TEATRO REGIO DI PARMA
FESTIVAL VERDI 2013
“SIMON BOCCANEGRA” di GIUSEPPE VERDI (1857)
Venerdì 27 settembre 2013; ore 15,30
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Prima rappresentazione
12 marzo 1857
Teatro
Teatro La Fenice di Venezia
Versioni successive
24 marzo 1881, Teatro alla Scala di Milano
PERSONAGGI
Simon Boccanegra, corsaro al servizio della Repubblica genovese; poi primo
Doge di Genova (baritono)
Jacopo Fiesco, nobile genovese; poi sotto il nome di Andrea Grimaldi (basso)
Maria Boccanegra, figlia di Simone, sotto il nome di Amelia Grimaldi
(soprano)
Gabriele Adorno, gentiluomo genovese (tenore)
Paolo Albiani, filatore d'oro genovese; poi cortigiano favorito del Doge
(baritono)
Pietro, popolano di Genova; poi cortigiano (basso)
Capitano dei balestrieri (tenore)
Un'Ancella di Amelia
Simon Boccanegra è un'opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal
dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez. La prima ebbe luogo il 12 marzo 1857 al
Teatro La Fenice di Venezia.
Oltre vent'anni dopo, Verdi rimaneggiò profondamente la partitura. Le modifiche al libretto furono
effettuate da Arrigo Boito, il futuro librettista di Otello e Falstaff. La nuova e definitiva versione
andò in scena il 24 marzo 1881 al Teatro alla Scala di Milano.
Simon Boccanegra è l’emblema della solitudine del potere. Il complotto politico, gli scontri di
classe, il conflitto tra gli affetti e i doveri istituzionali sono i temi senza tempo che attraversano
l'opera. Sullo sfondo, il mare, con le sue brezze e il suo profumo, illumina le dimensioni entro cui si
risolvono mille contrasti di personaggi e situazioni. Dopo un primo insuccesso, Verdi ritorna sulla
partitura e avvia la ricerca di una scrittura musicale che dia maggiore unità all’azione. L’opera così
rinasce, segnando una svolta nella concezione drammaturgica del compositore. L’incombente
oscurità delle scene immaginate da Hugo De Ana pone in risalto le figure, riflettendo i contrasti
che tormentano i protagonisti e ne determinano i destini.
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GENESI
All'inizio del 1856 la direzione del teatro La Fenice propose a Verdi di scrivere un'opera nuova, ma
il musicista rifiutò, essendo già impegnato in altri progetti (la composizione del mai realizzato Re
Lear e i rifacimenti di Stiffelio e della Battaglia di Legnano) e trovandosi già in trattative con il San
Carlo di Napoli e La Pergola di Firenze.
L'anno successivo il librettista Francesco Maria Piave gli rinnovò la proposta e a maggio Verdi,
sospese le trattative con gli altri teatri e abbandonato il progetto di musicare Re Lear, firmò il
contratto con il teatro veneziano.
Il soggetto della nuova opera è tratto, come quello del Trovatore, da un dramma di Gutiérrez, mai
pubblicato in italiano, nel quale si narra la storia di Simone Boccanegra, il corsaro genovese che nel
Trecento riuscì a salire al trono dogale grazie all'appoggio di un amico e che al termine di una vita
funestata da tragici eventi – la morte della donna segretamente amata, appartenente a una
famiglia patrizia, e la scomparsa della figlia – morì avvelenato da quello stesso amico.
Quest'oscuro dramma privato sullo sfondo di una guerra civile attirò immediatamente Verdi che,
come in altre occasioni, stese personalmente un libretto in prosa affidandone la versificazione a
Piave. Inoltre, all'insaputa del suo librettista, Verdi si rivolse per la versificazione di alcuni passi a
Giuseppe Montanelli, un poeta e patriota toscano in esilio a Parigi per aver partecipato al governo
rivoluzionario del 1849. Il musicista rispedì il testo ultimato a Piave, accompagnandolo con queste
asciutte parole:
« Eccoti il libretto accorciato e ridotto presso a poco come deve essere. Come ti dissi in altra mia,
tu devi mettere o no il tuo nome. Se quanto è avvenuto ti spiace, a me spiace pure, e forse più di
te, ma non posso dirti altro che "era una necessità". »
Nonostante gli aggiustamenti il libretto di Simon Boccanegra fu oggetto di forti critiche: un
musicologo del tempo, Abramo Basevi, affermò di averlo dovuto leggere sei volte prima di riuscire
a venirne a capo.
Terminata la stesura dell'opera in abbozzo nella sua villa di Sant'Agata, il 18 gennaio 1857 Verdi si
trasferì a Venezia per completare la strumentazione, assistere alle prove e curare la messinscena.
La première ebbe luogo il 12 marzo: i ruoli principali furono affidati a cantanti di rango – Leone
Giraldoni (Simone), Luigia Bendazzi (Amelia), Carlo Negrini (Gabriele) e Giuseppe Echeverria
(Fiesco) – ma la serata deluse le aspettative di Verdi:
« Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi
altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma
pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto. »
Ma l'esito non cambiò nel corso delle sei repliche e l'opera non riuscì ad affermarsi stabilmente in
repertorio. A contribuire al sostanziale insuccesso della prima versione di Simon Boccanegra
furono certamente l'intreccio oltremodo complicato e la tinta eccessivamente uniforme della
partitura musicale, povera di squarci lirici e appesantita dall'impiego massiccio del canto
declamato.
La seconda versione. Nel 1868 l'editore Giulio Ricordi suggerì di realizzare una revisione della
partitura, giacente da tempo nei suoi magazzini; ma il musicista rifiutò affermando che mancavano
i cantanti adatti e che l'opera era «triste e di affetto monotono». Ricordi però non si diede per
vinto e una decina d'anni più tardi spedì a Verdi un grosso pacco contenente la partitura da
rivedere. Anche in questo caso la risposta del compositore fu secca e, all'apparenza, definitiva: «Se
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verrete a S. Agata di qui a sei mesi, un anno due, tre, ecc, la troverete intatta come me l'avete
mandata. Vi dissi a Genova che io detesto le cose inutili.»
Nell'autunno del 1879 prese il via la grande azione diplomatica che portò Verdi a tornare al teatro,
dopo il lungo silenzio seguito ad Aida: durante una cena, Ricordi fece cadere il discorso su
Shakespeare e Otello, di cui Arrigo Boito aveva già preparato un'ipotesi di riduzione librettistica,
notando in Verdi un certo interesse. L'indomani Boito presentò al compositore il suo lavoro, Verdi
lo esanimò e lo trovò eccellente. Iniziò così una delle collaborazioni più felici della storia del teatro
d'opera. Fra il giovane letterato, intelligente, colto e aggiornatissimo, e l'anziano musicista, che per
tornare alle scene aveva bisogno soprattutto di uno sprone convincente, nacque uno straordinario
rapporto di lavoro e di amicizia destinato a dare ottimi frutti. Il primo fu appunto la revisione di
Simon Boccanegra.
Dal punto di vista musicale il rifacimento impegnò Verdi per quasi sei settimane, dall'inizio di
gennaio alla terza settimana di febbraio del 1881. Ma già nel novembre 1880 il musicista aveva
tracciato a grandi linee il piano di revisione. Originariamente suddivisa in quattro atti, l'opera
venne ristrutturata in un prologo (l'antefatto del dramma: la tragica morte di Maria e l'elezione di
Simone al trono dogale) e tre atti. Allo scopo di ravvivare il primo atto Verdi suggerì la citazione di
due lettere di Francesco Petrarca, una scritta a Boccanegra, Doge di Genova, l'altra al Doge di
Venezia. Alla fine la revisione comportò la sostituzione di un intero quadro (il secondo dell'atto
primo), il radicale mutamento del prologo, l'eliminazione del preludio (in luogo del quale Verdi
compose una brevissima quanto memorabile introduzione strumentale), la sostituzione del duetto
tra Gabriele e Fiesco (atto primo), la composizione di una nuova scena per il personaggio di Paolo
(atto terzo) e inoltre un immenso numero di modifiche, tagli, ritocchi, inserzioni. In un tempo
molto limitato e sotto la costante supervisione di Verdi - attestata dalle numerose lettere che i due
si scambiarono durante il lavoro - Boito apportò le modifiche necessarie al vecchio libretto e
avanzò personalmente alcuni validissimi suggerimenti. Per ovvie ragioni d'immagine (distinguere i
nuovi versi dai vecchi sarebbe stato ben difficile) preferì tuttavia non firmare il libretto e
mantenere l'anonimato.
Il nuovo Simon Boccanegra andò in scena il 24 marzo 1881, alla Scala di Milano, sotto la direzione
del più grande direttore d'orchestra italiano di quegli anni: Franco Faccio. La compagnia di canto
era composta da nomi di grande prestigio: Victor Maurel (Simone), Francesco Tamagno (Gabriele),
Anna D'Angeri (Amelia), Edouard de Reszke (Fiesco). L'opera ottenne un buon successo. Dalla
Disposizione scenica del nuovo Simon Boccanegra, pubblicata da Ricordi, possiamo ricavare molte
notizie sull'allestimento scaligero, l'atteggiamento scenico del coro e degli interpreti, l'età dei
personaggi e soprattutto conoscere il punto di vista di Verdi sulla realizzazione di uno spettacolo
che gli stava molto a cuore e rappresentava per lui sia il recupero di un lavoro ingiustamente
dimenticato che un ritorno in grande stile al palcoscenico.
Nonostante l'iniziale successo, il cammino del rinnovato Simon Boccanegra non fu agevole. Alla
fine dell'Ottocento l'opera era nuovamente uscita di repertorio e il definitivo recupero fu merito
della Verdi–Renaissance tedesca. Dal 1929 l'opera fu infatti inserita nei cartelloni dei maggiori
teatri tedeschi con prestigiosi registi e interpreti, mentre nel 1932 trovò la sua consacrazione
internazionale al Metropolitan di New York e negli anni successivi, sull'onda del trionfo americano,
venne ripresa con successo in Italia: a Roma, Parma, Firenze, Bologna.
La ripresa della prima versione in forma di concerto, il 2 febbraio 2001 al Palafenice di Venezia
(all'epoca la ricostruzione del Teatro La Fenice era ancora in corso), ha messo ancor meglio in
evidenza i meriti della capillare revisione del 1881, certamente la più impegnativa e insieme la più
efficace alla quale Verdi abbia sottoposto una sua opera.
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Caratteri drammaturgici e stilistici
Alcuni giorni dopo l'andata in scena della seconda versione, scrivendo all'amico Opprandino
Arrivabene, Verdi osservò che Simon Boccanegra è opera «triste perché dev'essere triste, ma
interessa». Nel porre l'accento sulla caratteristica più evidente di quest'opera, la sua tinta scura e
malinconica, questo lapidario giudizio solleva un interrogativo di fondo: quali ragioni hanno spinto
Verdi a tornare su questa partitura a distanza di decenni, in un momento delicatissimo della sua
carriera, per di più interrompendo la composizione di Otello? Le motivazioni sono molteplici e di
diversa natura: se da un lato l'operazione si giustifica come una sorta di prova generale volta a
saggiare, dopo tanti anni di silenzio, le reazioni del pubblico di fronte alla sua nuova musica,
nell'attesa di proporre un'opera originale; dall'altro le parole del musicista lasciano intendere che
quest'opera, nonostante l'insuccesso, era rimasta nel suo cuore. Si racconta che Verdi abbia in
seguito confidato al nipote Carrara di aver voluto bene al Simon Boccanegra «come si vuol bene al
figlio gobbo.»
Simon Boccanegra è una di quelle partiture verdiane – come Macbeth e Don Carlos – che, al di là
del loro valore artistico, difficilmente avrebbero potuto aver accesso alla popolarità nel corso
dell'Ottocento, in quanto il suo soggetto non ruota intorno ad una grande storia d'amore o ad un
infiammato dramma di popoli in lotta per la libertà.
Incentrato su un tema ricorrente nel teatro verdiano - la crisi di un sistema di potere e di affetti
familiari - Simon Boccanegra finisce infatti per capovolgere i convenzionali rapporti di forza tra i
personaggi: non solo il protagonista è il baritono, ma il suo vero antagonista non è il tenore
(l'innamorato giovane e romantico) bensì il basso, mentre la donna contesa non è l'amante, bensì
la figlia dell'uno (Simone) e la nipote dell'altro (Fiesco). Il cuore dell'opera è rappresentato da un
intreccio fatale di odii atavici e fraintendimenti, in una cronica impossibilità di intendersi e
comunicare. Le passioni torbide e irrisolte che animano quest'opera buia, complessa e tormentata,
sono destinate a sciogliersi solo dopo che l'inesorabile trascorrere del tempo ne ha levigato
l'asprezza, ovvero con l'approssimarsi della morte. Tra il prologo e i tre atti trascorrono ben
venticinque anni, ed è suggestivo raffrontare questo scarto temporale con il lasso di tempo ventiquattro anni: dal 1857 al 1881 - che separò nella realtà la nascita delle due versioni: si
direbbe che lo stesso Verdi, per trovare il vero senso di questo dramma, abbia avuto bisogno di
riconsiderarlo con uno sguardo retrospettivo, quello stesso sguardo che domina l'atto conclusivo
dell'opera e lo rende così umanamente struggente.
Se dal punto di vista drammaturgico la modifica più importante introdotta dalla versione 1881
riguarda il quadro che chiude il primo atto, composto ex novo e destinato a diventare la scena più
intensa e spettacolare dell'opera, sul piano poetico appaiono non meno determinanti i
cambiamenti alla prima parte del prologo e, in particolare, l'aggiunta di quel breve ma
straordinario preludio il cui motivo principale – «una cellula drammatico–narrativa a vite
perpetua», come la definisce Massimo Mila – sembra far scaturire il dramma dalle brume della
memoria, dando piena evidenza musicale all'idea fondamentale del trascorrere del tempo.
Il colore complessivamente severo deriva sia dal largo impiego di uno stile vocale tra il declamato
e l'arioso (quanto a dire dall'assenza di motivi orecchiabili: a nessuna delle arie è toccato in sorte
di entrare a pieno titolo nel repertorio concertistico), sia dal predominio delle voci gravi e virili
(Simone, Fiesco, ma anche i congiurati Paolo e Pietro, e lo stesso coro, per lo più maschile), cui si
contrappone una sola voce femminile: quella luminosa e calda del soprano lirico che interpreta il
ruolo di Amelia, la giovane donna tenera e gentile, coinvolta suo malgrado nel dramma
esistenziale e politico degli uomini che l'amano e ne fanno oggetto delle loro contese.
Il protagonista, un plebeo dall'animo nobile provato in gioventù da un atroce dolore, canta nel
registro vocale più caro a Verdi, quello di baritono. Il suo nemico, l'inesorabile patrizio Jacopo
Fieschi - una figura di padre-padrone ricorrente spesso nel teatro verdiano, da Zaccaria (Nabucco)
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a Rigoletto, da Giorgio Germont (La traviata) ad Amonasro (Aida), da Filippo II (Don Carlos) al
Marchese di Calatrava (La forza del destino) - in quello di basso.
Più sullo sfondo si staglia la coppia degli innamorati, costituita da Amelia e Gabriele Adorno, il
giovane patrizio dall'animo ardente ma leale (tenore). La loro limpida storia d'amore ha la
funzione di creare un contrasto con le torbide, inespresse passioni, incancrenite dal tempo, che
tormentano gli animi dei due antagonisti, segnalando in tal modo la distanza generazionale che
sussiste fra i due mondi. Quest'opera cupa e triste si conclude infatti con un lutto compensato
dalla promessa di un tempo migliore e con un messaggio di pace e d'amore: simile ad un passaggio
di testimone, la morte di Simone coincide con la promessa di nozze degli innamorati e con
l'elezione a Doge di Gabriele, cosicché il momento della riconciliazione nasce catarticamente da
quello della sofferenza.
Illuminante per comprendere il senso del lungo travaglio e dell'inutile odio che distrugge la vita di
Simone e di Fiesco è il peso che Paolo Albiani, il congiurato (un altro baritono) viene ad assumere
per effetto della revisione 1881, soprattutto sotto la spinta di Boito, fatalmente attratto verso
personaggi mefistofelici. Non è un caso che proprio la condanna a morte di Paolo, il simbolo stesso
del male, e la sua definitiva uscita di scena preceda immediatamente il grande duetto della
riconciliazione.
Musicalmente la partitura risente inevitabilmente degli anni che trascorrono tra la prima e la
seconda versione e delle esperienze umane ed artistiche del suo autore. Le parti nuove sono
facilmente riconoscibili e presentano una finezza di scrittura ed una brillantezza ritmica e timbrica
lontane dallo stile disadorno e un po' monocorde dell'opera del 1857. La tinta ombrosa che
caratterizza la prima versione permane anche nella seconda, ma attraversata da lampi sinistri che,
nella terribile scena della maledizione che chiude il primo atto, arrivano a coagularsi in effetti
espressionisti.
Opera avara di grandi arie, Simon Boccanegra si fa invece apprezzare per una straordinaria
aderenza della musica al dramma, già riscontrabile nella versione originale ma notevolmente
accresciuta dalla revisione, che elimina i brani più convenzionali e trasforma alcuni recitativi in
moderni declamati melodici. Unica pecca dell'opera - è stato detto - è la presenza di un secondo
atto che, per ragioni di struttura narrativa, Verdi non ha potuto rielaborare se non in minima parte
e che, nella sua brevità, schiacciato com'è tra la grandiosità della scena finale del primo atto e la
commovente tragicità del terzo, ha quasi l'aspetto di una parentesi e di un ritorno al Verdi più
convenzionale. Ma anche qui, la qualità della musica e la sintesi drammatica sono tali da
giustificare la piena riabilitazione che la critica ha ormai accordato a questa partitura intensa e
sottile, che, tra le altre cose, ha il merito di offrirci uno dei ritratti più autentici dell'uomo Verdi:
pessimista, scuro ma – come la sua opera – sempre umano e profondo.
TRAMA
Prologo: Una piazza di Genova – A destra il Palazzo dei Fieschi – È notte.
È il 1339. Sta per essere eletto il nuovo Doge e in città fervono le lotte fra il partito plebeo,
capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e quello aristocratico legato al nobile Jacopo Fiesco.
Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l'ascesa al trono dogale di Simone Boccanegra, un
corsaro che ha reso grandi servigi alla repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e
ricchezza. Giunge Simone, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, la donna
amata che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del
padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il riluttante Simone ad accettare la candidatura
prospettandogli che, una volta eletto Doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro
chiede al popolo di votare per Simone e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di
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donna: forse è Maria, la fanciulla da tempo scomparsa (L'atra magion vedete?). Tutti si
allontanano.
Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Voci pietose intonano un Miserere (A te
l'estremo addio). Sopraggiunge Simone e, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di
perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della
nipote, egli confessa che la bambina fu da lui affidata ad un'anziana nutrice in un paese lontano,
ma poi la nutrice morì e la bambina scappò via di casa e quindi scomparve. Svanita ogni speranza
di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simone, che entra nel
palazzo in cerca della prigioniera. Dall'interno dell'edificio giunge un grido disperato: «Maria!» e
proprio in quel momento il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo Doge.
Tra il Prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molti fatti: il Doge ha esiliato
i capi degli aristocratici, confiscandone le proprietà, e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio in un
palazzo fuori Genova, sotto il nome di Andrea Grimaldi mentre Simone pensa che Fiesco sia morto.
Anni prima, però, Fiesco e la famiglia Grimaldi, trovarono una bambina nel convento in cui era
appena morta Amelia, la figlia dei Grimaldi, e decisero di adottarla e di darle il nome della figlia
morta per evitare che il Doge di Genova confiscasse le ricchezze della famiglia; ma questa orfana,
all'insaputa di tutti, altri non è che la vera figlia di Maria e Simone. Trascorsi venticinque anni,
Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno, che essendo l'unico a sapere che Jacopo
Fiesco e Andrea Grimaldi sono la stessa persona, congiura con lui contro il Doge plebeo.
Atto primo
Quadro primo: Giardino dei Grimaldi fuori Genova.
Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza (Come in
quest'ora bruna), e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione
contro Simone (Vieni a mirar la cerula).
Pietro annuncia l'arrivo del Doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo
favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con
Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Jacopo Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un'orfanella a cui,
lui e i Grimaldi, hanno dato il nome della vera figlia dei Grimaldi e essendo degno di lei lo
benedice.
Squilli di trombe annunciano l'entrata del Doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione
della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un
giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli
rivela di essere orfana (Orfanella il tetto umile). Simone, sentendo la parola orfana, la incalza con
le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi
recano l'immagine di Maria! Padre e figlia si abbracciano felici.
Al ritorno di Paolo, Simone gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi,
organizza per la prossima notte il rapimento di Amelia.
Quadro secondo: Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati.
Il Senato si è riunito e il Doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia
ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi
al balcone, Simone scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento
di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il Doge lo precede ordinando che tutte le
porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida di «Morte
al Doge!», fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, che confessa di aver
ucciso l'usuraio Lorenzino, l'uomo che ha rapito Amelia per ordine di un «uom possente» del quale
non ha fatto in tempo a svelare il nome; poi, ritenendolo responsabile del rapimento, si slancia su
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Simone per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si pone fra i due e supplica il padre di salvare Adorno,
raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa
di Lorenzino. Poi, «fissando Paolo», dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento.
Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simone rivolge all'Assemblea e al
popolo un accorato discorso, invocando pace e amore per tutti (Plebe! Patrizi! Popolo...). Gabriele
gli consegna la spada ma il Doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l'intrigo
non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire
pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo
costretto a maledire se stesso.
Atto secondo
Stanza del Doge nel Palazzo Ducale di Genova.
Paolo, bandito da Genova, chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e
versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, egli chiede a Fiesco, l'organizzatore
confesso della rivolta, di assassinare il Doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa
riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di
Simone (Sento avvampar nell'anima). Quando giunge Amelia, il giovane l'accusa di tradimento con
il Doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l'arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime
confessa al padre di amare l'Adorno e lo supplica di salvarlo. Simone, combattuto fra i doveri della
sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che
l'acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di
lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il
Doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l'accusa di avergli ucciso il
padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia.
Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al Doge la sua vita (Perdon, perdono Amelia). Di
fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno
di riconciliazione il Doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede
la mano di Amelia.
Atto terzo
Interno del Palazzo Ducale.
La rivolta è fallita, il Doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannato a
morte. Mentre si reca al patibolo, egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo
sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e
Gabriele.
Giunge il Boccanegra, che sta cercando refrigerio al malessere che già lo pervade respirando sul
balcone l'aria del mare. All'improvviso gli si avvicina Fiesco (nei panni di Andrea Grimaldi) che gli
annuncia che la sua morte è vicina (Delle faci festanti al barlume). Da quella voce inesorabile, dopo
averlo osservato bene in volto, Simone riconosce con stupore l'antico nemico, ch'egli credeva
morto, e con un gesto magnanimo decide di rivelargli che Amelia è sua nipote. La commozione
invade l'anima del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l'inutilità del suo odio. Un
abbraccio pone fine alla lunga guerra.
Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simone invita la figlia a riconoscere in Fiesco il
nonno materno, benedice la giovane coppia (Gran Dio li benedici) e muore dopo aver proclamato
Gabriele nuovo Doge di Genova.
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“I MASNADIERI” di GIUSEPPE VERDI (1847)
Martedì 15 ottobre 2013; ore 15,30
Prima rappresentazione
22 luglio 1847
Teatro
Her Majesty's Theatre di Londra
PERSONAGGI
• Massimiliano, Conte di Moor, (basso)
• Carlo, figlio di Massimiliano (tenore)
• Francesco, altro figlio di Massimiliano (baritono)
• Amalia, nipote del Conte (soprano)
• Arminio, aiutante del Conte (tenore)
• Moser, pastore (basso)
• Rolla, compagno di Carlo Moor (tenore)
• Giovani, banditi, donne, bambini, servitori.
I masnadieri è un'opera lirica di Giuseppe Verdi tratta dalla tragedia omonima Die Räuber di
Friedrich Schiller.
L'opera venne rappresentata la prima volta a Londra il 22 luglio 1847. Giuseppe Verdi diresse
personalmente questa prima rappresentazione.
L'opera fu subito accolta con successo dal pubblico, anche se oggi non è molto rappresentata.
Un'importante ripresa è l'edizione discografica con Franco Bonisolli (Carlo), Matteo Manuguerra
(Francesco), Samuel Ramey (Massimiliano) e Joan Sutherland (Amalia) diretta da Richard Bonynge.
L’accesa polemica contro le istituzioni, il divampante sentimento rivoluzionario, il tema del
femminicidio rivivono nell’opera londinese di Verdi, ispirata all’esordio letterario di Friedrich von
Schiller. Primo lavoro espressamente composto per un teatro straniero, I masnadieri descrive il
lato oscuro delle condizioni sociali; non un esercito di eroi, ma una banda di malfattori: anime
smarrite, in fuga da se stesse, decise a non accettare le ingiustizie della vita. Il sentimento delle
opere risorgimentali cede il passo allo spirito schilleriano di rivolta cieca ed individualistica, sullo
sfondo della quale Verdi indaga su uno dei temi a lui più cari, il rapporto tra padre e figlio. Anche il
libretto, affidato all’amico Andrea Maffei, non contempla la bellezza artistica in quanto tale, ma,
teso a rendere giustizia all’estetica del brutto di Schiller, propone un lessico turpe e a tratti
antipoetico. Nella sua messa in scena, Leo Muscato mette a nudo il disfacimento interiore dei
protagonisti, sempre in bilico nel farsi percepire vittime e carnefici allo stesso tempo.
TRAMA
L'opera è ambientata in Germania nel XVI secolo.
ATTO I
Carlo ha abbandonato la casa paterna ma desidera ritornarvi (O mio castel paterno) quando viene
a sapere tramite una lettera firmata dal padre che egli lo ha bandito da casa e ha intenzione di
imprigionarlo. Carlo allora decide di porsi a capo di una banda di masnadieri (Nell'argilla
maledetta).
In realtà la lettera è stata scritta dall'invidioso e perfido fratello, Francesco, che intende
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impossessarsi dei territori del padre Massimiliano, il reggente di Moor. Chiama il servo Arminio e
gli ordina di vestirsi da soldato e di recarsi dal padre recandogli la falsa notizia che il figlio è morto
(Tremate o Miseri).
Intanto Massimiliano dorme placidamente, e Amalia, un'orfana adottata da lui, ed innamorata di
Carlo, lo contempla e ricorda l'amato (Lo sguardo avea degli angeli). Il vecchio si sveglia ed esprime
ad Amalia la sua preoccupazione per la lontananza di Carlo; entra Francesco che annuncia l'entrata
di Arminio travestito, che pronuncia la falsa notizia. Massimiliano non regge e sviene; Amalia,
credutolo morto, fugge, e Francesco già si bea di possedere i territori del padre (Morto? Signor son
io!).
ATTO II
Massimiliano viene creduto morto, e viene organizzato un banchetto in onore di Francesco.
Amalia si sottrae alla festa, e ricorda l'amato Carlo che crede morto (Tu che del mio Carlo); in quel
momento entra Arminio, che, pentito, svela la verità, e Amalia gioisce nel sapere che Carlo e
Massimiliano sono ancora vivi (Carlo vive!). Entra Francesco, che cerca di dissuadere la fanciulla a
ricordare l'amato morto, ma lei lo disprezza, continuando ad amare Carlo.
Nel frattempo Carlo, diventato capo dei masnadieri, è colpevole dei più atroci delitti, seppure
rimpianga la vita di prima e l'amata Amalia.
ATTO III
Amalia è riuscita a fuggire dal castello di Francesco, ma è terrorizzata dalle voci dei masnadieri che
sente nella foresta. Incontra Carlo, e i due si riabbracciano dopo tanto tempo. Amalia spiega che
Francesco è diventato signore dopo la morte di Massimiliano, e che egli intendeva usare violenza
su di lei; Carlo giura di vendicarla, ma prima si rinnovano le promesse d'amore (Lassù, lassù
risplendere).
I masnadieri intanto hanno preso come base delle rovine diroccate di una torre. Carlo veglia,
insonne, e scorge un'ombra avvicinarsi ad un pozzo con una grata, da cui esce una voce. È Arminio
che porta da mangiare ad un prigioniero, ma fugge spaventato appena vede Carlo. Carlo toglie la
grata e scopre che l'uomo nel pozzo è il vecchio padre, che racconta che era stato gettato nel
pozzo a morire di fame dal figlio Francesco (Un ignoto, tre lune or saranno) e sviene. Carlo giura
vendetta, e sveglia i masnadieri: insieme attaccheranno il castello di Francesco.
ATTO IV
Francesco, intanto, è colto dai rimorsi e dagli incubi: racconta ad Arminio un incubo in cui
sembrava di essere Caino maledetto da Dio (Pareami che sorto da un lauto convito). Arminio esce
ed entra Moser, un pastore, che gli comunica che Dio lo sta punendo per i suoi crimini; Arminio
rientra e comunica che i masnadieri stanno invadendo il castello, e Francesco, anche se sa di
morire in breve, lancia l'ultima bestemmia contro Dio.
Massimiliano, nel covo dei masnadieri, continua ad invocare invano Francesco, e a chiedere il
perdondo di Carlo. Infatti non sa ancora che il capo dei masnadieri è suo figlio; Carlo dice che il
figlio lo perdonerà. In quel momento entrano i masnadieri, di ritorno dal castello, conducendo
Amalia come prigioniera. Carlo, allora non può più tenere nascosto niente al padre e all'amata: egli
è a capo di quella masnada di ladri ed assassini (Caduto è il reprobo!). Amalia giura di amarlo
anche se a capo dei masnadieri, ma Carlo, piuttosto che portarla in mezzo alla polvere, la uccide, e
si appresta a consegnarsi alla giustizia.
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