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aderenza alla terapia:
quando la pillola non va giù
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è una iniziativa editoriale di Diabete Italia Onlus
Via Pisa, 21 • 00162 Roma Tel. 06 44240967 • Fax 06 44292060
Web: diabeteitalia.it [email protected]
Impaginazione e cura dei testi
In Pagina sas Milano
Stampato nel mese di ottobre 2014
DA NOI
SOMMARIO
Prefazione
03
I costi della non-aderenza
05
I numeri della non-aderenza
Una conseguenza dello sviluppo delle cronicità
Un problema difficile da affrontare
Uno spreco di risorse
Una scelta spesso cosciente
Le forme della non-aderenza
11
Non dare seguito alla prescrizione
Ridurre le dosi e la frequenza di assunzione
Dietro la dimenticanza
Interrompere la terapia
Foglietti informativi ed effetti collaterali
Effetti incrociati
I motivi della non-aderenza
21
Ma perché devo curarmi?
Mi fa sentire malato
Prendo troppe medicine
Impatto sulla vita quotidiana
Perplessità sui farmaci in generale
Controllare aiuta
Il rapporto con il medico
Bibliografia
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Diabete Italia ringrazia le persone che hanno condiviso il
loro tempo e la loro esperienza per realizzare questo libro
e Doc generici per aver reso possibile con il proprio
contributo la realizzazione di
Aderenza alla terapia: quando la pillola non va giù.
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prefazione
Un fantasma si aggira tra i medici (e tra i pazienti). È il fantasma della aderenza o meglio della ‘non aderenza’. In media metà delle prescrizioni farmacologiche redatte dai
medici non sono seguite dai pazienti. Un po’ di meno nei Paesi dove il Sistema Sanitario
copre interamente il costo dei farmaci, di più nei Paesi dove il paziente deve pagare in
tutto o in parte le medicine.
Le forme della non aderenza alla prescrizione sono varie, così come le sue cause, e
sono grato a Doc Generici per aver permesso a Diabete Italia di contribuire alla riflessione (ancora scarsa) sul tema, facendo sentire la voce delle persone 'aderenti' e non.
La non aderenza non è un fenomeno specifico del diabete, ma anche in questo campo
l’assistenza al diabete è paradigma per tutte le malattie croniche. Questo primato le
viene dalla presenza di un ricco tessuto di Associazioni che stimolano le Società Scientifiche a valutare quel che avviene sul campo.
I sistemi sanitari devono evolvere per affrontare questa nuova sfida. Chi prescrive deve
cambiare le sue abitudini così come chi non mette in atto la prescrizione. Il medico deve
creare una situazione di fiducia che permetta di arrivare a una prescrizione condivisa.
È urgente affrontare il tema perché non seguire una terapia significa peggiorare la propria salute, con esiti clinici e costi sanitari maggiori, significa ridurre la sicurezza del
paziente. Migliorare l'aderenza è un obiettivo che permette di rendere più efficace l’assistenza al diabete e a tutte le patologie croniche. Il che significa rendere più efficace
un intero sistema sanitario.
Salvatore Caputo
Presidente Diabete Italia
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i costi della non-aderenza
Da oltre vent’anni Elena ogni mattina prende la sua pastiglia per la tiroide. Dieci anni
fa ha aggiunto un ace-inibitore la sera: «Posso contare sulle dita di una mano le volte che
ho dimenticato di prendere l'una o l’altra», racconta. Paola invece è appena uscita dallo
studio del suo medico di famiglia: un valore fuori norma nelle sue analisi del sangue lo
ha convinto a prescriverle una pillola da prendere due volte al giorno, prima dei pasti.
Per quanto? Per molto tempo, forse per sempre. «Ci ho pensato un poco, ma non ero affatto convinta. Tornata a casa ho messo la ricetta in un cassetto e l’ho lasciata lì». Antonio ha
iniziato una terapia simile, ma senza dire nulla allo specialista ha ridotto le dosi, ‘saltando’ la pillola del pranzo («andiamo a mangiare tutti insieme e mi secca prenderla davanti ai
colleghi», ammette) e spesso, a volte per settimane intere, trascura del tutto la terapia.
Laura ha seguito con attenzione le indicazioni del medico «ma, andando in ferie non ho
portato con me la medicina e, tornata a casa, non l'ho più ripresa».
I comportamenti di Paola, Antonio e Laura fanno parte di quella che nel gergo medico
è definita ‘mancata aderenza’ o ‘non-aderenza’ alla prescrizione. Nelle condizioni croniche, non solo nel diabete, “la scarsa aderenza alle terapie è un problema mondiale
impressionante per la sua dimensione”.1
I numeri della non-aderenza
Qualche cifra aiuta a capire che Paola, Antonio e Laura sono in ‘buona’ compagnia: la nonaderenza tra i pazienti con fattori di rischio o patologie cardiovascolari è stimata del 50% in
prevenzione primaria (evitare di sviluppare la malattia o l’evento) e del 30% in prevenzione
secondaria (evitare le complicanze o un ripetersi dell’evento) e riguarda tutte le categorie
di farmaci: anti-ipertensivi, statine, betabloccanti, antiaggreganti e anticoagulanti.
“Dalle analisi contenute nel Rapporto OsMed 2013”, informa l’Agenzia italiana del Farmaco, “poco più della metà dei pazienti (55,1%) affetti da ipertensione arteriosa assume il trattamento anti-ipertensivo con continuità”. Recenti studi osservazionali rivelano
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PAROLE
che quasi il 50% dei pazienti in trattamento con antidepressivi sospende il
trattamento nei primi tre mesi di terapia
L’aderenza è definita dalla Organizzae oltre il 70% nei primi sei mesi. I dati
zione Mondiale della Sanità “la misura
provenienti dai database amministrativi
in cui il comportamento di una persodelle ASL mostrano che per gli antidiana: assumere un farmaco, seguire una
betici la percentuale di pazienti aderendieta o cambiare il proprio stile di vita,
ti al trattamento è stata pari al 62,1%.
corrisponde alle raccomandazioni conBassi livelli di aderenza al trattamento
cordate con un operatore sanitario”. 1
(14,3%), in lieve aumento rispetto al
2011 (+2,4%), si registrano anche per
l’asma e la bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Per tutte le classi terapeutiche si registra in genere una aderenza
più bassa al Sud”.2 E per ‘aderenza’ non si intende una assoluta fedeltà alla prescrizione: è sufficiente seguire le indicazioni nell’80% dei casi per essere considerati aderenti.
Se poi si parla di stili di vita, le prescrizioni relative all'alimentazione e all’esercizio fisico
sono trascurate ancora più spesso. Secondo uno studio recente solo il 2% degli americani con diabete segue tutte le prescrizioni previste dalle Linee guida della American
Diabetes Association.3 Sempre negli Stati Uniti, alla fine del primo anno di terapia, solo
il 15% delle persone con diabete di tipo 2 prende regolarmente i farmaci orali prescritti.1
Una conseguenza dello sviluppo delle cronicità
Quando la terapia è di breve durata – come avviene nelle malattie acute – interviene
in modo percepibile su un sintomo o contribuisce a migliorare sensibilmente lo stato di
salute, l’aderenza è quasi del 100%. In questi casi il problema è semmai la tendenza
a interrompere la terapia quando cessano i sintomi e prima della fine del ciclo di cura,
come purtroppo accade con gli antibiotici. «Lo ammetto», dice Antonio, che ha 60 anni
e vive in Puglia, «spesso quando la febbre se ne va e torno a sentirmi bene, non continuo a
prendere l’antibiotico fino alla fine della terapia».
Oggi, nei Paesi avanzati, la stragrande maggioranza degli atti di cura e quasi due terzi
della spesa sanitaria sono invece rivolti a malattie o condizioni croniche. Quindi sem-
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pre più spesso la terapia serve a rimuovere o a ridurre un fattore di rischio. Quando la
terapia è complessa o costosa, e soprattutto quando si aggiunge ad altre terapie come
accade quasi sempre nella popolazione anziana, la percentuale di non-aderenza supera spesso il 50%.
È significativo notare che sono disattese spesso anche terapie in situazioni critiche: dal
17 al 63% delle persone con HIV negli Usa non assume i farmaci necessari per evitare
lo scatenarsi dell’Aids.5 Secondo una testimonianza riportata in un editoriale del direttore dell’American Journal of Medicine, a un anno da un infarto, il 50% dei pazienti non
assume più i farmaci che possono ridurre il forte rischio di una recidiva.17
Un problema difficile da affrontare
La mancata aderenza ha dei costi pesantissimi: spreca risorse oggi e pone le basi per
lo scatenarsi di malattie o eventi (nel caso del diabete: infarti, ictus, cecità, amputazioni, dialisi) tragici per la famiglia e pesanti per la collettività. Migliorare l’aderenza alle
terapie “può avere un impatto molto maggiore sulla salute della popolazione rispetto a
qualsiasi miglioramento delle terapie stesse”.6
Disgraziatamente non è assolutamente facile. Di sicuro dare la colpa ai pazienti serve
a poco. Così come, all’opposto, attribuirla al poco tempo o alle scarse capacità relazionali del medico. Il fatto è che il passaggio dalla malattia acuta alla malattia cronica
richiede un cambiamento radicale del proprio ‘paesaggio mentale’ così come delle
strutture sanitarie e della relazione fra medico e paziente. Sia i pazienti sia gli operatori
sanitari devono ancora abituarsi a questa evoluzione.
L'aderenza è uno dei tanti possibili sviluppi del rapporto che la persona crea, negli anni
o nei decenni, con la ‘sua’ terapia. «Quando prendi la stessa pillola per decenni sviluppi
un rapporto con quella medicina. Diventa come un matrimonio», dice Giorgio, 46 anni, che
lavora in un tribunale in Campania; «un po’ ci si ama, un po’ ci si odia, molto ci si sopporta».
Questo dialogo continuo e complesso si svolge però di nascosto. Di rado se ne parla
nelle Associazioni fra pazienti, ancora più di rado negli incontri tra medici.
Convinti che, come scrive l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “aumentare l’efficienza degli interventi sull’aderenza possa avere un impatto sulla salute della popolazione molto maggiore di qualsiasi evoluzione dei trattamenti stessi”,1 si sono mossi
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invece i Sistemi Sanitari negli Stati Uniti, in Europa (vedere box sotto) e in Italia, dove
l’Agenzia Italiana del Farmaco segue con molta attenzione l'aderenza alle prescrizioni,
e si muove Diabete Italia, che ha posto l’aderenza al centro della riflessione comune
di Associazioni e Società Scientifiche, convinta di rappresentare un forum ideale per
approfondire questo tema.
Questo libretto della collana Dettodanoi dà voce a chi non ha seguito le prescrizioni (soprattutto a loro) non certo per avallare queste scelte inappropriate e a volte pericolose.
La voce di Diabete Italia si sente nei riquadri che propongono dei modelli a medici e
pazienti. Tuttavia ringraziamo le persone che hanno voluto condividere, spesso parlandone per la prima volta, i loro vissuti difficili con la terapia e pensiamo di aver fatto bene
a dare loro ‘cittadinanza,’ a farle uscire da un buio che le rinforza.
Uno spreco di risorse
Non si riflette abbastanza sul gigantesco spreco di risorse e sui danni cui la mancata
aderenza può dare origine. Il New York Times già molti anni or sono denunciava: “La
mancanza di aderenza alla prescrizione di farmaci può essere definita ‘l’altro problema
dei farmaci’ in America [il primo è, all’opposto, l’eccessivo e inappropriato consumo di
medicinali, NdR] e porta a una progressione della malattia che poteva essere evitata,
a complicanze, a ridotta funzionalità, a una più bassa qualità della vita e perfino a una
possibile morte prematura”.10
I costi si rilevano a tre livelli. Prima di tutto lo spreco. La prescrizione è il frutto del lavoro
del medico che l’ha elaborata (e bisogna considerare una quota di tutta la formazione
che gli ha permesso di fare quella prescrizione e dei test diagnostici che hanno supportato la decisione).
Il secondo livello è la quantità di medicine acquistate, pagate (dalla famiglia o dal Servizio Sanitario) e non utilizzate. Ma il costo principale è quello indicato dal New York
Times: "Una terapia che non viene seguita non può avere un effetto. Questa è una delle
poche certezze che esistono in Medicina. Le terapie per le condizioni croniche di rado
possono garantire un risultato al 100% ma nel complesso sono efficaci.
L’Aifa ricorda che in una recente metanalisi2 (uno studio fatto valutando un gran numero di altri studi), il rischio relativo di esito clinico sfavorevole per i pazienti non aderenti
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al trattamento attivo è risultato pari a 5,4 volte maggiore per la terapia anti-ipertensiva,
a 2,8 per la terapia ipolipemizzante e a 1,5 volte per la terapia anti-ischemica. In pratica
chi non segue la terapia rischia molto di più rispetto a chi la segue. Uno studio4 citato
da3 mostra che nel 26% dei casi le persone con 75 anni o più sono ospedalizzate a causa di ‘reazioni avverse ai farmaci’. La percentuale è dell'1% fra gli over 65. Le reazioni
avverse ai farmaci sono quasi sempre dovute alla non-aderenza (terapie discontinue,
dosaggi inferiori o superiori a quanto prescritto).
Negli Stati Uniti si è tentato più volte di quantificare i costi diretti della non-aderenza. Il
Piano di azione nazionale avviato nel 2007 ha stimato i costi evitabili – per i soli pazienti
con molte malattie croniche – in 1,3 miliardi di dollari. Ma l’IMS,12 nel giugno 2013, ha
valutato in 105 miliardi di dollari all’anno – 72 miliardi dei quali in cure ospedaliere – il
possibile risparmio che una prescrizione e un utilizzo responsabile dei farmaci potrebbero creare. Sarebbero evitabili 125 mila morti all’anno e il 40% delle ammissioni in
case di cura per anziani (per le sole persone con diabete).11
In Europa le prescrizioni inappropriate e la scarsa aderenza porterebbero a un aumento
dei costi di 80 miliardi all’anno sui bilanci sanitari degli Stati membri della UE.
Una scelta spesso cosciente
Contrariamente a quello che si può pensare, non esiste un profilo-tipo del paziente che
non aderisce alla terapia. L’età, il sesso, il livello educazionale, l’occupazione, lo stato
anagrafico, l’etnia, la religione, il fatto di vivere in contesti urbani o rurali, non sono stati
associati in maniera inequivocabile all’aderenza.13
Ci sono delle situazioni ad alto rischio nelle popolazioni scarsamente alfabetizzate o
in contesti sociali assai degradati o nelle persone con problemi seri di memoria o di
coordinamento o di depressione o non autonome e assistite in modo discontinuo; nella
maggior parte dei casi però, la scelta di non seguire la terapia è cosciente ed è mossa
da esperienze, percezioni, informazioni e attese, relative sia alla terapia sia alla malattia
o al rischio al quale la terapia si riferisce. Intorno a queste valutazioni specifiche ci sono
atteggiamenti per così dire ‘ideologici’ relativi alle malattie croniche in particolare o ai
farmaci in generale.
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Le forme
della non-aderenza
Parafrasando Tolstoj, si potrebbe dire che le prescrizioni seguite, come le famiglie felici,
hanno una storia simile mentre ciascuno è non-aderente a suo modo. L’unico elemento
in comune fra le diverse forme di non-aderenza è l’impatto importante che la prescrizione ha – o minaccia di avere – sulla vita della persona e sul suo modo di vedere se
stessa e la sua salute.
Guglielmo lo afferma a chiare lettere: «Un medico che non ti ha mai visto né conosciuto,
dopo una visita sommaria, in quattro secondi, ti scrive una ricetta e pretende di entrare ogni
mattina e ogni sera nell’elenco delle cose che hai da fare, per non parlare di quello che le
medicine possono provocare nel tuo corpo». Per il paziente, soprattutto se è anziano, la
terapia è un elemento centrale della vita: una protagonista dei suoi pensieri. Nel corso degli anni e dei decenni si sviluppano e si modificano le valutazioni in un ‘dialogo’
complesso e quasi sempre svolto senza un confronto aperto fra due ‘esperti’. L’esperto
della patologia in generale da una parte e l’esperto della sua vita dall’altra.
Un elemento centrale della non-aderenza è la scarsa condivisione.16 Anzi, si potrebbe
dire che il nucleo della mancata aderenza è la mancata condivisione, da parte del
medico, delle ragioni che lo hanno portato a suggerire quella terapia a quel paziente
in quel momento. Cristiana, 50 anni, giornalista, pretende che lo specialista «cerchi di
capire chi sono io, qual è la mia situazione. Il medico deve capire chi ha davanti. Altrimenti
oggi, nell’era di Internet, a cosa serve?». «So che oggi le patologie sono curate seguendo Linee guida», conferma Gualtiero, 71 anni, imprenditore in pensione, «ma io devo ‘vedere’
che il medico sta ragionando sul mio caso. Devo vederlo valutare, riflettere, meditare per individuare la terapia giusta sulla base dell’insieme delle mie patologie e del mio modo di vivere».
Quando la prescrizione nasce su queste basi apre la strada all'aderenza, non solo per
una terapia, ma anche per quelle che seguiranno, come spiega Nanni, 69 anni, milanese:
«Prescrivendomi la mia prima terapia a vita, la metformina, il diabetologo mi ha spiegato ben
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bene a cosa serviva, quali effetti mi sarei potuto attendere e in che tempi. Secondo me questo
ha preparato il terreno e a quel punto anche le terapie che mi sono state prescritte in seguito –
un farmaco per l’ipertensione e poi uno per la prostata – le ho seguite in modo regolare».
Non dare seguito alla prescrizione
La forma più assoluta, e una delle più frequenti, di non-aderenza è ben descritta da
Luciana, 54 anni, insegnante. «Capita che il medico mi faccia una ricetta e io la butti nel
cestino appena uscita dal suo studio, senza nemmeno andare in farmacia». Meno spesso
Luciana acquista la prima confezione ma non inizia la terapia. «Non è che consideri il
farmaco poco efficace o non appropriato. Ritengo che nella maggior parte dei casi il disturbo
possa passare da solo. E allora cerco di guarire senza».
Cristiana ha un atteggiamento simile e lo descrive con una certa autoironia. «Il medico
mi ha prescritto una terapia di ormoni per la pre-menopausa. Ho ringraziato, sono uscita e
sono andata in farmacia a comprare sei belle confezioni di flavonoidi, una sostanza naturale
che ho letto avere effetti simili. Non è che non avessi fiducia nel medico. È che penso che
quella medicina vada bene per chi è ‘davvero malato’ non per me».
una ricettada leggere insieme
Uscire dallo studio del medico e stracciare la ricetta significa sprecare non solo il vostro tempo
e il suo, significa vanificare il costo e il tempo impegnato negli esami diagnostici, nella visita.
Ancora peggio, significa interrompere o inquinare il rapporto futuro con quel medico. Ci tornerete? Gli farete credere di aver seguito la terapia portandolo così fuori strada?
Prendetevi un minuto per leggere la prescrizione e se non vi convince siate franchi. Spiegategli cosa non vi convince della prescrizione. Prendete già troppi farmaci? Temete di non
potervelo permettere? Avete delle esperienze o anche solo delle informazioni su quei farmaci
che vi portano a escludere di poterli assumere? Il medico non cura la malattia. Il medico deve
curare voi. La prescrizione ‘giusta’ è quella che il paziente condivide. Quindi avete il diritto
di chiedere se esiste una soluzione diversa al vostro problema di salute. Avete però anche il
dovere di farlo a testa alta, dando e chiedendo rispetto.
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Ridurre le dosi e la frequenza di assunzione
Confrontando le prescrizioni con l’effettivo acquisto di medicinali è stato possibile rilevare un consumo ridotto rispetto all’atteso. Insomma, molte persone iniziano e seguono
la terapia ma intervengono sulla posologia: riducono il dosaggio (per esempio spezzando a metà le pillole), riducono il numero di assunzioni giornaliere o il numero di giorni alla settimana in cui la terapia viene seguita (a giorni alterni invece che ogni giorno).
Scetticismo generalizzato. Le ragioni di questo comportamento sono diverse. È sempre più diffuso un atteggiamento cauto o scettico, se non apertamente ostile, nei confronti dell’intera filiera: produzione, prescrizione e distribuzione di farmaci. Se Laura,
50 anni, dirigente di una Associazione, è molto ligia: «Se è una terapia è una terapia»,
dice, «e credo che debba essere seguita alla lettera se appena è possibile». Guglielmo, che
ha una impresa edile in Calabria, è metodico nel suo scetticismo: «Io spesso dimezzo il
dosaggio. Mi dicono due pastiglie? Ne prendo una. C’è scritto una pillola? La taglio a metà.
Può essere che così il farmaco serva a poco ma almeno non mi fa male. Secondo me tutti
esagerano apposta per farti comprare più farmaci». Nicoletta, 56 anni, che ha il diabete e
un po’ di pressione alta, in estate «quando la pressione scende naturalmente, non so se per
il caldo o per quale ragione», taglia a metà la sua pillola per la pressione.
Difficoltà pratiche. La letteratura sull’argomento1,9,16 sottolinea l’esistenza di ostacoli
pratici all'assunzione di medicinali. Per esempio confezioni ‘a prova di bambino’ che risultano difficili da aprire anche agli anziani; pillole troppo piccole per essere manipolate
da persone con difficoltà di visione. Qualcosa si può fare anche nel campo delle formulazioni e degli eccipienti: «C’è pastiglia e pastiglia: alcune sono più sgradevoli da ingerire,
hanno un cattivo sapore o si attaccano alle pareti del palato o dell’esofago, provocano acidità
e alito cattivo. Tutte cose che non puoi permetterti per esempio se fai un lavoro a contatto con
il pubblico o devi vedere un cliente», nota Gualtiero.
Orari scomodi. È ben raro che Elena si dimentichi di prendere la sua pillola per la tiroide
la mattina dei giorni in cui va a lavorare o deve svegliare il figlio che va al liceo. «Capita
solo qualche volta la domenica mattina, che si dorme di più e gli orari sono sballati», racconta
Elena che ha 45 anni e lavora nell’editoria. La pillola della sera invece è più facile da
dimenticare: «Soprattutto in estate. Io passo le vacanze in Spagna e lì ‘dopo cena’ significa ‘a
mezzanotte’. Capita che mi svegli d’improvviso ricordandomela e corra a prenderla».
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Gli orari di assunzione sono quindi un elemento importante nella prevenzione delle dimenticanze. Prendiamo gli antibiotici per esempio: «Anche se me li prescrivono la mattina
io aspetto mezzanotte per fare la prima assunzione», racconta Gualtiero che fa tardi volentieri e si sveglia di rado prima delle undici. «In questo modo la seconda pillola la prenderò
a mezzogiorno quando sono sicuro di essere sveglio».
E se me la dimentico? Premesso che c’è sempre il coniuge che assume il ruolo di
‘custode’ della terapia «ho la mia guardia del corpo, mia moglie che sovrintende affinché
io prenda tutte le medicine», dice Filippo, molti anziani vivono nell’ansia di dimenticare
un'assunzione o, peggio ancora, di non ricordarsi se hanno preso o meno la medicina.
«Proprio ieri», ricorda Jessica, che peraltro ha 30 anni, «sono rimasta a lungo nel dubbio
ridurrele dosi
È molto difficile che un medico prescriva una dose eccessiva di un farmaco. Da Ippocrate in
poi il comandamento dei medici è “per prima cosa non nuocere”. Un medico preferisce partire
con una dose ridotta per poi aumentarla, piuttosto che fare il contrario.
Molti farmaci hanno un effetto solo se raggiungono una ‘massa critica’ nell’organismo. Sotto
una certa dose (espressa generalmente in milligrammi o microgrammi di principio attivo per
chilo di peso al giorno) il farmaco potrebbe non avere nessun effetto.
Chi ‘si autoriduce’ le dosi rischia di scendere sotto questo livello e quindi di non curarsi affatto,
sprecando l’investimento fatto (da lui o dallo Stato) in quella cura.
Alcune terapie prevedono due o tre assunzioni giornaliere perché l’effetto del farmaco ‘dura’
solo per 12 o per 8 ore su 24. Ridurre le assunzioni giornaliere o ancora peggio saltare programmaticamente l’assunzione in alcuni giorni della settimana, significa sottoporre a una
nuova fonte di stress proprio il processo che si vuole curare (la pressione, il diabete, la produzione di trigliceridi).
Invece di autoridurre le dosi, cercate di capire che cosa vi ha suggerito questo atteggiamento
e parlatene a viso aperto con il medico. Spiegategli le vostre perplessità senza paura di ‘offenderlo’ e chiedetegli delle soluzioni alternative o di spiegarvi meglio perché vi ha prescritto
quel farmaco.
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e mi sono chiesta se avessi preso la pillola. Non ricordandomene, l’ho presa ma ho aspettato
una mezz’oretta per evitare che le due pillole si ‘incrociassero’ nello stomaco».
«Il mio medico mi ha spiegato che la dimenticanza di un giorno non toglie efficacia a una
terapia anti-ipertensiva di lungo termine», afferma Giovanni e Paola conferma: «Se salto
una pastiglia non capita nulla mentre un sovradosaggio può avere delle conseguenze». Filippo, che segue diverse terapie, ha parlato sinceramente con il suo medico del rischio
di dimenticare un'assunzione. «È stato credibile: “La metformina”, ha detto, “non si può
saltare; quanto alle altre, se ne scappa qualcuna non importa”. Se mi avesse detto: “Non deve
succedere mai” non sarebbe stato altrettanto utile».
Dietro la dimenticanza
Per Cristiana dimenticare è la regola. «Dovrei prendere queste pastiglie a pranzo e a cena.
A cena di solito me ne dimentico. Mi viene in mente quando sono a letto ma mi dico: “Tanto
vale che la prenda domattina”. E così salto un giorno. L’indomani mica me ne ricordo… e
pensare che è una terapia che mi sono prescritta da sola». Cristiana ammette che queste
continue dimenticanze non sono casuali: «Quando ero in gravidanza non dimenticavo una
pillola e pure lavoravo come adesso. Probabilmente nemmeno io credo tanto all’efficacia di
questa terapia».
Interrompere la terapia
La non-aderenza si manifesta soprattutto attraverso l’interruzione della terapia. Negli
Stati Uniti si calcola che, dopo un anno, solo la metà delle persone prosegua la terapia
prescritta. L’interruzione può essere definitiva o temporanea. Più spesso inizia come
temporanea e diventa definitiva.
Di rado questa interruzione viene comunicata al medico. Il paziente tende a vivere il
rapporto con il medico – anche con lo specialista che magari incontra una volta ogni
anno o ogni due anni – in termini molto personali. Riporta Giovanni, che con il suo lavoro
in Associazione ha occasione di parlare con molte persone: «Addirittura ci sono persone
che – nell’imminenza degli esami che dovranno portare alla visita – riprendono per breve
tempo la terapia: “Così il medico non si accorge che ho smesso”». Perché non dire apertamente che la terapia è stata interrotta? «Molti sono restii a spiegare al medico che hanno
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interromperela terapia
Da alcuni anni a questa parte c’è un'attenzione diffusa agli effetti collaterali dei farmaci. In
parte questa sensibilità è appropriata, in parte deriva da una moda culturale: pensiamo che
tutto quanto è ‘naturale’ possa fare solo bene e tutto quanto è ‘chimico’ possa potenzialmente
danneggiarci.
Per fortuna, da sempre, i medici e apposite Agenzie governative, con la collaborazione vigile
delle stesse Case farmaceutiche, tengono traccia di tutti gli effetti collaterali arrivando, non di
rado, a togliere la licenza di vendita a farmaci efficaci perché è stato riscontrato un potenziale
pericolo.
L’attenzione è, se possibile, ancora maggiore per le terapie di lungo termine e per quelle a
scopo ‘preventivo’ (le statine o i fibrati o gli anticoagulanti per esempio). Quindi è praticamente
impossibile che questi farmaci possano dare luogo a malattie indipendentemente dalla durata
di assunzione.
È invece possibile che un farmaco abbia un impatto più o meno rilevante o di breve durata
sulla qualità della vita. Aria nella pancia per chi prende metformina, minore desiderio sessuale
per i betabloccanti, difficoltà a prendere sonno per i cortisonici, viceversa sonnolenza e scarsa
concentrazione per gli antistaminici.
interrotto o modificato la sua terapia perché temono che si offenda», risponde Giovann;
«non si rendono conto che un diabetologo che segue duemila pazienti difficilmente prenderà
questa decisione come un ‘fatto personale’».
Perché si interrompe la terapia? Spesso perché fin dall’inizio la decisione non era stata
accettata. «La pillola per la tiroide l’ho presa senza discutere», ricorda Silvia: «Gli effetti
sono chiari. Prima di iniziare la terapia stavo davvero male e quando ho iniziato, e nel giro di
un mese, ho ripreso a fare una vita normale». Elena, anche lei con tiroidite autoimmune,
può dire lo stesso. La prescrizione di un farmaco preventivo per la pressione invece ha
fatto un po’ fatica ad accettarla: «Il medico mi ha spiegato bene perché mi suggeriva questa
terapia. Non è facile perché si tratta di ridurre un rischio, di fare qualcosa oggi per ridurre le
possibilità di un problema nel lontano futuro».
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Troppe pillole. La probabilità che una terapia venga interrotta cresce con il numero di
terapie al quale la persona è sottoposta. «Non posso ingolfarmi di medicine», esclama Nicoletta, «faccio già quattro iniezioni di insulina e prendo quattro pillole non posso essere sempre
lì a combattere con tutto». Nicoletta ha deciso di fare una selezione fra le terapie e non ha
nemmeno iniziato le medicine che le hanno consigliato per prevenire l’osteoporosi. Paola
che ha cominciato a 35 anni ad affiancare alla terapia insulinica un ace-inibitore per prevenire il danno renale, non si lamenta: «Dopotutto si tratta solo di prendere una pastiglia la
sera, se fai cinque iniezioni di insulina al giorno una pillola la prendi senza fare tante storie».
Foglietti informativi ed effetti collaterali
La decisione di rendere più leggibili e più chiari i foglietti informativi è arrivata nel momento giusto. Quasi tutte le persone intervistate affermano di leggere con grande attenzione i ‘bugiardini’ dei farmaci che assumono. «Non è una lettura rasserenante. Soprattutto
quando elenca gli effetti collaterali alcuni dei quali sono atroci. Ma non posso non farlo», dice
Nicoletta. «In effetti se li leggi in un momento in cui sei preoccupato, come spesso capita»,
riflette Romano, «i foglietti informativi non risultano molto tranquillizzanti».
Il rilievo di effetti collaterali – reali o presunti – del farmaco è una delle principali ragioni
di interruzione della terapia. «A volte ho la sensazione che una delle medicine mi faccia
male, allora smetto per un po’ e poi quando i sintomi sono passati, magari la riprendo», dice
Francesca. «Capita poi che certi farmaci mi provochino delle allergie, in quel caso smetto
subito di prenderli e vado dal medico».
«Se appena hai lo stomaco o la pancia un po’ sensibili è raro che una terapia sia giusta al
primo colpo», racconta Cristiana. «Prendiamo il ferro, per esempio, ne esisteranno venti
formulazioni in commercio e prima di trovare quello che non mi dava problemi ne ho provate
diciotto. A un certo punto invece di tornare dal medico ogni volta gli ho detto: “Mi faccia un
elenco delle varie opzioni e le provo tutte una dopo l’altra”».
«Il segreto, secondo me, è preavvertire il paziente all’atto della prescrizione», suggerisce
Giovanni; «per esempio il medico mi aveva avvisato che la metformina avrebbe potuto dare
degli effetti collaterali spiacevoli, mi ha spiegato che sarebbero durati due o tre settimane
e che se fossero persistiti avrei potuto dimezzare la dose per poi tornare gradatamente a
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quella prescritta». È necessario che la persona sia preparata anche psicologicamente
ad accettare un certo livello di effetti collaterali. «Molte terapie provocano stanchezza e
sonnolenza, soprattutto nelle persone anziane», considera Nicoletta, «fa parte del gioco. Ti
curi da una parte e ti ritrovi qualche piccolo danno dall’altra. Se lo sai già prima e sei convinta
lo accetti. Se no cosa fai? Ti spari?».
Effetti incrociati
Le persone sottoposte a molte terapie lamentano la mancanza di una visione globale
della loro salute. «Il cardiologo non sa quello che fa il diabetologo, non parliamo poi del ginecologo. Il medico di famiglia non ha tempo di seguire tutte le terapie, si limita a firmare le
ricette e le richieste di visita», lamenta Guglielmo.
«Forse anche io sbaglio», ammette Anita, «ma se non me lo chiede non racconto a uno specialista i problemi di salute o le terapie per le quali mi segue un altro medico. Quindi, quando
mi prescrive un farmaco, prima di prenderlo vado a controllare oppure chiedo a mio figlio di
cercare su Internet se trova qualche informazione sui possibili effetti incrociati».
quando il farmacoha altri effetti
Prima di essere commercializzati i farmaci sono sottoposti a lunghissimi studi proprio per valutarne possibili seri effetti collaterali. Molti principi attivi efficaci sono stati fermati proprio per
il rischio anche remoto di gravi conseguenze. È possibile che un farmaco provochi inizialmente
leggeri disturbi. Gli effetti collaterali definiti 'rari' o molto rari nel foglietto illustrativo sono invece estremamente improbabili. È importante chiedere al medico se il farmaco potrebbe dare
disturbi iniziali, e quali sintomi invece bisogna tenere d'occhio.
È invece più probabile che un farmaco abbia effetti 'incrociati' su altri, riducendone o aumentandone il beneficio. I foglietti informativi elencano gli effetti incrociati più frequenti della
medicina su altre categorie di farmaci. È importante ricordare espressamente al medico i
nomi commerciali (o meglio i principi attivi) dei farmaci che si stanno assumendo o che capita
spesso di prendere per assicurarsi che quello nuovo non abbia effetto sugli altri.
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L’INIEZIONE
Così tocca al paziente sorvegliare i possibili effetti incrociati delle diverse terapie, leggendo i foglietti informativi per esempio. «Praticamente tutto quello che prendi ti alza la
glicemia», riassume con qualche voluta esagerazione Nicoletta. Ma c’è anche il caso
contrario: «Ho scoperto che i sulfamidici potenziavano l’effetto dell’insulina. Non lo sapevo e
mi sono trovata in ipoglicemia», riporta Simonetta. Non a caso gli effetti incrociati dei farmaci sono una causa importante di accesso al pronto soccorso e di ospedalizzazione
negli Stati Uniti. «Non parliamo poi delle allergie», riprende Simonetta, «non tanto ai principi
attivi quanto agli eccipienti. Io mi sono trovata con un'allergia inspiegabile e poi ho scoperto
che era dovuta alle molecole di zinco presenti nell’insulina».
Contrasto fra medici. Una causa emergente di scarsa aderenza è il contrasto fra medici sulla opportunità di una terapia. «Sarà infantile», sostiene Cristiana, «ma se la Medicina è una scienza io pretendo che dia risposte univoche. Non può essere che il ginecologo ti
consigli una cura e il medico di base te la sconsigli, o viceversa. Sono cose che disorientano.
Alla fine sei tu che devi decidere al posto dei medici e qualunque decisione prendi hai la sensazione di avere sbagliato».
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I motivi
della non-aderenza
Le motivazioni soggettive di questi comportamenti sono diverse ed è difficile porle in
ordine di importanza. Alcune sono relative alla specifica terapia; altre, più in generale,
a un atteggiamento prudente o negativo nei confronti delle cure.
Ma perché devo curarmi?
Le ricerche svolte negli ultimi vent'anni16 hanno mostrato che la non-aderenza intenzionale è guidata dalle opinioni del paziente sulla serietà della propria malattia.18 La nonaderenza è 1,5 volte più alta presso le persone che non ritengono la loro malattia grave
o una minaccia.19
Questa sottovalutazione ha diverse cause. In parte è il paradigma della malattia acuta
(se non fa male non può essere grave), in parte è il concetto di rischio che è difficile da
cogliere. «Il medico mi ha detto che con questa terapia dimezzo il rischio di infarto, ma cosa
significa in concreto? La terapia deve risolvere il problema», sbotta Guglielmo.
A volte il medico stesso, per timore di spaventare il paziente, trascura di spiegare i rischi legati a un diabete non controllato, altre volte i messaggi dati da diversi specialisti
non collimano. Anche la percezione socialmente condivisa è importante. «Quando racconto che ho il diabete, metà delle persone risponde: “E che sarà mai?”, starei ancora peggio
se dicessero il contrario ma sicuramente non mi motiva», ammette Antonio.
Capita che il paziente si senta chiamato a dare delle priorità fra diverse condizioni.
«Sono andato avanti per anni pensando che il mio problema non era il diabete, ma il cuore. In
realtà le ischemie erano la conseguenza del diabete», ricorda Roberto. Oppure, come nel
caso di Anita, le priorità sono poste in ambito familiare: «Da sempre il malato in casa è mio
marito che ha fatto cinque interventi. Io non ho praticamente nulla o comunque devo pensare
così perché due malati in famiglia non ci possono stare». È come se esistesse un limite al
numero di malattie che si possono considerare tali in una famiglia.
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il costodella terapia
Il costo dei farmaci è sicuramente un elemento di crescente importanza nell’aderenza alla terapia, soprattutto se di lungo termine. In Italia facciamo tutti finta di godere di cure gratuite.
In realtà la spesa sanitaria out of pocket continua a crescere e si sta avvicinando alle medie
mondiali in termini di peso sul prodotto interno lordo. «I farmaci e le spese mediche sono
ormai la terza voce di uscita del nostro bilancio familiare, dopo l’affitto e la spesa al
supermercato», nota Anita. Altri elementi out of pocket sono: l’acquisto di farmaci non coperti
dal SSN, il ricorso a visite diagnostiche e atti di cura in regime privato e i ticket sui farmaci.
I farmaci in fascia A sono interamente coperti dal SSN solo se generici. Se il paziente insiste
per avere il farmaco cosiddetto ‘di marca’ deve pagare la differenza. AIFA ha stimato19 che nel
2012 gli italiani abbiano speso 1 miliardo di euro più del necessario per acquistare farmaci di
fascia A dei quali esisteva la versione generica. Se poi il farmaco è in fascia C il paziente deve
pagarlo interamente e la convenienza ad acquistare il generico sarà ancora maggiore. Solo una
piccola parte degli intervistati da Diabete Italia per redigere questo libretto afferma di acquistare
volentieri il farmaco generico e pochi hanno ricevuto un consiglio in questo senso dal proprio
medico. Eppure i medici farebbero bene a indirizzare il paziente verso il farmaco generico quando prescrivono terapie di lungo termine, anche se la differenza di prezzo non appare rilevante.
Negli Stati Uniti uno studio20 sul consumo di statine in prevenzione del rischio cardiovascolare
ha dimostrato che se al paziente non è richiesta nessuna forma di co-pagamento l'aderenza è
del 70%. Basta un ticket di 20 dollari al mese per farla scendere al 30%. Risultati simili sono
stati rilevati21 con i farmaci ipoglicemizzanti orali.
In Italia, analizzando per trentaquattro mesi i dati amministrativi di cinque Asl lombarde relativi a
347 mila terapie di lungo termine, Colombo e altri22 hanno confrontato sia gli outcome (in termini
di ospedalizzazioni) sia l'aderenza rilevata nel gruppo di pazienti che seguiva la terapia acquistando farmaci di marca e generici. I dati relativi alla efficacia, come atteso e dimostrato da altri
studi,23 non hanno rilevato nessuna differenza a favore del prodotto di marca. Lo studio ha misurato l’intervallo medio fra gli acquisti dei medicinali – indicatore abbastanza diretto dell'aderenza
– scoprendo che l’aderenza (o meglio la persistenza, cioè l’intervallo di tempo fra l’acquisto di
due confezioni dello stesso farmaco) era molto maggiore tra i consumatori di farmaci generici
rispetto all’equivalente di marca. L’impatto del costo della terapia, soprattutto quando si tratta di
terapie di lungo termine per condizioni croniche che non danno sintomi, è destinato a essere un
fattore sempre più importante di non-aderenza in una fase di riduzione del reddito spendibile.
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Mi fa sentire malato
“Non sto bene, quindi prendo un farmaco”. Siamo tutti cresciuti, medici e pazienti,
con questo paradigma. Una parte crescente dei farmaci acquistati oggi previene le
malattie o tiene sotto controllo condizioni asintomatiche. Il sillogismo quindi si rovescia:
“Prendo dei farmaci, quindi non sto bene”. In mancanza di sintomi, la terapia diventa
il problema, il segnale di qualcosa che non va e quindi – soprattutto nelle persone che
fanno fatica a venire a patti con la vecchiaia – una ‘ferita dell’io’. Antonio, come al solito,
è chiarissimo: «Prendere tante medicine mi fa sentire malato», e Gualtiero racconta: «Mi
chiedo sempre quando smetterò di prendere queste pillole: è una condanna».
Il medico non dovrebbe mai sottovalutare questo aspetto. Quando la terapia cura un
fattore di rischio o una condizione asintomatica è importante condividere sia la natura
del problema sia il ruolo della cura. «Prendere la Levotiroxina ogni mattina non mi crea
alcun problema. C’è stato un danno, la reazione autoimmune che ha distrutto la tiroide, e
quindi devo sostituirmi alla tiroide prendendo queste pillole», spiega Elena. Filippo che è
sottoposto a diverse terapie, ammette: «Prendere tutte queste pillole non mi fa piacere.
Ma grazie a queste terapie posso raggiungere e mantenere un certo equilibrio e fare una vita
regolare. So che ho delle malattie e corro dei rischi. Ho visto cosa è successo ai miei genitori
e fortunatamente sono su una strada diversa».
Prendo troppe medicine
L’aderenza alla prescrizione, è provato, tende a scendere con il crescere del numero di
terapie in corso. Le persone con diabete di tipo 2, oltre ad assumere uno o due farmaci
per la glicemia, sono spesso trattate anche con statine, fibrati, anti-aggreganti per gli
altri fattori di rischio cardiovascolare (sempre che non abbiano altri fattori di rischio o
patologie, il che non è raro). Nel 2012, negli Usa, mediamente una persona di 85 anni
seguiva da cinque a sette terapie.3 «Una volta, per curiosità, le ho contate: in una settimana
media, fra me e mio marito, consumiamo settanta pastiglie», racconta Anita. «Si fa presto:
mio marito ha tre medicine da prendere due volte al giorno e due solo la sera, io due una
volta al giorno. Se poi c’è una malattia intercorrente – una cistite o una bronchite da curare
con antibiotici – si arriva a sfiorare le cento pastiglie». Nicoletta, oltre alle quattro iniezioni
di insulina, prende quattro pastiglie al giorno: «Per la pressione, per il colesterolo, per la
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coagulazione e un integratore per tenere sveglia la mente». Francesca arriva a dodici pillole al giorno: «Sono davvero troppe», ammette, «ma vaglielo a dire ai medici! Tante volte ho
pensato: “Adesso smetto di prendere qualsiasi medicina e quando morirò morirò”. Ma finora,
e sono vent'anni che prendo medicine, non l’ho mai fatto».
Impatto sulla vita quotidiana
Prendere molte medicine ha un impatto sulla vita quotidiana. Anita afferma di andare
«più spesso in farmacia che al supermercato». «Bisogna tenere una vera contabilità», considera Nicoletta: «Controllare periodicamente se una scorta di farmaci è vicina alla fine, ricordarsi di andare dal medico a farsi fare le ricette, tenere gli scontrini…». Diventa difficile affiancare una politerapia a una vita ancora attiva. L’aspetto logistico non va sottovalutato
e i medici potrebbero consigliare i pazienti in politerapia su come gestirla. Giovanni ha
comprato dei contenitori suddivisi a scomparti: ogni scomparto contiene un cassettino,
ogni colonna corrisponde a un giorno della settimana e ogni riga a un orario della giornata. La domenica Giovanni inserisce nelle caselle le pillole che dovrà assumere nella
settimana. «Così sono sicuro di non dimenticarle, di non confonderle o sbagliare gli orari e
soprattutto non ho il dubbio di aver già preso una pillola. Se devo uscire a pranzo o a cena o
per una giornata, porto con me i cassettini».
Perplessità sui farmaci in generale
Si è fatta strada, negli ultimi anni, una certa perplessità nei confronti delle medicine in
generale. Anita ricorda che «da giovane avevo la massima fiducia delle medicine. Ora inizio
a temere che molte facciano più male che bene. Certo se uno è davvero malato si prendono
senza discutere, ma queste terapie che non si sa bene perché te le diano… non mi convincono
troppo». Guglielmo è ancora più drastico: «I farmaci sono sostanze estranee al corpo: sono
molecole artificiali prodotte in laboratori chimici. Sono dannose e producono reazioni avverse. Al contrario i prodotti naturali venduti in erboristeria non producono effetti collaterali».
Le affermazioni di Guglielmo sono radicali ma un numero crescente di persone si rivolge, a seconda dei casi, sia alla medicina ‘occidentale’ sia a quella 'naturale'. «Io soffro
di mille allergie e per questo tendo a curarmi con la fitoterapia. Se il medico mi prescrive un
farmaco io vado subito a vedere se c’è un'erba che ottenga lo stesso risultato. Io credo che
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un buon medico debba prendere in considerazione, oltre alle terapie tradizionali, anche quella
cinese o omeopatica». Cristiana ha appunto un medico di questo tipo: «Il mio medico di
base prescrive anche medicine naturali e questo mi rassicura. Quando decide per un farmaco,
diciamo così, ‘chimico’ è perché è necessario. Sinceramente se prescrivesse sempre e solo
farmaci di un tipo o dell’altro non mi fiderei».
Controllare aiuta
«Tenere alta la motivazione non è facile. Ma l’automonitoraggio è un bell’aiuto», racconta
Giovanni che segue il suo diabete con delle pillole; «ogni quindici giorni controllo per due
giorni i valori in cinque momenti della giornata e poi misuro la pressione a casa. Così facendo
posso vedere che i sacrifici che faccio servono. Anche partecipare agli incontri della Associazione aiuta: capire meglio cosa è il diabete e capire le conseguenze di un abbandono della terapia». Tanto è vero che Romano, pur non avendone bisogno, ha acquistato il lettore della
glicemia per misurare l’effetto di una terapia a base di metformina. «Apprezzo la possibilità di misurare il suo effetto con delle semplici glicemie. Non per tutte le terapie è così».
Luciana racconta di aver seguito con grande precisione una terapia: due pillole a giorni alterni da prendere la sera. «Perché semplicemente leggendo il referto delle analisi del
sangue potevo misurare da sola il successo della terapia».
Un altro elemento che favorisce l’aderenza è la paura delle alternative terapeutiche.
«Col tempo, come avviene spesso nel diabete, i farmaci orali non sono più sufficienti. Il diabetologo mi ha già detto che il prossimo passo sarà l’insulina: almeno una iniezione la sera.
Però posso rimandarlo se seguo con attenzione la terapia e sto attento al mangiare: devo dire
questo è un buon motivo per rispettare la terapia», nota Giovanni.
Il rapporto con il medico
Da questo emerge che l’aderenza nasce da un buon rapporto fra medico e paziente.
Si parla oggi sempre di più di ‘prescrizione condivisa’. Non deve diventare un eufemismo privo di significato come è successo al termine ‘aderenza’. Prescrizione condivisa
significa che il paziente deve concordare con il medico sulla necessità di intraprendere
una terapia e sul fatto che quella terapia è migliore di altre (per esempio delle medicine
‘naturali’). Il paziente deve anche cercare di capire se può avere problemi a mettere in
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pratica la terapia. Romano, per esempio, afferma di avere un buon rapporto con il suo
medico di Medicina generale: «Se mi prescrive qualcosa che non ho intenzione di prendere
o se, dopo che me lo ha prescritto, ho deciso di smettere, glielo dico. Apprezzo molto il suo
modo di reagire. A volte non si oppone alle mie scelte a volte invece insiste “Quello lo prenda
è importante” e mi illustra le ragioni». Il medico, aggiunge Cristiana, «deve spiegare entro
quanto tempo si potrà vedere un effetto della terapia e come sarà possibile notare o misurare
quell’effetto».
Se Giovanni si fida dei medici “a prescindere, fino a prova contraria”, Gualtiero ha notato che tende a seguire maggiormente le prescrizioni dei medici che definisce ‘credibili’.
E la credibilità non dipende dal numero dei diplomi appesi alla parete o dal loro ruolo
in ospedale. «Ritengo credibile il medico che si informa, se vedo cucire la terapia su di me,
sulle mie esigenze di salute che sono per forza diverse da quelle del paziente che mi ha pre-
medico:istruzioni per l'uso
La prescrizione non termina la visita. È importante capire insieme al medico perché è stata
prescritta quella terapia e per quanto tempo durerà. Non bisogna avere timore di informarsi
sui possibili effetti secondari, sui sintomi che potrebbero suggerire una modifica della terapia e
quelli che invece vanno sopportati. Occorre anche chiedere se quella terapia potrebbe interferire
con altre terapie di lungo termine in corso (che il medico potrebbe non conoscere o non ricordare). Anche domande banali non devono essere trascurate. Cosa succederebbe se dovessi dimenticare un'assunzione? E se per errore la prendo due volte di seguito? È possibile modificare
gli orari di assunzione? Devo continuare la terapia anche in caso di influenza (o di altra malattia
intercorrente acuta). Tutte queste domande vanno fatte (magari segnandosi le risposte).
Ma soprattutto vale la pena di chiedere al medico, in occasione della prescrizione o in un successivo colloquio, che effetti positivi posso attendermi da questa terapia? Posso misurarli in
qualche modo? Può sembrare una domanda banale e, in effetti, più che una domanda è una richiesta di ‘rinforzo’. Abbiamo bisogno di una certa motivazione per superare la noia di prendere
una pillola – o una pillola in più – ogni giorno. È giusto chiederla a chi davvero ce la può dare
perché conosce la terapia e soprattutto la nostra situazione specifica.
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ceduto. Quando ho la sensazione che mi si stia rifilando una terapia standard tendo a seguirla
meno. Non rispetto la terapia perché il medico che me l’ha prescritta non mi rispettava».
La grande maggioranza dei medici, nonostante i tempi sempre più ridotti delle visite, è
‘credibile’ come dice Gualtiero, ma non tutti lo fanno capire. Troppo spesso la stampa
della ricetta pone fine alla visita. Sempre, e in particolare quando è di lungo termine,
la prescrizione dovrebbe aprire una nuova fase del colloquio tra medico e paziente.
«Il mio è un bravo medico», nota Anita, «ma è un uomo di poche parole. La visita dura pochi
minuti e finisce con la stampa di una ricetta che mi descrive molto sommariamente. Le altre ricette non richiedono una seconda visita. Più spesso lascio un biglietto con l’elenco dei
farmaci di cui ho bisogno e il giorno dopo passo a ritirare le ricette non chiudo nemmeno la
porta dell’ascensore: salgo, entro, prendo la ricetta ed esco». Anita non si lamenta: «Il patto
è chiaro: il medico fa la diagnosi e prescrive la terapia. Tutto il resto è mia responsabilità. Se
voglio sapere di più inforco gli occhiali e leggo il foglietto illustrativo che da qualche tempo
è scritto in modo meno incomprensibile». Non è un caso che Anita interpreti la terapia
ricevuta, la ‘personalizzi’ come lei stessa afferma. Così facendo però si espone a dei
rischi. «Alla fine della fiera», conclude Romano, che è filosofo per formazione ed è stato
un consulente aziendale, «la non-aderenza è una condivisione anche se perversa. Tu medico
mi prescrivi una terapia senza spiegare perché e io non spiego perché ho cambiato la terapia.
Invece la condivisione deve nascere dal dialogo: dall’incontro fra l’esperto della malattia,
che è il medico e l’esperto di se stesso, che è il paziente. Un incontro che prevede il rispetto
reciproco».
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