PROGRAMA ANALITICĂ Disciplina: CURS PRACTIC – ITALIANĂ (ExerciŃii gramaticale) Anul II ID, Semestrul I Titularul disciplinei: Conf. univ. dr. ELENA PÎRVU Obiectivul disciplinei: - însuşirea de către studenŃi a deprinderilor de a se exprima corect în limba italiană. ConŃinutul cursului / număr de ore pentru fiecare temă: ConŃinutul cursului practice 1. I pronomi clitici. Pronomi clitici rappresentanti frasi. Pronomi clitici rappresentanti sintagmi aggettivali. Pronomi clitici e costrutti causativi. Pronomi clitici e costrutti percettivi. 2. Il clitico ne. I diversi usi del clitico ne (ne = di + SN, ne = da + SN, ne = pronome partitivo). La posizione di ne all’interno della frase. Ne e i suoi antecedenti. 3. Le perifrasi gerundivali. Perifrasi progressiva. Perifrasi continua. Andare vs. venire come modificatori. 4. Perifrasi fasali. Perifrasi incoative. Perifrasi continuative. Perifrasi terminative. Perifrasi prospettiva e risolutiva. 5. Gli avverbi di frase. Valori logico-sematici e caratteristiche distribuzionali. Avverbi di frase e negazione. Avverbi di frase e interrogazione. Avverbi di frase e strutture coordinate. 6. Fenomenologia della dislocazione a sinistra. Dislocazione a sinistra con ripresa pronominale obbligatoria. Dislocazione a sinistra con ripresa facoltativa o senza ripresa. Dislocazione a sinistra senza ripresa pronominale. 7. Il congiuntivo nella frase argomentale. Dopo verbi. Dopo aggettivi. Dopo nomi. Nella frase completiva senza congiunzione. Nella frase argomentale dislocata a sinistra. TOTAL Nr. ore/temă 4 4 4 4 4 4 4 28 Bibliografia de elaborare a cursului Silvia Luraghi, Anna M. Thornton, Miriam Voghera, Esercizi di linguistica, Roma, Carocci Editore, 2001. Giampaolo Salvi - Laura Vanelli, Grammatica essenziale di riferimento della lingua italiana, Istituto Geografico De Agostini, Le Monnier, Firenze, 1992. Marcello Silvestrini, Claudio Bura, Elisabetta Chiacchella, Valentina Giunti Armani, Renzo Pavese, L’Italiano e l’Italia. Lingua e Civiltà Italiana per Stranieri. Esercizi e prove per la certificazione. Livello medio e superiore, Perugia, Edizioni Guerra, 1995. SUPORT DE CURS Disciplina: CURS PRACTIC – ITALIANĂ (ExerciŃii gramaticale) Anul II ID, Semestrul I Titularul disciplinei: Conf. univ. dr. ELENA PÎRVU INDICE 1. I pronomi clitici. Pronomi clitici rappresentanti frasi. Pronomi clitici rappresentanti sintagmi aggettivali. Pronomi clitici e costrutti causativi. Pronomi clitici e costrutti percettivi. (4 ore) 2. Il clitico ne. I diversi usi del clitico ne (ne = di + SN, ne = da + SN, ne = pronome partitivo). La posizione di ne all’interno della frase. Ne e i suoi antecedenti. (4 ore) 3. Le perifrasi gerundivali. Perifrasi progressiva. Perifrasi continua. Andare vs. venire come modificatori. (4 ore) 4. Perifrasi fasali. Perifrasi incoative. Perifrasi continuative. Perifrasi terminative. Perifrasi prospettiva e risolutiva. (4 ore) 5. Gli avverbi di frase. Valori logico-sematici e caratteristiche distribuzionali. Avverbi di frase e negazione. Avverbi di frase e interrogazione. Avverbi di frase e strutture coordinate. (4 ore) 6. Fenomenologia della dislocazione a sinistra. Dislocazione a sinistra con ripresa pronominale obbligatoria. Dislocazione a sinistra con ripresa facoltativa o senza ripresa. Dislocazione a sinistra senza ripresa pronominale. (4 ore) 7. Il congiuntivo nella frase argomentale. Dopo verbi. Dopo aggettivi. Dopo nomi. Nella frase completiva senza congiunzione. Nella frase argomentale dislocata a sinistra. (4 ore) 1. I pronomi clitici. Pronomi clitici rappresentanti frasi. Pronomi clitici rappresentanti sintagmi aggettivali. Pronomi clitici e costrutti causativi. Pronomi clitici e costrutti percettivi. (4 ore) 1. Cancella il pronome che ritieni errato: Ecco Maria! Chi le/gli apre la porta? È stato egli/lui a copiare da me, non io/me da egli/lui. Mi ha detto Lisa che non le/gli hai ancora perdonato quella bugia. È un’atleta famosissima e tutti le/gli chiedono un autografo. Mario ha detto a Luisa che le/gli regalerà una nuova bicicletta. Sono arrivati Sergio e Carlo: chiedi gli/loro se hanno visto Silvia. Se vedrò Luca, le/gli chiederò notizie di suo fratello. Li/le ho conosciuti l’anno scorso. Quando vedrai i tuoi amici, spiega gli/loro che cosa è accaduto. È il compleanno di Paolo? Regalandole/gli un videogioco lo/gli farai felice. 2. Completa le seguenti frasi inserendo i pronomi personali complemento opportuni: Loro sono stati gentili con me; voglio invitar___ a cena. Ho chiesto a Giulia di scriver___, ma non ___ ho dato l’indirizzo. Quando vedrai i tuoi genitori, saluta___ tanto da parte mia. ___ ringrazio, la vostra cortesia ___ ha tolto da un grosso impiccio. ___ ho invitate a casa e ho offerto ___ un tè e dei biscotti. ___ avevo avvertito: non dovevi ingannar___ ancora, ora non ___ credo più. Io penso che Mario sia onesto e ___ concedo tutta la mia fiducia. Gli dirò la verità, ma non so se vorrà ascoltar___. Volevo chieder____ se eri disposto a dar____ una mano. Filippo è passato col rosso e il vigile ___ ha dato una multa. Quando ___ rivolgo la parola, Francesca arrossisce immediatamente. Ma ___ smetta! Non mi faccia perdere tempo! E pensi ai fatti suoi! Luisa ___ ha scritto diverse volte, ma io non ___ ho ancora scritto. Non ___ importa molto di ciò che dicono di ___: sono superiore ai pettegolezzi. È una ragazza pettegola, se ___ dici una cosa, dopo poco ___ sanno tutti. I tuoi amici ___ hanno chiesto una mano, ma io ho detto ___ che non posso aiutar___. 3. Completa le seguenti frasi inserendo i pronomi combinati opportuni: Perché, quando c’è un problema, nessuno ______ parla? Mi servono dieci euro: ______ presti? Maria ha bisogno del mio aiuto, ma non vuole chieder______. Se hai un po’ di pazienza, ______ riparo subito. Ho quasi finito di leggere il giornale. Se aspetti un momento, ______ do, Mario. Se siete rimasti senza pane, ______ diamo un po’ noi. Ho letto i libri e ______ ridarò domani. Claudio ha dimenticato qui alcuni libri: ______ manderò per posta. Sapevo che Luigi viene oggi, ma non ho voluto dir______. Mi avete liberato da un grosso problema e ______ sono grato. Mi vuole molto bene, ma non si decide a dir______. Ti ho prestato la mia cassetta nuova, ora ti prego di restituir______. A Marco ______ ho già detto, e domani ______ ricorderò. Gianni mi ha chiesto cento euro, ma io ______ ho potuto dare solo cinquanta. Ho trovato quell’articolo e ______ ho fatto una fotocopia. Sergio mi ha chiesto la macchina, ma oggi non ______ posso dare, perché serve a me. 4. Sostituisci ciò con ci, vi, ne, lo: A ciò penseremo più tardi. Se sai ciò, devi riferirmi ciò. Con quali soldi hai pagato ciò? Io non penso mai a ciò. Abbiamo parlato di ciò per un’ora. Mi sono dimenticato di ciò. Io non so ciò e se anche sapessi ciò non ti direi ciò. Informerò subito di ciò il direttore. Mi dispiace, ma dovevi stare più attento a ciò. Ho creduto a ciò subito. Gliene ho parlato, ma ha detto che non sa niente di ciò. Non so perché ti dico ciò, ma devo parlarne con qualcuno. 2. Il clitico ne. I diversi usi del clitico ne (ne = di + SN, ne = da + SN, ne = pronome partitivo). La posizione di ne all’interno della frase. Ne e i suoi antecedenti. (4 ore) 1. Completa con le particelle ci o ne: Mi sembra una storia inverossimile. Tu ___ credi? È finita: non ___ voglio più pensare. Volevo assaggiare queste fragole e così ___ ho prese alcune. Non lasciarlo, poi te ___ pentirai! Devo assolutamente superare l’esame, ___ tengo molto. Ho quasi finito, non ___ metterò ancora molto. Per andare da Firenze a Bologna ___ vuole soltanto un’ora. ___ la fai da solo o hai bisogno di una mano? ___ vuole coraggio per poter affrontare le situazioni difficili. Questa città è troppo caotica, io non ___ potrei vivere. ___ vorrà del tempo per dimenticare questa brutta vicenda. – Ti sei accorto che ti prende in giro? / – No, non me ___ sono accorto. Per favore, accendi la luce perché non ___ vedo. – Luigi, mi hai comprato le sigarette? / – Me ___ sono dimenticato! Non mi piace questa festa, me ___ andrò al più presto. Finalmente siete ritornati sulla vostra decisione, ___ sono contento. – Sei stanco di camminare? / – Sì, non ___ posso più. – Ti sei offeso per così poco? / – Sì, me ___ sono avuto a male. Era una persona così affascinante che me ___ sono innamorato subito. 2. Sottolinea ci (ce), vi (ve), ne quando sono pronomi e incorniciali quando sono avverbi di luogo: Ho già abbastanza guai, e non ne vorrei altri. Nella mia classe andiamo molto d’accordo, e io mi ci trovo bene. In futuro non vi darò più ascolto. Dovrei andarci domani, ma non ne ho nessuna intenzione. Questo argomento non c’entra per niente. Ha un brutto carattere, ne so qualcosa per esperienza diretta. In frigorifero c’è una torta: ne vuoi una fetta? Questo giardino è incantevole: vi farò ritorno presto. Qui ci vuole qualcuno che se ne intenda. Sembra che sia un film interessante: Antonio ce ne sta riassumendo la trama. Penso che ci informeranno delle loro intenzioni. Appena mi libero da questi impegni, vi vengo a trovare. È una scala molto stretta: il pianoforte di Vittoria non ci passa di sicuro. Che grotta buia! Non sarà tanto facile uscirne. Vi ripeto che sono già stato a Roma, anzi vi ho passato le vacanze dell’anno scorso. 3. Le perifrasi gerundivali. Perifrasi progressiva. Perifrasi continua. Andare vs. venire come modificatori. (4 ore) 1. Sottolinea le perifrasi gerundivali contenute nelle seguenti frasi; spiegane poi il valore semantico: Il treno stava partendo proprio in quel momento. Che cosa vai dicendo? Sono tutte bugie. La zuppa che sto preparando è un piatto tipico abruzzese. Chi va dicendo queste assurdità sul mio conto? Quella che sto ascoltando è una sinfonia di Beethoven. Lo stato del malato è venuto migliorando negli ultimi giorni. Mi rende felice sapere che state tornando a casa. Per chi stiamo raccogliendo questi fondi? Devo tornare a casa, perché è tardi e i miei genitori mi stanno aspettando. Un goccio d’acqua, per carità: sto morendo di sete. Veronica sta mandando un invito a Giulio, che di certo non se lo aspetta. La donna andava ripetendo frasi senza senso. Tutti i testi che verremo leggendo in classe, li riassumeremo per iscritto. Stiamo controllando che tutti siano saliti sull’autobus. Sergio non è potuto venire, perché sta preparando un’importante interrogazione. Paolo si venne presto accorgendo che lo avevano ingannato. I materiali che si vengono pubblicando daranno un quadro chiaro della situazione. 2. Riscrivi le frasi dell’esercizio precedente eliminando gli ausiliari stare, andare e venire, poi spiega se c’è differenza fra la prima e la seconda versione. 4. Perifrasi fasali. Perifrasi incoative. Perifrasi continuative. Perifrasi terminative. Perifrasi prospettiva e risolutiva. (4 ore) 1. Premetti all’infinito facente parte di perifrasi verbali la preposizione necessaria: Chiuse il libro e smise ____ studiare. Mario non rispose e seguitò ____ guardare la televisione. Ha ripreso ____ fumare da poco tempo. Stavo ____ telefonarti io, proprio in questo momento. Tentò ____ aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Lo guardammo un attimo e scoppiammo ____ ridere. Piangeva così accoratamente che non riuscivamo ____ farlo smettere. A quelle parole mi venne ____ piangere. Le infermiere sono riuscite ____ mettere il malato a letto. Solo per caso sono venuto ____ sapere della sua malattia. Io mi sforzo ____ stare attento, ma non ci riesco! Tanto insistette che smisi ____ studiare per uscire con lui. Non mi disturbi, per favore! Smetta ____ far rumore o se ne vada altrove! Cercherò ____ liberarmi nonostante sia occupatissimo. Da quando ha smesso ____ fumare, ha cominciato ____ mangiare un sacco di caramelle. 2. Come nell’esercizio precedente: Scusate se mi ripeto, ma ciò che sto ___ dire è importante. Nessuno è venuto ___ ritirare quel pacco. Non c’è niente da fare: qui ognuno continua ___ comportarsi come vuole! Giorgio ha provato ___ entrare dalla finestra. Penso che molti abbiano degli ideali ma che pochi riescano ___ concretizzarli. Ho cominciato ___ cucinare le lasagne appena in tempo. Maria viene ___ trovarci due volte all’anno. Non riuscivo ___ prendere sonno, perché avevo un forte mal di denti. Maria ha cominciato ___ riordinare questa stanza più di un’ora fa. Sarebbe bene che Gino andasse ___ salutare i nonni. Smettila ___ litigare con tuo fratello! Il tram sta ___ ripartire: salta su prima che chiuda! Ho tentato più volte ___ telefonarti, ma era sempre occupato. Teminerò ___ leggere questo libro fra qualche giorno. Quando hai iniziato ___ lavorare all’università? Ieri mi sono messo ___ studiare alle dieci di mattina. Ho cercato ___ studiare da solo il congiuntivo, ma non ci sono riuscito. 5. Gli avverbi di frase. Valori logico-sematici e caratteristiche distribuzionali. Avverbi di frase e negazione. Avverbi di frase e interrogazione. Avverbi di frase e strutture coordinate. (4 ore) 1. Individua gli avverbi e le locuzioni avverbiali di modo: Mi raccomando, va piano e guida prudentemente. Tastoni tastoni sono riuscito a trovare l’uscita. Raramente mi succede di andare a teatro. Il treno passò lentamente, poi si fermò definitivamente. Roberto dormiva bocconi sul divano. Tuo padre dirige magnificamente bene i suoi lavori. Mangerei volentieri una pizza. Non capisco come mai Luigi non arrivi: in genere è puntuale. Improvvisamente cominciò a piovere. Gli ho parlato a lungo, ma non sono riuscito a convincerlo. Ho lavorato troppo, bisogna che mi riposi un po’. Esprimiti chiaro e conciso, così eviterai fraintendimenti. Appena scesi dall’autobus, i ragazzi si sono messi a correre all’impazzata. Indubbiamente il tuo modo di parlare è stato offensivo. Appena apprese la notizia, scese le scale a precipizio per informare anche noi. 2. Sottolinea una volta gli avverbi di luogo, due volte le locuzioni avverbiali di luogo: Usciamo di qui: fa troppo caldo. Guarda lassù: alla finestra c’è Mario che ci saluta. Portami lontano, non voglio più vivere qui. È meglio andare a pescare altrove. Non stare fuori a gelare: vieni dentro al caldo. Come sarà quel ristorante laggiù? Quello che cerchiamo non si trova dovunque. Hai aperto il pacco? Che cosa c’era dentro? Qui c’è il sole ma altrove fa freddo e piove. In giro si dice che Mario abbia compiuto grandi imprese. Voi entrate, noi aspettiamo fuori. Cerca di rimanere costì dove sei e non muoverti. Ho cercato dappertutto, ma non ho trovato il libro che cercavo. La bufera sbatteva di qua e di là le chiome delle palme. Mario è già rimasto molto indietro: ci fermiamo ad aspettarlo? 3. Sottolinea una volta gli avverbi di tempo, due volte le locuzioni avverbiali di tempo: Presto o tardi, la verità salta sempre fuori. Di tanto in tanto controlla l’indicatore di pressione. Domani andrò di buon’ora a scuola. Meriti di essere licenziato sui due piedi. Se mai ti capitasse di passare da Roma, telefonami. Oggi sono felice; ieri, invece, ero molto triste. Non ti succede mai di arrabbiarti? Mai e poi mai accetterei una simile proposta. Perché mi avverti solamente ora e non me lo hai detto prima? Quando lo chiamai, stava ancora dormendo. Incontro spesso la mamma di Antonio al supermercato. Non credo che nevicherà anche domani. È quasi buio, ormai: dove ci accampiamo questa notte? Sempre più spesso Mario e Luisa si trovano di pomeriggio per studiare insieme. 4. Completa le seguenti frasi inserendo gli elementi di negazione opportuni: Viaggiare di notte? ______ per sogno! Non è ______ vero quello che dici. Sono così stanco che ______ riesco ______ a parlare. A me è piaciuto il film, a Luigi ______. ______ ti voglio ______ sentire. ______ ho ancora deciso dove trascorrere le vacanze. Non mi piace ______ quando è gentile con me. Mi sembra una cosa ______ bella. ______ rimandare a domani quello che puoi fare oggi. ______ ti perdonerò ______ quella bugia. Fatti un po’ di coraggio! ______ è successo ______. Maria ______ ha voluto dire ______. Dalla menzogna ______ può derivare _______ di buono. In macchina, Marco ______ vuole ______ stare dietro. Date le circostanze, ______ farò ______ per te. Giorgio ______ mi ha salutato, oppure ______ mi ha ______ vista. Le invenzioni degli uomini ______ sempre sono utilizzate per il bene dell’umanità. 6. Fenomenologia della dislocazione a sinistra. Dislocazione a sinistra con ripresa pronominale obbligatoria. Dislocazione a sinistra con ripresa facoltativa o senza ripresa. Dislocazione a sinistra senza ripresa pronominale. (4 ore) 1. Identifica l’elemento marcato delle proposizioni e delle frasi di sotto: Di scuse non ne voglio più sentire. Se me lo garantisci tu ci credo. È stato Mario a rompere il vetro. È a te che ho chiesto una risposta. Quello che ti dico lo capisci? È sempre Marco a fare questi scherzi stupidi. Te la vuoi cambiare questa maglietta, o no? Ha di nuovo marinato la scuola, Francesco. Che cosa abbia in mente Franco proprio non lo so. Le scarpe puliscitele da sola: non ho tempo, io. Sei stato tu a telefonarmi oggi pomeriggio? Di questi problemi preferirei non parlarne in pubblico. Voglio controllare io chi entra in casa mia durante la tua festa. È per il tuo ritardo che non siamo riusciti a prendere il treno. 2. Transforma le proposizioni e le frasi di sotto in costruzioni marcate, evidenziando l’elemento sottolineato: Voglio parlare con te. Ho già preparato la cena. Non salirò mai più in automobile con lui. Ho fatto la valigia in quattro e quattr’otto. Copierò domani il tema: oggi sono troppo stanco. L’influenza si prende per i virus, non per il freddo. Ho passato le vacanze nella fattoria dei miei cugini. Non mi piace guidare in questa stagione a causa della nebbia. Mi impegno con tutte le mie forze nello studio: lo studio mi interessa. Raffaello ha dipinto La Scuola di Atene, Michelangelo il Giudizio Universale. 3. Indica i fattori che determinano la posizione postverbale del soggetto nelle proposizioni e nelle frasi di sotto: Che cosa ti ha regalato Franco? Si affittano appartamenti. È arrivata una lettera per Luisa. Che brutta figura ha fatto Giorgio! Si preparano torte su ordinazione. Quanto costa all’etto il prosciutto? È apparsa una cometa nel cielo. È arrivato il carico di pomodori che aspettavamo. Chi aspettava Mario per cena? Com’è bello questo panorama al tramonto! Quanta bontà ha dimostrato quell’uomo! Essendo Luigi in ritardo, non è possibile dare inizio alla cerimonia. 7. Il congiuntivo nella frase argomentale. Dopo verbi. Dopo aggettivi. Dopo nomi. Nella frase completiva senza congiunzione. Nella frase argomentale dislocata a sinistra. (4 ore) 1. Completa le seguenti frasi con il congiuntivo presente dei verbi indicati fra parentesi: Non mi sembra che quella pizzeria (essere) __________ eccellente, benché tutti ne (parlare) __________ bene. Andiamocene, prima che (essere) __________ troppo tardi. Potete entrare purché (pagare) __________ il biglietto. Tutti desiderano che tu (essere) __________ presente. Perché ritieni che (avere) __________ ragione Gino? Mario crede che il denaro (essere) __________ la cosa più importante. Mi meraviglio che a quest’ora (esserci) __________ poco traffico. Chiedo che il mio intervento (venire) __________ messo a verbale. Penso che tu (dovere) __________ ritornare. Non capisco di che cosa (parlare, loro) __________ e perché (stare, loro) __________ ridendo. Dagli una pastiglia che gli (calmare) __________ il dolore. Faremo di tutto perché voi (essere) __________ felici. Mario farà di tutto perché tu (andare) __________ con lui a Venezia. Raccontami tutto prima che (arrivare) __________ papà. Comunque (andare) __________ le cose, non devi preoccuparti. Ammesso che i tuoi genitori ti (dare) __________ il permesso, verresti al mare con me? Ti presto la macchina a patto che tu me la (riportare) __________ entro la sera. Sono meno sicuro di te che (valere) __________ la pena di tentare. La professoressa ha detto che cambierà la data dell’esame a patto che lo (chiedere) __________ almeno un terzo degli studenti. 2. Completa le seguenti frasi con il congiuntivo imperfetto dei verbi indicati fra parentesi: Si era messo da parte, quasi (sentirsi) __________ a disagio. Si temette fino all’ultimo momento che Mario non (tornare) __________. Tremava non perché (avere) __________ freddo, ma perché aveva paura. Giorgio è così generoso che aiuterebbe tutti, se (potere) __________. Poco prima che (tornare) __________ tu, ha telefonato Laura. Giulia spende come se (essere) __________ la persona più ricca del mondo. Quando ti (accadere) __________ qualcosa, chi ci avvertirebbe? Penso che il viaggio sarebbe più bello se (prendere, noi) __________ l’aereo. Preferirei che (essere) __________ qui tu invece di Carlo. Vorrei che tu me lo (dire) __________ adesso, subito, non dopo. Ho finito il lavoro senza che nessuno (collaborare) __________. Uno studente che (rispondere) __________ così sbaglierebbe. Mario uscì di casa prima che (tornare) __________ suo padre. Mise il gelato in frigo perché non (sciogliersi) __________. Ti avevo confidato il mio segreto perché tu lo (serbare) __________ gelosamente. Gli agenti della stradale mi chiesero da dove (venire) __________ e dove (andare) __________. Il governo inviò sul posto un segretario di stato che (controllare) __________ la situazione. Ti ho detto la verità non perché (volere) __________ farti soffrire, ma perché me lo ha chiesto Mario. 3. Cancella la forma che ritieni sbagliata: Non prenderò l’aereo, a meno che non lo prendiate / prendeste anche voi. L’autobus mi è passato davanti senza che me ne accorga / accorgessi. Che io sappia / sapessi, mio nonno non si è mai mosso dal suo paese. Il programma va preparato con cura, in modo che nessuno protesti / protestasse. È un’indecenza che vi comportiate / comportaste così. Si doleva che i suoi figli vivano / vivessero lontano. Questo mi rattrista, che tu sia / fossi un bugiardo. Benché sia / fosse aprile, fa ancora molto freddo. Nonostante sia / fosse senza un soldo, non vuole lavorare. Se nevichi / nevicasse tutta la notte, domani potremmo sciare. Se continui / continuasse a piovere, il villaggio sarebbe in pericolo. Purché si penta / pentisse, sarà perdonato. Nel caso che il treno sia / fosse in ritardo, perderemmo la coincidenza. Non inviterò Mario, a meno che non vi sia / fossi obbligato. Mi chiedo chi sia / fosse quella signora. Non esco non perché non mi vada / andasse di uscire, ma perché ho da lavorare. Poc’anzi credevo che Gianni studi / studiasse, perciò non l’ho disturbato. Voglio che tu abbia / avessi già studiato al mio ritorno. Siamo usciti prima che lo spettacolo finisca / finisse. Rinuncerò al viaggio non perché sia / fosse poco interessante, ma perché devo finire un lavoro. 4. Completa le seguenti frasi con il congiuntivo passato dei verbi indicati fra parentesi: Sono dispiaciuto che le mie parole ti (offendere) ____________. Per quanto (darsi) ____________ da fare, non ha raggiunto la sufficienza. Chiunque (dire) ____________ ciò si sbaglia. Che tu non l’(fare) ____________ apposta è evidente. Non è stato ancora accertato perché (essere) ____________ commesso il delitto. Qualunque cosa (fare) ____________, ha diritto a difendersi. Mi chiedo se i Marini (arrivare) ____________ a casa. Oggi ho lavorato più di quanto (lavorare) ____________ ieri. Pare che l’esame (andare) ____________ benissimo. Oggi fa più caldo di quanto ne (fare) ____________ ieri. Sembra che i Rossi (trasferirsi) ____________ in un’altra città. Ammesso che tu (dire) ____________ il vero, è difficile crederti. Suppongo che Gino non mi (riferire) ____________ la verità. Per quanti lavori tu (iniziare) ____________, non sei riuscito a portarne a termine nemmeno uno. 5. Completa le seguenti frasi con il congiuntivo trapassato dei verbi indicati fra parentesi: Malgrado lo (avvertire) ____________, non ha voluto darmi retta. Parli come se non (succedere) ____________ niente. Malgrado (svegliarsi) ____________ tardi, riuscì a completare il lavoro. Nonostante (prepararsi) ____________ con cura, non ho saputo rispondere. L’amica di Giorgio era più simpatica di quanto (credere) ____________. Ho chiesto a Mario perché non (telefonare) ____________. Il nostro impegno fu più gradevole di quanto (immaginare) ____________. Nonostante (mettersi, noi) ____________ d’accordo, Mario non è venuto. L’esame è stato meno facile di quanto (prevedere, io) ____________. Lo avrei perdonato solo se mi (chiedere) ____________ scusa. Lo guardò come se (vedere) ____________ un fantasma. Credevo che tu (capire) ____________ tutto. Avrei voluto che tu glielo (dire) ____________ con gentilezza. Mi guardi come se non (capire) ____________ la domanda. La madre le chiese perché (arrivare) ____________ così in ritardo. (Fare, lui) ____________ come dici tu! Ne sarei felice. 6. Completa le seguenti frasi con il tempo del congiuntivo più opportuno dei verbi indicati fra parentesi: Per quanto (gridare) ____________, nessuno accorreva in suo aiuto. Per antipatico che (essere) ____________, dovete sopportarlo. Ha preparato tutto, senza che nessuno (accorgersi) ____________. Ho fatto tardi, senza che (rendersene) ____________ conto. Qualunque cosa tu (dire) ____________, non ti credo più. Il pensiero che Mario (essere) ____________ lontano mi rattrista. Farò di tutto perché Luisa (trovarsi) ____________ bene da noi. Ieri non è venuta a lezione: che non (sentire) ____________ la sveglia? Marco è distratto; che (essere) ____________ un po’ stanco? Non si spiegava come (potere) ____________ sbagliarsi. (Avere) ____________ i soldi, quanti regali ti farei! Me lo (chiedere, lui) ____________ in ginocchio, non cederò! Speravo che tu (avere) ____________ ragione. Dovunque tu (andare) ____________, ricordati di noi. Non era necessario che mi (parlare, tu) ____________ con questo tono. Non c’era bisogno che tu (spendere) ____________ tanti soldi. Temo che, se ti (dire) ____________ il vero, non vorresti ascoltarmi. Sembra che non (ricordarsi) ____________ più della vostra infanzia. Ti racconterò tutto, purché mi (promettere) ____________ di tacere. È un peccato che non (vedere, voi) ____________ quel film: era molto interessante. PROGRAMA ANALITICĂ Disciplina: CURS PRACTIC – ITALIANĂ (Traduceri) Anul II ID, Semestrul I Titularul disciplinei: Conf. univ. dr. ELENA PÎRVU Obiectivul disciplinei: - însuşirea de către studenŃi a deprinderilor de a traduce corect din limba italiană în limba română, în perspectiva creşterii competenŃei lingvistice în actul traducerii. ConŃinutul cursului / număr de ore pentru fiecare temă: ConŃinutul cursului practice 1. Alessandro Manzoni, il brano Addio al paese natale, da I Promessi Sposi. 2. Carlo Collodi, il brano Pinocchio, Geppetto e il pesce Tonno, da Le avventure di Pinocchio. 3. Ippolito Nievo, il brano Un feudatario e il suo cancelliere, da Le confessioni di un Italiano. 4. Renato Fucini, il brano La scampagnata, da Le veglie di Neri. 5. Edmondo De Amicis, il brano Il ragazzo calabrese, da Cuore. 6. Italo Svevo, il brano Padre e figlio, da La coscienza di Zeno. 7. Alfredo Panzini, il brano Vorrei farmi cantoniere ferroviario, da La lanterna di Diogene. 8. Riccardo Bacchelli, il brano I templi di Pesto, da Italia per terra e per mare. 9. Corrado Alvaro, il brano Ritorno in Calabria, da Itinerario italiano. 10. Dino Buzzati, il brano Una cosa che comincia per elle, da I sette messaggeri. TOTAL Nr. ore/temă 2 2 4 4 2 2 4 2 2 4 28 Bibliografia minimală de studiu pentru studenŃi: Filippo Caparelli, Fior da Fiore. Letture italiane per stranieri, Roma, Società Dante Alighieri, 2000, p. 74-75, 84-85, 86-87, 100-101, 104-105, 122-123, 133-134, 202-203, 214-215, 222-224, 232233, 236-237. SUPORT DE CURS Disciplina: CURS PRACTIC – ITALIANĂ (Traduceri) Anul II ID, Semestrul I Titularul disciplinei: Conf. univ. dr. ELENA PÎRVU INDICE 1. Alessandro Manzoni, il brano Addio al paese natale, da I Promessi Sposi. (2 ore) 2. Carlo Collodi, il brano Pinocchio, Geppetto e il pesce Tonno, da Le avventure di Pinocchio. (2 ore) 3. Ippolito Nievo, il brano Un feudatario e il suo cancelliere, da Le confessioni di un Italiano. (4 ore) 4. Renato Fucini, il brano La scampagnata, da Le veglie di Neri. (4 ore) 5. Edmondo De Amicis, il brano Il ragazzo calabrese, da Cuore. (2 ore) 6. Italo Svevo, il brano Padre e figlio, da La coscienza di Zeno. (2 ore) 7. Alfredo Panzini, il brano Vorrei farmi cantoniere ferroviario, da La lanterna di Diogene. (4 ore) 8. Riccardo Bacchelli, il brano I templi di Pesto, da Italia per terra e per mare. (2 ore) 9. Corrado Alvaro, il brano Ritorno in Calabria, da Itinerario italiano. (2 ore) 10. Dino Buzzati, il brano Una cosa che comincia per elle, da I sette messaggeri. (4 ore) 1. Alessandro Manzoni, il brano Addio al paese natale, da I Promessi Sposi, cap. VIII (2 ore) Lucia (…) scese con l’occhio giù giù per la china, fin al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’suoi più famigliari; torrenti de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. (...) Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia che que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, scendendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumor de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tante giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. 2. Carlo Collodi, il brano Pinocchio, Geppetto e il pesce Tonno, da Le avventure di Pinocchio. (2 ore) Pinocchio prese il suo babbo per la mano; e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro; poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al sul babbo: – Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non lo avrebbe svegliato nemmeno una cannonata. Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accorse che il suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana (= febbre malarica). Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa?... Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altra. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fose di paura, gli disse per confortalo: – Coraggio, babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi. – Ma dov’è questa spiaggia benedetta? – domandò il vecchietto diventando sempre più inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago. – Eccomi qui che guardo da tutte le parti, e non vedo altro che cielo e mare. – Ma io vedo anche la spiaggia, – disse il burattino. – Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno. Il povero Pinocchio faceva finta di essere di buon umore, ma invece... Invece cominciava a scoraggiarsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava grosso e affannoso... insomma non ne poteva più, e la spiaggia era sempre lontana. Nuotò finché ebbe fiato, poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole interrotte: – Babbo mio, aiutatemi... peerché io muoio! E padre e figliuolo erano ormai sul punto di affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse: – Chi è che muore? – Sono io e il mio povero babbo! – Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!... – Preciso: e tu? – Io sono il Tonno, il tuo compagno i prigionia in corpo al Pescecane. – E come hai fatto a scappare? – Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi ha insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io. – Tonno mio, tu capiti proprio a tempo! Ti prego per l’amore che porti ai Tonnini tuoi figliuoli: aiutaci, o siamo perduti. – Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutt’e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva. Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo, accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono più comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno. – Siamo troppo pesi? – gli domandò Pinocchio. – Pesi? Neanche per ombra; mi par di aver addosso due gusci di conchiglia, – rispose il Tonno, il quale era di una corporatura così grossa e robusta da parere un vitello di due anni. Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per aiutare il suo babbo a fare altrettanto: poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse: – Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di rinonoscenza eterna!... Il Tonno cacciò il muso fuori dell’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a Terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si sentì talmente commosso che vergognandosi di farsi vedere piangere come un bambino, ricacciò il capo sott’acqua e sparì. 3. Ippolito Nievo, il brano Un feudatario e il suo cancelliere, da Le confessioni di un Italiano, cap. I (4 ore) Il signor conte di Fratta era un uomo d’oltre a sessant’anni, il quale pareva avesse svestito allora allora l’armatura, tanto si teneva rigido e pettoruto sul seggiolone. Ma la parrucca colla borsa, la lunga zimarra color cenere gallonata di scarlatto, e la tabacchiera di bosso che aveva sempre tra mano, discordavano un poco da quell’abitudine guerriera. Gli è vero che aveva intralciato fra le gambe un filo di spadino, ma il fodero n’era così rugginoso che si poteva scambiarlo per uno schidione (= spiedo per l’arrosto); e del resto non potrei assicurare che dentro a quel fodero vi fosse realmente una lampa d’acciaio, ed egli stesso forse non s’era presa mai la briga di sincerarsene. Il signor conte era sempre sbarbato con tanto scrupolo, da sembrar appena uscito dalle mani del barbiere, portava da mattina a sera sotto l’ascella una pezzuola turchina, e benché poco uscisse a piedi, né mai a cavallo, avea stivali e speroni da disgradarne un corriere di Federico II (= il famoso re di Prussia). Era questa una tacita dichiarazione di simpatia al partito prussiano, e benché le guerre di Germania fossero da lungo tempo quietate, egli non aveva cessato dal minacciare agl’imperiali il disfavore de’suoi stivali. Quando il signor conte parlava tacevano anche le mosche, quando aveva finito di parlare, tutti dicevano di sì secondo i propri gusti o colla voce o col capo; quando egli rideva, ognuno si affrettava a ridere; quando sternutiva anche per causa del tabacco, otto o nove voci gridavano a gara: viva, salute, felicità, Dio conservi il signor conte! Quando si alzava tutti si alzavano, e quando partiva dalla cucina, tutti perfino i gatti, respiravano con ambidue i polmoni, come se fosse loro tolta dal petto una pietra da mulino. Ma più rumorosamente d’ogni altro respirava il cancelliere, se il signor conte non gli faceva cenno di seguirlo e si compiaceva di lasciarlo ai tepidi ozii del focolare. Convien però soggiungere che questo miracolo avveniva di rado. Per solito il cancelliere era l’ombra incarnata del signor conte. Si alzava con lui, camminava con lui, e le loro gambe s’alternavano con sì giusta misura che pareva rispondessero ad una sonata di tamburo. Nel principiar di queste abitudini, le frequenti diserzioni della sua ombra avevano indotto il signor conte a volgersi ogni tre passi per vedere se era seguitato secondo i suoi desideri. Sicché il cancelliere erasi rassegnato al suo destino, e occupava la seconda metà della giornata nel raccogliere la pezzuola del padrone, nell’augurargli salute ad ogni sternuto, nell’approvare le sue osservazioni e nel dire quello che giudicava dovesse riuscirgli gradito delle faccende giuridizionali. Per esempio, se un contadino accusato di appropriarsi le primizie del verziere padronale, rispondeva alla paternale del cancelliere facendogli le fiche, ovverosia cacciandogli in mano un mezzo ducatone per risparmiarsi la corda, il signor cancelliere riferiva al giurisdicente, che quel tale spaventato dalla severa giustizia di Sua Eccellenza avea domandaro mercé, e che era pentito del malfatto e disposto a rimediarvi con qualunque ammenda s’avesse stimato opportuna. Il signor conte aspirava tant’aria quanta sarebbe bastata a tener vivo Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di Dio deve mescolarsi alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi veramente si pentiva. Il cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdrucito nel suo arnese quanto il principale era splendido e sfarzoso; ma la natura gli consigliava una tale modestia, perché un corpicciolo più meschino e magagnato del suo non lo si avrebbe trovato così facilmente. Dicono che si mostrasse guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui il diritto di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in una volta, era un nodo gordiano di più nasi abortiti insieme, e la bocca si spalancava sotto così minacciosa, che quel povero naso si tirava alle volte in su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di bulgaro divergevano ai due lati per dare la massima solidità possibile ad una persona che pareva dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare, io credo che, detratti gli stivali, la parucca, gli abiti, la spada e il telaio delle ossa, il peso del cancelliere di Fratta non oltrepassasse le venti libbre sottili, contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto un immenso collare bianco, inamidato. Così com’era egli aveva la felice illusione di credersi tutt’altro che sgradevole; e di nessuna cosa egli ragionava tanto volentieri come di belle donne e di galanteria. 4. Renato Fucini, il brano La scampagnata, da Le veglie di Neri (4 ore) Gostino mi disse che pigliassi un altro po’ di pollo. Questa gentilezza di Gostino fu il segnale dell’attacco. Il vino aveva cominciato a rallegrare la comitiva, e più che altri il sor Cosimo. Un contadino venne a dire che al paretajo del signor Cappellano avevano fatto un tiro di sette frusoni, per cui anch’egli rallegrò il suo umore, e mi trovai allora investito in pieno dalla spaventosa valanga delle cortesie di cotesta buona gente. Gostino messe a sdrucciolo il piatto del pollo sul mio, e giù una frana di ciccia da sfamare un can da pagliajo, fatta rovinare dalla forchetta del sor Cosimo e da una gran manata del Cappellano nel gomito di Gostino. – Non lo finisco. – Senza pane, permio! – È impossibile. – Dunque è segno che il pollo non gli piace! – E giù, anche una targa di manzo. E bisognò che mangiassi ogni cosa, tormentato a doppio dal pensiero che ancora non s’era a nulla! Infatti cominciò subito la succulenta dinastia degli umidi. Sette ne comparvero! Due di pollo; uno di vitella di latte; due di carne grossa, uno d’animelle, e l’ultimo di tacchino coi maccheroni... Scoppiavo!... E bisognò assaggiarli tutti!... tutti! Quello bisognò prenderlo perché era col cavol fiore, una primizia! quell’altro, perché se no si sarebbe guastata la relazione; questo perché è con gli spinaci che ora sono una rarità; quest’altro, perché ci ha fatto la salsa la signora Olimpia... Dio signore! non ne posso più. E crepavo di ripienezza e di caldo, e, come se tutto il resto non bastasse, le mosche insistenti dell’autunno mi finivano di conciare impaniandomisi al sudore che mi colava a gore giù per le gote!... E il sor Cosimo sempre più feroce m’assaliva con una cucchiajata d’erba perché era roba leggiera, e il prete, con una stiappa di ciccia che mi buttava nel piatto da lontano; e in quel tempo Gostino badava a predicarmi di dietro che non mangiavo nulla, e la signora Flavia a lamentarsi che non mi fosse piaciuto il desinare! – Ecco l’arrosto! ora siamo in fondo; coraggio! – Ma coll’arrosto cominciarono le bottiglie. Il prete n’agguantò per il collo una di vinsanto; il sor Cosimo, una d’aleatico e Gostino una di vermutte mussante (= spumeggiante). – Aspettate! no... no... aspettate, Gostino, – gridavano le donne parandosi coi tovaglioli. E il sor Cosimo, posato l’aleatico: – Ah! permio! – esclama, – qua, qua, mi ricordo dell’altra volta. Guardi – volgendosi a me, – guardi che chiosa nel soffitto. Ora sentirà che lavoro è questo. Qua, qua, Gostino, la voglio stappare da me. Il sor Cosimo in piedi con la bottiglia spianata, cercava un posto della stanza dove rivolgerne impunemente la bocca, ma non lo trovava. Su c’era il soffitto dipinto: giù la stoia nova; di faccia le donne che s’erano buttate il tovagliolo in capo e si tappavan gli orecchi con le dita; a destra, il prete e la credenza bona... – Alla finestra, sor padrone, – gli gridò Gostino. – Bravo Gostino! – E andò alla finestra, dove, dopo che ebbe lavorato un pezzo adagio, adagio e colla massima precauzione, si sentì a un tratto un gran: – Giurammio! O come mai?... – E per assicurarsi meglio continuò a mandare in su col ditto pollice il tappo che finalmente cascò giù a piombo ai piedi del boja come la testa d’un decapitato. – Un’altra, Gostino; subito! – E quell’altra venne; ma appena tagliato lo spago fu una catastrofe. Il vino schizzò via soffiando com’un gatto arrabbiato; e il sor Cosimo che girava in tondo per scansare ogni cosa, infradiciò invece ogni cosa fra i sagrati del Cappellano che aveva avuto una zaffata nella nuca, e gli strepiti delle donne che s’era ficcate col capo sotto la tovaglia. – Un’altra, Gostino! – No, no, basta, signor Cosimo. – Mi parete diventato un ragazzo! – brontolò don Paolo, ma il sor Cosimo ormai, visto compromesso il suo decoro di enologo premiato da sé stesso alla mostra che fecero per la fiera anno di là, voleva andare in fondo, e ci arrivò finalmente con onore. Gostino portò la terza bottiglia la quale lavorò stupendamente e la pace fu ristabilita. Ma la tempesta delle gentilezze mi si scatenò addosso più furibonda che mai dopo il buonumore suscitato nei miei aggressori dalla riuscita dell’ultima bottiglia. Mi trovai il piatto pieno a cupola di uccelli che mi piovevano da tutte le parti; e uno me ne tirò nel viso il bambino fra le risate dei parenti che restarono sorpresi dello spirito di quel ragazzo. E anche quelli mi toccò mangiarli!... – Senza pane! – Sissignore; accidenti a’ fornai! – dissi ridendo in un certo modo che doveva parere che volessi mordere. La signora Olimpia volle poi che accettassi da lei una stipajola. – Un uccellino di becco fine, signore, – mi disse, – è tanto delicato! – Da lei, signorina, non posso ricusarlo. – È l’ultimo! Urlai nel fondo del petto; sacrifiamoci per uscirne. – Grazie, signorina; ma si accerti che faccio un gran sacrifizio. – Gliene sarò riconoscente per tutta la vita. – E guardò sorridendo dietro alle mie spalle. Mi voltai e vidi il Cappellano che branditi due bravieri per le zampe, rigido come la statua del Fato, me li affondava nella faccia, dicendomi freddo e arcigno: – Questi non li rifiuterà di certo. Li ho presi io stamani, e freschi e grassi così lei a Firenze non li trova; o, se li trova, per meno di quattro palanche (= antiche monete da un soldo) l’uno non glieli danno. Me li posò nel piatto e rimase a guardarmi con gli occhi stralunati da un eccesso di simpatia avvantaggiata dall’ultimo bicchiere d’aleatico che, secondo me, cominciava a lavorare a vele gonfie. Poi venne l’insalata coll’uova sode, poi le frutte, poi i dolci, poi altre bottiglie, eppoi... fu finita. 5. Edmondo De Amicis, il brano Il ragazzo calabrese, da Cuore (2 ore) Ieri sera, mentre il maestro ci dava notizie del povero Robetti, che dovrà camminare un pezzo con le stampelle, entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato nell’orecchio del maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: – Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana meta il piede, ci trova dei fratelli. – Detto questo s’alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio di Calabria. Poi chiamò forte: – Ernesto Derossi – quello che ha sempre il primo premio. Derossi s’alzò. – Vieni qua, – disse il maestro. Derossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese. – Come primo della scuola, – gli disse il maestro, – dà l’abbraccio del benvenuto in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio del figliuolo del Piemonte al figliuolo della Calabria. – Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: – Benvenuto! – e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani. – Silenzio! – gridò il maestro, – non si battono le mani in iscuola! – Ma si vedeva che era contento. Anche il calabrese era contento. Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: – Ricordatevi bene quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni, e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore. – Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa, e un altro ragazzo, dall’ultimo banco, gli mandò un francobollo di Svezia. 6. Italo Svevo, il brano Padre e figlio, da La coscienza di Zeno, cap. IV (2 ore) Mio padre sapeva difendere la sua quiete da vero pater familias. L’aveva questa quiete nella sua casa e nell’animo suo. Non leggeva che dei libri insuslsi e morali. Non mica per ipocrisia, ma per la più sincera convinzione: penso che egli sentisse vivamente la verità di quelle prediche morali e che la sua coscienza fosse quietata dalla sua adesione sincera alla virtù. Adesso che invecchio e m’avvicino al tipo del patriarca, anch’io sento che un’immoralità predicata è più punibile di un’azione immorale. Si arriva all’assassinio per amore o per odio; alla propaganda dell’assassinio solo per malvagità. Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva. Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si muoveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco. Egli mi rimproverava due altre cose: la mia distrazione e la mia tendenza a ridere delle cose più serie. In fatto di distrazione egli differiva da me per un certo suo libretto in cui notava tutto quello ch’egli voleva ricordare e che rivedeva più volte al giorno. Credeva così di aver vinta la sua malattia e non ne soffriva più. Impose quel libretto anche a me, ma io non vi registrai che qualche ultima sigaretta. In quanto al mio disprezzo per le cose serie, io credo che egli avesse il difetto di considerare come serie troppe cose di questo mondo. Eccone un esempio: quando, dopo di essere passato dagli studii di legge a quelli di chimica, io ritornai col suo permesso ai primi, egli mi disse bonariamente: – Resta però assodato che tu sei un pazzo. Io non me ne offesi affatto e gli fui tanto grato della sua condiscendenza, che volli premiarlo facendolo ridere. Andai dal dottor Canestrini a farmi esaminare per averne un certificato. La cosa non fu facile perché dovetti sottomettermi perciò a lunghe e minuziose disamine. Ottenutolo, portai trionfalmente quel certificato a mio padre, ma egli non seppe riderne. Con accento accorato e con le lacrime agli occhi esclamò: – Ah! Tu sei veramente pazzo! E questo fu il premio della mia faticosa e innocua commediola. Non me la perdonò mai e perciò mai ne rise. Farsi visitare da un medico per ischerzo? Far redigere per ischerzo un certificato munito di bolii? Cose da pazzi! Insomma io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione. Ricordo come la sua debolezza fu provata allorché quella canaglia dell’Olivi lo indusse a fare testamento. All’Olivi premeva quel testamento che doveva mettere i miei affari sotto la sua tutela e pare abbia lavorato a lungo il vecchio per indurlo a quell’opera tanto penosa. Finalmente mio padre vi si decise, ma la sua larga faccia serena si oscurò. Pensava costantemente alla morte come se con quell’atto avesse avuto un contatto con essa. 7. Alfredo Panzini, il brano Vorrei farmi cantoniere ferroviario, da La lanterna di Diogene. (4 ore) La casa del cantoniere. Quasi tutti i vesperi le mie gambe mi portano là, verso la piccola pineta, lungo il bell’argine della via ferrata, da cui si domina il mare lì presso, ed il monte da lontano; ma quando arrivo alla casa del cantoniere, mi fermo. Non è che io mi voglio fermare: è come un imperativo categorico di questo terribile orologio dell’anima che ho dentro di me, e squilla la fermata davanti alla casa del cantoniere. Quella piccola casetta ride nell’eremo del paesaggio; e quella situazione quieta, accanto a quel binario (umile e pur congiunto ramo di quell’immenso sistema nervoso che fascia la terra con doppia sbarra d’acciaio), mi seduce più di una sontuosa villa. Io non so che cosa pensi di me quella famigliuola del cantoniere, vedendo questo intruso, fermo lì, fuori del recinto, e che fissa, e sta immobile: mi potrebbero ragionevolmente domandare: «Ma si può sapere che cosa cercate qui?». Invece non mi hanno domandato mai niente e mi lasciano guardare. Un bimbo – lo scorgevo dal vano della finestra a piano terreno – indicava pur me con insistenza alla madre sua, come a dire: «C’è di fuori quello lì!». Quattro occhi di giovanette, apparendo e scomparendo dall’uscio, come testoline di rondini dal nido, devono avere compiuto una specie di indagine sul conto mio. Avranno pensato: «Chi sarà? Uno che si vuole buttare sotto il treno? No, perché sono molti giorni che egli si ferma qui: i treni passano ed egli non si è ancora ammazzato. Un vagabondo, un ladruncolo? Nemmeno, perché non ne ha l’aspetto. Chi potrà mai essere? Eh, chi può essere?» Le vidi scoppiare in una risata di cuore, poi si ritrassero in casa; parlarono e anche la madre sorrise, assentendo. La risposta era trovata al quesito: – Un matto! Così è forse: a chi percorre la dura via della Saviezza, ad un certo punto avviene di essere entrato nei regni della Pazzia. Spiegato così il mio incognito, nelle sere susseguenti il riso delle donne si mutava al mio apparire in sorriso fuggevole di pietà: il bimbo bensì seguitava ad incarmi. Così grandi, solenni, eloquenti erano le tacite cose all’intorno, così profondo era il senso di umiltà e di annientamento entro di me, che io cominciai ad acquistare un nuovo senso e, palpitando, a tremare come se la natura mi avesse rivelato il suo essere profondo. Una stradicciuola saliva sino al passaggio a livello della via ferrata, con due spalliere di pioppi; ma così aerei, così verdi e azzurri, così palpitanti pur nell’aria senza vento, che pareva linguaggio come di foglie che una Sibilla avesse animate della sua verità. Al di là della ferrata, la via scendeva ancora perdendosi fra le dune del mare, coperte di lieve peluria di prato, dove il sole stendeva su ardenti tinte di croco. Più lontana la breve selva dei pini. La casetta del cantoniere sorgeva presso il cominciar di quei pioppi; e c’erano intorno tutte le cose buone che sono necessarie a chi deve vivere lontano dagli altri uomini: un piccolo forno per cuocere il pane, una catasta di marruche secche, il pozzo con le mastelle del bucato, alcuni filari di uva già nereggiante, quando bastasse a fare un po’ di vinello per la famigliuola. Davanti, in un rettangolo di terra, germogliava l’insalata tenera e, sopra sostegni di canne, gli utili pomidori si pompeggiavano nel loro rosso. Accanto al muro, ristretto da cannucce per frenare il troppo rigoglio, il rosmarino (ros maris, cioè «rugiada del mare») superbamente rioriva; fioriva il basilico che assorbe l’odore dell’estate, e molte rame di limoncella gareggiavano d’altezza con le mirice. Sì: io sorpresi me stesso dire a me stesso: «Ma che cosa sto a cercare più nella vita? Ma a quale scopo mi sono insino a questi giorni tanto affaticato nel mio peregrinaggio terrestre? Ma non sarei felice io qui? Io sono seccato a morte di dover ritornare fra poco ad essere dottore, professore, elettore, libero schiavo! Ecco: sventolare la bandiera a questi piccoli treni, non veloci, salutando reverentemente la vita che passa; e godere intanto questa solitudine, questa santissima quiete, dalla quale passerei senza avvedermene, senza contrasto, a più sicura pace, sepolto qui, presso questo mare, con una scritta che io vorrei dettata così: «Exaudiam vocem maris»1: ecco la felicità e altro non chiedo.». 1 «Da qui udrò la voce del mare». 8. Riccardo Bacchelli, il brano I templi di Pesto, da Italia per terra e per mare (2 ore) ... Da qualunque strada si arrivi, i templi sorgono di sorpresa. La pianura non si sa come li cela all’arrivante. Quando li svela, a miracolo, paion nati dove non c’era nulla; e scende nel cuore un senso di felicità e di oblio. Per gli occhi tutto l’animo si colma di dolcezza e di gratitudine verso il popolo senza pari, verso i greci autori di tale bellezza, che nel silenzio della città sparita sanno, defunti, così indorare la morte. Io non so dire che cosa è. So che vita e suo contrario mi mostrano un volto e un’idea, mi danno pensieri e sentimenti unici, maturi, calmi oltre ogni cosa, quando mi è dato d’essere cercato e preso dall’incontro colla bellezza greca. Bene costoro poterono dire poeta «colui che fa», come vuol l’etimologia. E quel che han fatto, e quel che dura dell’opera a Pesto! La memoria, le parole non dico, ritrova solo un’eco e una traccia; ma bastano queste a render la gioia, se non la forza che è solo della presenza, smemorata d’ogni parola, della mirabile apparizione. Lungo tutta la costa amalfitana ed oltre, in molte regioni del Mezzogiorno, si dicono le rose del Pesto per dir la cosa più olezzante e più colorita. Si vuol dire che i naviganti le sentano odorare fino in mare, e che siano tanto rosse da parer nere. Eppure, a Pesto, celebrata per le sue rose da Virgilio e da Ovidio e dagli altri porti latini, rose né rosai non se ne vedono, neppur minima apparenza. Fioriscono peraltro nella memoria e nella parlata del popolo, e veramente non sono morte. La sventura e le rose di Pesto vincono ugualmente l’oblio e la caduta dei secoli. I templi sono tre: appartato quello di Cerere, appaiati quelli di Nettuno e l’altro più antico, cosiddetto Basilica. Il primo effetto, da qualunque parte s’arrivi, allo scoprirli, è di incredulità. Tutto, dalla polvere della strada alle quattro casuccie sul quadrivio e ai pochi, ampli pini marittimi dell’unica villa chiusa in questa stagione d’aria maligna, e perfino il camino spento d’una fabbrica di conserva di pomidoro caduta qui come nel mondo della luna, tutto par più reale dei templi. Sulle fronti loro armoniose appar qualcosa che non comporta parole e che l’occhio non sostiene a lungo. Dopo un’esclamazione di sorpresa, vien fatto di parlar volentieri d’altra cosa. Sicuro, è un poco il sentimento che ci persuade con dolce ansia, sul primo incontrare la donna amata, a indugiar lentamente a più tardi le parole ultime dell’amore. Mentre si compra il biglietto d’ingresso al cancelletto degli scavi, si distoglie lo sguardo dai templi. Già il cuore si sente pronto al rancore, se essi non sapranno mantenere quella promessa di gioia. Già dentro di noi ci pare impossibile, già ci presentiamo delusi e rassegnati, e pronti a tacciare quel primo effetto di imprudente prestigio, di fata morgana della bellezza antica sul deserto di Pesto polverosa e assolata. Dal cancello del recinto all’altare, di cui è rimasta la base davanti al tempio di Nettuno, correranno cento passi, e bastano. Dapprima è qualche particolare di proporzione, la distanza, per esempio, dell’atare in confronto coll’altezza della fronte e colla larghezza; oppure la misura della scalinata; oppure la gentilezza insuperabile, suasiva, astuta, del fregio a onda unica che l’antico artefice ha graffito con mano accorta e lieve sotto il capitello delle colonne doriche. Ecco, miracolo di stile, questa architettura contemporanea di Socrate sorride. E io credo che tutti i visitatori, alzando l’occhio lieve e l’animo che si sgombra davanti ai templi di Pesto, abbiano avuto la stessa affettuosa esclamazione: – Ma sono piccoli! Non sono piccoli, sono grandi nel limite, sono misurati, sono greci. Sono del popolo che seppe dire: L’uomo è la misura di tutto. E quell’ingenua esclamazione è il segno che la verità architettata in queste colonne ci ha ripresi, che la comprendiamo e ci comprende. Ogni timidezza sparisce. Essi mantengono la promessa. Pesto è luogo dove convien vedere che cosa han potuto gli uomini nella loro vita vana, nell’adoperare questa facoltà, la più fuggitiva e vagante, la più durevole e certa che abbiamo, dell’arte. Che cosa è più Nettuno, e la sua religione per noi? Ma il fregio sulle colonne è come se vedessimo l’artista tracciarlo sotto i nostri occhi; e ne cogliamo l’intenzione e sentiamo la sua, sorridente e accorta, nella nostra soddisfazione. Dei tre templi, più rovinato e più antico è quello chiamato la Basilica. Sia la sua condizione, o il color pallido e come estenuato, o la forma arcaica delle colonne che paion stanche; l’effetto è singolare e smarrito. Il più leggiadro è il minore, di Cerere o di Vesta. Il più perfetto e compiuto sentimento è dato dal tempio più insigne e meglio conservato, quello medio, di Nettuno. L’aria ha alleggerita la pietra, che si è fatta spugnosa, e delicata come la spugna viva. Il sole le ha dato una calda luce, una meravigliosa maturità, io non so dire altrimenti. Questo travertino splende e non luccica; sta saldo e non grava; sta in piedi e sta insieme non per il peso ma per virtù della linea perfetta. E perché non può essere altrimenti, né più né meno. E perché è unico. Salgo i gradini, entro fra le colonne. Il cielo fa da tetto, come se il tempio sfondato avesse virtù di ripararsi col cielo e d’inquadrare anche il cielo. Ed è così propriamente. Il tempio è disegnato negli elementi, è l’ombelico della pianura. Un’armonia di terra, di mare e di cielo esisteva sparsa ed ignara su questa costa, e il tempio l’ha fissata e congiunta in se stesso. L’arte ha destata la natura dal suo sonno solare. 9. Corrado Alvaro, il brano Ritorno in Calabria, da Itinerario italiano (2 ore) Sono tornato in Calabria dopo molti anni, e ho riveduto queste eterne cose. Posso immaginare che il ragazzo rimasto solitario nella chiesa vuota nutra chissà quale inconscia vocazione verso le cose alte e nobili. Così sono maturati fra noi i migliori uomini. Ho riveduto le ragazze nuove di quest’anno, sedute sulla soglia della porta; accanto ad esse è la madre nera cosparsa di rughe che registrano sul suo viso i dolori sofferti, le parole dette, le preghiere mormorate; tutta la mobilità meridionale è fissata in queste rughe come i moti della terra sull’intrico di linee dei sismografi. La ragazza è appena nuova, intatta, d’un colore che nulla intorno ha, nel vecchio e scabro abitato: il colore delle cose nuove della natura, dei germogli delle piante e delle foglie tenere della lattuga. Per poco essa è sospesa in quella stagione sublime, e dagli stracci, dalle tane oscure, ella si leva con la sua bellezza ignara e gli occhi sereni, simili a quelli di tutta la bellezza e la gioventù del mondo dove che sia. La primavera è allo stesso modo sospesa sulla Calabria intera, nella stagione che dura sessanta o settanta giorni. Il lino azzurro fa laghi di gemma nei campi, il trifoglio che in Calabria è sgargiante copre di colore granato i poggi, e poi tutta la gamma dei verdi, da quello colore della muffa a quello gemmante come il musco, e tra un colore e l’altro quello della terra ora grigio, ora color della feccia, ora giallo e bianco abbagliante; e poi la fioritura degli asfodeli, dei colchici, del croco; e poi gli oleandri, le zagare: l’aria è un profumo fluido che si respira come un’atmosfera sensibile. Per questi due mesi l’anno, la terra più severa e più scabra che sia in Italia sorride. È il tempo che bisogna visitarla, varia, orientale e boreale, mediterranea e interna. L’aria è trasparente e sonora, trasmette a distanze enormi i rumori e i suoni; che parla è come se mettesse inavvertitamente la mano sul tasto pronto di un organo; perciò tutto è popolato, sotto il cielo di cristallo che prolunga la sera indefinitamente in una chiarità di altri mondi lontani nel firmamento, di suoni e di voci, di scampanii di pecore, di richiami e di canti, ed è tutto un esclamare vago e diffuso, in un’eterna felicità di voci umane. A tratti, come su un’onda della radio, una intera frase arriva ai vostri orecchi, non si sa di dove. È uno dei fenomeni più inacantati della Calabria. Saranno le sue montagne ad amplificare e armonizzare le voci, sarà l’aria lieve e pronta. Nessuno sa che sia. Ma la gente si chiama da poggio a poggio, e tutta l’aria si mette in moto mentre il lume bianco del sole vibra di questi messaggi. Si può provare a pronunziare una fase a voce discretamente bassa, per sentirla allargarsi e diffondersi. Le voci sono pronte, sveglie, vigorose nella mollezza dell’aria. Conoscevo la Calabria che si percorreva a piedi o sul mulo, la Calabria impervia per cui era un mistero quello che si trovava dall’altra parte delle sue montagne o nei suoi altopiani solenni. Ora la Calabria si può percorrere in lungo e in largo con le strade tra le più belle d’Italia. Ho ritrovato la mia terra più bella di quanto non sospettassi io stesso, coi suoi altopiani interni che paiono d’una contrada boreale d’Europa, e la sua vecchia consunta sponda greca dell’Jonio. Avevo trovato la neve nella Sila: si camminava in un bosco profondo di abeti, tra i castagni ancora spogli e irti come piume di asprí sui dorsi delle montagne. La neve andava ricamando sui rami e sulle gemme i suoi merletti, in terra fra la neve aveva bucato il croco violetto e azzurro, e la viola alpina. Dopo tre ore mi ritrovavo sulla spiaggia calda del mare fra lo scampanio dei greggi e le loro schiere ordinate che andavano brucando in fila e avanzando compatte le erbe nuove della spiaggia e l’arsenico. Si stendeva infinitamente quella sponda greca che da Crotone si prolunga fino al Capo Spartivento, col suo colore di terra antica fra i colli digradanti dal balzo abissale dei monti, le crete aride, le fioriture enormi di certi poggi, le rocche medievali sugli sproni dei monti, le torri dirute, i castelli abbandonati, i paesi disertati sui colli franosi, con la luce che si affaccia alle finestre vuote dai tetti sprofondati. Questo mutamento di clima, di natura, di paesaggio, e in due o tre ore, è un fatto unico nell’Italia che pure è tanto prodigiosa, e spiega molta storia calabrese dibattuta di continuo fra le stirpi indigene dell’interno e i popoli nuovi, mercantili e civili della costa, fra tribù pastorali e greci. La distanza che oggi in auto è breve, dovette apparire a quel tempo enorme, come a molti di noi nell’infanzia appariva ancora insuperabile. Una distanza di continenti. Questo spiega pure il carattere dei calabresi, primitivo e raffinato, patriarcale e avventuroso, suscettibile di ogni perfezionamento, di ogni slancio verso l’inconoscibile e il cielo, come spiegano le feroci passioni e insieme il discettare più filosofico e cavilloso, e la loro antica tradizione monacale. 10. Dino Buzzati, il brano Una cosa che comincia per elle, da I sette messaggeri (4 ore) (...) – Mettetevi la giacca – ordinò il Melito, il suo volto essendosi illuminato di una diabolica compiacenza. – La giacca, e poi fuori immediatamente. – Aspetterete che prenda le mie robe, – disse lo Schroder, oh quanto meno fiero di un tempo. – Appena ho impacchettato le mie robe me ne vado, statene pur sicuri. – Le vostre robe devono essere bruciate – avvertì sogghignando l’alcade.1 – La campanella prenderete, e basta. –Le mie robe almeno! – esclamò lo Schroder, fino allora così soddisfatto e intrepido; e supplicava il magistrato come un bambino. – I miei vestiti, i miei soldi, me li lascerete almeno! – La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto. – Come? Che cosa volete dire? – balbettò il mercante. – Carrozza e cavallo sono stati bruciati, come ordine di legge – rispose l’alcade, godendo della sua disperazione. – Non vi immaginerete che un lebbroso se ne vada in giro in carrozzella, no? E diede una triviale risata. Poi, brutalmente: – Fuori! fuori di qua! – urlava allo Schroder. – Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori inmediatamente, cane! Lo Schroder tremava tutto, grande e grosso com’era, quando uscì dalla camera, sotto la canna puntata della pistola, la mascella cadente, lo sguardo inebetito. – La campana! – gli gridò ancora il Melito facendolo sobbalzare; e gli sbatté dinanzi, per terra, il pacchetto misterioso, che diede una risonanza metallica. – Tirala fuori, e legatela al collo. Si chinò lo Schroder, con la fatica di un vecchio cadente, raccolse il pacchetto, spiegò lentamente gli spaghi, trasse fuori dell’involto una campanella di rame, col manico di legno tornito, nuova fiammante. – Al collo! – gli urlò il Melito. – Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo! Le mani dello Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire l’ordine dell’alcade. Pure il mercante riuscì a passarsi attorno al collo la cinghia attaccata alla campanella, che gli pendette così sul ventre, risuonando ad ogni movimento. – Prendila in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio2 come te. Va’ che bel lebbroso! – infierì don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo, sbalordito dalla scena ripugnante. Lo Schroder con passi da infermo cominciò a scendere le scale. Dondolava la testa da una parte e dall’altra come certi cretini che si incontrano lungo le grandi strade. Dopo due gradini si voltò cercando il medico e lo fissò lungamente negli occhi. – La colpa non è mia! – balbettò il dottor Lugosi. – È stata una disgrazia, una grande disgrazia! – Avanti, avanti! – invitava intanto l’alcade come a una bestia. – Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve sapere che arrivi! Lo Schiroder riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della locanda e si avviò lentamente attraverso la piazza. Decine e decine di persone facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva. 1 2 alcade: in Spagna, il sindaco. marcantonio: uomo grosso e forte.