ALFA Musicorum Convivium e La serva Padrona ALFA MC presenta l'ensemble Eptafon ne "La Serva Padrona", intermezzo buffo di G.B. Pergolesi con: Serpina Fausta Ciceroni, Uberto Alessio Magnaguagno, Vespone Ariele Vincenti, M.o concertatore Alessandro di Petrillo e la piccola orchestra da camera Eptafon. La Serva Padrona, ossia la storia infinita del primato di quella metà del cielo chiamata donna, della vittoria della femminilità sulla boriosa presunzione maschile, la dolce malizia che scioglie i dubbi e travolge le convenzioni sociali e gli stereotipi dei rapporti interpersonali ed il tutto a leggero passo di danza, un soffice minuetto che dal '700 non smette di intrigarci. Serpina riesce, a dire il vero senza fatica, a farsi sposare da Uberto con l'aiuto del muto Vespone attraverso una trappola tessuta con un crescendo di situazioni e di emozioni, Un teatro vivace, spigliato, fluido che nel pieno rispetto delle regole aristoteliche di azione, luogo e tempo fa girare vorticosamente le lancette dell'orologio, così velocemente che dopo un'ora passata a seguire la vicenda delle nostre tre marionette, rimane solo lo stupore dipinto da un sorriso, che purtroppo la commedia della vita è già finita. Non resta che un applauso catartico, buona visione! La Serva Padrona, la trama Uberto, tutore burbero e scapolo, ha al suo servizio una trovatella, Serpina, e un garzone tuttofare, Vespone. Nobile, forse un poco perditempo, vive le sue giornate alzandosi tardi, e attendendo alla sua attività senza troppo entusiasmo. Un’ennesima mattina si alza ed è tutto arrabbiato perché la sua Serva Serpina non gli ha ancora portato la colazione (Aspettare e non venire), niente poco di meno che una tazza di caldo cioccolato (ricordiamo che il cioccolato era stato importato da pochissimo tempo e tale bevanda costituiva un lusso sopraffino, di uno che sa apprezzare ampiamente i piaceri della vita), il suo servo l’ha lasciato senza neanche fargli la barba, insomma, la giornata non promette niente bene. Il matrimonio alla moda di Hogart Invia il suo garzone per cercare di Serpina, e quella di tutta risposta si presenta con estrema riluttanza, litigando per giunta con Vespone. Nel chiedergli cos’abbia, quest’ultima dice di essere stufa, che non ce la fa più e che, pur essendo serva, vuole essere rispettata e onorata come una vera signora. Uberto perde la pazienza e dichiara alla sua servetta che non c’è la fa più di quel continuo battibeccare (sempre in contrasti). Serpina allora inizia a tessere la sua tela, lamentandosi per ricevere solo rimbrotti alle sue “continue attenzioni”. Uberto cerca di riderne, ma poi vedendo che la sua “piccina” si arrabbia cede e chiede i paramenti per uscire, al che Serpina gli intima di rimanere a casa perché ormai è tardi, e che se si ostina lei chiuderà a chiave l’uscio. È troppo Uberto decide che l’unica via di salvezza per fermare l’alterigia di questa femminuccia è quella di opporgli un’altra donna, la Padrona di casa, e ordina a Vespone di trovargli una moglie. Serpina non si lascia sfuggire il suggerimento e subito gli dice che fa La vivandiera di Chardin bene, che l’approva a tal punto di offrirsi lei come sposa. Uberto tenta di opporsi, ma Serpina afferma con tutta la sua femminilità e spigliatezza che sia pure “stizzoso” ma tanto alla fine farà come dice lei (Stizzoso, mio stizzoso). sposar me! Al rientro di Vespone con gli indumenti per uscire Uberto gli replica che può anche riporli, tanto la sua padrona ha deciso che lui non deve uscire per ora… Vespone è attonito, Serpina sferra un altro attacco e nel duetto che chiude il primo intermezzo, Lo conosco…, Uberto è ubriacato dalla sua servetta, e per quanto Vespone cerchi di dissuaderlo, non vi è molto scampo, Serpina ormai ha deciso: dovrete Il secondo intermezzo si riapre con una doppia scena, da una parte Serpina ha convinto Vespone ad aiutarla nel suo proposito, chiaramente con la promessa che sarà il secondo padrone di casa (ah, le donne! In casa ci sono solo due uomini, poveri Vespone e Uberto!), dall’altra Uberto si è preparato per uscire e va borbottando fino a che non si accorge di Serpina che ha fatto nascondere prontamente Vespone-Capitan Tempesta. Serpina cerca in qualche modo di attirare l’attenzione di Uberto, rivelando, a suo dispetto, che anche lei ha trovato un marito, che e’ un militare e per l’appunto si fa chiamare Capitan Tempesta. Uberto e’ chiaramente infastidito da questa nuova e cerca di nascondere ciò schernendo la sua deliziosa serva, rivelandole, alla fine del recitativo, che nutre nei suoi confronti un certo affetto. Serpina allora, ormai conscia della sua vittoria, non fa altro che impietosire Uberto, dicendogli di non dimenticarsi di lei e di perdonarla se a volte e’ stata impertinente. Qui Serpina canta per l’appunto l’aria “A Serpina penserete…” Terminata l’aria Serpina continua con la sua recita e chiede ad Uberto se vuol conoscere il suo sposo, e quest’ultimo a malincuore accetta. Uberto rimasto solo si interroga nel più profondo del cuore e si rende perfettamente conto di essere innamorato della sua serva, ma come fare ad assecondare il suo cuore? Lui e’ il padrone, e secondo i canoni dell’epoca era impensabile che potesse accadere che un signore prendesse in moglie la propria serva. E’ molto confuso, non sa come risolvere la situazione e nel recitativo che canta, così come nell’aria successiva “Sono imbrogliato io già”, si capisce perfettamente il suo stato d’animo che e’ paragonabile ad un febbricitante in cerca di acqua. Serpina a questo punto fa la sua entrata in scena con Vespone, camuffato da Capitan Tempesta. Uberto è al tempo stesso esterrefatto e geloso, e subito gli chiede se è contento di sposare Serpina. Questo recitativo finale è veramente divertente, dove si vede Uberto sempre più imbarazzato che cade alla fine nella tela tessuta con molta astuzia da Serpina. Vespone è smascherato, ma nonostante le rimostranze di Uberto, il gioco è fatto e Serpina soddisfatta termina con la frase che è la chiave di questo intermezzo buffo “E da serva divenni io già padrona”. L’operina termina con due finali. Il primo è un grazioso duettino dove i protagonisti si dichiarano il proprio amore. Uberto sembra ringiovanito e lo pervade un entusiasmo tipico dei giovanotti. E’ appunto interessante notare come l’amore, che è il motore della vita, cambia le persone e come nel caso di Uberto, da vecchio burbero e brontolone lo trasforma in un giovane alla prima esperienza amorosa. Questo duetto in origine chiudeva l’opera, ma dall’edizione parigina della Serva (vedi più avanti) in poi è stato inserito un altro duetto che oggi è considerato il finale e che, nella maggior parte delle edizioni, normalmente sostituisce l’altro, che è sempre una dichiarazione festosa d’amore. Questa operina racconta in definitiva una storia tipica anche dei nostri giorni, la solita vecchia storia che si ripete con le solite figure tipiche della commedia del cinquecento che hanno fatto e faranno sempre la storia della nostra magnifica vita. Analisi della Serva Padrona di Pergolesi La Serva Padrona non ha ouverture, dato il suo carattere originale di intermezzo, ma questa mancanza di introduzione non è affatto sensibile perché la prima aria di Uberto con la sua descrizione delle miserie e delle noie della vita di un celibe è il migliore preludio della commedia. Dal punto di vista musicale la prima aria di Uberto è già un esempio tipico del genere, troviamo infatti già nella prima frase quel tono vivacemente colloquiale, il vocabolario che sacrifica grammatica e semantica, ma che suggerisce in modo calzante la situazione, infatti il nostro esclama “aspettare e non venire” che è già una sgrammaticatura, due infiniti coordinati con soggetti diversi, lui aspetta e Serpina non arriva, che tuttavia serve a tratteggiare mirabilmente ed in maniera realistica lo stato di impazienza, di collera crescente del protagonista maschile, che infatti sullo stesso tono continua con “stare a letto e non venire… ben servire e non gradire”. La collera che cresce è resa dalla ripetizione ossessiva delle frasi su gradi dell’accordo sempre più acuti per ricadere ben presto in una specie di lamento espresso con un rallentando di seconde trascinanti. La collera rumorosa si alterna bruscamente con un abbattimento pietoso, con la classica cadenza quinto primo che dopo tanto incalzare ritmico fa capire fin dall’inizio quanto in realtà sia “tanto rumore per nulla”, in quanto Uberto, è si collerico, ma, e forse per questo, debole è rassegnato ancora prima di iniziare la battaglia. Il recitativo successivo e la seconda aria di Uberto sono poi uno splendido esempio di come l’aria ed il recitativo siano innervati uno nell’altro e non ci sia frattura dell’azione, come avviene nell’opera seria coeva, quando arriva l’aria, si pensi proprio al finale Ma io bestia non sarò Più flemma non avrò Il giogo scuoterò e quel che non ho fatto alfin farò (a Serpina) sempre in contrasti con te si stà! E qua e là E su e giù E non e si! Or questo basti Finir si può! e così avanti, fino alla fine dell’aria è un dialogo che non si interrompe e si risalda al successivo seguente di modo che l’azione non ha mai un attimo di esitazione e lo scorrere del tempo sembra estremamente naturale, quasi come se fosse prosa, o meglio ancora come se fosse una scena di quella alle quali tante volte si è assistito nella propria esperienza quotidiana. Dal punto di vista musicale la scrittura vocale affidata ad Uberto esprime ancora con straordinaria naturalezza e vitalità ritmica lo stato d’animo del personaggio. Si ascolti il procedimento martellante delle iterazioni verbali, gli incisi melodici molto brevi, interrotti da frequenti pause, nonché il frequente rimbalzare di monosillabi antitetici. Si tratta indubbiamente di un linguaggio musicale volto a suggerire e a potenziare l’immissione di gesti e movimenti (Uberto esprime il suo scontento a Serpina, si lancia in una mimica collerica, fa gesti risoluti, domanda con le mani e con il capo, e così via, tutte indicazioni che si trovano già nel testo stesso dell’aria). Infatti in modo assolutamente sconosciuto alle arie d’opera seria, la partitura contiene già in sé la regia dello spettacolo, secondo una tecnica espressiva che proseguirà e si perfezionerà nell’opera comica per tutto il secolo. Il personaggio femminile di Serpina è caratterizzata non da meno, fin dal recitativo, e nell’aria è espresso ancora meglio: la bella servetta sa lusingare e viziare, ma ancor meglio strapazzare. Durante tutta l’opera, per un tratto di speciale finezza, la parte indecisa e debole dell’irritabile Uberto, si esprime sempre nelle oscure tonalità bemolli, mentre la parte di Serpina a volte lusingatrice e a volte minacciosa ma sempre sicura di se, è quasi totalmente in tonalità di diesis. A chiudere il primo intermezzo troviamo il primo duetto, forse la gemma dell’opera intera: la domanda meravigliata di Serpina, “ma perché, ma perché?”, il modo in cui ella vanta i suoi meriti, “non son io bella, graziosa e spiritosa… su mirate leggiadria…”, i lamenti di Uberto “ah costei mi va tentando!...Quanto va che me la fa!”, e finalmente il suo ultimo tentativo di diesa energica “eh! Vanne via! Eh matta sei!”, in realtà solo ascoltando questo brano, un vero capolavoro di tutta la letteratura buffonesca, si giustifica l’enorme effetto che quest’operina, l’opera più antica che ancora si esegua regolarmente, produce da due secoli sul pubblico musicale. Notiamo poi l’aderenza della musica all’azione drammatica e alla caratterizzazione psicologica della situazione e del personaggio anche attraverso un pezzo chiuso come l’aria, nella seconda aria di Serpina: l’alternanza di sezioni in 4/4 (il largo) e in 3/8 (l’allegro) serve a delineare magistralmente i due aspetti della protagonista, l’ardente passionalità e la frivola esuberanza. Se si considera che la Serva Padrona è stata scritta circa 50 anni prima delle grandi opere di Mozart, si stimerà ancora di più l’incomparabile arte di caratterista che era in Pergolesi, che si compiaceva in particolare di prendere in giro i mezzi patetici d’espressione che abbondavano nelle opere serie dei suoi tempi, e che tra l’altro, dobbiamo comunque sottolineare, non gli davano la soddisfazione ed il successo ricevuto nel campo comico, se pensiamo che l’opera seria, il Prigionier Superbo, della quale la Serva costituiva l’intermezzo, non è conosciuta ai più, né è stata mai ripresa.