SETTIMANALE CULTURALE DI CONQUISTE DEL LAVORO CULTURA 732 VIAPO Quello delle 150 ore era un diritto non esigibile automaticamente e, all’inizio, la maggioranza dei lavoratori ne era consapevole molto blandamente, per questo grande rilievo ebbe il vasto gruppo di delegati che dedicò anni alla promozione delle 150 ore per il diritto allo studio, trasformando un istituto contrattuale in un’esperienza peculiare e di massa... Tra scuola e fabbrica Un’esperienza straordinaria Ildebito aperto delle150ore di BRUNO MANGHI Il mio primo contatto con le 150 avvenne durante un’assemblea nazionale a Genova di Fim Fiom Uilm (ancora non era stata costituita l’Flm) nella quale si discutevano le linee contrattuali. Erano presenti sindacalisti come Pietro Marcernaro, Gastone Scalvi, Pippo Morelli, Enzo Mattina e si cominciò a discutere il tema di un nuovo diritto allo studio per gli operai. L’idea originaria era di Bruno Trentin e si rifaceva all’esperienza francese del bonus orario per la formazione professionale o preprofessionale che prevedeva permessi retribuiti per lo studio. Si discuteva del fatto che si sarebbe potuto fare qualcosa di più per superare il basso livello di scolarizzazione dei lavoratori italiani, in particolare per quel che riguardava i lavoratori immigrati dal Sud, il Mezzogiorno stesso, le donne. Si cominciò a ragionare in questo senso, avendo di fronte la copiosa esperienza delle scuole popolari in tutta la penisola e, in particolare, la più famosa di queste: l’esperienza di don Lorenzo Milani a Barbiana. Fiorivano infatti queste scuole popolari e tanti di noi sindacalisti e militanti, vi erano impegnati. Si trattava di scuole popolari di origine cattolica, valdese, ma anche laica. Riproducevano la tensione donmilaniana della scuola aperta, preparando soprattutto ragazzi e ragazze, ma anche adulti. Si assisteva a una sperimentazione molto varia sul piano dei programmi, in alcuni casi a un recupero di conoscenze elementari ed in altri allo sviluppo di una pedagogia mobilitante e dell’utilizzo su larga scala del lavoro di gruppo. Eravamo debitori e ispirati alla grande figura di Paulo Freire e all’importante movimento che nel dopoguerra si è sperimentato seguendo le sue idee pedagogiche. Le 150 ore erano una forma, potremmo dire, di risparmio contrattuale: una quota di salario che andava in un’altra direzione, forse la definizione migliore è quella di «investimento contrattuale». Esse si inseriscono in un percorso negoziale più ampio che il di TULLIO DE MAURO sindacalismo industriale ha sperimentato molto in quegli anni, non fermandosi ai soli aspetti salariali, e inserendosi in un quadro storico dell’emancipazione popolare italiana. Quello delle 150 ore era un diritto non esigibile automaticamente e, all’inizio, la maggioranza dei lavoratori ne era consapevole molto blandamente, per questo grande rilievo ebbe il vasto gruppo di delegati che dedicò anni alla promozione delle 150 ore per il diritto allo studio, trasformando un istituto contrattuale in un’esperienza peculiare e di massa. La metodologia adottata venne riassunta con lo slogan: «dalle storie alla storia», si utilizzava il lavoro di gruppo, senza Continua a pagina 6 Un debito aperto, un futuro per pagarlo: sono le parole che mi vengono in mente dopo avere letto questo lavoro documentato, frutto di passione e intelligenza, con cui Francesco Lauria ha ricostruito i prodromi, i primi passi, poi gli sviluppi dei corsi delle 150 ore e ci propone le memorie di molte e molti che furono protagonisti dell’esperienza. Non sono ben sicuro di conoscere tutti i miei “mancamenti”. Di uno sono abbastanza certo ed è l’aver scritto molto. C’è un vantaggio, però: la possibilità di utilizzare i troppi scritti come pagine di un diario. Vincendo l’appannamento senile della vista e rileggendoli è possibile almeno in parte vincere l’altro appannamento, più grave, quello della memoria, e ripercorre con qualche precisione ciò che si visse in passato. Devo il mio primo contatto diretto con i corsi delle 150 ore all’arrivo di un libretto dal titolo singolare: “Allora … più si studia più si diventa amici del padrone?”. Me lo aveva mandato qualcuno della Lega delle Autonomie, editrice del libretto nel 1972. Era il rendiconto documentato delle discussioni, assemblee e attività del corso serale per operai della Maserati a Modena, sostenuto dal Consiglio di fabbrica, svoltosi nelle aule dell’ITIS Fermi con l’impegno degli insegnanti, in primis il professor Luciano Camurri, come ho scoperto molti anni dopo. In quella e in successive esperienze l’anonimato era di rigore, sull’esempio della Lettera a una professoressa (credo, non del Manifesto di Marx e Engels). In tempi ancora più recenti, un amico modenese, combattente e reduce di quell’esperienza, ha voluto regalarmi l’antefatto di quel libretto, un librino ciclostilato di 74 pagine (10,5x16): Il corso di 3a media per lavoratori-studenti dell’E.Fermi di Modena, “a cura di un gruppo di studenti e insegnanti del corso di 3a media” (ma “gli insegnanti” erano di nuovo soprattutto il Camurri). L’articolo di “Paese sera” (27.4.73) segnala le cose importanti di quel libretto: la tecnica del “sottomarino” (i più bravi scendono in immersione per andare a ripescare quelli più indietro); la messa in crisi dell’impianto monodisciplinare degli insegnamenti nella scuola media e la conquista dell’idea di interdisciplinarità come “identificazione delle matrici storiche in cui si radicano le diverse componenti dell’attività intellettuale e pratica umana”; la conseguente accentuazione della centralità che la consapevolezza storico-politica e il dominio orale e scritto dei mezzi espressivi hanno nell’acquisizione e sviluppo di conoscenze e capacità operative e relazionali. Lezioni per me memorabili che hanno orientato gran parte di quel po’ che ho poi potuto studiare e fare in materia educativa e linguistica. Da allora ho più volte scritto di ciò che traevamo, io e altri, dai corsi delle 150 ore e dalle indagini che vennero allora fatte da molti. Ricordo qui almeno quelle svolte da Vincenzo Guerrazzi all’Ansaldo di Genova, da Ninetta Zandegiacomi sul giornalismo Continua a pagina 6 VIAPO 17 settembre 2011 CULTURE E SOCIETA' Bruno Manghi Segue da pagina 5 annullare l’insegnamento teorico, ma lavorando in una modalità che era intrisa inevitabilmente della vicenda umana delle persone, dei lavoratori che erano in classe. Fu quindi una storia di crescita collettiva, pur senza voler negare le difficoltà che ci furono. Quello delle 150 ore era un mondo in cui poteva capitare di tutto: la strumentalizzazione politica dei corsi era largamente possibile, ma posso affermare che ha prevalso la voglia di crescere delle persone. Raccogliemmo moltissime testimonianze di operaie su cosa significava riprendere lo studio interrotto, in particolare rispetto ai loro figli. Il dato di realtà su cui ci dovemmo confrontare fu l’insuccesso di produrre, attraverso le 150 ore, un intervento più generale e profondo nel sistema della scuola e dell’istruzione italiana. Possiamo affermare che si trattò di un grande balzo in qualche misura interrotto. Anche il fatto che la memoria di questa grande esperienza non sia patrimonio complessivo di tutto il movimento sindacale è legato al fatto che esse furono una pratica costruttiva e non conflittuale. Si ricordano più facilmente gli aspetti drammatici e di conflitto, rispetto alle dinamiche collaborative. In questo oblio non sono coinvolte solo le 150 ore, ci sono anche altre esperienze. Si pensi, ad esempio, a tutto il lavoro comune tra il sindacato, i delegati e le cliniche del lavoro nel Nord Italia, legato alla nocività e alla salute e sicurezza sul lavoro che è oggi praticamente dimenticato. Una riflessione va fatta anche sul cosiddetto «declino» delle 150 ore. Nel passaggio dalla fabbrica al territorio, semplicemente non c’era più il sindacato. Mentre prima avevamo migliaia di delegati e delegate che si interessavano alle 150 ore, negli anni ottanta tutto cade sulle spalle di pochi sindacalisti a tempo pieno e a livello confederale. Le esperienze migliori si sono trasferite all’azione degli enti locali, ai corsi per stranieri, ma il sindacato non ne fu più protagonista. Degna di nota fu anche l’esperienza delle 150 ore nelle università. Nelle trattative per organizzare le 150 ore nell’Università Cattolica di Milano mi trovai a confrontarmi con Mario Romani, importante teorico della Cisl, che allora era vicerettore dell’ateneo. Ci incontrammo dopo anni e Romani fu molto collaborativo, tanto che la Cattolica fornì addirittura un tesserino specifico per i lavoratori che frequentavano i corsi. Va riconosciuto che producemmo soprattutto una crescita individuale delle singole persone che faticò a trasferirsi a un processo di trasformazione collettiva. Il discorso vale in parte anche per le 150 ore «ordinarie». E oggi? L’idea di formazione continua resta troppo legata a un esito occupazionale e alla retorica del rafforzamento dell’occupabilità. È un impoverimento rispetto agli obiettivi e alle pratiche originarie, e un aspetto molto sopravvalutato rispetto alla reale incidenza sulla realtà del lavoro. L’Educazione degli adulti di oggi è in gran parte rappresentata da un’autoformazione, si pensi all’utilizzo delle nuove tecnologie, alle esperienze significative delle Università popolari e della Terza età, al ruolo dell’associazionismo, ai temi della salute eccetera. Rispetto alla fruizione collettiva delle esperienze di istruzione, formazione ed educazione degli adulti io credo, in sincerità, che non sia un problema di stimolo della domanda formativa. C’è un surplus di voglia di fare rispetto alla realizzabilità. Il deficit sta nella grande macchina organizzativa, in particolare del sindacato, che è troppo distratto. Ci sono, è vero, delle eccezioni positive, in particolare rispetto alle attività svolte per e con gli stranieri, dove anche il sindacato è protagonista e presente. Ma il sindacato deve prendere maggiore consapevolezza che esso stesso è un’esperienza formativa. Gli attivisti 6 Tullio De Mauro volontari, i delegati, vivono in percorso formativo in nuce, sono centinaia di migliaia, il sindacato è, di fatto, una grande macchina formativa. Il lavoro mantiene una potenzialità straordinaria di esplorazione del mondo e di accrescimento dei saperi, è un’opportunità che va maggiormente organizzata e anche condivisa con la controparte quando ve ne è la possibilità. Non dobbiamo illuderci su missioni che non sono più di questo tempo, ma il percorso positivo che si può fare in questo ambito è davvero significativo. Aggiungo una sola considerazione finale. Le 150 ore rappresentarono un’azione ricostruttiva e costruttiva nel solco antico di un movimento sociale che coniuga conflitto e costruzione. Il collegamento automatico è al primo mutualismo del movimento operaio, con l’avvertenza che, mentre quello fu un’esperienza completamente autogestita, noi, nell’organizzare e sviluppare le 150 ore, abbiamo chiesto e ottenuto molto anche dallo Stato. *Il testo qui pubblicato costituisce uno stralcio della Prefazione al volume di Francesco Lauria, Le 150 ore per il diritto allo studio. Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale (Edizioni Lavoro, Roma 2011, pp. 296, euro 16) Segue da pagina 5 operaio e sui giornali legati ai corsi, da Lorenzo Coveri e Alessandra De Nardis di nuovo a Genova in un centro ANCIFAP (la sigla non c’è nell’utile siglario – una rarità nei documenti sindacali- premesso da Lauria al libro: era l’acronimo dell’Associazione nazionale centri IRI di formazione e addestramento professionale); da Gabriella Rossetti Pepe nel suo primo tentativo, nel 1975, di tirare le somme della didattica delle 150 ore. Anche a Roma (Gabriella rifletteva esperienze milanesi) ci movemmo in questa direzione con un volumetto collettivo sulla Didattica delle 150 Ore, in cui potei pubblicare un lungo capitolo sull’educazione linguistica nelle 150 ore, poi ristampato con altri miei lavori in Scuola e linguaggio (Editori Riuniti, Roma 1977). Tralascio esperienze personali dirette di anni di poco successivi, come le lezioni nel corso per lavoratori studenti dentro la Facoltà di lettere di Roma in permanente semioccupazione nel 1976 e 1977 e il più lungo impegno nel e per i corsi di alfabetizzazione degli adulti nel comune di Scandicci, complice e protettore il provveditore fiorentino dell’epoca, animatrice e perno Gigliola Sbordoni, allora funzionaria del comune. Voglio ricordare qui soprattutto altro. Maturò in quegli anni la coscienza che il portato educativo dei corsi andava esportato all’intera scuola ordinaria (“Paese sera” 2 gennaio 1976). Un documento allora diffuso, le Dieci tesi per una educazione linguistica democratica del 1975 furono un primo riflesso di questa coscienza, Ma il riflesso più significativo sul piano istituzionale furono la legge di riforma dei programmi della media inferiore e la conseguente elaborazione, nel 1979, dei nuovi programmi. Stentò invece a lungo il trasferimento dell’esperienza con i suoi risultati sul piano apparentemente più ovvio e naturale: l’apprendimento permanente in età adulta, il passaggio a un sistema nazionale di istruzione degli adulti per coordinare e integrare il coacervo di strutture, centri, iniziative che dovrebbero favorire il rientro periodico in età adulta in percorsi formativi. Non sono più pochi oggi coloro che si rendono conto del peso negativo che la deficitaria condizione di literacy e numeracy degli adulti italiani ha su tutta la nostra vita, sociale, produttiva, economica, perfino, ha spiegato una volta Tito Boeri, finanziaria. Ci sono stati negli ultimi anni parecchi lampi di attenzione. Ma i lampi non fanno una luce, la necessaria luce diffusa e continua sul mondo oscuro della bassa scolarità intrecciata a una minacciosa e ancor più grave dealfabetizzazione in età adulta. I pochi non fanno massa critica, perfino iniziative sindacali importanti paiono restare isolate e senza seguito. I dati sui dislivelli di competenze della popolazione adulta italiana, accertati dalle due consecutive indagini osservative promosse da Statistics Canada in diversi paesi, sono nell’intrinseco clamorosi e a me sono apparsi e appaiono francamente drammatici come altrove ho cercato di dire. Ma poche orecchie hanno avvertito il clamore e il dramma non richiama pubblico. Ora l’OCSE ha annunziato che riprenderà quelle indagini per tutti i paesi che ad essa aderiscono e si associano in una rilevazione che dovrebbe ripetersi con cadenza triennale, il Piaac, Programme for international assessment of adult competencies, i cui primi risultati sono attesi per il 2013. Non è irragionevole temere che anche i risultati della nuova indagine possano cadere, qui in Italia, nel silenzio più distratto. Questo lavoro di Lauria, così denso di documenti e riflessioni, può essere l’occasione per aprire un rinnovato discorso e, soprattutto, un rinnovato, coordinato impegno per ottenere in Italia un sistema nazionale di promozione degli apprendimenti in età adulta. Il lavoro lo merita e lo esige il patrimonio umano, culturale e civile che è il lascito prezioso delle 150 ore. Chi di noi sa, chi di noi ricorda, non deve stancarsi di contribuire a costruire un futuro in cui quel lascito sia lievito attivo della costruzione e del funzionamento delle scuole per adulti. Quando ci riusciremo il volume di Lauria sarà un prezioso breviario e promemoria. *Il testo qui pubblicato è la Postfazione al volume di Francesco Lauria, Le 150 ore per il diritto allo studio. Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale.