Musica come racconto Appunti sul linguaggio musicale e qualche consiglio per la vita Una premessa La Statua: «Tu mi invitasti a cena ed io sono venuto». Don Giovanni : «Non l’avrei giammai creduto ma farò quel che potrò». C’è un punto, in un’opera che è fra le più grandi che siano mai state scritte, il Don Giovanni di Mozart, in cui Don Giovanni, libertino da leggenda (2800 fidanzate!), grande seduttore e bugiardo, si trova faccia a faccia con la statua funebre di un uomo da lui stesso ucciso nel primo atto dell’opera. Una statua che parla e che si muove e che, lasciato il cimitero in cui si trovava, si presenta nel salotto buono di Don Giovanni per dirgli che vorrebbe mangiare con lui (anche se poi dirà di non esser lì per mangiare del cibo mortale, ma del cibo celeste. Che è come dire: l’anima). Quella statua non è dunque una statua qualsiasi. Anzi a dirla tutta non è una statua. E’ la morte in persona venuta a presentare a Don Giovanni il conto delle sue innumerevoli malefatte. L’inizio del dialogo fra Don Giovanni e la morte, la sua morte personale, è perfino surreale. «Tu mi invitasti a cena…», dice la statua, e lui «Non l’avrei giammai creduto…», come dire: “che sorpresa!”. Chiunque legga questo breve dialogo non pensa affatto che Don Giovanni abbia paura. Al limite può pensare che Don Giovanni sia sorpreso. Anzi: semplicemente sorpreso, perché quello che lui dice somiglia a ciò che potremmo dire noi a un vecchio amico incontrato per caso alla cassa del supermarket, ma non certo alla morte nel salotto di casa nostra. Eppure sappiate che gli ascoltatori dell’opera sono certi che Don Giovanni abbia paura. E tanta anche. Com’è possibile che ciò accada visto che nulla, sia nel testo sia nelle prescrizioni sceniche, attesta che Don Giovanni sia effettivamente spaventato? Chi glielo ha detto agli ascoltatori che Don Giovanni ha paura? La risposta è semplice ma per nulla banale: glielo ha detto Mozart con la sua musica, non certo il poeta. In un certo senso, in questo punto dell’opera è come se ci fosse una scollatura fra la poesia e la musica. Per l’autore del libretto dell’opera, Lorenzo Da Ponte, Don Giovanni non ha paura. Non ce l’ha mai. Al massimo è sorpreso e per questo se la cava dicendo «Non l’avrei giammai creduto». Mozart, invece, che della morte aveva una paura sacrosanta, pensa che anche Don Giovanni debba averne, perché questa è la più ovvia e la più umana delle paure. Ed è di questa paura che ci parla attraverso la sua musica. Ora potete rileggere il dialogo dell’inizio e poi sentire come Mozart l’ha messo in musica. Esempio 1 Fra un testo che dice una cosa e una musica che ne dice un’altra, chi vince? Se mi conoscete un po’ (solo un po’…) penso non avrete dubbi nel rispondere come risponderei io. 2 Tanti modi di comunicare Comunicare è una delle più affascinanti missioni del genere umano, e non è certo una delle più agevoli. Sui meccanismi della comunicazione sono stati scritti centinaia di volumi. Noi cercheremo di semplificare il discorso e di occuparci della forma di comunicazione che ci interessa di più: quella messa in atto quando andiamo a teatro a vedere una commedia in prosa, un’opera lirica o un balletto. Possiamo immaginare il processo di comunicazione come un’azione che dall’autore arriva al pubblico attraverso la voce dei suoi personaggi: l’autore, cioè, non interviene in prima persona ma il suo pensiero si manifesta attraverso i dialoghi fra gli attori sul palcoscenico. Ad esempio: in un bel lavoro teatrale di Karel apek (quello che ha inventato la parola robot) la protagonista vive, grazie a un magico elisir, per oltre trecento anni. Alla fine del lavoro, pur avendo la possibilità di viverne altri trecento, decide di morire perché dopo tanti anni di vita, pensa sia troppo doloroso sopravvivere a se stessi e rivivere tante e tante volte le medesime esperienze della vita. Anzi, dopo trecento anni la vita stessa non ha più alcun significato, per lei tutto è soltanto noia1. 1 Si tratta del Caso Makropulos del 1922. Anche George Bernard Shaw ha trattato lo stesso tema, per giunta negli stessi anni di apek, arrivando però a una conclusione diametralmente opposta. Per Shaw la possibilità di vivere molti anni è un’occasione per la razza umana: se gli uomini potessero vivere centinaia di anni – dice Shaw nel suo lavoro – potrebbero cogliere tutte le occasioni e sommare tutte le esperienze per diventare senz’altro più saggi2. Chi ha ragione? E’ più giusta la visione pessimistica di apek o quella ottimistica di Shaw? Non lo sapremo probabilmente mai. Quello che però qui conta è che né l’uno né l’altro si sono espressi direttamente sull’argomento ma hanno affidato le rispettive posizioni ai personaggi dei loro lavori teatrali. Col risultato che noi siamo in ogni caso in grado di dire cosa apek e Shaw pensassero della vita e della morte. Ora, se volessimo rendere graficamente il meccanismo comunicativo messo in atto da apek e Shaw nei lavori appena esaminati, potremmo usare uno schema come quello seguente, fermo restando che questo stesso schema potrebbe essere esteso a tutto il teatro di prosa: 3 Cosa succede invece, ad esempio, nel teatro d’opera? Succede che assistiamo al raddoppio dei canali comunicativi, poiché oltre al testo cantato, cioè al libretto, si aggiunge la musica. A uno sguardo superficiale l’aggiunta della musica può apparire un fatto del tutto scontato, perché – direbbe il mio vecchio insegnante di solfeggio – da che mondo e mondo, la musica serve ad accompagnare il canto! Il fatto è che solo a volte la musica accompagna il canto. Molto spesso la musica più che accompagnare svolge una funzione di commento come se fosse la voce del narratore; un narratore non sempre imparziale ma cui anzi, piace intervenire, commentando le diverse situazioni, parteggiando 2 Il lavoro s’intitola Torniamo a Matusalemme del 1920. per un personaggio piuttosto che per un altro, ma anche occultando o svelando ad arte alcuni particolari della storia. Non solo. Spesso fra il testo e la musica vengono a determinarsi delle asincronie temporali (non vi preoccupate, non è così difficile come sembra). In altre parole capita a volte che mentre l’azione procede spedita a livello verbale, la musica resusciti temi uditi in precedenza, suscitando in chi li ascolta il meccanismo del ricordo. Capita perfino, a volte, che la musica anticipi situazioni future, anche se questa è un’operazione piuttosto complessa perché presuppone nell’ascoltatore la capacità d’interpretare certi segnali in funzione di ciò che sarà. Alcuni compositori sono riusciti benissimo in questa impresa. Uno di loro è forse il più straordinario fenomeno musicale di tutti i tempi. La sua musica avrebbe poteri sorprendenti: ci rende più intelligenti, più bravi in matematica, ci distende dall’ansia… perfino le viti producono uve migliori se maturano “al sole” della sua musica. A volte lui si firmava così: Trazom. Ma se lo leggete al contrario capirete meglio di chi sto parlando. La musica, insomma, è a tutti gli effetti un linguaggio, per giunta di straordinaria potenza. Tanto che, come si diceva a proposito del Don Giovanni mozartiano (ancora lui!), in tutti quei casi in cui la musica dice una cosa e il testo ne dice un’altra, la musica vince sempre. E’ come nella vita: il linguaggio non verbale è più forte del linguaggio verbale. Provate a dire a una ragazza “Ti amo” e mentre glielo dite provate a voltarle le spalle e ad andarvene: cos’è più forte, ossia quale messaggio passa con maggior forza, ciò che avete detto o l’azione di andarvene? (Consiglio n.1: lasciate l’esperimento allo stadio di pura teoria. Non mettetelo in pratica, soprattutto con la vostra ragazza: non la passereste liscia). Esempi, esempi e ancora esempi Per chiarire tutto quello che abbiamo detto fin qui, ci serviremo di alcuni esempi. Cominciamo da una cosa semplice, come quella di accompagnare un’azione con della musica. L’introduzione di ajkovskij per il Lago dei cigni (1876) è da questo punto di vista assolutamente esemplare. Come ricorderete, Vladimir Bourmeister ha coreografato questa breve introduzione raccontando l’antefatto del balletto, ossia il momento in cui Odette è trasformata in cigno dal perfido Rothbart. Potremmo discutere all’infinito circa l’opportunità di rappresentare un momento musicale che molto probabilmente era stato creato da ajkovskij per essere eseguito a sipario chiuso, come avvio strumentale della vicenda; ma non c’è alcun dubbio che la coreografia di Bourmeister si sposi perfettamente con la musica del grande compositore russo tanto da stabilire con essa un meraviglioso rapporto d’identità. 4 Dunque, cosa succede nell’antefatto? Una bella e giovane ragazza fa il suo ingresso in scena: Esempio 2 Raccoglie dei fiori mentre la sua mente è attraversata da pensieri malinconici: è forse innamorata? 5 Esempio 3 Improvvisamente appare Rothbart che con un potente maleficio la trasforma in cigno. La ragazza si ribella, lotta con tutte le sue forze ma alla fine il suo destino è segnato Esempio 4 Ora, che ajkovskij componendo l’Introduzione avesse in mente questo o un altro antefatto, poco importa. La musica accompagna momento per momento il dipanarsi dell’azione. E’ questo il caso in cui l’azione che si sta svolgendo sul palcoscenico e la musica, procedono con una sincronia assolutamente perfetta. *** Un esempio un poco differente è quello che ci offre Puccini nel primo quadro della sua Bohème. Parigi, soffitta, artisti. Bastano queste tre parole per creare un’atmosfera carica di poesia. Beh, aggiungiamoci anche il fatto che siamo alla vigilia di Natale. Il poeta Rodolfo è seduto alla scrivania. Prima di raggiungere gli amici al quartiere latino deve terminare un articolo per la rivista Il Castoro. Dovrebbe essere cosa da poco per uno come lui che conosce il mestiere, e invece… E invece non è in vena e lo dichiara in maniera semplice ed efficace, modulando la voce lungo un intervallo di quinta, due note soltanto, una cosa banale, ma chiara, netta, perfetta per il teatro: «Non sono in vena». Esempio 5 Anche qui l’azione e la musica vanno di pari passo. Bussano alla sua porta. Ecco il dialogo: – «Chi è là?» – «Scusi...» – «Una donna!» Esempio 6 6 Già, una donna. La vicina di casa di Mimì, la dolce sartina della porta accanto. L’orchestra suona un accordo di re maggiore. Un accordo normale, perfetto per una situazione normale come quella descritta. Tutto però cambia nel momento in cui lei, la sartina, varca la soglia. Qui le parole non ci interessano più. Cancelliamole pure dalla nostra mente. Perché? Perché qui a parlare è la musica, e la musica ci dice che vedendola, il nostro poeta capisce che quella non è una donna qualunque, ma è la donna della sua vita; è il destino venuto (drammaticamente) a bussare alla sua porta. Per l’ingresso della sartina, Puccini scrive una musica appassionata come non mai, una musica che parla d’amore e desiderio, dalla prima all’ultima nota. Esempio 7 (Consiglio n. 2. Non so se vi è mai capitato di aprire la porta alla vostra vicina. Ma se vi dovesse capitare e dentro di voi sentite una musica come quella appena descritta, allora potete valutare seriamente l’ipotesi di fidanzarvi. Quella musica è un segnale inequivocabile). Sempre nella Bohème, ma più avanti, nel terzo quadro, c’è un punto simile a quello in cui Don Giovanni, incontrando la statua, nasconde la sua paura con parole banali mentre la musica di Mozart ci dice che lui ha in verità una fifa del diavolo. Nella Bohème Rodolfo non ha paura ma mente, accampa pretesti per allontanare Mimì. Più che allontanarla da sé Rodolfo vuole allontanarla dalla sua soffitta, da un luogo freddo, senza cibo, senza denaro, senza comodità. Un luogo che, lei malata di tisi, segnerebbe il suo rapido declino verso una morte certa. Rodolfo, però, non se la sente di affrontare in questi termini la realtà, e allora accampa pretesti, dice all’amico Marcello di voler lasciare Mimì perché lei è frivola, superficiale, forse perfino una poco di buono. Ecco le parole che usa: «Mimì è una civetta, che frascheggia con tutti. Un moscardino di viscontino le fa l’occhio di triglia… ella sgonnella e scopre la caviglia con far promettente e lusinghier…». Ma al di là di quel che dicono le parole, la musica dice esattamente il contrario. La musica dice quella verità che le parole non dicono, ossia che lui l’ama ma che in cuor suo sa che quell’amore, vissuto nella più totale po- 7 vertà, condannerebbe la tisica Mimì a morte certa (e infatti, poco più avanti, sullo stesso tema ammetterà d’aver mentito: «Invan, invan nascondo la mia vera tortura. Amo Mimì sovra ogni cosa al mondo, io l’amo»). Esempio 8 Devo ripetere la domanda? Fra le parole che dicono una cosa e la musica che dice tutto il contrario delle parole, chi vince? Nella mia vita ho fatto morire Mimì almeno cinquanta volte. E ancora mi emoziono. E mi ha emozionato vedere le lacrime di qualcuno di voi in classe, quando l’ho fatta morire davanti ai vostri giovani occhi. Di questa scena sapete già tutto, così ne approfitto per ripercorrerla molto velocemente. Sfiancata dalla malattia, dopo che fra lei e Rodolfo tutto sembrava finito, Mimì torna nella vecchia soffitta. Perché torna? Torna per morire fra le braccia del suo unico grande amore. C’è grande agitazione fra gli amici di Rodolfo nel vederla tanto pallida e smagrita. L’adagiano su un lettino. Lei chiude gli occhi. Allora gli amici, in punta di piedi, escono per lasciarli soli. Forse hanno intuito che siamo alla fine. Con un filo di voce Mimì, che ha riaperto gli occhi, pronunzia le fatidiche parole: «Sono andati? Fingevo di dormire, perché sola con te volli restare. Ho tante cose che ti voglio dire o una sola ma grande come il mare, e come il mare profonda ed infinita: sei il mio amore e tutta la mia vita». Confessione estrema tanto nel testo quanto nella musica. Musica e parole qui vanno insieme. Amore e morte, pure. Poi due parole di Rodolfo che la chiama «mia bella Mimì». E lei di rimando: «Son bella ancora?» E lui: «Bella come l’aurora». E lei, saggia: «Hai sbagliato il raffronto. Volevi dir: bella come un tramonto». Ossia, bella come qualcosa che muore e non come qualcosa che nasce. 8 Esempio 9 Poi tutto procede sull’onda dei ricordi. «Te lo rammenti quando sono entrata la prima volta, là?». E quindi via con i pensieri che scivolano indietro, all’origine della loro storia d’amore, al lume che si era spento, alla chiave perduta, alla sua ricerca affannosa e a Rodolfo che, per aiutare il destino, non appena l’aveva trovata, quella chiave se l’era messa in tasca. C’è pochissima musica nuova qui. E’ tutta una ripresa di temi e motivi del primo quadro dell’opera; temi tratti dall’istante del loro primo incontro. Schematicamente qui notiamo come l’azione e la musica percorrano strade opposte. L’azione procede, la musica, invece, retrocede. Così: Poi lei chiude gli occhi, come rassicurata: «Qui.. amor... sempre con te! Le mani... al caldo... e... dormire». «Dormire». E’ una morte silenziosa quella di Mimì. Una morte alla Shakespeare. Gli amici capiscono. Mimì non dorme, è morta. Gli amici… Rodolfo no. Lui si affanna a impedire che un pallido raggio di sole possa turbare il sonno di lei. 9 Poi la catastrofe. Guardando gli amici, Rodolfo dice (dice, non canta): «Che vuol dire, quell’andare e venire, quel guardarmi così?». Abbracciandolo forte Marcello esclama: «Coraggio!». Da qui in poi parla la musica. Rodolfo si getta sul corpo senza vita dell’amata Mimì, e la chiama con tutto il fiato che ha in gola: «Mimì! Mimì!». L’orchestra riprende il tema del «Sono andati? Fingevo di dormire» ed è straziante riferire le parole di Mimì, alle quali quel tema allude, ai pensieri dello straziato Rodolfo: “non fingevi di dormire, perché sola con me volevi restare? Ho tante cose che ti voglio dire o una sola ma grande come il mare”. Fuori, però, dall’esterno, sentiamo solo il suo grido: «Mimì!». 10 Esempio 10 Lacrime in scena. Lacrime fra il pubblico. Sipario. Applausi. (consiglio finale) Se vi sentite tristi state lontani dal finale della Bohème: non vi aiuterebbe a ritrovare il buon umore. Ricordatevi che sul manoscritto Puccini disegnò un teschio, perché lui stesso si era stupefatto della bellezza e della forza di quella morte. Lui l’aveva creata, la fragile Mimì; lui e la sua musica l’avevano distrutta.