Relazione di S.E. Mons. Antonio Staglianò
Educare a comunicare nel mondo digitale: solo informazione?
Una passione pastorale indispensabile per vivere il Vangelo oggi1
Gli Orientamenti pastorali della CEI per il decennio che sta trascorrendo – Educare alla vita
buona del Vangelo -, ripropongono al centro dell’attenzione di tutti il tema dell’educazione,
rimettendosi nel solco della tradizione educativa della Chiesa, e richiedendo un supplemento di
impegno perché si lavori «a una formazione totale della persona». Svolgendola riflessione sulla
educazione in rapporto alla comunicazione nella cultura digitale di oggi, si afferma al n. 51: «La
comunità cristiana guarda con particolare attenzione al mondo della comunicazione come a una
dimensione dotata di una rilevanza imponente per l’educazione. La tecnologia digitale, superando la
distanza spaziale, moltiplica a dismisura la rete dei contatti e la possibilità di informarsi, di
partecipare e di condividere, anche se rischia di far perdere il senso di prossimità e di rendere più
superficiali i rapporti. La crescita vorticosa e la diffusione planetaria di questi mezzi, favorite dal
rapido sviluppo delle tecnologie digitali, in molti casi acuiscono il divario tra le persone, i gruppi
sociali e i popoli. Soprattutto, non cresce di pari passo la consapevolezza delle implicazioni sociali,
etiche e culturali che accompagnano il diffondersi di questo nuovo contesto esistenziale. Agendo sul
mondo vitale, i processi mediatici arrivano a dare forma alla realtà stessa. Essi intervengono in
modo incisivo sull’esperienza delle persone e permettono un ampliamento delle potenzialità umane.
Dall’influsso più o meno consapevole che esercitano, dipende in buona misura la percezione di noi
stessi, degli altri e del mondo. Essi vanno considerati positivamente, senza pregiudizi, come delle
risorse, pur richiedendo uno sguardo critico e un uso sapiente e responsabile». Gli appunti
meditativi che seguono intenderemo costituire una sorta di “commento-approfondimento” di questo
testo, con particolare riferimento (benché non specifico) alla realtà giovanile.
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Educare i giovani, accompagnarli nel loro cammino di crescita, aiutare la loro intelligenza e
il loro cuore a maturare con consapevolezza critica e apertura d’animo, è il compito più importante
per la società civile di oggi e per le nostre famiglie. La Chiesa ha una storia millenaria nell’ambito
della formazione e dell’educazione. E’ giusto allora che l’attuale “emergenza educativa” la
interpelli direttamente e che ricomincino a sorgere nuovi spazi formativi, nei quali la trasmissione
dei saperi venga fatta rispettando tutte le dimensioni che entrano in gioco nel processo educativo:
per educare, infatti, non basta semplicemente informare, ma è necessario forgiare il cuore e la
mente, perciò si educa la persona, non soltanto il suo cervello. Una delle crisi della scuola di oggi,
per esempio, sta proprio nel fatto che mentre istruisce, non riesce più ad educare, perciò non riesce
neanche ad istruire: l’istruzione infatti presuppone l’educazione ed è essa stessa un fatto educativo.
Il grande rischio di oggi è infatti quello di una educazione “mozzata”. Pensiamo solo per
esempio al problema della istruzione-formazione-educazione nelle scuole: una scuola che puntasse
esclusivamente e in maniera esagerata all’istruzione come “arido intellettualismo” o
“enciclopedismo senza vita” al quale viene a mancare tutto il lato estetico, etico, religioso, non
farebbe un buon servizio alla formazione integrale della persona. La predilezione degli aspetti
tecnico-scientifici nella formazione scolastica a scapito di quelli umanistici è solo un segnale
dell’impoverimento verso cui tende il sistema educativo generale.
E’ questione che interpella non solo la scuola, ma ogni luogo o tempo formativo,
ovviamente anche la comunicazione umana in tutte le sue forme, specialmente l’annuncio del
Vangelo che, da sempre, ha la pretesa di educare l’umano degli uomini, propiziando l’incontro con
una persona vivente, il Cristo, l’unico maestro, capace di conferire all’esistenza degli uomini e delle
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Un approfondimento complessivo, dal punto di vista teologico pastorale, si può trovare in A. Staglianò,
Vangelo e comunicazione. Radicare la fede nel terzo millennio, EDB, Bologna 2001.
donne, specialmente dei giovani, quel gusto nuovo di vivere, nel quale splende la bellezza
dell’umano.
Educare significa “introdurre alla realtà”, a tutta la realtà, per affrontarla con competenza e
creatività. E’ un insegnamento che presuppone la capacita della fede cristiana di generare nuova
cultura: il cristianesimo apre gli occhi sulla realtà e dispone l’uomo ad assumersi responsabilmente i
compiti anche difficili della vita, senza “fuggire dalla realtà”. Oltre dunque inutili pregiudizi (più o
meno moderni), occorre ribadire che la fede favorisce l’autonomia della cultura e la libertà della
ricerca culturale, dà ad esse solide fondamenta e, nel rispetto dei metodi e dei linguaggi dei vari
saperi, ne indica un esito propositivo. Sicchè, il riferimento esplicito e diretto alla fede cattolica
aiuta la trasmissione dei saperi scientifici nell’orizzonte di una razionalità vera, aperta alla questione
della verità e dei grandi valori iscritti nell’essere stesso dell’uomo e aperta pertanto al trascendente,
a Dio. E’ necessario allora preoccuparsi di offrire ‫״‬un sapere per la vita‫״‬, ossia di fornire strumenti
utili ad interpretare e ordinare criticamente i messaggi ricevuti da più parti e in vario modo, oltre
che utili ad introdurre nella cultura significati umani, personali e collettivi, che superino una
visione ‫״‬neutrale‫ ״‬del sapere. Si tratta di educare delle persone e l’educazione è educazione della
persona. Perciò, la libertà viene assunta “come clima e come metodo”, nell’affermazione della
propria identità e dei propri valori di riferimento. Non si deve allora educare al pluralismo, come se
tutte le opinioni fossero vere, ma educare nel pluralismo, con l’affermazione delle proprie
convinzioni, pur nella conoscenza e nel rispetto di quelle altrui. Dovremmo puntare – come afferma
Benedetto XVI, in continuità con la tradizione cattolica, specie del XX secolo - a un umanesimo
integrale comprensivo di ogni dimensione dell’educazione (quella civile e politica non meno di
quella morale e religiosa), nell’ottica di una laicità rettamente intesa. Certo, tutto deve accadere
nella drammatica dell’odierna libertà. E’ tempo di una “nuova creatività” educativa, per mettere le
ali alla capacità di ognuno e di tutti, per inventare percorsi formativi ed educativi idonei ad
affrontare le grandi sfide dell’odierna società complessa, multiculturale e pluralistica.
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Cor ad cor loquitur (Newman). Per essere feconda l’educazione ha da essere
“personalizzante” e diventa inevitabilmente “comunicazione interpersonale”. In generale, certo, ma
soprattutto in particolare quando si tratti di educare alla fede e di educare nella fede. E’ un
processo delicato con il quale ci si impegna farsi spazio nei cuori delle persone, per guidare le
coscienze di ognuno sulle vie della fraternità, della solidarietà cristiana e del prendersi cura, senza
disattendere quelle della giustizia sociale, dell’onesta politica e del bene comune. Mi pare che la
testimonianza comunicativa di Papa Francesco vada in questa direzione e si sta presentando come
un buon “modello” comunicativo, in grado di ridare nuova credibilità al cattolicesimo, pur dentro i
tanti disastri e le diverse “disgrazie” del tempo presente (si pensi al problema dei preti pedofili e le
tante forme di corruzione che avvelenano il segno comunionale proprio della Chiesa). E’
interessante su questo leggere il piccolo opuscolo di Jorge Mario Bergoglio-Francesco “Guarire
dalla corruzione” (Emi, Bologna 2013).
Per il primo aspetto (educare alla fede) l’annuncio del Vangelo resta imprescindibile, come
annuncio, predicazione e celebrazione liturgica: è la comunicazione tipica dei cristiani, inseriti in
una tradizione vivente, nella quale ricevono da secoli l’amore di Cristo attraverso la celebrazione
dell’Eucarestia e si impegnano a loro volta a trasmettere-comunicare lo stesso amore in relazioni
umane improntate alla sincera amicizia e ad una feconda ospitalità.
Per il secondo aspetto (educare nella fede) è quanto mai necessario che la verità del Vangelo
getti luce sui tanti sentieri della vita degli uomini e delle donne del nostro tempo, senza
dimenticarne nessuno: così, la predicazione cristiana – primo compito della Chiesa - diventa
servizio intelligente al discernimento del bene di tutti, della fiducia sociale per convivere insieme
nella pace e nel rispetto della dignità della persona umana, dell’ambiente da salvaguardare per
sopravvivere nel nostro pianeta, delle relazioni sociali nelle quali in maniera speciale si gioca il
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futuro dello sviluppo del nostro territorio. Nel Vangelo di Gesù che è identico alla sua persona (la
persona della Verità o la Verità in persona) è “il” nuovo umanesimo, secondo il titolo del Convengo
ecclesiale di Firenze del Dicembre 2015.
Insistendo su questo secondo aspetto, senza per altro abbassare la guardia circa il primo, la
Chiesa non entra affatto in terreni che non sarebbero propri della fede. Tutt’altro, si impegna invece
a correggere certo devozionalismo serpeggiante dentro le comunità cristiane, spesso chiuse in
pratiche pietistiche che non formano coscienze di cristiani adulti e maturi nella fede, capaci di
assumersi le dovute responsabilità sociali nella propria vita quotidiana e nella propria storia
personale e comunitaria. Il nuovo umanesimo, sgorga dalla fede cattolica ed è coscienza che il
cattolicesimo è realmente un cattolicesimo sociale. Dovrebbe essere un fatto scontato, ma va
ribadito, ricordato opportunamente, rilanciato, tenendo conto della direttiva dominante oggi: la
comunicazione. Su questo campo i credenti e le parrocchie, in dialogo con tutti gli uomini di buona
volontà, devono poter tenere testa ai tanti problemi che travagliano la cultura di oggi, cangiante e
vorticosamente accelerata.
Per dare speranza agli uomini di oggi è necessario favorire “ecosistemi comunicativi”. Così,
comunicare non è solo una questione del buon uso dei mezzi della comunicazione sociale (giornali,
televisione etc.). La comunicazione è un fenomeno più ampio e coglie l’uomo nella sua realtà
profonda: la comunicazione è relazione e, poichè l’uomo è relazione , allora la comunicazione è una
vera condizione esistenziale dell’uomo che nella sua stessa essenza è “animale comunicativo”.
Come tale, l’uomo comunica anche quando non comunica. Si, un “esperto di comunicazione” si può
oggi epistemologicamente definire “antropologo”.
E’ vero, si tratta di noi. Attraverso la nostra capacità di comunicare si realizza la nostra gioia,
la nostra felicità, la serenità nei rapporti umani, la fiducia sociale, una nuova civiltà improntata sulla
giustizia, sulla pace, sul riconoscimento dei diritti e anche sull’attenzione alla vecchie e nuove
povertà. Perciò il tema della comunicazione interessa la comunità cristiana, per la testimonianza che
deve dare, ma coglie anche il cuore stesso della nostra convivenza civile. Da qui l’invito è rivolto a
tutti, credenti e non credenti, praticanti e “uomini della soglia”: impegniamoci a favorire
“ecosistemi comunicativi”, spazi di dialogo, fautori di speranza per il richiamo alla centralità della
persona nelle concretezza della sua storia.
Questo diventa denuncia e compito. Anzitutto è denuncia di certa “spudoratezza” della
comunicazione sociale che smaniosamente vuole rendere tutto pubblico, appiattendo i messaggi in
una esposizione di problemi, di stati d’animo, di situazioni personali, divenuti oggetti di mercato,
offerti senza regole nella vetrina del villaggio globale. E’ anche impegno per la cura delle altre
forme comunicative che non appaiono immediatamente collegate con i mass-media e però
costituiscono gli spazi del possibile compimento dell’uomo in un rapporto comunicativo che
realizza esperienze di comunione, nelle quali le persone ritrovano se stesse, i propri affetti, la
propria dignità, il riconoscimento della propria identità.
In questo contesto, anche il silenzio diventa forma di comunicazione e le parole non dette o
non pubblicizzate rafforzano la comunicazione. Su questo le comunità cristiane, le parrocchie non
possono distrarsi. Si deve lavorare molto per acquistare competenza comunicativa. Oggi, questa
competenza appare bloccata dalla mancanza di un ambiente favorevole, mentre le antiche strutture,
come la famiglia e la scuola, si sfaldano e perdono il loro ruolo di integrazione sociale, lasciando i
giovani soli con loro stessi, esposti al bombardamento quotidiano della pubblicità commerciale che
li inghiotte e li rende incapaci di scelte vere nell’orizzonte di un consumismo in cui tutto, veramente
tutto, è relativizzato. Perciò, comunicare è una passione pastorale indispensabile per la
comunicazione del Vangelo oggi e qui.
Allora, è divenuto indispensabile per tutti educare alla comunicazione e lasciarsi educare alla
comunicazione umana vera. Come non si ama per istinto, così non si comunica per istinto:
comunicare è un arte, che si apprende in modo sempre più profondo, dentro le concrete situazioni
della vita e della società.
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Si pensi a quanto sta accadendo nel nostro territorio italiano ed europeo con il continuo
migrare di uomini e donne dalle zone più misere del globo terrestre. Questo richiede da tutti che si
attivi un processo complesso e difficile di reciproca comprensione interculturale affinché la
comunicazione umana non cada nel vuoto o si esprima in forme di dominio e di sfruttamento, di
disuguaglianza e di conflittualità, e talvolta tragicamente di annientamento. Ritorno allora sulla
distinzione (che è solo logica, ma non effettiva, perché nella vita questi aspetti si danno assieme) tra
comunicare come “educare alla fede” e comunicare come “educare nella fede”. Questi due aspetti si
fondono ora. Occorre, infatti, rigenerare comunità cristiane nuove, capaci di un annuncio del
Vangelo più incisivo, testimoniale, incarnato, capace di penetrare nel profondo delle mentalità, dei
valori condivisi, per rigenerare l’ethos della gente, contribuendo alla realizzazione di un futuro più
degno dell’uomo, maggiormente rispettoso dell’umano e così dare speranza oggi.
Diventa allora urgente tentare la comunicazione del novum dell’evento cristiano con una
consapevole avvertenza: appare necessario un particolare discernimento critico dei trend attuali,
culturalmente rilevanti, che forgiano “usi e costumi” dell’uomo del terzo millennio, sia per i tanti
aspetti negativi, e sia anche per i tanti segni si speranza diffusi nel mondo. Perciò l’impegno di
evangelizzazione si fa cura della crescita della “pietà” e della “devozione” dei cristiani, ma nella
maturazione di una “fede adulta” che non dimentichi di abitare con creatività i luoghi propri nei
quali l’umano dell’uomo splende nella sua bellezza o viene deturpato fino al disprezzo: così la
Chiesa abita legittimamente i luoghi del sociale e in essi offre il proprio contributo di sapienza e di
umanità. Già la Chiesa – secondo una bella espressione di Paolo VI -, è “maestra in umanità” e
pertanto vuole comunicare, magari nella forma più alta della comunicazione che è l’amore. “Il
nuovo umanesimo” non può non esaltare l’umano dell’uomo, e tuttavia deve anche mostrare la sua
capacità di dare risposte concrete alle tante forme del degrado e della barbarie, diventando sapienza
di vita (con risposte concrete e praticabili) rispetto ai tanti drammi dell’odierna scena del mondo: la
riarticolazione del rapporto di genere (maschio-femmina) anzitutto, la configurazione delle famiglie,
la società solidale e partecipativa, l’economia umana e civile, la civiltà dell’amore.
L’umanesimo cristiano è umanesimo integrale, promuove la cultura della comunicazione, nel
senso che sa comunicare una cultura (qui la fede diventa cultura e crea cultura nuova) crismatica
che esalta i rapporti tra le persone, mette le persone realmente in comunicazione, perché può far
anche conto della comunicazione fondante lo stesso potere comunicativo degli uomini, il Logos
(come legame), lo Spirito (come comunione), “il divino nell’uomo” (come apertura ed estasi nella
bellezza del cosmo).
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Non sempre è però “Pentecoste” nella comunicazione umana. Molto più spesso è “Babele”.
Esistono, infatti, condizioni culturali e sociali (in cui versano soprattutto tanti giovani di oggi) che
impediscono rapporti veri tra le persone e bloccano la comunicazione. Il disagio sociale giovanile è
visibile nel consumo di alcool che comincia ad interessare 7 su 10 dei nostri ragazzi (l’età si è
abbassata) nei festini dell’happy hour; la facilità con cui i figli derubano i genitori di qualche
prezioso ricordo per andarlo a cambiare subito e ricavarne denaro; la ludopatia è la malattia più
diffusa oggi in strati molto ampi della popolazione. Si potrebbe continuare in una lunga lista di
“fenomeni disumani” che attestano come il disagio sociale ed il disorientamento culturale dei
giovani non possono più essere disattesi. Questi dati statitistici fanno pensare. Esigono un
intervento di urgenza, per stabilire loro una comunicazione, capace di trasmettere valori. Non è
possibile lasciarli soli.
In realtà, le giovani generazioni diventano nel temperamento sempre più fragili, mentre si
perde progressivamente il senso stesso dell’autorità e della tradizione. La vita si vive all’insegna
dell’esperimento, dentro una fiumana di sentimenti e di decisioni che non valgono nemmeno
l’istante in cui sono prodotte: tutto scorre, e velocemente. La provvisorietà estrema è la condizione
di tutti gli affetti e i legami, da quelli familiari e politici, a quelli religiosi e sociali.
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L’appartenenza – come forma di adesione stabile a chicchessia – è totalmente in crisi e con essa il
disorientamento incalza nella perdita della propria identità, quanto più cercata tanto più
compromessa ed evanescente. Tutti allora devono interrogarsi sulla propria scarsa “presa
comunicativa”. Le istituzioni pubbliche hanno potere di aggregare? I giovani consumano tutto
nell’individualismo. Le parrocchie e la Chiesa in genere conoscono le difficoltà della
comunicazione tra i giovani. I sociologi parlano di un disorientamento dell’io per il quale il soggetto
si disperde in una marea di scelte che non lo liberano, ma lo opprimono, come una condanna, senza
poter avere il riferimento a basi stabili o a certezze che aiutino la persona a decidersi per scelte che
durano, che valgano la fedeltà di una vita. Da una parte, l’organizzazione tecnologica forgia un
mondo apparentemente dominato dalla razionalità, l’ordine degli affetti è lasciato a uno
spontaneismo sregolato, nel quale ognuno fa da sé, con una forte tendenza al conformismo e
all’omologazione, con una progressiva perdita della capacità di unificazione della propria esistenza,
anche attraverso il sentimento della memoria, dell’essere cioè legati a un passato.
A forgiare questa nuova condizione umana hanno contribuito anche le accelerazioni del
quotidiano vivere causate dalle innovazioni tecnologiche nel campo dei media: le reti di
comunicazione ridefiniscono l’idea stessa di comunità, rompono i quadri di riferimento del passato,
stabiliscono nuovi ritmi all’esistenza, introducendo una dirompente destrutturazione del nucleo
familiare. La famiglia (ma anche la parrocchia) ha difficoltà a definirsi come luogo in cui si
trasmettono contenuti.
Tanto più che il successo dei new media sembra consacrare l’atto dello scambio
comunicativo (prevalentemente emozionale) con una abbondante indifferenza circa i contenuti
trasmessi. La comunicazione virtuale la vince sulla comunicazione di presenza, per cui contenuti
“pesanti” come quelli relativi all’identità religiosa sembrano risentire di crescenti difficoltà sul
territorio della comunicazione emozionale tipica delle nuove reti. La trasmissione culturale (=
accogliere e trasmettere) viene consistentemente compromessa, perché la stessa esperienza
fondamentale del ricevere-donare tende ad assumere dimensioni individualistici ed è spesso tarlata
da una logica mercantile e consumistica. Anche il neopagano U. Galimberti sostiene in un suo libro
dal titolo - L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli 2008) -, che per estirpare in
modo radicale l’insicurezza la via non è quella dell’utopia modernista dell’onnipotenza umana: «la
strada da seguire è un’altra: quella della costruzione di legami affettivi e di solidarietà capaci di
spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle, in nome degli
ideali individualistici che, a partire dall’America, si vanno paurosamente diffondendo anche da noi».
E’ quanto il cristianesimo predica e si impegna a vivere e a costruire da due secoli. Galimberti se ne
accorge oggi. Meglio tardi che mai.
♦
La comunicazione umana – base di ogni trasmissione culturale – evidenzia fenomeni
contraddittori: da una parte si espande tecnologicamente, dischiudendo ampie e inedite possibilità,
dall’altra sembra sfuggire “alla problematica del senso e dei valori”, funzionando più come
veicolazione di conoscenze e di informazioni che non come trasmissione di esperienze. Occorre
avvertire con maggiore acutezza critica il “blocco” e “il cortocircuito comunicativo” di
comunicazioni solo apparenti, ma in realtà non autentiche, dove c’è spazio solo per rapporti
conflittuali: qui, gli altri sono solo l’inferno, nella mancanza di quell’amore e di quella gratuità che
fondano la relazione. La fede cristiana ha la pretesa di entrare nel sociale della comunicazione come
energia liberante, come forza di vita, come ragione di speranza e di gioia, come radice di solidarietà
e di impegno. Qui si parla il linguaggio della persona e non semplicemente dell’individuo. Chi si
concepisce come individuo pretende che vengano riconosciuti i propri “diritti” e non si apre allo
sguardo sull’altro e sui suoi bisogni: trasforma tutto in una grande specchiera nella quale
dappertutto (in alto, in basso, a destra o a sinistra) viene riflessa sempre e solo la propria faccia.
Nell’individualismo diffuso delle nostre società, il narcisismo abita comodamente, ma anche la
smaniosa tendenza a dominare l’altro, a trasformarlo in strumento utile per i propri scopi o merce da
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consumare sui mercati del mondo. La vera comunicazione non è possibile tra individui centrati su
se stessi, e però sclerotizzati, né può esserlo in mezzo alla massa, nello stato di massa. Per rompere
il cortocircuito della comunicazione occorre ritornare alla persona. Che ogni uomo si riconosca e
riconosca gli altri come persona: l’uomo è persona, creato da Dio, con diritti inalienabili: alla vita e
alla crescita armonica in una famiglia unita e in un ambiente morale che aiutino lo sviluppo della
sua personalità. L’uomo è persona e lo è nel dono di sé, fondamento di una convivenza solidale e
pacifica tra persone e tra popoli. L’uomo è persona perché è capacità di autotrascendimento,
ultimamente fondata nella dimensione trascendente del suo essere, in quanto relazionato al
Trascendente assoluto, cioè a Dio.
Qui, la fede cristiana mette in gioco il suo contenuto più prezioso nel nuovo umanesimo, la
sua “perla” nel dialogo culturale o se si vuole nella “controversia culturale”: l’affermazione di Dio è
principio della salvaguardia della persona nell’uomo, il criterio forte e irriducibile che ne
impedisce la sua manipolazione, il suo sfruttamento, la sua mercificazione, la sua riduzione ad un
“semplice essere vitale” tra i tanti esseri esistenti, nella perdita della sua singolarità, della sua
peculiarità nativa. La centralità dell’uomo nel cosmo trova la sua ultima giustificazione nel fatto che
l’uomo ha in sé l’immagine di Dio: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò» (Gen 1,27). Corpo (basar), anima (nephes), spirito (ruah), l’uomo trova
la sua dignità nell’essere in relazione con Dio. Parte del cosmo, condivide la condizione di vivente
con tutti gli esseri animati, ma egli è “spirito”: sintonizzato a una fonte da cui attinge vita come da
una sorgente inesauribile, non solo l’esistenza, ma la vita, cioè l’esperienza di una esistenza attuata
nella relazione d’amore, nella comunione di affetti, nella esplosione della gioia. L’amore di Dio è il
suo vero grembo, in un senso del tutto speciale, quello per cui egli è Figlio del Padre, ma per questo
anche padre (trasparenza della paternità di Dio) degli uomini, figli di Dio. L’uomo ha così la
capacità di specchiare l’origine e di farsene trasmettitore. L’immagine dell’origine è la sua realtà:
maschio e femmina, l’uomo è relazione (non ha relazioni, ma è le sue relazioni). L’uomo è persona,
cioè relazione amativa. L’uomo persona non può vivere senza amare e l’amore è il grembo
specifico in cui ogni uomo matura come persona, nella capacità di donarsi e di comunicare in modo
autentico.
Come attivare la capacità comunicativa propria della relazione amativa che è l’uomo, creato a
“immagine e somiglianza di Dio”? Il divino nell’uomo, l’essere divino che costituisce l’umano
dell’uomo e rende l’anmale-uomo umano, splende nell’autotrascendimento di sé vero
l’altro/altri/Altro. Questa attuazione dell’umano, proprio perché porta i tratti seri e responsabili della
persona libera, si vive nella drammatica di una lotta (= agonia) che ben conosce il patire, la
sofferenza prodotta dal male nella storia degli uomini. Il male affligge la comunicazione umana:
perciò la comunicazione va redenta.
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L’annuncio di Dio della fede cristiana è un evento di redenzione perché gli uomini imparino
a dialogare, a comunicare e lavorare insieme per l’onestà, la giustizia e la dignità di tutti. “Il nuovo
umanesimo” nasce come esperienza di salvezza e di liberazione, come vittoria sul male e sulla
morte.
Esiste il male? Cosa è? Dove lo si vede con tanta evidenza? E tutti lo possono riconoscere? Le
notizie riguardanti l’umano (nel sociale, nel politico anche negli spazi della Chiesa, talvolta)
elargiscono a buon mercato – anche dentro certa enfasi giornalistica – una immagine piuttosto
degradata della nostra realtà ambientale e sociale: alla fine è sempre un problema di inquinamento
dell’ambiente (terra e mare) e dell’umano (intelligenza e cuore). Il male c’è ed ha forme crude e
disastrose, non ha limiti e tende ad espandersi. Il male non è una realtà anonima, ha degli attori con
nomi e cognomi, benché il più delle volte ama restare nel nascondimento, invisibile, pronto ad
aggredire al momento opportuno. Il male è “il nulla”. Nel male è chiaro che si perde tutto il bene,
tutta la gioia e la serenità, tutta la riconciliazione con Dio, tutta la speranza del cielo. Il male è come
un aneurisma che scoppia nel cuore: è possibile prevenire l’implosione, e però si è spesso stolti a tal
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punto da non vederlo. Anzi, da fingere di non vederlo, fino al punto da non accorgersi che ormai ha
raggiunto limiti responsabilmente insopportabili. Lasciamoci provocare dall’interrogativo di V.
Soloviev nella sua prefazione a I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo: «E’ forse il male soltanto
un difetto di natura, un’imperfezione che scompare da sé con lo sviluppo del bene oppure una forza
effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe sicché per una lotta vittoriosa contro di
esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di esistenza?».
Il mondo vive in una crisi che lo travaglia. L’ottimismo nel progresso inevitabile e i grandi
traguardi tecnologici del XX secolo si rivestono di un sentimento tragico per la paura (non
catastrofica, ma realistica) della scomparsa totale dell’umanità e della fine della vita sul pianeta
terra, per le tante tragedie ecologiche. Ma è soprattutto la gabbia dell’egoismo a bloccare le energie
di apertura comunicativa della libertà umana, inibendo l’amore e ingigantendo l’odio.
L’inquinamento dell’habitat comunicativo nei rapporti sociali non è una metafora, ma è esperienza
continua che si da in tanti fraintendimenti, equivoci, incomprensibilità. Queste si sedimentano e si
trasmettono rendendo soffocante l’atmosfera comunicativa, ma anche producendo una
corrispondente invocazione di salvezza che non sembra possa giungere all’uomo da progetti di
autoemancipazione, quanto piuttosto da proposte di redenzione. Il male affligge la comunicazione
umana con quelle “dispersioni della presunzione intellettuale” che impediscono di “vedere le cose
così come sono”, per cui il mondo si riempie di menzogne, di apparenze ingannevoli. Perciò la
comunicazione umana va redenta: il cristianesimo è nel mondo soprattutto per questo, per offrire
salvezza, redenzione. Il Dio, predicato dal cristianesimo, si impegna e impegna tutti in un’opera di
trasformazione della società nell’obbedienza al comandamento dell’amore, la cui figura concreta è
quella manifestata dal Crocifisso, l’amore che spinge il dono di sé incondizionatamente e
unilateralmente (ossia eucaristicamente) fino alla morte. La donazione libera nella morte sprigiona
attraverso la risurrezione una potente forza di solidarietà universale che lega in un rapporto di
comunione tutti gli uomini, oltre gli stessi limiti temporali, mentre garantisce una comunicazione
interumana improntata alla giustizia e alla misericordia, nella disponibilità a sacrificare la propria
vita pur di rispettare nell’amore la libertà dell’altro, anche qualora questa libertà si autoimponesse
contraddittoriamente nel peccato come ripiegata e ostile, addirittura pericolosamente nemica.
Questa libertà, quale “legge nuova”, che trova nelle beatitudini del discorso della montagna il
suo paradigma normativo di autenticità, non sarà allora una conquista dell’uomo (quasi fosse la
costruzione di una base procedurale corretta del dialogo comunitario), ma è frutto del dono dello
Spirito, che fa l’uomo spirituale, cioè capace di agire secondo lo Spirito, vivendo nell’amore che
spinge al dono di sé fino alla morte e, così, consuma la libertà, si compie in una libertà basata
sull’amore in quanto realizza un amore assolutamente libero, un amore vero, il solo capace di
fondare una comunicazione effettiva, comprensibile (perché universale e accessibile è il linguaggio
dell’amore), verace (perché l’amore è l’inquietudine più profonda del cuore che soltanto soddisfa le
sue tensioni umane radicali), esatta/giusta (poiché l’amore accomuna tutti gli uomini come la
finalità ultima di ogni esistenza), vera (perché il segno dell’amore non è nemmeno visibile se non
c’è corrispondenza tra ciò che si pone come amore e il coinvolgimento personale della vita nel gesto
del dono).
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Educare alla comunicazione, quando si è capito che la comunicazione è “stoffa dell’umano”
ed educare alla fede/nella fede, quando si è consapevoli che la fede emancipa l’uomo rendendolo
umano, sembrano convergere in uno stesso compito, in una stessa mission. Perciò ho titolato questo
contributo con “Educazione e comunicazione: una passione pastorale indispensabile per vivere il
Vangelo oggi”.
Si tratta di interpretare un fatto sociale di grande importanza oggi per offrire il contributo
dell’orientamento della fede a chiunque abbia cuore di comunicare il Vangelo e desideri farlo, oltre
ogni chiusura a riccio, nelle prospettive aperte dal Vangelo e dalla Tradizione cattolica della Chiesa.
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C’è di più, la Chiesa - che deve educare alla fede - ha chiara la consapevolezza che le odierne
trasformazioni culturali nell’ambito della comunicazione incidono potentemente nella stessa
educazione e nella trasmissione della fede. Perciò si sprigiona come un appello rivolto anzitutto ai
parroci e a tutti gli operatori pastorali: l’appello ad aprire gli occhi sulla realtà che cambia, per
evitare che la comunicazione del Vangelo sia inefficace o anche impossibile, nonostante tutti gli
sforzi organizzativi. E’sempre nuovo il compito importante di illuminare le intelligenze di tutti,
affinchè la Parola di Dio, la verità di Cristo sia comunicata e giunga ad effetto: cioè umanizzi la vita
dell’uomo, la renda più bella, felice, gioiosa nel dono, nell’amore, nella solidarietà di uomini e
donne che comunicano non semplicemente idee o opinioni, ma loro stessi, che cioè si auto
comunicano (come entrando nel ritmo stesso dell’autocomunicarsi libero di Dio all’uomo e così,
giungendo all’epifania della propria piena identità: in Cristo, rivelatore del Padre, Dio si
autocomunica come agape trinitaria, amore in persona, Spirito santo, effuso nei cuori degli uomini).
Attenti dunque alle trasformazioni culturali. Si pensi, ad esempio all’attuale “fame di
simbolo” di gran parte della cultura postmoderna: la riscoperta del simbolico si sposa, infatti, con la
rinuncia alle forme forti del pensiero e, pertanto, enfatizza solo l’aspetto superficiale dell’immagine,
senza perdere tempo nel doveroso processo di interiorizzazione: guarda, ammira, ma non aderisce,
non partecipa; esalta la spettacolarizzazione, ma non raccorda l’esperienza del simbolo con la
scoperta della verità (il logos della realtà) e con l’accoglienza del bene (la conversione etica). Il
rischio è quindi quello di una riduzione in chiave estetizzante, che non contribuisca però a creare
l’unità esistenziale.
Dentro questo quadro, anche la tradizione della fede cattolica può essere accolta come una
delle tante proposte di vita, comunque transitoria, come uno dei tanti prodotti di consumo con cui
resistere nelle difficoltà dell’esistenza, finché strumentalmente soddisfa i bisogni del momento,
quello che hic et nunc si desidera. L’assorbimento di certe spinte culturali dominanti riduce ai
minimi termini la capacità di accettare vincoli dottrinali, dischiude i cuori e le intelligenze a una
vaga religiosità - indistinta che si manifesta in forme soggettivistiche, irrazionali e patologiche (possibilmente esoterica: New Age), debole, materna, senza istituzioni o dogmi o gerarchie, rende
incomprensibili impegni di lunga durata (matrimonio, celibato ecclesiastico, fedeltà coniugale,
spiritualità vissuta) inabissando tutto nella controversia (divorzio, controllo delle nascite,
infallibilità del papa), senza possibilità di soluzioni comuni, in una retorica infinita.
La fede sembra costretta da un individualismo e privatismo religioso che depaupera di gran
lunga l’esperienza credente: la fede non è più recepita nella sintesi vitale e perciò viene considerata
alternativamente e separatamente o come astratta dottrina dogmatico-morale o come sentimento
religioso ed emozione, senso senza verità. Il rischio di impoverimento nella trasmissione della realtà
della fede cristiana è scontato, fino alla negazione della sua essenziale dimensione pubblica, perché
appaiono compromesse quelle condizioni culturali e contestuali (anche istituzionalizzate) importanti
per la comunicazione della fede nell’oggettività della sua proposta di salvezza. La fede è più
folklore che impegno di vita e l’attaccamento alle proprie tradizioni religiose è rivendicato più per
mantenere una identità culturale del paese – perduta dentro i processi mercantili dell’odierna
globalizzazione – che non per la “vera devozione” ai Santi o alla Madonna nelle feste popolari. Così,
la gente appartiene alla Chiesa “con riserva”, cioè fino a quando e fintanto può decidere da sé come
comportarsi moralmente o a quali orientamenti della Chiesa attenersi, selezionando secondo i propri
gusti e i propri comodi. A queste condizioni, comunicare nella Chiesa diventa impossibile e per
altro inutile, anzitutto perché la Chiesa è trasformata in uno spazio sacro nel quale il campo è
dominato dal “secondo me” o “se mi piace” o “se mi va” o “se il prete segue le mie opinioni”. Alla
base c’è la perdita della vera visione della Chiesa. Riscoprire la Chiesa nella sua vera essenza e
vocazione, riscoprirsi Chiesa – cioè, popolo di Dio in cammino, configurato carismaticamente per
servire l’umano dell’uomo e farlo splendere nella sua bellezza-, appare oggi prioritario. Allora, si
capisce che il rapporto “educazione e comunicazione” si innesta nel prezioso processo di
testimonianza dell’amore da offrire a tutti (qui i santi avrebbero da dire molto), nel ritrovamento di
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una nuova credibilità della Chiesa (“corpo dell’amore eucaristico di Cristo”): si tratta di educare a
comunicare la Chiesa, non tanto come organizzazione sociale, ma come “casa e scuola di
comunione”, come evento di antropologia realizzata, come modello di pienezza dell’umano in
uomini e donne felici di esistere, gioiosi di generare e pacificati nel vivere insieme, solidali nelle
opere del bene, capaci di sostenere la testimonianza cristiana della vita bella e buona del Vangelo.
Antonio, vescovo
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Relazione di Mons. A. Staglianò