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Infanzia e adolescenza
Aldo Brienza, quartogenito di otto figli nasce a Campobasso
il 15 agosto 1922. Il papà Emilio si sposa con Lorenzina Trevisani.
Riceve il Battesimo il 21 agosto 1922. E' circondato dall'affetto
dei genitori, delle sorelline e soprattutto di nonna Maria.
Sappiamo poco della sua infanzia. Possiamo solo accettare
ciò che egli stesso ha scritto in una lettera: "posso dire che Gesù
mi ha amato con predilezione fin dalla più tenera età". Si tratta,
da ciò che egli stesso descrive, come una speciale protezione
per non farlo cadere in peccato.
Frequenta con assiduità la Messa domenicale con la Comunione, facendola precedere sempre dalla confessione sacramentale, come allora si usava. La nonna continua ad essere il suo
angelo custode che lo accompagna spesso in chiesa.
All'età di 13 anni sente la chiamata del Signore per una speciale consacrazione. Vuole appartenere a Gesù. Vuole donare a
Lui tutto se stesso. Nel suo animo aleggia già una preferenza.
Dirà infatti che benché "religiosi di Ordini diversi mi avevano
invitato nei loro istituti, la Certosa mi affascinava".
27 giugno 1938
Dopo una giornata di vacanza della famiglia Brienza Aldo
accusa una fitta lancinante al piede sinistro che gli impedisce di
camminare. Zoppica vistosamente. Il dolore si fa sempre più
acuto. Aldo grida, chiede aiuto, si dimena.
Aldo descrive questo malessere paragonandolo al "morso di
un cane che strappa e lacera la carne e al chiodo che trafigge da
parte a parte". Ha la febbre che presto diventa altissima. Con il
passare delle ore il dolore e la febbre non concedono tregua. Si
decide il ricovero in ospedale.
Purtroppo Aldo è affetto da osteomielite deformante che lo
inchioderà al letto. Le previsioni sono, per la scienza medica,
quelle di una vita sì di dolori lancinanti, ma breve.
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Tra gli infuocati deliri dei primi mesi di febbre, Aldo ripete
di volere sul letto "l'abito bianco che la Madonna aveva deposto
nell'armadio". Ma nell'armadio non c'è nessun abito bianco. Era
certamente quello che avrebbe voluto indossare da certosino.
Aldo comincia a vedere sempre più lontana la sua guarigione. Anche il desiderio sulla Certosa si attenua. La preghiera per
la sua guarigione pian piano si trasforma in un atto di rassegnazione che diventa accettazione e quindi ringraziamento per
quanto il Signore gli sta donando.
La Madonna del Carmine
La casa di Aldo comincia ad essere frequentata da religiosi e
da laici impegnati. In una di queste preziose visite riceve in dono
La Storia di un'anima che fa entrare nella sua vita Santa Teresa di
Gesù Bambino e gli presenta la Madonna del Carmine.
Il giovane campobassano desidera indossare e vivere lo
Scapolare della Madonna del Carmine. Mentre cerca di informarsi sulle modalità, i privilegi e gli obblighi, fa un sogno e
scrive in una lettere a una suora carmelitana:
sognai di trovarmi nella chiesa che mi aveva visto bambino, in preghiera, dinanzi all'Addolorata Mamma nostra…. Mentre pregavo e dicevo
alla Mamma nostra di farmi conoscere in quale Ordine mi voleva, la
vidi animarsi, stendere la sinistra verso il lato destro della chiesa e dirmi: “È tra quei religiosi che ti voglio". Mi voltai e vidi venire dalla
nostra parte una doppia fila di nostri Religiosi tutti avvolti nelle bianche cappe.
Confida concludendo: "Pur dando al sogno l'importanza che
gli spetta, incominciai ad amare il Carmelo e a interessarmi ad
esso". Lo colpisce l'offerta di Santa Teresina come vittima all'amore misericordioso. La parola "vittima" si imprime nel suo
animo. Da Santa Teresina passa alla conoscenza di Santa Teresa
d'Avila e di San Giovanni della Croce. Si sente già carmelitano
nel cuore. Ora vuole diventarlo con tutto se stesso.
Le lettere
Nelle prime lettere che invia alla Casa Generalizia dei
Carmelitani Scalzi manifesta la speranza e il desiderio di guari5
re per diventare carmelitano sacerdote. In una lettera a P.
Giovanbattista, segretario dell'Ordine scrive:
"sono sempre sofferente e nessuna miglioria mi fa sperare la guarigione. Ma credetemi io non ci tengo e se desidero guarire, è solo per veder
sorridere la povera mamma e tutti i miei cari".
D'altronde, amorevolmente assistito, la famiglia soffre con lui.
Carmelitano secolare
Non potrà entrare in convento, né diventare sacerdote
carmelitano. Così esprime la volontà di poter far parte dell'Ordine almeno come Terziario:
"vorrei essere Terziario Carmelitano e lo chiedo con la stessa umiltà di chi
è sano e può svolgere con inappuntabile esattezza la sua missione. Dal
canto mio, sarò laborioso con l'anima e con l'intenzione di operare il bene".
Come membro dell'Ordine secolare, anche se fuori di convento, può pregare, soffrire, offrire. La Casa Generalizia lo accontenta dandogli i necessari eccezionali permessi.
Purtroppo le sue condizioni di salute si aggravano proprio
in quei giorni. Riceve il Sacramento della Cresima. Aldo chiede
di chiamarsi fra Giuseppe Maria dell'Addolorata.
A padre Giovanbattista scriverà nel 1943:
"Non so descrivere la mia gioia. I miei dolori, aumentati e resi più
acuti, sono tanti fiori che offro continuamente alla Vergine del Carmelo
e mi rallegro che le sofferenze non danno tregua al mio corpo, che
deforme e straziato, offro a Colui che me ne ha fatto gradito dono".
Apostolato
Con l'entrata nell'Ordine comincia per Aldo, oltre che una
nuova vita, un nuovo apostolato. Laico, secolare, in famiglia, a
letto, si apre agli altri per dare ciò che il Signore giorno per giorno gli dona.
Aumenta la gente che lo viene a trovare. Poche parole. Uno
sguardo intenso. Ascolta e discretamente suggerisce o semplicemente annuisce. Poi ci sono le lettere, tante lettere con le quali
allarga il suo apostolato anche verso persone che non possono
venire a trovarlo. Poi ci sono gli ammalati. Le sue parole sono
accettate più facilmente, perché vengono da un malato più grave di loro. Così chi soffre è spinto ad offrire come Aldo le pro6
prie sofferenze per la Chiesa. Quando la salute glielo permette
scrive. Scrive molto. Privilegiate dei suoi scritti sono le suore.
Poi ci sono le lettere ai padri spirituali.
Vita mistica
Da buon carmelitano percorre la sua Salita del Monte Carmelo.
San Giovanni della Croce ne aveva fatto uno schema che diventa il tracciato della sua vita. È quello del nulla e del Tutto. È
difficile raccontare ciò che prova, che sente, che vede. Dice poco,
perché certe cose superano il linguaggio umano, ma fanno intravedere degli sprazzi di paradiso.
Ecco qualche breve esempio:
Ora le confido quello che avvenne in me nella festa della SS. Trinità (mi
dica se sono nella verità). Durante il ringraziamento, alla Comunione,
mi sembrò di vedere l'amabile Mistero della SS. Trinità. Ero in Dio,
Dio era in me! Non vidi immagine, però chiaramente comprendevo e
nello stesso tempo gustavo il mistero di Dio in noi. La SS. Trinità si
donava, si comunicava all'anima mia.
Descriverà la sua preghiera in questo modo:
"Me ne sto alla presenza del Signore con un'attenzione amorosa, senza
fermarmi su alcun concetto determinato, solo desideroso di rimanere ai
piedi del buon Dio a fargli un'affettuosa compagnia".
Frate, ma in famiglia, nel mondo
Ottiene di poter far parte dell'Ordine Carmelitano proprio
come religioso. Un indulto del Papa Pio XII gli concede di poter
fare la professione solenne. Dopo qualche anno chiede di cambiare nome mantenendo quello di Giuseppe e completandolo
con il nome di Gesù: Fra Immacolato Giuseppe di Gesù.
Ora vorrebbe raggiungere un'altra meta, la più alta, la più
sublime, quella del sacerdozio. Si dà da fare, scrive, domanda.
E' perplesso, perché non se ne sente degno. Comunque non sta
fermo. Quando le cose sembrano non aver preso il senso giusto scrive:
ho capito che posso esser sacerdote pur non essendolo, dando cioè Gesù
alle anime e le anime a Gesù e facendo il sacrificio di non offrire il Santo
Sacrificio. La mia vita la vorrei tutta spesa, tutta immolata per la santa
causa del Sacerdozio cattolico e sarei tanto felice se con la mia immolazione potessi donare a Gesù anche un solo sacerdote santo.
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Il sacerdozio e i sacerdoti
Aldo ha una grande stima per i sacerdoti e, come detto, li
considera un po' tutti suoi padri spirituali. Alcuni lo faranno
soffrire, perché non vogliono ascoltare i suoi accorati richiami.
Non si arrende, anzi proprio con questi e per questi si offrirà
come vittima al buon Dio per la loro conversione.
Dopo queste esperienze nasce in lui la vocazione all'immolazione soprattutto per i sacerdoti. Il 6 gennaio 1945, ottiene dal
confessore il permesso di offrirsi "vittima per la santificazione
dei sacerdoti".
Anche se fisicamente è sempre disteso sulla croce del letto,
qualche volta uscirà di casa. Per esempio parteciperà il 5 aprile
1948 alla Peregrinatio Mariae. Leggerà, a nome di tutti i malati
un discorsetto sul valore della sofferenza nella cattedrale di
Campobasso.
Gli ultimi anni
Come a tanti altri santi il demonio infierisce anche fisicamente. L'Eucaristia soprattutto è l'antidoto più efficace contro satana,
gli dà il coraggio di affrontarlo, di vincerlo. Aldo era religioso.
Giuridicamente era Carmelitano di voti solenni. Viveva in famiglia e la sua santità è consistita nell'applicare lo spirito
carmelitano nella vita da laico. Aldo sta lì "altare vivente", come
fu definito dal vescovo di Campobasso. Prega per la Chiesa, per
il papa e sempre per i sacerdoti, alcuni dei quali vede più bisognosi di luce per non sbagliare.
La sua vita va avanti, nonostante anno dopo anno peggiori
sempre più. Ma ha senso parlare di peggioramento? La vita di
Aldo ormai è questa. Peggioramento nel fisico, ma elevazione
nello spirito. Dietro ogni frase, ogni parola c'è un mare di dolore, ma c'è anche sempre quella gioia, che il Signore gli dona.
Scrive: "Sono crocifisso nel corpo e nell'anima, con la grazia di
Dio desidero cantare Amen fino alla fine".
Nell'Anno Santo del 1975 ci sono nuove croci da portare. Nel
1980 altre sofferenze. Nel 1984 paragona la sua vita alla Via Crucis
e scrive: "Che dirle di me? Sono sempre alla XI stazione… Mi
aiuti, Madre, a vivere la mia chiamata: 'Voluntas Dei'". A febbraio del 1985 è ricoverato più volte all'ospedale per la dialisi.
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L'anno seguente comincia un male allo stomaco. Sarà quello che
lo porterà alla morte.
Le ultime lettere sono come il suo testamento spirituale:
Quante grazie, quante finezze d'amore in questi 50 anni d'infermità,
come poco e male ho corrisposto! Lodo e benedico il Signore, chiedo
perdono per le inadempienze, le infedeltà all'Amore, aiuto e forza per
essere fedele a tanta grazia. Sì, dare, dare continuamente, dare generosamente, dare tutto. Mi nascondo nel cuore di Gesù pregandolo di bruciare tutto quanto non piace a Lui. Voglio amare dando e dare amando.
Ultimi giorni
Nell’aprile del 1989 le crisi sono pressoché continue. Alla sofferenza del corpo di questi ultimi giorni si aggiunge quella dello spirito, decisamente più penetrante ed acuta. È l'ultima prova, quella più terribile, quella dell'assoluto silenzio di Dio, capace di trafiggere l'anima fino a separare il corpo dallo spirito.
Chiude gli occhi, china il capo e si incontra definitivamente con
il Signore che tanto aveva amato e desiderato. È il 13 aprile del
1989.
La biografia sopra presentata è una libera sintesi tratta da G.
BISCOTTI, Fra Immacolato Brienza carmelitano scalzo, Edizioni OCD,
Roma 2007.
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In una lettera indirizzata a Don Michele Ruccia datata 24 novembre 1950, fra Immacolato scriveva: "vi prego di far sì che
dopo la mia morte non si abbia a parlare di me... La parte toccata a me è di rimanere nascosto in lui". La sua espressa volontà,
dunque, è di rimanere nascosto e quasi dimenticato. Ma così
non può essere.
Difatti, noi rifletteremo sulla sua vita, che possiamo definire
una icona di sofferenza oblativa, vissuta come offerta quotidiana di amore rivolta alla causa della santità del ministero dei
sacerdoti, dei consacrati e di quanti a lui si erano affidati. E tutto questo attraverso una sofferenza che lo ha costretto a letto
nella quasi immobilità totale per circa cinquantuno anni.
Leggendo il suo epistolario ci troviamo di fronte ad una vera
e propria teologia della sofferenza, vissuta ed insegnata come
un percorso privilegiato di configurazione al Cristo crocifisso
per la salute spirituale dei fratelli, come autentica sequela del
Cristo avviato verso il Calvario carico della sua croce, come processo personale di purificazione e di conversione ed infine come
pulpito di evangelizzazione aderente al Vangelo, convincente,
credibile per la forza della sua testimonianza, capace di coinvolgere i testimoni del suo Calvario in un itinerario di conversione e di obbedienza a Dio per una vocazione di diaconia di amore, e cenacolo di nuova pentecoste.
Sono queste le tematiche che ci attendono. Prenderemo le
mosse dalla sofferenza come evento, proseguiremo con la sofferenza come vissuto, documentato dal vasto Epistolario a nostra
disposizione, ed approfondiremo la teologia della sofferenza
contenuta negli scritti di fra Immacolato ed impartita da una
cattedra non teorica ma esperienziale, per poi concludere con il
messaggio consegnato da questa icona di sofferenza e di santità
dei nostri giorni alla Chiesa e agli uomini di buona volontà.
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1. La sofferenza come evento.
Vocazione alla configurazione crocifissa di Cristo
É lo stesso fra Immacolato a raccontarci come tutto ebbe inizio:
"nel 27 giugno del 1938, per la puntura di un insetto velenoso, ebbi un
flemmone al piede sinistro, ed in seguito a varie operazioni chirurgiche,
ebbi la setticemia, indi osteomielite deformante alle gambe".
Ad una consorella riferisce con maggiore precisione con lettera del 29 dicembre 1951:
è dal 27giugno 1938 che sono affetto da osteomielite deformante... a 13
anni anelavo alla Certosa e durante il mio primo anno di malattia chiesi la guarigione, se conforme era ai voleri divini, solo per scomparire
nella bianca silente Certosa. Mi ammalai quando ancora non avevo 15
anni, fin dal primo istante volli la volontà di Dio, ... ignoravo completamente i
divini disegni, però mai Gesù mi ha fatto ricalcitrare sotto l'amorosa mano che
mi crocifìggeva.
Dio, dunque, fa la sua irruzione e lo chiama al ministero della sofferenza, perché la sofferenza diventi ministero per la causa dell'amore: la riparazione e santificazione, per i sacerdoti.
D'ora in poi tutto cambia nella sua vita. Come Abramo, si
sente chiamato a vivere l'esodo da se stesso: lasciare la propria
terra fatta di sicurezze, di certezze, per portarsi verso quella
terra nuova che Dio gli dirà, fatta di mistero d'amore, e che lui
imparerà a conoscere vivendo l'atteggiamento di obbedienza al
volere di Dio e di consegna totale di se stesso ai divini voleri.
2. La sofferenza come vissuto nella sua esperienza
Sin dall'inizio dell'Epistolario, fra Immacolato dimostra di
essere disposto a vivere la volontà di Dio, disponendosi alla docilità. Scrive, infatti, il 12 novembre del '45: "in unione con Gesù,
sorretto dalla Vergine Addolorata, salgo il Calvario con il sorriso e con una gioia". Non mancano, però, dei momenti in cui
coltiva la speranza di guarire, per coronare il suo sogno di consacrazione a Dio. Ma giammai intende allontanarsi dalla volontà di Dio e dalla croce.
Intanto il male avanza e quella speranza di guarigione si dirada sino a svanire. Ad un confratello del Carmelo spiega con
lettera del 26 gennaio 1943:
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"Le mie condizioni fisiche sono peggiorate. Da due giorni il mio lato
destro con un gonfiore e rossore accentuato, mi ha portato la febbre a
40. Il dottore ha detto che si tratta di un richiamo della piaga sulla
schiena, dovuta alla continua posizione supina nel letto".
A Don Michele Ruccia fa sapere con lettera del 3 febbraio
1950 che il dottore ha constatato che il male si è esteso alla colonna vertebrale e al viso. "Ho esultato a questo verdetto.., il
dolore è nulla per chi crede, spera, ama... esso per me è l'amore
di misericordia". Il 29 febbraio del 1978 riferisce: "il giorno 11
febbraio ho avuto coliche renali, epatite e poi peritonite... sono
ancora molto malato". In un'altra lettera del 25 agosto 1972 afferma: "sono più di due anni che le mie condizioni fisiche sono
peggiorate; dallo scorso anno poi il male si è riacceso in tutto il
lato destro (flemmoni, piaghe, emorragie e dolori fortissimi si
avvicendano a ritmo serrato)... soffro veramente".
In una lettera senza data contenuta nel quarto Epistolario
afferma di essere stato male... "uno strano improvviso malessere, mani gonfie, specie la destra, affanno e difficoltà a parlare".
Una descrizione più accurata del soffrire di fra Immacolato
ci è data dal suo nipote Ernesto, medico, il quale tra l'altro, asserisce:
"il suo corpo giaceva nel dolore continuo.., in un letto senza poter muovere null'altro che la testa, le braccia ed un po' soltanto il busto, rimanendo il resto del corpo come pietrificato. E stato così oltre cinquant'anni... a questa condizione si aggiungevano i dolori continui, la febbre
ricorrente e tanti altri dolorosi momenti che si accanivano contro il suo
corpo... non un lamento, non un attimo di sconforto... solo il sorriso
lasciava il posto ad uno sguardo di dolore intimo, rivolto verso se stesso, mai diretto verso gli altri.., l’osteomielite gli causava fino agli ultimi giorni di vita periodiche febbri con temperatura elevatissima e dolori, che vengono descritti dai testi medici come lancinanti, talmente estesa
e radicata in profondità era la malattia; resta un vero mistero come
abbia potuto sopravvivere così a lungo".
3. La teologia della sofferenza nel vissuto e negli scritti:
il senso del soffrire cristiano
Per fra Immacolato, la sofferenza sperimentata è stata intesa
come una autentica vocazione ad essere conformato all'immagine del Cristo crocifisso e sofferente, ad essere associato alla
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sua passione e redenzione, e a spendersi per la causa della
santificazione dei sacerdoti e in riparazione alle offese inflitte
all'amore di Dio. Scrive il 6 settembre del 1947: "gioiamo della
croce e del patire perché ci conformano al nostro Dio crocifisso". E nella lettera del 13 settembre 1951 afferma:
"soffrire con Gesù e per Gesù è una gloria, un amore per noi. Se alla
preghiera uniamo anche la sofferenza, otteniamo un cumulo di grazia
per noi... per le anime".
La scoperta dell'importanza del soffrire e la sua finalità sono
di natura cristologica. Fra Immacolato impara a soffrire, scopre
l'importanza del soffrire e si impegna a vivere la sofferenza senza risparmiarsi per lo sguardo continuo che ha sul Cristo crocifisso, il suo primo riferimento e il modello tanto ambito da rappresentare nella sua vita e sulle proprie carni.
Nella lettera del 6 febbraio 1953 scrive: "che sia Gesù e solo lui a
disporre del mio dolore, della mia dolorosa passione, della mia morte...". Ed in modo ancor più specifico scrive il 22 maggio 1956:
guardiamo Gesù sulla croce e ci ispireremo al suo desolato abbandono
per vivere la nostra volontaria, voluta desolazione. Lasciamoci crocifiggere, accettiamo, amiamo tutto ciò che viene dell'Amore!... stendiamo liberamente le mani sul nostro legno di croce, perché altri ve le
inchiodi donandoci il più amoroso dolore, offriamo la nostra testa perché altri l'adorni (di) acute spine di Gesù.
Ad una suora scrive il 6 giugno 1956:
"mi sono ammalato, anche la piaga della schiena ha ricominciato a dar
sangue. Che io solo sia la vittima e mi consumi. Non per niente Gesù
mi ha dato un cuore per amare, un corpo per soffrire, una volontà per
sacrificarla".
Il suo soffrire è Cristo. Ad una suora spiega con lettera del 4
novembre 1956:
devo penare con il divino agonizzante del Getsèmani, devo pianger
solo, devo subire le umiliazioni, le calunnie, l'ingratitudine, gli oltraggi, ogni sorta di abbandoni. Bisogna che tutto, tutto per me sia
segnato dalla croce.
Qualche tempo dopo afferma:
vedo che attualmente il Signore mi associa in una maniera particolare
alla sua passione, con un'operazione realmente crocifiggente, con un
dolore profondamente doloroso. Prega che sappia con Gesù e come Gesù
salire il mio calvario.
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L'idea teologica che traspare chiaramente è quella di un soffrire come associazione alla sofferenza di Cristo, vivendo con
lui e come lui la croce. Fra Immacolato intende il suo soffrire
come condivisione della passione di Cristo. E forte di questo
riferimento capisce che l'intensità e le modalità del suo dolore
debbono somigliare a quelle di Gesù, ossia al dolore fisico deve
aggiungersi anche quello morale e spirituale fatto di calunnie,
umiliazioni, ingratitudine, oltraggi ed abbandoni.
Nella lettera del 22 luglio 1946 scrive:
lui vuole che il nostro posto sia sul Calvario, sull'altare, sia sulla croce.
Lui chiede che noi a lui ci uniamo nell'offerta di noi stessi ed in lui ci
trasformiamo per essere delle vere ostie di immolazione e di riparazione. Lui vuole che noi sempre siamo vittime di riparazione... sforziamoci di essere delle vittime riparatrici ed espiatrici.
Qualche giorno dopo spiegherà che tutta questa economia
della sofferenza appartiene all'Amore che esige dall'amato. Pertanto, amare è offrirsi, sacrificarsi, imitare, seguire il destino
dell'amato senza lamentarsi, come prova di adesione e di fedeltà a lui. In definitiva: soffrire significa vivere l'amato nella profondità del proprio essere e stamparlo sulla propria carne, come
amore che si è dato tutto ed in nulla si è risparmiato. Il soffrire,
allora, incomincia ad avere un orizzonte di finalità e di significato. Potremmo dire che questa consapevolezza costituisce la tanto
desiderata guarigione nell'esperienza del nostro autore. Infatti in lui la
vera guarigione non è consistita nel passare dalla malattia alla salute,
ma nello scoprire il senso della malattia, e che la malattia ha un senso,
una finalità teologica. In tal modo il soffrire costituisce un percorso
privilegiato di crescita umana e spirituale.
Al direttore Don Michele scrive il 16 ottobre 1947: "quello
che mi importa è di offrirmi, offrirmi sempre alla sofferenza, in
unione con Gesù Cristo, affinché la divina passione possa continuarsi". Soffrire significa vivere e sperimentare la vita di unione con il Cristo. Lo afferma in un'altra lettera dicendo: "Sì, desidero soffrire ed immolarmi per vivere una vita di solitudine, di oscurità e di intimità amorosa con Dio, di donare tutto senza mitigazioni, e
senza restrizioni, poiché ciò sarebbe un furto all'Olocausto".
Sembrerebbe un programma impossibile ad essere attuato
nella propria vita. Ma il nostro autore spiega con lettera del 2
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dicembre 1948: "lasciamo fare... e lui ci darà la forza di sopportare ogni croce e di farci sorridere sotto il peso della sofferenza".
Solo Cristo può entrare nella nostra sofferenza e la trasforma
dal profondo e dal di dentro, cambiando il nostro orizzonte da
tristezza per l'amarezza delle sofferenze a gioia per essere stati
resi ostia con l'Ostia divina nell'entità delle proprie sofferenze.
Solo così si può comprendere il cambiamento che si determina
nel profondo di fra immacolato, nonostante l'acerbità delle sofferenze, facendogli dire: "voglio essere volontà di Dio... questa
è la mia vocazione... diverrò ovunque un sorriso della volontà
di Dio". E in un'altra lettera: "Dio... mi renda un turibolo di sofferenze". Ma ancor più significativo è il testo della lettera scritta
il 16 aprile 1950 al suo direttore spirituale, in cui dice:
compresi che devo soffrire perché Lui sia la forza dei deboli. Questo
pensiero è stato per la mia anima come un raggio di gioia, come un
riposo preso lungo la via del Calvario per fortificarmi e vivificarmi ...
chiamato a soffrire senza sollievo, privo di consolazione, nell 'aridità e
nelle tenebre... voglio soffrire ancora, soffrire sempre, soffrire di più..., e
per divenire un continuo atto di oblazione e di amore alla Trinità santa..., mi offro vittima.
Si può notare nella concezione del suo soffrire una continua
ricerca di Cristo, e di questi crocifisso, unita ad una espressa
volontà di rassomigliarlo nell'offerta del proprio corpo, della
propria vita. Contemplare Gesù, seguire Gesù deve significare
entrare nel suo destino di sofferenza e di vita di amore spesa
per l'altro nel sacrificio di sé. Ma, al tempo stesso, leggere la
sofferenza nella propria vita con gli occhi della fede significa
scoprire e percepire la chiamata di Cristo alla sua sequela all'associazione del suo sacrificio, alla sua imitazione. Per questo
si definisce "alfiere della sofferenza".
Aver compreso la sofferenza come una vocazione alla somiglianza e configurazione a Gesù crocifisso, e come un'associazione al sacrificio di redenzione di Gesù per il bene dei fratelli,
lo fa uscire in espressioni come quelle contenute nella lettera
del 12 dicembre 1950, ove dice: "sì, sono felice di soffrire, felice
di essere senza gioia, senza consolazione, ricolmo di pene". E, a
conferma di ciò, dice nella lettera del 10 novembre 1951: "mi
sono lasciato condurre come un piccolo agnello alla croce, all'immola15
zione, alla morte! Mai ho recalcitrato, ho sempre detto di sì".
E se il suo soffrire è Cristo, la ragione del suo soffrire è Cristo, il progetto del suo soffrire è Cristo, il modello ispirativo del
suo soffrire è Cristo, la scultura da raffigurare nella sua vita è
Cristo, si comprende bene il perché fra Macula intenda la sua
vita come un assegno in bianco consegnato al suo Signore perché sia Lui a stabilire la cifra della sofferenza, cioè lo spessore
del suo Sì vittimale. Da parte sua, solo la richiesta di essere reso
capace di corrispondere e di rimanere nascosto agli occhi del
mondo, affinché il suo sacrificio si consumi nella radicalità ed
intensità verso Dio, ma nel nascondimento agli altri.
Nella lettera in cui va a motivare la sua richiesta di ingresso
nell'Ordine dei Carmelitani scalzi, sebbene nello stato di ammalato, afferma: "sono buono a nulla, però posso ancora soffrire ed allora, spogliandomi, bagno di sangue le mie povere preghiere". Sarà mai gradita questa offerta, questa intenzione? E lo
stesso Epistolario a risponderci attraverso due lettere. La prima
porta la data 16 settembre 1958, e contiene una prima locuzione
avvertita dal nostro autore che dice testualmente:
"ti farò soffrire, ti priverò di appoggio e di conforto, ti farò sentire solo
nella difficoltà e nelle pene, l'umiliazione e la sofferenza ti stringeranno da ogni parte".
La seconda lettera, invece, riporta la seguente locuzione: "ti
voglio solo solo, nudo nudo sulla croce... affinché le tue sofferenze straordinarie e dolorose sfuggano agli occhi di tutti e restino nascoste fra me e te".
Dunque, il soffrire di fra Immacolato è silente e nascosto agli
occhi del mondo. La sua risposta a questo progetto è contenuta
in alcune lettere. Una di queste porta la data del 3 febbraio 1950,
in cui conferma la totale disponibilità di offerta al Signore come
sua vittima, avanzando solo una richiesta a Gesù: "di non lasciar trapelare nulla... perché è bello soffrire nel corpo e nell'anima senza che nessuno se ne accorga... il soffrire passa, l'aver
sofferto resta". Nel nascondimento, fra Immacolato può assicurare due elementi importanti del suo soffrire: la totalità e la
radicalità. Entrambe possono essere compromesse di fronte ad
occhi indiscreti, capaci di invadere l'intimità offertoriale. Ma
forse voleva anche intendere che lo stato di sofferenza passa,
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però il beneficio e la testimonianza dell'aver sofferto resta.
La seconda lettera in argomento porta la data del 12 dicembre 1950, e dice: "vorrei da Gesù che per gli altri il mio calice
appaia dorato, il mio Calvario nascosto, delizioso, per serbare
per lui solo l'intensità del mio patimento e il mio amore". Nel 23
febbraio 1953 dice con determinazione: "provami quanto vuoi,
fai di me quel che vuoi ma io non ti dirò mai basta, non mi lagnerò
mai dicendo che non ne posso più”.
A conclusione di questo paragrafo, riportiamo due ulteriori
affermazioni che vanno a coronare l'archeologia della sofferenza testimoniata ed espressa da Fra Immacolato.
La prima porta la data 10 gennaio 1959, quando scrive ad
una consorella affermando: "se la sofferenza è un bacio amoroso del crocifisso, il dolore accettato, per puro amore, è il bacio
che rendiamo continuamente a Dio". Dunque, la sofferenza è
un'iniziativa di intimità e di familiarità, oltre che di amore da
parte di Dio. Ma l'accoglienza, l'accettazione del dolore vissuto come
atteggiamento in risposta di amore all'amore, costituisce un bacio perpetuamente dato a Dio.
La seconda invece porta la data del 15 gennaio 1981, in cui è
detto senza mezzi termini:
fare oggi le teologie, i discorsi su Dio, per quanto importanti, non bastano più. Ci vogliono esistenze che gridano silenziosamente il primato
di Dio. Ci vogliono uomini che trattano il Signore da Signore, che si spendano
nella sua adorazione, che affondano nel suo mistero, sotto il segno della gratuità e senza umano compenso, per attestare che egli è l'Assoluto.
Il mondo, direbbe Paolo VI nell'Evangelii Nuntiandi, oggi, più
che di maestri, ha bisogno di testimoni. E la sofferenza vissuta
nell'ottica della fede è una testimonianza che lascia un insegnamento indelebile. A ciò può aggiungersi un'ultima espressione:
"dal Calvario è più facile il volo al cielo".
4. La famiglia: il grembo naturale per l'accoglienza della sofferenza
Nella vicenda di fra Immacolato, riveste un particolare rilievo il ruolo della sua famiglia. Sempre è stata presente, in ogni
circostanza e con efficienza, concorrendo a rendere meno penose le sofferenze del loro congiunto. Chiunque gli avesse fatto
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visita notava con evidenza la cura riservatagli dai suoi: biancheria sempre pulita, stanza in ordine ed accogliente, profumo
di pulito diffuso per tutto l'ambiente, che si confondeva con un altro
profumo, che diceva la presenza di Dio in quel luogo di sofferenza.
Accanto al malato vi è sempre una famiglia. Presso la sofferenza vi
è sempre l'amore di appartenenza, che esprime il suo coinvolgimento
capace di diventare offerta di energie, di tempo, di progetti.
La croce richiama il Calvario, ed ogni Calvario ha sempre un
drappello di persone fedeli che hanno il compito, non di salire
sulla croce, ma di stare presso la croce, per diventare testimoni
autorevoli e privilegiati del crocifisso, e scrigno per raccogliere
le sue ultime volontà. E la famiglia che segue passo passo il
malato lungo la Via Crucis che porta al Calvario della consumazione, senza mai abbandonarlo. Ed in questa esperienza cresce
nella statura di amore e di donazione. In tal modo, la sofferenza
diventa un'autentica catechesi per la famiglia finalizzata ad un
mandato missionario entro le mura domestiche, capace di trasformare le prove in occasione di santificazione, ma nell' obbedienza.
La presenza di un malato che accoglie e vive i termini della sua
malattia è una benedizione, perché costituisce un processo di conversione e configurazione a Cristo, che si estende sino ad interessare quanti sostano presso il suo Calvario. Il malato è configurato
al Cristo patiens nella carità di immolazione. I parenti ed amici sono
configurati a Cristo servo dell'umanità sofferente nella diaconia
di amore che si piega come buon samaritano sino alle profondità
estreme delle esigenze dell'amato, del malato.
La sequela cristica viene più concretamente vissuta quando
si fa sequela crucis nella configurazione alla passio Christi e nella
condivisione del peso di carità.
Quando la sofferenza fa visita ad una famiglia, si determinano i ruoli: il malato è il crocifisso chiamato a salire sulla croce: la
famiglia è il Cireneo chiamata ad aiutare a portare la croce del
crocifisso fino al luogo della consumazione definitiva, il Calvario. Ma, per tutti, la croce è l'esperienza di morte che si fa ipoteca di resurrezione, se ognuno sa vivere il proprio ruolo e sa rimanere nel proprio spazio: il malato come crocifisso, e sulla croce; la famiglia come discepola, e compartecipe presso la croce.
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5. Il letto di Fra Immacolato: cattedra di sofferenza
Fra Immacolato si propone come un'icona di sofferenza per i
nostri giorni, perché vicino ai nostri giorni, e perché aderente
alle vicende dei nostri giorni. In lui non ammiriamo fenomeni
straordinari provenienti dal cielo e segnati sul suo corpo che ci
portano a sentire la distanza di quel vissuto dal nostro. Non è
segnato dal dono mistico delle stimmate, che ci porta ad esclamare la non proponibilità per noi cittadini della ferialità. In lui,
invece, ammiriamo l'incarnazione dello straordinario nelle
fattezze dell'ordinario, perché l'ordinario venga vissuto straordinariamente e lo straordinario venga nascosto ordinariamente.
Iddio ha voluto che Fra Immacolato parlasse la lingua della
sofferenza comune, quella che inchioda tanti nostri fratelli sul
letto del dolore per un tempo senza tempo, ed in una continua
ed inesorabile consumazione del fisico e delle resistenze, col
contrappasso dell'aumento del dolore. La ragione è che la sofferenza possa essere letta e meglio accolta come uno strumento di
grazia e di benedizione, perché si possa passare dal recalcitrare
all'abbandonarsi.
Quando Dio pianta una croce in una famiglia, in un contesto
sociale, Iddio pianta la sua tenda in mezzo agli uomini, rendendo quel crocifisso di sofferenza un sacramento della sua presenza, affinché chiunque, guardando quel volto segnato dalla
sofferenza, ne sappia riconoscere le fattezze del Dio crocifisso e
misericordioso.
La croce di Fra Immacolato è un letto su cui distendere le
braccia per vivere la sua immolazione. L'altare di fra Immacolato è un letto ove lui si adagia come un'ostia sulla patena, affinché il Sacerdote divino possa offrire il sacrificio dell'amore.
Tutto si consuma dentro il piccolo perimetro di una stanza,
di una casa sita in piazza “Vincenzo Cuoco” al civico 2: una
malattia, un letto, una camera, una famiglia, una spiritualità un
apostolato, in un tempo storico preciso ed in un contesto culturale preciso. Non riferimenti straordinari, non luoghi straordinari. Ma solo una estenuante, arida normalità, durata
cinquantuno anni circa, il tempo di un giubileo di sofferenza e
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di una sofferenza resa giubileo di espiazione, di immolazione
per la causa di santità dei sacerdoti.
Fra Immacolato dimostra, con la sua esperienza, che la croce
che Dio ci chiede di portare ogni giorno appartiene alla
quotidianità della nostra vita, le responsabilità che ci riguardano, e nello stato in cui siamo chiamati a vivere. Dice infatti il 20
febbraio 1963:
“non bisogna per saper soffrire sopportare grandi ed eroiche croci, basta sopportare le piccole difficoltà, ripugnanze, malesseri, piccole noie,
tutto quanto riempie le nostre giornate; sopportarle in silenzio, in pace,
con amore. Ricordati che mai si soffre senza trarne un bene”.
L'alimento e la forza per vivere questa prova è data dalla
Parola ascoltata e creduta ogni giorno e dal Pane eucaristico mangiato, per il quale siamo trasformati in esso stesso, cioè ostia di amore.
Il soffrire di fra Immacolato si rivela come un battesimo di
Pentecoste, attraverso cui si vede uscire dal cenacolo del
nascondimento e della dimensione privata, per essere posto lungo la via di tanti viandanti in cerca di Dio, i quali, nell'arsura
della loro sete, si sono visti dissetare dalla fontana di acqua zampillante che è quel frate malato, ed impossibilitato a fare altro che
non essere e rimanere malato.
In tal modo, fra Immacolato ci attesta che la sofferenza ha
una dimensione apostolica e missionaria. Anzi, forzando i termini, potremmo arditamente affermare che il malato è il discepolo dal valore aggiunto appartenente a tutti tempi della storia,
chiamato ad annunciare il vangelo di misericordia senza mai
muoversi dal punto in cui è stato piantato da Dio per i viandanti
della storia, divenendo l'epicentro di incontro con Dio.
A conquistare non sarà la smorfia di dolore e il grido di ribellione su di una croce scomoda, ma il sorriso profondo e sincero, riflesso della trasparenza di Dio, capace di sussurrare nella profondità della coscienza degli uomini una profonda verità:
il mio soffrire è per te, perché il tuo soffrire si cambi in guarigione e gioia.
Chiunque avesse fatto visita a fra Immacolato presso il suo
letto di dolore si scopriva infermo, e attingeva da quel letto il
farmaco della guarigione. In tal modo, il malato diventa spec20
chio esistenziale, da cui una salute efficientista si scopre inferma e provveda a procurarsi guanto le necessita per la guarigione. Il malato è il richiamo di Dio all'uomo che crede di star bene.
Il malato è presenza di Dio per l'uomo che continua a nascondersi dalla verità; è la carezza di Dio, l'esperienza di umanità ed
umanizzazione per un uomo che sta perdendo tale grammatica
esistenziale, perché il tempo del malato è quello di non avere
altro tempo che soffrire nella diaconia dell'amore, e la speranza
di essere rifocillato dalla visita dell'amore che ha il coraggio di
fermarsi e chinarsi presso il suo letto.
6. Verso la conclusione
Il 17 aprile 1949 fra Immacolato scriveva a don Michele Ruccia:
Quando morrò, nessuno mi perderà, poiché tornerò sulla terra, vi ritornerò per violentare le anime, affinché amino e conoscano Dio così
come Lui vuole essere amato e conosciuto. Vi tornerò per essere il custode, il difensore e il coadiutore dei miei diletti Cristi.
Quanto sei stato e resti grande, fra Immacolato, nella tua piccolezza! Quanto sei evidente nel tuo nascondimento! Loquace
nel tuo silenzio e salutifero nel tuo soffrire! Quanto sei stato
forte nella tua debolezza! Quanto ci torni utile nella tua inutile
inefficienza! Quanto sei stato straordinario nella tua ordinarietà,
perché hai reso straordinario ciò che appartiene a
quell'ordinarietà che non fa cronaca, la malattia! Quanta strada
hai percorso, pur non potendoti muovere, tu che nella tua immobilità sei entrato nella coscienza di molti! Vivi, e continua a
parlarci!
Fr. Luigi M. LA VECCHIA ofm cap.
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