FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891 DIREZIONE Ugo Finetti - Stefano Carluccio (direttore responsabile) Email: [email protected] Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria Anno CXXIII – N. 5 / 2014 GIORNALISTI EDITORI scarl Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano Tel. +39 02 6070789 / 02 683984 Fax +39 02 89692452 Email: [email protected] Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Industria Grafica - Editoriale Pizzorni - IGEP srl - Via Castelleone, 152 - 26100 Cremona - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00 ■ DAL SOCIALISMO IDENTITARIO AL “SOCIALISMO LARGO”. MATERIALI DI RINO FORMICA LA QUESTIONE SOCIALISTA OGGI Emanuele Ceglie L POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1 comma 1, DCB Milano - Mens. 778000 057003 9 ISSN 1827-4501 13005 a questione socialista oggi, dal Socialismo identitario al Socialismo “largo” è un di contenitore di materiali politici. Un raccoglitore di idee, analisi, riflessioni, semplici appunti, annotazioni; il tutto utilizzato, grosso modo dal 2007 ad oggi, per partecipare a un evento specifico oppure per fissare una linea di ragionamento da sviluppare magari in seguito e in un giro più largo di discussioni. Insomma, allo stesso tempo un memorandum di questioni e un tracciato per una storia e un’analisi politica della Sinistra e del Paese, una sorta di reagente chimico da immettere in un contesto di dibattito pubblico che da troppo tempo è inerte. Nel libretto c’è un cuore e un cervello, un sentimento e una ratio, entrambi impiantati nella politica. Sto parlando di Rino Formica, una figura notoriamente atipica, rispetto all’idealtipo del politico di professione che lo vuole o tutta tattica o tutto strategia in un quadro, naturalmente, dove se messe in competizione la tattica prevale quasi sempre sulla strategia. Questo libretto è una specie di contenitore di materiali politici. Un raccoglitore di idee, analisi, riflessioni, semplici appunti, annotazioni; il tutto utilizzato, grosso modo dal 2007 ad oggi, per partecipare a un evento specifico oppure per fissare una linea di ragionamento da sviluppare magari in seguito e in un giro più largo di discussioni. Insomma, allo stesso tempo un memorandum di questioni e un tracciato per una storia e un’analisi politica della Sinistra e del Paese, una sorta di reagente chimico da immettere in un contesto di dibattito pubblico che da troppo tempo è inerte. Nel libretto c’è un cuore e un cervello, un sentimento e una ratio, entrambi impiantati nella politica. Sto parlando di Rino Formica, una figura notoriamente atipica, rispetto all’idealtipo del politico di professione che lo vuole o tutta tattica o tutto strategia in un quadro, naturalmente, dove se messe in competizione la tattica prevale quasi sempre sulla strategia. E perché sia chiaro che non si vuole fare qui l’agiografia del personaggio, va detto che personalità di questo tipo si sono formate in “scuole” particolari e sono maturate dentro una particolarissima esperienza storico-politica collettiva, quella del socialismo autonomista italiano, con l’accento posto sull’aggettivo “autonomista” e senza nulla togliere al valore di altre scuole. Si sta parlando di quella particolare esperienza che ha dovuto confrontarsi e scontrasi con l’Ideologia italiana, scritta nella Carta costituzionale, l’ideologia dello “stare assieme”. Quella Costituzione “ideologica” voluta soprattutto dalle componenti “organiche” delle due più grandi forze politiche dell’Italia del dopoguerra: la sinistra democristiana e il PCI disegnato da Togliatti. Va da sé che l’Ideologia italiana poteva essere ricondotta nel solco della normalità liberaldemocratica e delle sue regole dell’alternanza, solo a patto di usare buoni gruppi dirigenti nonché la tattica più la strategia in una combinazione positiva di ardimento tattico e di saggezza strategica. Ecco spiegate le ragioni della formazione di un gruppo dirigente di “eccellenza”, quello socialista ed ecco spiegate anche le “atipicità” prodotte da quella esperienza. Quella storia finì come sappiamo nel 1993 e incominciò un’altra storia, una storia senza più il socialismo autonomista. Anzi una storia perfino contro la memoria di quel socialismo. Lo sviluppo impetuoso degli avvenimenti di questo ultimo ventennio associato allo status di semplice osservatore (quasi come ufficiali della riserva!) hanno creato le condizioni giuste per una riflessione che, in questo libretto, si srotola in più direzioni ma che sempre ritorna al suo nucleo originario: spiegare le ragioni della “diversità” dell’esperienza democratica nazionale e la durezza dello scontro per una risposta “normale” che i socialisti hanno voluto offrire alla governabilità del Paese, non riuscendoci. Un punto di osservazione certamente non neutro ma sicuramente disincantato e critico rispetto alle recriminazioni e alle pulsioni PER ABBONARSI Abbonamento annuo Euro 50,00 / Sostenitore Euro 100 c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207 Banca Intesa: IBAN IT 06 O 0306901626100000066270 E-mail: [email protected] Editore - Stefano Carluccio La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250 che ancora gravano sul campo di Agramante della Sinistra italiana. Questo libretto è ispirato da Rino Formica ed è cresciuto in un rapporto pluridecennale di scambio culturale, nel senso del confronto tra due culture politiche con molti tratti convergenti ma non omologabili, non fosse altro che per ragioni anagrafiche. La mia, maturata nella prima metà degli anni ‘60 tra i giovani comunisti per i quali la “via italiana al socialismo” è stata comunque una via “rivoluzionaria”, quella di Formica negli anni “ruggenti” dell’antifascismo nelle fila, assai scomode per quei tempi, di un socialismo non “frontista” e che si incontrano all’angolo di strada della crisi del berlinguerismo (siamo agli inizi degli anni ‘80) con le nuove prospettive aperte dal riformismo del nuovo PSI. Sullo sfondo c’era la Sinistra di governo, una sinistra che su quello sfondo oggi proietta una immagine di sé perdente se non informe. Se dunque l’ispirazione si deve a Formica, l’articolazione dei testi qui raccolti mi appartiene, come mi appartengono non poche dilatazioni concettuali e di giudizio, soprattutto alcune indulgenze per un moderatismo (il fenomeno del berlusconismo) che ha dato e sta dando pessima prova di sé ma che ha anche segnato un punto di frattura rispetto al moderatismo “consociativo” della Prima repubblica, dal quale un altro personaggio assai distante dal “Cavaliere”, Bettino Craxi, tentò una difficile deviazione. Ebbene, di queste “forzature” sono pienamente responsabile, nella condivisione di un punto centrale di giudizio politico e di lettura storica delle vicende nazionali, vale a dire l’idea della forza passiva e conservatrice esercitata dalla Costituzione “organica” sulla forma della nostra democrazia e sulla tormentata evoluzione del nostro sistema istituzionale verso un modello di governance adeguato al tempo della globalizzazione. C’è una idea, in breve, che accomuna: la Sinistra di governo del nuovo millennio o riparte da qui, da questa “larghezza” di visione o sarà un’altra cosa. Per una guida alla lettura I primi due capitoli, “La questione socialista oggi” e “Oltre la democrazia organica”, sono rispettivamente dell’aprile e settembre 2007. Entrambi sono stati elaborati come base di discussione sulla forma della nostra democrazia nell’occasione del 60° anniversario della Carta costituzionale. A settembre di quell’anno fu organizzato un convegno cui parteciparono vari esponenti della Sinistra e in quella sede i due documenti furono presentati e dibattuti. Il terzo capitolo dal titolo “Revisionismo e popolo” riproduce il documento presentato da Formica alla manifestazione nazionale organizzata dai Socialisti democratici italiani (SDI) per il lancio di una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’elezione di un’Assemblea costituente. La manifestazione si svolse a Vieste (Fg) il 21 settembre 2008. Il quarto “L’uscita di sicurezza del Socialismo largo” è stato presentato a maggio 2012 a Milano. La rivista e il circolo socialista “Critica sociale” convocarono i “volenterosi” per il rilancio del quotidiano storico del PSI l’Avanti!, con Rino Formica direttore. Il capitolo quinto “Oltre la stagione dei manifesti” e il sesto “L’Italia: una società senza nazione” sono del 2012, anno “terribile”: crisi del berlusconismo, rinascita del centrismo, il fenomeno di massa del grillismo. E’ stata anche la stagione dei Manifesti politici, tra i quali quello di Giulio Tremonti, al quale i due documenti, riprodotti nei capitoli quinto e sesto, rivolgono una attenzione simpatetica e alla stesso tempo critica. Il capitolo settimo “Idee per una Sinistra senza l’idea del socialismo” e l’ottavo “Dalla questione morale alla questione criminale: il declino della Sinistra” sono del 2013 e non hanno avuto circolazione. Vanno letti come un memorandum di questioni, predisposto con l’idea di avviare un giro di discussioni, coinvolgendo circoli socialisti, associazioni, gruppi di militanti e di compagni. Un giro per l’Italia per parlare del “Socialismo largo”. s Il volume è disponibile solo in formato ebook presso le librerie elettroniche (www.bookrepublic.it/book/9788868555122-la-questione-socialista-oggi/) 2 ■ CRITICAsociale 5 / 2014 ■ PUBBLICHIAMO UN PARAGRAFO DEL CAPITOLO “OLTRE LA DEMOCRAZIA ORGANICA” DELL’EBOOK DI RINO FORMICA SULLA “QUESTIONE SOCIALISTA OGGI” COSTITUZIONE ITALIANA E LA DEMOCRAZIA ORGANICA S Rino Formica essant’anni fa, nel clima in fuocato dallo scontro sociale e da grandi passionalità politiche, la parte migliore della coscienza democratica dell’Italia o per lo meno quella parte che aveva avuto la maggioranza del consenso popolare, elaborò la Carta costituzionale ispirandosi ai principi della democrazia organica, che segnerà la storia della repubblica. Il caposaldo della società organica è il superamento del sistema liberale fondato sull’indivisibilità del principio di libertà, e l’approdo ad una forzata visione della integrazione tra libertà politica e libertà sociale. Per democrazia organica si intende innanzi tutto una cultura politica, organizzata attorno a un nucleo, a una visione della politica, dei rapporti istituzionali, sociali ed economici e, nello stesso tempo, a una forma di organizzazione dello Stato e di tutti i soggetti politicoistituzionali a questo relazionati organicamente finalizzati alla determinazione di un modello politico. Per democrazia organica inoltre si intende l’egemonia dei partiti. La vita democratica coincide con la vita dei partiti, vi si riconosce totalmente, parte e si ripara nella vita dei partiti. La classe dirigente del paese è la classe dirigente dei partiti, è il ceto politico. La cultura politica del paese è organica alla cultura politica dei partiti, anche quando si forma nel gioco organico dello scontro politico. I partiti di massa tendono a identificarsi con il ruolo dello Stato e a collocarsi in una posizione di dominus in tutte le relazioni istituzionali, civili e sociali. Se dobbiamo trarre un bilancio e stabilire quanto di quella ispirazione originaria sopravviva, bisognerà riconoscere che la società organica ha assorbito i grandi conflitti sociali e politici degli anni ’60, ha bloccato il terrorismo, ha superato la crisi del comunismo, ha consentito l’ingresso in Europa, ha digerito Mani pulite, ma oggi è definitivamente consunta. Va anche detto che la società organica, disegnata dai costituenti, si è concretamente riconosciuta nelle forme della democrazia consociativa e ha preferito una logica continuista negli equilibri di potere piuttosto le rotture (rotture formali e continuità sostanziali), abbracciando in questa visione opportunistica tutte le forze politiche indistintamente. I socialisti nella Costituente ebbero un ruolo importante ma si divisero, per non portare il peso della responsabilità della democrazia organica e non chiudere definitivamente le porte a una democrazia delle libertà, a una democrazia liberalsocialista. I socialisti pagarono un prezzo alto a questa scelta: la presidenza dell’assemblea costituente e la scissione. Per tale ragione oggi i socialisti hanno titolo per mettere mano ai cardini della democrazia organica e riaprire la prospettiva di una nuova cultura politica, una visione della politica ispirata ai principi del socialismo democratico e liberale italiano ed europeo. La Costituente socialista deve ripartire da quei luoghi della Carta democratica su cui si è saldamente insediata la democrazia organica, per slegare i lacci della nostra vita democratica dalle contraddizioni ormai insopportabili determinate dalla crisi dei partiti, dalle insufficienze delle riorganizzazioni in atto sul fronte dei partiti e dalle debolezze della società civile e delle sue forme organizzate. Da dove partire per una critica dell’ispirazione organicistica della Carta? Dal ruolo dei Partiti. Dal ruolo dei sindacati. Dalla questione vaticana e dalla forma burocratica data al rapporto tra laici e cattolici in Italia, rapporto che è stato incardinato dall’art. 7 proprio nei termini di rapporto tra “potenze”. Tre articoli-snodo della nostra Costituzione da coinvolgere in una discussione politica di massa, sia ben chiaro!, non da rinchiudere nelle stanze ovattate di commissioni straordinarie. Tre articoli: l’art. 7, l’articolo 39 (i sindacati); l’art. 49 (i Partiti). La crisi della politica, oggi nel paese, ha assunto una tale forza distruttiva che richiede un ritorno alle origini del problema. La pervicace neutralizzazione di tutti i tentativi di riformismo sistemico ad opera dei protagonisti del compromesso costituzionale (ricordiamo la furia con cui il fronte unito dei cattolici e dei comunisti si oppose al cosiddetto presidenzialismo craxiano) ha portato a lungo andare al degrado del tessuto ideologico dei partiti, alla superfluità delle culture politiche (che per essere efficaci devono formarsi empiricamente, di volta in volta) trasformando i partiti da comunità tenute assieme da una finalizzazione e da un destino a una “comunità di servizio”. Il Partito politico oggi è sempre più un contenitore di opinioni contingenti, sensibilità approssimate, istanze particolari, utilità e servizi. Al servizio di chi e di cosa? Al servizio del leader, della leadership di gruppi dirigenti, del sistema politico ormai autonomo e sovranazionale, interconnesso alle centrali di coordinamento politico internazionale (i popolari, i socialisti, i conservatori, i liberali etc.); al servizio dei sistemi valoriali che si coagulano ormai al di fuori dei partiti. Si è passati, per inerzia e inedia, dal Partito ideologico, dal partito-Chiesa al Partito- servizio. Col sovrapprezzo di assistere al fenomeno dell’incalzare di nuovi poteri (primo tra tutti quello bancario-finanziario) per occupare il vuoto politico del Partito, snervato della capacità finalizzatrice. Con il rischio reale di creare un nuovo organicismo nel sistema dei poteri, una nuova democrazia organica, non più definita dalla centralità dei Partiti, ma dalla egemonia dei nuovi poteri. Insomma, un organicismo tecnocratico. Questo appare realisticamente e nient’affatto catastroficamente lo sbocco autoritario dei processi più o meno democratici in atto in Italia. Ripartire, dunque, dai punti di raccordo del compromesso organico per ridiscuterli e riaprire la partita della forma e del destino della nostra democrazia. Riteniamo utile proporre una rassegna delle posizioni che si espressero nel dibattito costituente, al fine di valutare la complessità di una fase politica, le incertezze e le forti volontà dei personaggi protagonisti, i valori e calcoli brevi delle forze politiche. Per valutare la posizione dei socialisti, sofferta come sempre, mai militarmente organizzata, sempre aperta a soluzioni non organicistiche, al dubbio dell’intelligenza e al destino della libertà. E’ una lettura politica quella che si ripropone, per riaprire un orizzonte storico e per orientare le battaglie di domani. La forma-Partito nel dibattito all’Assemblea costituente La Costituente socialista deve rappresentare nel quadro politico nazionale il passaggio chiaro e riconoscibile verso la democrazia delle libertà e delle opportunità e deve collocarsi in maniera altrettanto chiara e riconoscibile nel CRITICAsociale ■ 3 5 / 2014 punto di rottura con la democrazia organica, così come è stata concepita e voluta dai padri costituenti. Per democrazia organica, abbiamo detto, si è inteso l’organizzazione dell’intera vita statuale-istituzionale, dello stesso sistema politico nonché della formazione civica e della partecipazione politica dei cittadini attorno alla formazione e alla vita dei Partiti. Il Partito, i Partiti, il sistema dei rapporti tra i Partiti è stato e rimane tuttora il centro propulsore della vita democratica, il luogo in cui si riflette e riproduce la stessa meccanica della democrazia (possiamo dire che il modello emiliano rappresenta il prodotto di successo di un organicismo non totalitario). Modello emiliano che ha visto e per molti aspetti ancora conserva una struttura imperniata sul Partitomunicipalità-Ente locale attorno ai quali ruotano i rapporti sociali ed economici (i sindacati, le associazioni, le cooperative) e rispetto al quale modello solo “i nemici di classe” e la conservazione possono pensare di mettere in discussione. Nei giorni appassionati del dibattito all’Assemblea costituente si realizza la prima grande riforma politica della nuova Italia: attorno alla questione dell’art. 49 della Costituzione e al riconoscimento giuridico dei partiti si costruiscono le fondamenta della “democrazia dei Partiti” (negli allegati si danno ampi stralci di quel dibattito). Dossetti, La Pira, Moro, Basso, Togliatti, tutti convergono sul punto: l’Italia democratica deve rinascere dai Partiti. Il Partito è il punto di partenza e nello stesso tempo il punto di confluenza dei processi di democratizzazione dell’Italia che rinasce. Riprendiamo quel dibattito del lontano 1946-47 per una ragione di giudizio sintetico, rinviando alla documentazione per una più informata interpretazione storico-politica. In quel dibattito svoltosi nella prima sottocommissione e nel dibattito generale dell’assemblea costituente si pongono le basi teoriche della visione organicistica della democrazia e di quello spirito costituente che diventerà la cifra sistemica del modello democratico nazionale. Riprendiamolo per comprendere non solo i rapporti di forza (liberali e liberalsocialisti sono in netta minoranza) ma per cogliere le convergenze tra integralismo cattolico e quello comunista che acquisiranno nel tempo come sappiamo intensità e potenza fino a formare un abito di costituzione materiale. “Alla democrazia parlamentare non più rispondente alla situazione attuale, si è venuta sostituendo la democrazia dei partiti già in atto” (Basso). La Pira risponde dichiarandosi d’accordo perché questa (la democrazia dei Partiti) corrisponde a una “visione organica dello Stato”. Anche Moro dichiara di concordare “sul principio che la nostra democrazia si debba avviare verso le forme organiche da lui (Basso) prospettate”. Dossetti rispondendo a un’obiezione dei liberali afferma che le osservazioni dell’on. Mastrojanni “non tengono conto del fatto che oggi la democrazia si orienta verso un indirizzo diverso dalla struttura formalistica della democrazia parlamentare”. Togliatti si spinge a richiedere una graduatoria di democraticità tra i partiti: “E’ assurdo mettere tutti i partiti sullo stesso piano”. Si potrebbe continuare con le citazioni e concludere, col senno del poi e per paradosso, che in quella discussione per la costituzionalizzazione dei partiti si realizza il compromesso tra la concezione leninista del partito propria dei comunisti e la versione integralista-organicista della società e dello Stato tipica del cattolicesimo democratico e prevalente nel gruppo dirigente democristiano. Poniamo un quesito: si può sostenere che la riorganizzazione democratica dell’Italia avviata dai costituenti sulla base della forma-Partito costituzionalizzata, sulla base della assimilazione della vita interna e dell’organizzazione dei partiti alle forma pubblica organizzata (e viceversa), abbia realmente portato il Paese verso quella prospettiva di democratizzazione voluta dal sentimento democratico degli italiani e necessaria a connotare in senso liberale la nostra democrazia? O piuttosto è stato anche questo un episodio di rivoluzione passiva e di continuità tra l’organicismo statuale del fascismo (che affidava alle “istituzioni” il compito dell’organizzazione dello Stato totalitario e al partito unico il compito di ideologizzazione delle masse) e l’organicismo democratico del compromesso tra comunisti e cattolici che ha incardinato il processo della democrazia sulla centralità dei Partiti e in una accezione addirittura “antiparlamentare”? Sono dunque i Partiti la cellula costitutiva dell’esperienza democratica. Dentro la struttura e l’organizzazione politico-ideale dei partiti si forma la cultura politica e istituzionale del governo e del Paese, dentro la “società” dei partiti si forma la classe dirigente, dentro lo spazio della forma-Partito che è anche forma della politica e delle istituzioni vive la democrazia e la specificità del modello italiano. Alla luce di questo dibattito, si comprende meglio la discussione che dal dopoguerra ad oggi, sino alla fase attuale di riorganizzazione del sistema dei Partiti, si è avuta sulla formaPartito, una discussione niente affatto astratta ma solidamente piantata nella concretezza dei rapporti di potere, per l’egemonia e per il governo del Paese. Si comprende meglio il valore strategico della permanenza della forma organizzativa di tipo leninista del Partito comunista italiano (ancora difesa da Berlinguer in un celebre intervento del 1978), del lungo lavoro di supera- mento della forma-partito centralista e burocratica avviato dal PSI (iniziato dalla Conferenza d’organizzazione di Firenze del 1975) e della versione policentrica e correntizia della Democrazia cristiana. Nonostante la diversità delle formule organizzative adottate dai maggiori partiti nazionali, funzionali all’esercizio della dialettica politica e funzionali al controllo delle aggregazioni sociali di riferimento, nonostante la distanza tra il partito-pesante del PCI e le forme più o meno leggere e “laiche” volute dai socialisti e dai democristiani, la vita pubblica nazionale scorre lungo i canali dei Partiti senza mai fuoriuscire dagli argini costituiti dalla nervatura partitica delle istituzioni e dello Stato. Sino all’avvento della democrazia globale, sino all’affermazione della mondializzazione che mette in crisi la forma totalizzante del Partito con le sue declinazioni nazionali. LA “DEMOCRAZIA DEI PARTITI” Leggere la Costituzione italiana come compromesso tra organicismi (quello comunistafrontista e quello cattolico-dossettiano), cioè tra visioni organiche della democrazia non è un modo riduzionista per svalutare il lavoro dei costituenti, né per opporsi a una formula soffocante di intesa ai danni di minoranze laicoliberali nel nome di un giudizio storico. E’ operazione necessaria di disvelamento della matrice arretrata di una cultura politica che ha operato “organicamente” nel lungo lavoro costituente e che ha le sue radici nella storia del comunismo italiano e del movimento cattolico (con rara ma significativa eccezione nella figura di De Gasperi), nel radicalismo e nella subalternità del proletariato italiano, in una visione dell’evoluzione democratica del Paese che passa attraverso processi di pedagogia politica e civile per mezzo del partito politico di massa (agevolati in questo dall’opera di ideologizzazione e di politicizzazione del Fascismo). Tutte le fasi di democratizzazione-moder- nizzazione del Paese avvengono all’insegna della strategia politica e di movimenti politico-ideali di stampo politico-partitico. La società, i processi e i movimenti sociali fanno da contesto, sono i contorni di un disegno ascrivibile al soggetto collettivo del Partito, dei Partiti. La storia civile del paese, con la breve interruzione del Sessantotto, è storia “politica”, è storia di Partiti, è storia di gruppi dirigenti cresciuti nei partiti. Anche l’esperienza del centro-sinistra, il primo incontro tra il socialismo italiano e il partito dei cattolici, non è inteso come occasione storica ma sfuma e scolora in un evento di governabilità possibile, registro di nuovi e diversi rapporti di forza e riequilibrio di poteri. L’Italia cambia e svolta solo quando c’è un salto nell’organicismo politico degli assetti democratici e di potere (il centrismo prima e il centro-sinistra poi), oppure c’è uno scatto di autonomia nei gruppi dirigenti degli apparati di partito, oppure quando irrompe la società nella struttura e nella recinzione della politica. Naturalmente la democrazia organica ha conosciuto momenti di splendori sia con il centrismo, quando la DC si è fatta Stato, ha modellato le strutture statuali (soprattutto nelle articolazioni economiche dell’impresa pubblica) a immagine della sua particolare “socialità” e immettendo nel circuito amministrativo il ceto politico raccoltosi attorno a quel partito. Anche se va detto che la suddivisione correntizia del partito della Democrazia cristiana è stata un potente antidoto alla degenerazione burocratico-autoritaria e centralistica e, anzi, ha rappresentato una forma originale di adesione di questo partito all’articolazione della società italiana e all’incorporazione e rappresentazione di interi pezzi di società e di ceto politicoamministrativo (si pensi al rapporto tra Sinistra di base e Mezzogiorno; tra Sinistra DC e movimento sindacale etc.). Un altro momento di gloria è stata, va da sé, la fase tormentata dei governi d’unità nazionale sul finire degli anni Settanta, della quale si è già detto in altra parte del documento. Ma la democrazia organica è stata fortemente contrastata dall’esterno, come al tempo del Sessantotto, la cui forte spinta sociale poteva far prevedere un indebolimento “organico” dei Partiti a favore delle strutture cosiddette intermedie della società, ma che in realtà rientrò nel recinto organizzato dei partiti per la ragione del radicalismo politico e dell’ideologia “rivoluzionaria” che ne privilegiò gli aspetti per così dire “organizzativistici” (si veda la proliferazione di movimenti e partitini, tutti a struttura rigorosamente leninista- centralista). La reazione socialista al compromesso storico negli anni Ottanta, con il governo Craxi, fu un momento di contrasto (dall’interno) dell’organicismo. Craxi comprese che la formula pattizia del compromesso democratico rappresentava la forma più alta di guida dall’alto, di centralizzazione dei processi di allargamento della democrazia, con gravi rischi di autoritarismo. Ma Craxi non comprese che la risposta alternativa doveva procedere non soltanto dal lato dei contenuti liberaldemocratici e riformisti dell’azione di governo, non soltanto dal lato cioè della governabilità, ma andava assegnato all’obiettivo della riforma dei partiti e alla promozione della società organizzata non solo entro formule partitiche, un alto grado di priorità. Al contrario, l’esperienza di quel governo si mostrò, dal punto di vista sistemico, come la riduzione del “buon governo” alla solita intesa verticistica. Ma qual è l’inciampo più grande sulla strada del modello organico della “democrazia dei Partiti”, che ne mette irreversibilmente fuori 4 ■ CRITICAsociale gioco i meccanismi di funzionamento? Si chiama globalizzazione il punto di caduta dell’organicismo democratico e, nel caso italiano, conosce una versione specifica che è la europeizzazione, cioè la denazionalizzazione di alcune funzioni essenziali di governo: la politica monetaria sopra ogni cosa, i regolamenti unitari in diverse materie e discipline della vita nazionale. In questo processo sovranazionale saltano le regole e i vincoli nazionali delle relazioni politiche, saltano i rapporti meccanici tra partiti e i rispettivi insediamenti sociali, saltano le relazioni tra gruppi e apparati di partito. Le culture politiche e gli interessi specifici che regolavano i rapporti interni al ceto politico non amministrano più i vecchi legami, le vecchie correnti. Le logiche politiche nazionali si mescolano con quelle sovranazionali. La sovranazionalità europea entra in contrasto con la globalizzazione mostrando le angustie di una mera visione europea, evidenziando sempre più le necessità di esporsi alla competizione, di definire strumenti autorevoli ed efficaci di regolamentazione dei flussi globali. I Partiti nazionali, insomma, diventano componenti di un sistema, non sono più il centro del sistema. Accanto ai Partiti e spesso in competizione con questi vi sono altre strutture e altri soggetti di rappresentanza, altri interessi organizzati e “raggrumati” in organizzazioni, individualità professionali che competono con leadership politiche (il caso Berlusconi può essere ascrivibile a questa fenomenologia), culture politiche che per essere riconosciute hanno necessità di incorporare la globalizzazione e per affermarsi non hanno bisogno del timbro della propria scuola nazionale e di partito ma devono saper ricercare il punto di equilibrio tra interesse nazionale e interesse sovranazionale. 5 / 2014 gretario e dei gruppi dirigenti del PD, cui assistiamo in questi giorni di vigilia elettorale, non solo contrasta con la prassi di prevaricazione degli apparati ma è il segno strutturale di una contraddizione irrisolta, anzi della incapacità di superare la “tradizione”, è la dimostrazione della forza attrattiva dei vecchi modelli, con il ricadere irrimediabilmente nel partito-apparato (al plurale, vale a dire nella sommatoria di apparati che amplificano gli effetti della burocratizzazione). Quali sono i processi in atto (nel PD) di formazione di una cultura politica unitaria? Il fusionismo politico-ideologico che è lenta ma programmata agglutinazione di pensiero e di esperienze si tramuta in semplice sommatoria, anzi in palese distinzione delle antiche famiglie in nuovi sistemi correntizi e nuovi schemi di alleanze. Dov’è il Partito diverso? Dov’è quel modello che doveva essere il luogo di un policentrismo organizzativo (soggetti politici assieme con soggetti sociali-professionali e interessi democraticamente organizzati) tenuto assieme da una solida cultura riformista e da forti grup- menti a copertura della domanda di masse giovanili in condizioni lavorative di precarietà o di in occupazione, non è dato sapere. Così come non convince la soluzione proposta di tenere assieme un fronte così largo con il semplice ricorso alla “cultura del conflitto”, con l’unica risorsa del principio di contraddizione di classe in grado di “far avanzare” i processi democratici e nello stesso tempo di produrre soluzioni e sbocchi positivi per i conflitti. Si propone uno strano ibrido politico. Per la Sinistra alternativa la cultura di governo non coincide con il riformismo ma piuttosto si alimenta e si arricchisce attraverso il conflitto e tanto più con esso si intreccia (governo e conflitto) tanto più è prodiga di buoni risultati. Di quello che accade a Destra non conviene parlare per scelta precisa di economia della nostra discussione. Va registrata solamente una analogia sul fronte sia dei fenomeni aggregativi sia della confusione e dell’incertezza dei progetti e delle strategie, dovute alla necessità di tenere assieme e di occupare contemporaneamente il pi dirigenti radicati nella specificità e nella rete del localismo, tipico della realtà italiana? Si vedono solo i prodromi di un fenomeno di infeudamento politico determinato dall’inedito intreccio di rinnovati mescolamenti di alleanze e nuovi sistemi di potere su base territoriale. Altrettanto sta accadendo nella cosiddetta aggregazione della Cosa rossa. In questo caso il progetto fusionista si complica in quanto convergono forti matrici organizzative e resistenti insediamenti politico-sociali, trasportati da protagonisti con basi sia nella tradizione del comunismo italiano, del radicalismo operista che in quella del movimentismo giovanile e anti-istituzionale, ambientalista e antiamericano. Come si possa conciliare la continuità con la tradizione comunista di stile berlingueriano, la difesa ad oltranza del blocco sociale operaio con il Welfare allargato richiesto dai movi- centro moderato e il radicalismo conservatore e anti-sistema, ancora presente in dimensioni massive. Il Socialismo largo per battere la Destra larga. Abbiamo detto che l’ispirazione organicistica originaria si è col tempo “sfarinata”. Rimane come “zoccolo” sub-culturale, retro-cultura politica della cultura politica nazionale, retorica di ultima istanza. Sin dal lontano 1947, in verità, dovette fare i conti e piegarsi alla durezza del quadro internazionale e interno. Poi lasciò il campo alle forme consociative e compromissorie per dare risposte fallaci e “unitarie” all’irrompere della complessità, per poi essere definitivamente travolta dal pluralismo della società, dei soggetti economici e sociali, dalla forma sovranazionale dei governi. L’organicismo si travestì da “autonomia del politico” per sopravvivere PD E COSA ROSSA: RINNOVAMENTO NELLA CONTINUITA ̀ I l modello di partito politico e il sistema politico basato sulla democrazia organica dei Partiti è in crisi irreversibile. La Costituente socialista gioca la propria legittimazione a soggetto politico di governo sulla qualità della risposta a questa crisi che è crisi dell’organizzazione e del sistema della politica in Italia. La Destra larga di Sarkozy ha cominciato il cammino dell’elaborazione dell’alternativa alla crisi dell’attuale sistema di globalizzazione. E a Sinistra? Se è fuori discussione che la costituzione del Partito democratico (PD) sta dando luogo a varie iniziative di ristrutturazione e di aggregazione di partiti sia nel centrodestra, sia al Centro che in tutta l’area del radicalismo e del movimentismo di Sinistra, è altrettanto vero che il PD di per sé non costituisce esempio di risposta a quella specifica crisi della formaPartito che è data dal ruolo totalizzante ed esclusivo dei Partiti nella dialettica politica e di governo e si colloca in perfetta continuità con l’ideologia organica assegnata ai Partiti dalla Costituzione. Si può dire che il maggiore motivo di debolezza del processo democratico (il PD) sta nella consapevolezza di dover superare in tutta fretta i modelli tradizionali di organizzazione, di aprirsi al policentrismo sociale organizzato per fare spazio a nuclei di società democratica aggregata in movimenti, di dare rappresentanza e ruolo politico a questi movimenti e, nello stesso tempo, registrare da parte del gruppo dirigente ulivista l’incapacità di dare soluzione onorevole al busillis. L’inflazione di democraticità e di regole garantiste nelle procedure per l’elezione del se- all’avanzare dell’autonomia del sociale e soprattutto all’autonomia delle forze economiche del capitalismo mondiale. In un campo disegnato dal vuoto di organicismo, dalla sconfitta delle grandi ideologie, dell’esaurimento del compromesso socialdemocratico e della stessa questione sociale (ristretta alle fasce marginali della società), dalla vittoria del capitalismo a ovest come a est, al nord come al sud, in questo campo si insedia la Destra larga. Di questa Destra Sarkozy è l’alfiere. Se l’economia capitalistica domina sull’intero scacchiere mondiale e si intreccia con tutti i sistemi politici (si chiama mercatismo, unione di liberalismo e comunismo, con l’occhio evidentemente al modello cinese, che è anche il modello asiatico, ma anche forse il modello russo) se dunque l’economia è un vettore che cammina secondo un tracciato ineludibile (l’economia come la forma di un nuovo materialismo storico) la politica riesce finalmente a emanciparsi dall’economia e può dispiegare il suo potenziale, a quel punto solo tecnico, lasciando alle forze politiche la possibilità di differenziarsi solo su basi ideologiche. A quali conclusioni giunge la Destra moderna? Presto detto: l’economia è globalizzata (sotto forma di mercatismo), la Politica è tecnica di governo delle contraddizioni e ricerca dell’equilibrio possibile, la società si organizza e si differenzia secondo valori (le ideologie) e non più su una linea di difesa degli interessi materiali. Il ritorno trionfale dell’ideologia, dunque, come nuovo orizzonte della politica e della modernità. In altre parole, la politica non degrada in ideologia (come abbiamo erroneamente pensato con lo sguardo rivolto al secolo scorso) ma si riconverte in tecnica più ideologia seguendo un livello superiore di organizzazione sociale, un livello di società che, superate le vecchie formule di divisione classista, si riarticola secondo una pluralità di interessi e di visioni sempre meno dettati dall’economia e sempre più immateriali (valoriali) che prima erano compressi nel contenitore del classismo. Se il terreno politico e nello stesso tempo la sfida della Destra moderna (larga) è definita dai valori e dalle identità e dalla fine della questione sociale, la risposta del Socialismo largo deve competere sul piano dei valori (le libertà non garantite, anzi negate, dal neo- capitalismo autoritario) e sul disegno di una nuova questione sociale che non replichi l’antistorico schema classista. Il Socialismo largo deve sottrarre alla Destra la “qualità” dei riferimenti valoriali (libertà, solidarietà ma anche sicurezza e merito, non “salario per tutti” ma “opportunità per tutti”) e deve rilanciare la questione sociale, sapendo che oggi questa si coniuga come: qualità della vita, economia eco-compatibile, lotta alle nuove povertà nel Nord e nel Sud del mondo, risposte alle solitudini e alle marginalità sempre meno economiche e sempre più sociali ed esistenziali). Se la democrazia organica è stata superata dal pluralismo della società, dal pluralismo della Politica, dal pluralismo dei valori ma anche dal trionfo del capitalismo “a una dimensione” (o se vogliamo: del capitalismo a democrazia variabile) compito dei socialisti è garantire sempre uno sbocco democratico e “plurale” ai processi di modernizzazione e globalizzazione. Se la Destra pensa a una gestione “limitativa” delle libertà in nome della sicurezza e delle identità, la Sinistra deve far avanzare l’intero fronte della libertà e della sicurezza, dell’etica e della laicità, della questione sociale e delle pari opportunità, della questione sociale e della questione etica. Se lo scontro sarà tra CRITICAsociale ■ 5 5 / 2014 la Destra moderna e la vecchia Sinistra, la sconfitta è già all’orizzonte. Il socialismo democratico e largo deve saper legare le Libertà, le autonomie, i doveri con le solidarietà; le forme inedite del soggettivismo e del privatismo con l’interesse generale. I socialisti devono costruire una nuova ingegneria delle libertà, contro le ingegnerie burocratiche e le ristrutturazione degli apparati, che è quel che accade oggi nella Sinistra. Nel dibattito oramai aperto (ma mai concluso) sulla riforma della Costituzione dobbiamo immettere i fluidi delle nuove libertà. Libertà e riconoscimento per forme di organizzazione degli interessi politici e degli interessi economici entro il quadro del bene comune e della solidarietà. I socialisti assieme con le altre forze democratiche costruttori di una stagione revisionista. Nel 60° anniversario della Carta costituzionale spetta ai socialisti il compito di aprire un serio e vasto dibattito sulle difficoltà della politica con la fine del ruolo dei Partiti nella società organica. La Costituente socialista deve porsi l’obiettivo di andare oltre la democrazia organica e aprire un nuova fase di modernizzazione del Paese. Negli anni ’80 l’iniziativa socialista seppe interrompere e mettere in crisi il ciclo delle modernizzazioni passive promosse all’insegna della democrazia organica, inaugurando il primo ciclo riformista a guida socialista, che potè partire a condizione di colpire il punto più duro e conservatore del sistema di potere dato a quel tempo: l’egemonismo del comunismo italiano sul sindacato e sulla classe operaia, un lascito della democrazia del compromesso. Oggi come allora, ma sempre in condizioni di minorità politica, i socialisti devono sostituire la strategia della governabilità (meglio dire della “buona governabilità”) adottata negli anni ’80 con un nuovo fronte di lotta politica che sconvolga le due tendenze in atto nella Sinistra (sul fronte democratico e su quello alternativo e movimentista) unificate dalla logica continuista, dalla legge del “rinnovamento nella continuità”. Questa nuovo fronte di lotta deve essere il fronte delle libertà, dell’autonomia della società che affianca l’autonomia del politico, delle responsabilità, del merito, dei doveri, della solidarietà. Oggi come allora va trovato l’anello debole della catena consociativa-organicistica che ancora avviluppa la democrazia italiana. Il punto debole è in quelle parti della Carta costituzionale che racchiudono la visione organica e partitocratrica che ha alimentato e continua ad alimentare le culture politiche e di governo. L’iniziativa socialista deve puntare a rimuovere quella cultura, rinnovare quei punti, non nel chiuso delle Commissioni bicamerali ma in una vasta discussione pubblica, aperta alla società. Non di una iniziativa istituzionale c’è bisogno ma di una iniziativa di massa. Elenchiamo schematicamente alcuni capitoli sui quali va esercitata in apposite sezioni di lavoro una discussione approfondita. Metter mano al ruolo dei Partiti nel tempo della globalizzazione. Comprendere che la riforma dei Partiti non passa esclusivamente dal rinnovo dei meccanismi interni, cioè dal loro grado di democraticità, ma si configura nel rapporto con le nuove forme delle aggregazioni sociali (i movimenti, le “condensazioni” come le chiama De Rita), si riconosce dalla capacità dei Partiti di fluidificare la comunicazione tra società politica, istituzioni di governo e società plurale. Valorizzare il ruolo di soggetto politico au- tonomo del sindacato al tempo della contraddizione tra gli interessi corporati delle fasce protette del mercato del lavoro e gli interessi generali, di lungo periodo delle nuove generazioni che affrontano senza adeguate protezioni i rischi delle ristrutturazioni produttive e della globalizzazione. Ridiscutere l’art. 39 della Costituzione vuol dire rifiutare il ruolo subalterno del sindacato ai partiti. Ribaltare la concezione del sindacato come parte passiva della società organica che lo voleva Agenzia pubblica per i contratti, ufficio pubblico salariale. Ridiscutere l’articolo 39 ha il significato di rafforzarlo nel ruolo autonomo di soggetto politico, attore generale assieme con altri della politica del paese e dell’allargamento della democrazia. Mettere mano alla sovranazionalità delle decisioni nazionali, senza respingerne il valore positivo e innovativo ma prevedendo, per alcune grandi questioni di interesse nazionale, il ricorso alla volontà dei cittadini. Bisogna rimettere mano alla Questione cattolica, salvaguardando il bene prezioso della pace religiosa, partendo anche qui dalla Costituzione, da quell’articolo 7 che sancì lo scambio politico, il compromesso tra comunisti e cattolici e che finì per amministrativizzare da un lato e privatizzare dall’altro il rapporto tra laici e cattolici (il cattolicesimo democratico che privatizzò la delega politica facendone strumento di potere e di egemonismo), con il risultato di costituzionalizzare un concetto di laicità con il segno dell’ambiguità, dell’incertezza e dell’opportunismo burocratico. Su questo punto la Costituente socialista deve dire parole chiare perché ne va la prospettiva del paese e la permanenza stessa del soggetto socialista (sul tema I socialisti e i cattolici rimandiamo al recente convegno organizzato da Socialismo è Libertà il 9 luglio scorso a Roma). Agli inizi degli anni ’60, con il primo centro-sinistra l’incontro tra socialisti e cattolici determinò la prima grande svolta politica del paese e fu un incontro tra due visioni della questione sociale e delle modernizzazioni che si scontrarono e si scambiarono. Il limite e la forza di quell’esperienza è ancora oggetto di acceso dibattito tra politici e storici. Per anticipare una discussione che dovremo affrontare con sistematicità possiamo dire che uno dei limiti consistette nella mediazione partitica del rapporto tra socialismo e cattolicesimo in Italia, nelle condizioni determinate dalle vicende, dalla storia e dalla rigidità del PSI e della DC e dai vincoli del sistema politico nazionale (e dal ruolo di opposizione governante dell’allora PCI). Oggi l’incontro tra socialisti e cattolici può avvenire su basi assai diverse, ma non meno proficue. Negli anni ’60 socialisti e cattolici erano portatori di due diverse concezioni della questione sociale. Oggi il rapporto potrebbe iscriversi nel confronto tra le questioni sociali ancora aperte ma non più dilaceranti come allora, le questioni delle libertà e le questioni dell’etica. Socialità, libertà, eticità possono essere i lati di un terreno comune di confronto per una nuova svolta politica del Paese e per una concezione non esclusiva della laicità. Conviene tentare. IN CONCLUSIONE L’ispirazione organicistica della nostra Costituzione ha dunque segnato l’esperienza democratica del Paese, nel bene e nel male. Ha consentito il superamento in positivo e non traumatico di passaggi di fase cruciali ma ha determinato la rigidità del sistema politico, di cui ancora soffriamo, che fa dell’Italia un caso “anomalo”. La società italiana è andata maturando una cultura pluralistica che la pone allo stesso livello delle culture politiche più avanzate. Al contrario, il sistema politico e dei Partiti è ancora attratto da un campo di forze ideologiche e culturali che appartiene al passato. Prova ne è che tutti i tentativi di revisione-rivisitazione della Costituzione si sono fermati sulla soglia di quella Prima parte che ne custodisce gelosamente i principi ispiratori, dando vita a una discussione concentrata esclusivamente sulla razionalizzazione dei meccanismi di governo e sulle “buone pratiche” di funzionamento delle istituzioni. Questo è l’anello debole della “catena democratica” del Paese: una società evoluta e plurale e un sistema bloccato da una cultura ispirata all’integralismo e all’organicismo appartenuto alle due maggiori forze politiche che hanno edificato, in un gioco sottile di contrapposizione-integrazione-collaborazione, l’impianto democratico costituzionale. Su questo anello debole deve concentrasi l’azione dei socialisti italiani, deve farsi sentire l’iniziativa della Costituente socialista. Va usato il “pugno” della determinazione in un “guanto” di prudenza, realismo e saggezza. Non va chiesta l’abolizione pura e semplice di tre articoli della Carta (l’articolo 7, il 39 e il 49). Va sollecitato un grande dibattito politico e di massa sui tre pilastri che tengono ancora in piedi la cultura organicistica, con questa, una situazione contraddittoria, confusa, manipolativa e riduttiva della vita democratica. Ridiscutere l’art. 7 non vuol dire rinunciare alla pace religiosa e un tonfo nel passato. Piuttosto il contrario, un salto in avanti nel rapporto tra Stato e Chiesa, per slegare il dialogo tra laici e cattolici dai meri vincoli burocraticocontrattuali, per riscrivere assieme regole di una nuova laicità, che accomuna (non solo contrattualmente) i sentimenti religiosi alle necessità statuali di governo del pluralismo e della complessità sociale. Per fare in modo che il sentimento religioso (al plurale) non sia il liquido di contrasto della modernità, ma diventi componente di una nuova laicità e strumento di governo della modernità (riprendendo una importante intuizione di Habermas). Per dibattere l’articolo 39 sul Sindacato. Per ridare forza, soggettività, autonomia al Sindacato. Per archiviare definitivamente la stagione del sindacato “cinghia di trasmissione”, per sottrarlo alla funzione di semplice agenzia salariale. Insomma per aprire nel paese una discussione sulle condizioni che portano il sindacato ad essere soggetto del pluralismo politico e non potere “corporato”, soggetto del sistema e non contraddizione del sistema. Va ripreso l’articolo 49 della Costituzione, sui Partiti. La forza della crisi ha imposto che la ridiscussione del ruolo dei partiti venga oggi ripreso nelle forme dell’antipolitica, nelle forme qualunquistiche della “casta”. Va invece ripreso da quel punto, da quell’articolo, perché da lì sgorga l’acqua che ha fertilizzato il campo ideale della democrazia italiana e fatto crescere la sua cultura politica. Rinnovare quella cultura politica non solo è importante ma assolutamente necessario. Sessant’anni fa i socialisti tentarono di impedire il congiungimento degli integralismi, tentarono di limitarne i danni, tra limiti e contraddizioni. Oggi i socialisti devono riprendere quella battaglia senza dimenticare il giudizio di Calamandrei di una Costituzione “poco lungimirante”. s Rino Formica 6 ■ CRITICAsociale 5 / 2014 ■ LETTERA A MACALUSO SU TOGLIATTI E LA DEMOCRAZIA ORGANICA LA LEGITTIMAZIONE ANTIFASCISTA È LA BASE DELL’UNITÀ POLITICA Rino Formica C aro Emanuele, ho letto il tuo libro e dico subito che vi ho trovato conferma del fatto che passione e rigore possono essere tenuti assieme solo a partire da una grande esperienza politica, la tua, vissuta, tra l’altro in un rapporto diretto con Togliatti, appunto con passione militante unita a rigore e autonomia. Al termine della lettura ho pensato che il libro avrebbe potuto avere un altro titolo, forse paradossale: Togliatti, un uomo solo. Replicando quello del libro della figlia di Alcide De Gasperi che ha raccontato la solitudine politica del padre. Togliatti e De Gasperi sono state figure centrali dell’Italia repubblicana. La mia non vuole essere una battuta ma vuole cercare di fissare il nocciolo della tua riflessione sul “partito nuovo” e sulla figura di Togliatti: la svolta di Salerno è stata una grande intuizione, una formidabile costruzione politico-ideale, una sintesi originale di politica estera e politica interna (l’Europa dopo Yalta) che, nonostante il prestigio internazionale e la forza politica del suo ideatore, è rimasta nei fatti minoritaria nel PCI. Una linea certamente condivisa, tu sostieni, ma con altrettanta certezza non compresa nella sua tessitura strategica dalla maggioranza del popolo e del gruppo dirigente comunista. Fatto sta che le due “solitudini” si sono dispiegate entro scenari diversi e soprattutto con esiti diversi. In fondo Togliatti, nella vicenda del post-fascismo nazionale, è risultato un personaggio vincente mentre De Gasperi ha visto, da perdente, l’Italia risorgere e crescere nella democrazia. Ma questa è un’altra storia. Il Togliatti da te raccontato (con il supporto di una corposa e selezionata documentazione) risulta un personaggio “incompreso”. Infatti la via italiana al socialismo fu osteggiata dall’Urss e dal suo agente fiduciario ancorché di grande spessore politico e intellettuale, Secchia. Fu interpretata “autonomamente” da Amendola e “creativamente” da Berlinguer. La “sinistra comunista” (come tu la chiami passando sopra le infinite differenze e sottigliezze politiche e ideologiche che l’hanno contraddistinta, dal gramscismo movimentista di Ingrao all’anti-gramscismo operaista di Mario Tronti) vi si oppose fieramente e apertamente, vedendone non tanto i limiti “democraticistici” ma il risultato del deliberato decentramento della “questione operaia” (e del partito operaio) dall’orizzonte della via italiana al socialismo. L’unico che ne comprese la ratio, la difese (dal “secondo” Berlinguer e dal “secondo” Craxi) e ne sviluppò il pensiero a ridosso delle profonde trasformazioni del Paese e dello scenario mondiale, ne revisionò la “meccanica” troppo condizionata sia dai fattori esterni e sia dalla crisi nazionale del politico e delle istituzioni fu Napolitano, un altro uomo solo. E non a caso, potremmo dire con il senno del poi! E adesso entriamo nel vivo delle questioni da te proposte, tra le quali in primis c’è la domanda: quale è stata la vera natura del PCI, inteso quello della “svolta”, un partito anti- sistema, del sistema o nel sistema? Indubbiamente questo è il punto di partenza imprescindibile per dare una versione non propagandistica e accademica della “via italiana al socialismo”. La domanda non ha una risposta secca (come tu ben sottolinei) e non può risolversi in un determinismo storicistico basato sul rapporto tra Stalin e Togliatti. La risposta deve prevedere una “trama” nella quale inserire un ragionamento articolato, un percorso, un processo politico, che parte dalla Costituzione, parte cioè dall’idea togliattiana della Costituzione come processo, come programma politico di costruzione di un modello di democrazia, dentro il quale si devono riconoscere sia le forze politiche che le forme politiche della democrazia e al di fuori del quale si devono collocare tutte le forze “antidemocratiche” da combattere. In sostanza solo dentro il quadrato delle forze politiche che hanno voluto la Costituzione, solo dentro il perimetro totalizzante di quel programma democratico è consentita la legittimazione democratica, solo nell’ “arco costituzionale” è possibile vedere e riconoscere il profilo sistemico e ideale della democrazia della nuova Italia, al di fuori c’è solo l’opacità della reazione. In sostanza deve risultare evidente, e mi pare che una accorta storiografia oggi non registra più incertezze su questo punto, che tra la visione della democrazia progressiva che è stata di Secchia e quella di Togliatti non vi è solo una differenziazione tattica ma è di sostanza. Nella visione di Secchia le vie nazionali alla democrazia di matrice terzinternazionalista sono l’espediente per “entrare” nel campo della democrazia borghese per decretarne le incompatibilità e su queste innestare processi conflittuali a sbocco rivoluzionario. In Togliatti, all’opposto, l’idea della via nazionale al socialismo deve trovare le “vie” per rendersi compatibile e accompagnarsi per un lungo tratto con le esperienze di liberaldemocrazia, pena lo stesso esaurimento del progetto rivoluzionario e, dall’altro, l’affievolimento dello spirito delle Costituzioni di natura liberal-borghese. Gli interventi di Togliatti alla Costituente vanno letti come un continuo e travagliato esercizio di costruzione di un ponte tra queste visioni delle “Costituzioni delle libertà”, diverse ma non estranee, le libertà e i diritti individuali e le libertà e i diritti dei movimenti sociali organizzati. Di questa ricerca di collegamenti (ma anche di un travaglio interiore) ne è prova questo passaggio dell’intervento di Togliatti, nella seduta dell’11 marzo 1947 nel quale è evidente il tentativo di ricercare un nesso (un compromesso?) tra “vecchie” scuole costituzionali e i nuovi costituenti: “Oserei dire che nel nostro lavoro non ci hanno dato grande aiuto i giuristi (...). Molte formulazioni del progetto sono certamente deboli, perchè giuridicamente non siamo stati bene orientati e effettivamente fu un errore non includere nella Commissione i rappresentanti della vecchia scuola costituzionalista italiana. La realtà è che negli ultimi venti o trenta anni la scienza giuridica si è staccata dai principi della nostra vecchia scuola costituzionale. In fondo quali erano questi principi? Erano da un lato i principi del diritto romano e dall’altro i grandi principi delle rivoluzioni borghesi, elaborati poi attraverso l’esperienza costituzionale dell’Ottocento. Negli ultimi venti o trenta anni, invece, sono affiorate e sono state accolte, soprattutto nel nostro paese, dottrine diverse (...) che riconoscono e collocano la sovra- nità non nel popolo, ma soltanto nello Stato e danno quindi ai diritti individuali soltanto un carattere riflesso.(...) E questo spiega perchè, quando abbiamo dovuto scrivere una Costituzione democratica e abbiamo chiesto l’ausilio dei giuristi, essi non sono stati in grado di darci un aiuto efficace. Per darcelo (...) bisognava che ritornassero a qualche cosa che avevano dimenticato, e non erano sempre in grado di farlo. Questo è un motivo profondo delle debolezze e del carattere equivoco di molte tra le formulazioni del testo che sta davanti a noi”. Questa è la grande operazione politica, vincente, di Togliatti, il legame indissolubile e la formazione di un blocco unico tra democraziaantifascismo-Costituzione; questo è il suo capolavoro e, al tempo stesso, la grande scommessa di agganciare con la formula della democrazia progressiva le grandi correnti democratiche che si alzavano dalla nuova Europa e dalle frontiere liberate dai totalitarismi. Naturalmente tralascio di entrare nel merito delle discussioni, delle alleanze e delle opposizioni (tra le quali l’opposizione di De Gasperi a un simile “organicismo”) che caratterizzarono i lavori della Costituente e consentirono la costituzione di una ideologia, quella che si è riduttivamente definita “consociativismo”. Il punto è che la via italiana al socialismo (con annesse “riforme di struttura”) si costruisce tutta attorno a questo asse sistemico e ideologico. Fu, per Togliatti, un deliberato ed efficace esorcismo della questione democratica. Togliatti non risolse mai, fino al Memoriale di Yalta, il problema della democrazia e tutte le citazioni dei testi togliattiani da te utilizzate confermano questo nodo politico e teorico. Il modello democratico nazionale, per Togliatti, non ha il carattere generale, classico della liberaldemocrazia ma quello particolare segnato dalla Resistenza e dalla Costituzione. Quando Togliatti parla di sviluppo democratico e di partiti (questi sono la democrazia che si organizza) non si colloca nelle semplici procedure liberaldemocratiche per la formazione del governo ma ha in mente un duro antagonismo, un contrasto frontale contro le forze reazionarie per l’attuazione del programma democratico sancito dalla Costituzione contro la quale si possono raggruppare, per l’appunto, esclusivamente tutte le forze conservatrici. Nell’importante intervento svolto da Togliatti l’11 marzo del 1947 all’Assemblea costituente sul primo progetto di Costituzione, il leader del PCI definisce bene il ruolo che l’antifascismo deve avere nella costruzione del modello di democrazia nazionale, nel presidio della democraticità della Costituzione e colloca la “via italiana” e la “democrazia progressiva” in questo preciso punto di incontro-scontro tra forze democratiche e reazionarie. In sostanza l’antifascismo per Togliatti (ma per l’intera sinistra italiana perfino in quella di matrice socialdemocratica) non è semplicemente un sentimento democratico, un sentimento da alimentare di continuo con l’impegno civile e politico nella dialettica liberaldemocratica ma è il filtro selettivo delle nuove classi dirigenti, tanto più legittimate a governare quanto più ispirate dai principi “sociali” e di emancipazione. Diamo la parola a Togliatti: CRITICAsociale ■ 7 5 / 2014 “ (...) noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi davanti alla nazione italiana. Il compito che dobbiamo assolvere oggi non so se sia più facile o più difficile, certo è più vicino. Oggi si tratta di distruggere sino all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare che la tirannide fascista non possa mai più rinascere; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva, di una classe dirigente la quale per la propria natura stessa ci dia garanzia effettiva e reale, che mai più sarà il paese spinto per la strada che lo ha portato alla catastrofe, alla distruzione”. Ed è su questo terreno della legittimazione antifascista delle forze politiche, al quale viene attribuito un valore discriminante (dentro o fuori la democrazia) che si forma lo schema compromissorio del sistema politico nazionale, schema che sarà ripreso e sviluppato dalle due culture politiche protagoniste della Costituente: il comunismo italiano e il cattolicesimo democratico. Togliatti in quella stessa seduta dell’11 marzo ‘47 interviene proprio su questo punto con grande chiarezza. “Nè io ritengo sia necessario, per assolvere al compito da me indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. Che cos’è un compromesso? Gli onorevoli colleghi che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene, scartiamola pure. In realtà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori (...) meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perchè si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo (...)”. La democrazia è dunque per Togliatti una condizione “sospesa” che trova una sua forma solo nel quadro dello scontro di classe che vede da un lato i partiti della conservazione, i gruppi “avidi ed egoistici della plutocrazia”, il “grande capitale monopolistico” e dall’altro gli obiettivi avanzati della Costituzione. Secondo Togliatti, i partiti “ammessi” alla vita democratica dovranno avere “una base nel popolo e un programma democratico nazionale” e mantenere “la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo”. Questi sono i paletti della democrazia secondo Togliatti, l’antifascismo e la Costituzione. Siamo dunque di fronte a una vera e propria via italiana alla “democrazia” e Togliatti costruisce un assetto strutturale entro il quale il nostro sistema politico, negli anni a venire e con alterne vicende, prenderà forma e andrà a definirsi per progressiva moltiplicazione, intreccio e stratificazione degli sviluppi proprio di quel principio costitutivo che vuole la forma democratica indissolubilmente legata alla formula costituzionale. Da qui, pure, discendono altri due caratteri “forti” del nostro particolare modello democratico: la difficoltà a definire l’unità nazionale superando i vincoli ideologici, tuttora operanti, dell’antifascismo e dell’anticomunismo (ed è una difficoltà che dispiega i suoi effetti perversi sulle nostre ultime vicende politiche) e, su un altro piano ma non completamente slegato dal primo, l’idea “totalizzante” del partito. Si può affermare che il partito togliattiano è il modello prevalente se non nazionale del partito politico (al di là dei “tecnicismi” o forma- lismi di organizzazione delle correnti interne alle forze politiche), per la sua visione organicistica del rapporto tra politica e società, ruolo della politica e delle istituzioni e finanche del rapporto tra sfera pubblica e privata. Ma su questi aspetti, all’interno della mia riflessione, sto procedendo ad approfondire la ricerca sulla cosiddetta “specificità” del nostro modello di democrazia per comprendere le ragioni non contingenti per cui tale “specificità” piuttosto che stemperarsi rispetto a un modello “europeo” di democrazia tende, piuttosto, ad allargarsi. E veniamo all’altro snodo del tuo libro: il PSI e il valore fondante dell’unità del movimento operaio inteso come scenario di fondo che ha, con alterne vicende, dominato la linea dei due partiti di massa della Sinistra italiana sino quasi alla fine degli anni ‘70. Su questo punto va detto con chiarezza che il PSI non solo è dentro la logica unitaria ma ne è condizionato. Anche l’autonomismo di Nenni ne è subalterno. Infatti l’operazione del PSU è finalizzata ad accrescere il potere contrattuale dei socialisti (unificati) nei confronti della DC ma non del PCI. L’autonomismo di Nenni non fuoriesce in nessun caso dall’unità del movimento dei lavoratori, che resta il vincolo ideologico del socialismo italiano, fino a Craxi. In un mio recente intervento (Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio 2012) ho distinto le due versioni dell’autonomismo socialista, l’autonomismo funzionale e l’autonomismo conflittuale, segnato per l’appunto dal passaggio del Midas. Perché il Midas è il punto di passaggio sia della questione socialista (che non si riproporrà più sotto il vincolo unitario) sia della eredità e della tradizione togliattiana, che prenderà con Berlinguer tutt’altra direzione, come tu spieghi molto bene. E’ Craxi il primo a rompere il “blocco ideologico” costituito dall’intreccio unità antifascista- Costituzione-democrazia progressiva, una rottura che voleva essere condizione essenziale per la liberazione e lo scongelamento della democrazia bloccata e la modernizzazione del sistema politico italiano. Finché la esperienza democratica si è riconosciuta esclusivamente nel conflitto di classe per la definitiva sconfitta del blocco conservatore, rispetto al quale non era pensabile alcuna alternanza, in quanto il movimento dei lavoratori non può riconoscere a questo blocco alcuna legittimità democratica a governare, finché la democrazia si è mantenuta in questo circuito chiuso non è stata possibile alcuna esperienza di socialismo autonoma da quel blocco ideologico. Craxi è il primo, dunque, a separare di fatto il socialismo italiano dalla via italiana al socialismo e “costringere” Berlinguer a prendere atto, agli inizi degli anni ‘80 e in aperta opposizione al governo Craxi, dei destini diversi della Sinistra in Italia e a ripiegare dal compromesso storico alla “diversità” del PCI. Tu sei convinto che la svolta di Berlinguer (una svolta “azionista” la chiami) trova una giustificazione nella radicalizzazione dell’autonomismo di Craxi, e vedi giusto. Dove non convengo con te è su un giudizio indifferenziato e negativo delle due svolte, di Craxi e di Berlinguer, anche se si sono tenute assieme e assieme sono cadute e soprattutto è difficile da sostenere che una ripresa (creativa) della “vita italiana” di Togliatti (come ebbe a sostenere Napolitano nel 1981 in polemica con Berlinguer) avrebbe consentito da sola la ripresa del rapporto unitario a sinistra e dato l’avvio alla normalizzazione del sistema politico nazionale. Così come è da condividere pienamente l’idea, con la quale chiudi il libro, secondo cui il cortocircuito tra diversità-questione moralegiustizialismo non soltanto è completamente estraneo alla tradizione del togliattismo e del comunismo italiano, anzi ne capovolge la logica “laica” (la laicità della politica è propria della visione di Togliatti) ma ha compromesso (e speriamo non definitivamente distrutto) l’identità della Sinistra in Italia. Resta il dubbio che questa miscela di nuovismo e giustizialismo abbia rappresentato il propellente per le involuzioni e le miserie della Seconda repubblica. Hai scritto un libro importante e hai approfondito la ricerca su una fase storica e su un personaggio “strategico” per l’insediamento nell’occidente capitalistico di una esperienza politica “diversa”, forse alternativa alla vicenda del leninismo ma in ogni caso organica a questa. Forse l’operazione togliattiana di occidentalizzazione del leninismo per sottrarla alla sua versione “asiatica” (proseguita da Berlinguer e si veda a proposito la sua intervista a Scalfari del 2 agosto del 1978) ha conosciuto così tanti oppositori interni a ragione della sua temerarietà e della impossibilità, teorica e pratica, di ricercare “terze vie” se non all’interno delle storie (al plurale) della democrazia in Occidente, che sono state e sono storie riuscite di democrazia solo nel conflitto tra socialismo democratico e liberalismo. Può esserci un’obiezione da parte tua, rivolta alla mia lettura di Togliatti che pretende di interpretarlo attraverso le lenti di Popper! Può essere che tu abbia ragione, in fondo Popper (per fare un nome rappresentativo di un’area politica e culturale) è entrato nelle nostre biblioteche solo alla metà degli anni ‘80 (e che fatica!). La risposta sta nella chiave interpretativa su cui ruota il tuo lavoro e che deve indurci ad ulteriori approfondimenti, quando affermi che solo con l’inserimento del togliattismo dentro le linee di sviluppo del socialismo europeo (non semplicemente contrapponendolo alla socialdemocrazia) è possibile valorizzare l’elaborazione e l’esperienza politica di Togliatti. In fondo questo è stato il tentativo di risposta, dei miglioristi e più in generale di tutti i riformisti, alla crisi dell’89, utilizzando le risorse del socialismo europeo. Quel tentativo fallì. s Emanuele Macaluso, Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo, Feltrinelli 2013 ■ UN COMMENTO SUL NEO SEGRETARIO PD NON SONO I TRENT’ANNI CHE FANNO IL POTERE Rino Formica “Si tratta di un’interruzione spettacolare del tran tran politico, oppure è un ciclo storico? Questo è ciò che si deve valutare: dobbiamo ancora capire chi sono, come si sono formati e ancor più chi rappresentano”. Rino Formica, classe 1927, intellettuale non organico nella segreteria di Bettino Craxi, ministro della Prima Repubblica, non ne fa una questione generazionale, non ha l’età per avere in antipatia i giovani. Semmai, ha qualche appunto da muovere alla generazione di mezzo, quella oggi rottamanda. Ma questi renziani, questi trentenni: non accetta che si confonda il dato biografico con quello politico. Non le sembra già chiaro, non sono semplicemente ciò che dicono di sé, la nuova generazione che trionfa per la sconfitta di un’intera classe dirigente? “Quando il soviet dei soldati, il soviet dei contadini e il soviet degli operai presero il potere si sapeva chi c’era dietro: l’esercito, gli operai, i contadini. Si sapeva il perché e che cosa sarebbe accaduto. Nel ’43-’45 ci fu un cambio generazionale, ma dietro c’era la guerra persa, la classe dirigente fascista da cambiare, gli Alleati. Era chiaro chi rappresentava chi, con quali forze. Oggi la rottura di un ciclo è avvenuta senza traumi, come sbocco necessario per fare qualcosa di diverso o per offrire un passatempo al paese stremato”. Non era un trentenne nemmeno quando al Midas, nel 1976, si presero il Psi: Craxi 42 anni, lui già 49. Quella che chiamarono la congiura dei quarantenni non fu solo un “fatto generazionale, fu il passaggio all’autonomismo autosufficiente del Psi”. Verifica dei poteri, come per i soviet, come per la generazione costituente. “Sono questioni di storia, cioè profonde; non di cronaca, cioè di gossip e persone. Bisognerebbe non leggere i giornali”. Preferisce capire se la ribellione sociale di questi giorni sia guidata, o anonima. Così come capire il passaggio di poteri nel Pdl e nel Pd, che non è avvenuto per confronto demo- cratico, ma attraverso una scissione e una rottamazione presentata come generazionale. Eppure, il dato di fatto è che è avvenuto: un passaggio, trentenni che prendono il comando dopo il fallimento dei sessantenni. “Ma non vedo la mano, dietro a Renzi. Nel novembre del 2012, D’Alema mandò avanti il suo ideologo Beppe Vacca che in un’intervista al Fatto disse: ‘Se Renzi si prende il partito, in due mesi lo mandiamo a casa’. Ora che cosa è accaduto? Renzi ha preso il Pd e D’Alema è stato mandato a casa in due giorni. Com’è stato possibile, se non è chiaro di quale forza sociale, reale, Renzi è il rappresentante?”. Nelle società contadine, dice Formica evocando per un attimo il vernacolo pugliese “si diceva che ‘da un guasto viene l’aggiusto’. Ma quelle erano società ordinate, lente. In questa società veloce, globale, basterà il guasto per fare l’aggiusto? Non so. Non è solo questione di biografia, di età. E’ chi si muove e cosa rappresenta. La domanda è politica”. Assodato ciò, ci sono da sistemare anche i vecchi. Quale ruolo possono avere? “Il problema non è cosa faranno, ma se saranno capaci di fare autocritica sul loro ventennio. Sono stati vent’anni di orgia distruttiva: dei partiti e dei sindacati, due corpi intermedi cui la Costituzione aveva affidato un ruolo decisivo nella rappresentanza democratica. Sono stati distrutti, non è un caso che la parola d’ordine oggi, al culmine di quei vent’anni, sia ‘rottamare’. Ma oggi è anche la vittoria della ragione: la vittoria del cambiamento che deve accadere. Però la ragione senza la tradizione, il passato, sarebbe solo spettacolo. Invece ci vuole anche questa emozione, la tradizione va usata per fecondare la ragione. Si può rottamare il personaggio, non quanto ha prodotto. Per questo ci vuole una verifica. Finora, ciò che crediamo di vedere limpidamente come un chiaro passaggio generazionale è invece un confuso passaggio politico”. s