2007 SERVIZIO SANITARIO REGIONALE EMILIA-ROMAGNA Azienda Unità Sanitaria Locale di Rimini SENZA SPARTITO Quaderni ASRI Ricordi e riflessioni su un ventennio di esperienze educative prima parte 93 A cura di Pretelli Settimio e Gilberto Mussoni Pretelli Settimio ha iniziato ad operare come educatore in una cooperativa sociale circa vent’anni fa. Nel 1994 si è laureato in sociologia e ha acquisito il titolo di educatore. Da allora in avanti ha vissuto varie esperienze professionali (come educatore, dirigente, formatore) e dal 1998 opera come educatore presso il Centro di Salute Mentale dell’AUSL di Rimini. Gilberto Mussoni lavora da molti anni come educatore presso l’Ausl di Rimini. Ha operato a contatto con persone con problemi psichiatrici, nel ruolo di coordinatore su problemi connessi al lavoro educativo con persone cosiddette disabili e con minori a disagio, nella formazione professionale. Da tempo si occupa della documentazione-narrazione di esperienze professionali di carattere socio-sanitario. Pretelli Settimio Senza spartito Ricordi e riflessioni su un ventennio di esperienze educative Prima parte (a cura di Gilberto Mussoni) Dedicato a D. e C. INDICE In forma di presentazione ......................................... pag. 7 Nuove musiche…senza spartito .............................. pag. 8 Prima intervista ........................................................ pag. 10 Seconda intervista .................................................... pag. 33 In forma di presentazione Mi sono incontrato la prima volta con Settimio (Tino) nel 1991. Avevo allora poco più di dieci anni di lavoro educativo alle spalle. Lui due. Abbiamo allora lavorato insieme per un certo numero di anni in un gruppo educativo (io come coordinatore, lui come educatore) e ci siamo poi incontrati nuovamente nel secondo Corso biennale di qualificazione su lavoro per educatori professionali (allora ero responsabile del corso, lui corsista). Dopo questa significativa frequentazione ci siamo visti e sentiti per anni in varie occasioni (in qualche attività formativa, in qualche evento pubblico, in occasioni casuali, per strada, per telefono per chiedere e scambiarci qualche informazione) solo di sfuggita, velocemente, come ormai accade sempre più anche fra chi vive vicino, fianco a fianco. Alcuni mesi fa lo vedo arrivare al servizio in cui ora lavoro per chiedermi una collaborazione. Mi dice che vorrebbe raccontare i suoi vent’anni di lavoro educativo. Non ama molto scrivere. Nasce così l’idea delle interviste. Benché conosca a grandi linee il suo percorso lavorativo gli chiedo di farmi un sintetico riassunto della sua attività per avere una traccia da seguire e iniziamo ad incontrarci. Io faccio domande, forse troppe, e lui racconta la sue esperienze. Ogni tanto le mie domande cercano di far emergere il suo pensiero su alcuni punti vitali della sua professione, sul suo modo di intendere il lavoro educativo. Nel mentre lui racconta e ragiona scopro qualcosa di lui e di me. Lo interrogo e mi interrogo. Misuro le distanze, le vicinanze, le sovrapposizioni. Partiamo senza sapere bene quante interviste saranno necessarie. Ci fermiamo a quattro. Dopo averle trascritte (un aiuto importante è venuto a riguardo da sua figlia che qui colgo l’occasione per ringraziare) le abbiamo riviste insieme una per una, aggiustate, trasformato il parlato in scritto, tolto qualche ripetizione, riscritto qualche ragionamento contorto. La lettura del testo da parte di un amico comune, Primo Pellegrini, ha sollecitato alcune sue riflessioni che precedono le interviste. Non penso che il testo che presentiamo abbia bisogno di tanti discorsi introduttivi. Un presupposto anima questo lavoro e altri simili: ascoltare attentamente le esperienze professionali di altri colleghi, cercare di comprendere il loro modo di viverle ed interpretarle è una (non la sola, né necessariamente la migliore) strada per interrogare la propria esperienza, per ripensare e migliorare il nostro modo di lavorare e di essere. La lettura di questo libretto è a mio parere un’occasione per vivere questa esperienza e sottoporre ancora una volta a verifica questo presupposto. Ringrazio Tino per l’opportunità che mi ha dato e mi auguro che, soprattutto tra gli educatori, ci siano altri che sappiano coglierla. Gilberto Mussoni 7 Nuove musiche… senza spartito Fra i mestieri e le professioni ve ne sono sicuramente diverse che possono assumere talvolta connotati di straordinarietà. Per la portata sociale, o per l’impegno, o per i riconoscimenti che il prodotto del loro ingegno e della loro dedizione meritano. A volte a ragione, a volte no. Il mestiere di educatore – utilizzo il termine “mestiere” e non professione perché nel caso di queste interviste mi sembra più appropriato – ha una storia antica e molto spesso straordinaria, eppure non ha mai entusiasmato le folle, non ha mai creato né miti né eroi. Neanche fra gli stessi educatori ed educatrici. E non a caso: immagino Ferrer, Don Milani, Makarenko, per fare qualche esempio, portati su di un palco a ricevere applausi e non riesco a non immaginarli immediatamente con una smorfia di disgusto per tanto inutile, futile clamore. Li immagino schernirsi e alzarsi il bavero con pudore, nascondersi , sperando che “i loro ragazzi” non li vedano. Si tratta solo di una mia piccola suggestione, o se volete di una allucinazione. Ma il mestiere di educatore, di educatrice, si fa in silenzio, spesso da soli. Si fa lontano dai riflettori, a volte distanti dal mondo, perché spesso è necessario rimanere da soli, in due, con la persona di cui ci si prende cura, e nessuno deve entrare in quello spazio magico e speciale, così difficile da costruire e difendere. Uno spazio non codificato, sempre diverso, sempre da reinventare. Costi quel che costi, a costo di scomparire, per un po’, insieme. Superando la rabbia e la frustrazione che assalgono quando, al ritorno da questi “spazi”, qualcuno dirà che non si capisce cosa ha fatto l’educatore in quel tempo, a cosa è servito, come è misurabile il suo lavoro… e magari irridendo dirà che sì, in fondo non è un lavoro, non è una professione, che siamo solo inguaribili Peter Pan che si baloccano con i loro utenti. Credo fermamente nel valore della formazione specifica, come nell’aggiornamento costante, nel lavoro in equipe, nella necessità della supervisione, nel confronto con le altre professioni sociali e sanitarie: non penso si possa prescindere da tutto questo, si tratta di strumenti di lavoro indispensabili. Ma credo altrettanto che non si possa continuare a lungo il mestiere di educatore senza la curiosità e la passione di un viaggiatore amante dell’avventura. So che questi termini possono suonare blasfemi e irriverenti, accostati ad una quotidianità fatta di sofferenza e dolore, la materia del nostro lavoro: al tempo stesso, non riesco ad immaginare come altrimenti si potrebbe tollerare di entrare ed uscire così disarmati, così poco potenti, 8 dentro a quegli spazi di cui parlavo poco fa. Spazi che a volte fanno davvero paura, spazi in cui altri entrano armati di tutto punto, da appartenenti a professioni forti, con settings, ruoli, tabelle di marcia rigorose e definite. Gli educatori e le educatrici ci entrano con davvero poche armi, e forse non è un caso se tanti e tante di noi erano e sono nonviolenti e pacifisti: non c’è guerra se non ci sono eserciti, non servono armi se non c’è guerra. E’ davvero, credo, questa passione e curiosità di conoscere l’altro, anche nei suoi aspetti più difficili e a volte terribili, a mantenere viva la speranza e l’idea di poter raggiungere insieme a lui, al suo fianco, un cambiamento che a volte sarà talmente piccolo, impercettibile, da non essere notato dai più. I riconoscimenti e gli applausi vanno ai grandi direttori di orchestra o alle star, e non a chi suona senza spartito improvvisando nelle stazioni della metropolitana: così nella loro quotidianità fatta di silenzioso anonimato gli educatori a volte cercano di tirare fuori melodie sempre nuove da strumenti che sembrano irrimediabilmente stonati, magari scartati. Né vorrebbero che succedesse altrimenti, né potrebbe diversamente avvenire: stare lontani dagli applausi e dai riflettori è necessario. A volte, spesso, occorre suonare senza spartito, proprio come dice Settimio: perché non esistono musiche a cui quegli strumenti siano riconducibili, e, allora, bisogna provare a comporne di nuove. Primo Pellegrini 9 PRIMA INTERVISTA 10 G. Iniziamo dunque questo lavoro, questa esperienza. Non è trascorso molto tempo da quando me ne hai parlato la prima volta. Vedo e sento che c’è in te una certa urgenza e determinazione a intraprenderlo. Prima di iniziare a ricostruire la tua storia, avrei piacere di capire un poco perché, dopo anni che fai questo tipo di lavoro, hai deciso di cercarmi per raccontare, narrare, la tua esperienza lavorativa. Dopo che mi hai parlato di questa tua intenzione, mi sono fatto più volte questa domanda senza rivolgertela… Forse non è il modo migliore di iniziare questo nostro lavoro ma… T. Come educatore ritengo di avere avuto un’esperienza un po’ anomala rispetto alla media dei miei colleghi, sia per come ho iniziato a fare questa professione sia nel come si è poi evoluto il mio percorso lavorativo. Spero che nel proseguo delle interviste questa anomalia emerga e venga descritta. Ho cominciato il lavoro come educatore domiciliare nell’89 all’interno della Cooperativa C.A.D. (Cooperativa Assistenza Domiciliare). Oltre ad andare nelle case dei minori a svolgere il mio nuovo lavoro, e aver poi successivamente e parallelamente operato in un piccolo gruppo educativo e in centro estivo, mi sono trovato subito impegnato anche, contemporaneamente, all’interno della cooperativa. La direzione della Coop CAD era a Forlì, nella zona di Rimini c’era allora solo un ufficio aperto due ore alla settimana, senza regolarità. Assieme ai miei colleghi ho iniziato ad organizzare riunioni e a chiedere ai responsabili della cooperativa la possibilità di organizzare meglio l’ufficio di Rimini per permettere a noi educatori di questa zona di avere contatti regolari con lo stesso. Questo impegno mi ha consentito poi di ricoprire molti ruoli al suo interno: come quadro, come Consigliere di amministrazione, come facente parte della R.S.U. (Rappresentanze Sindacali Unitarie) degli operatori prima e dei quadri, come dirigente. Nel 1996 mi sono licenziato dalla Coop e, per la durata di un anno e mezzo, ho lavorato sempre come educatore, presso il C.E.I.S. (Centro Educativo Italo Svizzero). Nel 1998 sono ritornato alla Coop C.A.D. per poter lavorare al C.S.M. (Centro Salute Mentale) dell’AUSL di Rimini dove tuttora, dopo aver vinto un concorso, opero. Da un certo punto ho svolto poi anche una certa attività di insegnamento… Ho lavorato in vari contesti, in vari luoghi, ho ricoperto varie funzioni. Penso che raccontare la mia esperienza e rifletterci sopra, mettere a disposizione di altri questo mio racconto, possa essere in qualche modo utile ai miei colleghi, in particolare ai più giovani… G. Ma perché proprio ora è nato in te questo desiderio? Perché, che so io, non due o tre anni fa? T. Perché credo che quasi vent’anni di vita professionale di una persona sia un tempo significativo per poter svolgere su di essa una riflessione. Ancora più ragioni ci sono poi per una professione come quella educativa nata, almeno in questo territorio, con noi. Non siamo andati a fare una professione stabile e definita come quella dei ragionieri o degli Infermieri, che sono categorie ben consolidate e già in possesso di un albo professionale. La nostra professione è nata assieme a noi ed è bene che dell’esperienza di Rimini ci sia una qualche testimonianza. Considera poi che è stata una fase della mia vita altamente positiva, un’esperienza che non sta volgendo al termine, che tuttora continua. Sono sempre in attesa di potermi addentrare in situazioni diverse, nuove. G. Hai iniziato a fare l’educatore nel 1989, prima svolgevi un altro lavoro. Che cosa è successo? Cosa ti ha fatto cambiare strada? T. Facevo il commerciante. Per 13 anni ho gestito una Stazione di servizio, un distributore di benzina, assieme a mio fratello. Il lavoro, seppur pesante, mi piaceva, mi consentiva di stare in mezzo alla gente, cosa che io amo! In primavera un mio carissimo amico (Primo) mi dice che ha cominciato a fare un lavoro che sentiva adatto a lui e a suo parere anche molto adatto a me. Ha motivato quest’affermazione dicendo che avevo già una figlia, che ero iscritto all’università e che vedeva il mio carattere congeniale a quel lavoro. . G. Da quanti anni eri iscritto all’università? T. Frequentavo il terzo anno della Facoltà di Sociologia a Urbino. G. Quindi è stato Primo ad indirizzarti verso questo lavoro? T. Sì. Cercò di spiegarmi in cosa consisteva il lavoro di educatore domiciliare. A dire il vero, non riuscii a capire bene di cosa stesse parlando e così il dialogo in un primo momento si chiuse. Lavoravo in 11 una stazione di servizio! Poi mi spiegò che anche sua moglie aveva appena intrapreso quel lavoro. Durante l’estate di quell’anno mi resi conto di essermi stancato di fare il gestore del distributore, anche perché avevo avuto qualche problema di troppo. In settembre, durante una cena a casa di Primo, gli chiesi altre informazioni sul suo lavoro. Mi rispiegò a grandi linee di cosa si trattava e cominciai ad incuriosirmi. Senza perdere ulteriore tempo mi recai subito, nella settimana successiva, presso l’ufficio di Rimini della Coop. Preparai i documenti necessari e chiusi l’iscrizione alla Camera di Commercio di Rimini. Il lunedì successivo iniziai a lavorare come educatore. Rispettai i tempi burocratici, non feci niente di irresponsabile. Su indicazione della referente della Coop. mi presentai alle due Assistenti Sociali (con le quali collaboro tuttora) in via Bonsi dove erano situati gli uffici della U.S.L.. Mi presentarono la situazione di due ragazzi minori e di lì a poco cominciai gli interventi. Ricordo che nei corridoi incontrai anche una responsabile della U.S.L. che era mia cliente al distributore la quale mi chiese cosa stessi facendo in quella sede. Io risposi : “Ho avuto un incontro con due assistenti sociali, sono il nuovo educatore non mi vedi?!”. Scoppiammo tutti e due in una fragorosa risata! 12 G. La prima assistenza domiciliare dopo quanto tempo è cominciata? T. Di lì a pochissimi giorni perché le assistenti sociali mi comunicarono che avevano urgenza di affidare questi casi a uomini (mi dissero che mi aspettavano a braccia aperte). In quel periodo, se non ricordo male, io e Primo eravamo gli unici uomini presenti in Coop a Rimini. I primi casi che mi affidarono furono una bambina di 7 anni che viveva con la madre (ragazza madre) e un ragazzino di 11 che viveva, anche lui, con la madre separata. In entrambi mancava la figura maschile in casa. G. Che tipo di problematiche c’erano? T. I problemi erano dovuti all’assenza della figura maschile! La ragazzina, che non aveva mai avuto nessun tipo di assistenza domiciliare, viveva da sola con la madre la quale aveva qualche problema economico, sociale, personale. Il ragazzino, invece, frequentava le scuole medie, viveva con la sola madre ammalata e separata, aveva bisogno di una assistenza per recuperare un ritardo in ambito scolastico. Erano i primi anni che i servizi praticavano questo tipo di interventi. Allora, non come ora, c’erano disponibilità economiche anche per questo. Con l’andare del tempo non si è più fatta attività educativa a partire dal recupero scolastico, si è sempre più intervenuti solo in situazioni di minori portatori di handicap gravi o medio gravi. A parer mio e dei miei colleghi quegli interventi erano molto utili, sia per i minori che per le famiglie. Si entrava all’interno delle famiglie con la “scusa” di aiutare i ragazzi nello svolgimento dei compiti, in realtà si cercava di capire la natura delle problematiche presenti per cercare di attuare un intervento sull’intera famiglia. Ti racconto un aneddoto recente: la settimana scorsa ho incontrato per caso il ragazzino di cui ho parlato ora, che non avevo più rivisto da allora; mi ha riferito di essere sposato, di avere due figli e di lavorare in società con suo suocero. G. Se ricordo bene hai avuto anche il caso di un ragazzino più grave… T. Era un ragazzino chiuso, faticava a socializzare con i coetanei. Era scontroso, litigioso, con un livello di autostima molto basso. Andava d’accordo con gli adulti, aiutava le vecchiette ad attraversare la strada; quando arrivava nel campo di calcetto, iniziavano i guai! Dei compiti non si parlava. I genitori litigavano costantemente, il padre aggressivo aveva fratturato in un paio di occasioni le costole alla moglie senza che questa, per paura, lo denunciasse. Ricordo che il padre durante l’unico colloquio, a cui si presentò, con la assistente sociale di riferimento del ragazzo, ammise “candidamente”: “Mio padre mi parlava a suon di schiaffi e io so fare solo questo con mio figlio”. G. In quali zone lavoravi? T. Principalmente nelle zone di Villa Verucchio, alle Celle e a Viserba. G. Hai un aneddoto da raccontare in riferimento al tuo primo giorno di lavoro? T. Si. Anche molto divertente, a mio parere. Quando non era possibile farsi presentare alle famiglie dalle assistenti sociali, noi ci recavamo da soli al domicilio. Ci descrivevano il caso ci fornivano l’indirizzo dell’abitazione e… vai! Quasi sempre avvertivano la famiglia con una telefonata fornendo il nome dell’educatore. In occasione del mio primo domiciliare suono al campanello dell’abitazione. Mi risponde la signora domandando chi fosse. Rispondo presentandomi come “l’educatore”. Allora la sentii chiamare la figlia dicendole di far presto perché era appena arrivato “il maestro”. L’associazione della madre era subito fatta: la bambina 13 frequenta le scuole elementari, allora io ero il maestro! Sono entrato in casa, ci siamo presentati, abbiamo fatto i compiti e dopo un’ora e mezza me ne sono andato dando loro l’appuntamento per il giorno successivo. Subito dopo mi reco dall’altro ragazzino che frequentava le scuole Medie. Suono il campanello e anche qui mi risponde la madre. Mi ripresento come “l’educatore”. La signora chiama il figlio dicendo che era appena arrivato il professore. Anche qui l’associazione è stata subito fatta: mi sono messo a ridere da solo! A sera al ritorno a casa ho detto a mia moglie: “Sai oggi nella prima ora di lavoro sono diventato maestro e nella seconda professore, se continua di questo passo in una settimana diventerò presidente della Repubblica!” 14 G. Un buon inizio, non c’è che dire… Quindi facevi assistenza domiciliare prevalentemente in situazioni in cui era necessario un sostegno per il recupero scolastico. Come era organizzato il lavoro? T. L’assistente sociale era colei che conosceva i ragazzi e che decideva il tipo di intervento da attuare sul minore. Chiamava l’educatore, gli presentava il caso e gli presentava il progetto con tanto di durata dell’intervento, numero di ore a disposizione. Per esempio nel caso della ragazzina il mio orario era di un’ora e mezza al giorno, dal lunedì al venerdì. Per l’altro ragazzino avevo a disposizione quattro ore suddivise in due giorni alla settimana. Questo esclusivamente per consentire la copertura dei compiti settimanali. Gli orari si stabilivano con le famiglie seguendo le loro esigenze e tenendo conto della disponibilità oraria dell’operatore. Era difficile riuscire ad incastrare gli orari in maniera ottimale al fine di avvicinarci il più possibile alle 36/38 ore settimanali per avere uno stipendio adeguato. Venivamo pagati a ore e comunque pagati poco: tuttora la paga oraria prevista dai contratti nazionali delle cooperative sociali è bassa. Lavoravamo con il sistema “a caselle”. Conservo ancora a casa i piani di lavoro settimanali forniti dalla Coop. Ti davano l’idea immediata dei tuoi impegni settimanali. Le caselle vuote costituivano per noi operatori una specie di “muri del pianto” in termini di stipendio, perché significavano ore non lavorate e quindi non retribuite. Mediamente si riuscivano ad organizzare tre interventi al giorno per una media oraria di sei ore al giorno per sei giorni settimanali. Erano possibili anche cambiamenti in itinere sia per esigenza della famiglia che dell’operatore. In termini di copertura oraria, noi uomini, dato l’esiguo numero, eravamo certamente favoriti. Ricordo che dovevo combattere più con l’esubero delle ore (che per contratto andavano in flessibilità) che con la carenza di orario! Andavano considerati anche gli spostamenti: in una giornata poteva succedere di dover partire da casa (Rivazzurra di Rimini) per recarmi a Villa Verucchio; di qui alle Celle per raggiungere poi Spadarolo. Come si può notare i chilometri erano tanti e il rimborso spesa era minimo (fra l’altro non previsto dal CCNL, ma riconosciuti come condizione di favore dal regolamento interno C.A.D.). Diciamo che sia da parte della Coop che dell’operatore una media oraria di 25 ore settimanali erano già soddisfacenti e più aumentava l’anzianità di servizio, più miglioravano le cose! G. Con che criterio assegnavano ai maschi i casi? T. Secondo me e secondo i miei colleghi i criteri principali erano almeno due: la carenza della figura maschile nelle famiglie degli utenti e il problema del contenimento di utenti aggressivi! A volte la scelta non avveniva in base al fatto che l’uomo è più forte e ha più muscoli, era il ragazzino stesso che sentiva l’uomo più capace di “contenerlo” a livello psico-fisico. G. Avevi qualcuno che ti seguiva dal punto di vista educativo in Coop o avevi soltanto, come sostegno e spazio di confronto, i colloqui con la assistente sociale? Ogni quanto avvenivano gli incontri di verifica e/o di programmazione degli interventi? T. Il confronto sui casi avveniva con le assistenti sociali. Dipendeva dai casi e dalle assistenti sociali, mediamente ci si incontrava una volta al mese o all’occorrenza. Era un buon supporto, il problema si poneva nel caso di esigenze urgenti. Ad esempio: se il colloquio era avvenuto il giorno prima di un’urgenza, in caso di necessità avrei teoricamente dovuto aspettare un mese per avere un aiuto. G. Con quali tipo di risorse hai iniziato a lavorare? T. Non avendo avuto nessun tipo di formazione (all’atto dell’assunzione dovevamo solo dimostrare di essere in possesso di un diploma delle scuole superiori di qualsiasi indirizzo. Le ragazze in possesso del diploma delle scuole magistrali erano in maggioranza perché era considerato il diploma più “attinente”) l’esperienza personale di ognuno di noi era fondamentale! Nel mio caso è stata importante, e l’ho sempre ribadito, anche nel libro che hai scritto tu (“Nonostante tutto” di Gilberto Mussoni N.d.R.), la mia età anagrafica. Quando mi 15 presentavo a domicilio avevo 35 anni, non ero “un ragazzino”! I consigli che fornivamo erano accettati meglio dalle famiglie se provenivano da un adulto piuttosto che da un ragazzino; il rischio era altrimenti di essere poco credibile! Era fondamentale acquistare subito credibilità con le famiglie che frequentavamo a domicilio. In coincidenza con l’iscrizione di mia figlia alla prima elementare c’è stata poi la mia alla Facoltà di Sociologia a Urbino. È stato il coronamento di un vecchio sogno: iscrivermi alla facoltà di sociologia nella mia città natale. Gli studi approfonditi in questa facoltà mi sono stati utili nel lavoro educativo. Ho potuto affrontare anche temi verso i quali avevo un particolare interesse come quelli riguardanti la devianza, i gruppi, i piccoli gruppi, l’urbanesimo, le classi sociali, il fenomeno della scolarizzazione, la pedagogia moderna, etc. Sono tutte conoscenze che nel tempo mi sono ritornate utili. 16 G. Dicevi, so, che hai lavorato anche in un Centro Estivo di Bellaria. Quale era la fascia d’età dei bambini? T. Era quella delle elementari/medie. Le istituzioni avevano l’obbligo scritto o non scritto - di seguire i ragazzi di questa fascia d’età. E c’era richiesta di questi interventi educativi. Naturalmente i casi “più difficili” erano seguiti a domicilio anche d’estate. Ho seguito un caso anche d’estate, proprio per non perdere il rapporto con il ragazzo e la famiglia. G. Perché sei stato chiamato presso il Centro Estivo di Bellaria? T. Il comune di Bellaria/Igea Marina dava in appalto il Centro Estivo alle cooperative e la C.A.D. era riuscita ad aggiudicarselo. Fino ad allora erano stati impiegati solo operatori di Cesena e Gatteo. Il Comune garantiva l’apertura del Centro dalle 8 di mattina alle 18 circa del pomeriggio nei mesi di luglio/agosto. In luglio raggiungevamo un numero pari a 120 bambini con 11 educatori e un coordinatore; in agosto scendevamo tra gli 80 e i 90 con 8 educatori e sempre un coordinatore. La posizione in cui si trova Bellaria/I.M., consentiva di richiedere anche operatori di provenienza del mio territorio; così io, Primo ed altri, siamo stati i primi educatori di Rimini a lavorare in quel Centro estivo riuscendo in tal modo a lavorare anche nell’interruzione del calendario scolastico. Invece nel secondo anno del C.E. di Bellaria ho lavorato solo nel mese di luglio con la qualifica di educatore. Alla fine dello stesso mese ho ricevuto una telefonata da parte di una mia responsabile, la quale mi comunicava che nel mese di agosto la mia mansione, all’interno del centro estivo, sarebbe cambiata: avrei dovuto fare l’animatore. Questa telefonata è capitata nel mezzo di una mia giornata lavorativa nel momento del pranzo di tutto il C.E. Mi aveva letteralmente preso alla sprovvista: non avevo mai fatto l’animatore. Mentre la responsabile di fronte alle mie titubanze cercava di tranquillizzarmi, provai a chiedere un po’ di tempo per poter riordinare le idee. Lei continuava imperterrita ad insistere, ripeteva di non preoccuparmi. A suo parere avrei fatto sicuramente un buon lavoro ma continuavo ad essere perplesso. Per tagliare corto è emerso che il Comune, per questo ruolo, voleva una figura maschile con precedente esperienza al C.E. e che conoscesse pertanto i ragazzi. In definitiva, anche questa volta, mi avevano messo in condizione di non poter rifiutare. G. Forse qualcuno nella COOP. aveva notato certe tua capacità, certe tue caratteristiche personali, come l’humour, la tua facilità di stare in mezzo alle persone o la disinvoltura ad intervenire in situazioni di gruppo come le assemblee, caratteristiche che possono predisporre a fare il lavoro di animazione… T. In effetti mi piaceva “animarle” le assemblee C.A.D., magari con interventi “pittoreschi”, a volte “provocatori”, apprezzati e condivisi sicuramente più dagli operatori, che dai dirigenti. Ritornando al discorso di prima, io di animazione non ne sapevo più di tanto. Non avendo avuto nessun precedente da cui carpire idee o spunti, ho deciso di inventarmelo questo nuovo ruolo. Sono andato in libreria e ho acquistato quattro testi che trattavano temi come giochi di gruppo (piccoli e grandi), giochi all’aperto, al chiuso, giochi di ruolo, giochi in spiaggia, al parco e via dicendo. Come sfondo integratore del C.E. in quell’estate, avevamo individuato quattro grandi temi: acqua, aria, terra e fuoco. Io ne avevo scelti due, terra e aria, e su quelli avevo lavorato, anche con grande collaborazione da parte dei miei colleghi (eravamo molto uniti e loro erano molto contenti che fossi io l’animatore). Gli altri due temi, fuoco e acqua, li organizzava un animatore professionale dall’esperienza ormai collaudata, quindi sicuramente molto più abile di me. G. Hai scoperto così questa tua nuova abilità. In fondo animatore e educatore sono due professioni cugine, hanno una affinità stretta, però non tutti gli educatori sono animatori e viceversa. 17 18 T. A dire la verità proprio in quegli anni, e questo ci dovrebbe servire per riflettere sulla nostra professione, l’animatore e l’educatore “dovevano” essere la stessa cosa. Questo creava malumori all’interno della Coop Molti si opponevano a questa confusione di ruoli, soprattutto nella zona di Rimini. A Forlì alcuni colleghi educatori erano spesso chiamati ad animare feste di compleanno o di altra natura. Per esempio poteva capitare che un genitore chiamasse la Coop chiedendo di organizzare una festa di compleanno per la durata di 4 ore con un gruppo di una ventina di bambini dodicenni. Il responsabile faceva un preventivo di spesa e nel caso il genitore avesse le risorse la cosa procedeva. Noi a Rimini non eravamo predisposti per questa mansione. G. Tu cosa ne pensi. A tuo parere un educatore deve essere anche animatore? T. Allora, al momento dell’assunzione, non ti veniva fatta questo tipo di richiesta. All’operatore venivano presentati solo esempi di un suo possibile intervento in cui veniva richiesta una osservazione, un recupero scolastico incentivando le capacità del bambino, un preciso lavoro sulle famiglie e qualche intervento nella rete sociale. Gli Operatori di Rimini non si sentivano culturalmente pronti per questo tipo di esperienza e per rendere, quindi, queste due professioni intercambiabili. La storia ci ha poi dato ragione, perché nel tempo la professione dell’animatore si è andata specializzando e sono stati istituiti corsi e scuole ad hoc. All’oggi un C.E. chiede l’animatore e l’educatore. Ironia della sorte, il ruolo dell’animatore mi perseguita, io stesso collaboro ancora con alcuni enti di formazione insegnando tecniche di animazione. G. Sono stati gli altri a farti vedere una opportunità operativa, una abilità, che altrimenti non avresti visto… T. Questa esperienza adesso mi fa sorridere, ma ricordo le angosce e le paure di allora. All’inizio non capivo, ma come recita quel detto: “Non capisco, ma mi adeguo”. Forse oggi avrei ancora più paura a fare una cosa del genere. In quel momento, mi sono lanciato. G. Ritornando a Bellaria, quella è stata la prima occasione in cui hai lavorato insieme a Gloria e Primo? T. Con Primo sicuramente, con Gloria non ricordo bene se in quell’anno o in quello successivo. Ricordo che in quell’estate eravamo 4 o 5 maschi di Rimini, fra l’altro amici anche al di fuori dell’impegno di lavoro. Ci siamo sicuramente divertiti molto! G. Che ricordi hai di quella esperienza. T. Molto, molto positivi! Il periodo estivo, le esperienze nuove, sempre belle, lavorare finalmente in un gruppo di colleghi e contemporaneamente amici nella vita privata: cosa vuoi di più?! Certo la fatica era tanta, ma ben sopportata! Pensa che con le colleghe di Cesena e Gatteo mantengo ancora contatti! L’organizzazione era collaudata perché il Centro è stato per molti anni gestito dalla nostra Coop: le coordinatrici erano esperte, conoscevano già i bambini, le famiglie e gli amministratori locali del Comune. Organizzavamo giochi con piccoli/medi/grandi gruppi sia al mare che al parco vicino, oppure momenti ludici all’interno della struttura nei giorni di pioggia, la merenda, i laboratori per preparare i materiali per la festa di chiusura mensile. Dovevamo gestire anche il momento della colazione, del pranzo e della siesta per i bambini più piccoli. Non mancavano momenti di discussione accesa: “non è tutto oro quello che luccica”. Non tutti hanno vissuto in questo modo quell’esperienza. Io, però, è così che la ricordo. G. In sostanza: domiciliari, centro estivo. Questo è il tuo primo anno di lavoro. Hai avuto qualche particolare difficoltà, qualche particolare problema, qualche dubbio sulla scelta che avevi fatto di cambiare lavoro? T. In quel primo anno “ero un carro armato”, considerando il lavoro pesante che avevo fatto nei 13 anni precedenti… G. Avevi scoperto un mondo nuovo… T. Si! Mi divertivo molto, mi trovavo bene con i ragazzi, con i colleghi. Andavo ripetendo che il nostro era “il più bel lavoro del mondo” anche se davanti ai colleghi più scettici dovevo rettificare dicendo che non era il più pagato, ma a mio parere il più bello. A parte gli scherzi, mi sentivo bene e gratificato. Avevo finalmente scoperto che cosa avrei potuto fare da …grande. 19 G. Nei centri estivi ti è mai successo di vivere un momento particolarmente critico? T. Al Centro Estivo c’erano difficoltà quotidiane. Ti faccio un esempio: un pomeriggio al ritorno dal parco un bambino ci ha riferito che si era punto un dito con una siringa. Noi educatori, tutti allarmati, abbiamo messo in moto quella che viene definita “la procedura”: abbiamo fatto un sopralluogo al parco, abbiamo avvertito la famiglia con la quale abbiamo fatto un ulteriore sopralluogo, tutto con esito negativo. Abbiamo allertato inoltre i nostri referenti istituzionali: Coop C.A.D. e gli Uffici Comunali competenti. Ad ulteriori domande il minore ha candidamente ammesso che aveva tratto lo spunto per il suo comportamento da un programma visto il giorno prima in TV, per farci uno scherzo! Per fortuna c’erano anche tanti momenti ludici: scherzi ai colleghi, gavettoni, si ritornava un po’ tutti bambini. G. Ricordi un caso, una situazione, particolarmente difficile nella tua esperienza a domicilio? E’ stato nel secondo anno che ho avuto un caso molto difficile. Ero in ferie. Mi telefona una responsabile del Servizio Sociale dell’U.S.L. e mi dice che era stato ricoverato nel reparto di N.P.I. (Neuro Psichiatria Infantile) un ragazzino di 17 anni psicotico delirante grave, con problemi di aggressività che, in precedenza, aveva dato problemi di diversa natura. La responsabile, con la quale avevo una certa confidenza, mi spiega che bisognava cominciare un percorso educativo urgentemente. Le dico che in quei giorni stavo consumando le mie ferie. Non mi lascia finire la frase e mi fa capire in modo risoluto che dovevo assolutamente accettare il caso: non potevo rinunciare. In questo modo ho fatto la prima conoscenza della “psicosi grave” che per un operatore psichiatrico non si scorda mai. 20 G. Che cosa sapevi allora della psicosi? T. Onestamente ammetto che allora per me la psicosi era una parola come un’altra! Dalla letteratura avevo dedotto che fosse una malattia grave, ma come tante altre. Era una malattia psichiatrica, a cui di solito si dava poco peso trascurandola. Ho fatto quel mio primo intervento in NPI di domenica mattina dalle nove a mezzogiorno. Avrei dovuto proseguire l’intervento tutti i giorni di permanenza in reparto del ragazzo, festivi compresi (per un totale di 22 giorni). Mi recai in reparto, non conoscendo nessuno mi presentai agli infermieri, al ragazzo e alla madre. Quest’ultima mi sembrò subito molto contenta perché non aveva mai avuto un educatore per suo figlio nonostante lo avesse chiesto ormai da tempo. G. T. In pratica che cosa hai fatto? Gli sono stato vicino, gli parlavo, passeggiavo con lui nel corridoio. G. Potevi interagire? T. Non tantissimo, ma parlava e rispondeva in maniera abbastanza adeguata. Poi arrivò il momento del pranzo. Immagina la scena: sul tavolo c’era del pollo con purè, un po’ di pane e l’acqua. D. mangia il pollo e allontana il resto da sé. A questo punto, hai presente cosa consiglia la teoria in questi casi: dare un ordine semplice e preciso con voce ferma e tono convincente. G. Tutto questo dalla letteratura? T. La letteratura, i colleghi e gli Infermieri. Mentre osservavo la scena con fare deciso gli avvicino il piatto del purè e gli “ordino” di magiare. Lui allontana il piatto. Ribadisco la richiesta con fermezza. D. prende il piatto, lo solleva e lo scaraventa con forza a terra. Risultato: purè sparso sul pavimento, sui vetri della finestra e sui muri. Con gli Infermieri e gli altri ricoverati ci siamo fatti tutti una bella risata! Nei momenti in cui D. andava nel bagno, cominciavo a pormi diverse domande: dovevo seguirlo anche in bagno? E la privacy? In effetti non avevo una confidenza tale che giustificasse la mia presenza in bagno e lui era autosufficiente. Se avesse aperto la finestra? Il ragazzo avrebbe potuto avere atteggiamenti di fuga? Aveva avuto in passato episodi di tentati suicidio? Mi facevo tutte questa domande, senza avere la benché minima risposta (almeno nell’immediato). G. A che piano vi trovavate? T. Non ricordo con esattezza: primo o secondo piano, certamente non al piano terra. Ricordo che ero preoccupato, sempre con l’orecchio attaccato alla porta per captare qualche segnale, qualche rumore sospetto. Questi erano i miei problemi in quella situazione. G. Quindi sei andato dopo quella telefonata senza alcun tipo di presentazione del caso. Quanto è durato questo rapporto? 21 22 T. Ti posso dire che è stato in assoluto il rapporto che è durato di più nel tempo: 3 ore tutti i giorni escluse ferie e festivi, per 33 mesi di seguito, poi altri 3 mesi, dopo la parentesi del mio impegno triennale (Referente zona Rimini più Capo Area negli Uffici C.A.D. a Forlì), per un totale di 36 mesi! Tengo tuttora collegamenti con il ragazzo tra C.S.M. (Centro Salute Mentale) e la struttura che lo ospita. È stato inserito nel 1998, anno in cui io ed un mio collega, ne abbiamo curato l’inserimento. G. Questo è il caso più lungo e impegnativo come domiciliare. Poi? T. Poi è nato il Gruppo Educativo di Villa Verucchio. Lavoravo nel Gruppo e seguivo D. ed altri ragazzi: lavoravo dalle 36 alle 38 ore settimanali. G. Avevi lavorato già nei Centri Estivi, la dimensione del gruppo, del grande gruppo, l’avevi già vissuta, sperimentata. Questo invece era un piccolo gruppo. Che ricordo hai dell’inizio di questa nuova esperienza? T. So che mi ripeto, ma complessivamente è un bel ricordo. Come ho specificato nel tuo libro, al momento della richiesta di operare in questa nuova iniziativa, ero un po’ prevenuto. Pensavo che la formazione dei gruppi fosse dettata più dal bisogno della USL di risparmiare risorse che da esigenze di migliorare la qualità del lavoro con i minori. In sintesi lavorando in gruppo si utilizzavano meno operatori per rispondere allo stesso numero dei bambini. Questa era per me la sostanza. Si sapeva molto poco di questi gruppi o mini gruppi. Tra l’altro questo ha fatto diventare il nostro lavoro pionieristico. La proposta era quella di lavorare due ore tutti i giorni, con quattro operatori e 18/20 ragazzi. All’inizio, mi ripeto, eravamo preoccupati, ne parlavamo insieme per cercare di capire e “farci coraggio”. Le colleghe donne erano ancora più preoccupate a pensare di dover contenere momenti di aggressività e di violenza. Sapevamo che c’erano psicotici, ragazzi aggressivi, alcuni anche fisicamente più grandi di noi… Poi sai nell’incertezza le cose si amplificano… G. Come era stato presentato questo gruppo e come erano stati scelti gli operatori? T. C’erano stati incontri della assistente sociale del Distretto con gli operatori interessati. Alcuni di noi erano stati chiamati, altri erano semplicemente interessati anche per esigenze di servizio. Nel frattempo c’era un discorso parallelo all’interno della nostra Coop: si richiedeva con insistenza l’apertura di un ufficio a Rimini. I soci presenti sul nostro territorio aumentavano e, di conseguenza, aumentava la richiesta di operatori da parte dell’U.S.L.. G. Fammi capire. Quando tu sei stato assunto la tua Coop non aveva un ufficio in zona? Era nata da poco… T. A Forlì era attiva da anni, ma a Rimini, era presente dall’anno stesso in cui ero stato assunto, o da quello precedente. Alcuni di noi da tempo si stavano mobilitando, anche con l’ausilio del Sindacato, per avere questo famoso ufficio a Rimini, aperto tutti i giorni, con la presenza di un referente/responsabile di zona. Noi dipendevamo da Forlì per tutto: per la modulistica (fogli ore, ferie, permessi), per dubbi di lavoro (come comportarci in caso di assenza del minore, come rispondere a nuove richieste da parte della famiglia), per i rapporti con la Coop (errori di compilazione della modulistica, eventuali errori di conteggio in busta paga), per le sostituzioni in caso di assenze (malattie, permessi). Ci mancava una figura di supporto. L’ufficio di Rimini era solo uno “sportello burocratico” dove venivano portati i curriculum per eventuali assunzioni, dove si svolgevano colloqui di assunzione e dove venivano consegnati i fogli ore a fine mese. Nel caso fosse insorto un problema immediato sul lavoro o un semplice dubbio, dovevamo rivolgerci a Forlì. G. Quanti operatori della C.A.D. lavoravano nel territorio di Rimini in quel periodo? T. Il primo anno, e parlo solo di educatori, eravamo una decina. Sinceramente non saprei riferirti il numero esatto di A.D.B. (addetti all’assistenza di base) che sono nostre colleghe impiegate nel settore anziani. In pochi mesi il numero di soci è cresciuto enormemente. Questa mobilitazione ha dato buoni frutti: la Coop ha aperto un ufficio a Rimini che all’inizio si occupava di rispondere a tutte le esigenze del socio. Era nata anche a Rimini la figura del C.C. (Capo Cantiere), che non aveva lo stesso ruolo del Coordinatore, ma si occupava delle sostituzioni in caso di malattia, raccoglieva e controllava i fogli ore, si rapportava continuamente con Forlì, aveva a disposizione oltre al telefono anche il fax (strumenti per noi molto utili visto che allora non 23 c’erano computer o cellulari a disposizione con la stessa facilità di oggi). A dire il vero contattavamo questa figura e ci rivolgevamo ad essa come fosse un Coordinatore! 24 G. Quindi il gruppo di Villa Verucchio nasceva parallelamente a questa evoluzione all’interno della Coop Immagino che vivevate la vostra esperienza lavorativa e l’evolversi dell’organizzazione della Coop con non poca incertezza T. Con incertezza ma con impegno. Cercavamo di lavorare al meglio e nello stesso tempo cercavamo di far capire ai dirigenti della Coop i nostri problemi quotidiani, “costringendoli” a darci certe risposte. G. Voi educatori facevate incontri e riunioni all’interno della vostra Coop? T. La Coordinatrice che veniva da Forlì garantiva l’apertura dell’ufficio per due ore alla settimana e, sempre con lei, facevamo una riunione al mese dove approfittavamo dell’occasione per farle domande, scambiarci esperienze, consegnare tutta la documentazione. G. Nella Coop oltre agli educatori c’erano, come dicevi, le ADB. Quante erano? T. Nell’ufficio di Rimini (sito in via Covignano) c’era anche la C.C. che si occupava delle ADB. In quel periodo la nostra Coop impiegava educatori nel Settore Minori, ADB per il Comune di Rimini, e ADB per l’USL. Penso che fossero una ventina per gruppo G. Quando è stato aperto questo ufficio in Via Covignano? T. La data di apertura dell’ufficio con i C.C. non la ricordo con precisione, ricordo però che nella primavera del 1993 i nostri responsabili avevano convocato tutti i laureati e laureandi della nostra zona (ed eravamo 6 o 7 se non ricordo male), per proporre loro il ruolo di Referente-Coordinatore per la zona di Rimini. Alla proposta, sono seguiti i colloqui individuali. Alcuni colleghi avevano subito declinato l’invito, altri, me compreso, avevano mostrato il loro interessamento. Alla fine questo ruolo è stato affidato a me. G. Già lavoravi nei gruppi educativi da diverso tempo? T. Lavoravo nei Gruppi Educativi dal ’90. Nel frattempo all’interno della Coop, erano avvenute molte evoluzioni e cambiamenti, che mi avevano portato prima ad essere eletto, assieme a Primo, come delegato delle R.S.U. (Rappresentanze Sindacali Unitarie), successivamente ad essere eletto nel Consiglio di Amministrazione e a dare, per incompatibilità di carica, le dimissioni dalle R.S.U.. G. Hai ricoperto un doppio incarico all’interno della Coop: come Referente Sindacale e come consigliere…. Ha coinciso con il momento in cui hai cominciato a lavorare nel Gruppo Educativo di Villa Verucchio? T. Si, più o meno, i tempi coincidevano. Il lavoro da fare era tanto in diversi settori: eravamo più operatori, quindi aumentavano le esigenze. Lavorando in diversi settori, avendo avuto diverse cariche, incominciai a conoscere molti soci sia educatori che impiegati negli uffici. Avevo avuto anche la fortuna di conoscere il mio lavoro da diverse ottiche, angolazioni. Nel momento dei colloqui per la carica di Referente/Coordinatore ero certamente favorito perché, come ho detto prima, avevo avuto modo di conoscere e di farmi conoscere. Presumo avessero scelto me proprio per questo motivo. Pertanto nel ’93, ho dovuto abbandonare definitivamente gli impegni domiciliari e il lavoro educativo nei gruppi per spostarmi in ufficio. G. Torniamo al Gruppo Educativo di Villa Verucchio. Dopo questa prima fase di dubbi, perplessità, incertezze, si struttura questa esperienza con bambini dell’età elementari/medie. L’obiettivo più esplicito era quello del sostegno scolastico. Era anche un luogo di socializzazione, di incontro, e c’era l’ambizione da parte nostra, o forse soprattutto da parte mia che allora lo coordinavo, di fare anche, tramite esso, una qualche azione di prevenzione del disagio minorile. Lavorammo infatti molto anche con scuola e famiglie. Ci incontravamo regolarmente per attività di coordinamento. Parliamo qui di una attività che abbiamo vissuto assieme e quindi rischiamo di dare molte cose per scontate. Proviamo per chi legge a descrivere meglio questa esperienza. Se ricordo bene ci vedevamo ogni 15 giorni per coordinarci… T. All’inizio ci vedevamo più spesso perché dovevamo organizzarci, strutturarci e fissare un po’ di regole. G. Infatti avevamo costruito insieme il progetto e questo lavoro aveva richiesto molti momenti di confronto e di discussione. Durante gli incontri scrivevamo i verbali per ricordare un po’ quello che facevamo, 25 per lasciare una qualche traccia. Poi c’erano gli incontri periodici con le assistenti sociali, la psicologa, la scuola… Avevamo contatti organizzati anche con i genitori… 26 T. Ci siamo incontrati anche di sera. Ricordi che avevamo prodotto anche materiale fotografico in un album messo a disposizione dei presenti all’incontro? E avevamo mostrato un filmato girato in occasione di un’uscita con i ragazzi. G. Si, mi sembra fosse alla diga di Ridracoli… E’ difficile ricordare i dettagli. Per fortuna abbiamo scritto “Nonostate tutto”. Poi comunque, a pensarci bene, non possiamo soffermarci troppo su questa esperienza solo perché l’abbiamo vissuta insieme. Ricordi qualcos’altro di particolarmente importante su di essa? T. Ricordo soprattutto i problemi con le scuole: all’inizio ci avevano un po’ “snobbati”. Questa tendenza l’avevo già vissuta con il lavoro domiciliare. Quando mi si è presentata con i gruppi ho fatto in modo che non passasse inosservata perché non mi sembrava giusto. Gli insegnanti si chiedevano quali attività si svolgessero all’interno della struttura e quale utilità avesse questo gruppo nei confronti dei ragazzi. Non ricordi? Ci vivevano quasi come “rivali”. Ricordo invece che il tempo ci diede ragione: alcuni ragazzi cambiarono l’approccio all’impegno scolastico, aumentando le autonomie rispetto allo svolgimento dei compiti a casa. Anche in classe non si sentivano più inferiori agli altri e riuscivano a raggiungere obiettivi insperati. Il fatto stesso di riuscire a terminare i compiti, in maniera corretta, magari sotto un aspetto più ludico, era molto apprezzato da tutti. Questo non perché gli educatori fossero dei maghi, ma forse perché finalmente i ragazzi cominciavano ad avere una visione diversa dell’adulto: non più un “rivale al quale contrapporsi”, bensì un alleato. Noi ci presentavamo ai loro occhi in maniera diversa, affrontavamo sia la parte relativa alla scuola che le situazioni di vita quotidiana con tutte le sue problematiche: era nato un feeling nuovo, diverso. G. Si cercava di partire dai loro bisogni, dai loro problemi. Ricordo ora in particolare una attività di ricerca sugli animali, il non voler rimanere rinchiusi nel gruppo… T. Le feste finali erano molto interessanti e apprezzate sia dai ragazzi che dal territorio stesso. G. Ci sarebbero molte cose da ricordare… La scuola ci viveva come rivali… si ricordo… T. Ricordo bene i contatti che tenevamo con la scuola e tutti gli incontri. In occasione di un consiglio di classe avevo cercato di spiegare in che cosa consistesse la nostra attività e cosa facessimo con i ragazzi. Loro non capivano la differenza tra l’azione educativa nostra e il loro lavoro di insegnamento. Una volta, anche in maniera provocatoria, stanco di questo atteggiamento e di queste interminabili spiegazioni, ho detto: “Noi lavoriamo con i ragazzi, io non ho i titoli e le capacità per fare l’insegnante, ma voi non avete titoli e capacità per fare gli educatori. Stiamo facendo due lavori diversi.” Ricordo che queste mie affermazioni destarono non poco fastidio. Fortunatamente, però, con il tempo le cose cambiarono a tal punto che, ad una nostra festa, parteciparono anche insegnati ed alunni delle scuole elementari e addirittura una classe intera. Per noi educatori fu una grande conquista. G. All’inizio lo spazio ce lo avevano dato i frati… T. All’inizio abbiamo lavorato nelle stanze del Consultorio, poi dai frati. Il Centro Estivo era stato ospitato sempre dai frati. G. Hai ricordi più precisi tu di me… Ricordo anch’io la diffidenza iniziale della scuola e come nel tempo le cose sono cambiate. Il territorio stesso ci ha pian piano accolto, accettato. Una dimostrazione del fatto è stato che i frati ci hanno concesso lo spazio per poter effettuare il Centro Estivo, una esperienza molto bella, molto positiva. Questo lavoro con il piccolo gruppo, il C.E. a Bellaria, ti portavano già da allora ad avere esperienze assai diversificate: intervento individuale a domicilio, piccolo gruppo, C.E. anche con attività di animazione; rapporti con i referenti dell’USL (educatore coordinatore, assistenti sociali, psicologo), il mondo della scuola, ecc. Ad un certo punto hai partecipato al Corso Biennale di Formazione sul Lavoro per Educatori Professionali organizzato dalla U.S.L. su direttive della Regione Emilia Romagna. T. Sì, nel biennio 92/94 G. Che ricordi hai di questa esperienza? T. L’ho vissuta con molto interesse. Avevo tentato di iscrivermi nel corso precedente ma mi mancavano pochi mesi di anzianità di servizio per 27 raggiungere i requisiti richiesti e necessari per accedere all’iscrizione. Quasi il 50 % dei partecipanti al corso appartenevamo alla Coop C.A.D., quindi eravamo amici e, allo stesso tempo, colleghi. 28 G. E’ stata quindi anche un’occasione per vedervi più spesso e quindi per confrontarvi… T. Esatto. Potevamo apprendere cose nuove e riportarle anche all’interno della cooperativa, sfruttando questi momenti come vera e propria formazione. Anche l’impostazione del corso era interessante. La suddivisione in moduli ci permetteva di approfondire argomenti attinenti alla nostra professione, affrontavamo materie diverse a cui non eravamo abituati come “legislazione”. Avevamo la possibilità di rivolgere domande specifiche ai professionisti giusti; per esempio abbiamo potuto avere delucidazioni sulle psicosi e sulla schizofrenia direttamente da uno psichiatra. Questo spesso ci rassicurava e avevamo bisogno di certe rassicurazioni, soprattutto noi educatori domiciliari. Il lavoro dell’educatore domiciliare era ed è tuttora ancora purtroppo un lavoro svolto in solitudine dove spesso dubbi e incertezze devono essere affrontati da soli, quotidianamente e in tempi molto ristretti. Lo spazio di confronto datoci allora è stato quindi molto utile. G. Da quel che hai raccontato sin qui hai svolto i tuoi primi anni di lavoro come educatore con grande soddisfazione e entusiasmo, senza particolari problemi… T. Non ho mai avuto eccessivi problemi e non dico questo per dare di me un immagine di educatore “Superman”. La verità è che ho lavorato sempre in mezzo ad altri colleghi e, avendo sempre creduto nell’affiatamento del gruppo, mi ha sempre rassicurato molto sapere di poter condividere esperienze con loro. G. In quegli anni hai conosciuto educatori in difficoltà. Se sì, perché a tuo parere lo erano? T. Perché lavoravano esclusivamente a domicilio, non avevano mai avuto esperienza di lavoro in gruppo. Conosco colleghi che hanno sempre lavorato da soli. G. Pensi che quello sia stato il problema maggiore per tutti coloro che hai visto in difficoltà? T. Lo penso e ne sono convinto, tanto è vero che quando sono diventato coodinatore ho cercato di sfruttare la mia esperienza e la mia anzianità cercando di aiutare al meglio chiunque fosse in difficoltà. Ti faccio un esempio: durante un coordinamento è emerso il problema di come comportarsi al momento del passaggio da un minore all’altro, da una famiglia all’altra. Domanda pratica: “Alle 15.00 finisco l’intervento con il minore, alle 15.15 devo essere da un altro minore, che fare?”. Risulta chiaro che un minore, sarà lasciato solo. A chi deve toccare questa sorte preservando per quanto si può il lavoro educativo e non rischiando in termini legali? Sembra una domanda stupida ma allora non lo era affatto. In riunione con calma si è trovata la soluzione. Quando la mamma del minore è in ritardo, tu non puoi allontanarti per recarti da un altro (anche perché non sei in grado di quantificare il ritardo, 10 minuti, 30 minuti…), mentre sarà cura del familiare dell’altro minore aspettarti e non lasciare il bambino da solo. Consideriamo anche che allora non esistevano i cellulari, che le cabine telefoniche non sempre si trovavano nelle vicinanze e spesso le famiglie erano sprovviste di telefono nell’abitazione. Immaginiamo un educatore che si trova solo a dover risolvere questo problema. Molti colleghi domiciliari, abbandonati a sé stessi e in situazioni di solitudine quotidiana si sono licenziati. Poi la giovane età è un altro fattore importante: un conto è affrontare queste difficoltà a 35 anni, un altro a 22/23 anni. Questo teniamolo sempre presente! Non pochi di coloro che hanno abbandonato il lavoro educativo era giovani. G. Dal momento che riunirsi per discutere i problemi non era sempre facile c’erano all’interno della COOP., strumenti informativi? T. Io sono sempre stato interessato a ricevere e fornire informazioni. Per questo motivo io e Primo, insieme ad altri, abbiamo fondato un giornalino interno alla COOP. per rappresentare “il polmone dei Soci”. Era uno strumento che era in grado di ricevere e fornire quante più informazioni possibili riguardanti campi più disparati. Chi aveva problemi, idee o dubbi di natura tecnica, sindacale o che riguardasse altro, poteva mettersi in contatto con la redazione del giornalino, la quale avrebbe provveduto a divulgare il quesito pubblicando una lettera o direttamente un’intervista all’interessato. Questa ci sembrava una ricchezza per tutti noi colleghi, un punto di riferimento importante all’interno della Cooperativa. Nella presentazione Primo, tra l’altro, scriveva: “…l’obiettivo è creare sulla carta quel luogo di comunicazione che a noi, che lavoriamo tutti i giorni nei luoghi più disparati, magari da soli, è evidentemente sempre mancato. 29 All’interno troverete i nomi di tutti coloro che collaborano ai Q.I. (Quaderni Informativi); la redazione, che si riunisce ogni due o tre settimane, è aperta a tutte le collaborazioni e ai contributi dei soci, in forma di lettera, intervista, richieste di chiarimenti o spiegazioni rivolte all’amministrazione, inviti a convegni, incontri, cene, segnalazione di corsi, stage, testi o articoli interessanti.” 30 G. Quanti numeri siete riusciti a pubblicare e quanto è durata questa esperienza? T. Purtroppo l’esperienza è durata solo un paio d’anni (per un totale di una quindicina di numeri), anche perché è cambiata la redazione (il primo direttore responsabile era Primo) e i collaboratori. Il numero “0” portava la data del dicembre 1993 e vi si leggeva: “ Contesto: Quaderni informativi. Organo di informazione e comunicazione della Cooperativa C.A.D. Forlì”. Abbiamo affrontato diversi temi: conoscere il cedolino (la busta paga), recensioni, formazione, interviste rivolte agli educatori, alle A.D.B. agli amministratori. Per la scelta del nome, abbiamo fatto un brain storming e a me era venuta l’idea di “contesto” che aveva un triplice significato: CONTESTO, nel senso che siamo in un contesto socialepolitico-lavorativo; CONTESTO, nel senso di contestarecontestazione; CON-TE-STO, nel senso che sono con te, dalla stessa parte. Carino non trovi? G. E’ una parola magica… Interessante… Ma scusa voglio tornare indietro. Continuo a disturbarti con una domanda che ti ho già rivolto. E’ sicuramente una domanda che in qualche modo faccio anche a me stesso. Vorrei capire qualcosa di più. Che cosa era che ti dava tanto entusiasmo in questo lavoro? Lo stare in mezzo alla gente??? T. Io, fortunatamente, ho sempre lavorato in mezzo alla gente. G. Si, però l’educatore ha sicuramente una modalità diversa di stare in mezzo alla gente di un gestore di un distributore T. Certamente. Lavorare nel sociale ti fa sentire più utile o, come spesso ripeto, è un egoismo che diventa una specie di altruismo. Occuparsi degli altri cercando di risolvere i loro problemi, di alleviarne le loro sofferenze, di ridurne gli handicap, senza “aspettare solo il 27 del mese”, sono cose che ritengo importanti. Ora lavoro con le persone adulte, ma anche nei riguardi dei bambini conosco l’importanza di avere “l’altro” al proprio fianco! G. Questo operare per sostenere persone in difficoltà, per favorire “un riscatto sociale” di persone in genere emarginate, non si legava anche alle tue convinzioni ideali?! Nel distributore non avresti potuto sicuramente allo stesso modo realizzarle... T. Ho vissuto sempre male il fatto di non aver mai avuto un adulto che potesse aiutarmi a fare i compiti. Quando abitavo alla Grotta Rossa oltre a me c’era solo un altro ragazzo che frequentava le scuole superiori. Ho sempre fatto i compiti da solo, in caso di bisogno pensavo: “Non so cosa pagherei per avere l’aiuto di qualcuno!”. Il diploma mi ha portato ad avere in casa i figli dei miei vicini che aiutavo nello svolgimento dei compiti. Mi è sempre piaciuto e mi piace tuttora aiutare gli studenti che necessitano di aiuto, a fare i compiti. Nel periodo in cui ho lavorato al C.E.I.S. ero il primo a cominciare e l’ultimo a finire di fare i compiti con i ragazzi, e riuscivo ad ottenere anche buoni risultati. Il mio motto è sempre stato: “Sono in grado di fare amare la storia anche al più somaro”. Di questa mia particolare attitudine, ora ne stanno beneficiando i nipoti. G. Penso al fatto che appartieni ad una famiglia numerosa: sei il settimo figlio. Ti sei trovato quindi sempre insieme a tante persone. Che peso ha avuto questo fatto sul tuo modo di essere educatore? T. Mi sento a mio agio con tante persone attorno, sono come una spugna: assorbo da tutti. G. Certo che dal lavoro nel distributore, nella stazione di servizio, è stato un bel cambio di vita! T. Un bel cambio, rischioso. Buttarsi a 35 anni in una esperienza completamente nuova è stato, a livello economico soprattutto, come fare un salto nel buio. G. Con il nuovo lavoro le entrate economiche erano molto minori? T. Molto di meno di prima, meno della metà di quello che guadagnavo prima. Il nuovo lavoro era una scommessa con il futuro. Se l’esperienza fosse fallita? Ma ho avuto il sostegno della famiglia; mia moglie aveva appoggiato da subito questa scelta perché aveva visto il 31 mio entusiasmo e conosceva i miei interessi. Comunque è stato rischioso. 32 G. E’ stato un momento di svolta. A 35 anni hai scoperto questa nuova strada… T. Mi dicevo: “O faccio il benzinaio tutta la vita oppure cambio adesso”. Trovare lavoro in età più avanzata sappiamo tutti cosa significhi! SECONDA INTERVISTA G. Abbiamo visto come nel giro di 3 o 4 anni ti sei laureato, hai cominciato a fare il lavoro educativo in cui hai potuto svolgere esperienze molto diversificate (lavoro domiciliare, piccoli gruppi educativi, centri estivi), dalla Coop è arrivata la richiesta di svolgere un’altra attività (l’animatore), hai cominciato un corso di formazione di durata biennale… Hai vissuto molte esperienze… Di alcune abbiamo parlato forse in maniera troppo superficiale. In ogni caso, se non mi sbaglio, questo è un momento della tua vita particolarmente felice e da quello che hai detto ti sei trovato sempre a tuo agio in questo lavoro… T. Hai detto bene, mi sentivo a mio agio. Mi sono trovato a far qualcosa che nella mia vita precedente avevo sempre fatto. Il lavoro nel sociale e con i minori e i bambini è sempre stato il mio “pane quotidiano”. Ho fatto il baby-sitter di mio nipote quando avevo appena nove anni perché mia sorella d’estate lavorava presso una pensione. In quel periodo mi occupavo di suo figlio che, al tempo, aveva sette mesi. Gli preparavo il biberon, le pappine, lo cambiavo, giocavo con lui, insomma mi occupavo del bambino da mattino a sera. Ho fatto il baby-sitter anche all’altro nipote, Mirco, che anche tu conosci. In casa mia sono sempre stati presenti bambini, in certi periodi estivi ne avevamo addirittura quattro. G. Eri il più piccolo dei tuoi fratelli e ti venivano affidati i bambini… T. Sì, ci si aiutava in questo modo. Era naturale occuparsi dei loro bisogni perché i rapporti tra noi erano ottimi. Ora questi bambini hanno più di 40 anni e hanno a loro volta dei figli. Questi dodici nipoti hanno messo al mondo dodici figli (dodici pronipoti): il cerchio-ciclo della vita! Il mio rapporto con i bambini è quindi naturale! Anche l’esperienza dei gruppi di Villa Verucchio non costituiva più di tanto una novità, sono sempre stato attivo nel sociale G. Ti riferisci alla tua attività politica come anarchico? T. Sì, anche. Non solo. La mia attività politica risale all’età scolastica. Quando sono arrivato a Villa Verucchio avevo già alle spalle una quasi ventennale esperienza di intensa attività politica! Penso anche, in particolare, ad un lavoro nel quartiere di Miramare. Noi giovani del 33 quartiere avevamo fondato un gruppo (allora noto, si chiamava “Chile Libre”) che contava sull’adesione di tutta la sinistra giovanile del quartiere e che operava sul sociale e sui bambini. 34 G. E vivere in una famiglia numerosa (ti chiami Settimio, sei il settimo figlio) quanto ha contribuito a condurti alla scelta del lavoro educativo? T. Conservo a casa uno stato di famiglia di nove persone: i miei genitori, mio fratello con la sua famiglia e tutti gli altri fratelli. Convivevamo tranquillamente in questa specie di “tribù moderna”. La famiglia allargata mi è sempre piaciuta, mi piace tuttora! Una delle mie caratteristiche personali, che mi è stata sempre riconosciuta anche nell’ambiente di lavoro, consiste nella “innata” capacità di smussare gli angoli, stemperare gli attriti, “fare gruppo”. Da sempre ho lavorato in mezzo alle donne, sovente come unico uomo (albergo, stireria, ufficio a Forlì), e mi sono trovato sempre bene. Inoltre considera che dopo l’esperienza di baby-sitter ho iniziato a lavorare d’estate già all’età di 11 anni (dal giorno successivo all’esame di quinta elementare, allora usava così, per chi non era figlio di Agnelli…). Ho fatto sempre lavori che mi collocavano in mezzo alla gente. Ho iniziato come barbiere (solo in seguito si sono chiamati coiffeur), benzinaio da ragazzino, cameriere in albergo, al bar; ho fatto l’assicuratore (ramo vita), un anno e mezzo in stireria (stiratore di Jeans). Sempre in mezzo alla gente! G. Hai iniziato a fare l’educatore quindi con una lunga e diversificata esperienza educativa, sociale, politica, lavorativa. T. Questo è il motivo per cui ritengo fondamentale per il lavoro educativo la risorsa “età”, il bagaglio di esperienze di vita unita all’esperienza sul sociale. La predisposizione nei confronti dei bambini svantaggiati, altro esempio che ora mi viene in mente, mi portava ad offrire loro almeno l’aiuto nello svolgere i compiti scolastici. Dalla Grotta Rossa a Rivazzurra la mia casa è stata sempre un luogo frequentato da bambini con quaderni in mano! Anche quando frequentava la scuola mia figlia, la cosa si è ripetuta e continua tuttora con i pronipoti. G. Nella tua famiglia i tuoi fratelli che scuole avevano frequentato? T. Le elementari, non c’erano allora tante possibilità economiche per continuare gli studi. Solo mio fratello che lavorava al distributore con me ha fatto, per motivi di lavoro, le scuole serali per prendere la licenza media (e anche in quel caso, compiti!). Ecco, per rispondere alla tua domanda di prima sul “ perché”. C’è un perché a tutto! G. Ad un certo punto la Coop ti chiede di assumere una funzione di coordinatore, una mansione con più responsabilità (prima a Rimini e poi a Forlì)… T. L’esperienza di Rimini è stata molto bella. Volevo fare il “dirigente dal volto umano”, quello era il mio sogno! Per cui quando è stata fatta la selezione… G. Questo dopo quanti anni che facevi l’educatore? T. Dopo circa quattro anni. G. Fanno questa selezione per individuare un coordinatore per la zona di Rimini e vieni scelto… T. Si. Essendo il primo coordinatore di Rimini era mia intenzione dare una impronta personale al ruolo. Questi si sarebbe dovuto occupare non solo del lavoro educativo, ma anche delle colleghe dell’assistenza agli anziani, le A.D.B. (Addette alla Assistenza di Base) G. Quante erano le A.D.B.allora? Più o meno degli educatori? T. Sicuramente più. Erano due gruppi di A.D.B., uno per il Comune di Rimini e uno per l’USL. Facevo così tre coordinamenti al mese, uno per gruppo. G. I concorrenti alla selezione oltre a te chi erano? T. I laureati della Coop presenti sul territorio, 6/7 in tutto. G. Da questo momento termini il lavoro educativo a diretto contatto con gli utenti? T. Facevo solo lavoro d’Ufficio. Mi recavo una volta al mese a Forlì e mi occupavo delle relazioni necessarie allo svolgimento del lavoro educativo/assistenziale, le famose public relation, con i dirigenti dell’U.S.L. di Rimini. 35 Il compito era facilitato dal fatto che con i dirigenti avevo già avuto rapporti di lavoro mentre facevo il domiciliare. Spesso prendevamo contatti e decisioni a livello telefonico, data questa consolidata e reciproca fiducia. E’ stato un bellissimo periodo durato, più o meno, un anno e mezzo. In quel periodo noi operatori vivevamo i coordinamenti come momenti di crescita: presentavamo i nostri casi, li discutevamo insieme, accettavamo suggerimenti e trovavamo soluzioni. 36 G. Mi interessa questa parte. Avevi tre coordinamenti al mese: questi sottogruppi, da quante persone erano composte? T. Da 18/20 persone. G. Vi vedevate fuori o in orario di lavoro? T. A quel tempo non erano ore retribuite. Ora lo sono: due ore al mese per ogni gruppo. G. Di che cosa discutevate? T. Impostavo le riunioni nel seguente modo: fissavo un ordine del giorno che comprendeva nella prima parte il passaggio di informazioni dalla Coop ai soci, seguivano poi domande dei soci alla Coop: chiarimenti in merito al cedolino, sostituzioni, difficoltà con le famiglie degli utenti, orari, curiosità, problematiche di natura sindacale, difficoltà con anziani o con minori. Le discussioni erano veramente interessanti, le soluzioni giungevano con il contributo di tutti. C’era un desiderio collettivo di partecipare, ci sentivamo sulla stessa barca. Con questi colleghi coltivavo rapporti di amicizia anche al di fuori del lavoro. Non ero stato scelto solo dalla Coop, godevo anche di un buon credito tra i colleghi, i quali erano gli stessi che mi avevano votato in occasione delle elezioni per il consiglio o per la rappresentanza sindacale. Quando non riuscivamo a trovare soluzioni soddisfacenti prendevo appunti in attesa di confrontarmi con Forlì per essere in grado di dare risposta nel giro di qualche giorno. Oltre alle questioni all’ordine del giorno c’erano quelle chiamate varie ed eventuali, quelle non prevedibili. Questo era in genere lo svolgimento delle serate. Spesso il tutto finiva con una pizzata o una bevuta al bar. C’era veramente una grande solidarietà! G. Chi aveva bisogno di qualcosa di particolare, di personale, di urgente in che altri momenti ti poteva incontrare? Facevi orario d’ufficio? T. Si avevo un orario d’ufficio. Ero lì a disposizione tranne nei momenti in cui mi assentavo per gli incontri esterni con i responsabili dell’U.S.L., con le assistenti sociali, oppure per partecipare a momenti formativi o per incontri con responsabili di altre Coop presenti sul territorio. G. Stavi bene in questo periodo? T. Mi trovavo bene perché più che un dirigente mi sentivo, e mi sentivano, uno di loro: solo più anziano e con un po’ più di esperienza. G. Ci sono stati colleghi che sono venuti a parlare dei loro problemi concreti quotidiani. Cosa emergeva soprattutto? T. A tal proposito, ti racconto un aneddoto che la dice lunga. Io ho sempre usato, sia a Rimini che a Forlì, la teoria “della porta aperta”, criticata da alcuni all’interno della Coop. Ero, mi sentivo, a disposizione dei soci. Quando questi avevano un problema venivano da me consapevoli e certi di essere accolti. Ricordo una mattina una A.D.B. (colleghe che conoscevo un po’ meno degli educatori) che aveva qualche anno più di me: si è presentata in ufficio a Rimini tutta trafelata dicendo: “Adesso basta! Non si può andare avanti così! Le cose non vanno! Bisogna che qualcuno intervenga!”. Io la ascoltavo ma non riuscivo a capire la natura del problema. Seduta davanti a me, continuava a parlare e gesticolare. Tenevo sulla scrivania un piccolo vassoio di caramelle e cioccolatini, gliene ho offerto un paio e lei continuava: “Basta! La situazione è pesante, non ce la faccio più!”. Continuava a sciorinarmi difficoltà e problemi senza specificarmi bene la natura del disagio. Allora le ho domandato a cosa si riferisse. Lei si alzò e rispose: “Mi è passata, è lo stesso, non ti preoccupare, va bene così”. Ci siamo messi a ridere e ci siamo salutati cordialmente. Questa collega aveva solo bisogno di essere ascoltata, di sentirsi accolta da un altro collega. Immagina se avesse trovato la “porta chiusa” o avesse dovuto fare la solita antipatica “anticamera”! G. In quel periodo la Coop organizzava iniziative autonome di formazione? T. All’inizio poche cose. Ricordo che nell’anno ’94 furono organizzati quattro corsi di aggiornamento/formazione interni ai quali partecipai. [Ho rintracciato nei materiali che ho conservato i titoli: 37 “Comunicazione: Tecniche di Comunicazione efficaci”; “Operatore animato” sul tema delle abilità dell’animazione; “Il gioco delle parti (conoscenza e perfezione del sé corporeo)” sul tema delle attività psicomotorie ; “Scrivere per descrivere (analisi degli elementi che determinano l’efficacia di una relazione scritta)” sul tema delle attività di documentazione scritta]. 38 G. Qualcosa fu quindi organizzato. Il tuo impegno rispetto a prima era aumentato molto? T. Dal punto di vista dell’orario no perché continuavo a fare 36 ore. In più l’orario era fisso, molto più regolare. In quel senso andava meglio. G. Non avevi particolari problemi e pensieri? T. A Rimini non avevo pensieri, quelli sono venuti dopo! C’era in atto, con l’ausilio di uno studio di Milano, una “ristrutturazione” della cooperativa perché si stava ingrandendo e specializzando per offrire agli enti risposte diversificate. Cresceva l’esigenza di razionalizzare le risorse interne, si definirono quadri nuovi e organi dirigenziali diversi. Si creò una organizzazione che comprendeva la presidenza, la direzione operativa, il capo area settore anziani, il capo area settore minori, il responsabile amministrativo, il responsabile dei progetti, etc. A me era stato offerto il ruolo di Capo Area (C.A.) Settore Minori. Il C.A. era colui che svolgeva la funzione di “cooordinatore dei coordinatori” del settore minori. Fattami la proposta ho avuto qualche giorno per riflettere, ne ho parlato in famiglia ed ho accettato. La cosa mi entusiasmava, era una esperienza nuova, saliva il livello retributivo. Era anche una scommessa con me stesso. G. Il C.A. era un coordinatore dei coordinatori delle zone di Forlì, Cesena e Rimini? T. Si, di tutte le zone in cui operava la Coop. In pratica si occupava di tutto il settore minori: qualità del lavoro, formazione, assunzioni, dimissioni, contenziosi dei soci, nuove idee/proposte, degli incontri con gli enti, con i comuni; collaborava con gli altri dirigenti: capo area settore anziani, amministrazione, responsabile progetti, presidente, coordinatori. G. Avevi una bella responsabilità. Gli educatori di Rimini quanti potevano essere all’incirca allora? T. Mi sembra 25/30. G. In tutta la COOP. erano sicuramente diverse decine. Cambiava inoltre la natura delle responsabilità… T. In quel periodo gli educatori superavano le 150 unità. Il mio ruolo mi portava ad intervenire laddove il coordinatore di zona non poteva o non riusciva ad arrivare. In caso di dubbi o di problemi, spettava a me l’ultima decisione. Rispondevo nei confronti dei soci, degli altri dirigenti della Coop, del consiglio di amministrazione. G. Dopo avere vissuto in poco tempo vari cambiamenti, accetti di affrontare anche questo… Concretamente in che cosa consisteva il tuo lavoro? Come trascorrevi le giornate? Andavi tutti i giorni a Forlì? T. Si, andavo tutti i giorni a Forlì. Il pendolare non l’avevo mai fatto e, ti assicuro, “provare per credere”. Treni, disagi, ritardi… Partivo da casa alle sette del mattino per tornare alle cinque del pomeriggio. Quando avevo le riunioni di zona tornavo all’una, alle due di notte. Se prima facevo le riunioni di zona a Rimini, ora le facevo anche a Cesena o Forlì come C.A.. Oppure se veniva aperto un nuovo centro allora dovevo fare il sopralluogo e presenziare alle riunioni con il coordinatore di zona. G. I problemi, so che ne hai avuti, sono emersi subito? T. Con il trascorrere del tempo l’essere pendolare cominciava a produrre i primi effetti. Oltre a tutto il resto avevo l’obbligo di usare il computer, era necessario ma, purtroppo, ho sempre avuto con questo aggeggio, uno “strano” rapporto e non poche difficoltà. Partecipai anche, con scarso interesse e profitto, ad un corso interno di informatica organizzato dalla Coop per i dirigenti, un corso sia per chi intendeva approfondire le conoscenze che già aveva sia per chi, come me ed altri, non erano neanche in grado di accenderlo. G. Forse più che problemi con il computer, era la pendolarità a pesare?! T. E’ vero. Le cose si complicavano. La Coop aveva superato i 400 Soci; io e la collega capo area (con la quale ho mantenuto nel tempo un ottimo rapporto) ci confrontavamo continuamente ma era tutto molto complicato. Non sempre condividevo le linee guida della Coop. Purtroppo non sempre riuscivo a minimizzare quel che accadeva. Poi 39 avevo diversi problemi con una mia superiore, non la presidente, la mia superiore diretta (fra l’altro non è più in Coop), la quale “non venendo dalla gavetta” osteggiava in modo palese la mia teoria della porta aperta. Non grossi problemi, ma granellino su granellino… Il mio lavoro quotidiano, per rispondere alla tua domanda, si svolgeva in questo modo. In una giornata tipo, arrivavo in ufficio poco dopo le otto: la segretaria che collaborava con me mi faceva trovare gli appunti sulla scrivania, li visionavo assieme agli altri appunti in agenda, stabilivo le priorità e mi attivavo di conseguenza. 40 G. Il lavoro di interfaccia con le Istituzioni in cosa consisteva allora? Era diverso da quello che facevi prima? T. Avevo rapporti con le istituzioni ma mentre a Rimini li costruivo e li curavo a Forlì erano più le occasioni in cui venivo convocato per altri motivi. G. Questo costituiva un problema? T. Affatto, anzi! Confrontarmi con le istituzioni mi è sempre stato agevole (ho detto confrontarmi, non condividere le richieste e le scelte da loro fatte). Venivo convocato per proposte di lavoro, per essere aggiornato sulle normative o per partecipare a tavole rotonde. Un altro problema che avevo era che durante i corsi di formazione io ero stato classificato come “tipo visivo” (così come c’è l’uditivo, etc), classificazione che condivido; infatti sento il bisogno di “vedere” le cose per riuscire poi a farle mie. Ti faccio un esempio concreto: la coordinatrice di un centro mi chiese l’autorizzazione per risistemare il salone delle attività al fine di ottimizzare gli spazi. Il mio lavoro non prevedeva l’andare a vedere i locali così fui costretto, dopo aver chiesto il parere di un mio superiore, a firmare l’autorizzazione. E’ una stupidata questa ma non poche volte fui costretto a prendere decisioni importanti in merito alle attività, a feste aperte al pubblico, all’ottimizzazione delle risorse e ad altro, di centri che non avevo mai visto. Potevano trovarsi a ridosso di un centro abitato, in mezzo al bosco, su una via trafficata. Non mi era concesso fare un sopralluogo. G. Mancava il tempo? T. Giusto. Più avanti avrei potuto trovarlo ma ne avevo bisogno in quel momento. G. I tuoi superiori ti invitavano a “staccarti” dagli operatori? T. Più che di staccarmi, mi proponevano una “filosofia di lavoro” che non condividevo. Forse avevano ragione loro ma un bravo dirigente, secondo me, dovrebbe dirigere senza condizionamenti, senza guardare in faccia a nessuno. Per fare questo deve essere messo in condizione di arrivare ad essere convinto delle sue scelte difendendole e, eventualmente, pagando le conseguenze per quelle sbagliate. Per questo motivo se non ero convinto di una cosa, non riuscivo ad essere convincente. Tra me e me continuavo a ripetere: “Se venisse proposta questa cosa a me, non la accetterei mai”. G. Ti mettevi dal punto di vista dell’altro, dell’operatore, cosa che probabilmente gli altri dirigenti facevano molto meno di te… T. Si, forse erano questi i miei limiti, non conosco quelli degli altri. Ti faccio qualche esempio per farti capire meglio il mio punto di vista: sono sempre stato per il “fare” concreto, ho una certa attitudine alla risoluzione di problemi reali e ho sempre sottovaluto le “sciocchezze”. Quando un coordinatore mi presentava una situazione riguardante un proprio centro, mi confrontavo e in piena fiducia gli davo “carta bianca” per procedere. Lo invitavo direttamente in amministrazione per ricevere l’approvazione. Questo soprattutto per snellire i tempi di lavoro, perché se mi fossi dovuto far spiegare in dettaglio la cosa, riportarla ad altri, questi avrebbero potuto disquisire ed io non sarei stato in grado di rispondere, sarei dovuto tornare dal coordinatore, tutto tempo, dal mio punto di vista, sprecato. Finché, durante l’ennesimo rifiuto da parte dell’amministrazione a ricevere il coordinatore da solo, feci mettere a verbale quanto segue: “Da oggi i coordinatori dovranno essere accompagnati dal capo area anche per andare in bagno!” Altro episodio. Facevo orario continuato e approfittavo della “calma d’ufficio”, dell’ora di pranzo, per svolgere mansioni altrimenti intralcianti per altri colleghi. Dovevo preparare un foglio A3, rimpicciolendo una tabella e ingrandire un’immagine per presentarla in una riunione. Entra la mia superiore e, con un tono da “richiamo verbale”, mi chiese cosa stessi facendo. Risposi che stavo preparando alcune fotocopie per l’incontro con i coordinatori, specificando che non si trattava di materiale personale. Lei risponde che quello era un lavoro da segretaria da quarto livello, non da un settimo, chiudendo il tutto con questa esclamazione: “Qui non ci siamo!”. Con tono di disappunto le risposi: “Quando il settimo livello 41 aveva spiegato al quarto come voleva il foglio A3 avremmo fatto notte e nessuno ci avrebbe guadagnato!” Queste erano le cose che mi mandavano in bestia! 42 G. Forse il tuo modo di fare veniva visto da alcuni dirigenti come troppo vicino, troppo simile, a quello degli operatori. Forse giocava un peso nelle tue difficoltà anche il tuo rapporto conflittuale con l'autorità. Centra qualcosa in tutto questo il tuo anarchismo? T. Non so cosa dirti. Forse il mio comportamento non rientrava nei canoni classici di certo modo di intendere la dirigenza. Ho sicuramente commesso l’errore di vivere queste frustrazioni da solo senza mai confidare ad altri il mio stato d’animo e senza confrontarmi con chi condivideva parte del mio disagio. G. Quanto tempo sei stato a Forlì? T. Circa un anno e mezzo. Questa esperienza cominciava a pesarmi tanto che mi si leggeva in viso. Quando le cose non vanno per il verso giusto non sono molto bravo a far buon viso a cattivo gioco, fatico a nasconderlo. In quel periodo il mio umore di fondo era cambiato. Un pomeriggio, sceso dal treno presi il solito autobus per tornare a casa. Ero così assorto nei miei pensieri che non mi ero neanche accorto che al mio fianco c’era mia figlia che mi stava chiamando ormai da qualche secondo. Ho sempre avuto un carattere allegro, il volto sorridente: chi mi conosceva si era subito accorto del mio stato di disagio. Quel periodo coincideva con il momento natalizio e i miei dirigenti mi consigliarono di consumare i giorni di ferie che avevo accumulato. In quel lungo periodo di ferie mi rigenerai: ero ritornato allegro e dopo aver trascorso molte notti insonni finalmente riuscii a dormire bene di notte. Al mattino del 7 gennaio mi recai in stazione, in attesa del treno per Forlì acquistai un quotidiano e iniziai a leggere tranquillamente. Salii sul treno continuando a leggere il quotidiano. Arrivato nei pressi della stazione di Forlì, sentii l’annuncio, e alle parole “stazione di Forlì” mi prese un nodo alla gola. Pensai subito che non si trattava del classico “brusco” ritorno dalle ferie. Circa un mese più tardi, durante una riunione della direzione operativa, di fronte all’“ennesimo piccolo problemino” annunciai la decisione che da giorni mi frullava nella testa: avevo deciso di ritornare a fare l’educatore a Rimini. Premisi che non avrei creato problemi burocratici o amministrativi e che mi sarei autodegradato di livello per percepire lo stipendio da educatore. G. Qualcosa insomma in questa situazione ti si rivoltava nello stomaco, nelle viscere. Centrava in qualche modo in questo il tuo rapporto con l’autorità, il timore di assumerla dentro di te? T. Ho fatto 14 mesi di militare e di autorità ne avevo avuta abbastanza! Da sempre con l’autorità non ho un buon rapporto. Con quella funzionale e intelligente però posso conviverci. Non so quindi se è qui il problema. G. Ti sei mai pentito della scelta fatta? T. Io, come al solito, me la prendevo troppo: davanti a me c’è sempre “il bambino che non è mai cresciuto” (credo si chiami sindrome di Peter Pan). Con il senno del poi, con l’esperienza che ho acquisito nel tempo, forse se mi trovassi in una situazione simile agirei diversamente. Non mi sono mai pentito comunque della scelta che ho fatto allora. Una sindacalista della C.G.I.L. di Forlì che con me aveva condiviso l’esperienza della R.S.U., venuta a conoscenza della mia decisione, mi ha stretto la mano e si è congratulata con me riferendomi che durante la sua esperienza di sindacalista non aveva mai incontrato nessuno che si fosse autodegradato, che non avesse lottato per conservare il livello raggiunto. G. Dopo un lungo periodo di entusiasmo e di crescita è venuto quindi questo momento di crisi… T. Al lavoro mi sono sempre divertito. Questo è l’unico anno che ricordo con poco entusiasmo! Forse, come mi hai fatto notare anche tu, la mia parte ideologizzante mi ha penalizzato. Del resto sono fatto così e non posso cambiare solo per ragioni di lavoro. Quando ho scelto di accettare il ruolo di capo area sapevo a cosa sarei andato incontro. Avevo posto dei paletti oltrepassato i quali non ne sarebbe più valsa la pena. Avevo continuato a lavorare assiduamente anche durante i periodi di crisi, senza che nessuno, nemmeno i collaboratori più stretti, se ne accorgessero. Continuavo a prendere decisioni, ad assumermi responsabilità. Un aspetto del problema è sicuramente anche nel fatto che io odio i dirigenti mediocri, gli insegnanti mediocri, gli amministratori mediocri e quando posso li “castigo” in pubblico G. Pretendi molto da chi dirige, da chi ha responsabilità pubbliche ed educative… 43 44 T. Pretendo molto da me stesso e, di conseguenza, anche dagli altri. G. Sei più tollerante invece, se capisco bene, nei confronti di chi è tuo pari o in un ruolo più debole socialmente, vedi esempio gli A.D.B…. T. Erano (e sono) spesso colleghi soli sui luoghi di lavoro, percepivano (e percepiscono) uno stipendio non adeguato all’impegno richiesto, dovevano partecipare a riunioni di lavoro al tempo non stipendiate, dovevano dare ore di reperibilità non riconosciute. Inoltre, quel tipo di lavoro era (è) usurante ed è a continuo rischio di burn out: Come puoi non solidarizzare con loro? Ti racconto un aneddoto: durante il primo incontro a cui ho partecipato come capo area nella zona di Rimini, ho esordito dicendo che ero lì anche per fare loro i complimenti da parte mia, della U.S.L., della C.A.D., perché stavano lavorando bene ed eravamo tutti contenti del loro operato. Primo, che è un mio carissimo amico, mi interrompe e ad alta voce mi chiede: “Che cosa ci stai per chiedere?”. Risposi, ed ero sincero, che non avevo niente da chiedere, che mi stavo semplicemente complimentando con tutti. G. Tendi ad essere più tollerante con chi è in difficoltà, con chi è in un ruolo sociale debole, meno, molto meno, con chi esercita un certo potere… T. Certamente! Chi ha potere, per esercitarlo è, in genere, ben pagato! G. Un dirigente dal punto di vista delle competenze e conoscenze e dal punto di vista etico deve essere superiore alla media delle persone, una sorta di essere superiore? T. Non è questo il punto. Nel mio lavoro continuo ad avere pretese e, per queste mie esigenze, sono criticato da alcuni colleghi. Di un medico o di uno psichiatra rispetto la professionalità e non intervengo nel loro ambito di competenze. Una volta tolto il camice, immersi in una discussione a carattere sociale, mi aspetto che siano in grado di tenere alto il livello di una qualsiasi conversazione! Non che debbano essere i soliti tuttologi, che oltretutto personalmente detesto, ma, dovrebbero però intendersi un po’ di storia, di cinema, di politica, di problemi di vita quotidiana. Mi aspetto che abbiano una cultura generale superiore alla media! Ecco, quanto incontro persone così, “mi tolgo tanto di cappello”. Spesso però ci troviamo di fronte a medici, insegnanti, dirigenti, che al di fuori del loro ambito di competenza, non valgono niente. In questi casi non riesco né a giustificarli né a rispettarli. G. Sei molto esigente nei confronti di chi ricopre un ruolo di coordinamento o dirigenziale, di chi svolge determinate professioni, hai grandi aspettative nei loro confronti… T. E perché non dovrei? Questa gente spesso decide della tua vita, di quella dei tuoi figli e del tuo lavoro. G. Torniamo al tuo percorso? …. Ritorni a Rimini a fare l’educatore. A fare cosa? Riprendi i tuoi casi? T. Lavoro subito a domicilio (tre ore al giorno) con il minore che avevo seguito nel reparto di neuropsichiatria, ritorno poi ad operare in un piccolo gruppo educativo (non più a quello di Villa Verucchio ma in uno a Bellaria) e prendo anche altri casi per completare l’orario settimanale. G. I colleghi come hanno commentato il tuo rientro da Forlì? Erano contenti? Hai notato qualche cambiamento in te in questo periodo? T. I colleghi erano contenti per me ma erano dispiaciuti delle conseguenze della mia scelta: avrebbero cambiato dirigenti e ancora non sapevamo come i nuovi avrebbero impostato il lavoro educativo. In generale per me le cose stavano migliorando: dall’esperienza di Forlì, sia i dirigenti che i colleghi, cominciarono a vedermi come una specie di “battitore libero”, cioè come un operatore fuori dai canoni. G. Hai ripreso alcune cariche (consigliere o sindacalista) o facevi esclusivamente l’educatore? T. Come ti ho spiegato, alle cariche ho dovuto rinunciare per le incompatibilità che di volta in volta incontravo. Sono tornato a fare ciò che mi piaceva di più: l’educatore. Ho continuato ad occuparmi di problemi contrattuali, sindacali solo per passione e per interesse, senza particolari cariche, mettendo semplicemente a disposizione le mie conoscenze acquisite negli anni. Questa situazione è andata avanti pochi mesi, da marzo a giugno, perché poi a luglio mi sono licenziato dalla Coop per andare a lavorare al C.E.I.S. (Centro Educativo Italo Svizzero) . 45 46 G. E’ stato il C.E.I.S. a prendere l’iniziativa, o sei stato tu a prendere contatto? T. L’iniziativa è partita un po’ da tutti e due. Ero venuto a conoscenza che si era licenziato un educatore in Betulla (centro residenziale del C.E.I.S. per ragazzi preadolescenti e adolescenti) e mi sono subito messo in contatto con il direttore che avevo avuto modo di conoscere perché era un docente del corso per educatori che avevo frequentato. In Coop avevo oramai fatto diverse esperienze, mi mancava proprio quella di un centro residenziale. Inoltre mi veniva garantito un orario di 36 ore fisse a settimana e la struttura si trovava a pochi chilometri da casa. Feci la domanda e fu accolta. Presentai subito le dimissioni alla C.A.D. ed iniziai, dopo pochi giorni, a lavorare presso la Betulla G. Come mai questa nuova scelta? E’ stato faticoso ritornare a operare sul territorio dopo aver svolto il ruolo di dirigente? T. Non era tanto questo. In Coop avrei fatto lavori routinari, e questa sorta di déjà-vu era poco stimolante! G. Per quanto tempo hai lavorato al C.E.I.S.? T. Per un anno e mezzo circa. G. L’anno e mezzo si ripete! T. Hai ragione: Consigliere d’Amministrazione, Capo Area, Coordinatore a Rimini presso la C.A.D., C.E.I.S., sempre per un periodo di un anno e mezzo. Che soffra della “sindrome dell’anno e mezzo”?!? G. Descriviamo un po’ questa esperienza. Per la prima volta lavori in una struttura residenziale con bambini di età scolare compresa tra elementari e medie inferiori. Che attività venivano svolte e con chi lavoravi? T. Sono entrato in luglio; lavoravo con 4 colleghi che avevano frequentato il corso per educatori con me. Questo ha facilitato da subito la formazione di un buon clima di gruppo. Il mio arrivo aveva creato qualche perplessità ai miei nuovi colleghi perché, conoscendo il mio trascorso in C.A.D., la mia esperienza di dirigente e il mio carattere, temevano che volessi entrare con fare da “capo”. Per fortuna si è creato subito un buon clima e siamo diventati amici anche nella vita privata. Tuttora ci frequentiamo con piacere! Il periodo del mio ingresso era quello estivo: organizzavamo momenti ludici, andavamo al mare o ci dilettavamo in giochi al coperto nei giorni di pioggia, ci preoccupavamo di aiutarli nei compiti delle vacanze. Per alcuni di loro sostituivamo la famiglia e ci comportavamo di conseguenza. Non ci sono stati particolari screzi con i colleghi e questo ha contribuito a creare un clima relazionale che garantiva ai ragazzi una certa serenità. Avevo instaurato buoni rapporti anche con altri operatori del C.E.I.S. esterni alla Betulla. In particolare coltivavo rapporti con il manutentore che io definivo “educatore nato anche se non qualificato”, e con le due bidelle della Betulla che confidenzialmente chiamavo “bidelline”; poi con le operatrici della cucina e, soprattutto, con gli educatori del Centro Stampa, con i quali mantengo rapporti di lavoro. G. Quanti bambini c’erano nel centro? T. Se non ricordo male, i residenziali erano 7; poi c’erano una decina di bambini che arrivavano da scuola all’ora di pranzo e si fermavano fino all’ora di cena. G. Che tipo di problemi avevano questi ragazzi : familiari, scolastici… ? T. Avevano problemi legati alla scolastico, problemi in famiglia. G. Non avevano patologie gravi… T. No, ho incontrato solo due casi gravi e solo nel mio ultimo periodo di permanenza in Betulla. G. Come vi eravate organizzati con i ragazzi: lavoravate divisi in gruppi? Era previsto un coordinamento? Una qualche supervisione? T. Il gruppo delle elementari era separato da quello delle medie ed ogni operatore era referente di 4/5 ragazzi facenti parte dello stesso gruppo: quindi il rapporto educatore/ragazzi era di circa 1/5. I coordinamenti avvenivano in media una volta la settimana e all’occorrenza; oltre agli operatori era presente anche il direttore in veste di supervisore. G. Programmavate le attività… socializzazione, al rendimento 47 48 T. Sì. Organizzavamo anche uscite. Ne ricordo in particolare una di due settimane nella struttura del C.E.I.S a Montercole, un paese vicino a Santagata Feltria. Dovemmo organizzare ogni particolare: dalla partenza al vestiario, dagli alimenti per i tre pasti giornalieri alle suddivisioni delle mansioni dei vari operatori dalle attività ai momenti ludici, etc. G. Alcuni educatori lavoravano già da diversi anni al C.E.I.S.? T. Si, alcuni avevano lavorato solo in quella struttura, altri venivano da altre esperienze. G. Il gruppo era stato riorganizzato? T. Sì. Veniva fatto un buon lavoro con i ragazzi. In autunno si organizzava la programmazione per il periodo invernale: si procedeva alla suddivisione dei gruppi: elementari e medie. Dovevamo prendere contatti con i diversi referenti delle scuole e preoccuparci dell’acquisto di tutti i libri di testo. G. Tu di quale gruppo facevi parte? T. Appartenevo a quello delle medie ed era sicuramente la scelta più logica tenendo conto della mia età e di quella dei ragazzi. G. Facevate incontri con le famiglie? T. Si, avevamo incontri programmati e/o al bisogno. G. Chi si occupava dei rapporti con le assistenti sociali di riferimento dei ragazzi? T. L ’operatore di riferimento. Alcuni operatori si occupano dell’ingresso dei ragazzi e altri tenevano i contatti con la direzione. L’organizzazione era funzionale. G. Essendo un centro residenziale dovevate preoccuparvi di organizzare anche i turni notturni e festivi? T. Si, ma erano già compresi all’interno delle 36 ore settimanali. G. Ti sei occupato anche di altre situazioni educative in quel periodo? T. Per alcuni mesi oltre al mio normale lavoro mi erano state riconosciute 10/12 settimanali ore per seguire i ragazzi che all’interno del C.E.I.S. lavoravano, inviati dal settore handicap adulto o dal settore psichiatrico dell’AUSL, con una borsa lavoro. Il mio ruolo era quello di tutor e tenevo i contatti con gli operatori di riferimento dei ragazzi. G. Qual era il tuo compito nei confronti di questi ragazzi? T. Ero il loro punto di riferimento: spiegavo loro il lavoro, li aiutavo in caso di difficoltà, li osservavo durante il lavoro e riferivo quanto osservato agli operatori dei servizi coinvolti. Le mansioni che svolgevano erano diverse: alcuni di loro lavoravano in cucina, altri ci aiutavano in Betulla, altri ancora si occupavano della manutenzione del giardino. G. Da quel che racconti sembra sia stata una bella esperienza. Perché hai deciso allora di licenziarti? T. Io chiedevo di entrare in ruolo: per esigenze burocratiche, mi veniva rinnovato il contratto ogni 8 mesi e tra un rinnovo e l’altro dovevo sospendere il lavoro per una quindicina di giorni. Pensavo di entrare in ruolo dopo i primi 8 mesi, ma così non è stato. C’era solo un accordo verbale e in caso di problemi o di crisi del centro i primi che avrebbero rischiato il posto di lavoro eravamo noi. Non entrare di ruolo immediatamente non era la preoccupazione principale ma, sinceramente, non gradii molto questa situazione. G. Se capisco bene quindi il problema non era solo tuo. Come sono evolute le cose? T. In Betulla io ero l’unico a vivere questo tipo di situazione. In quel periodo il C.S.M. (Centro di Salute Mentale dell’AUSL) cercava un educatore. Il settore della salute mentale è stato sempre un “mio pallino”. Pensa che l’argomento della mia tesi in sociologia aveva come titolo “La sofferenza psichica: analisi del contenuto in sei quotidiani”; anche la tesina per il corso educatori, affrontava queste tematiche. Con il dott. B., primario del C.S.M. e docente di psichiatria al corso educatori, mi ero più volte confrontato sull’argomento, scegliendolo poi come materia d’esame. Ho preso le dovute informazioni presso il C.S.M. e mi hanno confermato che cercavano un educatore. L’unico modo per potervi entrare era attraverso la richiesta di educatori che veniva fatta alla C.A.D. Ho colto l’occasione 49 al balzo e, dopo essermi licenziato dal C.E.I.S., sono ritornato alle origini. Erano almeno 3 mesi che il C.S.M. era in cerca di un educatore. Nessuno era intenzionato a lavorare in psichiatria. Tra gli operatori era diffusa la convinzione che fosse un lavoro a rischio, pericoloso per l’incolumità degli educatori stessi, soprattutto nel lavoro a domicilio. Nei primi tempi in cui lavoravo per conto del C.S.M. la domanda più frequente che i colleghi mi ponevano riguardava proprio la ”pericolosità” del mio lavoro: mi domandavano come mi ponevo nei confronti del nucleo familiare e se gli utenti erano violenti nei miei confronti. 50 G. Ti è dispiaciuto doverti licenziare dal C.E.I.S.? T. Certo che mi è dispiaciuto. Quando ti allontani da un lavoro in cui ti sei trovato bene ti dispiace sempre. Avevo già vissuto situazioni simili. Elaborare i lutti è faticoso. Ma così va la vita! G. Con il cambiamento ti sei trovato di fronte ad una nuova sfida… T. Dopo 9 anni di lavoro direi che la sfida è stata vinta! Coloro che hanno problemi di salute mentale costituiscono il tipo di utenza che certamente prediligo. G. Sei entrato nel settore della salute mentale in un periodo di crisi dei grandi sistemi teorici (la psicanalisi, la sistemica, la psichiatria sociale per citarne alcuni) di riferimento. Hai sentito questa mancanza? Hai trovato rimedio alla mancanza o alla questa fragilità di tali riferimenti in qualche lettura significativa? T. Considera che ero fresco studente universitario. Avevo già letto parecchio: avevo sostenuto un esame di pedagogia generale, diversi di sociologia, uno di psicologia generale e nessuno di filosofia. Il piano di studi mi ha consentito di spaziare in settori diversi, anche se le due grandi componenti dei miei studi comprendevano gli ambiti sociologico e psicologico e in minor parte quello pedagogico. Per mio interesse personale leggevo poi parecchi testi. Mi è sempre piaciuto affrontare diversi argomenti, anche perché non amo “sposare” una sola scuola di pensiero. E’ pieno il mondo di persone che amano inserirsi in categorie chiare e specifiche: chi si definisce junghiano, chi freudiano, chi… A me non piace invece essere costretto ad identificarmi in una corrente di pensiero: chi appartiene ad una particolare scuola di pensiero fatica a confrontarsi con chi, come me, rifiuta qualsiasi tipo di appartenenza. Per partecipare al concorso per educatori mi sono studiato tutto il manuale di psichiatria (il Piccione) dal quale ho appreso che esistono centinaia di metodi psicoterapici e sembra che tutti diano, più o meno, lo stesso risultato. Anche nella mia vita privata seguo diverse tendenze, leggo diversi autori ma preferisco avere le mie idee, che sono una sorta di sintesi di quelle che volta a volta incontro. G. Si può dire che nel lavoro fai riferimento più alla tua personale “intuizione” che ad una particolare teoria? T. Diciamo che metto la teoria al servizio della mia intuizione. Sono un curioso e leggo diverse cose: gli ultimi due testi che ho letto sono stati Il principe di Macchiavelli e L’anarchia. Storia dei movimenti libertari nel mondo di D. Tarizzi, libri che da anni tenevo nella mia biblioteca. Il mio metodo di lettura è particolare: mi piace leggere una parte di un libro e passare poi all’altro. Leggo libri ma preferisco comunque dedicarmi alle riviste di attualità, di carattere generale, culturale. Mi piace comprare settimanali, mensili, periodici. Sono più sintetici e trattano argomenti e problematiche attuali. G. Cambiamo tema… Vuoi? T Certo… G. Che rapporto hai in genere con i tuoi colleghi educatori? T. I miei colleghi parigrado hanno costituito sempre una risorsa per me: con loro ho avuto sempre un ottimo rapporto. Ho individuato almeno due categorie di educatori: c’è chi fa il proprio lavoro senza prendersi alcun tipo di responsabilità (costoro costituiscono la cosiddetta “maggioranza silenziosa”) e chi, invece, si assume responsabilità “vacanti”, quel tipo di responsabilità che sembrano non appartenere a nessuno. Spesso il connubio esperienza ed età mi hanno fatto diventare automaticamente, mio malgrado, punto di riferimento di situazioni, di altre persone. Al corso educatori, se ricordi, ero il referente del gruppo classe. G. Hai conosciuto tanti operatori: assistenti sociali, psicologi, psichiatri. Qualcuno è stato particolarmente importante per te? T. Il lavoro d’équipe è un dare e un avere costante e reciproco. Mi piace ricevere dagli altri. Non saprei dirti se nel corso della mia carriera 51 educativa ho dato od ho ricevuto di più, né da quali figure professionali. Ritengo che nella nostra professione, come in tutte le altre, esistano persone valide e meno valide. Sono un sostenitore del lavoro d’équipe. All’interno di una équipe sono le persone quelle che determinano la qualità del lavoro. Una persona “sopra le righe” che abbiamo conosciuto entrambi e che avevo preso a modello era Danilo Dolci: una persona che ha pagato per le sue scelte coraggiose, che non si è mai tirata indietro, che si è sempre impegnata nel sociale rispondendo sempre “pane al pane e vino al vino” a chi era attorno a lui! Una problematica che a mio parere andrebbe risolta riguarda la formazione delle assistenti sociali. E’ una professione che necessita di un lungo periodo di esperienze prima di essere messa in campo. Mi capita sempre più spesso di confrontarmi con alcune assistenti sociali appena uscite dall’università che si trovano ad affrontare situazioni di grossa responsabilità come decidere in merito alla permanenza o meno di minori all’interno dei nuclei familiari, agli affidamenti, etc. Secondo me in quei casi, per evitare danni a volte irreparabili, sarebbero necessarie, proprio per la delicatezza e la complessità della materia, figure di consolidata esperienza. Il tempo di tirocinio programmato è un periodo troppo breve per consentire di affrontare al meglio queste particolari situazioni. Nei primi anni di assistenza domiciliare mi sono trovato bene con psicologi che anche tu conosci (il dott. B. e il dott. S.) con la psichiatra della N.P.I. (Neuro Psichiatria Infantile) dott.ssa Z. e anche con assistenti sociali della “vecchia guardia” con le quali tuttora collaboro. Nel corso degli anni anche altri colleghi hanno lamentato spesso il fatto di trovarsi a lavorare insieme ad assistenti sociali sempre più giovani con le quali avevano avuto problemi in passato. 52 G. Al di là di questo problema specifico, assistenti sociali ed educatori riescono in genere a lavorare bene insieme… T. Forse più all’inizio, anni fa. Nei primi tempi noi educatori eravamo figure molto fragili, con poco storia alle spalle e con poca esperienza. Le assistenti sociali erano più esperte di noi e avevano più o meno la mia età. Con l’andare del tempo noi educatori siamo cresciuti sia quantitativamente che qualitativamente e, nel frattempo, cominciavano ad arrivare assistenti sociali di una classe di età più giovane della media degli educatori e, di conseguenza, con meno esperienza. G. Nell’intervento domiciliare la figura di riferimento principale per l’educatore è stata ed è spesso l’assistente sociale… T. In psichiatria è stata sempre presente l’équipe allargata. Nel domiciliare la prima figura di riferimento è sempre stata l’assistente sociale. In caso di necessità si poteva avvalere di altre figure (logopedista, psicologo, psichiatra, etc.). Aveva comunque una responsabilità superiore. G. Ci sono stati operatori con i quali hai avuto qualche particolare conflitto in questo nuovo lavoro al C.E.I.S? T. Alcuni problemi li ho avuti. Sono un deciso sostenitore del lavoro d’équipe. Nelle riunioni d’équipe ci si può, ci si deve, scontrare e confrontare anche utilizzando toni accesi, ma una volta usciti si deve parlare tutti la stessa lingua. Spesso mi trovavo a scontrarmi con i ragazzi perché proibivo loro di fare determinate azioni che, invece, altri operatori concedevano. Esigevo il rispetto di regole decise insieme e che altri invece, a volte, ignoravano. Per fare un esempio: una minorenne dopo le ore 21.00 gironzola in cucina trasgredendo la regola (fissata in équipe) che ne vietava l’ingresso serale (in cucina si trovano oggetti pericolosi come forchette, posate o coltelli). Fu da un dialogo con la ragazza che dedussi che altri, in passato, glielo avevano concesso, trasgredendo la regola decisa insieme. G. Alcuni di loro probabilmente non avevano il coraggio di scontrarsi in équipe, facevano finta di accettare le decisioni prese in comune e poi… T. Quando andammo al confronto su questo problema mi risposero che non erano in grado di far rispettare le regole e di dare certe proibizioni ai ragazzi. La mia risposta fu più volte la medesima: il lavoro era quello, se non erano in grado di sostenere queste posizioni dovevano trarne le dovute considerazioni. Nei confronti dei ragazzi a mio parere l’educatore non deve essere né amico, né padre, né fratello maggiore, né terapeuta. Deve svolgere il proprio compito: educare con tutti i pro e i contro che la professione comporta. Si prende uno stipendio per questo. Occorre saper tener duro su un impegno preso. G. Quindi si dovrebbe riuscire ad essere coerenti sempre? T. Certamente. Altrimenti si rischia di compiere errori nei confronti dell’utenza e di risultare poco credibili come colleghi. 53 54 G. Con il coordinatore, con il supervisore, hai avuto conflitti? T. Meno, proprio perché mi scontravo spesso direttamente all’interno della équipe. Una volta presa una decisione comune, mi attenevo a questa. Il coordinatore dopo aver sentito il parere di tutti, prendeva la decisione e se ne assumeva la responsabilità. G. Un’ultima domanda… Ricordi un episodio di difficoltà con un ragazzo e un aiuto venutoti da un altro operatore? T. Nei primi anni di lavoro, soprattutto nel domiciliare, era ricorrente un senso di solitudine, situazioni in cui non si sapeva cosa fare. In questi momenti si ricorreva al buon senso o alla collaborazione di chi si riusciva volta a volta a contattare: colleghi più anziani o assistente sociale. Sono stato anche fortunato, perché ho goduto sempre della massima collaborazione anche da parte degli psicologi. Addirittura la dott.sa Z. mi aveva dato il numero telefonico della propria abitazione. Ricordo che in occasione del mio primo scontro fisico con un ragazzo ero preoccupato di aver sbagliato qualcosa nel mio intervento. Mi sentivo in colpa per un errore che non sapevo neppure io quale fosse. In quel momento fu molto importante per me l’aiuto datomi dallo psicologo di riferimento, dott. B., il confronto con lui. Ricordo ancora bene quel che allora mi disse: “In un rapporto duraturo ed empatico con un utente, se dopo uno scontro fisico si viene riaccettati, significa che la modalità di intervento scelta è stata quella giusta”. Quella lettura della situazione sanò allora i miei sensi di colpa e di inadeguatezza. Fu in quel momento un supporto importante. Unità Operativa Risorse Intangibili via Flaminia, 76 - 47900 Rimini 0541.304909 0541.304907 www.risorse-intangibili.it [email protected]