Illustrazione
di Irene Bedino
LA RESA
CHE CHIUDE
UN’ERA
MICHELE BRAMBILLA
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
S
e è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il
grano dal loglio, già oggi si
può dire che sia Berlusconi sia
Bossi sembrano migliori da
vinti che da vincitori. Uomo destinato
(e non solo per colpa sua) a dividere,
Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi
l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha
saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi
falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.
Allo stesso modo, Bossi mostra più
nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia
mostrata restando - non si sa quanto
consapevolmente - attaccato a un trono
che era diventato la vacca da mungere
da parte di una losca compagnia di giro.
La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili
che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte
ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto
il porta vessillo della versione più me-
schina della bandiera italiana: quella
che, come diceva Longanesi, al centro
ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece
credere alla sua prima moglie di essere
medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e
per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.
Miserie, fragilità, debolezze. Da
guardare però con misericordia nel
giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio
capo che con orgoglio parla a un collega
del figlio che - crede lui - ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton;
e che poi apprende con sgomento che il
libretto universitario del suo erede non
ha dei trenta ma degli spazi bianchi.
Proprio perché noi non ci vergogniamo
a essere italiani nel bene e nel male, non
ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.
Così è strana la vita: il politico del
«celodurismo» cade per essere stato
troppo debole in famiglia; e l’uomo che
dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio
di quanto abbia vissuto anche e soprat-
tutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico
e arriva a pronunciare parole inaudite
nel mondo della politica: «Chi sbaglia
paga, qualunque cognome porti».
Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della
malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un
fallimento politico. È stato grande nel
trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto
grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che
avrebbe potuto arruolare (la migliore,
Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello
spazio»), poi dissipando anni e anni di
governo senza mai realizzare una sola
delle riforme annunciate. Se la Lega
non gli sopravviverà, non sarà perché
non vi può essere un altro leader dopo
di lui, ma per i vent’anni di promesse
non mantenute.
Anche qui, sarà la storia a rispondere.
Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che
ci fa immaginare per le elezioni del 2013
una destra e un quadro politico generali
completamente diversi - e speriamo migliori - rispetto agli ultimi vent’anni.
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