secolari. A un
tratto, dopo un allegro squillo di carillon, l’orologio della torre cittadina suonò l’ora.
Lewis scese lentamente dalla collina ed entrò nella città. Le strade erano deserte, a
quell’ora, i negozi chiusi, i caffè quasi vuoti, come se, regolati da un coprifuoco, i
bravi cittadini di Breintzen fossero già rannicchiati quasi tutti nei loro letti caldi.
Raggiunta con una certa difficoltà la Robertsplatz, Lewis infilò la Blumenstrasse e
andò a fermarsi davanti al N. 17.
«La casa è questa», disse a Sylvia. «E ora non ci rimane che fidarci dell’amico
devoto di Steve, Herr Schwartz.»
Lasciando Sylvia nell’auto, attraversò il marciapiede e andò a bussare alla porta
del N 17: una bizzarra vecchia casa dal tetto aguzzo, metà bottega e metà abitazione.
Tempestata di grossi chiodi la porta sembrava abbastanza robusta per sostenere un
lungo assedio. La sua insegna antiquata di ferro battuto annunziava: JOHANN
SCHWARTZ – Antichità.
Per alcuni minuti i colpi di Lewis non ebbero risposta. Poi, proprio quando stava
per ricominciare, la porta fu cautamente socchiusa e una cameriera sporse fuori la
testa.
«Herr Schwartz è in casa?»
«Sissignore», rispose con voce tremula la ragazza.
Seguì una pausa.
«Lei è il signore che Herr Schwartz aspettava?»
Lewis si sentì battere di sollievo il cuore.
«Sì, cara», si affrettò a rispondere, «sono Herr Merrid. Di’ al tuo padrone che io e
la signorina lo aspettiamo. Digli che è urgente.»
Dopo avergli lanciato uno sguardo spaventato la ragazza sparì nella casa.
Seguì un’altra lunga attesa. Ansioso, Lewis faceva scorrere lo sguardo su e giù
nella strada.
Gli arrivò improvvisamente un suono di passi e vide uscire sulla soglia e fermarsi a
guardarli un uomo anziano, curvo e barbuto.
«Vogliono entrare, prego? Sono Herr Schwartz. Li aspettavo.»
Il tono tutt’altro che invitante del padrone di casa stupì Lewis. Un minuto dopo lui
e Sylvia erano in un corridoio buio che odorava di muffa. La porta si era richiusa alle
loro spalle col tonfo di una saracinesca. Convinto di essere ormai al sicuro, Lewis
tese con gratitudine la mano all’antiquario.
«Non so dirle quanto siamo felici di trovarlo in casa, signor Schwartz. È stato
molto gentile ad accoglierci.»
«Non mi ringrazi, la prego», lo interruppe gravemente l’altro. «Vi ho ricevuti
soltanto per obbedire a degli ordini.» Aprì una porta interna e li fece entrare
cerimoniosamente in una stanzetta. A un tratto Lewis si impietrì. Aveva riconosciuto,
seduti su due poltrone ammuffite, Steve e Connie. Accanto a loro il falso piazzista, il
piccolo Oberholler, lo fissava impassibile.
Tredicesimo capitolo
Tornato all’albergo sui monti, il giorno prima, e non vedendo rientrare Lewis da
Lächen, Karl era andato su tutte le furie. Mentre si aggirava per l’albergo, non avendo
altro da fare che rivivere gli avvenimenti del giorno innanzi, il maestro di sci si
sentiva insopportabilmente umiliato e tradito. Gli cuoceva soprattutto il ricordo del
suo match con Lewis dietro il casotto. Continuando a tenere d’occhio la pista che
saliva dalla valle, chiuse furioso i pugni flettendo i bicipiti.
«Maledetto!», riprese a imprecare sottovoce. «Perché non ritorna?»
Per lenire la sua sensibilità ferita e abbreviare l’attesa, aveva almeno diritto, decise,
a un liquore. Bevve un paio di kummel e dopo una breve esitazione ne tracannò senza
fermarsi diversi altri. L’alcool gli faceva bene, gli ridava il giusto senso dei valori. Di
solito Karl sapeva frenarsi. Ma quando se lo concedeva mandava giù acquavite e altri
liquori come se fossero acqua.
Piegato sul suo bicchiere davanti alla finestra della sala da pranzo, scoprì a un
tratto, rannicchiata in un angolo, quasi nascosta nell’ombra, la signorina Rudi che lo
contemplava pensosa.
«Si può sapere che cosa fa laggiù?», s’imbestialì.
«Penso...»
«A che cosa?»
«A una cosa molto importante.»
«È una risposta che non significa niente.»
Scuotendo la testa come un burattino quella figuretta evanescente gli scoccò il suo
sorriso elusivo.
«Al contrario», protestò. «In questi giorni non ho quasi altro da fare. Perciò, forse,
la mia mente è così lucida e lavora così bene. Si stupirebbe se le dicessi che stavo
pensando proprio a lei?»
Karl rise. «Affatto, signorina, affatto.»
«Non mi fraintenda. Mi dicevo che lei è uno stupido. E che è un vero peccato.»
«Che...?» Karl la fissava sbalordito.
«Perché si ostina a torturarsi per una donna che non lo ama?»
Sotto la sua maschera indurita dalle intemperie Karl arrossì violentemente. «È una
menzogna!»
«È la verità. E sta rendendo infelice anche Sylvia.»
Il maestro di sci si lasciò sfuggire una bestemmia. Ci mancò poco che
scaraventasse il suo bicchier- in faccia a Rudi. Per controllarsi lo riempì di nuovo.
«C’è dell’altro?», chiese con scherno.
«Sì. Lei si sta ubriacando. In un momento in cui avrebbe bisogno di tutte le sue
facoltà.»
«Ah... sì? E perché dovrei averne bisogno?»
«Lo domandi a se stesso. Oppure lo chieda a Oberholler, quando lo rivedrà.»
«Oberholler?», ripeté scioccamente Karl.
«Questo non è naturalmente il suo vero nome», continuò calma Rudi. Per
cominciare, è un poliziotto...»
«Un poliziotto!» le fece eco di nuovo, pappagallescamente, lui. «È un’altra sporca
menzogna!»
Rudi tenne duro.
«L’ho visto a Vienna. È un personaggio importante. Un pezzo grosso. Glielo avrei
detto due giorni fa, se fosse stato appena appena gentile con me.»
Sforzandosi di ritrovare l’equilibrio e di leggerle dentro, Karl Edler fissava
accigliato la ragazza.
«Se è così», disse infine, «avrò due parole da dirgli quando arriverà per il pranzo.»
«Oberholler non tornerà più qui», dichiarò serena Rudi. «Ha lasciato l’albergo
subito dopo la seconda colazione per inseguire i suoi amici, signor Edler. Ma sono
venuti a sostituirlo altri poliziotti. Non sono cieca, né sorda, né idiota. So quello che
lei si propone di fare. Eppure se ne sta qui a bere. In circostanze simili quello
spilungone di americano non toccherebbe una goccia di alcool.»
«All’inferno l’americano!», proruppe Karl. «Lei mente, Rudi. Non sono disposto a
credere una sola delle sue parole.»
Balzando in piedi il maestro di sci uscì correndo quasi dalla stanza.
Rimasta sola Rudi alzò con leggera tristezza le sue spalle gracili. Dopo aver
suonato, per quasi due ore, molto piano, il suo adorato grammofono, consumò, sola, il
suo pasto serale. La sala da pranzo era deserta. Gli Schatz erano tornati da due giorni
a casa e l’unica ospite dell’albergo era rimasta Rudi. Anton le si affaccendava intorno
come un fantasma innervosito. Non parlava mai, è vero; era l’uomo più silenzioso
della terra. Ma quella sera doveva avere qualcosa che lo preoccupava; che lo
spaventava.
Finché, erano le dieci e mezza, non arrivò Heinrich. Cercava, chiamandolo ad alta
voce, Karl.
«Che cosa accade?», chiese Anton, intrecciandosi con tanta forza le dita ossute da
farne scricchiolare le nocche.
«Lo saprai subito», rispose con aria d’importanza il cocchiere. «Ma, prima, dov’è
il signor Edler?»
Poco dopo, Anton era andato a cercarlo, il maestro di sci entrò nella sala.
Camminando come se le gambe non lo sostenessero bene fissò su Heinrich gli occhi
congestionati.
«Be’...? Che cosa vuoi?»
«Mi scusi, signor Edler», disse un po’ meno sicuro di sé il cocchiere. «Ho per lei
un messaggio, un telegramma. Sono corso su più in fretta che potevo arrischiando la
pelle. Come vedrà, qui si parla di una ricompensa...»
Karl gli strappò di mano il foglio. Dopo averlo letto aggrottandosi ancora di più
alzò furioso gli occhi su Heinrich.
«Tu cosa ne sai, di tutto ciò?»
Compunto, Heinrich gli descrisse minutamente quello che era accaduto alla
stazione di Lachen, l’arresto di Steve e Connie, e la fuga degli altri due.
Accorgendosi della sensazione che produceva, s’infervorò; dipinse a colori più vivi la
scena.
Seguì un silenzio.
«Così», disse infine, con uno strano tono, Karl, «quei due se ne sono scappati
insieme.»
A questo punto, Anton intervenne agitatissimo.
«Ma, signor Karl, la cosa è molto seria. Quei poliziotti che li aspettavano a
Lächen... E debbo avvertirlo che nel pomeriggio di oggi sono arrivati qui due sciatori
da Taube. Hanno detto di essersi smarriti. Ma giurerei che erano...» Anton allargò in
un gesto espressivo le mani.
«Zitto!»
«Ma la reputazione del mio albergo...»
«Piantala!», abbaiò di nuovo Karl. «Lo lascio subito, il tuo sporco albergo. Debbo
arrivare a Breintzen...» Gettò un’occhiata al foglio che si era spiegazzato nella mano,
«prima di domani sera. Voglio fare i conti con quest’americano che mi ha rubata la
mia ragazza!»
«Ma, signor Edler», protestò Anton, «deve guardarsi dalla polizia...»
«E perché?», insorse l’altro. «Sono più intelligente e furbo di quei maledetti!» Si
voltò verso Heinrich. «Senti, tu! Devi correre subito fino al vecchio capanno sul
Kriegeralp. Poiché sembrate ormai tutti al corrente, posso smettere infine di fingere e
di mentire. Sali al capanno e portami qui il vecchio che ci troverai. Digli che ti mando
io e che dobbiamo partire all’alba per Breintzen.»
«Ma, signor Edler, nel telegramma è detto che...»
«Sì, sì, l’avrai, la tua sporca ricompensa! Ma sbrigati se non vuoi che ti rompa la
testa!»
Quando Heinrich si fu allontanato Karl si sedé sguaiatamente al tavolo reclamando
ad alta voce un’altra bottiglia di kümmel. Continuò a bere trasformando con t’aiuto
dell’alcool la sua rabbia in una specie di grottesca mania di grandezza.
Passò la notte nella sala da pranzo covando un rancore bruciante per Lewis e
facendo piani sconclusionati per il viaggio fino a Breintzen. Erano quasi le sei
quando Heinrich tornò portando con sé il professore. Ullwin era più pallido del solito,
quasi livido, ma non aveva perduto la sua calma.
«Caro ragazzo, che cos’è che sento? In certi ambienti innominabili sono passati
all’offensiva? E ci tocca anticipare la nostra piccola spedizione?»
Karl posò sprezzantemente sul professore i suoi occhi arrossati.
«Piantala!» (Si era evidentemente affezionato a quella espressione). «Il capo di
questa spedizione, come vuole chiamarla, sono io. E non permetto a nessun altro
d’immischiarsi!»
«Ma, mio caro Karl...»
«Non sono il suo caro Karl! E lei non è il mio caro professore, ma soltanto un
volgare manutengolo! No, è qualcosa di peggio: un baule ingombrante che debbo
trasportare a Breintzen per poter sposare Sylvia. Perciò non si permetta di aprire la
bocca. Mi ha sentito?», urlò alzando improvvisamente la voce. «Mi segua senza fare
domande e mi risparmi i suoi disgustosi fervorini.»
Dopo avergli lanciato un lungo sguardo il professore si chiuse in un silenzio
dignitoso.
«Così va meglio», disse Karl. «E ora vada a prepararsi. E in fretta! Abbiamo più di
venticinque chilometri da fare a piedi! Se penso a tutto quello che debbo sopportare
per te ti torcerei il collo, vecchio furfante ammuffito!»
La colazione sommaria fu servita da Anton, che sembrava disposto a tutto pur di
sbarazzarsi di quei clienti sgraditi. Il professore mangiò poco; Karl non toccò niente,
ma si rifece ampiamente con la bottiglia del kümmel.
«Ora sono pronto», dichiarò mandando in fuori il petto. «Vedrete, se per me non
sarà uno scherzo disfarmi in un sol colpo di tutta la polizia austriaca e degli sporchi
turisti americani venuti ad appestarci!»
Partirono verso le sette. Dalla finestra della sua stanza Rudi li guardò allontanarsi
seguendo impietosita con gli occhi la figura curva e vacillante del professore.
Quei due non presero la strada di Lachen, ma una pista più a ovest, che seguiva la
valle. Chiuso in un silenzio cupo Karl precedeva di pochi passi il professore,
lasciando sulla pista lucente le impronte dei suoi stivali pesanti. Il suo compagno lo
seguiva ansante e docile come un cane. Dopo quasi due ore di cammino
cominciarono a incontrare, continuando a scendere, piccoli chalet, fattorie isolate. Si
videro infine ai piedi il gruppo di basse, vecchie case che formavano il villaggio di
Taube.
Karl si era fermato a guardare i loro tetti spioventi.
«Scendiamo», disse. «Ho bisogno di bere.»
Il professore si voltò costernato.
«Non è per impicciarmi, credimi, caro ragazzo», balbettò, «ma non ti sembra che
entrando nel villaggio correremo quasi certamente il rischio di essere denunziati?
Non sarebbe meglio continuare la nostra strada?»
«Forse...» lo schernì Karl. «Ma io ho sete. Una sete del diavolo!»
«Ma, Karl...»
«Piantala! Ti ho già detto che sei soltanto un baule. A Taube ho degli amici che mi
vogliono bene e mi ammirano. Se dovessimo incontrare dei poliziotti, gli farò vedere
io!»
E cominciò a scendere, deciso, verso il villaggio.
Non avendo alternative, il professore lo seguì, pallido, temendo, visibilmente, il
peggio.
Il villaggio si riduceva a un’unica strada non molto diritta, con la chiesa a
un’estremità e l’unica locanda all’altra. Ignorando la chiesa Karl entrò baldanzoso
nella prima sala affumicata della locanda.
«Salve!», urlò battendo con le nocche sul banco. «Non c’è nessuno che mi porti da
bere?»
L’uomo col grembiule dell’oste che rispose alla chiamata non mostrò di gradire
quelle smargiassate.
Il professore ordinò senza entusiasmo una birra e Karl pretese l’inevitabile
kümmel. Tutto sarebbe andato forse liscio se Karl si fosse accontentato di un
bicchierino. Ma volle ordinarne un altro. E prima che l’avesse inghiottito due uomini
in uniforme verde entrarono nella taverna e si sedettero con disinvoltura a un tavolino
accanto alla porta.
Dopo aver lanciato loro uno sguardo impaurito il professore diventò bianco come
un morto.
«Andiamocene via di qui, per amor di Dio», mormorò a Karl.
Ma ringalluzzito dall’alcool Karl si sentiva più intelligente e furbo della polizia.
Non solo non evitava di attirare l’attenzione, ma sembrava addirittura pretenderla.
Fissando i due poliziotti con la ferocia di un bulldog furioso apostrofò, alzando la
voce, il professore:
«È la prima volta che vedo due di quei porci verdi in questo bar!»
Quella provocazione era così inutile, così follemente sciocca, che Ullwin si sentì
percorrere da un brivido di terrore e di rabbia.
Il fatto che i poliziotti non sembrarono avvedersene era già di per sé un brutto
segno. Il più alto dei due, un omaccione dai tratti grossolani, con un naso ossuto e due
occhietti pallidi, si limitò a chinarsi a mormorare qualcosa al suo compagno. Tutto
qui.
Se non fosse stato quasi completamente brillo Karl non si sarebbe mai sognato di
comportarsi in quel modo. Continuò imperturbato, alzando sempre più la voce, a
sbraitare ancora per diversi minuti. Poi, con un gesto di disgusto, perché i poliziotti si
rifiutavano evidentemente di lasciarsi provocare, gettò sul tavolo qualche moneta e si
alzò.
Ma mentre si dirigeva verso la porta si alzò anche il più alto dei due agenti.
«Mi perdoni se mi presento», gli disse con fredda cortesia. «Sono il sergente
Hubner e il mio amico il caporale Brandt. Posso chiederle a mia volta il suo nome?»
Karl mandò in fuori il mento. «Va’ all’inferno!»
«Un po’ di pazienza», replicò ironico il poliziotto. «Debbo prima avvisarlo che
stiamo cercando due tipi con i vostri connotati.»
«Davvero?
«Sì, davvero. Talmente eguali a voi che sono costretto a chiedervi di
accompagnarci.»
In guisa di risposta Karl alzò il pugno. Colpito pesantemente al naso l’omaccione
perdé l’equilibrio, le sue lunghe gambe s’impigliarono in quelle della sedia e cadde
battendo la testa sul pavimento di pietra. L’altro poliziotto era balzato intanto in piedi
estraendo dalla fondina la pistola. Con un grido di trionfo Karl gli assestò a
tradimento un calcio nello stomaco e anche costui stramazzò gemendo di dolore a
terra.
«Vedi?», disse cercando con gli occhi il professore. «Ecco l’opinione che ho della
polizia!»
Il professore era già fuori. Ma mentre Karl tentava di seguirlo, il secondo poliziotto
si sollevò sul gomito e col viso contratto dal dolore gli puntò addosso la rivoltella.
Karl correva quando la pallottola lo raggiunse. La mano gli corse automaticamente
al fianco. Ma non si fermò.
«Dio mio», gemé. «Quel porco mi ha sparato...»
Il professore lo guardò sgomento. «Sei ferito?»
«No», ansimò Karl. «Dovevo fargli sputare l’anima!»
Malgrado le sue proteste respirava con fatica. Quando ebbero risalito il versante
dové fermarsi perché il respiro gli mancava. Tossì e un rivolo di sangue gli uscì dalla
bocca.
«Che strano...» mormorò.
Il professore si torceva smarrito le mani.
«Te l’avevo detto, di girare al largo dal villaggio!» continuava a lamentarsi.
«Ho sete», disse sordamente Karl. «Sant’Antonio, che cosa non darei per un
cognac!»
Il professore girò la testa riflettendo intensamente. Per ora nessuno li inseguiva. I
poliziotti erano immobilizzati, almeno temporaneamente. Ma con ogni probabilità
dovevano essercene altri appostati in ogni villaggio della zona. Per adesso, secondo
lui almeno, l’unica cosa da fare era dì tornarsene in fretta sui monti dove aveva
trovato per tanto tempo asilo.
Prendendo per il braccio Karl il professore cominciò a salire tirandoselo dietro.
Pensava vagamente di poter arrivare col ferito all’albergo tra i monti. Ma dopo meno
di un chilometro capì che non ci sarebbe riuscito. Karl gli pesava sulla spalla come un
sacco di patate. Adesso il baule ingombrante era lui. Poco dopo il maestro di sci
inciampò e cadde lungo disteso sul sentiero viscido.
«Le gambe non mi sorreggono più...»
Per il troppo sangue perduto era pallido come un morto.
«Bisognerebbe fasciarti la gamba», disse sempre più sconvolto il professore.
«Non credo che servirebbe...»
Karl tossì di nuovo e una schiuma rossa gli apparve sulle labbra. Vedendo i globi
dei suoi occhi rovesciarsi paurosamente mostrando solo il bianco delle sclerotiche il
professore capì che il suo compagno stava per morire. Ullwin era, sì, un vecchio
furfante incallito, ma non era abituato a certi spettacoli. La faccia gli si increspò in
una smorfia di perplessità infantile. Si curvò stringendosi le mani per fermarne il
tremito convulso.
«Posso aiutarti in qualche modo?»
«Per me... è finita...»
Furono le ultime parole, che disse Karl.
Seguì una lunga, tremenda pausa. Il professore non riusciva a farsi una ragione.
“Debbo sognare”, si ripeteva “quello che sta accadendo è troppo stupido e assurdo.
Pochi minuti prima Karl faceva lo spaccone in quel bar. E adesso...”
improvvisamente il maestro di sci tossì di nuovo. La sua bocca non si rinchiuse e la
testa gli ricadde sul petto mentre scivolava lentamente, piegandosi sul fianco, nella
neve.
Il professore si era rialzato sbarrando stralunato gli occhi. Si lavò, senza
avvedersene, le mani con un po’ di neve molle continuando a guardare inutilmente in
basso. A un tratto – come se si fosse ricordato infine della sua situazione – gettò
un’ultima occhiata al corpo inerte di Karl e si avviò incertamente sul sentiero.
Rifece per un tre chilometri la strada che lui e il suo compagno avevano seguita per
scendere al villaggio. A poco a poco, distogliendo gli occhi dalle impronte di Karl
che lo facevano rabbrividire, cominciò a rendersi conto del suo dilemma. Tornare
all’albergo era inutile, e non aveva i mezzi né le forze per arrivare da solo a
Breintzen. La sua sola speranza erano di nuovo quelle alture solitarie, impervie.
Inerpicandosi verticalmente alla pista avrebbe potuto forse raggiungere abbastanza
presto il casotto. Decidendosi, il professore abbandonò il sentiero e cominciò
faticosamente a salire. L’ascesa nella neve morbida non era facile. Ma rifiutando di
arrendersi il vecchio continuò coraggiosamente ad avanzare aumentando con ogni
passo la distanza fra sé e l’episodio terrorizzante di Taube.
Raggiunto il primo crinale si raddrizzò soddisfatto e dopo essersi asciugata la
fronte si guardò indietro. Lo sguardo gli cadde immediatamente su un gruppo di
figurette scure che sembravano agitarsi lontano. Proprio allora la campana della
chiesa comincio a suonare come per metterlo in guardia.
Strappato alla sua sicurezza illusoria il professore cercò prima di tutto di sparire
dalla visuale di quegli sconosciuti. Piegato in due riprese a salire cercando di
affrettarsi. Osò guardarsi di nuovo indietro soltanto dopo un’altra buona mezz’ora e
gli sembrò che il cuore gli precipitasse orribilmente negli stivali. Le figurette gli si
erano pericolosamente avvicinate. Allargandosi a ventaglio ben cinque uomini
continuavano ad avanzare in fretta. Ullwin riuscì perfino a distinguere la loro guida:
il massiccio sergente Hubner in persona.
A questo punto il professore perdé completamente la testa. Era un uomo di mondo,
certo, ma il suo mondo non era certo questo. Ossessionato dall’idea di far perdere ai
poliziotti le sue tracce cominciò ad arrampicarsi, come una lepre spaventata, quasi
verticalmente verso la vetta del Kriegeralp.
La fortuna volle aiutarlo: si vide presto davanti un sentiero ineguale, bordato di
grandi cumuli di neve dura – come un letto asciutto di un torrentello – che gli permise
di procedere più sicuro. Si sentiva ogni tanto schiaffeggiare da sbuffi di neve
finissima che sembrava quasi schiuma di mare. Ma non se ne curava. Non udì
neppure i gridi, sempre più alti e urgenti, degli uomini che lo seguivano. Preoccupato
unicamente di mettersi in salvo, non notò il tono allarmato di quei richiami.
Finché, improvvisamente, le voci non si fusero in un urlo solo:
«Slavina!»
La nebbia s’infittì intorno al professore, accompagnata da una pioggia fitta, quasi
grandine minuta. Un rombo sordo, come di tuoni lontani, s’incupì avvicinandosi. E a
un tratto Ullwin si vide ribollire intorno un torrente di neve che lo travolse come se
fosse uno spillo trascinandolo via con sé. Invocò disperatamente aiuto ma i suoi gridi
furono inutili come gli altri. Mentre gli uomini si buttavano di qua e di là per sfuggire
alla slavina, Ullwin, prigioniero di quel torrente bianco, continuò a rotolare giù per il
fianco della montagna. A un tratto, quando sembrava che l’enorme massa in
movimento dovesse inghiottirlo e distruggerlo si sentì spingere come da una mano
mostruosa di lato. Un capriccio del destino lo aveva strappato alla sua tomba candida
scaraventandolo fuori con violenza. Andò miracolosamente a cadere fuori della rotta
principale della slavina, in una specie di cunicolo dove giacque stordito, quasi
incosciente, ma per fortuna invisibile. Mentre il mostro tonante continuava,
sfiorandolo, il suo cammino, perdé momentaneamente i sensi.
Al di sotto di lui, da un ripiano laterale, il sergente e i suoi quattro uomini
guardavano affascinati la valanga. Gli uomini erano abitanti di Taube reclutati in
fretta da Hubner perché lo aiutassero nelle sue ricerche.
«Poveraccio», commentò infine uno di loro. «È finita, per lui.»
«Ho visto la slavina piombargli addosso», disse un altro, segnandosi spaventato.
«È stata cosa di un secondo.»
«Mio Dio!», esclamò il terzo. «Chi l’avrebbe detto che Karl e lui sarebbero morti
quasi insieme.»
«Bah!», grugnì Hubner. «Edler è sempre stato un presuntuoso e un malvagio. Se
l’è meritata, la sua fine, per aver sferrato quel colpo basso al mio compagno. Ma
quest’idiota d’inglese, che bisogno aveva di buttare via la vita?»
«Abbiamo gridato per avvertirlo.»
«Sì.» I quattro uomini annuirono gravemente come per giustificarsi.
«Anche così alla mia Centrale non saranno contenti», brontolò il sergente. «E
ancora meno a Vienna. Lo volevano vivo, il vecchio. Per cercare di scoprire cosa ne
avesse fatto, degli smeraldi.»
Seguì un silenzio.
«Potremmo ancora trovarlo... morto», osservò uno degli uomini.
«Non ci riuscireste... sotto una massa tale di neve», obiettò il primo degli uomini.
«Cominciando adesso lo ritrovereste forse fra dieci anni, trasformato in una statua,
nel ghiacciaio.»
«Comunque», tagliò corto il sergente, «dobbiamo cercarlo. Non foss’altro per
poter dire che abbiamo fatto qualcosa.»
Mezz’ora dopo, quando la cateratta vertiginosa di neve si fu infine fermata, Hubner
e i suoi quattro alpigiani vi si arrampicarono con cautela e cominciarono le ricerche.
Ma ognuno era convinto della inutilità delle loro fatiche, e che la montagna non
avrebbe restituito l’uomo di cui si era impossessata.
Poco dopo il mezzogiorno il sergente si raddrizzò spazientito.
«Per oggi basta!», gridò. «Torneremo. Dobbiamo portare all’albergo il corpo di
Edler. È lì che terranno l’inchiesta.»
È così, mentre le ombre si allungavano sulla neve calpestata c sporca, i cinque
uomini scesero dai monti e fecero quello che aveva ordinato loro il sergente Hubner.
Quattordicesimo capitolo
Nel retrobottega di antiquario del signor Schwartz, a Breintzen, lo svelto, piccolo
detective che si faceva chiamare Oberholler non aveva staccato gli occhi da Lewis.
Notando che il giovane americano faceva girare sconvolto gli occhi nella stanza,
ruppe infine, gravemente, il silenzio.
«Non le consiglio di tentare un’altra fuga, signor Merrid. Posso assicurarle che non
ne varrebbe la pena.»
Con gli occhi acuti non più al riparo delle lenti cerchiate d’oro, Oberholler
sembrava esattamente l’opposto dell’ometto di pochi giorni prima, un tantino
diffidente ma così socievole e allegro. Con la sua aria seria, quasi grave, la voce e i
gesti misurati, era la perfetta immagine del detective di classe.
«Che ognuno di voi», disse, «si guardi bene dal dimenticare la sua situazione. Siete
miei prigionieri. Ricordatevene o vi faccio portare subito via.»
Mentre si voltava verso l’antiquario il suo tono non si addolcì, ma divenne un po’
meno perentorio.
«Nel frattempo, signor Schwartz, accompagni per cortesia la signorina Ullwin
nella stanza che le ho fatto assegnare. Dev’essere certamente molto stanca dopo le
imprese faticose che ha voluto affrontare.»
Mentre, dopo aver lanciato a Lewis uno sguardo spento, Sylvia si dirigeva a testa
bassa verso la porta con Schwartz, Connie alzò con un sorriso ingraziante gli occhi
sul detective.
«Posso andare con lei?»
Oberholler si limitò ad annuire in silenzio.
Rimasto solo con Lewis e Steve, non ruppe subito il silenzio. Prima di parlare si
premé insieme, rigidamente, le dita.
«Signor Merrid», cominciò, «lei si trova, ho il dovere d’informarlo, in una
situazione particolarmente grave. Questa volta non ha a che tare con la polizia di
stato, a cui è riuscito così astutamente a sfuggire ridicolizzandola. Deve rispondere
delle sue azioni a un investigatore privato di Vienna.» Fece una pausa significativa.
«Non può neppure rimproverarmi di non averlo avvertito, signor Merrid. Lo misi più
volle in guardia quando eravamo su all’albergo, e lei non solo si rifiutò di ascoltarmi
ma pur essendo al corrente di una certa storia volle partecipare deliberatamente alla
fuga dei colpevoli che si è trasformata purtroppo in qualcosa di molto grave. Ho il
dovere d’informarlo», continuò il piccolo detective, «che Karl Edler è morto
stamattina a Taube, di una revolverata ricevuta mentre aiutava George Ullwin a
fuggire. Non basta.» Oberholler fece un’altra pausa solenne. «Ullwin stesso è stato
travolto da una slavina mentre era inseguito dalla polizia locale. E non c’è nessuna
speranza di salvarlo.»
Nel silenzio pesante che seguì quelle rivelazioni, Lewis continuò a fissare il
detective, come se non riuscisse a credergli. Fu Steve a prorompere:
«Hai capito ora, Lewis, perché siamo qui? Quando, nel pomeriggio di oggi, ho
saputo dal signor Oberholler quello che era successo, ho capito che dovevo
arrendermi e gli ho detto del nostro appuntamento a Breintzen. Tanto valeva, ho
pensato, incontrarci tutti qui e chiudere per sempre questa dannata storia.»
Lewis non replicò. Pensava, aggrottandosi, a Sylvia e a tutto quello che aveva
promesso di fare per aiutarla. Steve continuò a fissarlo leggendogli dentro.
«Per là ragazza sarà duro, almeno in principio, poveretta. Era sinceramente
affezionata al vecchio, ma in fondo si troverà molto meglio senza di lui. E tu cerca di
ricordarti che noi due siamo ancora terribilmente nei pasticci.»
Lewis si girò verso il detective.
«Che cosa ne sarà della signorina Ullwin?»
L’altro alzò le spalle.
«La morte di suo padre aggraverà purtroppo, lo temo, la sua situazione. lo sono
stato assunto soprattutto per curare gl’interessi della “Vienna Equitable”. Poiché il
mio principale obiettivo era di recuperare gli smeraldi rubati, capirete perché
continuavo ad attendere senza cercare d’impadronirmi di Herr Ullwin. Sapevo anche
prima che voi due arrivaste all’albergo “Hohne” che il vecchio furfante si nascondeva
in quel casotto. Una notte feci perfino perquisire a fondo il capanno e tutti gli abiti del
vecchio. Ma i gioielli non erano lì e neppure nelle stanze che lui occupava prima a
Vienna. Continuai perciò, col pretesto delle lezioni di sci, a salire all’albergo
sperando di scoprire qualche indizio che mi mettesse sulle tracce della refurtiva o
l’arrivo eventuale di un complice di Ullwin.»
Oberholler sottolineò di nuovo le sue dichiarazioni con quell’alzata tipica di spalle.
«Sono ora convinto che gli smeraldi sono stati venduti subito dopo il furto a un
ricettatore. Il denaro è stato sperperato e i gioielli, per colpa unicamente di Herr
Ullwin, hanno già varcato senza dubbio la frontiera. Secondo voi i miei clienti
dovrebbero avere dei riguardi per la figlia di quel criminale?»
«Ma quella povera ragazza non c’entra!», protestò Steve. «Sylvia viveva
poveramente a Monaco mentre suo padre si godeva il denaro dei gioielli. Non potete
farle niente.»
«Ah, no?», proruppe il detective. «Si vede che lei non ha nessuna familiarità con le
leggi austriache. La figlia di Ullwin se la sarebbe vista comunque brutta. Ora...
potrebbe finire anche lei in prigione.»
Assorto in chissà quali pensieri amari Lewis si mordeva le labbra. Sembrò
giungere infine a una decisione.
«Qual è», chiese infine lentamente, «il valore approssimativo degli smeraldi?»
«Furono stimati quattrocentomila scellini», fu la risposta concisa di Oberholler.
«Erano stati impegnati per molto meno ma per via della loro importanza storica il
loro valore fu segnato sui registri della “Equitable” con la cifra che le ho detto.»
«Quanto farebbe, nella mia valuta?»
«Ma...» Il detective lo guardava perplesso. «Centomila dollari.»
Lewis si sedé al tavolo, si tolse dalle tasche libretto degli assegni e stilografica, e
senza battere ciglio riempì uno chèque.
Il detective a cui era stato teso, lo esaminò spalancando sbalordito gli occhi. Poi,
lentamente, la sua espressione si addolcì. Si strofinò il mento guardando Lewis;
guardò di nuovo lo chèque e di nuovo colui che l’aveva firmato.
«Mio caro signore», dichiarò infine, elettrizzato, «il suo è un gesto davvero
principesco, che cambia completamente tutto! Non ho bisogno di dirle...»
«Se ne astenga, per favore», lo interruppe Lewis. «lo ho comprato i suoi
fantomatici smeraldi... ecco tutto. Vorrei solo sapere se continuerete a importunare la
signorina Ullwin.»
«Come stavo per dirle, caro signor Merrid», riprese emozionato il piccolo
detective, «la sua straordinaria generosità non può avere che un risultato. I miei
clienti si dichiareranno più che soddisfatti. Posso anzi garantirle che riuscirò ad
appianare al più presto anche ogni sua difficoltà con la polizia.»
«E la signorina Ullwin sarà completamente libera di lasciare l’Austria?»
«Gliene do la mia parola!»
Ci fu un breve, drammatico silenzio.
«Se non desidera nient’altro da me», disse infine Lewis, «me ne andrei a letto.»
«Le ho già detto, signor Merrid, che la partita può considerarsi chiusa con nostra
piena soddisfazione», protestò calorosamente l’ometto. «E per fortuna in questa casa
non mancano le stanze. Prima di ritirarmi anch’io telefonerò al mio quartiere generale
a Vienna. E spero di avere domani», aggiunse sorridendo, «le notizie migliori per
tutti gl’interessati.»
Dopo aver annuito Lewis uscì senza una parola dalla stanza. La camerierina che gli
aveva aperto gli trovò una stanza al primo piano. Sopraffatto dalla stanchezza si
limitò, prima di spegnere il lume e buttarsi sul letto, a sfilarsi gli stivali e la giacca.
Ma tormentato com’era da pensieri e sentimenti contraddittori non riuscì a trovar
sonno.
Quella storia era cominciata come un’avventura eccitante, per concludersi,
insensatamente, con due morti tragiche. E dopo essermi visto, si disse Lewis, con
compiacimento ridicolo, nei panni di un paladino antico eccomi obbligato a chiudere
la mia vicenda esaltante con un volgare mercato. Se fosse stato l’eroe di un romanzo
cavalleresco lui avrebbe fatto attraversare a Sylvia la frontiera in groppa a un focoso
destriero bianco. Nella cruda realtà, invece, aveva comprato con un volgare assegno
la sua libertà.
Rimuginando questi pensieri sconfortanti Lewis continuava a rigirarsi, senza trovar
pace, nel suo letto angusto.
Cadde verso l’alba in un sopore leggero dal quale si destò alle otto di una grigia,
deprimente giornata. Si alzò e dopo aver fatto la doccia ed essersi sbarbato scese
senza rumore al pianterreno, ansioso di apprendere il risultato dei rapporti di
Oberholler a Vienna.
Nella stanzetta sul dietro, dove il tavolo rotondo era coperto da una tovaglia di
bucato e apparecchiato per una colazione frugale, c’era soltanto Sylvia. La cameriera
le aveva versato una tazza di caffè. Ma come se non se ne fosse neppure accorta lei
continuava, con i gomiti sulla tavola e il mento sulle mani, a guardarsi assorta
davanti.
A un tratto, come se obbedisse a un impulso oscuro, si girò e vide Lewis sulla
soglia. Si guardarono per un momento in silenzio.
«Sono molto addolorato», mormorò infine lui. «Per suo padre, Sylvia. E per Karl.»
Quelle poche parole pronunziate con difficoltà vibravano di un vero amore. Ma
Sylvia si limitò a piegare leggermente il capo. Il suo contegno sembrava innalzare di
nuovo fra loro una barriera; imporre quasi a Lewis di liberarla della sua presenza. Ma
lui non si mosse.
«Ignoro quali siano i suoi piani. Ma sarei felice di aiutarla in tutto ciò che deciderà
di fare.»
Sylvia gli lanciò un’occhiata gelida. «Non ho più niente da fare qui. Mi hanno
liquidata. Non vogliono neppure che assista all’inchiesta.»
«Me ne rallegro», disse piano Lewis.
La vide irrigidirsi ancora di più.
«Io no. Avrei voluto essere in quelle ultime ore con mio padre e con Karl. E
dividere le loro sofferenze. Poterli almeno, ora, giustificare e difendere. Ma qualcuno
è intervenuto senza il mio permesso perché fossi avvolta nell’ovatta e mi venisse
risparmiata la benché minima noia. Perfino quell’odioso piccolo detective s’inchina
quando mi vede e mi lancia sorrisi ossequiosi. Il suo servilismo mi disgusta.»
Lo sguardo di Lewis s’indurì. Dunque lei sapeva. E poiché reagisce così, si disse,
le mie supposizioni erano esatte. Aspettò un momento a parlare. Suo malgrado il
contegno ingiusto di Sylvia lo offendeva.
«Avrebbe preferito andare in prigione?», si sorprese a chiederle.
Lei strinse in una piega ostinata le labbra.
«E poter continuare a rispettarmi!»
Quell’affermazione, che non si aspettava, ferì profondamente Lewis. «Le sembra il
momento, questo», proruppe, «di assumere pose eroiche e ammantarsi nella sua
dignità oltraggiata? Secondo me le converrebbe di dimostrare infine un po’ di buon
senso!»
Sylvia arrossì violentemente. Il suo respiro si era fatto ansante e sembrava più
sconvolta di lui.
«Nessuno si è mai curato distillarmi il buon senso e non sono abituata a
vendermi!»
Intorno a quei due l’atmosfera si era fatta elettrica. Lewis stava per replicare
quando, attraverso i battiti penosi del suo cuore, gli arrivarono dall’alto dei rumori.
Era Connie che si preparava a scendere a colazione. Furioso e addolorato Lewis non
se la sentì di affrontare una conversazione mondana. Mormorando delle scuse girò sui
tacchi e uscì a precipizio dalla casa.
Aveva fatto appena pochi passi che s’imbatté nel detective, che tornava
sveltamente dalla città.
«Ah, signor Merrid!», esclamò con voce trionfante quest’ultimo, riconoscendo
Lewis. «Sono felice di vederlo così di buon’ora, tanto più che ho per lei delle notizie
magnifiche! Commossi dalla sua generosità i miei clienti hanno già fermato l’azione
legale che avevano intrapresa contro Ullwin e i suoi complici. E considerando la fine
infelice fatta ieri dall’imputato il parere delle autorità è che egli abbia espiato
sufficientemente il suo crimine. L’inchiesta che si terrà all’albergo “Hohne” sarà
perciò una semplice formalità. Lei non è obbligato ad assistervi. Ho provveduto
anche a questo.»
«È stato molto gentile», s’impose di rispondere Lewis.
«È contento?»
Lewis aggiunse a controcuore poche parole di ringraziamento. Congedandosi poi
con un breve cenno del capo dal detective attraversò la piccola città – ormai
completamente sveglia come dimostravano le numerose massaie uscite a lavare le
soglie delle loro case e i bambini che si recavano a scuola facendo risuonare sotto i
loro passi allegri i ciottoli della strada.
Mentre, lasciandosi alle spalle le antiche, austere mura, continuava la sua
passeggiata lungo il fiume, fra le mucche che ne brucavano pacificamente l’erba
verde delle sponde, Lewis sentì calmarsi a poco a poco la sua agitazione. Poco prima
Sylvia aveva certamente parlato senza riflettere, sconvolta dal dolore per la morte
tragica del padre. E lui l’amava; soltanto questo contava.
“Debbo raggiungerla subito”, decise Lewis, “e farla finita con questi sciocchi
contrasti.”
Tornò rapidamente sui suoi passi e raggiunse verso le undici la casa di Schwartz.
Steve e Connie erano nel soggiorno, ma Lewis proseguì senza nemmeno
rispondere ai loro affettuosi richiami. Vedendo nel piccolo retrobottega l’antiquario,
si fermò un momento a interrogarlo.
«Qual è la stanza della signorina Ullwin? Debbo vederla immediatamente.»
Sollevando la testa dai suoi libri, carezzandosi la barba, il vecchio lo guardò con
blanda curiosità.
«La signorina Ullwin?», ripeté. «Ha lasciato un’ora fa la mia casa.»
Lewis avvertì un brusco presentimento di sciagura. «E dov’è andata?»
«Come vuole che lo sappia?», replicò garbatamente l’altro. «Quello che è certo è
che non tornerà. Me l’ha detto lei stessa.»
Colpito da quelle parole come da una mazzata, Lewis rimase per un momento
impietrito prima di voltarsi pesantemente e rientrare in casa. Il vecchio riprese
tranquillo il suo lavoro.
Quindicesimo capitolo
L’inchiesta all’albergo “Hohne” era finita e i testimoni e le autorità che vi avevano
partecipato cominciavano a andarsene. Quel luogo, abitualmente silenzioso e deserto,
ferveva di un’animazione insolita. I molti contadini venuti da Taube e Lächen
discutevano animatamente, raccolti in capannelli davanti all’albergo. Due file di slitte
bloccavano l’ingresso al cortile. Il cosiddetto Oberholler si era ritirato sulla veranda
insieme col sergente Hubner e il caporale Brandt che, pallido e smagrito, cominciava
appena a riaversi dalla bestiale aggressione di Karl Edler. Alle loro spalle altri tre
poliziotti aspettavano un mezzo che li riportasse alla stazione. I due sposi anziani nel
tipico costume del loro cantone svizzero, che si erano fermati, guardandoli, a una
certa distanza dai poliziotti, erano Herr e Frau Edler, due piccoli possidenti cugini di
Karl e i suoi soli parenti, venuti a identificare la salma dello sfortunato maestro di sci,
ma soprattutto per fare man bassa su tutto ciò che – oggetti, denaro, effetti personali –
era appartenuto al loro sventurato congiunto.
A sentire i commenti l’inchiesta si era svolta con soddisfazione di tutti. Ancora
molto numerosi, coloro che vi avevano assistito facevano ad alta voce i loro
commenti, mentre, felice di essersela cavata, contro le sue nere previsioni, soltanto
con una severa ramanzina per la sua parte nell’affare, Anton correva di gruppo in
gruppo carico di bottiglie, bicchieri e boccali.
A Rudi, affacciata alla finestra della sua stanza, la scena offriva un malinconico
interesse. Condannata dal suo male a vivere imprigionata fra quelle vette solitarie era
morbosamente attirata da qualsiasi contatto col mondo esterno. La morte drammatica
di Karl l’aveva stranamente commossa. Mentre guardava ora quella piccola folla
rumorosa un brusco silenzio la indusse a sporgersi con più attenzione. Stavano
portando la rozza bara appena costruita, da quello che era il “laboratorio” del maestro
di sci nella stanza del corridoio dove il corpo del defunto giaceva sul letto avvolto in
un lenzuolo.
Avvertendo il brivido involontario di Rudi il suo cane accovacciato ai suoi piedi
alzò su lei gli occhi interroganti. Anche dopo che ebbero portato via quel guscio di
abete e nel cortile e sulla veranda ripresero risa e conversazioni la figuretta gracile di
Rudi rimase alla finestra, immobile, insolitamente assorta.
Lasciandosi sfuggire un sospiro la giovane donna si decise infine ad alzarsi.
Accesa una candela, si rinfrescò faccia e mani, si passò sulla bocca pallida – come in
un riflesso spettrale del suo passato felice – un rossetto di un rosa tenue, e scese a
cena. Vedendo che il servizio era affidato ad una delle cameriere, Rudi si disse che
Anton doveva essere in cucina a festeggiare la fine dei suoi guai. A tavola sedevano
già gli Edler, che avrebbero passata evidentemente la notte all’albergo per ripartire la
mattina dopo con la salma. Fingendo di non udire il saluto di Rudi quei due le
gettarono uno sguardo sospettoso prima di riprendere a parlottare.
Rudi non poté fare a meno di ascoltarli.
«Nel laboratorio», diceva la signora Edler, «ci sono sei paia di sci nuovi
fiammanti. Potremmo ricavarne un bel po’ di soldi.»
«Ne avremo bisogno», replicò visibilmente contrariato suo marito. «Il viaggio di
domani ci costerà un occhio. Perché non si poteva seppellirlo qui, Karl? Non capisco
perché hai insistito tanto per portartelo via.
La donna strinse con aria ostinata le labbra. «Il posto di Karl è nella tomba di
famiglia. E poi, non credo che ci rimetteremo. Soltanto quell’orologio d’oro che lui
vinse in una gara basterà, credo, a rimborsarci delle nostre spese. Ci sono poi cinque
o sei coppe d’argento e il suo guardaroba, per non parlare degli sci. Esigeremo da
Anton, oltre alla liquidazione, almeno un altro mese di stipendio. Fidati di me, Franz.
Non ti farò chiudere in perdita la partita.»
«Ti conviene!»
La signora Edler infilò la punta del coltello in un grosso pezzo di formaggio.
«Prendine anche tu, Franz: dobbiamo sostenerci. Pensa a tutto quello che ci aspetta
domani. A proposito, ti sei fatti dare i permessi necessari?»
«Ho pensato a tutto, sta’ tranquilla. Me li sono fatti firmare dal sergente di polizia.
Avrebbe preteso che gli offrissi da bere, ma io ho finto di non capire. Le marche da
bollo sono costate tre scellini. Non dimenticare di ridarmeli.»
Non potendone più, Rudi finì più in fretta che poté la sua cena e si alzò.
Tornata nella sua stanza cercò di distrarsi leggendo un libro. Ma era così nervosa e
agitata che non riusciva a concentrarsi. Dopo pochi minuti andò alla finestra e vi
rimase a lungo affondando lo sguardo nell’oscurità.
A un tratto trasalì: aveva intravisto la figura di un uomo che si avvicinava,
trascinandosi penosamente, all’albergo. Come attirato dalla luce l’uomo deviò a un
tratto verso la finestra di Rudi e un istante dopo, trasecolata, lei lo vedeva accasciarsi
contro il davanzale. Credeva quasi di avere un’allucinazione quando, con un brivido
di orrore, riconobbe in quello spaventapasseri il vecchio che in quel mattino fatale era
partito dall’albergo con Karl. Sì, quel rottame umano era il professore, risorto senza
dubbio per un miracolo. Vivo!
Un istante dopo Rudi aveva rialzato la finestra a ghigliottina e aiutava con tutte le
sue deboli forze il professore a scavalcare il davanzale. Mentre Ullwin si accasciava
stremato su una poltrona riabbassò in fretta il vetro e chiuse le imposte. Respirando
affannosamente si accinse poi a rianimare come poteva il povero vecchio.
Dopo avergli strofinato a lungo, inutilmente, mani e faccia, accorgendosi che era
bagnato fino all’asso lo spogliò senza inutili pudori completamente, lo avvolse in un
lenzuolo di spugna e gli versò fra i denti un sorso di cognac. Sollevando infine
lentamente le palpebre il professore la fissò emozionato.
«Grazie», balbettò. «Ne avevo bisogno».
Rudi non riusciva ancora a credere ai suoi occhi.
«Pensavo... tutti lo pensano ancora... che fosse morto».
«Lo credevo anch’io. E forse è vero», mormorò con un filo di voce lui. «Mi
perdoni, ma potrei chiederle un’altra goccia di cognac?»
Rudi gli consegnò generosamente la bottiglietta – il flacone che teneva nella sua
piccola farmacia, ancora pieno a metà. Dopo averla ringraziata profusamente il
professore tirò un sospiro tremulo.
«Sono stato travolto dalla valanga. Non è un’esperienza che possa raccomandarle.
E non saprei dirle per quanto tempo sono rimasto sepolto. Quando sono sbucato
infine fuori ero un pezzo di ghiaccio. Sono riuscito, non so come, ad arrivare anche
così al casotto. Non che mi sia servito molto. Non avevo vestiti asciutti da mettermi,
legna per accendermi un fuoco e, peggio ancora, non un tozzo di pane o altro da
mettere sotto i denti. Dopo essere rimasto lì a tremare un giorno intero, ho deciso che
non potevo rassegnarmi a morire solo come un cane in quello sporco casotto, e che –
a costo di crepare per la strada – avrei tentato di raggiungere l’albergo. E... ce l’ho
fatta.»
Contro il suo solito il professore si era espresso molto sobriamente. Eppure quelle
parole disadorne avevano una strana dignità. Purificato delle sue colpe, sconfitto e
umiliato, il famoso ladro internazionale, il “professore” dall’eloquenza immaginosa,
era ormai soltanto una povera, patetica creatura.
Rudi sentì per lui un brusco slancio di simpatia.
«Sono contenta», gli disse sorridendogli, «che abbia potuto arrivare senza essere
visto fin qui. Vedrà che quando avrà mangiato e si sarà fatto un buon sonno si sentirà
certamente meglio.»
Lui la guardava con i suoi occhi rossi e incavati.
«E poi... che cosa posso aspettarmi? La cella di una prigione. Lei penserà che non
merito altro, vero?»
«No, no», protestò Rudi. «Lo aiuterò».
«Lei?»
«Sì», promise con slancio Rudi. «Ma ora per prima cosa debbo rifocillarlo.
Aspetti!»
Lanciando al vecchio un altro sorriso incoraggiante la giovane donna scivolò fuori
dalla stanza. Tornò quasi subito recando una grande ciotola di minestra calda in cui
nuotavano pezzi di carne, pane, formaggio e due mele.
«È stato facilissimo», spiegò a Ullwin, mentre gli deponeva davanti tutta quella
roba. «Al pianterreno non c’era anima viva».
Il professore non rispose. Ma alla vista del cibo gli occhi gli s’inumidirono.
Rudi rimase a guardarlo mentre mangiava, concentrandosi sul piano che aveva
cominciato ad architettare. Finito che ebbe, il professore aveva già un’aria più arzilla.
«Debbo ringraziarla ancora una volta, mia cara signorina», cominciò con un’ombra
della sua vecchia ampollosità. «Dopo tutte le sue premure il pensiero di quella
prigione mi riesce ancora più intollerabile...»
Rudi lo fissò seria. «Perché è talmente sicuro di doverci andare?»
Il vecchio alzò avvilito le spalle.
«Ormai non posso più sperare di varcare la frontiera.»
Lei continuava a sgranargli addosso i suoi grandi occhi scuri. «Io so come potrebbe
riuscirci.»
Ullwin si lasciò sfuggire un sospiro sconsolato.
«Ho l’impressione di aver già udito queste parole...»
«Non da me. Non scherzo, professore», continuò sempre più seria Rudi. «Il destino
le sta offrendo, glielo assicuro, un’occasione miracolosa di mettersi in salvo.»
«Ma... in che modo?»
Lei si piegò fissandolo come se volesse ipnotizzarlo.
«Mi ascolti. I cugini di Karl porteranno domani mattina in Svizzera i suoi resti. La
bara è arrivata nel pomeriggio e l’hanno già chiusa. I permessi necessari sono stati
timbrati, la slitta noleggiata. Tutto è pronto. Quei due hanno pensato a tutto, insomma
e dovranno appena fermarsi alla frontiera. Nel pomeriggio di domani la bara sarà
senza alcun intoppo a casa degli Edler, a Menasle.» Rudi concluse con un gesto
eloquente delle mani il suo discorso.
«Dio mio!» Ullwin, che aveva capito, la guardava esterrefatto.
«Perché no? Lei è già morto, professore», ragionò dolcemente la ragazza. «Si tratta
solo di rimanerlo per altre poche ore. Ma... dovrà prendere il posto di Karl. Cureremo
insieme il lato... tecnico dell’operazione. Karl sarà sepolto qui. Aiutandomi col
cacciavite del laboratorio le permetterò anche di respirare senza difficoltà.
Semplicissimo, no? La sua resurrezione sarà rimandata, ecco tutto, al suo arrivo a
Menasle.»
Da quel vecchio furfante spericolato che era Ullwin non poté impedirsi di
ammirare quel piano geniale. Ma il pensiero di doverlo attuare proprio lui lo atterriva.
«No», balbettò infine, «è impossibile.»
«Deve farsi coraggio. È l’unica via di scampo», gli ricordò Rudi. «Perché lo
sciocco cerimoniale della morte dovrebbe spaventarlo, se l’aiuterà a rivivere?»,
continuò persuasiva. «Non ha mai sentito parlare di un vecchio monaco – e di una
famosa danzatrice – che si erano abituati a dormire in una bara? Io non esiterei, se...»
«Se?» la esortò a continuare il professore.
«... se potessi guadagnarmi così qualche altro anno di vita...»
Seguì una pausa.
«Lei è malata?», mormorò infine, colpito, Ullwin.
Rudi sorrise.
«Sì. Molto. E non migliorerò. Ma perché pigliarsela? Farò presto anch’io il mio
viaggetto in una piccola scatola di legno». Sorrise di nuovo coraggiosamente. «Il
guaio è che non ne uscirò più. È perciò che l’idea di giocare questo tiro alla morte mi
diverte tanto.»
Seguì un altro silenzio ancora più profondo. Ullwin non riusciva a staccare gli
occhi da quell’eroica creatura. E tanto meno a nascondere la sua commozione
sincera.
«Lei è una gran brava ragazza, Rudi», mormorò infine. Il professore, fornito di
solito di una parlantina così fiorita, non era riuscito a trovar altro.
«È d’accordo, allora?»
«D’accordo». Liberato dalla sua rozza, volgare vernice, Ullwin sembrava un altro.
«A una condizione».
«Me la dica.»
In tutta la sua vita il professore non aveva mai dovuto prendere una decisione che
gli costasse tanto.
«Che lei vada subito a Vienna, nell’appartamentino che occupavo nella Felix Platz.
Le darò l’indirizzo. Non si preoccupi, non ha niente da, temere. Troverà lì qualcosa
che desidero donarle.»
«Che cosa?»
«Uno stick di sapone per la barba», rispose senza batter ciglio il professore.
«Grazie!» Rudi scoppiò in un’allegra risata. «Non immaginerà, spero, che possa
servirmi...!»
Ma Ullwin rimase serio.
«È quello che direbbero tutti. Lo pensò anche la polizia, quando perquisì a fondo
l’appartamento. A chi poteva servire quel resto di un comune stick da barba? Lo
lasciarono perciò dov’era, sulla mensoletta sotto lo specchio del bagno. Ma lei, mia
cara, lo prenderà. E ci troverà dentro qualcosa che la farà ricca a milioni e le
permetterà di farsi curare dagli specialisti più famosi nelle stazioni climatiche più
lussuose del mondo. Altro che questo misero alberguccio! Una cosa che potrebbe
ridarle addirittura la vita. È il dono che mi permetto di offrirle. Lo accetti.»
Rudi fu sul punto di rifiutare, di protestare che ormai niente poteva più salvarla.
Ma fu trattenuta come da un presentimento. Dopo aver meditato a lungo (aveva negli
occhi una espressione remota, indecifrabile), tese a un tratto la mano a Ullwin.
«La ringrazio del suo dono e l’accetto. Ora siamo d’accordo su tutto?»
«Su tutto», ripeté gravemente il professore.
Rudi gli sorrise di nuovo con affetto.
«E adesso si stenda per un po’ sul mio letto. Lo prenderò poi per mano e andremo
in quella stanza.»
Dopo aver annuito come un bravo bambino il professore si allungò non senza
fatica sul letto. Rudi lo coprì maternamente con un plaid e esausto com’era il povero
vecchio piombò subito in un sonno profondo. Lei rimase assorta a guardarlo.
Sedicesimo capitolo
La mattina dopo gli Edler scesero di buon’ora. Anche Rudi. Mentre si precipitava
fuori dell’albergo, la signora Edler fremeva ancora di rabbia dopo la discussione che
aveva dovuto sostenere con Anton sulla liquidazione di Karl e l’ammontare del loro
conto. La vista di Rudi, che era uscita nel cortile sul davanti all’albergo proprio
mentre la bara veniva caricata sulla slitta, non contribuì a rasserenarla.
«Come mai è già fuori a quest’ora?», chiese la Edler.
«L’aria del mattino mi piace», spiegò cortesemente Rudi.
Dopo aver lanciato alla ragazza uno sguardo acido la donna spinse borbottando il
marito sulla slitta. Prima di far segno al cocchiere di partire continuò per un momento
a brontolare lamentandosi perché il veicolo le sembrava troppo piccolo e le coperte
poco pulite.
«Addio e buona fortuna!», gridò Rudi agitando in segno di saluto la mano, quando
la slitta carica le passò davanti.
La sua figuretta, che in quel grande cortile vuoto sembrava ancora più desolata e
fragile, si stagliava nitidamente sullo sfondo grigio dell’alba.
«Buona fortuna?», ripeté irritata la signora Edler, voltandosi a lanciare uno
sguardo sospettoso al marito. «Che avrà voluto intendere, quella ragazza?
«Come diavolo vuoi che lo sappia?»
La faccia giallastra della donna si arrossò. «Non alzare la voce, Franz! Io ti
conosco, sai.»
A Taube gli Edler, che per tutta la corsa avevano continuato a litigare aspramente,
si concessero una tregua mentre pagavano la slitta e si trasferivano nel furgoncino
sgangherato che li aspettava davanti alla locanda. Ripartirono per Breintzen strizzati
accanto all’autista e con la bara e i loro molti fagotti dietro. Trascorsero quel nuovo,
breve viaggio cercando di valutare la roba ereditata dal nipote, – prima di tutto
l’orologio d’oro, l’oggetto più prezioso della loro razzia, che vollero mostrare
orgogliosamente all’autista. L’uomo confermò loro che doveva valere molto, – a dir
poco mille scellini.
«Mio dio!», esclamò la signora Edler, rificcandosi in fretta quel tesoro nel capace
borsone nero. «Davvero tanto?»
L’autista, che ci teneva a passare per intenditore, si degnò di fornire delle
spiegazioni.
«È per via del prezzo dell’oro, che in questi ultimi tempi è salito alle stelle.»
La Edler si voltò a gettare uno sguardo al marito, come per dirgli che certi doveri
familiari risultano a volte più proficui di quanto ci si possa aspettare. Erano arrivati
intanto a Breintzen e l’autista si era fermato davanti alla barriera bianca e rossa del
ponte.
Il ponte sembrava strettamente sorvegliato. Ai soliti agenti doganali di frontiera era
stato aggiunto di rinforzo un intero plotone di fanteria. In quei giorni la tensione
internazionale si era aggravata e nessuno poteva più superare quella barriera senza
prima sottoporsi a un esame severo e spesso vedersi perquisire.
Dopo un’attesa di una ventina di minuti gli Edler furono infine raggiunti da due
agenti.
«Che cosa avete lì?», chiese uno di loro.
«Dia un’occhiata a questi fogli e lo saprà», grugnì la donna: «Non dovreste far
aspettare tanto la gente onesta, specie quando gli corre l’affitto di un camion!»
«Silenzio!.», gl’intimò l’altro poliziotto, un tipo con un naso enorme e due labbra
sottilissime, «se non vuoi che ti teniamo qui molto più di quanto t’immagini.»
Le strappò di mano i fogli, e mentre il suo compagno gli si piegava sulla spalla li
lesse attentamente.
«Così», disse infine, «tu sei nel commercio delle carni? Che cosa pensi di farne, di
quella carcassa?»
La signora Edler s’intromise indignata.
«Lei parla con degli onesti cittadini svizzeri! E non siamo venuti qui per farci
insultare!»
«Tu t’insulti da te, brava donna», replicò il secondo poliziotto, «portando in giro
quella faccia!»
Lei diventò livida per la rabbia.
«È la faccia che mi ha dato Iddio! E non la scambierei con i tuoi stecchini di
gambe!»
«Basta!», ingiunse il primo poliziotto. «Noi abbiamo ordini molto severi. Chi ci
dice che quella bara non contenga per esempio armi e munizioni di contrabbando?
Non possiamo crederti sulla parola; dovremo aprirla.»
Spaventato, Edler corse ai ripari.
«Faccia come crede», balbettò. «Ma commetterebbe un sacrilegio, non lo
dimentichi. Un peccato gravissimo. E non ci trattenga qui più di un’ora o dovrà
rimborsarmi l’affitto del camion!»
«Va a chiamare il tenente», disse al suo compagno il primo poliziotto.
L’interpellato si avviò in silenzio.
Nella bara il professore, che attraverso il suo guscio sottile non aveva perduto una
parola della conversazione, si sentì inondare di un sudore freddo. Dopo aver vinto,
all’inizio, un breve accesso di claustrofobia, Ullwin si era abbandonato alla gioia di
quel salvataggio insperato. Era comodamente steso, dopotutto, su un morbido
materassino, aveva tutta l’aria che gli occorreva e niente da fare, tranne starsene
immobile pensando alla sua vicina liberazione, mentre gli Edler sbrigavano tutto il
lavoro. Ma la sua euforia minacciava ora di dileguarsi di nuovo per sempre. Udendo
avvicinarsi dei passi e la voce rude del tenente, il povero professore cominciò a
tremare come una foglia.
«Che succede?» chiedeva l’ufficiale. «Costoro sono dei contrabbandieri?»
«Non lo sappiamo, signor tenente. Hanno nel camion una bara. Chi ci dice che...»
«Una bara, eh? Che cosa c’è dentro?»
«Lei che ne pensa?», proruppe furibonda la signora Edler. «A che cosa servono, di
solito, le bare? A metterci dei cadaveri, direi... O mi ha presa per una pazza?»
È finita, pensò Ullwin, atterrito da tanta sfacciataggine. Il tenente avrebbe dato
senz’altro l’ordine di aprire la bara.
«Lo vedremo presto», lo sentì replicare. «Dove sono i vostri permessi?»
«I nostri permessi!», urlò sempre più inviperita la signora Edler. «Ma se li ho
consegnati più di mezz’ora fa a quel pinocchio!»
«Eccoli, signor tenente. Mi sembrano in ordine. Tuttavia...»
Un altro silenzio. Il professore vedeva con la fantasia il tenente esaminare
sospettosamente quelle carte. Mezzo morto per l’ansia si sorprese a implorare con
fervore l’aiuto dell’Onnipotente, promettendogli fra le lacrime di mantenere a tutt’i
costi – se si fosse salvato – il suo giuramento di redimersi.
Mentre tremava e boccheggiava gli arrivò di nuovo la voce del tenente.
«Niente da eccepire! Queste persone stanno portando in Svizzera il corpo di Karl
Edler, il maestro di sci che fu abbattuto due giorni fa a Taube dalla polizia locale
mentre tentava di fuggire dopo aver insultato e percosso due dei nostri. So tutto sul
caso.»
Una pausa. Poi:
«Benissimo, signor tenente», balbettò il primo poliziotto.
Il professore per poco non svenne per l’enorme sollievo. Udì come attraverso una
nebbia fitta la Edler borbottare dei ringraziamenti, e sentì il furgone rimettersi
traballando in moto. Superarono lentamente il ponte... Il professore era infine in
Svizzera!
Il resto del viaggio fu compiuto senza nuove avventure. Arrivarono a Menasle
mentre i fanali delle strade si accendevano e l’odore aromatico della notte in
montagna cominciava a diffondersi nell’aria fredda. Perfino la signora Edler
sembrava soddisfatta di aver portato a termine senza intoppi quel viaggio.
Arrivati alla sua modesta casetta in una strada secondaria della città, accompagnò
lei stessa nella stanza degli ospiti al primo piano suo marito e l’autista che portavano
la bara. Spedito poi in cucina Franz a pensare alla cena, si accinse a preparare
secondo l’uso la camera mortuaria alla visita dei vicini.
Coprì prima di tutto la bara con una tovaglia ricamata e vi accese intorno quattro
candele. Dispose poi – pensando soddisfatta all’invidia che i suoi più cari amici
avrebbero provata davanti a quei tesori – sul cassettone e intorno tutt’i possessi
terreni di Karl: il bell’orologio d’oro con la sua pesante catena, le coppe d’argento,
gli abiti migliori del nipote, il denaro che era riuscita a farsi dare da Anton, e gli sci.
Dopo aver contemplato lei stessa teneramente quell’esibizione, scese infine a far
onore insieme al marito a un bel piatto di crauti con salsicce e coste affumicate di
maiale.
La Edler era appena uscita dalla stanza che il professore passò all’azione. Dopo
aver tolto senza troppa difficoltà le viti (che Rudi aveva avuto cura di fargli fissare
dall’interno) rovesciò il coperchio e uscì con precauzione dal suo guscio.
Mentre si stirava, e per “scongelarle”, piegava più volte le ginocchia, il pensiero
della sua preziosa libertà infine riconquistata gli salì alla testa come un vino potente.
Un istante dopo, gli occhi essendogli caduti sul cassettone, s’immobilizzò come un
cane che ha sentito l’odore della selvaggina. La sua espressione, l’acquolina che gli
era salita alle labbra, rivelavano chiaramente la difficile lotta interna che stava
sostenendo. Tentò invano, a varie riprese, di vincere quell’irresistibile tentazione.
Mentre, poco dopo, si lasciava sfuggire un lungo sospiro, le sue promesse
all’Onnipotente e l’impegno ferreo preso con la propria coscienza svanirono come
nebbia al sole. Avendo ritrovata la sua indistruttibile personalità il professore si
diresse verso il cassettone atteggiando le labbra al suo solito enigmatico sorriso.
Muovendosi con precauzione si tolse prima di tutto i cenci che aveva addosso e si
rivestì scegliendo ciò che poté trovare di meglio nel guardaroba di Karl. S’infilò
l’orologio nel taschino sbarrandosene con la pesante catena d’oro il panciotto, e buttò
in fretta nel borsone nero della Edler gli altri oggetti in mostra: le coppe d’argento, e,
per buon augurio e per arrotondare il suo bottino, la pendola e i candelabri di bronzo
dorato che troneggiavano sul caminetto. Si preoccupò perfino di mettersi in tasca il
passaporto del maestro di sci. Con i debiti ritocchi, decise, avrebbe potuto sottoporlo
benissimo al controllo distratto delle guardie francesi di frontiera.
Il professore non resisté alla tentazione di aggiungere, prima di squagliarsela,
un’ultima pennellata artistica alla sua opera. Scrisse a lettere cubitali sul foglio bianco
che foderava un cassetto: “Vado a colazione. Torno subito” e collocò bene in vista il
messaggio nella bara vuota.
Dopo aver fatto girare un’ultima volta lo sguardo nella stanza svaligiata afferrò la
borsa e sollevata la finestra si lasciò scivolare lungo il tubo dello scarico. Fu fuori del
cortile e sulla strada della stazione prima che Frau Edler avesse finito il suo maiale
con crauti.
Un’ora dopo, più che mai contenta di sé, la padrona di casa tornava nella camera
funeraria accompagnata da alcuni amici venuti a dare l’ultimo saluto alla salma. Si
fermò sulla soglia e dopo aver piegato piamente il capo entrò nella stanza.
Gli altri la videro fermarsi di colpo trattenendo un grido. Con gli occhi che le
uscivano dalle orbite e spalancando la bocca come un pesce lanciò infine, agitando
convulsamente le braccia, un urlo straziante. La vista della mensola nuda del
caminetto le fece modulare un’altra serie di gemiti disperati. Dopo essersi strappata i
capelli e morsa le dita girò sui tacchi e assestando al marito una manata violenta su
un orecchio stramazzò a terra mentre i presenti fuggivano atterriti dalla stanza come
se avessero alle calcagna il diavolo.
Diciassettesimo capitolo
Di ritorno a Vienna, quel giorno, Lewis camminava lentamente nella
Kärtnerstrasse, diretto all’Hotel Bristol. Da quella mattina a Breintzen, quando, con
poche, placide parole Schwartz aveva distrutto senza saperlo la sua felicità, erano
passate più di cinque settimane, – quasi quaranta giorni, durante i quali, ad onta dei
suoi sforzi instancabili, non era riuscito a ritrovare Sylvia. Piegando la testa
amaramente, con la faccia nascosta dal bavero rialzato del cappotto, Lewis Merrid
continuò a scendere soprappensiero la strada affollata. Era dimagrito e aveva intorno
agli occhi, che non sorridevano più, molte nuove, sottili rughe.
Poco dopo, aperta la porta dell’appartamento dell’albergo, entrava senza
preannunziarsi nel salottino che divideva con la sorella, fermandosi di colpo davanti
allo spettacolo che si offriva ai suoi occhi: Connie e Steve seduti sul divano,
teneramente allacciati.
Normalmente quella rivelazione avrebbe dovuto renderlo felice. Disperato com’era
Lewis si limitò a sorridere con una punta di amarezza mentre girava sui tacchi per
tentare di uscire non visto dalla stanza.
Ma Connie, che lo aveva udito, balzò arrossendo in piedi. Non meno confuso di lei
Steve, per darsi un contegno, finse di raggiustarsi la cravatta.
«Non ti abbiamo sentito entrare, Lewis», balbettò. «Voglio dire che... Che ora è,
scusa?»
Connie corse ad afferrare il fratello per i risvolti del cappotto.
«Abbiamo tardato a dirtelo», si giustificò, sinceramente emozionata, «perché... non
sapevamo come l’avresti presa...»
«Non volevamo importi la nostra felicità», intervenne Steve, buttandosi di nuovo
sul sofà e accendendosi una sigaretta, «in un momento per te così triste.»
Obbligandosi a sorridere, Lewis, dopo aver baciato la sorella, prese la mano di
Steve.
«Permettete che mi congratuli di cuore con tutti e due. Anche se, ve lo confesso,
non avrei mai creduto ché i vostri battibecchi sarebbero finiti così.»
Steve alzò comicamente gli occhi al soffitto. «Figurati se sono finiti... Dovresti
conoscerla, no, tua sorella. Connie non avrà pace finché non potrà ballare sul mio
cadavere!»
«Anche perché», saltò su la sorellina di Lewis, «so che il nero mi dona!»
«Non illuderti, faccia d’angelo!», tornò alla carica il suo futuro marito. «Prima di
tirare le cuoia ti strangolerò!»
«Dovrai aspettare anche per questo di essere a casa.» Connie si era fatta seria.
«Non permetterei mai all’uomo che debbo sposare di rimanere in momenti simili in
Europa. Il “Normandie” parte la settimana prossima. Che ne dici, Lewis? Non credi
che potremmo prenderlo?»
Seguì un silenzio pesante. Connie fissava intensamente il fratello, e anche Steve
sembrava aspettare con ansia una risposta.
Lewis prese sul basso tavolino una sigaretta e andò alla finestra.
«Forse hai ragione, Connie», disse infine. «Tu e Steve farete bene a prendere il
“Normandie”. Quanto a me... credo che mi tratterrò ancora un poco qui.»
«Perché non vuoi essere sincero con noi, Lewis?», proruppe sinceramente
addolorato Steve. «Non puoi sperare di scoprire più dove sia andata a nascondersi
Sylvia. E se anche la ritrovassi...»
«Steve ha ragione», intervenne Connie, interrompendolo. «Lo so, caro, quanto
tieni a lei. Ma dovresti ricominciare a preoccuparti anche dei tuoi affari, dei tuoi
amici, di te stesso...»
«Il guaio è proprio questo», la interruppe Lewis. «Che mi preoccupo di me.»
Connie e Steve si scambiarono in silenzio uno sguardo. La sorella di Lewis scosse
la testa come per dire al suo fidanzato che non c’era niente da fare.
Lewis si era buttato su una poltrona chiudendosi il capo nelle mani. In tutta la sua
vita non era mai stato più infelice. Quando poco dopo, si sentì bussare alla porta, non
sollevò neppure gli occhi. Fu Steve a gridare: «Avanti!»
Entrarono due uomini: un estraneo, un tipo magro e ossuto, in un completo scuro,
e... l’ometto che all’albergo “Hohne”, si faceva chiamare Oberholler.
Visibilmente emozionato il detective s’inchinò battendo militarmente i tacchi.
«Mi dispiace di disturbarvi», cominciò affannosamente, «ma non abbiamo potuto
assolutamente evitarlo.» S’interruppe per riprendere fiato. «Permettetemi di
presentarvi il signor Schuster direttore della “Equitable Company”.» L’uomo alto e
ossuto s’inchinò a sua volta. «Signori, signor Merrid, noi due siamo qui perché è
saltata purtroppo fuori una nuova, imprevista e imbarazzante complicazione...»
«Quale?», lo interruppe Lewis cominciando a manifestare un vago interesse.
«Ecco qua», riprese Oberholler. «Per appianare, diciamo, una sua pendenza con la
“Equitable”, lei ci versò tempo fa in contanti l’intero importo del valore attribuito agli
smeraldi rubati. Considerando il periodo eccezionale che attraversiamo i miei clienti
gliene erano stati particolarmente grati. E adesso... guardi qui!»
Dopo essersi frugato in una tasca interna, l’ometto ne tolse un morbido astuccio di
camoscio che aprì con dita nervose.
Sotto gli occhi affascinati dei presenti apparvero adagiati, come placidi occhi verdi
sulla pelle gialla, due smeraldi enormi, perfetti. Era incredibile poter vedere infine
quelle pietre famose, fantomatiche, che avevano alterato il corso delle loro vite e di
chissà quante altre.
«Dio mio», sussurrò con riverenza Connie, «come sono belli!»
«Naturalmente, signorina», confermò il direttore. «Sono i nostri smeraldi storici,
e...»
«Lasci stare la loro storia!», tagliò corto, rauco, Lewis. «Mi dica piuttosto dove li
avete trovati.»
Dopo essersi schiarita la gola il direttore della “Equitable” si tolse dal taschino del
gilé un gualcito promemoria.
«Li ha portati nel mio ufficio alle quattro e un quarto del pomeriggio di ieri una
signorina, o dovrei forse dire una giovane signora – che si è presentata come
signorina Rudi. Alle nostre domande si è limitata a rispondere, con una straordinaria
disinvoltura, che quei gioielli erano saltati fuori miracolosamente da un bastoncino di
sapone per la barba, e che poiché non sapeva che farsene – perché aveva un
appuntamento urgente col suo becchino su al Kriegeralp – aveva pensato di
portarceli. Ho mandato naturalmente subito a chiamare il nostro amico qui presente.
Ma purtroppo, per la prima volta, neppure lui è stato capace di consigliarci. Non
l’avevo mai visto così disorientato e smarrito.»
«Sì, è vero. Ma andiamo avanti!», gridò, ferito nel suo orgoglio professionale, il
piccolo detective. «È evidente», riprese, dopo essersi passato la mano sulla fronte,
«che prima di essere travolto dalla valanga Ullwin aveva fatto pervenire in qualche
modo gli smeraldi a Rudi, che, naturalmente non può essere incolpata di niente...»
«Venga per favore al punto», lo interruppe Lewis, sforzandosi di dominarsi e di
controllare il tremito della voce.
«Facendo seguito a ciò che le ha detto il nostro collaboratore», riprese il direttore,
«siamo stati dunque obbligati a lasciar ripartire quella giovane donna e a tenerci gli
smeraldi – anche se la loro improvvisa, inattesa riapparizione, aveva messo purtroppo
me e la “Equitable” in una situazione estremamente incresciosa...»
Lewis fremeva. «Le dispiace di spiegarsi meglio?»
«Mi conceda un momento e l’accontenterò. Il ristagno degli affari e le difficoltà
sempre maggiori in cui, dati i tempi, si dibatte l’industria, ci hanno obbligati
purtroppo a disporre già di quel denaro. E se, considerando che abbiamo riavuti gli
smeraldi, signor Merrid, dovesse ora pretendere la restituzione di quella forte
somma... temo che non...
Steve ruppe in una risata sonora.
«Questa sì che è bella! Lewis: ora il coltello per il manico l’hai tu!»
«Noi non la consideriamo una faccenda buffa», osservò risentito il direttore della
“Equitable”. «La nostra banca ha una reputazione secolare di correttezza
professionale. E per questa deplorevole storia potremmo ora arrischiare di perderla...
Amenoché...»
«Speravamo...», continuò a questo punto per lui, con foga, il piccolo detective, «di
poter indurre il signor Merrid a prendere in considerazione una nostra proposta... che
risolverebbe tutto. In breve, a lasciarci il denaro e prendersi gli smeraldi.»
«Affare fatto!», dichiarò senza esitare Lewis. «Vi avevo già detto, se ben ricordate,
che li compravo.»
«Mio caro, mio buon Merrid», se ne andò in brodo di giuggiole l’austero direttore
della “Equitable” (la fronte gli si era spianata, e, oh miracolo, gli si erano perfino
leggermente colorite le guance smorte), «il suo è davvero un gesto principesco...»
«Affatto», tagliò corto Lewis. «Ci tengo, a quegli smeraldi. Vorrei avere almeno
un ricordino di quest’avventura.»
Il banchiere si fece avanti e gli tese con un inchino il minuscolo involto.
Fu un’emozione straordinaria, per Lewis, vedersi sulla palma le due favolose pietre
verdi. Ne darò una a Connie come regalo di nozze, si disse. L’altra me la terrò... Un
giorno, non si sa mai, potrei averne bisogno.
«Ma che cosa è questo?», lo sentirono esclamare a un tratto.
Alludeva a una strisciolina di carta infilata in una piega della morbida custodia di
camoscio.
«Un bigliettino a cui attribuirà forse più valore che agli smeraldi», disse annuendo
con significato il piccolo detective. «Son davvero lieto di averglielo potuto
consegnare.»
Con una strana fitta al cuore Lewis lesse in cima al foglietto il proprio nome e un
indirizzo. Ecco quello che c’era scritto sotto: “Se non si è ancora stancato di cercare...
le consiglierei di fare una capatina al n. 5 C di questa casa. Troverà un
bell’appartamento con una vista magnifica. L’inquilino è in casa dopo le sei durante
la settimana e l’intera giornata la domenica. La sua amica dell’albergo ‘Hohne’,
Rudi.”
Sbalordito, Lewis rilesse di nuovo attentamente il messaggio. Quando gliene
apparve come in un lampo abbagliante il vero significato si precipitò gettando un
grido, e senza fornire una parola di spiegazione agli altri, verso la porta.
«Ehi!», gli gridò dietro Steve. «Ti sei impazzito?»
«Lewis!», cercò di richiamarlo Connie, «hai dimenticato il cappello!»
Il detective alzò sorridendo le spalle.
«Secondo me in questo momento suo fratello non potrebbe curarsene meno.» Batté
benevolmente sulla mano di Connie. «Ma non si preoccupi, mia cara signorina, il
signor Merrid non prenderà freddo.»
Diciottesimo capitolo
Lewis correva da qualche minuto a testa nuda nelle strade di Vienna. Non aveva la
più lontana idea di dove potesse trovarsi l’indirizzo che gli aveva fornito Rudi.
Ottenute infine da un vecchio molto cortese le indicazioni necessarie dové camminare
speditamente per più di un’ora prima di arrivare nel quartiere di Schönbrunn della
città.
Qui, non lontano dal Palazzo, trovò una vecchia piazza con al centro un giardino e
tutt’intorno delle alte dimore senza più traccia ormai del loro antico splendore,
scrostate dal sole e avvilite, ma che conservavano ancora le loro proporzioni
armoniose e un’aria di duchesse decadute.
Il n. 5 era stato trasformato, come quasi tutti gli altri palazzi della piazza, in
modeste case di appartamenti. Accanto al pulsante di un campanello Lewis vide
attaccato un bigliettino: “Frau Gestner – portiera”. Col cuore che gli batteva
febbrilmente, vi appoggiò l’indice. Lo premé di nuovo un istante dopo. Ma per colpa
della suoneria difettosa, o della signora Gestner, non ebbe risposta.
Non resistendo più spinse con forza il battente ed entrò nell’atrio vuoto. Salì
rapidamente le scale di marmo fino al terzo piano e corse a bussare alla porta del 5 C.
Sentiva arrivare dall’interno, fra i battiti incomposti del suo cuore, il ticchettio di una
macchina da scrivere. Infine una voce che avrebbe riconosciuta fra mille disse
stancamente «Avanti...»
Lewis girò la maniglia ed entrò.
Seduta a un tavolino nel vano di una finestra, Sylvia si chinava su una macchina da
scrivere. Non si voltò, udendolo entrare. Aveva accanto un cavalletto su cui erano
posati dei disegni buttati giù con estro ed eleganza: bozzetti di cartelloni, la copertina
di una rivista.
Vedendola Lewis sentì svanire in un attimo tutta la sua angoscia e la sua fretta.
Notò subito, profondamente addolorato, che Sylvia era molto dimagrita. Non è più, si
disse, che l’ombra di se stessa...
Passarono alcuni secondi. Poi, sempre senza voltarsi, lei disse, tranquilla:
«Frau Gestner, posi pure su quel tavolino, o dove le pare, la mia colazione. Non
posso muovermi», continuò dopo una pausa, «debbo finire assolutamente prima di
sera questi disegni.»
Rendendosi a un tratto conto della sua indiscrezione, atterrito all’idea di spaventare
Sylvia, Lewis non osò muoversi.
Come se si fosse resa infine conto che nella stanza non era entrata la portiera, lei si
raddrizzò di colpo. Mentre si girava lentamente soffocò a stento un grido. Nel
silenzio che cadde nella stanza il suo viso riprese l’espressione mesta e rassegnata di
prima.
«Non doveva venire qui.»
Lewis la vide tirarsi indietro, quasi intuisse che lui moriva dalla voglia di correre a
stringersela nelle braccia.
«La cerco da quella mattina a Breintzen, Sylvia», disse piano. «Non mi sarei
rassegnato a perderla.»
Lei scosse con forza la testa.
«Così non fa che rendere tutto più difficile... anche per me.»
«Anche per lei?» ripeté Lewis. «Può mai significare che... mi ama?» Dopo aver
distolto gli occhi Sylvia glieli alzò risoluta in viso.
«Tanto vale affrontare la verità, Lewis. Che io l’ami o no, importa poco», continuò
tristemente. «Fra noi c’è un’ombra che non è possibile cancellare. Non alludo a Karl
– quel capitolo della mia vita è ormai chiuso – ma alla somma enorme che lei versò
alla “Equitable” perché ritirassero la denunzia contro mio padre e ottenessero dalla
giustizia di condonargli il suo crimine. Lei sa quanto soffro di dover parlare così di
lui... non ho smesso di volergli malgrado tutto un gran bene e ne sento terribilmente
la mancanza. Ma non posso abolire i fatti. Dopo il suo gesto generoso è purtroppo
come se mio padre avesse rubato a lei quella forte somma. La mia convinzione è
questa, Lewis. E non potrò mai cambiarla.»
«Dimmi soltanto una cosa, Sylvia», pregò lui. «Tieni almeno un poco a me?»
Sylvia non aveva abbassato gli occhi. «Ti amo, Lewis. Non amerò mai nessun
altro.»
Lui si sentì travolgere da una felicità abbagliante.
«E vorresti rimanere egualmente ancora qui a sprecare il tuo tempo...?»
Sylvia lo interruppe agitata.
«Non lo sto sprecando. Lavoro, come vedi. Non posso affermare, piuttosto, che
guadagni molto. Ma un giorno riuscirò forse ad avere da parte abbastanza denaro per
poterti ripagare...»
«Gli smeraldi rubati?»
«Sì», ammise Sylvia. Non aveva più il coraggio di guardarlo.
Lewis sorrise.
«È davvero un peccato.» S’interruppe. «Perché, vedi, Sylvia, stamattina gli
smeraldi mi sono stati consegnati da parte di Fräulein Rudi...»
Impallidendo paurosamente lei si portò le mani alla gola.
«È perciò, dunque, che Rudi venne qui?», Lewis la udì dirsi piano.
«Certo.»
Sylvia non replicò; dopo essere avvampata era impallidita di nuovo. Abbassò gli
occhi e si attorse, per darsi un contegno, intorno alle dita nervose un filo del suo golf
di lana grigia.
«Ora l’hai capito», le chiese Lewis, «che non mi devi più niente?»
Il suo tono dolcemente ironico fece colare infine – come se fosse crollata una diga
– le lacrime bollenti che Sylvia faticava da un pezzo a contenere. Un istante dopo –
nessuno dei due avrebbero saputo dire com’era successo – erano uno nelle braccia
dell’altro.
«Oh, Lewis», singhiozzò Sylvia, «non puoi sapere che umiliazione spaventosa, che
torture atroci ho sofferto. Sentivo talmente la tua mancanza, a volte, che temevo che
il cuore mi scoppiasse...»
Gli aveva appoggiato la testa al braccio come un bambino che ha trovato infine un
rifugio sicuro.
Stringendola appassionatamente a sé lui si chinò a baciarle le labbra. E la vide
sorridergli attraverso le lacrime.
Diciannovesimo capitolo
Il “Normandie” stava per salpare per New York. Era il tardo pomeriggio e una
pioggia sottile, ostinata, sfumava la lunga forma del molo di Cherbourg e il profilo
scuro e compatto della città lontana. A bordo regnava la baraonda inevitabile. che
prelude immancabilmente alla partenza di un transatlantico.
Arrivato a rottadicollo un minuto prima, l’ultimo autobus della Compagnia
Marittima Francese aveva sbarcato gl’inevitabili ritardatari e il loro bagaglio
personale davanti al barcarizzo. Sui ponti superiori resistevano sotto la pioggia che si
era infittita pochi ardimentosi lupi di mare. Ma sotto, nei saloni e nei corridoi
brillantemente illuminati della nave, regnava un’allegra confusione. Un nugolo di
steward in giacca bianca correvano instancabilmente di qui e di là, carichi di fiori,
telegrammi, scatole di dolci e cestini di frutta, fermati continuamente da signore e
signori elegantissimi che cercavano le loro cabine o quelle dei loro amici. L’aria
risuonava di discorsi vivaci e di risa, punteggiati dai tonfi delle numerose bottiglie di
champagne che venivano sturate. Tutto sembrava auspicare un’ottima traversata in
una compagnia delle più eleganti e piacevoli.
Sul ponte “B”, con la tipica aria possessiva di una fresca sposa, Connie faceva
eccitata l’inventario di una comoda e spaziosa cabina, mentre dal letto dov’era
pigramente steso Steve la guardava sorridendo.
«Tornare finalmente a casa è molto bello, debbo ammetterlo», sospirò soddisfatto.
«Con me», si affrettò a completare Connie.
«Con te, certo», approvò Steve. «E con Lewis e Sylvia.»
Connie rise di cuore.
«Non sei molto galante, caro! Ma è veramente bello, lo riconosco anch’io,
ritrovarci infine tutti e quattro insieme. Sarà certamente una traversata da ricordare.»
Steve si accese una sigaretta e mandò verso il soffitto una lunga spirale di fumo.
«Ora che sono entrato nella tua famiglia, cara, mi permetterai, spero, di dirti quello
che penso. Quel tuo fratello è davvero un uomo eccezionale e sono felice che tutto
abbia finito per andare come desiderava. È stato molto generoso a regalarti uno degli
smeraldi.»
«L’idea è stata di Sylvia, amore. Giurerei che Lewis avrebbe voluto darglieli tutti e
due.»
«Sai, Connie, se ci ripenso... ho un solo rimpianto.»
«Quale?»
Sentirono bussare alla porta e un minuto dopo Lewis e Sylvia entrarono sorridendo
nella cabina.
«Dovremmo essere sul ponte», disse Lewis, «a dare un ultimo addio romantico alla
vecchia Europa sotto la luna. Ma poiché la luna non c’è e comincio a sospettare che
siamo tutti un po’ stufi della vecchia Europa, ho pensato di venire invece a bere
quaggiù un gin con voi.»
«Magnifica idea», approvò Steve. «Che cosa vogliamo ordinare?» Sollevò senza
alzarsi il ricevitore dell’apparecchio accanto al letto e chiese al bar i liquori.
«Connie ed io», riprese, «stavamo rievocando – come due coniugi, attempati – la
nostra avventura. È stata divertente, in fondo, finché è durata. Ho un solo
rimpianto...», ripeté e si voltò come se volesse chiedere scusa a Sylvia. «Il professore.
Era un truffatore e un pagliaccio, lo so, ma non si poteva resistere al suo charme.
Avevo finito per volergli bene, lo confesso. E mi dispiace molto che ci abbia
lasciati».
«Zitto», gli sussurrò Connie, guardando Sylvia che udendo nominare il padre era
impallidita.
«Lo dico sinceramente, e Sylvia lo sa: sono sempre stato per il vecchio, io, anche
se mi aveva pelato al poker. Propongo che quando arriveranno i drink ci alziamo per
berli alla sua memoria. Qualunque cosa si possa dire di lui, il professore è caduto
combattendo».
«I liquori sono qui, signore»
Entrato da qualche minuto col vassoio senza che nessuno se ne accorgesse, lo
steward aveva ascoltato, sorridendo come se approvasse, la proposta.
«Grazie», gli disse, voltandosi, Steve. E per poco non svenne.
Tutti fissavano trasecolati la figura rotondetta, la testa calva e la faccia benevola
dello steward piantato davanti a loro nella sua tenuta impeccabile – giacca bianca dai
bottoni dorati e calzoni neri –, con sulle labbra il sorriso deferente del cameriere di
classe.
«Papà!», esclamò infine in un soffio Sylvia.
«Sì, bambina mia, hai davanti a te il tuo indegnissimo genitore», dichiarò il
professore venendo a metterle umilmente il braccio intorno alle spalle.
Steve continuava a borbottare scongiuri pittoreschi come per esorcizzare un
esercito di fantasmi.
«Non può essere lui!... È morto, no?», protestò di nuovo.
«Lo sarei, caro ragazzo», replicò alzando gli occhi al cielo il professore, «senza la
sublime, infinita misericordia della Provvidenza. Come forse immaginate, invece di
distruggermi quella valanga si limitò a sputarmi a un certo punto fuori. Ricordate
l’immagine di quel poeta di cui ho dimenticato il nome? “...una pagliuzza
nell’uragano, un turacciolo in un torrente...” È più o meno quello che provavo... Ma
Dio volle salvarmi, perdonarmi i miei neri misfatti. E dopo sofferenze e difficoltà
inaudite riuscii non solo a sopravvivere ma a varcare la frontiera. E leggendo qualche
giorno fa nell’edizione continentale del “Dispatch” la notizia meravigliosa del vostro
doppio matrimonio e della vostra decisione di tornarvene tutti e quattro in America
col “Normandie” mi precipitai all’agenzia di Parigi della società. La fortuna volle
assistermi di nuovo e ottenni un modesto ingaggio di cameriere su questa nave. Mi è
stata così concessa la grande felicità di potermi riunire a voi e d’iniziare forse –,
avendo rinnegato per sempre il passato, una vita nuova e migliore sul grande
continente americano dove siete diretti».
Il breve silenzio che seguì il fervorino ispirato del professore fu improvvisamente
rotto dalla risata gorgogliante che Connie non riusciva a trattenere. Un minuto dopo
ridevano tutti con le lacrime agli occhi. Quando si furono un po’ calmati Lewis tese
la mano a Ullwin.
«Siamo tutti sinceramente felici di riaverlo con noi, professore. Lo aiuterò
volentieri. Ma, si ricordi...
...«che deve rigare dritto!», finì fermamente per lui Steve.
Il professore si premé con un gesto solenne la mano sul petto.
«Ti prometto, caro ragazzo, con tutta l’emozione che mi trabocca dal cuore, che
sarò d’ora in poi non un angelo, ma un arcangelo – anche se dovessimo giocare per
caso di nuovo insieme a poker». Piegandosi si riempì dallo shaker un bicchiere e lo
sollevò. «E adesso, col vostro permesso, vorrei fare un brindisi. Possa il futuro essere
per tutti i presenti sempre felice e virtuoso!»
Dopo aver atteso che anche gli altri sollevassero i bicchieri il professore vuotò il
proprio strizzando solennemente l’occhio al cielo.
FINE
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