2007
SERVIZIO SANITARIO REGIONALE
EMILIA-ROMAGNA
Azienda Unità Sanitaria Locale di Rimini
SENZA SPARTITO
Quaderni ASRI
Ricordi e riflessioni su un ventennio
di esperienze educative
prima parte
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A cura di Pretelli Settimio e Gilberto Mussoni
Pretelli Settimio ha iniziato ad operare come educatore in una cooperativa
sociale circa vent’anni fa. Nel 1994 si è laureato in sociologia e ha acquisito il
titolo di educatore. Da allora in avanti ha vissuto varie esperienze professionali
(come educatore, dirigente, formatore) e dal 1998 opera come educatore
presso il Centro di Salute Mentale dell’AUSL di Rimini.
Gilberto Mussoni lavora da molti anni come educatore presso l’Ausl di
Rimini. Ha operato a contatto con persone con problemi psichiatrici, nel ruolo
di coordinatore su problemi connessi al lavoro educativo con persone
cosiddette disabili e con minori a disagio, nella formazione professionale. Da
tempo si occupa della documentazione-narrazione di esperienze professionali
di carattere socio-sanitario.
Pretelli Settimio
Senza spartito
Ricordi e riflessioni su un ventennio
di esperienze educative
Prima parte
(a cura di Gilberto Mussoni)
Dedicato a D. e C.
INDICE
In forma di presentazione ......................................... pag. 7
Nuove musiche…senza spartito .............................. pag. 8
Prima intervista ........................................................ pag. 10
Seconda intervista .................................................... pag. 33
In forma di presentazione
Mi sono incontrato la prima volta con Settimio (Tino) nel 1991. Avevo allora
poco più di dieci anni di lavoro educativo alle spalle. Lui due. Abbiamo allora
lavorato insieme per un certo numero di anni in un gruppo educativo (io come
coordinatore, lui come educatore) e ci siamo poi incontrati nuovamente nel
secondo Corso biennale di qualificazione su lavoro per educatori professionali
(allora ero responsabile del corso, lui corsista). Dopo questa significativa
frequentazione ci siamo visti e sentiti per anni in varie occasioni (in qualche
attività formativa, in qualche evento pubblico, in occasioni casuali, per strada, per
telefono per chiedere e scambiarci qualche informazione) solo di sfuggita,
velocemente, come ormai accade sempre più anche fra chi vive vicino, fianco a
fianco.
Alcuni mesi fa lo vedo arrivare al servizio in cui ora lavoro per chiedermi
una collaborazione. Mi dice che vorrebbe raccontare i suoi vent’anni di lavoro
educativo. Non ama molto scrivere. Nasce così l’idea delle interviste. Benché
conosca a grandi linee il suo percorso lavorativo gli chiedo di farmi un sintetico
riassunto della sua attività per avere una traccia da seguire e iniziamo ad
incontrarci. Io faccio domande, forse troppe, e lui racconta la sue esperienze.
Ogni tanto le mie domande cercano di far emergere il suo pensiero su alcuni
punti vitali della sua professione, sul suo modo di intendere il lavoro educativo.
Nel mentre lui racconta e ragiona scopro qualcosa di lui e di me. Lo interrogo e
mi interrogo. Misuro le distanze, le vicinanze, le sovrapposizioni. Partiamo senza
sapere bene quante interviste saranno necessarie. Ci fermiamo a quattro. Dopo
averle trascritte (un aiuto importante è venuto a riguardo da sua figlia che qui
colgo l’occasione per ringraziare) le abbiamo riviste insieme una per una,
aggiustate, trasformato il parlato in scritto, tolto qualche ripetizione, riscritto
qualche ragionamento contorto. La lettura del testo da parte di un amico comune,
Primo Pellegrini, ha sollecitato alcune sue riflessioni che precedono le interviste.
Non penso che il testo che presentiamo abbia bisogno di tanti discorsi
introduttivi.
Un presupposto anima questo lavoro e altri simili: ascoltare attentamente le
esperienze professionali di altri colleghi, cercare di comprendere il loro modo di
viverle ed interpretarle è una (non la sola, né necessariamente la migliore) strada
per interrogare la propria esperienza, per ripensare e migliorare il nostro modo di
lavorare e di essere.
La lettura di questo libretto è a mio parere un’occasione per vivere questa
esperienza e sottoporre ancora una volta a verifica questo presupposto.
Ringrazio Tino per l’opportunità che mi ha dato e mi auguro che, soprattutto
tra gli educatori, ci siano altri che sappiano coglierla.
Gilberto Mussoni
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Nuove musiche… senza spartito
Fra i mestieri e le professioni ve ne sono sicuramente diverse che
possono assumere talvolta connotati di straordinarietà. Per la portata sociale,
o per l’impegno, o per i riconoscimenti che il prodotto del loro ingegno e della
loro dedizione meritano. A volte a ragione, a volte no.
Il mestiere di educatore – utilizzo il termine “mestiere” e non professione
perché nel caso di queste interviste mi sembra più appropriato – ha una storia
antica e molto spesso straordinaria, eppure non ha mai entusiasmato le folle,
non ha mai creato né miti né eroi. Neanche fra gli stessi educatori ed
educatrici. E non a caso: immagino Ferrer, Don Milani, Makarenko, per fare
qualche esempio, portati su di un palco a ricevere applausi e non riesco a non
immaginarli immediatamente con una smorfia di disgusto per tanto inutile,
futile clamore. Li immagino schernirsi e alzarsi il bavero con pudore,
nascondersi , sperando che “i loro ragazzi” non li vedano.
Si tratta solo di una mia piccola suggestione, o se volete di una
allucinazione. Ma il mestiere di educatore, di educatrice, si fa in silenzio,
spesso da soli. Si fa lontano dai riflettori, a volte distanti dal mondo, perché
spesso è necessario rimanere da soli, in due, con la persona di cui ci si
prende cura, e nessuno deve entrare in quello spazio magico e speciale, così
difficile da costruire e difendere. Uno spazio non codificato, sempre diverso,
sempre da reinventare. Costi quel che costi, a costo di scomparire, per un
po’, insieme. Superando la rabbia e la frustrazione che assalgono quando, al
ritorno da questi “spazi”, qualcuno dirà che non si capisce cosa ha fatto
l’educatore in quel tempo, a cosa è servito, come è misurabile il suo lavoro…
e magari irridendo dirà che sì, in fondo non è un lavoro, non è una
professione, che siamo solo inguaribili Peter Pan che si baloccano con i loro
utenti.
Credo fermamente nel valore della formazione specifica, come
nell’aggiornamento costante, nel lavoro in equipe, nella necessità della
supervisione, nel confronto con le altre professioni sociali e sanitarie: non
penso si possa prescindere da tutto questo, si tratta di strumenti di lavoro
indispensabili. Ma credo altrettanto che non si possa continuare a lungo il
mestiere di educatore senza la curiosità e la passione di un viaggiatore
amante dell’avventura. So che questi termini possono suonare blasfemi e
irriverenti, accostati ad una quotidianità fatta di sofferenza e dolore, la materia
del nostro lavoro: al tempo stesso, non riesco ad immaginare come altrimenti
si potrebbe tollerare di entrare ed uscire così disarmati, così poco potenti,
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dentro a quegli spazi di cui parlavo poco fa. Spazi che a volte fanno davvero
paura, spazi in cui altri entrano armati di tutto punto, da appartenenti a
professioni forti, con settings, ruoli, tabelle di marcia rigorose e definite. Gli
educatori e le educatrici ci entrano con davvero poche armi, e forse non è un
caso se tanti e tante di noi erano e sono nonviolenti e pacifisti: non c’è guerra
se non ci sono eserciti, non servono armi se non c’è guerra.
E’ davvero, credo, questa passione e curiosità di conoscere l’altro,
anche nei suoi aspetti più difficili e a volte terribili, a mantenere viva la
speranza e l’idea di poter raggiungere insieme a lui, al suo fianco, un
cambiamento che a volte sarà talmente piccolo, impercettibile, da non essere
notato dai più.
I riconoscimenti e gli applausi vanno ai grandi direttori di orchestra o alle
star, e non a chi suona senza spartito improvvisando nelle stazioni della
metropolitana: così nella loro quotidianità fatta di silenzioso anonimato gli
educatori a volte cercano di tirare fuori melodie sempre nuove da strumenti
che sembrano irrimediabilmente stonati, magari scartati. Né vorrebbero che
succedesse altrimenti, né potrebbe diversamente avvenire: stare lontani dagli
applausi e dai riflettori è necessario.
A volte, spesso, occorre suonare senza spartito, proprio come dice
Settimio: perché non esistono musiche a cui quegli strumenti siano
riconducibili, e, allora, bisogna provare a comporne di nuove.
Primo Pellegrini
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PRIMA INTERVISTA
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G.
Iniziamo dunque questo lavoro, questa esperienza. Non è trascorso
molto tempo da quando me ne hai parlato la prima volta. Vedo e
sento che c’è in te una certa urgenza e determinazione a
intraprenderlo. Prima di iniziare a ricostruire la tua storia, avrei
piacere di capire un poco perché, dopo anni che fai questo tipo di
lavoro, hai deciso di cercarmi per raccontare, narrare, la tua
esperienza lavorativa. Dopo che mi hai parlato di questa tua
intenzione, mi sono fatto più volte questa domanda senza
rivolgertela… Forse non è il modo migliore di iniziare questo nostro
lavoro ma…
T.
Come educatore ritengo di avere avuto un’esperienza un po’ anomala
rispetto alla media dei miei colleghi, sia per come ho iniziato a fare
questa professione sia nel come si è poi evoluto il mio percorso
lavorativo. Spero che nel proseguo delle interviste questa anomalia
emerga e venga descritta.
Ho cominciato il lavoro come educatore domiciliare nell’89 all’interno
della Cooperativa C.A.D. (Cooperativa Assistenza Domiciliare). Oltre
ad andare nelle case dei minori a svolgere il mio nuovo lavoro, e aver
poi successivamente e parallelamente operato in un piccolo gruppo
educativo e in centro estivo, mi sono trovato subito impegnato anche,
contemporaneamente, all’interno della cooperativa. La direzione della
Coop CAD era a Forlì, nella zona di Rimini c’era allora solo un ufficio
aperto due ore alla settimana, senza regolarità. Assieme ai miei
colleghi ho iniziato ad organizzare riunioni e a chiedere ai responsabili
della cooperativa la possibilità di organizzare meglio l’ufficio di Rimini
per permettere a noi educatori di questa zona di avere contatti
regolari con lo stesso. Questo impegno mi ha consentito poi di
ricoprire molti ruoli al suo interno: come quadro, come Consigliere di
amministrazione, come facente parte della R.S.U. (Rappresentanze
Sindacali Unitarie) degli operatori prima e dei quadri, come dirigente.
Nel 1996 mi sono licenziato dalla Coop e, per la durata di un anno e
mezzo, ho lavorato sempre come educatore, presso il C.E.I.S.
(Centro Educativo Italo Svizzero).
Nel 1998 sono ritornato alla Coop C.A.D. per poter lavorare al C.S.M.
(Centro Salute Mentale) dell’AUSL di Rimini dove tuttora, dopo aver
vinto un concorso, opero.
Da un certo punto ho svolto poi anche una certa attività di
insegnamento…
Ho lavorato in vari contesti, in vari luoghi, ho ricoperto varie funzioni.
Penso che raccontare la mia esperienza e rifletterci sopra, mettere a
disposizione di altri questo mio racconto, possa essere in qualche
modo utile ai miei colleghi, in particolare ai più giovani…
G.
Ma perché proprio ora è nato in te questo desiderio? Perché, che so
io, non due o tre anni fa?
T.
Perché credo che quasi vent’anni di vita professionale di una persona
sia un tempo significativo per poter svolgere su di essa una
riflessione. Ancora più ragioni ci sono poi per una professione come
quella educativa nata, almeno in questo territorio, con noi. Non siamo
andati a fare una professione stabile e definita come quella dei
ragionieri o degli Infermieri, che sono categorie ben consolidate e già
in possesso di un albo professionale. La nostra professione è nata
assieme a noi ed è bene che dell’esperienza di Rimini ci sia una
qualche testimonianza.
Considera poi che è stata una fase della mia vita altamente positiva,
un’esperienza che non sta volgendo al termine, che tuttora continua.
Sono sempre in attesa di potermi addentrare in situazioni diverse,
nuove.
G.
Hai iniziato a fare l’educatore nel 1989, prima svolgevi un altro lavoro.
Che cosa è successo? Cosa ti ha fatto cambiare strada?
T.
Facevo il commerciante. Per 13 anni ho gestito una Stazione di
servizio, un distributore di benzina, assieme a mio fratello. Il lavoro,
seppur pesante, mi piaceva, mi consentiva di stare in mezzo alla
gente, cosa che io amo! In primavera un mio carissimo amico (Primo)
mi dice che ha cominciato a fare un lavoro che sentiva adatto a lui e a
suo parere anche molto adatto a me. Ha motivato quest’affermazione
dicendo che avevo già una figlia, che ero iscritto all’università e che
vedeva il mio carattere congeniale a quel lavoro. .
G.
Da quanti anni eri iscritto all’università?
T.
Frequentavo il terzo anno della Facoltà di Sociologia a Urbino.
G.
Quindi è stato Primo ad indirizzarti verso questo lavoro?
T.
Sì. Cercò di spiegarmi in cosa consisteva il lavoro di educatore
domiciliare. A dire il vero, non riuscii a capire bene di cosa stesse
parlando e così il dialogo in un primo momento si chiuse. Lavoravo in
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una stazione di servizio! Poi mi spiegò che anche sua moglie aveva
appena intrapreso quel lavoro. Durante l’estate di quell’anno mi resi
conto di essermi stancato di fare il gestore del distributore, anche
perché avevo avuto qualche problema di troppo. In settembre,
durante una cena a casa di Primo, gli chiesi altre informazioni sul suo
lavoro. Mi rispiegò a grandi linee di cosa si trattava e cominciai ad
incuriosirmi. Senza perdere ulteriore tempo mi recai subito, nella
settimana successiva, presso l’ufficio di Rimini della Coop. Preparai i
documenti necessari e chiusi l’iscrizione alla Camera di Commercio di
Rimini. Il lunedì successivo iniziai a lavorare come educatore.
Rispettai i tempi burocratici, non feci niente di irresponsabile. Su
indicazione della referente della Coop. mi presentai alle due
Assistenti Sociali (con le quali collaboro tuttora) in via Bonsi dove
erano situati gli uffici della U.S.L.. Mi presentarono la situazione di
due ragazzi minori e di lì a poco cominciai gli interventi. Ricordo che
nei corridoi incontrai anche una responsabile della U.S.L. che era mia
cliente al distributore la quale mi chiese cosa stessi facendo in quella
sede. Io risposi : “Ho avuto un incontro con due assistenti sociali,
sono il nuovo educatore non mi vedi?!”. Scoppiammo tutti e due in
una fragorosa risata!
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G.
La prima assistenza domiciliare dopo quanto tempo è cominciata?
T.
Di lì a pochissimi giorni perché le assistenti sociali mi comunicarono
che avevano urgenza di
affidare questi casi a uomini (mi
dissero che mi aspettavano a braccia aperte). In quel periodo, se non
ricordo male, io e Primo eravamo gli unici uomini presenti in Coop a
Rimini. I primi casi che mi affidarono furono una bambina di 7 anni
che viveva con la madre (ragazza madre) e un ragazzino di 11 che
viveva, anche lui, con la madre separata. In entrambi mancava la
figura maschile in casa.
G.
Che tipo di problematiche c’erano?
T.
I problemi erano dovuti all’assenza della figura maschile! La
ragazzina, che non aveva mai avuto nessun tipo di assistenza
domiciliare, viveva da sola con la madre la quale aveva qualche
problema economico, sociale, personale. Il ragazzino, invece,
frequentava le scuole medie, viveva con la sola madre ammalata e
separata, aveva bisogno di una assistenza per recuperare un ritardo
in ambito scolastico. Erano i primi anni che i servizi praticavano
questo tipo di interventi. Allora, non come ora, c’erano disponibilità
economiche anche per questo. Con l’andare del tempo non si è più
fatta attività educativa a partire dal recupero scolastico, si è sempre
più intervenuti solo in situazioni di minori portatori di handicap gravi o
medio gravi. A parer mio e dei miei colleghi quegli interventi erano
molto utili, sia per i minori che per le famiglie. Si entrava all’interno
delle famiglie con la “scusa” di aiutare i ragazzi nello svolgimento dei
compiti, in realtà si cercava di capire la natura delle problematiche
presenti per cercare di attuare un intervento sull’intera famiglia. Ti
racconto un aneddoto recente: la settimana scorsa ho incontrato per
caso il ragazzino di cui ho parlato ora, che non avevo più rivisto da
allora; mi ha riferito di essere sposato, di avere due figli e di lavorare
in società con suo suocero.
G.
Se ricordo bene hai avuto anche il caso di un ragazzino più grave…
T.
Era un ragazzino chiuso, faticava a socializzare con i coetanei. Era
scontroso, litigioso, con un livello di autostima molto basso. Andava
d’accordo con gli adulti, aiutava le vecchiette ad attraversare la
strada; quando arrivava nel campo di calcetto, iniziavano i guai! Dei
compiti non si parlava. I genitori litigavano costantemente, il padre
aggressivo aveva fratturato in un paio di occasioni le costole alla
moglie senza che questa, per paura, lo denunciasse. Ricordo che il
padre durante l’unico colloquio, a cui si presentò, con la assistente
sociale di riferimento del ragazzo, ammise “candidamente”: “Mio
padre mi parlava a suon di schiaffi e io so fare solo questo con mio
figlio”.
G.
In quali zone lavoravi?
T.
Principalmente nelle zone di Villa Verucchio, alle Celle e a Viserba.
G.
Hai un aneddoto da raccontare in riferimento al tuo primo giorno di
lavoro?
T.
Si. Anche molto divertente, a mio parere.
Quando non era possibile farsi presentare alle famiglie dalle assistenti
sociali, noi ci recavamo da soli al domicilio. Ci descrivevano il caso ci
fornivano l’indirizzo dell’abitazione e… vai! Quasi sempre avvertivano
la famiglia con una telefonata fornendo il nome dell’educatore. In
occasione del mio primo domiciliare suono al campanello
dell’abitazione. Mi risponde la signora domandando chi fosse.
Rispondo presentandomi come “l’educatore”. Allora la sentii chiamare
la figlia dicendole di far presto perché era appena arrivato “il
maestro”. L’associazione della madre era subito fatta: la bambina
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frequenta le scuole elementari, allora io ero il maestro! Sono entrato
in casa, ci siamo presentati, abbiamo fatto i compiti e dopo un’ora e
mezza me ne sono andato dando loro l’appuntamento per il giorno
successivo.
Subito dopo mi reco dall’altro ragazzino che frequentava le scuole
Medie. Suono il campanello e anche qui mi risponde la madre. Mi
ripresento come “l’educatore”. La signora chiama il figlio dicendo che
era appena arrivato il professore. Anche qui l’associazione è stata
subito fatta: mi sono messo a ridere da solo!
A sera al ritorno a casa ho detto a mia moglie: “Sai oggi nella prima
ora di lavoro sono diventato maestro e nella seconda professore, se
continua di questo passo in una settimana diventerò presidente della
Repubblica!”
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G.
Un buon inizio, non c’è che dire… Quindi facevi assistenza
domiciliare prevalentemente in situazioni in cui era necessario un
sostegno per il recupero scolastico. Come era organizzato il lavoro?
T.
L’assistente sociale era colei che conosceva i ragazzi e che decideva
il tipo di intervento da attuare sul minore. Chiamava l’educatore, gli
presentava il caso e gli presentava il progetto con tanto di durata
dell’intervento, numero di ore a disposizione.
Per esempio nel caso della ragazzina il mio orario era di un’ora e
mezza al giorno, dal lunedì al venerdì. Per l’altro ragazzino avevo a
disposizione quattro ore suddivise in due giorni alla settimana. Questo
esclusivamente per consentire la copertura dei compiti settimanali.
Gli orari si stabilivano con le famiglie seguendo le loro esigenze e
tenendo conto della disponibilità oraria dell’operatore.
Era difficile riuscire ad incastrare gli orari in maniera ottimale al fine di
avvicinarci il più possibile alle 36/38 ore settimanali per avere uno
stipendio adeguato. Venivamo pagati a ore e comunque pagati poco:
tuttora la paga oraria prevista dai contratti nazionali delle cooperative
sociali è bassa. Lavoravamo con il sistema “a caselle”. Conservo
ancora a casa i piani di lavoro settimanali forniti dalla Coop. Ti davano
l’idea immediata dei tuoi impegni settimanali. Le caselle vuote
costituivano per noi operatori una specie di “muri del pianto” in termini
di stipendio, perché significavano ore non lavorate e quindi non
retribuite.
Mediamente si riuscivano ad organizzare tre interventi al giorno per
una media oraria di sei ore al giorno per sei giorni settimanali. Erano
possibili anche cambiamenti in itinere sia per esigenza della famiglia
che dell’operatore. In termini di copertura oraria, noi uomini, dato
l’esiguo numero, eravamo certamente favoriti. Ricordo che dovevo
combattere più con l’esubero delle ore (che per contratto andavano in
flessibilità) che con la carenza di orario! Andavano considerati anche
gli spostamenti: in una giornata poteva succedere di dover partire da
casa (Rivazzurra di Rimini) per recarmi a Villa Verucchio; di qui alle
Celle per raggiungere poi Spadarolo. Come si può notare i chilometri
erano tanti e il rimborso spesa era minimo (fra l’altro non previsto dal
CCNL, ma riconosciuti come condizione di favore dal regolamento
interno C.A.D.). Diciamo che sia da parte della Coop che
dell’operatore una media oraria di 25 ore settimanali erano già
soddisfacenti e più aumentava l’anzianità di servizio, più miglioravano
le cose!
G.
Con che criterio assegnavano ai maschi i casi?
T.
Secondo me e secondo i miei colleghi i criteri principali erano almeno
due: la carenza della figura maschile nelle famiglie degli utenti e il
problema del contenimento di utenti aggressivi! A volte la scelta non
avveniva in base al fatto che l’uomo è più forte e ha più muscoli, era il
ragazzino stesso che sentiva l’uomo più capace di “contenerlo” a
livello psico-fisico.
G.
Avevi qualcuno che ti seguiva dal punto di vista educativo in Coop o
avevi soltanto, come sostegno e spazio di confronto, i colloqui con la
assistente sociale? Ogni quanto avvenivano gli incontri di verifica e/o
di programmazione degli interventi?
T.
Il confronto sui casi avveniva con le assistenti sociali. Dipendeva dai
casi e dalle assistenti sociali, mediamente ci si incontrava una volta
al mese o all’occorrenza. Era un buon supporto, il problema si
poneva nel caso di esigenze urgenti. Ad esempio: se il colloquio era
avvenuto il giorno prima di un’urgenza, in caso di necessità avrei
teoricamente dovuto aspettare un mese per avere un aiuto.
G.
Con quali tipo di risorse hai iniziato a lavorare?
T.
Non avendo avuto nessun tipo di formazione (all’atto dell’assunzione
dovevamo solo dimostrare di essere in possesso di un diploma delle
scuole superiori di qualsiasi indirizzo. Le ragazze in possesso del
diploma delle scuole magistrali erano in maggioranza perché era
considerato il diploma più “attinente”) l’esperienza personale di
ognuno di noi era fondamentale! Nel mio caso è stata importante, e
l’ho sempre ribadito, anche nel libro che hai scritto tu (“Nonostante
tutto” di Gilberto Mussoni N.d.R.), la mia età anagrafica. Quando mi
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presentavo a domicilio avevo 35 anni, non ero “un ragazzino”! I
consigli che fornivamo erano accettati meglio dalle famiglie se
provenivano da un adulto piuttosto che da un ragazzino; il rischio era
altrimenti di essere poco credibile! Era fondamentale acquistare
subito credibilità con le famiglie che frequentavamo a domicilio.
In coincidenza con l’iscrizione di mia figlia alla prima elementare c’è
stata poi la mia alla Facoltà di Sociologia a Urbino. È stato il
coronamento di un vecchio sogno: iscrivermi alla facoltà di sociologia
nella mia città natale. Gli studi approfonditi in questa facoltà mi sono
stati utili nel lavoro educativo. Ho potuto affrontare anche temi verso i
quali avevo un particolare interesse come quelli riguardanti la
devianza, i gruppi, i piccoli gruppi, l’urbanesimo, le classi sociali, il
fenomeno della scolarizzazione, la pedagogia moderna, etc. Sono
tutte conoscenze che nel tempo mi sono ritornate utili.
16
G.
Dicevi, so, che hai lavorato anche in un Centro Estivo di Bellaria.
Quale era la fascia d’età dei bambini?
T.
Era quella delle elementari/medie. Le istituzioni avevano l’obbligo scritto o non scritto - di seguire i ragazzi di questa fascia d’età. E c’era
richiesta di questi interventi educativi.
Naturalmente i casi “più difficili” erano seguiti a domicilio anche
d’estate. Ho seguito un caso anche d’estate, proprio per non perdere
il rapporto con il ragazzo e la famiglia.
G.
Perché sei stato chiamato presso il Centro Estivo di Bellaria?
T.
Il comune di Bellaria/Igea Marina dava in appalto il Centro Estivo alle
cooperative e la C.A.D. era riuscita ad aggiudicarselo. Fino ad allora
erano stati impiegati solo operatori di Cesena e Gatteo. Il Comune
garantiva l’apertura del Centro dalle 8 di mattina alle 18 circa del
pomeriggio nei mesi di luglio/agosto. In luglio raggiungevamo un
numero pari a 120 bambini con 11 educatori e un coordinatore; in
agosto scendevamo tra gli 80 e i 90 con 8 educatori e sempre un
coordinatore.
La posizione in cui si trova Bellaria/I.M., consentiva di richiedere
anche operatori di provenienza del mio territorio; così io, Primo ed
altri, siamo stati i primi educatori di Rimini a lavorare in quel Centro
estivo riuscendo in tal modo a lavorare anche nell’interruzione del
calendario scolastico.
Invece nel secondo anno del C.E. di Bellaria ho lavorato solo nel
mese di luglio con la qualifica di educatore. Alla fine dello stesso
mese ho ricevuto una telefonata da parte di una mia responsabile, la
quale mi comunicava che nel mese di agosto la mia mansione,
all’interno del centro estivo, sarebbe cambiata: avrei dovuto fare
l’animatore. Questa telefonata è capitata nel mezzo di una mia
giornata lavorativa nel momento del pranzo di tutto il C.E. Mi aveva
letteralmente preso alla sprovvista: non avevo mai fatto l’animatore.
Mentre la responsabile di fronte alle mie titubanze cercava di
tranquillizzarmi, provai a chiedere un po’ di tempo per poter riordinare
le idee. Lei continuava imperterrita ad insistere, ripeteva di non
preoccuparmi. A suo parere avrei fatto sicuramente un buon lavoro
ma continuavo ad essere perplesso. Per tagliare corto è emerso che il
Comune, per questo ruolo, voleva una figura maschile con
precedente esperienza al C.E. e che conoscesse pertanto i ragazzi.
In definitiva, anche questa volta, mi avevano messo in condizione di
non poter rifiutare.
G.
Forse qualcuno nella COOP. aveva notato certe tua capacità, certe
tue caratteristiche personali, come l’humour, la tua facilità di stare in
mezzo alle persone o la disinvoltura ad intervenire in situazioni di
gruppo come le assemblee, caratteristiche che possono predisporre a
fare il lavoro di animazione…
T.
In effetti mi piaceva “animarle” le assemblee C.A.D., magari con
interventi “pittoreschi”, a volte “provocatori”, apprezzati e condivisi
sicuramente più dagli operatori, che dai dirigenti.
Ritornando al discorso di prima, io di animazione non ne sapevo più
di tanto. Non avendo avuto nessun precedente da cui carpire idee o
spunti, ho deciso di inventarmelo questo nuovo ruolo. Sono andato in
libreria e ho acquistato quattro testi che trattavano temi come giochi di
gruppo (piccoli e grandi), giochi all’aperto, al chiuso, giochi di ruolo,
giochi in spiaggia, al parco e via dicendo. Come sfondo integratore
del C.E. in quell’estate, avevamo individuato quattro grandi temi:
acqua, aria, terra e fuoco. Io ne avevo scelti due, terra e aria, e su
quelli avevo lavorato, anche con grande collaborazione da parte dei
miei colleghi (eravamo molto uniti e loro erano molto contenti che
fossi io l’animatore). Gli altri due temi, fuoco e acqua, li organizzava
un animatore professionale dall’esperienza ormai collaudata, quindi
sicuramente molto più abile di me.
G.
Hai scoperto così questa tua nuova abilità. In fondo animatore e
educatore sono due professioni cugine, hanno una affinità stretta,
però non tutti gli educatori sono animatori e viceversa.
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18
T.
A dire la verità proprio in quegli anni, e questo ci dovrebbe servire per
riflettere sulla nostra professione, l’animatore e l’educatore
“dovevano” essere la stessa cosa. Questo creava malumori all’interno
della Coop Molti si opponevano a questa confusione di ruoli,
soprattutto nella zona di Rimini. A Forlì alcuni colleghi educatori erano
spesso chiamati ad animare feste di compleanno o di altra natura. Per
esempio poteva capitare che un genitore chiamasse la Coop
chiedendo di organizzare una festa di compleanno per la durata di 4
ore con un gruppo di una ventina di bambini dodicenni. Il responsabile
faceva un preventivo di spesa e nel caso il genitore avesse le risorse
la cosa procedeva. Noi a Rimini non eravamo predisposti per questa
mansione.
G.
Tu cosa ne pensi. A tuo parere un educatore deve essere anche
animatore?
T.
Allora, al momento dell’assunzione, non ti veniva fatta questo tipo di
richiesta. All’operatore venivano presentati solo esempi di un suo
possibile intervento in cui veniva richiesta una osservazione, un
recupero scolastico incentivando le capacità del bambino, un preciso
lavoro sulle famiglie e qualche intervento nella rete sociale. Gli
Operatori di Rimini non si sentivano culturalmente pronti per questo
tipo di esperienza e per rendere, quindi, queste due professioni
intercambiabili.
La storia ci ha poi dato ragione, perché nel tempo la professione
dell’animatore si è andata specializzando e sono stati istituiti corsi e
scuole ad hoc. All’oggi un C.E. chiede l’animatore e l’educatore.
Ironia della sorte, il ruolo dell’animatore mi perseguita, io stesso
collaboro ancora con alcuni enti di formazione insegnando tecniche di
animazione.
G.
Sono stati gli altri a farti vedere una opportunità operativa, una abilità,
che altrimenti non avresti visto…
T.
Questa esperienza adesso mi fa sorridere, ma ricordo le angosce e le
paure di allora. All’inizio non capivo, ma come recita quel detto: “Non
capisco, ma mi adeguo”. Forse oggi avrei ancora più paura a fare una
cosa del genere. In quel momento, mi sono lanciato.
G.
Ritornando a Bellaria, quella è stata la prima occasione in cui hai
lavorato insieme a Gloria e Primo?
T.
Con Primo sicuramente, con Gloria non ricordo bene se in quell’anno
o in quello successivo. Ricordo che in quell’estate eravamo 4 o 5
maschi di Rimini, fra l’altro amici anche al di fuori dell’impegno di
lavoro. Ci siamo sicuramente divertiti molto!
G.
Che ricordi hai di quella esperienza.
T.
Molto, molto positivi! Il periodo estivo, le esperienze nuove, sempre
belle, lavorare finalmente in un gruppo di colleghi e
contemporaneamente amici nella vita privata: cosa vuoi di più?! Certo
la fatica era tanta, ma ben sopportata! Pensa che con le colleghe di
Cesena e Gatteo mantengo ancora contatti! L’organizzazione era
collaudata perché il Centro è stato per molti anni gestito dalla nostra
Coop: le coordinatrici erano esperte, conoscevano già i bambini, le
famiglie e gli amministratori locali del Comune.
Organizzavamo giochi con piccoli/medi/grandi gruppi sia al mare che
al parco vicino, oppure momenti ludici all’interno della struttura nei
giorni di pioggia, la merenda, i laboratori per preparare i materiali per
la festa di chiusura mensile. Dovevamo gestire anche il momento
della colazione, del pranzo e della siesta per i bambini più piccoli.
Non mancavano momenti di discussione accesa: “non è tutto oro
quello che luccica”. Non tutti hanno vissuto in questo modo
quell’esperienza. Io, però, è così che la ricordo.
G.
In sostanza: domiciliari, centro estivo. Questo è il tuo primo anno di
lavoro. Hai avuto qualche particolare difficoltà, qualche particolare
problema, qualche dubbio sulla scelta che avevi fatto di cambiare
lavoro?
T.
In quel primo anno “ero un carro armato”, considerando il lavoro
pesante che avevo fatto nei 13 anni precedenti…
G.
Avevi scoperto un mondo nuovo…
T.
Si! Mi divertivo molto, mi trovavo bene con i ragazzi, con i colleghi.
Andavo ripetendo che il nostro era “il più bel lavoro del mondo” anche
se davanti ai colleghi più scettici dovevo rettificare dicendo che non
era il più pagato, ma a mio parere il più bello.
A parte gli scherzi, mi sentivo bene e gratificato. Avevo finalmente
scoperto che cosa avrei potuto fare da …grande.
19
G.
Nei centri estivi ti è mai successo di vivere un momento
particolarmente critico?
T.
Al Centro Estivo c’erano difficoltà quotidiane. Ti faccio un esempio: un
pomeriggio al ritorno dal parco un bambino ci ha riferito che si era
punto un dito con una siringa. Noi educatori, tutti allarmati, abbiamo
messo in moto quella che viene definita “la procedura”: abbiamo fatto
un sopralluogo al parco, abbiamo avvertito la famiglia con la quale
abbiamo fatto un ulteriore sopralluogo, tutto con esito negativo.
Abbiamo allertato inoltre i nostri referenti istituzionali: Coop C.A.D. e
gli Uffici Comunali competenti. Ad ulteriori domande il minore ha
candidamente ammesso che aveva tratto lo spunto per il suo
comportamento da un programma visto il giorno prima in TV, per farci
uno scherzo! Per fortuna c’erano anche tanti momenti ludici: scherzi
ai colleghi, gavettoni, si ritornava un po’ tutti bambini.
G.
Ricordi un caso, una situazione, particolarmente difficile nella tua
esperienza a domicilio?
E’ stato nel secondo anno che ho avuto un caso molto difficile. Ero in
ferie. Mi telefona una responsabile del Servizio Sociale dell’U.S.L. e
mi dice che era stato ricoverato nel reparto di N.P.I. (Neuro Psichiatria
Infantile) un ragazzino di 17 anni psicotico delirante grave, con
problemi di aggressività che, in precedenza, aveva dato problemi di
diversa natura. La responsabile, con la quale avevo una certa
confidenza, mi spiega che bisognava cominciare un percorso
educativo urgentemente. Le dico che in quei giorni stavo consumando
le mie ferie. Non mi lascia finire la frase e mi fa capire in modo
risoluto che dovevo assolutamente accettare il caso: non potevo
rinunciare. In questo modo ho fatto la prima conoscenza della “psicosi
grave” che per un operatore psichiatrico non si scorda mai.
20
G.
Che cosa sapevi allora della psicosi?
T.
Onestamente ammetto che allora per me la psicosi era una parola
come un’altra! Dalla letteratura avevo dedotto che fosse una malattia
grave, ma come tante altre. Era una malattia psichiatrica, a cui di
solito si dava poco peso trascurandola.
Ho fatto quel mio primo intervento in NPI di domenica mattina dalle
nove a mezzogiorno. Avrei dovuto proseguire l’intervento tutti i giorni
di permanenza in reparto del ragazzo, festivi compresi (per un totale
di 22 giorni). Mi recai in reparto, non conoscendo nessuno mi
presentai agli infermieri, al ragazzo e alla madre. Quest’ultima mi
sembrò subito molto contenta perché non aveva mai avuto un
educatore per suo figlio nonostante lo avesse chiesto ormai da
tempo.
G.
T.
In pratica che cosa hai fatto?
Gli sono stato vicino, gli parlavo, passeggiavo con lui nel corridoio.
G.
Potevi interagire?
T.
Non tantissimo, ma parlava e rispondeva in maniera abbastanza
adeguata. Poi arrivò il momento del pranzo. Immagina la scena: sul
tavolo c’era del pollo con purè, un po’ di pane e l’acqua. D. mangia il
pollo e allontana il resto da sé. A questo punto, hai presente cosa
consiglia la teoria in questi casi: dare un ordine semplice e preciso
con voce ferma e tono convincente.
G.
Tutto questo dalla letteratura?
T.
La letteratura, i colleghi e gli Infermieri. Mentre osservavo la scena
con fare deciso gli avvicino il piatto del purè e gli “ordino” di magiare.
Lui allontana il piatto. Ribadisco la richiesta con fermezza. D. prende
il piatto, lo solleva e lo scaraventa con forza a terra. Risultato: purè
sparso sul pavimento, sui vetri della finestra e sui muri. Con gli
Infermieri e gli altri ricoverati ci siamo fatti tutti una bella risata!
Nei momenti in cui D. andava nel bagno, cominciavo a pormi diverse
domande: dovevo seguirlo anche in bagno? E la privacy? In effetti
non avevo una confidenza tale che giustificasse la mia presenza in
bagno e lui era autosufficiente. Se avesse aperto la finestra? Il
ragazzo avrebbe potuto avere atteggiamenti di fuga? Aveva avuto in
passato episodi di tentati suicidio? Mi facevo tutte questa domande,
senza avere la benché minima risposta (almeno nell’immediato).
G.
A che piano vi trovavate?
T.
Non ricordo con esattezza: primo o secondo piano, certamente non al
piano terra. Ricordo che ero preoccupato, sempre con l’orecchio
attaccato alla porta per captare qualche segnale, qualche rumore
sospetto. Questi erano i miei problemi in quella situazione.
G.
Quindi sei andato dopo quella telefonata senza alcun tipo di
presentazione del caso. Quanto è durato questo rapporto?
21
22
T.
Ti posso dire che è stato in assoluto il rapporto che è durato di più nel
tempo: 3 ore tutti i giorni escluse ferie e festivi, per 33 mesi di seguito,
poi altri 3 mesi, dopo la parentesi del mio impegno triennale
(Referente zona Rimini più Capo Area negli Uffici C.A.D. a Forlì), per
un totale di 36 mesi! Tengo tuttora collegamenti con il ragazzo tra
C.S.M. (Centro Salute Mentale) e la struttura che lo ospita. È stato
inserito nel 1998, anno in cui io ed un mio collega, ne abbiamo curato
l’inserimento.
G.
Questo è il caso più lungo e impegnativo come domiciliare. Poi?
T.
Poi è nato il Gruppo Educativo di Villa Verucchio. Lavoravo nel
Gruppo e seguivo D. ed altri ragazzi: lavoravo dalle 36 alle 38 ore
settimanali.
G.
Avevi lavorato già nei Centri Estivi, la dimensione del gruppo, del
grande gruppo, l’avevi già vissuta, sperimentata. Questo invece era
un piccolo gruppo. Che ricordo hai dell’inizio di questa nuova
esperienza?
T.
So che mi ripeto, ma complessivamente è un bel ricordo. Come ho
specificato nel tuo libro, al momento della richiesta di operare in
questa nuova iniziativa, ero un po’ prevenuto. Pensavo che la
formazione dei gruppi fosse dettata più dal bisogno della USL di
risparmiare risorse che da esigenze di migliorare la qualità del lavoro
con i minori. In sintesi lavorando in gruppo si utilizzavano meno
operatori per rispondere allo stesso numero dei bambini. Questa era
per me la sostanza.
Si sapeva molto poco di questi gruppi o mini gruppi. Tra l’altro questo
ha fatto diventare il nostro lavoro pionieristico. La proposta era quella
di lavorare due ore tutti i giorni, con quattro operatori e 18/20 ragazzi.
All’inizio, mi ripeto, eravamo preoccupati, ne parlavamo insieme per
cercare di capire e “farci coraggio”. Le colleghe donne erano ancora
più preoccupate a pensare di dover contenere momenti di
aggressività e di violenza. Sapevamo che c’erano psicotici, ragazzi
aggressivi, alcuni anche fisicamente più grandi di noi… Poi sai
nell’incertezza le cose si amplificano…
G.
Come era stato presentato questo gruppo e come erano stati scelti gli
operatori?
T.
C’erano stati incontri della assistente sociale del Distretto con gli
operatori interessati. Alcuni di noi erano stati chiamati, altri erano
semplicemente interessati anche per esigenze di servizio.
Nel frattempo c’era un discorso parallelo all’interno della nostra Coop:
si richiedeva con insistenza l’apertura di un ufficio a Rimini. I soci
presenti sul nostro territorio aumentavano e, di conseguenza,
aumentava la richiesta di operatori da parte dell’U.S.L..
G.
Fammi capire. Quando tu sei stato assunto la tua Coop non aveva un
ufficio in zona? Era nata da poco…
T.
A Forlì era attiva da anni, ma a Rimini, era presente dall’anno stesso
in cui ero stato assunto, o da quello precedente.
Alcuni di noi da tempo si stavano mobilitando, anche con l’ausilio del
Sindacato, per avere questo famoso ufficio a Rimini, aperto tutti i
giorni, con la presenza di un referente/responsabile di zona. Noi
dipendevamo da Forlì per tutto: per la modulistica (fogli ore, ferie,
permessi), per dubbi di lavoro (come comportarci in caso di assenza
del minore, come rispondere a nuove richieste da parte della
famiglia), per i rapporti con la Coop (errori di compilazione della
modulistica, eventuali errori di conteggio in busta paga), per le
sostituzioni in caso di assenze (malattie, permessi). Ci mancava una
figura di supporto. L’ufficio di Rimini era solo uno “sportello
burocratico” dove venivano portati i curriculum per eventuali
assunzioni, dove si svolgevano colloqui di assunzione e dove
venivano consegnati i fogli ore a fine mese. Nel caso fosse insorto un
problema immediato sul lavoro o un semplice dubbio, dovevamo
rivolgerci a Forlì.
G.
Quanti operatori della C.A.D. lavoravano nel territorio di Rimini in quel
periodo?
T.
Il primo anno, e parlo solo di educatori, eravamo una decina.
Sinceramente non saprei riferirti il numero esatto di A.D.B. (addetti
all’assistenza di base) che sono nostre colleghe impiegate nel settore
anziani. In pochi mesi il numero di soci è cresciuto enormemente.
Questa mobilitazione ha dato buoni frutti: la Coop ha aperto un ufficio
a Rimini che all’inizio si occupava di rispondere a tutte le esigenze del
socio. Era nata anche a Rimini la figura del C.C. (Capo Cantiere), che
non aveva lo stesso ruolo del Coordinatore, ma si occupava delle
sostituzioni in caso di malattia, raccoglieva e controllava i fogli ore, si
rapportava continuamente con Forlì, aveva a disposizione oltre al
telefono anche il fax (strumenti per noi molto utili visto che allora non
23
c’erano computer o cellulari a disposizione con la stessa facilità di
oggi). A dire il vero contattavamo questa figura e ci rivolgevamo ad
essa come fosse un Coordinatore!
24
G.
Quindi il gruppo di Villa Verucchio nasceva parallelamente a questa
evoluzione all’interno della Coop Immagino che vivevate la vostra
esperienza lavorativa e l’evolversi dell’organizzazione della Coop con
non poca incertezza
T.
Con incertezza ma con impegno. Cercavamo di lavorare al meglio e
nello stesso tempo cercavamo di far capire ai dirigenti della Coop i
nostri problemi quotidiani, “costringendoli” a darci certe risposte.
G.
Voi educatori facevate incontri e riunioni all’interno della vostra Coop?
T.
La Coordinatrice che veniva da Forlì garantiva l’apertura dell’ufficio
per due ore alla settimana e, sempre con lei, facevamo una riunione
al mese dove approfittavamo dell’occasione per farle domande,
scambiarci esperienze, consegnare tutta la documentazione.
G.
Nella Coop oltre agli educatori c’erano, come dicevi, le ADB. Quante
erano?
T.
Nell’ufficio di Rimini (sito in via Covignano) c’era anche la C.C. che si
occupava delle ADB. In quel periodo la nostra Coop impiegava
educatori nel Settore Minori, ADB per il Comune di Rimini, e ADB per
l’USL. Penso che fossero una ventina per gruppo
G.
Quando è stato aperto questo ufficio in Via Covignano?
T.
La data di apertura dell’ufficio con i C.C. non la ricordo con
precisione, ricordo però che nella primavera del 1993 i nostri
responsabili avevano convocato tutti i laureati e laureandi della nostra
zona (ed eravamo 6 o 7 se non ricordo male), per proporre loro il
ruolo di Referente-Coordinatore per la zona di Rimini. Alla proposta,
sono seguiti i colloqui individuali. Alcuni colleghi avevano subito
declinato l’invito, altri, me compreso, avevano mostrato il loro
interessamento. Alla fine questo ruolo è stato affidato a me.
G.
Già lavoravi nei gruppi educativi da diverso tempo?
T.
Lavoravo nei Gruppi Educativi dal ’90. Nel frattempo all’interno della
Coop, erano avvenute molte evoluzioni e cambiamenti, che mi
avevano portato prima ad essere eletto, assieme a Primo, come
delegato delle R.S.U. (Rappresentanze Sindacali Unitarie),
successivamente ad essere eletto nel Consiglio di Amministrazione e
a dare, per incompatibilità di carica, le dimissioni dalle R.S.U..
G.
Hai ricoperto un doppio incarico all’interno della Coop: come
Referente Sindacale e come consigliere…. Ha coinciso con il
momento in cui hai cominciato a lavorare nel Gruppo Educativo di
Villa Verucchio?
T.
Si, più o meno, i tempi coincidevano. Il lavoro da fare era tanto in
diversi settori: eravamo più operatori, quindi aumentavano le
esigenze. Lavorando in diversi settori, avendo avuto diverse cariche,
incominciai a conoscere molti soci sia educatori che impiegati negli
uffici.
Avevo avuto anche la fortuna di conoscere il mio lavoro da diverse
ottiche, angolazioni.
Nel momento dei colloqui per la carica di Referente/Coordinatore ero
certamente favorito perché, come ho detto prima, avevo avuto modo
di conoscere e di farmi conoscere. Presumo avessero scelto me
proprio per questo motivo.
Pertanto nel ’93, ho dovuto abbandonare definitivamente gli impegni
domiciliari e il lavoro educativo nei gruppi per spostarmi in ufficio.
G.
Torniamo al Gruppo Educativo di Villa Verucchio. Dopo questa prima
fase di dubbi, perplessità, incertezze, si struttura questa esperienza
con bambini dell’età elementari/medie. L’obiettivo più esplicito era
quello del sostegno scolastico. Era anche un luogo di socializzazione,
di incontro, e c’era l’ambizione da parte nostra, o forse soprattutto da
parte mia che allora lo coordinavo, di fare anche, tramite esso, una
qualche azione di prevenzione del disagio minorile. Lavorammo infatti
molto anche con scuola e famiglie. Ci incontravamo regolarmente per
attività di coordinamento. Parliamo qui di una attività che abbiamo
vissuto assieme e quindi rischiamo di dare molte cose per scontate.
Proviamo per chi legge a descrivere meglio questa esperienza. Se
ricordo bene ci vedevamo ogni 15 giorni per coordinarci…
T.
All’inizio ci vedevamo più spesso perché dovevamo organizzarci,
strutturarci e fissare un po’ di regole.
G.
Infatti avevamo costruito insieme il progetto e questo lavoro aveva
richiesto molti momenti di confronto e di discussione. Durante gli
incontri scrivevamo i verbali per ricordare un po’ quello che facevamo,
25
per lasciare una qualche traccia. Poi c’erano gli incontri periodici con
le assistenti sociali, la psicologa, la scuola… Avevamo contatti
organizzati anche con i genitori…
26
T.
Ci siamo incontrati anche di sera. Ricordi che avevamo prodotto
anche materiale fotografico in un album messo a disposizione dei
presenti all’incontro? E avevamo mostrato un filmato girato in
occasione di un’uscita con i ragazzi.
G.
Si, mi sembra fosse alla diga di Ridracoli… E’ difficile ricordare i
dettagli. Per fortuna abbiamo scritto “Nonostate tutto”. Poi comunque,
a pensarci bene, non possiamo soffermarci troppo su questa
esperienza solo perché l’abbiamo vissuta insieme. Ricordi
qualcos’altro di particolarmente importante su di essa?
T.
Ricordo soprattutto i problemi con le scuole: all’inizio ci avevano un
po’ “snobbati”. Questa tendenza l’avevo già vissuta con il lavoro
domiciliare. Quando mi si è presentata con i gruppi ho fatto in modo
che non passasse inosservata perché non mi sembrava giusto. Gli
insegnanti si chiedevano quali attività si svolgessero all’interno della
struttura e quale utilità avesse questo gruppo nei confronti dei
ragazzi. Non ricordi? Ci vivevano quasi come “rivali”.
Ricordo invece che il tempo ci diede ragione: alcuni ragazzi
cambiarono l’approccio all’impegno scolastico, aumentando le
autonomie rispetto allo svolgimento dei compiti a casa. Anche in
classe non si sentivano più inferiori agli altri e riuscivano a
raggiungere obiettivi insperati. Il fatto stesso di riuscire a terminare i
compiti, in maniera corretta, magari sotto un aspetto più ludico, era
molto apprezzato da tutti. Questo non perché gli educatori fossero dei
maghi, ma forse perché finalmente i ragazzi cominciavano ad avere
una visione diversa dell’adulto: non più un “rivale al quale
contrapporsi”, bensì un alleato. Noi ci presentavamo ai loro occhi in
maniera diversa, affrontavamo sia la parte relativa alla scuola che le
situazioni di vita quotidiana con tutte le sue problematiche: era nato
un feeling nuovo, diverso.
G.
Si cercava di partire dai loro bisogni, dai loro problemi. Ricordo ora in
particolare una attività di ricerca sugli animali, il non voler rimanere
rinchiusi nel gruppo…
T.
Le feste finali erano molto interessanti e apprezzate sia dai ragazzi
che dal territorio stesso.
G.
Ci sarebbero molte cose da ricordare… La scuola ci viveva come
rivali… si ricordo…
T.
Ricordo bene i contatti che tenevamo con la scuola e tutti gli incontri.
In occasione di un consiglio di classe avevo cercato di spiegare in che
cosa consistesse la nostra attività e cosa facessimo con i ragazzi.
Loro non capivano la differenza tra l’azione educativa nostra e il loro
lavoro di insegnamento. Una volta, anche in maniera provocatoria,
stanco di questo atteggiamento e di queste interminabili spiegazioni,
ho detto: “Noi lavoriamo con i ragazzi, io non ho i titoli e le capacità
per fare l’insegnante, ma voi non avete titoli e capacità per fare gli
educatori. Stiamo facendo due lavori diversi.” Ricordo che queste mie
affermazioni destarono non poco fastidio. Fortunatamente, però, con
il tempo le cose cambiarono a tal punto che, ad una nostra festa,
parteciparono anche insegnati ed alunni delle scuole elementari e
addirittura una classe intera. Per noi educatori fu una grande
conquista.
G.
All’inizio lo spazio ce lo avevano dato i frati…
T.
All’inizio abbiamo lavorato nelle stanze del Consultorio, poi dai frati. Il
Centro Estivo era stato ospitato sempre dai frati.
G.
Hai ricordi più precisi tu di me… Ricordo anch’io la diffidenza iniziale
della scuola e come nel tempo le cose sono cambiate. Il territorio
stesso ci ha pian piano accolto, accettato. Una dimostrazione del fatto
è stato che i frati ci hanno concesso lo spazio per poter effettuare il
Centro Estivo, una esperienza molto bella, molto positiva.
Questo lavoro con il piccolo gruppo, il C.E. a Bellaria, ti portavano già
da allora ad avere esperienze assai diversificate: intervento
individuale a domicilio, piccolo gruppo, C.E. anche con attività di
animazione; rapporti con i referenti dell’USL (educatore coordinatore,
assistenti sociali, psicologo), il mondo della scuola, ecc. Ad un certo
punto hai partecipato al Corso Biennale di Formazione sul Lavoro per
Educatori Professionali organizzato dalla U.S.L. su direttive della
Regione Emilia Romagna.
T.
Sì, nel biennio 92/94
G.
Che ricordi hai di questa esperienza?
T.
L’ho vissuta con molto interesse. Avevo tentato di iscrivermi nel corso
precedente ma mi mancavano pochi mesi di anzianità di servizio per
27
raggiungere i requisiti richiesti e necessari per accedere all’iscrizione.
Quasi il 50 % dei partecipanti al corso appartenevamo alla Coop
C.A.D., quindi eravamo amici e, allo stesso tempo, colleghi.
28
G.
E’ stata quindi anche un’occasione per vedervi più spesso e quindi
per confrontarvi…
T.
Esatto. Potevamo apprendere cose nuove e riportarle anche
all’interno della cooperativa, sfruttando questi momenti come vera e
propria formazione. Anche l’impostazione del corso era interessante.
La suddivisione in moduli ci permetteva di approfondire argomenti
attinenti alla nostra professione, affrontavamo materie diverse a cui
non eravamo abituati come “legislazione”. Avevamo la possibilità di
rivolgere domande specifiche ai professionisti giusti; per esempio
abbiamo potuto avere delucidazioni sulle psicosi e sulla schizofrenia
direttamente da uno psichiatra. Questo spesso ci rassicurava e
avevamo bisogno di certe rassicurazioni, soprattutto noi educatori
domiciliari. Il lavoro dell’educatore domiciliare era ed è tuttora ancora
purtroppo un lavoro svolto in solitudine dove spesso dubbi e
incertezze devono essere affrontati da soli, quotidianamente e in
tempi molto ristretti. Lo spazio di confronto datoci allora è stato quindi
molto utile.
G.
Da quel che hai raccontato sin qui hai svolto i tuoi primi anni di lavoro
come educatore con grande soddisfazione e entusiasmo, senza
particolari problemi…
T.
Non ho mai avuto eccessivi problemi e non dico questo per dare di
me un immagine di educatore “Superman”.
La verità è che ho lavorato sempre in mezzo ad altri colleghi e,
avendo sempre creduto nell’affiatamento del gruppo, mi ha sempre
rassicurato molto sapere di poter condividere esperienze con loro.
G.
In quegli anni hai conosciuto educatori in difficoltà. Se sì, perché a tuo
parere lo erano?
T.
Perché lavoravano esclusivamente a domicilio, non avevano mai
avuto esperienza di lavoro in gruppo. Conosco colleghi che hanno
sempre lavorato da soli.
G.
Pensi che quello sia stato il problema maggiore per tutti coloro che
hai visto in difficoltà?
T.
Lo penso e ne sono convinto, tanto è vero che quando sono diventato
coodinatore ho cercato di sfruttare la mia esperienza e la mia
anzianità cercando di aiutare al meglio chiunque fosse in difficoltà.
Ti faccio un esempio: durante un coordinamento è emerso il
problema di come comportarsi al momento del passaggio da un
minore all’altro, da una famiglia all’altra. Domanda pratica: “Alle 15.00
finisco l’intervento con il minore, alle 15.15 devo essere da un altro
minore, che fare?”. Risulta chiaro che un minore, sarà lasciato solo. A
chi deve toccare questa sorte preservando per quanto si può il lavoro
educativo e non rischiando in termini legali? Sembra una domanda
stupida ma allora non lo era affatto. In riunione con calma si è trovata
la soluzione. Quando la mamma del minore è in ritardo, tu non puoi
allontanarti per recarti da un altro (anche perché non sei in grado di
quantificare il ritardo, 10 minuti, 30 minuti…), mentre sarà cura del
familiare dell’altro minore aspettarti e non lasciare il bambino da solo.
Consideriamo anche che allora non esistevano i cellulari, che le
cabine telefoniche non sempre si trovavano nelle vicinanze e spesso
le famiglie erano sprovviste di telefono nell’abitazione. Immaginiamo
un educatore che si trova solo a dover risolvere questo problema.
Molti colleghi domiciliari, abbandonati a sé stessi e in situazioni di
solitudine quotidiana si sono licenziati.
Poi la giovane età è un altro fattore importante: un conto è affrontare
queste difficoltà a 35 anni, un altro a 22/23 anni. Questo teniamolo
sempre presente! Non pochi di coloro che hanno abbandonato il
lavoro educativo era giovani.
G.
Dal momento che riunirsi per discutere i problemi non era sempre
facile c’erano all’interno della COOP., strumenti informativi?
T.
Io sono sempre stato interessato a ricevere e fornire informazioni. Per
questo motivo io e Primo, insieme ad altri, abbiamo fondato un
giornalino interno alla COOP. per rappresentare “il polmone dei Soci”.
Era uno strumento che era in grado di ricevere e fornire quante più
informazioni possibili riguardanti campi più disparati. Chi aveva
problemi, idee o dubbi di natura tecnica, sindacale o che riguardasse
altro, poteva mettersi in contatto con la redazione del giornalino, la
quale avrebbe provveduto a divulgare il quesito pubblicando una
lettera o direttamente un’intervista all’interessato. Questa ci sembrava
una ricchezza per tutti noi colleghi, un punto di riferimento importante
all’interno della Cooperativa. Nella presentazione Primo, tra l’altro,
scriveva: “…l’obiettivo è creare sulla carta quel luogo di
comunicazione che a noi, che lavoriamo tutti i giorni nei luoghi più
disparati, magari da soli, è evidentemente sempre mancato.
29
All’interno troverete i nomi di tutti coloro che collaborano ai Q.I.
(Quaderni Informativi); la redazione, che si riunisce ogni due o tre
settimane, è aperta a tutte le collaborazioni e ai contributi dei soci, in
forma di lettera, intervista, richieste di chiarimenti o spiegazioni rivolte
all’amministrazione, inviti a convegni, incontri, cene, segnalazione di
corsi, stage, testi o articoli interessanti.”
30
G.
Quanti numeri siete riusciti a pubblicare e quanto è durata questa
esperienza?
T.
Purtroppo l’esperienza è durata solo un paio d’anni (per un totale di
una quindicina di numeri), anche perché è cambiata la redazione (il
primo direttore responsabile era Primo) e i collaboratori. Il numero “0”
portava la data del dicembre 1993 e vi si leggeva: “ Contesto:
Quaderni informativi. Organo di informazione e comunicazione della
Cooperativa C.A.D. Forlì”.
Abbiamo affrontato diversi temi: conoscere il cedolino (la busta paga),
recensioni, formazione, interviste rivolte agli educatori, alle A.D.B.
agli amministratori. Per la scelta del nome, abbiamo fatto un brain
storming e a me era venuta l’idea di “contesto” che aveva un triplice
significato: CONTESTO, nel senso che siamo in un contesto socialepolitico-lavorativo; CONTESTO, nel senso di contestarecontestazione; CON-TE-STO, nel senso che sono con te, dalla stessa
parte.
Carino non trovi?
G.
E’ una parola magica… Interessante… Ma scusa voglio tornare
indietro. Continuo a disturbarti con una domanda che ti ho già rivolto.
E’ sicuramente una domanda che in qualche modo faccio anche a me
stesso. Vorrei capire qualcosa di più. Che cosa era che ti dava tanto
entusiasmo in questo lavoro? Lo stare in mezzo alla gente???
T.
Io, fortunatamente, ho sempre lavorato in mezzo alla gente.
G.
Si, però l’educatore ha sicuramente una modalità diversa di stare in
mezzo alla gente di un gestore di un distributore
T.
Certamente. Lavorare nel sociale ti fa sentire più utile o, come spesso
ripeto, è un egoismo che diventa una specie di altruismo. Occuparsi
degli altri cercando di risolvere i loro problemi, di alleviarne le loro
sofferenze, di ridurne gli handicap, senza “aspettare solo il 27 del
mese”, sono cose che ritengo importanti. Ora lavoro con le persone
adulte, ma anche nei riguardi dei bambini conosco l’importanza di
avere “l’altro” al proprio fianco!
G.
Questo operare per sostenere persone in difficoltà, per favorire “un
riscatto sociale” di persone in genere emarginate, non si legava
anche alle tue convinzioni ideali?! Nel distributore non avresti potuto
sicuramente allo stesso modo realizzarle...
T.
Ho vissuto sempre male il fatto di non aver mai avuto un adulto che
potesse aiutarmi a fare i compiti. Quando abitavo alla Grotta Rossa
oltre a me c’era solo un altro ragazzo che frequentava le scuole
superiori. Ho sempre fatto i compiti da solo, in caso di bisogno
pensavo: “Non so cosa pagherei per avere l’aiuto di qualcuno!”.
Il diploma mi ha portato ad avere in casa i figli dei miei vicini che
aiutavo nello svolgimento dei compiti. Mi è sempre piaciuto e mi piace
tuttora aiutare gli studenti che necessitano di aiuto, a fare i compiti.
Nel periodo in cui ho lavorato al C.E.I.S. ero il primo a cominciare e
l’ultimo a finire di fare i compiti con i ragazzi, e riuscivo ad ottenere
anche buoni risultati. Il mio motto è sempre stato: “Sono in grado di
fare amare la storia anche al più somaro”.
Di questa mia particolare attitudine, ora ne stanno beneficiando i
nipoti.
G.
Penso al fatto che appartieni ad una famiglia numerosa: sei il settimo
figlio. Ti sei trovato quindi sempre insieme a tante persone. Che peso
ha avuto questo fatto sul tuo modo di essere educatore?
T.
Mi sento a mio agio con tante persone attorno, sono come una
spugna: assorbo da tutti.
G.
Certo che dal lavoro nel distributore, nella stazione di servizio, è stato
un bel cambio di vita!
T.
Un bel cambio, rischioso. Buttarsi a 35 anni in una esperienza
completamente nuova è stato, a livello economico soprattutto, come
fare un salto nel buio.
G.
Con il nuovo lavoro le entrate economiche erano molto minori?
T.
Molto di meno di prima, meno della metà di quello che guadagnavo
prima. Il nuovo lavoro era una scommessa con il futuro. Se
l’esperienza fosse fallita? Ma ho avuto il sostegno della famiglia; mia
moglie aveva appoggiato da subito questa scelta perché aveva visto il
31
mio entusiasmo e conosceva i miei interessi. Comunque è stato
rischioso.
32
G.
E’ stato un momento di svolta. A 35 anni hai scoperto questa nuova
strada…
T.
Mi dicevo: “O faccio il benzinaio tutta la vita oppure cambio adesso”.
Trovare lavoro in età più avanzata sappiamo tutti cosa significhi!
SECONDA INTERVISTA
G.
Abbiamo visto come nel giro di 3 o 4 anni ti sei laureato, hai
cominciato a fare il lavoro educativo in cui hai potuto svolgere
esperienze molto diversificate (lavoro domiciliare, piccoli gruppi
educativi, centri estivi), dalla Coop è arrivata la richiesta di svolgere
un’altra attività (l’animatore), hai cominciato un corso di formazione di
durata biennale… Hai vissuto molte esperienze… Di alcune abbiamo
parlato forse in maniera troppo superficiale. In ogni caso, se non mi
sbaglio, questo è un momento della tua vita particolarmente felice e
da quello che hai detto ti sei trovato sempre a tuo agio in questo
lavoro…
T.
Hai detto bene, mi sentivo a mio agio. Mi sono trovato a far qualcosa
che nella mia vita precedente avevo sempre fatto. Il lavoro nel sociale
e con i minori e i bambini è sempre stato il mio “pane quotidiano”. Ho
fatto il baby-sitter di mio nipote quando avevo appena nove anni
perché mia sorella d’estate lavorava presso una pensione. In quel
periodo mi occupavo di suo figlio che, al tempo, aveva sette mesi. Gli
preparavo il biberon, le pappine, lo cambiavo, giocavo con lui,
insomma mi occupavo del bambino da mattino a sera. Ho fatto il
baby-sitter anche all’altro nipote, Mirco, che anche tu conosci. In casa
mia sono sempre stati presenti bambini, in certi periodi estivi ne
avevamo addirittura quattro.
G.
Eri il più piccolo dei tuoi fratelli e ti venivano affidati i bambini…
T.
Sì, ci si aiutava in questo modo. Era naturale occuparsi dei loro
bisogni perché i rapporti tra noi erano ottimi. Ora questi bambini
hanno più di 40 anni e hanno a loro volta dei figli. Questi dodici nipoti
hanno messo al mondo dodici figli (dodici pronipoti): il cerchio-ciclo
della vita! Il mio rapporto con i bambini è quindi naturale! Anche
l’esperienza dei gruppi di Villa Verucchio non costituiva più di tanto
una novità, sono sempre stato attivo nel sociale
G.
Ti riferisci alla tua attività politica come anarchico?
T.
Sì, anche. Non solo. La mia attività politica risale all’età scolastica.
Quando sono arrivato a Villa Verucchio avevo già alle spalle una
quasi ventennale esperienza di intensa attività politica! Penso anche,
in particolare, ad un lavoro nel quartiere di Miramare. Noi giovani del
33
quartiere avevamo fondato un gruppo (allora noto, si chiamava “Chile
Libre”) che contava sull’adesione di tutta la sinistra giovanile del
quartiere e che operava sul sociale e sui bambini.
34
G.
E vivere in una famiglia numerosa (ti chiami Settimio, sei il settimo
figlio) quanto ha contribuito a condurti alla scelta del lavoro
educativo?
T.
Conservo a casa uno stato di famiglia di nove persone: i miei genitori,
mio fratello con la sua famiglia e tutti gli altri fratelli. Convivevamo
tranquillamente in questa specie di “tribù moderna”. La famiglia
allargata mi è sempre piaciuta, mi piace tuttora! Una delle mie
caratteristiche personali, che mi è stata sempre riconosciuta anche
nell’ambiente di lavoro, consiste nella “innata” capacità di smussare
gli angoli, stemperare gli attriti, “fare gruppo”. Da sempre ho lavorato
in mezzo alle donne, sovente come unico uomo (albergo, stireria,
ufficio a Forlì), e mi sono trovato sempre bene.
Inoltre considera che dopo l’esperienza di baby-sitter ho iniziato a
lavorare d’estate già all’età di 11 anni (dal giorno successivo
all’esame di quinta elementare, allora usava così, per chi non era
figlio di Agnelli…). Ho fatto sempre lavori che mi collocavano in
mezzo alla gente. Ho iniziato come barbiere (solo in seguito si sono
chiamati coiffeur), benzinaio da ragazzino, cameriere in albergo, al
bar; ho fatto l’assicuratore (ramo vita), un anno e mezzo in stireria
(stiratore di Jeans). Sempre in mezzo alla gente!
G.
Hai iniziato a fare l’educatore quindi con una lunga e diversificata
esperienza educativa, sociale, politica, lavorativa.
T.
Questo è il motivo per cui ritengo fondamentale per il lavoro educativo
la risorsa “età”, il bagaglio di esperienze di vita unita all’esperienza sul
sociale.
La predisposizione nei confronti dei bambini svantaggiati, altro
esempio che ora mi viene in mente, mi portava ad offrire loro almeno
l’aiuto nello svolgere i compiti scolastici. Dalla Grotta Rossa a
Rivazzurra la mia casa è stata sempre un luogo frequentato da
bambini con quaderni in mano! Anche quando frequentava la scuola
mia figlia, la cosa si è ripetuta e continua tuttora con i pronipoti.
G.
Nella tua famiglia i tuoi fratelli che scuole avevano frequentato?
T.
Le elementari, non c’erano allora tante possibilità economiche per
continuare gli studi. Solo mio fratello che lavorava al distributore con
me ha fatto, per motivi di lavoro, le scuole serali per prendere la
licenza media (e anche in quel caso, compiti!).
Ecco, per rispondere alla tua domanda di prima sul “ perché”. C’è un
perché a tutto!
G.
Ad un certo punto la Coop ti chiede di assumere una funzione di
coordinatore, una mansione con più responsabilità (prima a Rimini e
poi a Forlì)…
T.
L’esperienza di Rimini è stata molto bella. Volevo fare il “dirigente dal
volto umano”, quello era il mio sogno! Per cui quando è stata fatta la
selezione…
G.
Questo dopo quanti anni che facevi l’educatore?
T.
Dopo circa quattro anni.
G.
Fanno questa selezione per individuare un coordinatore per la zona di
Rimini e vieni scelto…
T.
Si. Essendo il primo coordinatore di Rimini era mia intenzione dare
una impronta personale al ruolo. Questi si sarebbe dovuto occupare
non solo del lavoro educativo, ma anche delle colleghe
dell’assistenza agli anziani, le A.D.B. (Addette alla Assistenza di
Base)
G.
Quante erano le A.D.B.allora? Più o meno degli educatori?
T.
Sicuramente più. Erano due gruppi di A.D.B., uno per il Comune di
Rimini e uno per l’USL. Facevo così tre coordinamenti al mese, uno
per gruppo.
G.
I concorrenti alla selezione oltre a te chi erano?
T.
I laureati della Coop presenti sul territorio, 6/7 in tutto.
G.
Da questo momento termini il lavoro educativo a diretto contatto con
gli utenti?
T.
Facevo solo lavoro d’Ufficio. Mi recavo una volta al mese a Forlì e mi
occupavo delle relazioni necessarie allo svolgimento del lavoro
educativo/assistenziale, le famose public relation, con i dirigenti
dell’U.S.L. di Rimini.
35
Il compito era facilitato dal fatto che con i dirigenti avevo già avuto
rapporti di lavoro mentre facevo il domiciliare. Spesso prendevamo
contatti e decisioni a livello telefonico, data questa consolidata e
reciproca fiducia. E’ stato un bellissimo periodo durato, più o meno,
un anno e mezzo. In quel periodo noi operatori vivevamo i
coordinamenti come momenti di crescita: presentavamo i nostri casi,
li discutevamo insieme, accettavamo suggerimenti e trovavamo
soluzioni.
36
G.
Mi interessa questa parte. Avevi tre coordinamenti al mese: questi
sottogruppi, da quante persone erano composte?
T.
Da 18/20 persone.
G.
Vi vedevate fuori o in orario di lavoro?
T.
A quel tempo non erano ore retribuite. Ora lo sono: due ore al mese
per ogni gruppo.
G.
Di che cosa discutevate?
T.
Impostavo le riunioni nel seguente modo: fissavo un ordine del giorno
che comprendeva nella prima parte il passaggio di informazioni dalla
Coop ai soci, seguivano poi domande dei soci alla Coop: chiarimenti
in merito al cedolino, sostituzioni, difficoltà con le famiglie degli utenti,
orari, curiosità, problematiche di natura sindacale, difficoltà con
anziani o con minori. Le discussioni erano veramente interessanti, le
soluzioni giungevano con il contributo di tutti. C’era un desiderio
collettivo di partecipare, ci sentivamo sulla stessa barca. Con questi
colleghi coltivavo rapporti di amicizia anche al di fuori del lavoro. Non
ero stato scelto solo dalla Coop, godevo anche di un buon credito tra i
colleghi, i quali erano gli stessi che mi avevano votato in occasione
delle elezioni per il consiglio o per la rappresentanza sindacale.
Quando non riuscivamo a trovare soluzioni soddisfacenti prendevo
appunti in attesa di confrontarmi con Forlì per essere in grado di dare
risposta nel giro di qualche giorno. Oltre alle questioni all’ordine del
giorno c’erano quelle chiamate varie ed eventuali, quelle non
prevedibili. Questo era in genere lo svolgimento delle serate. Spesso
il tutto finiva con una pizzata o una bevuta al bar. C’era veramente
una grande solidarietà!
G.
Chi aveva bisogno di qualcosa di particolare, di personale, di urgente
in che altri momenti ti poteva incontrare? Facevi orario d’ufficio?
T.
Si avevo un orario d’ufficio. Ero lì a disposizione tranne nei momenti
in cui mi assentavo per gli incontri esterni con i responsabili
dell’U.S.L., con le assistenti sociali, oppure per partecipare a momenti
formativi o per incontri con responsabili di altre Coop presenti sul
territorio.
G.
Stavi bene in questo periodo?
T.
Mi trovavo bene perché più che un dirigente mi sentivo, e mi
sentivano, uno di loro: solo più anziano e con un po’ più di
esperienza.
G.
Ci sono stati colleghi che sono venuti a parlare dei loro problemi
concreti quotidiani. Cosa emergeva soprattutto?
T.
A tal proposito, ti racconto un aneddoto che la dice lunga. Io ho
sempre usato, sia a Rimini che a Forlì, la teoria “della porta aperta”,
criticata da alcuni all’interno della Coop. Ero, mi sentivo, a
disposizione dei soci. Quando questi avevano un problema venivano
da me consapevoli e certi di essere accolti. Ricordo una mattina una
A.D.B. (colleghe che conoscevo un po’ meno degli educatori) che
aveva qualche anno più di me: si è presentata in ufficio a Rimini tutta
trafelata dicendo: “Adesso basta! Non si può andare avanti così! Le
cose non vanno! Bisogna che qualcuno intervenga!”. Io la ascoltavo
ma non riuscivo a capire la natura del problema. Seduta davanti a
me, continuava a parlare e gesticolare. Tenevo sulla scrivania un
piccolo vassoio di caramelle e cioccolatini, gliene ho offerto un paio e
lei continuava: “Basta! La situazione è pesante, non ce la faccio più!”.
Continuava a sciorinarmi difficoltà e problemi senza specificarmi bene
la natura del disagio. Allora le ho domandato a cosa si riferisse. Lei si
alzò e rispose: “Mi è passata, è lo stesso, non ti preoccupare, va
bene così”. Ci siamo messi a ridere e ci siamo salutati cordialmente.
Questa collega aveva solo bisogno di essere ascoltata, di sentirsi
accolta da un altro collega. Immagina se avesse trovato la “porta
chiusa” o avesse dovuto fare la solita antipatica “anticamera”!
G.
In quel periodo la Coop organizzava iniziative autonome di
formazione?
T.
All’inizio poche cose. Ricordo che nell’anno ’94 furono organizzati
quattro corsi di aggiornamento/formazione interni ai quali partecipai.
[Ho rintracciato nei materiali che ho conservato i titoli:
37
“Comunicazione: Tecniche di Comunicazione efficaci”; “Operatore
animato” sul tema delle abilità dell’animazione; “Il gioco delle parti
(conoscenza e perfezione del sé corporeo)” sul tema delle attività
psicomotorie ; “Scrivere per descrivere (analisi degli elementi che
determinano l’efficacia di una relazione scritta)” sul tema delle attività
di documentazione scritta].
38
G.
Qualcosa fu quindi organizzato. Il tuo impegno rispetto a prima era
aumentato molto?
T.
Dal punto di vista dell’orario no perché continuavo a fare 36 ore. In
più l’orario era fisso, molto più regolare. In quel senso andava meglio.
G.
Non avevi particolari problemi e pensieri?
T.
A Rimini non avevo pensieri, quelli sono venuti dopo! C’era in atto,
con l’ausilio di uno studio di Milano, una “ristrutturazione” della
cooperativa perché si stava ingrandendo e specializzando per offrire
agli enti risposte diversificate. Cresceva l’esigenza di razionalizzare
le risorse interne, si definirono quadri nuovi e organi dirigenziali
diversi. Si creò una organizzazione che comprendeva la presidenza,
la direzione operativa, il capo area settore anziani, il capo area
settore minori, il responsabile amministrativo, il responsabile dei
progetti, etc. A me era stato offerto il ruolo di Capo Area (C.A.)
Settore Minori. Il C.A. era colui che svolgeva la funzione di
“cooordinatore dei coordinatori” del settore minori. Fattami la
proposta ho avuto qualche giorno per riflettere, ne ho parlato in
famiglia ed ho accettato. La cosa mi entusiasmava, era una
esperienza nuova, saliva il livello retributivo. Era anche una
scommessa con me stesso.
G.
Il C.A. era un coordinatore dei coordinatori delle zone di Forlì, Cesena
e Rimini?
T.
Si, di tutte le zone in cui operava la Coop. In pratica si occupava di
tutto il settore minori: qualità del lavoro, formazione, assunzioni,
dimissioni, contenziosi dei soci, nuove idee/proposte, degli incontri
con gli enti, con i comuni; collaborava con gli altri dirigenti: capo area
settore anziani, amministrazione, responsabile progetti, presidente,
coordinatori.
G.
Avevi una bella responsabilità. Gli educatori di Rimini quanti potevano
essere all’incirca allora?
T.
Mi sembra 25/30.
G.
In tutta la COOP. erano sicuramente diverse decine. Cambiava inoltre
la natura delle responsabilità…
T.
In quel periodo gli educatori superavano le 150 unità. Il mio ruolo mi
portava ad intervenire laddove il coordinatore di zona non poteva o
non riusciva ad arrivare. In caso di dubbi o di problemi, spettava a me
l’ultima decisione. Rispondevo nei confronti dei soci, degli altri
dirigenti della Coop, del consiglio di amministrazione.
G.
Dopo avere vissuto in poco tempo vari cambiamenti, accetti di
affrontare anche questo… Concretamente in che cosa consisteva il
tuo lavoro? Come trascorrevi le giornate? Andavi tutti i giorni a Forlì?
T.
Si, andavo tutti i giorni a Forlì. Il pendolare non l’avevo mai fatto e, ti
assicuro, “provare per credere”. Treni, disagi, ritardi… Partivo da casa
alle sette del mattino per tornare alle cinque del pomeriggio. Quando
avevo le riunioni di zona tornavo all’una, alle due di notte. Se prima
facevo le riunioni di zona a Rimini, ora le facevo anche a Cesena o
Forlì come C.A.. Oppure se veniva aperto un nuovo centro allora
dovevo fare il sopralluogo e presenziare alle riunioni con il
coordinatore di zona.
G.
I problemi, so che ne hai avuti, sono emersi subito?
T.
Con il trascorrere del tempo l’essere pendolare cominciava a produrre
i primi effetti. Oltre a tutto il resto avevo l’obbligo di usare il computer,
era necessario ma, purtroppo, ho sempre avuto con questo aggeggio,
uno “strano” rapporto e non poche difficoltà. Partecipai anche, con
scarso interesse e profitto, ad un corso interno di informatica
organizzato dalla Coop per i dirigenti, un corso sia per chi intendeva
approfondire le conoscenze che già aveva sia per chi, come me ed
altri, non erano neanche in grado di accenderlo.
G.
Forse più che problemi con il computer, era la pendolarità a pesare?!
T.
E’ vero. Le cose si complicavano. La Coop aveva superato i 400 Soci;
io e la collega capo area (con la quale ho mantenuto nel tempo un
ottimo rapporto) ci confrontavamo continuamente ma era tutto molto
complicato. Non sempre condividevo le linee guida della Coop.
Purtroppo non sempre riuscivo a minimizzare quel che accadeva. Poi
39
avevo diversi problemi con una mia superiore, non la presidente, la
mia superiore diretta (fra l’altro non è più in Coop), la quale “non
venendo dalla gavetta” osteggiava in modo palese la mia teoria della
porta aperta. Non grossi problemi, ma granellino su granellino… Il mio
lavoro quotidiano, per rispondere alla tua domanda, si svolgeva in
questo modo. In una giornata tipo, arrivavo in ufficio poco dopo le
otto: la segretaria che collaborava con me mi faceva trovare gli
appunti sulla scrivania, li visionavo assieme agli altri appunti in
agenda, stabilivo le priorità e mi attivavo di conseguenza.
40
G.
Il lavoro di interfaccia con le Istituzioni in cosa consisteva allora? Era
diverso da quello che facevi prima?
T.
Avevo rapporti con le istituzioni ma mentre a Rimini li costruivo e li
curavo a Forlì erano più le occasioni in cui venivo convocato per altri
motivi.
G.
Questo costituiva un problema?
T.
Affatto, anzi! Confrontarmi con le istituzioni mi è sempre stato agevole
(ho detto confrontarmi, non condividere le richieste e le scelte da loro
fatte). Venivo convocato per proposte di lavoro, per essere aggiornato
sulle normative o per partecipare a tavole rotonde.
Un altro problema che avevo era che durante i corsi di formazione io
ero stato classificato come “tipo visivo” (così come c’è l’uditivo, etc),
classificazione che condivido; infatti sento il bisogno di “vedere” le
cose per riuscire poi a farle mie. Ti faccio un esempio concreto: la
coordinatrice di un centro mi chiese l’autorizzazione per risistemare il
salone delle attività al fine di ottimizzare gli spazi. Il mio lavoro non
prevedeva l’andare a vedere i locali così fui costretto, dopo aver
chiesto il parere di un mio superiore, a firmare l’autorizzazione. E’ una
stupidata questa ma non poche volte fui costretto a prendere
decisioni importanti in merito alle attività, a feste aperte al pubblico,
all’ottimizzazione delle risorse e ad altro, di centri che non avevo mai
visto. Potevano trovarsi a ridosso di un centro abitato, in mezzo al
bosco, su una via trafficata. Non mi era concesso fare un sopralluogo.
G.
Mancava il tempo?
T.
Giusto. Più avanti avrei potuto trovarlo ma ne avevo bisogno in quel
momento.
G.
I tuoi superiori ti invitavano a “staccarti” dagli operatori?
T.
Più che di staccarmi, mi proponevano una “filosofia di lavoro” che non
condividevo. Forse avevano ragione loro ma un bravo dirigente,
secondo me, dovrebbe dirigere senza condizionamenti, senza
guardare in faccia a nessuno. Per fare questo deve essere messo in
condizione di arrivare ad essere convinto delle sue scelte
difendendole e, eventualmente, pagando le conseguenze per quelle
sbagliate. Per questo motivo se non ero convinto di una cosa, non
riuscivo ad essere convincente.
Tra me e me continuavo a ripetere: “Se venisse proposta questa cosa
a me, non la accetterei mai”.
G.
Ti mettevi dal punto di vista dell’altro, dell’operatore, cosa che
probabilmente gli altri dirigenti facevano molto meno di te…
T.
Si, forse erano questi i miei limiti, non conosco quelli degli altri. Ti
faccio qualche esempio per farti capire meglio il mio punto di vista:
sono sempre stato per il “fare” concreto, ho una certa attitudine alla
risoluzione di problemi reali e ho sempre sottovaluto le
“sciocchezze”. Quando un coordinatore mi presentava una situazione
riguardante un proprio centro, mi confrontavo e in piena fiducia gli
davo “carta bianca” per procedere. Lo invitavo direttamente in
amministrazione per ricevere l’approvazione. Questo soprattutto per
snellire i tempi di lavoro, perché se mi fossi dovuto far spiegare in
dettaglio la cosa, riportarla ad altri, questi avrebbero potuto disquisire
ed io non sarei stato in grado di rispondere, sarei dovuto tornare dal
coordinatore, tutto tempo, dal mio punto di vista, sprecato. Finché,
durante l’ennesimo rifiuto da parte dell’amministrazione a ricevere il
coordinatore da solo, feci mettere a verbale quanto segue: “Da oggi i
coordinatori dovranno essere accompagnati dal capo area anche per
andare in bagno!”
Altro episodio. Facevo orario continuato e approfittavo della “calma
d’ufficio”, dell’ora di pranzo, per svolgere mansioni altrimenti
intralcianti per altri colleghi. Dovevo preparare un foglio A3,
rimpicciolendo una tabella e ingrandire un’immagine per presentarla
in una riunione. Entra la mia superiore e, con un tono da “richiamo
verbale”, mi chiese cosa stessi facendo. Risposi che stavo
preparando alcune fotocopie per l’incontro con i coordinatori,
specificando che non si trattava di materiale personale. Lei risponde
che quello era un lavoro da segretaria da quarto livello, non da un
settimo, chiudendo il tutto con questa esclamazione: “Qui non ci
siamo!”. Con tono di disappunto le risposi: “Quando il settimo livello
41
aveva spiegato al quarto come voleva il foglio A3 avremmo fatto notte
e nessuno ci avrebbe guadagnato!” Queste erano le cose che mi
mandavano in bestia!
42
G.
Forse il tuo modo di fare veniva visto da alcuni dirigenti come troppo
vicino, troppo simile, a quello degli operatori. Forse giocava un peso
nelle tue difficoltà anche il tuo rapporto conflittuale con l'autorità.
Centra qualcosa in tutto questo il tuo anarchismo?
T.
Non so cosa dirti. Forse il mio comportamento non rientrava nei
canoni classici di certo modo di intendere la dirigenza. Ho
sicuramente commesso l’errore di vivere queste frustrazioni da solo
senza mai confidare ad altri il mio stato d’animo e senza confrontarmi
con chi condivideva parte del mio disagio.
G.
Quanto tempo sei stato a Forlì?
T.
Circa un anno e mezzo. Questa esperienza cominciava a pesarmi
tanto che mi si leggeva in viso. Quando le cose non vanno per il
verso giusto non sono molto bravo a far buon viso a cattivo gioco,
fatico a nasconderlo. In quel periodo il mio umore di fondo era
cambiato. Un pomeriggio, sceso dal treno presi il solito autobus per
tornare a casa. Ero così assorto nei miei pensieri che non mi ero
neanche accorto che al mio fianco c’era mia figlia che mi stava
chiamando ormai da qualche secondo. Ho sempre avuto un carattere
allegro, il volto sorridente: chi mi conosceva si era subito accorto del
mio stato di disagio. Quel periodo coincideva con il momento natalizio
e i miei dirigenti mi consigliarono di consumare i giorni di ferie che
avevo accumulato. In quel lungo periodo di ferie mi rigenerai: ero
ritornato allegro e dopo aver trascorso molte notti insonni finalmente
riuscii a dormire bene di notte. Al mattino del 7 gennaio mi recai in
stazione, in attesa del treno per Forlì acquistai un quotidiano e iniziai
a leggere tranquillamente. Salii sul treno continuando a leggere il
quotidiano. Arrivato nei pressi della stazione di Forlì, sentii l’annuncio,
e alle parole “stazione di Forlì” mi prese un nodo alla gola. Pensai
subito che non si trattava del classico “brusco” ritorno dalle ferie.
Circa un mese più tardi, durante una riunione della direzione
operativa, di fronte all’“ennesimo piccolo problemino” annunciai la
decisione che da giorni mi frullava nella testa: avevo deciso di
ritornare a fare l’educatore a Rimini. Premisi che non avrei creato
problemi burocratici o amministrativi e che mi sarei autodegradato di
livello per percepire lo stipendio da educatore.
G.
Qualcosa insomma in questa situazione ti si rivoltava nello stomaco,
nelle viscere. Centrava in qualche modo in questo il tuo rapporto con
l’autorità, il timore di assumerla dentro di te?
T.
Ho fatto 14 mesi di militare e di autorità ne avevo avuta abbastanza!
Da sempre con l’autorità non ho un buon rapporto. Con quella
funzionale e intelligente però posso conviverci. Non so quindi se è qui
il problema.
G.
Ti sei mai pentito della scelta fatta?
T.
Io, come al solito, me la prendevo troppo: davanti a me c’è sempre “il
bambino che non è mai cresciuto” (credo si chiami sindrome di Peter
Pan). Con il senno del poi, con l’esperienza che ho acquisito nel
tempo, forse se mi trovassi in una situazione simile agirei
diversamente. Non mi sono mai pentito comunque della scelta che ho
fatto allora.
Una sindacalista della C.G.I.L. di Forlì che con me aveva condiviso
l’esperienza della R.S.U., venuta a conoscenza della mia decisione,
mi ha stretto la mano e si è congratulata con me riferendomi che
durante la sua esperienza di sindacalista non aveva mai incontrato
nessuno che si fosse autodegradato, che non avesse lottato per
conservare il livello raggiunto.
G.
Dopo un lungo periodo di entusiasmo e di crescita è venuto quindi
questo momento di crisi…
T.
Al lavoro mi sono sempre divertito. Questo è l’unico anno che ricordo
con poco entusiasmo! Forse, come mi hai fatto notare anche tu, la
mia parte ideologizzante mi ha penalizzato. Del resto sono fatto così
e non posso cambiare solo per ragioni di lavoro. Quando ho scelto di
accettare il ruolo di capo area sapevo a cosa sarei andato incontro.
Avevo posto dei paletti oltrepassato i quali non ne sarebbe più valsa
la pena. Avevo continuato a lavorare assiduamente anche durante i
periodi di crisi, senza che nessuno, nemmeno i collaboratori più
stretti, se ne accorgessero. Continuavo a prendere decisioni, ad
assumermi responsabilità. Un aspetto del problema è sicuramente
anche nel fatto che io odio i dirigenti mediocri, gli insegnanti mediocri,
gli amministratori mediocri e quando posso li “castigo” in pubblico
G.
Pretendi molto da chi dirige, da chi ha responsabilità pubbliche ed
educative…
43
44
T.
Pretendo molto da me stesso e, di conseguenza, anche dagli altri.
G.
Sei più tollerante invece, se capisco bene, nei confronti di chi è tuo
pari o in un ruolo più debole socialmente, vedi esempio gli A.D.B….
T.
Erano (e sono) spesso colleghi soli sui luoghi di lavoro, percepivano
(e percepiscono) uno stipendio non adeguato all’impegno richiesto,
dovevano partecipare a riunioni di lavoro al tempo non stipendiate,
dovevano dare ore di reperibilità non riconosciute. Inoltre, quel tipo di
lavoro era (è) usurante ed è a continuo rischio di burn out: Come puoi
non solidarizzare con loro?
Ti racconto un aneddoto: durante il primo incontro a cui ho
partecipato come capo area nella zona di Rimini, ho esordito dicendo
che ero lì anche per fare loro i complimenti da parte mia, della U.S.L.,
della C.A.D., perché stavano lavorando bene ed eravamo tutti
contenti del loro operato. Primo, che è un mio carissimo amico, mi
interrompe e ad alta voce mi chiede: “Che cosa ci stai per chiedere?”.
Risposi, ed ero sincero, che non avevo niente da chiedere, che mi
stavo semplicemente complimentando con tutti.
G.
Tendi ad essere più tollerante con chi è in difficoltà, con chi è in un
ruolo sociale debole, meno, molto meno, con chi esercita un certo
potere…
T.
Certamente! Chi ha potere, per esercitarlo è, in genere, ben pagato!
G.
Un dirigente dal punto di vista delle competenze e conoscenze e dal
punto di vista etico deve essere superiore alla media delle persone,
una sorta di essere superiore?
T.
Non è questo il punto. Nel mio lavoro continuo ad avere pretese e,
per queste mie esigenze, sono criticato da alcuni colleghi.
Di un medico o di uno psichiatra rispetto la professionalità e non
intervengo nel loro ambito di competenze. Una volta tolto il camice,
immersi in una discussione a carattere sociale, mi aspetto che siano
in grado di tenere alto il livello di una qualsiasi conversazione! Non
che debbano essere i soliti tuttologi, che oltretutto personalmente
detesto, ma, dovrebbero però intendersi un po’ di storia, di cinema, di
politica, di problemi di vita quotidiana. Mi aspetto che abbiano una
cultura generale superiore alla media! Ecco, quanto incontro persone
così, “mi tolgo tanto di cappello”. Spesso però ci troviamo di fronte a
medici, insegnanti, dirigenti, che al di fuori del loro ambito di
competenza, non valgono niente. In questi casi non riesco né a
giustificarli né a rispettarli.
G.
Sei molto esigente nei confronti di chi ricopre un ruolo di
coordinamento o dirigenziale, di chi svolge determinate professioni,
hai grandi aspettative nei loro confronti…
T.
E perché non dovrei? Questa gente spesso decide della tua vita, di
quella dei tuoi figli e del tuo lavoro.
G.
Torniamo al tuo percorso? …. Ritorni a Rimini a fare l’educatore. A
fare cosa? Riprendi i tuoi casi?
T.
Lavoro subito a domicilio (tre ore al giorno) con il minore che avevo
seguito nel reparto di neuropsichiatria, ritorno poi ad operare in un
piccolo gruppo educativo (non più a quello di Villa Verucchio ma in
uno a Bellaria) e prendo anche altri casi per completare l’orario
settimanale.
G.
I colleghi come hanno commentato il tuo rientro da Forlì? Erano
contenti? Hai notato qualche cambiamento in te in questo periodo?
T.
I colleghi erano contenti per me ma erano dispiaciuti delle
conseguenze della mia scelta: avrebbero cambiato dirigenti e ancora
non sapevamo come i nuovi avrebbero impostato il lavoro educativo.
In generale per me le cose stavano migliorando: dall’esperienza di
Forlì, sia i dirigenti che i colleghi, cominciarono a vedermi come una
specie di “battitore libero”, cioè come un operatore fuori dai canoni.
G.
Hai ripreso alcune cariche (consigliere o sindacalista) o facevi
esclusivamente l’educatore?
T.
Come ti ho spiegato, alle cariche ho dovuto rinunciare per le
incompatibilità che di volta in volta incontravo. Sono tornato a fare ciò
che mi piaceva di più: l’educatore. Ho continuato ad occuparmi di
problemi contrattuali, sindacali solo per passione e per interesse,
senza particolari cariche, mettendo semplicemente a disposizione le
mie conoscenze acquisite negli anni. Questa situazione è andata
avanti pochi mesi, da marzo a giugno, perché poi a luglio mi sono
licenziato dalla Coop per andare a lavorare al C.E.I.S. (Centro
Educativo Italo Svizzero) .
45
46
G.
E’ stato il C.E.I.S. a prendere l’iniziativa, o sei stato tu a prendere
contatto?
T.
L’iniziativa è partita un po’ da tutti e due. Ero venuto a conoscenza
che si era licenziato un educatore in Betulla (centro residenziale del
C.E.I.S. per ragazzi preadolescenti e adolescenti) e mi sono subito
messo in contatto con il direttore che avevo avuto modo di conoscere
perché era un docente del corso per educatori che avevo frequentato.
In Coop avevo oramai fatto diverse esperienze, mi mancava proprio
quella di un centro residenziale. Inoltre mi veniva garantito un orario
di 36 ore fisse a settimana e la struttura si trovava a pochi chilometri
da casa. Feci la domanda e fu accolta. Presentai subito le dimissioni
alla C.A.D. ed iniziai, dopo pochi giorni, a lavorare presso la Betulla
G.
Come mai questa nuova scelta? E’ stato faticoso ritornare a operare
sul territorio dopo aver svolto il ruolo di dirigente?
T.
Non era tanto questo. In Coop avrei fatto lavori routinari, e questa
sorta di déjà-vu era poco stimolante!
G.
Per quanto tempo hai lavorato al C.E.I.S.?
T.
Per un anno e mezzo circa.
G.
L’anno e mezzo si ripete!
T.
Hai ragione: Consigliere d’Amministrazione, Capo Area, Coordinatore
a Rimini presso la C.A.D., C.E.I.S., sempre per un periodo di un anno
e mezzo. Che soffra della “sindrome dell’anno e mezzo”?!?
G.
Descriviamo un po’ questa esperienza. Per la prima volta lavori in una
struttura residenziale con bambini di età scolare compresa tra
elementari e medie inferiori. Che attività venivano svolte e con chi
lavoravi?
T.
Sono entrato in luglio; lavoravo con 4 colleghi che avevano
frequentato il corso per educatori con me. Questo ha facilitato da
subito la formazione di un buon clima di gruppo.
Il mio arrivo aveva creato qualche perplessità ai miei nuovi colleghi
perché, conoscendo il mio trascorso in C.A.D., la mia esperienza di
dirigente e il mio carattere, temevano che volessi entrare con fare da
“capo”. Per fortuna si è creato subito un buon clima e siamo diventati
amici anche nella vita privata. Tuttora ci frequentiamo con piacere!
Il periodo del mio ingresso era quello estivo: organizzavamo momenti
ludici, andavamo al mare o ci dilettavamo in giochi al coperto nei
giorni di pioggia, ci preoccupavamo di aiutarli nei compiti delle
vacanze. Per alcuni di loro sostituivamo la famiglia e ci
comportavamo di conseguenza. Non ci sono stati particolari screzi
con i colleghi e questo ha contribuito a creare un clima relazionale
che garantiva ai ragazzi una certa serenità.
Avevo instaurato buoni rapporti anche con altri operatori del C.E.I.S.
esterni alla Betulla. In particolare coltivavo rapporti con il manutentore
che io definivo “educatore nato anche se non qualificato”, e con le
due bidelle della Betulla che confidenzialmente chiamavo “bidelline”;
poi con le operatrici della cucina e, soprattutto, con gli educatori del
Centro Stampa, con i quali mantengo rapporti di lavoro.
G.
Quanti bambini c’erano nel centro?
T.
Se non ricordo male, i residenziali erano 7; poi c’erano una decina di
bambini che arrivavano da scuola all’ora di pranzo e si fermavano fino
all’ora di cena.
G.
Che tipo di problemi avevano questi ragazzi : familiari, scolastici… ?
T.
Avevano problemi legati alla
scolastico, problemi in famiglia.
G.
Non avevano patologie gravi…
T.
No, ho incontrato solo due casi gravi e solo nel mio ultimo periodo di
permanenza in Betulla.
G.
Come vi eravate organizzati con i ragazzi: lavoravate divisi in gruppi?
Era previsto un coordinamento? Una qualche supervisione?
T.
Il gruppo delle elementari era separato da quello delle medie ed ogni
operatore era referente di 4/5 ragazzi facenti parte dello stesso
gruppo: quindi il rapporto educatore/ragazzi era di circa 1/5.
I coordinamenti avvenivano in media una volta la settimana e
all’occorrenza; oltre agli operatori era presente anche il direttore in
veste di supervisore.
G.
Programmavate le attività…
socializzazione,
al
rendimento
47
48
T.
Sì. Organizzavamo anche uscite. Ne ricordo in particolare una di due
settimane nella struttura del C.E.I.S a Montercole, un paese vicino a
Santagata Feltria. Dovemmo organizzare ogni particolare: dalla
partenza al vestiario, dagli alimenti per i tre pasti giornalieri alle
suddivisioni delle mansioni dei vari operatori dalle attività ai momenti
ludici, etc.
G.
Alcuni educatori lavoravano già da diversi anni al C.E.I.S.?
T.
Si, alcuni avevano lavorato solo in quella struttura, altri venivano da
altre esperienze.
G.
Il gruppo era stato riorganizzato?
T.
Sì. Veniva fatto un buon lavoro con i ragazzi. In autunno si
organizzava la programmazione per il periodo invernale: si procedeva
alla suddivisione dei gruppi: elementari e medie. Dovevamo prendere
contatti con i diversi referenti delle scuole e preoccuparci dell’acquisto
di tutti i libri di testo.
G.
Tu di quale gruppo facevi parte?
T.
Appartenevo a quello delle medie ed era sicuramente la scelta più
logica tenendo conto della mia età e di quella dei ragazzi.
G.
Facevate incontri con le famiglie?
T.
Si, avevamo incontri programmati e/o al bisogno.
G.
Chi si occupava dei rapporti con le assistenti sociali di riferimento dei
ragazzi?
T.
L ’operatore di riferimento. Alcuni operatori si occupano dell’ingresso
dei ragazzi e altri tenevano i contatti con la direzione.
L’organizzazione era funzionale.
G.
Essendo un centro residenziale dovevate preoccuparvi di organizzare
anche i turni notturni e festivi?
T.
Si, ma erano già compresi all’interno delle 36 ore settimanali.
G.
Ti sei occupato anche di altre situazioni educative in quel periodo?
T.
Per alcuni mesi oltre al mio normale lavoro mi erano state
riconosciute 10/12 settimanali ore per seguire i ragazzi che all’interno
del C.E.I.S. lavoravano, inviati dal settore handicap adulto o dal
settore psichiatrico dell’AUSL, con una borsa lavoro. Il mio ruolo era
quello di tutor e tenevo i contatti con gli operatori di riferimento dei
ragazzi.
G.
Qual era il tuo compito nei confronti di questi ragazzi?
T.
Ero il loro punto di riferimento: spiegavo loro il lavoro, li aiutavo in
caso di difficoltà, li osservavo durante il lavoro e riferivo quanto
osservato agli operatori dei servizi coinvolti.
Le mansioni che svolgevano erano diverse: alcuni di loro lavoravano
in cucina, altri ci aiutavano in Betulla, altri ancora si occupavano della
manutenzione del giardino.
G.
Da quel che racconti sembra sia stata una bella esperienza. Perché
hai deciso allora di licenziarti?
T.
Io chiedevo di entrare in ruolo: per esigenze burocratiche, mi veniva
rinnovato il contratto ogni 8 mesi e tra un rinnovo e l’altro dovevo
sospendere il lavoro per una quindicina di giorni.
Pensavo di entrare in ruolo dopo i primi 8 mesi, ma così non è stato.
C’era solo un accordo verbale e in caso di problemi o di crisi del
centro i primi che avrebbero rischiato il posto di lavoro eravamo noi.
Non entrare di ruolo immediatamente non era la preoccupazione
principale ma, sinceramente, non gradii molto questa situazione.
G.
Se capisco bene quindi il problema non era solo tuo. Come sono
evolute le cose?
T.
In Betulla io ero l’unico a vivere questo tipo di situazione. In quel
periodo il C.S.M. (Centro di Salute Mentale dell’AUSL) cercava un
educatore. Il settore della salute mentale è stato sempre un “mio
pallino”. Pensa che l’argomento della mia tesi in sociologia aveva
come titolo “La sofferenza psichica: analisi del contenuto in sei
quotidiani”; anche la tesina per il corso educatori, affrontava queste
tematiche. Con il dott. B., primario del C.S.M. e docente di psichiatria
al corso educatori, mi ero più volte confrontato sull’argomento,
scegliendolo poi come materia d’esame. Ho preso le dovute
informazioni presso il C.S.M. e mi hanno confermato che cercavano
un educatore. L’unico modo per potervi entrare era attraverso la
richiesta di educatori che veniva fatta alla C.A.D. Ho colto l’occasione
49
al balzo e, dopo essermi licenziato dal C.E.I.S., sono ritornato alle
origini. Erano almeno 3 mesi che il C.S.M. era in cerca di un
educatore. Nessuno era intenzionato a lavorare in psichiatria. Tra gli
operatori era diffusa la convinzione che fosse un lavoro a rischio,
pericoloso per l’incolumità degli educatori stessi, soprattutto nel lavoro
a domicilio. Nei primi tempi in cui lavoravo per conto del C.S.M. la
domanda più frequente che i colleghi mi ponevano riguardava proprio
la ”pericolosità” del mio lavoro: mi domandavano come mi ponevo nei
confronti del nucleo familiare e se gli utenti erano violenti nei miei
confronti.
50
G.
Ti è dispiaciuto doverti licenziare dal C.E.I.S.?
T.
Certo che mi è dispiaciuto. Quando ti allontani da un lavoro in cui ti
sei trovato bene ti dispiace sempre. Avevo già vissuto situazioni simili.
Elaborare i lutti è faticoso. Ma così va la vita!
G.
Con il cambiamento ti sei trovato di fronte ad una nuova sfida…
T.
Dopo 9 anni di lavoro direi che la sfida è stata vinta! Coloro che
hanno problemi di salute mentale costituiscono il tipo di utenza che
certamente prediligo.
G.
Sei entrato nel settore della salute mentale in un periodo di crisi dei
grandi sistemi teorici (la psicanalisi, la sistemica, la psichiatria sociale
per citarne alcuni) di riferimento. Hai sentito questa mancanza? Hai
trovato rimedio alla mancanza o alla questa fragilità di tali riferimenti
in qualche lettura significativa?
T.
Considera che ero fresco studente universitario. Avevo già letto
parecchio: avevo sostenuto un esame di pedagogia generale, diversi
di sociologia, uno di psicologia generale e nessuno di filosofia. Il
piano di studi mi ha consentito di spaziare in settori diversi, anche se
le due grandi componenti dei miei studi comprendevano gli ambiti
sociologico e psicologico e in minor parte quello pedagogico. Per mio
interesse personale leggevo poi parecchi testi. Mi è sempre piaciuto
affrontare diversi argomenti, anche perché non amo “sposare” una
sola scuola di pensiero. E’ pieno il mondo di persone che amano
inserirsi in categorie chiare e specifiche: chi si definisce junghiano, chi
freudiano, chi… A me non piace invece essere costretto ad
identificarmi in una corrente di pensiero: chi appartiene ad una
particolare scuola di pensiero fatica a confrontarsi con chi, come me,
rifiuta qualsiasi tipo di appartenenza. Per partecipare al concorso per
educatori mi sono studiato tutto il manuale di psichiatria (il Piccione)
dal quale ho appreso che esistono centinaia di metodi psicoterapici e
sembra che tutti diano, più o meno, lo stesso risultato. Anche nella
mia vita privata seguo diverse tendenze, leggo diversi autori ma
preferisco avere le mie idee, che sono una sorta di sintesi di quelle
che volta a volta incontro.
G.
Si può dire che nel lavoro fai riferimento più alla tua personale
“intuizione” che ad una particolare teoria?
T.
Diciamo che metto la teoria al servizio della mia intuizione. Sono un
curioso e leggo diverse cose: gli ultimi due testi che ho letto sono
stati Il principe di Macchiavelli e L’anarchia. Storia dei movimenti
libertari nel mondo di D. Tarizzi, libri che da anni tenevo nella mia
biblioteca. Il mio metodo di lettura è particolare: mi piace leggere una
parte di un libro e passare poi all’altro. Leggo libri ma preferisco
comunque dedicarmi alle riviste di attualità, di carattere generale,
culturale. Mi piace comprare settimanali, mensili, periodici. Sono più
sintetici e trattano argomenti e problematiche attuali.
G.
Cambiamo tema… Vuoi?
T
Certo…
G.
Che rapporto hai in genere con i tuoi colleghi educatori?
T.
I miei colleghi parigrado hanno costituito sempre una risorsa per me:
con loro ho avuto sempre un ottimo rapporto. Ho individuato almeno
due categorie di educatori: c’è chi fa il proprio lavoro senza prendersi
alcun tipo di responsabilità (costoro costituiscono la cosiddetta
“maggioranza silenziosa”) e chi, invece, si assume responsabilità
“vacanti”, quel tipo di responsabilità che sembrano non appartenere a
nessuno.
Spesso il connubio esperienza ed età mi hanno fatto diventare
automaticamente, mio malgrado, punto di riferimento di situazioni, di
altre persone. Al corso educatori, se ricordi, ero il referente del gruppo
classe.
G.
Hai conosciuto tanti operatori: assistenti sociali, psicologi, psichiatri.
Qualcuno è stato particolarmente importante per te?
T.
Il lavoro d’équipe è un dare e un avere costante e reciproco. Mi piace
ricevere dagli altri. Non saprei dirti se nel corso della mia carriera
51
educativa ho dato od ho ricevuto di più, né da quali figure
professionali. Ritengo che nella nostra professione, come in tutte le
altre, esistano persone valide e meno valide. Sono un sostenitore del
lavoro d’équipe. All’interno di una équipe sono le persone quelle che
determinano la qualità del lavoro. Una persona “sopra le righe” che
abbiamo conosciuto entrambi e che avevo preso a modello era Danilo
Dolci: una persona che ha pagato per le sue scelte coraggiose, che
non si è mai tirata indietro, che si è sempre impegnata nel sociale
rispondendo sempre “pane al pane e vino al vino” a chi era attorno a
lui!
Una problematica che a mio parere andrebbe risolta riguarda la
formazione delle assistenti sociali. E’ una professione che necessita
di un lungo periodo di esperienze prima di essere messa in campo.
Mi capita sempre più spesso di confrontarmi con alcune assistenti
sociali appena uscite dall’università che si trovano ad affrontare
situazioni di grossa responsabilità come decidere in merito alla
permanenza o meno di minori all’interno dei nuclei familiari, agli
affidamenti, etc. Secondo me in quei casi, per evitare danni a volte
irreparabili, sarebbero necessarie, proprio per la delicatezza e la
complessità della materia, figure di consolidata esperienza. Il tempo
di tirocinio programmato è un periodo troppo breve per consentire di
affrontare al meglio queste particolari situazioni.
Nei primi anni di assistenza domiciliare mi sono trovato bene con
psicologi che anche tu conosci (il dott. B. e il dott. S.) con la psichiatra
della N.P.I. (Neuro Psichiatria Infantile) dott.ssa Z. e anche con
assistenti sociali della “vecchia guardia” con le quali tuttora collaboro.
Nel corso degli anni anche altri colleghi hanno lamentato spesso il
fatto di trovarsi a lavorare insieme ad assistenti sociali sempre più
giovani con le quali avevano avuto problemi in passato.
52
G.
Al di là di questo problema specifico, assistenti sociali ed educatori
riescono in genere a lavorare bene insieme…
T.
Forse più all’inizio, anni fa. Nei primi tempi noi educatori eravamo
figure molto fragili, con poco storia alle spalle e con poca esperienza.
Le assistenti sociali erano più esperte di noi e avevano più o meno la
mia età. Con l’andare del tempo noi educatori siamo cresciuti sia
quantitativamente
che
qualitativamente
e,
nel
frattempo,
cominciavano ad arrivare assistenti sociali di una classe di età più
giovane della media degli educatori e, di conseguenza, con meno
esperienza.
G.
Nell’intervento domiciliare la figura di riferimento principale per
l’educatore è stata ed è spesso l’assistente sociale…
T.
In psichiatria è stata sempre presente l’équipe allargata. Nel
domiciliare la prima figura di riferimento è sempre stata l’assistente
sociale. In caso di necessità si poteva avvalere di altre figure
(logopedista, psicologo, psichiatra, etc.). Aveva comunque una
responsabilità superiore.
G.
Ci sono stati operatori con i quali hai avuto qualche particolare
conflitto in questo nuovo lavoro al C.E.I.S?
T.
Alcuni problemi li ho avuti. Sono un deciso sostenitore del lavoro
d’équipe. Nelle riunioni d’équipe ci si può, ci si deve, scontrare e
confrontare anche utilizzando toni accesi, ma una volta usciti si deve
parlare tutti la stessa lingua. Spesso mi trovavo a scontrarmi con i
ragazzi perché proibivo loro di fare determinate azioni che, invece, altri
operatori concedevano. Esigevo il rispetto di regole decise insieme e
che altri invece, a volte, ignoravano. Per fare un esempio: una
minorenne dopo le ore 21.00 gironzola in cucina trasgredendo la
regola (fissata in équipe) che ne vietava l’ingresso serale (in cucina si
trovano oggetti pericolosi come forchette, posate o coltelli). Fu da un
dialogo con la ragazza che dedussi che altri, in passato, glielo
avevano concesso, trasgredendo la regola decisa insieme.
G.
Alcuni di loro probabilmente non avevano il coraggio di scontrarsi in
équipe, facevano finta di accettare le decisioni prese in comune e
poi…
T.
Quando andammo al confronto su questo problema mi risposero che
non erano in grado di far rispettare le regole e di dare certe proibizioni
ai ragazzi. La mia risposta fu più volte la medesima: il lavoro era
quello, se non erano in grado di sostenere queste posizioni dovevano
trarne le dovute considerazioni. Nei confronti dei ragazzi a mio parere
l’educatore non deve essere né amico, né padre, né fratello
maggiore, né terapeuta. Deve svolgere il proprio compito: educare
con tutti i pro e i contro che la professione comporta. Si prende uno
stipendio per questo. Occorre saper tener duro su un impegno preso.
G.
Quindi si dovrebbe riuscire ad essere coerenti sempre?
T.
Certamente. Altrimenti si rischia di compiere errori nei confronti
dell’utenza e di risultare poco credibili come colleghi.
53
54
G.
Con il coordinatore, con il supervisore, hai avuto conflitti?
T.
Meno, proprio perché mi scontravo spesso direttamente all’interno
della équipe. Una volta presa una decisione comune, mi attenevo a
questa. Il coordinatore dopo aver sentito il parere di tutti, prendeva la
decisione e se ne assumeva la responsabilità.
G.
Un’ultima domanda… Ricordi un episodio di difficoltà con un ragazzo
e un aiuto venutoti da un altro operatore?
T.
Nei primi anni di lavoro, soprattutto nel domiciliare, era ricorrente un
senso di solitudine, situazioni in cui non si sapeva cosa fare. In questi
momenti si ricorreva al buon senso o alla collaborazione di chi si
riusciva volta a volta a contattare: colleghi più anziani o assistente
sociale. Sono stato anche fortunato, perché ho goduto sempre della
massima collaborazione anche da parte degli psicologi. Addirittura la
dott.sa Z. mi aveva dato il numero telefonico della propria abitazione.
Ricordo che in occasione del mio primo scontro fisico con un ragazzo
ero preoccupato di aver sbagliato qualcosa nel mio intervento. Mi
sentivo in colpa per un errore che non sapevo neppure io quale fosse.
In quel momento fu molto importante per me l’aiuto datomi dallo
psicologo di riferimento, dott. B., il confronto con lui. Ricordo ancora
bene quel che allora mi disse: “In un rapporto duraturo ed empatico
con un utente, se dopo uno scontro fisico si viene riaccettati, significa
che la modalità di intervento scelta è stata quella giusta”. Quella
lettura della situazione sanò allora i miei sensi di colpa e di
inadeguatezza. Fu in quel momento un supporto importante.
Unità Operativa Risorse Intangibili
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