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BRA4003 La dilatazione temporale del periodo di dipendenza dalla famiglia d'origine ha causato un
diffuso orientamento delle giovani generazioni a posticipare sempre di più la conquista
dell'autonomia abitativa. I dati a livello europeo mostrano il consolidamento e la diffusione
di questo comportamento in tutti i Paesi dell'Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia e
Portogallo) e con peculiarità specifiche rispetto alle altre nazioni dell'Unione Europea,
tanto che si è consolidato l'approccio che contrappone due modelli di transizione alla vita
adulta: il modello mediterraneo e quello nordico. A questi due modelli Galland aggiunge il
modello britannico, caratterizzato dalla maggiore precocità nel raggiungimento delle varie
fasi. La transizione dei giovani britannici, quindi, è contraddistinta dal precoce accesso al
mercato del lavoro e da una più giovane età media di matrimonio, mentre, all'opposto, la
maternità e la paternità sono eventi tendenzialmente rinviati. Il modello mediterraneo, di
cui l'Italia è l'esempio più emblematico, è caratterizzato da un accentuato prolungamento
della transizione e, soprattutto, del periodo di permanenza nella famiglia d'origine. Il
modello nordico, diffuso nei Paesi dell'Europa centro-settentrionale, si presenta più
complesso perché meno lineare, in quanto alcune fasi possono sovrapporsi ad altre e
avere un carattere transitorio. Una delle differenze più rilevanti con il modello precedente è
che l'abbandono della casa dei genitori avviene precocemente, in quanto prevale
l'adozione di diverse strategie abitative, anche solo in via sperimentale. Le convivenze con
il/la partner o con amici, la vita da single o la sistemazione in residenze universitarie per
tutta la durata degli studi sono forme residenziali molto diffuse tra i giovani. Per il loro
carattere temporaneo, tuttavia, non sempre danno esito all'acquisizione definitiva
dell'autonomia abitativa. In Italia e negli altri Paesi del Sud Europa, invece, lasciare la
famiglia d'origine impone quasi sempre una scelta definitiva, motivata, nella maggior parte
dei casi, da eventi socialmente legittimati, quali il matrimonio o un cambiamento di
residenza per ragioni di lavoro.
BRA4005 Secondo la medicina darwiniana o evoluzionista, che si occupa di analizzare il significato
delle malattie alla luce dei possibili vantaggi evolutivi, ammalarsi può anche fare bene.
Soprattutto quando la malattia sviluppata fa da "scudo" ad altre più gravi, prevenendole.
Come nel caso dell'anemia falciforme, una patologia di origine genetica dagli effetti
mortali, che tuttavia può diventare un'utile antagonista della malaria. In che modo? Un
portatore sano di anemia falciforme, ossia che possiede una sola copia del gene mutato
che provoca la malattia, non solo non sviluppa l'anemia ma è anche tre volte più resistente
al contagio della malaria. Certo il vantaggio evolutivo si annulla immediatamente qualora il
portatore abbia entrambi i geni compromessi: in questo caso, infatti, sarebbe comunque
più resistente alla malaria ma morirebbe di anemia. E questo è vero tanto per l'uomo
quanto per i batteri. Un microrganismo eccessivamente virulento, che porta alla
distruzione dell'organismo ospite prima di essersi diffuso per contagio, sarebbe destinato
all'estinzione. La malaria uccide perché non ha bisogno dell'individuo contagiato per
diffondersi, il raffreddore non uccide perché il contagio avviene da persona a persona.
Secondo George Williams, docente di Ecologia dell'evoluzione alla State University di New
York, questa dinamica del contagio potrebbe dimostrarsi un'eccellente strategia
terapeutica per talune malattie come l'Aids. "Al momento l'infezione da Hiv si manifesta in
una forma virulenta, mortale, solo perché la sua diffusione è alquanto facile" spiega
Williams. "Ma una buona profilassi preventiva che ne limiti la diffusione, costringerebbe il
virus a evolversi verso una forma meno violenta, poiché necessiterebbe della
sopravvivenza più prolungata dell'organismo ospite per trasmettersi". "Conoscere il
tracciato evolutivo di una malattia" spiega Williams "aiuta anche a individuarne i punti
deboli". Le "ragioni" di una malattia possono dunque essere molteplici e non tutte
attentano alla sopravvivenza umana. Non esiste un singolo organismo sano, ma quadri
clinici e mutazioni più o meno proficue all'evoluzione della specie. L'unico intento
dell'organismo è sopravvivere quel tanto che gli è necessario per riprodursi. Costi e
benefici di una malattia devono essere calcolati solo sulla base delle necessità adattative.
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BRA4017 Del resto lo stesso "grande sistema" all'interno del quale la vita si manifesta e si sviluppa,
e cioè la biosfera, è nel suo insieme un complesso "meccanismo di trasformazione e
traduzione", come Vernadskij non si stanca di sottolineare. In quanto sistema specifico la
biosfera si riferisce alla zona della crosta terrestre che occupa la superficie del nostro
pianeta e accoglie tutto l'insieme della materia vivente. Si tratta di un sistema
interconnesso con quello planetario e profondamente interrelato con l'ambiente che lo
circonda, per cui non può essere studiato prescindendo da questo contesto globale nel
quale si colloca. Esso costituisce un'infiltrazione nell'idrosfera (vita acquatica) e nella parte
più superficiale della litosfera (vita terrestre) espandendosi per un'altezza di circa 5 km
nella parte più bassa dell'atmosfera (nella troposfera). Se anche ammettiamo che occupi
le profondità abissali delle acque e uno spessore di un paio di chilometri della litosfera,
rappresenta pur sempre una sottile pellicola, in confronto alle dimensioni complessive
della Terra. Eppure questa minuscola presenza assume un'importanza enorme per le
attività chimiche che svolge incessantemente e che condizionano la composizione stessa
dell'atmosfera, delle rocce e di vasti giacimenti minerari. Basterebbe ricordare che forse
tutto l'ossigeno dell'atmosfera è prodotto dalla fotosintesi e che comunque tutto l'ossigeno
dell'aria e delle acque ha più volte attraversato la biosfera compiendo una circolazione
dall'atmosfera all'idrosfera dai tempi remoti a cui risale l'apparizione delle prime piante
verdi. Se si pensa che proprio la fotosintesi agisce ormai da alcuni miliardi di anni
utilizzando l'enorme disponibilità dell'energia solare e le grandi riserve originarie di
anidride carbonica dell'aria per formare composti organici essenziali a tutta la vita del
mondo, ci si può fare un'idea dell'importanza fondamentale di questo fenomeno nel
divenire della biosfera.
BRA4019 Se per un verso la società è il fine dell'individuo, l'individuo è il fine della società. Se cioè
per un verso ciò che dà valore alle capacità e ai poteri degli individui è l'impiego che essi
ne fanno per dare incremento alla vita e alla cultura degli altri, per l'altro verso la società è
l'humus naturale su cui sorge il valore delle persone. Così scrive Lamberto Borghi di John
Dewey, filosofo e pedagogista, il quale ha largamente influenzato l'azione pedagogica ed
educativa nel suo Paese, gli Stati Uniti d'America, e in Europa. Particolare attenzione va
posta alla sua famosa scuola-laboratorio di Chicago. John Dewey matura un vero e
proprio interesse verso i problemi dell'educazione e verso la pedagogia in occasione del
passaggio, nel 1894, all'University of Chicago. Pur continuando a insegnare filosofia, egli
iniziò a indagare scientificamente nell'ambito della pedagogia e, nel 1896, con il contributo
della moglie Alice Chipman, fondò la University of Chicago Elementary School, una
Scuola-laboratorio di psicologia e pedagogia sperimentale. Per Dewey, sono educative
quelle attività che puntano al soddisfacimento dei bisogni e degli interessi degli alunni. Tali
attività impegnano e sviluppano le facoltà intellettuali dell'allievo; interessi ed esperienza
dell'alunno costituiscono, quindi, il focus su cui incentrare l'azione educativa, facendo leva
su quattro tipi d'impulsi riscontrabili nell'allievo e che sono importanti nella scuola: gli istinti
sociali, l'istinto indagativo, l'istinto operativo, del fare, e l'istinto artistico. Secondo Dewey,
questi quattro tipi di istinti [...] sono le risorse naturali, il capitale non ancora investito, dal
cui impiego dipende l'attiva crescita del fanciullo. [...] Lo stesso processo di vivere insieme
scrive Codignola, riferendosi alla pedagogia di J. Dewey [...] educa. Fino a che un
ordinamento sociale [...] non impone ai suoi membri la passiva conformità [...] educa i suoi
membri. Ma c'è un divario capitale tra l'educazione accidentale e l'educazione diretta,
deliberata, formale. [...] Questo divario cresce col complicarsi della civiltà ed è
profondissimo oggi [...], il trapasso dall'educazione della vita a quella diretta della scuola
implica già in sé gravi pericoli. L'educazione diretta e formale tende a staccarsi dalla sua
matrice, dalla immediata e vissuta esperienza sociale [...] per farsi remota, astratta,
libresca [...].
BRA4025 Fino ai primi anni Ottanta le case editrici di libri erano considerate parte di un segmento
dai confini ben definiti all'interno del settore editoriale e si caratterizzavano per logiche
gestionali particolari. I due elementi in comune fra l'editoria libraria, periodica e quotidiana
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erano le caratteristiche del contenuto (l'informazione, sotto forma di testo e immagini) e
l'utilizzo della carta come supporto per trasferire le informazioni. I volumi delle tirature, la
diversa durata del ciclo produttivo e le caratteristiche fisiche del prodotto determinavano
strutture aziendali e processi molto dissimili tra loro. La principale differenza fra i prodotti
dei tre segmenti era rappresentata - oltre che dalle caratteristiche fisiche - dalla durata del
ciclo di vita dei singoli titoli, connessa alla frequenza di aggiornamento delle informazioni
contenute. La necessità di sostituire il prodotto sul punto vendita con diversa frequenza
aveva inoltre portato alla specializzazione dei canali di distribuzione: l'edicola per i titoli e
le testate ad altissima rotazione, la libreria per i prodotti di catalogo. Il relativo isolamento
delle case editrici di libri, la limitata possibilità di sfruttare sinergie fra i libri e gli altri
prodotti editoriali da parte dei gruppi editoriali, la matrice culturale omogenea degli editori,
la specificità delle professionalità richieste hanno contribuito al consolidamento di regole di
funzionamento tipiche, spesso poco attente alle implicazioni economico-finanziarie delle
scelte aziendali. Le strategie di molte case editrici anteponevano il raggiungimento di
obiettivi sociali all'ottenimento di risultati competitivi ed economici. Parte degli editori
reputava che la natura del prodotto non consentisse alle case editrici una gestione
secondo economicità, mentre altri ritenevano che la "povertà" strutturale del settore non
consentisse alle imprese grandi guadagni, ma neppure grandi perdite.
BRA4032 Ridere è un altro modo di piangere, dice Radu Mihaileanu a proposito di Train de vie
(Francia, 1998). E che cosa è il comico, se non il tragico che si manifesta in un altro
modo? È bene qui non fraintendere. Il tragico non si annulla e nemmeno si occulta nel
comico: piuttosto, in esso si manifesta, sebbene con lineamenti che non sono
immediatamente i suoi. Il grande comico - ma, come il poeta, il comico o è grande o non è
- ha dunque bisogno del tragico. Non si ride davvero se non sentendo il sapore delle
lacrime. Il comico non nasconde né banalizza la sofferenza. Al contrario, trasfigurandola,
la rammemora e la onora. Di quello di cui s'è pianto e ancora si piangerebbe, ora, invece
si ride. Il segreto sta in questa piccola parola, invece. Il comico è invece meraviglioso, ché
rendendo leggero il dolore, non lo attenua, ma gli mette le ali. Così fa appunto Mihaileanu
- la cui famiglia fu internata in un lager - con un dolore che è anche il suo. Questa
compresenza di comico e tragico, e anzi questo loro rispecchiarsi, in Train de vie è
costante. Lo si sente - addirittura, lo si soffre - fin dalla prima sequenza. Schlomo corre dai
campi verso il suo shtetl, verso il suo villaggio. Qui, di fronte al rabbino, non riesce a
esprimere in parole l'orrore che ha visto al di là dei monti, in un altro shtetl. Può solo
rappresentarlo in gesti: concitati, assurdi, parossistici. È folle Schlomo. Anzi è il "matto"
dello shtetl. E noi sappiamo quanto vicine siano tra loro poesia e follia. […] Ed è Schlomo,
appunto, che narra la storia meravigliosa e leggera di Train de vie: è la sua voce narrante
che ci introduce al film, sarà il suo volto che ci congederà. Il cuore dei suoi racconti è, esso
stesso, insieme comico e tragico. Per salvarsi, gli uomini e le donne dello shtetl accettano
il consiglio saggio del folle Schlomo: farsi simili ai loro persecutori, assumerne le
sembianze, i modi, la lingua. È certo comico, il loro gran daffare: il loro cercar di parlare
come tedeschi, il loro cercar di marciare come le SS. Ma è anche tragico. Lo è perché
così, talvolta, fa la vittima di fronte al persecutore: cerca di imitarlo per passare
inosservata, per mimetizzarsi. E lo è ancora di più perché, capovolto, del persecutore
mostra il comportamento. […] Sono le lacrime, dunque, che danno sapore alle risate con
cui, in platea, ci godiamo la favola narrata da Schlomo e messa in scena da Mihaileanu.
Ridiamo per la partenza in gran segreto dallo shtetl, e soffriamo del congedo del rabbino
dalla sinagoga. Ridiamo dei nazisti beffati, e inorridiamo della loro rabbia. Ridiamo,
ancora, quando nella pianura immensa alcuni partigiani allibiscono vedendo, da lontano,
deportati ebrei e SS intenti a far gli stessi gesti strani. Stanno tutti pregando lo stesso Dio,
ariani e semiti. I primi soprattutto sono comici, con i loro elmetti calcati in testa: tanto
comici da chiamare il pianto. Ridere è un altro modo di piangere, appunto. In Train de vie
questo altro modo si manifesta come un gran gioco elusivo, come una dolorante civetteria
che, per pudore, sta e ci tiene sul confine dell'orrore: un confine che, con l'ultima
immagine, Schlomo e Mihaileanu, folli e saggi, d'improvviso ci costringono a varcare.
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BRA4034 Alla base del film c'è l'idea, che può essere originale oppure ispirarsi ad altre forme
artistiche e letterarie; in quest'ultimo caso, l'idea andrà opportunamente rielaborata per
poterla realizzare cinematograficamente, attraverso immagini in movimento. In ogni caso,
al centro della storia che verrà sviluppata, ci deve essere un conflitto esteriore (tra
personaggi, fra ambiente e personaggio ecc.) oppure interiore (sul piano morale,
esistenziale, ideologico ecc.), per determinare la tensione drammatica del film. L'immagine
filmica deve essere funzionale alla narrazione: ciascuna inquadratura racconta e comunica
emozioni, da sola e in sequenza con altre inquadrature. Nel passaggio dall'idea alla
stesura della sceneggiatura si definiscono sempre più precisamente l'argomento, i luoghi,
l'epoca, i personaggi, le azioni. La sceneggiatura descrive tutte le scene in cui si dipana il
film, le azioni e le battute dei personaggi. Preparatorio al film è lo Story board, che
rappresenta, tramite vignette, tutte le scene. In genere la narrazione cinematografica
condensa la storia, utilizzando frequentemente l'ellissi ed eliminando i momenti meno
significativi, dato che il film dura mediamente da un'ora e trenta minuti a tre ore, pur se la
storia narrata dura anni o secoli. A volte si può scegliere se far coincidere "tempo della
storia" e "tempo della narrazione", costruendo il film in tempo reale, come avviene in
Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann del 1952. Le battute, data la limitata durata di un
film, devono essere particolarmente ricche di significato e sintetiche; attraverso di esse si
stabiliscono i legami fra i personaggi, si comprendono antefatti, si svelano segreti; talvolta
chi parla resta fuori campo, come accade per la voce del narratore nelle sequenze girate
in soggettiva o nei documentari. Il registro adottato (solenne, scientifico, familiare, gergale
ecc.) connota i personaggi e contribuisce all'ambientazione. Alcuni registi, tuttavia,
preferiscono avere solo un canovaccio e procedere alla definizione della sceneggiatura nel
corso delle riprese.
BRA4036 Chi ha un interesse professionale per le lingue classiche, ma segue anche le vicende
dell'italiano contemporaneo, non può non notare ogni giorno un fatto che può apparire a
prima vista paradossale. Da una parte, le lingue classiche tramontano sempre più dal
nostro orizzonte culturale: dalla scuola vengono estromesse in maniera a volte
progressiva, a volte brusca e, in misura corrispondente, diminuisce quel tanto della loro
conoscenza che, fino a venti anni fa, era lecito presupporre nei rappresentanti della cultura
media o medio-alta. Dall'altra parte, parole dotte di origine classica, grecismi, latinismi o
greco-latinismi abbondano sempre più nella lingua d'ogni giorno, quella del giornalismo o
addirittura della conversazione. Oggi, il liceale insofferente ormai anche al grechetto
stentato che la scuola tenta di trasmettergli, sempre più debolmente e con sempre minore
convinzione, va a ballare la sera in una discoteca, o addirittura in una mega-discoteca,
illuminata da luci psichedeliche. Sua madre, intanto, pratica forse una dieta macrobiotica,
e sua sorella si allena in una palestra di ginnastica aerobica. Come si vede, sono tutti
grecismi, di conio antico, moderno o modernissimo, ma quasi tutti di diffusione
relativamente recente, spesso più recente di quel che molti immaginerebbero. Il fenomeno
è un po' meno appariscente per il latino, che ha spesso il "torto" di somigliare troppo
all'italiano; ma anche qui non manca l'occasione di sciacquarsi la bocca alle sorgenti
classiche. Veniamo chiamati a votare in un referendum; se concorriamo a un posto di
lavoro dobbiamo presentare un curriculum; il tecnico che ci accomoda il televisore parla in
termini di video e audio; se rinnoviamo l'assicurazione dell'automobile ci faranno un conto
di bonus e malus. Naturalmente, tutto questo riguarda meno la storia della cultura classica
in Italia che l'accresciuta comunicazione tra i vari settori del lessico nell'italiano
contemporaneo e la sua apertura agli influssi stranieri. Le parole greche e latine sono per
loro natura spesso europeismi: pensiamo a sponsor, perfettamente latino ma venuto
all'italiano dall'inglese; nella coscienza di tutti il plurale fa sponsors e non certo sponsores,
come corners e non come iuniores. Ciò non toglie che le vicende delle parole delle lingue
classiche, soprattutto dei grecismi, siano un ottimo terreno di osservazione, una spia e un
segno dei tempi, tale da aiutarci a tentare anche noi una risposta al quesito principale che
ci è stato posto: "Dove va la lingua italiana?".
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BRA4038 Dopo i quattordici, quindici anni aumenta nei ragazzi la spinta verso una maggiore libertà e
autonomia, con notevoli perplessità e preoccupazioni da parte dei genitori che si trovano
improvvisamente a confrontarsi con esigenze del tutto nuove: le uscite serali, l'acquisto del
motorino, una somma di denaro da amministrare da sé, le prime vacanze da soli. Si tratta
di stabilire nuove regole, permessi e divieti. Il desiderio di emancipazione costituisce una
spinta vitale, biologica, che assume un profondo significato esistenziale. L'adolescente sa
di essere di fronte a una tappa importante della sua vita, che egli deve vivere in tutta la
sua complessità se vuol lasciarsi alle spalle la nicchia protettiva dell'infanzia e diventare
adulto. La posta in gioco è alta: si tratta infatti della definizione di sé, della possibilità di
plasmare la propria identità e la propria vita indipendentemente, per quanto possibile, dal
desiderio dei genitori e dalle aspettative dell'ambiente. D'ora in poi i legami familiari
possono apparire in contrasto con le naturali esigenze della crescita; le manifestazioni di
affetto, di cura, di tutela non hanno più il segno positivo che avevano nell'infanzia, ma
appaiono inopportune e controproducenti per l'adolescente. I riti, le consuetudini familiari
gli appaiono insopportabili, gli danno un senso di soffocamento: vuole andare via, lontano
dallo sguardo amorevole e apprensivo dei suoi genitori. E per fare questo, allontanarsi,
prendere le distanze, vivere in prima persona la propria vita, è necessario mobilitare le
energie aggressive. In realtà quello che vogliono i ragazzi non è spezzare il filo rosso che
li lega ai genitori, ma allentarlo quel tanto che basta per renderlo più elastico, flessibile. Le
pulsioni aggressive si alternano così a "ritorni in porto" che consentono di prendere le
distanze dalla famiglia gradualmente, riducendo spesso la guerra a conflitti di confine.
BRA4068 L'uomo del Rinascimento ha molti volti ben individuabili. […] La donna del Rinascimento,
invece, sembra quasi senza volto. Un uomo può essere principe o guerriero, artista o
umanista, mercante o ecclesiastico, saggio o avventuriero. La donna assume solo
raramente tali ruoli e, se lo fa, non sono questi i ruoli che la definiscono, ma altri: è madre
o figlia o vedova; vergine o prostituta, santa o strega, Maria, o Eva, o Amazzone. Queste
identità (che le derivano soltanto dal sesso a cui appartiene) la sommergono
completamente ed estinguono qualsiasi altra personalità cui ella aspira. La donna, per
tutto il periodo del Rinascimento, combatte per esprimere sé. Ma è una lotta destinata
all'insuccesso, dato che, dalla fine del Rinascimento, la fissità dei ruoli sessualmente
definiti della donna è stata riaffermata a ogni livello della società e della cultura, e la
condizione femminile non è avanzata ma si è avviata a un progressivo declino. La gran
parte delle donne del Rinascimento divennero madri, e la maternità ha costituito la loro
professione. La loro vita adulta (dai venticinque anni circa nella maggior parte dei gruppi
sociali, dall'adolescenza nelle élites) è tra un ciclo continuo di parti, allattamenti e ancora
parti. Le donne che appartenevano alle classi superiori davano alla luce un figlio ogni
ventiquattro o trenta mesi. Gli intervalli tra un parto o l'altro erano scanditi dai periodi di
allattamento, che limitano la fertilità: quando il bambino era ormai svezzato, si poteva
avere un nuovo concepimento. Le donne ricche partorivano anche più figli di quelle
povere. Il bisogno di procurarsi un erede, corollario alla necessità di trasmettere
efficacemente la ricchezza, le costringeva alla fertilità. Dato che esse non allattavano i loro
bambini, gli intervalli tra un parto e l'altro potevano essere più brevi. […] Portare un figlio è
un privilegio e un fardello della donna. In Italia e in Francia, la donna che aveva appena
partorito un bimbo veniva festeggiata e coccolata. Il canonico milanese Pietro Casola, nel
1494, descrive la camera di una donna della nobile famiglia Dolfin di Venezia che era
appena divenuta madre. La stanza era stata addobbata con ornamenti del valore di
almeno duemila ducati, mentre le donne che si prendevano cura della partoriente
indossavano gioielli il cui valore raggiungeva almeno i centomila ducati. La donna che
aveva appena partorito, come una sposa novella il giorno delle nozze, occupava per un
momento transitorio una posizione di onore che non conosceva confronti. Essere incinte
costituiva comunque un segno di onore. […] Dalle donne delle classi superiori ci si
aspettava anche che amassero i figli, e in effetti molte di loro lo facevano: nutrivano i figli e
li educavano sino all'età di sette anni (le figlie fino al matrimonio) trovando così nella
maternità un'occasione di creatività e di espressione. […] La preoccupazione per la morte
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del bambino era sempre in agguato a ogni nascita. Il neonato era in qualche modo
considerato dalle madri del Rinascimento come un essere transitorio al quale si poteva
dedicare solo un affetto provvisorio, anche se molto intenso.
BRA4069 C'era una volta, così iniziano tantissime fiabe. Prendete una cipolla, una carota e una
costa di sedano, tritatele, fatele rosolare ecc., così iniziano un'infinità di ricette. Questa
preparazione si chiama soffritto. Serve a dare corpo e spessore ai piatti. Va cotto a
bassissima temperatura, io uso dire: sopra una candela, quella elevata lo brucia e lo rende
amarognolo e indigesto. Quando sentite un retrogusto di cipolla dopo aver gustato un
piatto, vuol dire che al 99 per cento dei casi è stata cotta a una temperatura troppo
elevata. A volte, per esempio nel caso di un risotto, abbinare bene il soffritto al riso è
praticamente impossibile. Infatti, se il soffritto richiede sempre una temperatura di cottura
più bassa possibile, il riso diventa risotto solo grazie a una tostatura iniziale fatta a fuoco
più che allegro: salvare capra e cavoli è impossibile, o la cipolla brucia o il riso non si tosta
bene. Se si deve rosolare una carne per un brasato, cipolle e verdura non solo si bruciano,
ma impicciano questa rosolatura, attenuandone il successo. Sono molti i casi come questi.
Qual è la soluzione? Semplice. Fare il soffritto come si deve, a fuoco dolcissimo, levarlo
dalla casseruola, tritarlo, tenerlo da parte e unirlo alla preparazione quando la temperatura
di cottura sarà meno elevata. Ma c'è una soluzione anche migliore. Fate il soffritto, con
calma, nella solita giornata uggiosa, quando non avete niente di meglio da fare.
Conservatelo in frigo, dove dura senza problemi una settimana o in freezer, diviso in dosi
standard, dove dura tre mesi, e aggiungetelo dove e quando serve, al momento giusto.
Questa procedura fa guadagnare sempre tempo, l'ingrediente più prezioso, e migliora la
qualità di un piatto, senza mai peggiorarla. È inutile riscaldarlo prima di utilizzarlo,
toglietelo dal freezer due ore prima di utilizzarlo. Non spaventatevi e arrabbiatevi con me
quando troverete nelle mie ricette l'indicazione di unire il soffritto a cucchiaiate. Se non
l'avete pronto, basta farlo in un pentolino a parte e tritarlo, tutto qui. Calcolate che con una
cipolla si fanno circa quattro cucchiai di soffritto di cipolle e con una cipolla, una carota e
un gambo di sedano circa sei cucchiai di soffritto all'italiana. Due piccoli consigli finali. Un
soffritto va preparato col burro, caso mai con lo strutto, molto più leggero di quanto
chiunque pensi. Se proprio volete usare l'olio, dovrà essere extravergine d'oliva, ma non
saporito, altrimenti il sapore d'oliva dominerà. Il soffritto non si sala, tanto non lo si
rimangia a cucchiaiate e salerete il piatto dove lo utilizzerete. In tutti i libri di cucina si
consiglia di usare le spezie con moderazione. È giusto fare così. Ma c'è una spezia di cui
tutti sempre abusiamo: il sale. Ne va messo poco, se e quanto necessario e all'ultimo
momento.
BRA4070 L'avvocato Utterson era un uomo dall'aspetto rude, non s'illuminava mai di un sorriso;
freddo, misurato e imbarazzato nel parlare, riservato nell'esprimere i propri sentimenti; era
un uomo magro, lungo, polveroso e triste, eppure in un certo senso amabile. Nelle riunioni
di amici, quando il vino era di suo gusto, gli traspariva negli occhi qualcosa di veramente
umano; qualcosa che non trovava mai modo di risultare nelle sue parole, e che si
manifestava, oltre che in quella silenziosa espressione della faccia dopo una cena, più
spesso ancora e più vivamente nelle azioni della sua vita. L'avvocato era severo nei
riguardi di se stesso; quando si trovava solo, beveva gin, per mortificare l'inclinazione
verso i buoni vini; e, sebbene il teatro lo attirasse, non aveva mai varcato la soglia di un
teatro in vent'anni. Nei riguardi del prossimo era tuttavia di una grande indulgenza; talvolta
si meravigliava, quasi con invidia, della forza con la quale certi animi potevano venire
spinti alla malvagità; e, in ogni occasione, era disposto più ad aiutare che a disapprovare.
"Io tendo all'eresia di Caino", soleva dire argutamente, "lascio che mio fratello se ne vada
al diavolo come meglio gli piace". Avendo un simile carattere, gli accadeva spesso di
essere l'ultimo conoscente stimato, e di esercitare l'ultima buona influenza nella vita di
uomini perduti. Costoro, sinché frequentavano la sua casa, venivano trattati senza il
minimo mutamento di modi. Indubbiamente questo contegno riusciva facile al signor
Utterson, poiché egli era riservato al massimo grado, e anche le sue amicizie parevano
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fondate su una simile dottrina di bontà. È proprio dell'uomo modesto accettare il cerchio
delle amicizie, così come sono, dalle mani della sorte; questo era il caso dell'avvocato. I
suoi amici erano persone del suo stesso sangue, oppure gente che conosceva da lungo
tempo; i suoi affetti, come l'edera, si sviluppavano con il tempo, e non implicavano
particolari qualità nel loro oggetto. Di tal genere senza dubbio doveva essere il legame che
lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano parente, uomo molto conosciuto in città. Per
molti restava un mistero cosa quei due potessero trovare uno nell'altro, e quali argomenti
di conversazione potessero avere in comune. Coloro che li incontravano nelle loro
passeggiate domenicali riferivano che non parlavano, e parevano singolarmente tediati, e
salutavano con evidente sollievo l'apparire di un comune conoscente. E tuttavia, i due
uomini tenevano in gran conto quelle passeggiate, considerandole il maggior svago della
loro settimana, e non solo scartavano ogni altra occasione di divertimento, ma resistevano
persino al richiamo degli affari, per goderne senza interruzione. In uno di quei
vagabondaggi accadde che passassero per una strada secondaria di un quartiere affollato
di Londra. La via era piccola, e quel che si dice tranquilla, ma nei giorni feriali era piena di
gente affaccendata.
BRA4071 L'invenzione della moneta è relativamente recente. Gli uomini primitivi non la conoscevano
e utilizzavano il baratto come mezzo per lo scambio. Questo fu superato dall'introduzione
della moneta naturale, consistente in un animale o in una cosa esistente in natura e
considerata utile da tutti. Anticamente nel bacino del Mediterraneo si usava, per esempio,
come moneta naturale il bestiame. Le testimonianze di questa forma pre-monetale sono
molte; basti ricordare che il termine latino pecunia (denaro) deriva dal vocabolo pecus, che
significa gregge. Ben presto però apparve chiaro che questa forma di pre-moneta aveva
grandi difetti: il bestiame, infatti, consentiva un accumulo di ricchezza, ma il suo
mantenimento era costoso e impegnativo. Si passò allora alla cosiddetta moneta utensile,
ovvero a oggetti lavorati, i quali mantenevano intatti nel tempo il loro valore. Ad esempio,
nella Grecia antica la moneta utensile fu rappresentata principalmente dagli spiedi e dalle
asce, mentre in Cina si usarono vanghe e coltelli. A poco a poco gli oggetti usati a questo
scopo persero ogni funzione pratica, legata al lavoro, e diventarono puri mezzi di scambio.
A modificare la storia dei mezzi di scambio fu la scoperta del metallo. Esso, fuso in forma
di piccoli pani o lingotti, possedeva infatti tutti i requisiti necessari a diventare mezzo di
scambio. L'introduzione della moneta di Stato rappresentò il punto di arrivo di
un'evoluzione degli scambi commerciali del popolo greco. Nel corso del VII secolo a.C.,
infatti, i Greci emigrati verso le colonie del Mediterraneo diedero vita a un intenso rapporto
commerciale con la madrepatria. Lo sviluppo degli scambi in termini quantitativi indusse gli
operatori economici a sveltire le contrattazioni adottando mezzi di pagamento più rapidi,
diversi dalle forme di pre-moneta allora in uso. Nacque così la nuova merce-campione,
costituita da globetti di metallo di dimensioni minime, più agili e facili da trattare rispetto ai
pani di rame. I metalli nobili (l'oro, l'argento e l'elettro, una lega ottenuta dai due metalli
precedenti) vennero preferiti agli altri per il fatto di essere rari, di essere pressoché
inalterabili, in quanto non ossidabili, e di essere riconoscibili facilmente, oltre che dal
suono e dall'aspetto, anche dal peso specifico, superiore a quello di tutti gli altri metalli
allora conosciuti. L'uso quotidiano di pezzi del genere aveva però un limite. Non
presentando infatti nessuna marca di valore e nessun segno di garanzia, ogni volta che
venivano ricevuti in pagamento, i pezzi dovevano essere pesati per stabilirne il valore e
saggiati per verificarne la purezza. Questo inconveniente fu superato con l'introduzione di
globetti contromarcati garantiti da banchieri, mercanti o altri operatori economici. A questo
punto (intorno al 620-600 a.C.) intervenne il governo di una delle città ioniche, forse Mileto,
che si appropriò dell'idea emettendo una moneta statale con il suo simbolo. In circa un
secolo, la moneta statale invase la Grecia continentale, poi divenne patrimonio di tutte le
economie del Mediterraneo. Quella greca fu la prima moneta della storia, in tutte le altre
aree la sua introduzione fu successiva.
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BRA4072 I classici si trasformano con noi, che oggi ci emozioniamo davanti alle statue greche non
più coperte di vernice, a Mozart suonato con sonorità da lui forse non previste. E a uno
Shakespeare sempre attualizzato (già nel Settecento Garrick recitava Macbeth in parrucca
incipriata e calze di seta). Tuttavia il sogno di ricreare il passato è lecito, e nel caso del
Bardo è culminato nella costruzione, a Londra, di un nuovo Globe, ossia di una playhouse
simile a quelle elisabettiane distrutte e dimenticate nei secoli. Certo, l'edificio è di cemento
e non di legno. Ma lo spettacolo si svolge all'aperto e di giorno, con la luce naturale
(all'imbrunire qualche faro viene acceso); non ci sono amplificazioni (ma, purtroppo,
arrivano i rumori del traffico); il pubblico della platea è in piedi; la scena è fissa, e per
movimentarla si fa uso di suppellettili e del dialogo; qualche volta, anche se non sempre,
gli uomini recitano parti da donna. Una visita all'istituzione è dunque un'esperienza
istruttiva, raccomandabile alle scolaresche e amata dai turisti - una Disneyland
benintenzionata, gestita con passione. Come Bach suonato sugli strumenti antichi: lo si
accetta, una tantum, ma poi si torna ai Berliner. Non peregrina, comunque, l'idea di
invitare un allestimento del Globe, nella fattispecie uno Hamlet, sul palcoscenico
dell'Olimpico di Vicenza, ossia di un monumento di solito molto difficile da utilizzare, e che
fu inaugurato ai tempi di Shakespeare. Lo spettacolo diretto da Giles Block vi si è adattato
con perfetta naturalezza, anche se avendolo concepito per la luce del sole, il regista lo ha
illuminato a giorno, con effetto vagamente sconcertante all'inizio, quando le sentinelle
vedono arrivare lo spettro di Amleto padre. Qui lo scrupolo filologico è apparso eccessivo,
quando si trasferivano in un luogo chiuso Shakespeare e compagni usavano certamente
torce e candele. Per il resto, la recuperata elisabettianità è risultata in energia, ritmo e
agilità sfoggiata da tutta la compagnia; in costumi colorati, volutamente anche un po'
ridicoli (Amleto in particolare si maschera spesso da puffo); in suoni di cornamuse, trombe
e tamburi; in scene di interpreti quasi tutti non giovani e fisicamente non particolarmente
attraenti - l'irrequieto, duttile, ironico protagonista Mark Rylance è piccolo e stempiato, più
simile a Bing Crosby che a Laurence Olivier. Il testo è porto con chiarezza e precisione,
limando su sfumature e approfondimenti, anche se i monologhi sono indirizzati
direttamente agli spettatori. Il meglio arriva con l'eccellente concertato delle scene di
massa, particolarmente con i duelli e la strage finale, e con il ballo conclusivo di tutta la
compagnia, una Totentanz con teschi al posto della tradizionale giga. Tre ore e venti con
due intervalli, buona occasione per ripassare ancora una volta il testo, e alla fine grandi e
meritati festeggiamenti agli ospiti.
BRA4073 Blakelok è un pittore americano del tardo '800 che divenne noto solo quando, a mezza
età, perse la ragione e non fu più in grado di riconoscere le proprie opere. Tanto che da
allora fu impossibile distinguerle da quelle che nel frattempo erano state copiate o imitate
nello stile (da Innes, Ryder, Kitchell e altri). Solo dopo il 1970 a Brookaven, con l'aiuto di
una tecnica radioisotopica molto usata in biologia e in metallurgia (l'autoradiografia), si è
dimostrato che i suoi dipinti autentici risultano inconfondibili per la costanza nell'uso dei
materiali e per la tecnica di applicazione dei colori. Questo è solo un esempio di come le
tecniche radioanalitiche possano aiutare identificazione, conservazione e restauro delle
opere d'arte sia antiche che attuali, offrendo procedimenti di analisi molto sensibili e, quel
che più conta, non distruttivi. Sono già noti i metodi di datazione archeologica (al carbonio
14 o altri) o lo studio con l'analisi per l'attivazione dei colori. Oggi le tecniche di radioanalisi
al servizio dell'arte sono ancora cresciute, mutuando metodologie da campi diversi, come
la medicina e l'industria. Queste tecniche possono essere rivolte sia alla determinazione
della struttura dell'oggetto (analisi morfologica) che alla sua composizione (analisi
chimica), e finalizzate tanto alla sua identificazione quanto alla sua conservazione. La
composizione strutturale si può studiare sfruttando la trasparenza dei corpi alla radiazione
elettromagnetica ad alta energia, cioè con la radiografia o la Tac. La radiografia viene
applicata ai quadri, e permette di mettere in evidenza tutti i componenti come la tela, la
stesura di gesso, le colle e i pigmenti con i loro leganti; si può così conoscerne non solo la
tecnica adottata e deciderne l'attribuzione nel caso di incertezza, ma anche lo stato di
conservazione e programmare l'eventuale restauro con cognizione di causa.
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L'apparecchio a raggi X usato non differisce, a parte l'energia dei raggi, da quelli impiegati
per la radiodiagnostica umana, così come la lastra radiografica è di un tipo comune, e
viene messa a contatto con il dipinto creando fra i due strati una leggera depressione in
modo da avere una perfetta aderenza. Quando l'opera sotto studio è tridimensionale,
come una statua, un vaso, un sarcofago, si mutua invece dalla medicina la tomografia
assiale computerizzata (Tac). Con essa si riesce a visualizzare la struttura interna
dell'oggetto, altrimenti visibile solo con interventi distruttivi. Data la grande varietà dei
campioni da esaminare, la Tac sulle opere d'arte ha subito, rispetto alla Tac clinica,
notevoli variazioni: per statue e oggetti metallici di grandi spessori (fino a 30 centimetri) i
normali raggi X di 0,1-0,3 MeV vengono sostituiti da raggi di 12 MeV. Le tecniche
radioanalitiche che consentono l'analisi chimica sono invece quelle basate sulla
fluorescenza indotta e sull'analisi per attivazione. La prima è normalmente più agevole
della seconda perché si può eseguire con strumenti portatili. In sostanza essa consiste
nello stimolare con radiazioni poco penetranti gli atomi superficiali dell'opera in esame. Gli
atomi così stimolati rispondono emettendo a loro volta una radiazione che è come una loro
carta di identità e si rivelano quindi come tipo e quantità. Normalmente la radiazione usata
per la stimolazione consiste in raggi X o gamma e la tecnica si chiama "X Ray
Fluorescence" (XRF), ma ultimamente è stata sviluppata una interessante variante, la Pixe
alfa. In essa la stimolazione degli atomi viene realizzata con una sorgente di particelle alfa
(da Po-210), che percorrono circa 5 centimetri in aria e non richiedono particolari
precauzioni di radioprotezione, salvo il non venirne a contatto.
BRA4074 Invasa di benessere per il vino rosato della colazione, Nicole Diver piegò le braccia
abbastanza in alto perché le camelie artificiali sulla spalla le sfiorassero la guancia, e uscì
nel bel giardino senz'erba. Il giardino, da una parte era delimitato dalla casa, da cui si
usciva ed entrava, da due parti dal vecchio villaggio, e dall'ultima parte dalla rupe che
scendeva a terrazze fino al mare. Lungo i muri dalla parte del villaggio tutto era polveroso,
le viti contorte, i limoni e gli eucalipti, le carreggiate casuali lasciate un momento prima ma
connaturate al sentiero, secche e lievemente friabili. Nicole era invariabilmente sorpresa
dal fatto che svoltando nell'altra direzione oltre un'aiuola di peonie, si entrasse in una zona
così verde e fresca che foglie e petali vi si arricciavano di tenera umidità. Annodata alla
gola portava una sciarpa lilla che anche nella luce incolore del sole le accendeva il viso e i
piedi in un'ombra lilla. Aveva il viso duro, quasi severo tranne per il raggio morbido di
dubbio pietoso che le usciva dagli occhi verdi. I capelli, una volta biondi, si erano scuriti;
ma era più bella adesso a ventiquattro anni di quanto non lo fosse stata a diciotto, quando
i suoi capelli erano più chiari di lei. Seguendo un sentiero bagnato da una nebbia
intangibile di fiori che seguiva il limite di pietre bianche, giunse a uno spiazzo sovrastante il
mare dove vi erano lanterne addormentate tra i fichi e una grande tavola e sedie di vimini
e un grande ombrellone da mercato di Siena, il tutto raccolto intorno a un pino enorme,
l'albero più grande del giardino. Si fermò un momento guardando distrattamente la
vegetazione di nasturzi e iris aggrovigliata ai suoi piedi, come scaturita da una manciata
sbadata di semi, ascoltando le lamentele e le accuse di una disputa infantile in casa.
Quando questa morì nell'aria estiva, procedette tra le peonie caleidoscopiche ammassate
in una nuvola rosa, tulipani neri e marroni e fragili rose dallo stelo violaceo, trasparenti
come fiori di zucchero nella vetrina di un pasticciere; finché lo "scherzo" di colore, come se
non potesse raggiungere un'intensità maggiore, irrompeva improvvisamente a mezz'aria e
gradini umidi conducevano a un piano un paio di metri più in basso. Qui c'era un pozzo la
cui sponda era bagnata e sdrucciolevole anche nei giorni sereni. Nicole salì i gradini che
conducevano nell'orto; camminava piuttosto in fretta; le piaceva essere attiva anche se a
volte dava un'impressione di riposo che era insieme statica ed evocativa. Questo
dipendeva dal fatto che conosceva poche parole e non credeva in nessuna, in mezzo alla
gente era piuttosto silenziosa, fornendo la sua parte di humor educato con una precisione
che rasentava l'aridità. Ma nel momento in cui gli estranei incominciavano a sentirsi a
disagio di fronte a questa economia, si impadroniva dell'argomento e vi si lanciava
febbrilmente, sorpresa di se stessa; poi lo riportava indietro e lo abbandonava
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bruscamente come un obbediente cane da caccia che abbia fatto quel che doveva e
anche qualcosa di più. (Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte, Einaudi).
BRA4075 Soltanto i giovani hanno momenti del genere. Non dico i più giovani. No. Quando si è
molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti. È privilegio della prima gioventù vivere
d'anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce
soste o attimi di riflessione. Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell'infanzia, e si entra in
un giardino d'incanti. Persino la penombra brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le
sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che
l'umanità tutta è passata di lì. È piuttosto l'incanto dell'universale esperienza, da cui ci
aspettiamo emozioni non ordinarie o personali, qualcosa che sia solo nostro. Si va avanti
ritrovando i solchi lasciati dai nostri predecessori, eccitati, divertiti, facendo tutt'un fascio di
buona e cattiva sorte - zuccherini e batoste, si può dire - il pittoresco lascito assegnato a
tutti, che tante cose riserba a chi ne avrà i meriti, o forse a chi avrà fortuna. Già. Si va
avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d'ombra, ad
avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù. Questo è il periodo della
vita in cui è più facile sopraggiungano i momenti che ho detto. Che momenti? Be',
momenti di noia, di stanchezza, d'insoddisfazione. Momenti d'avventatezza. Voglio dire
momenti in cui, chi è ancora giovane, si trova a commettere azioni avventate, come ad
esempio sposarsi all'improvviso o abbandonare senza un motivo un posto di lavoro.
Questa non è la storia di un matrimonio. Non mi andò poi così male. Per quanto avventata
la mia azione fu piuttosto qualcosa come un divorzio, quasi una diserzione. Senz'alcuna
ragione comprensibile alla luce del buon senso, abbandonai il posto di lavoro - sbaraccai
la mia cuccetta - lasciai una nave di cui il peggio che si poteva dire è che era una nave a
vapore, e dunque forse non degna della cieca lealtà che…Ma è inutile adesso voler
abbellire ciò che io stesso all'epoca sospettai fosse soltanto un capriccio. Fu in un porto
d'Oriente. D'Oriente era la nave, in quanto apparteneva a quel porto. Commerciava tra le
scure isole d'un mare azzurro solcato da scogliere, col rosso vessillo mercantile sulla
corona di poppa, e sull'albero maestro una bandiera di compagnia, parimenti rossa, ma
con orlo verde e bianca mezzaluna al centro. Infatti il suo armatore era un arabo, e per
giunta un capo. Da cui il verde orlo della bandiera. Era costui il capo di una grande casata
di Arabi degli Stretti, ma e Est del canale di Suez non si trovava suddito più fedele del
composito impero britannico. La politica mondiale non lo toccava né punto né poco,
godendo egli bensì d'un forte e oscuro potere tra la sua gente. Ma poco a noi importava
chi fosse l'armatore di quella nave. Egli aveva dovuto impiegare dei bianchi al suo
servizio, per i compiti di navigazione, e molti di questi si erano congedati senza averlo
visto manco una volta. Io stesso lo vidi una volta soltanto, del tutto casualmente su un
molo: un vecchietto scuro, cieco d'un occhio, con candida casacca e pantofole gialle. Una
folla di pellegrini malesi, cui aveva concesso favori in forma di cibo o denaro, si lanciava a
baciargli la mano. Mi dissero che spandeva le sue elemosine a destra e a manca, fino a
coprire quasi tutto l'Arcipelago. Infatti non è forse scritto che "L'uomo caritatevole è amico
di Allah"? Ottimo (e pittoresco) armatore con cui si poteva star tranquilli, ottima nave
scozzese - perché tale era dalla chiglia in su - ottima imbarcazione, facile da tener pulita,
maneggevole sotto ogni aspetto, e salvo per la faccenda della propulsione a vapore,
degna d'affetto in modo assoluto, ancora oggi la venero con profondo rispetto per la sua
memoria. Quanto al genere di commerci cui era adibita e ai miei compagni, se un mago
benefico mi avesse concesso di scegliere una vita e degli uomini di mio gradimento, non
avrebbe potuto toccarmi di meglio. E all'improvviso abbandonai tutto questo. L'abbandonai
alla maniera di un uccello che, senza logica per noi, se ne va da un comodo ramo. Fu
come se, pur senza rendermene conto, avessi udito un sussurro o visto qualcosa.
BRA4081 Intorno alla questione delle costituzioni si giocò una parte notevole dello scontro politico
nel XIX secolo. La ''storia costituzionale" ne è quindi un capitolo importante. L'idea di
costituzione era parte integrante del concetto liberale dello Stato, uno Stato che fosse
"governo della legge e non degli uomini" e che si fondasse sulla "certezza del diritto" e
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sulla rigorosa divisione dei poteri. L'esistenza di una costituzione scritta - che stabilisse in
forma certa, imperativa anche per il sovrano, le caratteristiche fondamentali dello Stato, il
funzionamento dei suoi organi e i diritti-doveri dei cittadini - appariva in questo senso
indispensabile. La presenza di una costituzione segna la differenza tra lo Stato assoluto e
lo Stato costituzionale. Nella monarchia assoluta il sovrano è al di sopra della legge; egli
regna "per grazia di Dio" e concentra nelle proprie mani tutto il potere. È limitato - è vero dalla forza della tradizione, ma non esiste alcuna norma scritta che ne regoli l'operato.
Nella monarchia costituzionale, invece, il sovrano - regnando "per grazia di Dio e volontà
della nazione" - accetta di governare secondo una Carta, che ne stabilisce le prerogative,
e di assoggettarsi a una parziale divisione dei poteri tra re e Parlamento. Il primo nella
formazione dei governi continua a scegliere e nominare i ministri che, a loro volta,
rispondono solo al sovrano, ma una parte dell'attività legislativa è trasferita all'organo
rappresentativo. Un esempio classico di monarchia costituzionale è rappresentato dal
regime di Luigi XVIII. Egli accettò l'idea di costituzione, ma respinse il progetto formulato
dal Senato e volle che il sistema costituzionale dipendesse solo dalla sua generosità,
concedendo unilateralmente la "Carta" (di qui il termine Charte octroyée, "concessa"). La
monarchia parlamentare infine è fondata sulla sovranità popolare e sul pieno rispetto del
principio rappresentativo: il sovrano "regna ma non governa", e spetta al Parlamento eletto
dai cittadini approvare con il voto di fiducia (o respingere) i governi e fare le leggi. La
differenza e il grado di democrazia dei diversi tipi di monarchie parlamentari consisteranno
nella maggiore o minore ampiezza del diritto di voto. Nell'Europa del 1813 poche erano le
forme di governo costituzionali, concentrate - eccetto l'esempio francese - esclusivamente
nel Nord Europa: il regno dei Paesi Bassi, la Svezia e la Norvegia. La Danimarca invece
restava una monarchia assoluta. Nell'area tedesca l'Atto di confederazione del 10 giugno
1815 non può essere considerato una vera e propria costituzione, e la Dieta germanica
non era elettiva. Le uniche costituzioni furono concesse dai principi della Germania
meridionale in Baviera, Württemberg, Assia-Darmstadt, Nassau, Brunswick e SassoniaWeimar. In Austria, Prussia, Russia e negli Stati italiani vigeva il regime assoluto mentre in
Polonia lo zar ammise una carta costituzionale. In Spagna la costituzione del 1812 (la più
radicale delle costituzioni del tempo) fu abrogata da Ferdinando VII. La Svizzera era
l'unico esempio di repubblica. In Inghilterra, pur non esistendo una costituzione nel senso
formale del termine, vigeva un sistema relativamente liberale fondato sull'equilibrio tra re e
Parlamento (elettivo), in evoluzione tra il modello di monarchia costituzionale e quello di
monarchia parlamentare. Essa costituiva un apparente paradosso: il sistema politico più
moderno d'Europa si reggeva non su una costituzione scritta ma sulla consuetudine e la
tradizione. Alla base stavano l'economia e il sistema sociale più dinamici del mondo.
BRA4104 Il predominio persistente degli Stati Uniti nella produzione aeronautica rappresenta un
potente simbolo della potenza tecnologica di quel Paese. È inoltre un simbolo
particolarmente evidente per gli uomini politici, che passano molto del loro tempo a volare
da una riunione all'altra. Non è quindi sorprendente che da lungo tempo i governi europei
abbiano tentato di sviluppare industrie aeronautiche in grado di competere con quelle
statunitensi. Negli anni Cinquanta e Sessanta tentativi di questo tipo furono effettuati a
livello nazionale, ma con poco successo. A partire dalla fine degli anni Sessanta, tuttavia,
in Europa si sono avuti due significativi sforzi di cooperazione per sviluppare il settore.
Uno di questi sforzi si concretizzò nella promozione congiunta, da parte di Gran Bretagna
e Francia, della produzione di un aereo supersonico, il Concorde. Dal punto di vista
tecnico, la costruzione di un aereo supersonico per servizio passeggeri divenne possibile
verso la fine degli anni Sessanta, ma i produttori privati non erano convinti della
profittabilità dell'impresa. Una campagna politica per indurre il governo statunitense a
finanziare la produzione di un aereo di questo tipo fallì. Ma in Europa la Gran Bretagna e
la Francia si accordarono per sostenerne finanziariamente lo sviluppo. La logica
sottostante a un accordo del genere era complessa. In qualche misura, si sperava in
consistenti esternalità tecnologiche. Più significativi, tuttavia, erano il prestigio associato al
progetto e l'utilità del Concorde come simbolo della cooperazione europea. In termini
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commerciali i risultati si rivelarono disastrosi. I Concorde risultarono estremamente costosi
da gestire e il risparmio di poche ore di volo non fu sufficiente a coprire la differenza di
costi. Solamente pochi Concorde vennero venduti e quei pochi furono acquistati delle
aviolinee nazionali (pubbliche) britanniche e francesi. La valutazione più generosa che può
essere fatta sul Concorde è che esso generò esternalità tecnologiche sfruttate nel
successivo tentativo europeo di ingresso nella produzione aeronautica, realizzatosi con
l'Airbus. L'Airbus rappresenta un consorzio di governi europei finalizzato alla costruzione
di grandi aerei passeggeri, in diretta concorrenza con il punto di forza della produzione
statunitense. Le spese in conto capitale, insieme ad alcune altre componenti di costo,
sono state sussidiate dai governi aderenti all'accordo. A differenza del progetto del
Concorde, quello dell'Airbus ha avuto successo nella produzione di aerei
commercialmente adeguati: la serie A300 - jet passeggeri di ampia dimensione per voli a
medio raggio - è, per costi operativi e prestazioni, del tutto paragonabile agli equivalenti
aerei prodotti negli Stati Uniti. Le vendite sono risultate significative. Sfortunatamente,
dopo anni di sussidi l'Airbus continua a presentare costi di produzione sostanzialmente più
elevati di quelli del Boeing, il principale concorrente statunitense. L'Airbus è riuscito ad
assicurarsi consistenti quote di mercato, ma al costo di ricorrenti sostegni pubblici. Ciò che
rende l'esperienza dell'Airbus particolarmente interessante è la sua rilevanza nella
precedente discussione sulla politica commerciale strategica. Le economie di scala nella
produzione degli aerei passeggeri di grande dimensione sono così enormi che nell'intero
mercato mondiale esiste spazio per solamente uno o due produttori che ottengano profitti
positivi. Il sussidio europeo a sostegno dell'Airbus potrebbe essere considerato come un
tentativo di superare il vantaggio iniziale della Boeing per sottrarle - a favore dell'Europa parte di quel profittevole mercato. Purtroppo, fino a oggi il risultato è stato questo: la
Boeing non è stata indotta a lasciare il mercato, e l'Airbus assorbe un rilevante ammontare
di denaro pubblico.
BRA4119 Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore per il teatro, la scena comica era
dominata dalla "Commedia dell'arte", in cui gli attori improvvisavano le battute, senza
seguire un testo scritto, solo sulla base del canovaccio, una sorta di scaletta che indicava
le azioni della commedia. Goldoni, come lui stesso afferma in alcune opere di carattere
teorico (Il teatro comico e i Mémoires), si mostrava molto critico verso la commedia
dell'arte. I motivi del suo rifiuto erano: la volgarità in cui era caduta la comicità, la rigidezza
stereotipata a cui si erano ridotti i tipi rappresentati dalle maschere, la ripetitività della
recitazione (gli attori ripetevano sempre gli stessi lazzi, le stesse azioni e battute
convenzionali oramai prevedibili). Ma la ragione della riforma non si appoggiava su queste
degenerazioni, quanto sull'impianto stesso della commedia dell'arte e sulla visione del
reale che proponeva. Il bisogno di una riforma nasce già nello spirito del razionalismo
arcadico che aspirava alla semplicità, all'ordine razionale e al buon gusto. Già in ambito
arcadico erano nati tentativi di riforma da parte di alcuni autori toscani (Giovan Battista
Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli, Girolamo Gigli) ma i loro tentativi erano solo letterari e
confinati nel chiuso delle accademie. Goldoni invece non era un letterato, ma un uomo di
teatro che lavorava a diretto contatto con il pubblico, di cui conosceva i gusti e le
preferenze. Goldoni ebbe anche la fortuna di vivere a Venezia, dove il teatro era molto
radicato. La "riforma" non vuole solo modificare un genere letterario, ma vuole incidere
sullo spettacolo, nei suoi rapporti con la vita sociale. Goldoni, nella prefazione alle
commedie, afferma che nella sua riforma non si è ispirato a modelli libreschi, ma che gli
unici libri su cui ha studiato erano "il mondo" e "il teatro"; la realtà e la scena. Goldoni
vuole proporre testi che piacciano al pubblico ma che allo stesso tempo siano "verisimili",
cioè attinenti alla realtà. Per questo Goldoni si oppone alle maschere, troppo stereotipate;
a esse sostituisce i caratteri, colti nelle loro individualità e varietà psicologiche. Per
Goldoni i caratteri sono finiti in base al genere (per esempio l'avaro, il geloso, il bugiardo)
ma infiniti nella specie, ci sono infatti infiniti modi di essere avari, gelosi e bugiardi. La
ricerca dell'individualità è propria della civiltà borghese: l'arte classica rappresentava
categorie di individui, quella borghese rappresentava i singoli individui. (...) La riforma
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vuole quindi restituire una dignità al teatro in generale, contrapponendosi sia all'eccessiva
frivolezza della commedia dell'arte sia all'eccessiva tendenza eroica della tragedia. Il rifiuto
dell'improvvisazione nasce dal fatto che gli attori, seguendo semplicemente il canovaccio,
non potevano fornire una rappresentazione completa del reale. Goldoni incontrò delle
opposizioni alla sua riforma: in primo luogo quella degli attori, che si trovavano a ricoprire
un ruolo secondario e che non erano abituati a imparare a memoria un testo scritto; in
secondo luogo quella del pubblico, oramai affezionato alle maschere e alle battute della
commedia dell'arte. La riforma, proprio per ovviare a queste avversità, fu graduale:
Goldoni scrisse prima solo la parte del protagonista (la prima commedia con queste
caratteristiche fu il Momolo cortesan); in seguito passò alla stesura delle parti di tutti i
personaggi (La donna di mondo). Egli fu molto abile nel mantenere le maschere
modificandole però dall'interno e facendole assomigliare sempre più a caratteri individuali,
fino a giungere alla loro completa eliminazione.
BRA4146 Si è detto spesso che, per l'Europa, l'Ottocento è il secolo dei nazionalismi. È in quel
periodo, infatti, che l'ideologia nazionalista fa da primo veicolo dell'entrata graduale delle
masse in politica e che le lotte per l'indipendenza nazionale segnano profondamente
l'evoluzione del sistema statale europeo. Gli ideali nazionalisti vengono considerati parte
integrante di una fase di sviluppo politico che vede il riscatto di nazioni storiche proiettate
alla costruzione di un proprio Stato. Saranno poi le due guerre mondiali del XX secolo,
ancora fortemente intrise di ideologie nazionaliste (anche se non solo di quelle), ad
avvalorare e confermare sempre più l'immagine del nazionalismo come un'ideologia
politica patologica e negativa, non più conquista e riscatto dell'indipendenza nazionale, ma
anche aggressività, prevaricazione e imperialismo. Il nazionalismo che si sviluppa nel
corso dell'Ottocento trova il suo culmine e la sua esasperazione nei totalitarismi del XX
secolo, passando da una dimensione strettamente territoriale a una mirante all'esaltazione
dell'"anima nazionale", ovunque essa sia identificabile. Gli esiti della Seconda guerra
mondiale hanno poi contribuito a diffondere l'idea che il nazionalismo fosse, nel mondo
sviluppato, una patologia ormai in declino, una frattura superata e meno intensa e
importante di quella di classe: la frattura territoriale sarebbe stata ormai soppiantata dalla
più universale frattura fra datori di lavoro e prestatori d'opera. Così, nel corso degli anni
Cinquanta, anche fra gli scienziati sociali si era fatta strada l'idea che i conflitti etnonazionali nei Paesi occidentali fossero destinati a spegnersi gradualmente e a perdere
d'importanza. Da una parte, c'era la convinzione che i processi di modernizzazione, dopo
essere stati indicati come una delle principali cause dello sviluppo dei nazionalismi,
avrebbero in realtà condotto a un'integrazione definitiva della società e reso così sempre
più anacronistica ogni rivendicazione nazionalistica. Dall'altra, la fine ormai annunciata
delle ideologie avrebbe fatto esaurire anche i nazionalismi. A rafforzare queste convinzioni
stavano poi i processi in atto di integrazione sovrastatale e sovranazionale che, almeno in
Europa, sembravano destinati a indebolire ogni forma di particolarismo etnico. La
comparsa di una serie di fenomeni di mobilitazione etnica in Europa occidentale a partire
dalla metà degli anni Cinquanta ha poi costretto le scienze sociali a riconsiderare la
rilevanza delle fratture etniche. In particolare, si ricominciò a osservare come i processi di
centralizzazione, omogeneizzazione socio-culturale e integrazione nazionale ottenessero
in certi casi effetti opposti a quelli previsti: la crescita dei contatti con il mondo esterno,
favorita dalla mobilità degli individui e dai mass media, ha in certi casi accentuato l'identità
e la coscienza etnica e dato spazio, quindi, a nuove aspirazioni e domande di specificità
etnica. Dal canto suo la scienza politica si è sempre più interessata all'incidenza delle
fratture etniche sulle scelte di voto.
BRA4159 La storia medievale dell'Italia aveva già preso un avvio singolare rispetto a quello degli altri
Paesi europei con l'invasione dei Longobardi nel 568. Da allora si erano determinati alcuni
caratteri destinati a diventare permanenti nella vita del Paese. In primo luogo, i Longobardi
non conquistarono interamente il Paese. L'intero Mezzogiorno, Roma, gran parte dei
litorali adriatico e tirreno rimasero a lungo nelle mani di Bisanzio, così come le isole. I
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Longobardi che penetrarono nel Mezzogiorno subirono largamente l'influenza bizantina,
specialmente dopo la conquista franca del regno longobardo. Nacque così una divisione
del Paese in due grandi parti (la meridionale e insulare, e la centrale e settentrionale),
contraddistinte da sviluppi politici e istituzionali diversi. In secondo luogo, i rapporti tra la
Chiesa di Roma e i Longobardi, anche dopo la loro conversione al Cattolicesimo, furono
sempre improntati a diffidenza o ad aperta ostilità, per cui si posero le radici di un altro
antagonismo ricorrente nella storia italiana: quello tra la Chiesa e la potenza o il potere
politico prevalente nella Penisola. E, come dice Dante Alighieri, "quando il dente
longobardo morse la Santa Chiesa", quest'ultima, non potendosi più appellare alla ormai
troppo lontana Bisanzio, si appellò alla monarchia franca, finché Carlomagno abbatté e
sottomise il popolo longobardo, secondo uno schema più volte ripetutosi in seguito. In
terzo luogo, nel regno longobardo, l'autorità dei sovrani, emanata da Pavia, la capitale,
non riuscì a farsi valere sempre e appieno sulle varie fazioni e parti del popolo e del
Paese. I duchi e altri signori si comportavano verso il re con un forte grado e spirito di
autonomia. La tradizione del potere centrale fu perciò assai debole fin dall'inizio nello
Stato, che pure giunse ad assoggettare (tranne Venezia e Roma) quasi tutta l'Italia centrosettentrionale. La conquista franca non riuscì a superare, nella sostanza, queste
condizioni di fondo. Nella dissoluzione dell'Impero carolingio il particolarismo si manifestò
in Italia con una forza ancora maggiore che altrove, finché, a metà del X secolo, Ottone I
di Sassonia non riuscì a ristabilire nel Paese la sovranità imperiale. Non era più l'Impero di
Carlomagno, perché si estendeva solo sui territori italici e germanici dello stesso. Da allora
- nuovo elemento di caratterizzazione della storia italiana - e per alcuni secoli, le vicende
politiche italiane furono strettamente intrecciate con quelle della Germania, così come già
lo erano con quelle della Chiesa. E, tuttavia, la riorganizzazione ottoniana dell'Impero e
dell'Italia avrebbe a sua volta lasciato una traccia profonda nella storia del Paese. Alla fine
del X secolo, quando Bisanzio già da tempo si era riaffacciata in forze nel Mezzogiorno e i
musulmani avevano conquistato la Sicilia, poche altre parti d'Europa apparivano in tanto
fermento e pullulavano di tante spinte ed energie come la penisola italiana.
BRA4163 Assieme alla tragedia, la commedia fu la principale invenzione letteraria che Atene
consegnò alla cultura successiva. La commedia (la parola significa probabilmente "canto
di festa") si sviluppò da processioni e rituali collegati alle feste di fertilità, durante le quali il
riso, il motteggio e il linguaggio osceno avevano il preciso significato rituale di favorire
magicamente la fecondità della natura. La commedia assunse poi forma teatrale a partire
dall'anno 486 a.C. Anch'essa fu rappresentata ad Atene durante due ricorrenze: le feste
Lenee in febbraio e le Dionisie alla fine di marzo, quando si rappresentavano anche le
tragedie. La commedia antica fu una diretta espressione della democrazia ateniese: essa
era infatti una commedia politica, vale a dire trattava elementi di attualità che erano
accaduti durante l'ultimo anno e che venivano proposti sulla scena in modo comico o
deformato. Sulla scena comparivano non personaggi del mito eroico (come nella tragedia)
o di fantasia, ma individui reali di cui veniva fatta la caricatura: uomini politici messi alla
berlina, privati cittadini derisi per i loro vizi, poeti o filosofi beffeggiati. La commedia era
dunque l'espressione della parresia, cioè della libertà di parola che era il diritto più caro a
ogni cittadino democratico. Ma poiché alle rappresentazioni comiche assisteva la grande
massa dei cittadini, la commedia era anche uno strumento per controllare e influenzare
l'opinione pubblica. Scriveva un anonimo sostenitore dell'opposizione oligarchica: "Gli
Ateniesi non permettono che si porti sulla scena comica il popolo o che se ne parli male
perché non vogliono apparire in una luce negativa. Ma apprezzano e richiedono che si
rivolgano attacchi personali contro privati cittadini, ben sapendo che chi viene deriso dai
comici non è uno del popolo o della massa, ma un ricco o un nobile o un cittadino
influente". Il massimo esponente della commedia antica fu Aristofane (circa 440-385 a.C.);
egli esordì sulla scena deridendo ferocemente Cleone, l'uomo forte della democrazia,
tanto che fu da questi querelato. Continuò però a bersagliarlo anche in seguito: nella
commedia I Cavalieri immagina che il potere sia conteso tra due personaggi infimi e
volgari ("perché è da gente così, dice Aristofane al pubblico, che volete essere governati"):
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un conciapelli (che rappresenta Cleone, il quale esercitava questa professione nella vita
reale) e un venditore di salsicce. Costoro gareggiano in furfanteria per conquistarsi la
benevolenza del loro padrone, il vecchio Demo (il popolo) e alla fine prevale il più
imbroglione dei due. Nella commedia La Pace Aristofane immagina che un cittadino,
Trigeo, salga a bordo di un enorme scarafaggio alato e dia la scalata al cielo per riportare
sulla terra la Pace, che gli dei avevano recluso lontana dagli uomini per punirli; negli
Uccelli immagina che due cittadini si alleino con gli uccelli per fondare una città perfetta tra
cielo e terra, dove non arrivano i demagoghi che invece infestano Atene; nelle Nuvole
deride il filosofo Socrate e la cultura dei giovanotti impomatati che seguono le lezioni dei
sofisti. Ancora più paradossali sono due commedie, Lisistrata e Le donne all'assemblea:
nella prima Aristofane descrive uno "sciopero" sessuale attuato dalle donne ateniesi e
spartane, alleatesi per costringere i loro mariti a smettere di scannarsi in guerra e stipulare
la pace; nella seconda descrive un colpo di Stato delle donne ateniesi che, davanti ai
disastri provocati dall'incapacità dei loro mariti, prendono il potere e fondano una città
ideale, in cui non esiste famiglia né proprietà privata e in cui prima di soddisfare una
giovane gli uomini sono obbligati a farlo con una vecchia. La commedia antica era dunque
il rispecchiamento, sia pure deformato comicamente, della vita politica ateniese e dei
grandi eventi del tempo.
BRA4164 La pace con la Russia rendeva ora finalmente possibile ai tedeschi di volgere tutte le
proprie forze verso occidente. Nonostante le perdite, l'esercito tedesco era ancora un
possente organismo militare che non aveva subito mai vere sconfitte. Fra il 21 marzo e il
17 luglio 1918 i tedeschi rinnovarono le loro offensive in Piccardia e nella Champagne
contro le posizioni nemiche. Essi ottennero una serie di brillanti vittorie parziali, anche
grazie al fatto che disponevano della superiorità numerica in conseguenza dell'afflusso di
truppe da quello che era stato il fronte orientale. In giugno avevano fatto centinaia di
migliaia di prigionieri e si erano impadroniti di circa 2500 cannoni. Eppure il fronte
occidentale non cedette. I franco-britannici riorganizzarono alla fine di marzo i loro
comandi affidando il comando supremo al generale francese Foch. Nel frattempo, sotto la
spinta del gigantesco urto offensivo tedesco, gli americani accelerarono l'invio di truppe. In
sostanza, alla fine di giugno si ripeteva la situazione che era stata propria delle grandi
offensive occidentali tedesche dell'inizio della guerra. I tedeschi avevano conseguito
brillanti successi parziali, senza però riuscire a raggiungere l'obiettivo dello sfondamento,
la conquista di Parigi o di Calais (così da isolare gli inglesi dai francesi). Il 15 luglio essi
sferrarono l'ultimo colpo, decisivo per le sorti future della guerra, e attaccarono in direzione
della Marna. Era questa la seconda battaglia della Marna, dopo quella del 1914. Foch il 17
luglio contrattaccò con le sue riserve, costringendo gli esausti tedeschi a indietreggiare e
iniziando una controffensiva generale. Inglesi, francesi e americani poterono contare su
una schiacciante superiorità di mezzi. Le truppe alleate gettarono nella lotta un gran
numero di carri armati e di aerei, senza che i tedeschi potessero contrapporre mezzi
analoghi. I tedeschi subirono così, fra la metà di luglio e la metà di agosto, la loro prima
grande disfatta. Nella battaglia di Amiens (8-11 agosto) gli inglesi fecero una profonda
breccia nelle linee tedesche gettando nella fornace 450 carri armati. Ludendorff definì
quella battaglia la "giornata nera" dell'esercito tedesco. Le truppe ebbero cedimenti su
vasta scala e sintomi di ribellione aperta misero a nudo come anche per i soldati tedeschi
fosse venuto il momento della rivolta contro la guerra e le sue stragi. Il 14 agosto
Guglielmo II prese in considerazione la possibilità di intavolare, con la mediazione
dell'Olanda, trattative di pace. Ma gli alleati, ormai, forti della loro superiorità,
pretendevano la capitolazione totale degli Imperi centrali; il che la Germania non intendeva
accettare. La situazione dei tedeschi era ulteriormente aggravata dal fatto che i loro alleati,
l'Impero austro-ungarico, la Turchia e la Bulgaria, si trovavano ormai in uno stato di crisi
vicino al collasso. Mentre in Siria e in Palestina i turchi subivano continue disfatte a opera
degli inglesi, truppe alleate si apprestavano all'attacco finale contro la Bulgaria, la quale
capitolò il 24 settembre 1918. Francesi e inglesi poterono contare in agosto, quando il
generalissimo Foch diede inizio all'avanzata che doveva culminare nell'ordine di offensiva
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generale del settembre, sull'appoggio di un milione di soldati americani, e su un aiuto
materiale degli USA gigantesco (armamenti, viveri ecc.). I tedeschi non erano più
assolutamente in condizione di resistere. Pur senza abbandonarsi al panico e
retrocedendo disciplinatamente e ordinatamente, furono costretti a sgomberare le zone
occupate della Francia del Nord e il Belgio occidentale. La catastrofe militare imminente
ebbe profondi riflessi nella politica interna. Mentre l'imperatore Guglielmo II entrava
nell'ombra, si formò agli inizi di ottobre un governo presieduto dal principe Max von Baden,
che godeva fama di essere di orientamenti democratici.
BRA4171 Nell'opinione pubblica, il fatto che in Europa ci sia in generale una forte disoccupazione è
diffusamente percepito, anche se non tutti hanno un'idea precisa della consistenza
quantitativa del fenomeno. Nel contempo, si ha un'idea meno chiara del fenomeno
occupazionale che, contrariamente a ciò che può sembrare a prima vista, non è
complementare a quello disoccupazionale, ma segue una sua dinamica autonoma. In
realtà, l'anomalia peggiore del mercato del lavoro europeo rispetto alla situazione del
Giappone e degli Stati Uniti, più che dai dati sulla disoccupazione, appare in tutta la sua
evidenza dai dati sull'occupazione. Il tasso di occupazione medio, espresso come rapporto
tra il numero di occupati rispetto alla popolazione complessiva di età compresa tra i 15 e i
64 anni, infatti, mentre nel 1977 era identico (con un valore del 63%) sia in Europa sia
negli Stati Uniti, vent'anni dopo, nel 1997, mentre negli Stati Uniti è aumentato al 74% e in
Giappone al 74,7%, nell'Unione Europea è diminuito a un livello leggermente al di sopra
del 60%, ma che scende a livelli intorno al 50% in Paesi come l'Italia e la Spagna. Ciò
significa che, mentre negli USA e in Giappone, esclusi i bambini e i pensionati, lavorano
mediamente tre persone su quattro, in Italia e Spagna lavorano solo due persone su
quattro. Questa differenza non è di poco conto, perché significa che, a parità di
popolazione, il potenziale produttivo del lavoro negli USA e in Giappone è superiore del
50% a quello italiano e spagnolo e del 23% a quello medio europeo. Una considerazione
degna di nota è che, dove i tassi di occupazione sono più elevati, sono maggiormente
diffuse le forme di lavoro atipiche, come i contratti stagionali, a tempo determinato, parttime, di job sharing ecc. Se si trasformano queste forme contrattuali atipiche nelle
corrispondenti forme full-time equivalent (cioè nell'equivalente di posti di lavoro a tempo
pieno), allora la variabilità dei tassi di occupazione nei vari Paesi dell'Unione Europea
diventa meno marcata. In alcuni Paesi, i contratti di lavoro atipici consentono di migliorare
notevolmente i tassi di occupazione soprattutto femminili, come ad esempio in Olanda
(dove il tasso di occupazione femminile aumenta di oltre 20 punti percentuali), nel Regno
Unito (più 16,1%), in Svezia (più 12,1%), mentre in Italia l'aumento è pari a un modesto
1,9%. La morale che se ne trae è che i contratti di lavoro atipici, introducendo evidenti
elementi di flessibilizzazione, contribuiscono in misura rilevante a migliorare le
performance del mercato del lavoro. In ogni caso, tra gli occupati part-time si possono
distinguere quelli volontari (essenzialmente madri di famiglia, studenti e anziani vicini alla
pensione), da quelli involontari, che accettano il lavoro part-time solo perché non trovano
di meglio. Questi ultimi si calcolano nel 20% in media europea, mentre la percentuale per
Paese oscilla tra un 10% dell'Olanda e un 40% in Italia, Grecia e Finlandia. Un'altra
considerazione molto importante riguarda la distribuzione dell'occupazione tra i vari settori
produttivi. Dal confronto con gli Stati Uniti emerge al riguardo una sostanziale identità di
comportamento per quanto riguarda il settore primario e il settore industriale. In
agricoltura, infatti, viene impiegato il 3% della popolazione in Europa e il 2% negli Stati
Uniti, mentre nell'industria le percentuali sono sostanzialmente identiche. Dove invece
sussistono grosse differenze è nel settore terziario che ha un tasso di occupazione del
39% in Europa e del 54,3% negli Stati Uniti. I famosi 14 punti percentuali di scarto tra i
tassi di occupazione dei due sistemi, quindi, stanno tutti nel settore terziario, dove la
maggiore vitalità occupazionale degli americani si manifesta in tutta la sua evidenza.
BRA4186 Comunque, e in conclusione, una cosa mi sembra debba risultare ben chiara. Per quanto
possano essere stretti i legami della filosofia con la politica, per quanto la filosofia possa e
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debba essere politica, ciò non significa e non significherà mai (a meno di alterare in modo
totale il significato tradizionale delle parole) che il filosofo, come tale, possa trasformarsi in
propagandista politico. E questo per due motivi. La propaganda come tale mira alla
persuasione, comunque ottenuta (o, se si vuole, ottenuta con mezzi segnici - discorsi,
immagini ecc., ma comunque usati); la filosofia come tale mira anch'essa a ottenere la
persuasione, ma uno, e un solo tipo di persuasione (quindi con il solo impiego dei mezzi
discorsivi atti a questo scopo): la persuasione razionale, fondata sulla verifica. Ora, se si
vuole chiamare "propaganda" qualsiasi attività volta alla persuasione altrui, anche il
filosofo è un propagandista: ma la sua persuasione può essere solo razionale e logica
(concerne la verità, non le emozioni), e i soli mezzi che può impiegare sono quelli della
dimostrazione e della prova. Il che, ovviamente, non corrisponde affatto a ciò che di solito
si intende con la parola "propaganda", cioè con un discorso avente fini pratici immediati,
facente leva su emozioni di massa, tale che non si appella alle abitudini di verifica e
deduzione, ma piuttosto a quelle di associazioni immediate tra certi segni e certi
comportamenti ecc. Ma forse c'è stato di più. "Cultura" è azione consapevole consapevole non solo dei mezzi usati, ma dei fini perseguiti e del loro valore. La
propaganda è pura tecnica: il propagandista, come tale, è un tecnico, e come tutti i tecnici
(come tali) o ignora i fini per cui opera o li accetta senza proporsi un'indagine intorno al
loro valore - come ogni tecnica, la propaganda subisce una certa situazione e opera in
essa senza sottoporla a critica. Essa rischia quindi di essere anticultura, quindi, a fortiori,
di essere antifilosofia.
BRA4191 In fondo ci sono due grandi categorie di scrittori. Ci sono quelli che hanno bisogno di una
preparazione molto forte e che, prima di cominciare a scrivere seriamente, devono
dedicarsi a un lungo periodo di riflessione e di ricerche preliminari per informarsi, per
documentarsi, elaborando al termine di questo periodo uno schema di programmazione
della loro redazione: schema che servirà loro da guida durante tutto il lavoro di scrittura. Ci
sono poi quelli che lavorano in modo più istintivo e meno programmato - seppur con un
minimo di schizzi e di abbozzi preparatori - che hanno bisogno soprattutto di una sorta di
scatto iniziale, non nella forma di una programmazione nella quale sentirebbero una
restrizione alla loro libertà, ma piuttosto nella forma di un nucleo embrionale. Uno scrittore
come Jean Giono dichiara di non poter cominciare a scrivere un libro se non dopo aver
trovato il titolo, che è spesso una formula enigmatica: per esempio Deux cavaliers de
l'orage; il titolo deriverebbe direttamente dall'"ispirazione", come, per il poeta, quel primo
verso "donato dagli dèi" di cui parlava Paul Valéry. Una volta trovato il titolo, tutto il lavoro
consiste nel tentativo di giustificarlo restando allo stesso livello di qualità. Giono ha una
bella immagine per evocare questo fenomeno: "Se scrivo una storia prima di averne
trovato il titolo, in generale essa mi abortisce. Mi occorre assolutamente un titolo, perché il
titolo è quella sorta di bandiera verso cui ci si dirige; spiegare il titolo è la meta che si deve
raggiungere". Tutta la redazione dell'opera consisterà nel rendere significante questo
titolo, nel risolverne l'enigma, nel conferire una necessità a questo dono del caso. Nello
stesso spirito, ci sono altri scrittori, come Aragon, che non riescono a scrivere un'opera
finché non hanno trovato l'incipit, la prima pagina. Una volta trovata la prima pagina, però cosa che può richiedere un numero considerevole di stesure preliminari - è come se
avesse cominciato a costruirsi una sorta di prima necessità: l'embrione è ormai formato, e
si svilupperà spontaneamente. In effetti, a ben riflettervi, questi modi di procedere non
sono affatto interpretabili in termini di padronanza, e complicano singolarmente questa
famosa dialettica fra caso e necessità. Nel ritrovamento dell'incipit o del titolo c'è,
beninteso, una parte di aleatorietà; nello stesso tempo, però, questo primo scatto dipende
verosimilmente da una necessità interna, inconscia, fantasmatica; e, infine, tutto il resto
del lavoro - la redazione propriamente detta - consisterà nel trasformare questa falsa alea
del dono iniziale (che d'altronde non sempre viene donato) in una vera logica che sarà
quella dell'opera, ma che perverrà a svilupparsi solo a partire da un principio in origine
oscuro. Gli scrittori più numerosi sono comunque quelli che lavorano con documenti di
programmazione. In questo caso si ha un vero lavoro da geometra, consistente nel
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definire il progetto di un senso che si deve costruire dal nulla: una sorta di scommessa, e
di lotta formidabile dello spirito, per costruire, contro il non-senso dell'ambiente, una forma
significante avente la sua logica e la sua necessità. Ma, una volta inventato lo schema e
posta una sorta di assiomatica di partenza, il lavoro dello scrittore consisterà non solo
nello sviluppare il modello (passando dal progetto alla sceneggiatura, dalla sceneggiatura
a una prima stesura ecc.) ma anche nel problematizzarlo, reiniettando nel testo quel
minimo di non-senso e di aleatorio senza il quale la struttura, logica e necessaria,
resterebbe inerte. Si vede allora, paradossalmente, che la scrittura si sforza di conseguire
un nuovo tipo di rapporto con il caso: quel coefficiente d'incertezza senza il quale il certo
diventa artificioso
BRA4325 Le vicende alimentari dell'Europa del Settecento sembrano ripercorrere cammini noti:
espansione demografica, insufficienze produttive, sviluppo agricolo. Una storia che ricorda
da vicino quella dei secoli XI-XII, o del XVI. Solo che questa volta le dimensioni del
fenomeno sono ingigantite. La popolazione europea, che aveva raggiunto a metà del
Trecento una punta di forse 90 milioni di individui, e che attorno al 1700 (dopo la grande
crisi e la successiva lenta ripresa) era attestata sui 125 milioni, cresce da allora in poi
rapidissimamente: 145 milioni a metà del XVIII secolo, 195 alla fine. Il sistema produttivo è
messo a dura prova, le carestie si abbattono a intervalli regolari sulla popolazione. Alcune
di esse (tristemente celebre quella del 1709-10) colpiscono l'intera Europa, dalla Spagna
all'Italia, dalla Francia all'Inghilterra, dalla Germania alla Svezia, ai Paesi dell'Est. Altre
investono territori più circoscritti: quella del 1739-41 colpì soprattutto Francia e Germania;
quella del 1741-43 l'Inghilterra; quella del 1764-67 fu particolarmente grave nelle regioni
meridionali (Spagna, Italia); quella del 1771-74 nei Paesi del Nord. Nell'insieme, gli anni
"difficili" del XVIII secolo sembrano numerosi come non mai (a eccezione forse che nell'XI
secolo). Ciò non vuol dire che la gente muoia di fame: se così fosse stato, l'exploit
demografico sarebbe a dir poco incomprensibile. Siamo invece di fronte a un malessere
diffuso, a uno stato di sottonutrizione permanente che viene per così dire "assimilato"
(fisiologicamente e culturalmente) come condizione normale di vita. All'aumentata richiesta
di cibo si rispose, per cominciare, nel modo più semplice e tradizionale: l'espansione dei
coltivi. In Francia, nei decenni precedenti la Rivoluzione, le terre a coltura passarono da 19
a 24 milioni di ettari nel giro di trent'anni. In Inghilterra, nella seconda metà del secolo,
furono recintati e messi a coltura centinaia di migliaia di ettari di terreni incolti e boschivi. In
Irlanda, in Germania, in Italia si prosciugarono paludi e acquitrini. Contemporaneamente si
misero a punto nuove tecniche produttive, in un clima di fervore scientifico e di
sperimentazione agronomica che per la prima volta riuscì a incontrarsi con gli interessi
imprenditoriali dei proprietari terrieri. Si parla a ragione, per quest'epoca, di una vera
rivoluzione agricola: tale fu, dal punto di vista tecnico, l'abbandono della pratica del
maggese e l'impiego delle leguminose da foraggio in regolare rotazione con i cereali. Ciò
consentì, da un lato, di integrare le pratiche zootecniche nel sistema agrario, superando la
tradizionale separazione fra attività pastorali e attività agricole; dall'altro, di accrescere
sensibilmente i rendimenti del suolo, reso più fertile sia dalla presenza delle leguminose
(che possiedono la proprietà di fissare l'azoto nel terreno) sia dalla maggiore disponibilità
di concime animale. Queste e altre trasformazioni segnarono l'avvio del capitalismo
agrario, che in certe regioni europee - soprattutto l'Inghilterra e poi la Francia - fu il primo
passo verso l'affermarsi dell'economia industriale. All'ampliamento dei terreni coltivati e al
perfezionamento delle tecniche produttive si affiancò lo sviluppo di colture particolarmente
robuste, sicure e redditizie: quelle stesse che avevano trovato una prima timida diffusione
(in ambiti localmente limitati) fra Quattro e Cinquecento, e che vengono ora "riscoperte"
come soluzione a basso costo di pressanti esigenze alimentari. Il riso, dopo un certo
declino nel XVII secolo, legato anche alle polemiche sull'opportunità igienica e ambientale
di far ristagnare l'acqua nei campi, torna in auge nel Settecento come alternativa ai cereali
tradizionali: in certe zone esso viene introdotto per la prima volta; in altre viene per così
dire reintrodotto. Analoga destinazione sociale ha il grano saraceno, anch'esso
"riscoperto" nel Settecento oppure, in certe regioni, introdotto per la prima volta. Ma sono
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soprattutto il mais e la patata a conquistare un ruolo di assoluto primo piano, sbarazzando
il campo da molti antichi concorrenti: fra XVIII e XIX secolo, la tradizionale varietà di
cereali inferiori - base millenaria della dieta popolare - viene progressivamente riducendosi
a favore dei nuovi protagonisti.
BRA4349 Si è tenuto a Berlino, dal 18 al 27 agosto 1998, un avvenimento eccezionale per i
matematici: il Congresso Internazionale che, nella tradizione olimpica, riunisce una volta
ogni quattro anni i migliori specialisti, e ne sceglie quattro a cui assegnare l'onorificenza
più ambita, un vero e proprio analogo del premio Nobel, che non esiste per la matematica.
Quando Alfred Nobel decise di finanziare i premi che oggi portano il suo nome, egli stabilì,
infatti, che venissero dati per la letteratura, la fisica, la chimica, la medicina e la pace. Nel
1968 la Banca di Svezia, in occasione del suo terzo centenario, affiancò ai precedenti un
premio per l'economia. La matematica invece, benché sia la regina delle scienze, è la
Cenerentola del premio Nobel, e non è mai stata inserita nel novero delle materie
premiate. Per capire come mai dobbiamo, come spesso accade, chercher la femme. La
leggenda vuole infatti che Nobel, benché inventore della dinamite, non fosse poi così
esplosivo in camera da letto. Il risultato, ovvio, fu che la moglie finì per cercarsi un amante,
e lo trovò nella persona del matematico svedese Gösta Mittag-Leffler. Al momento della
stesura del suo testamento il povero Nobel, che evidentemente sapeva della tresca, si
informò se Mittag-Leffler avrebbe potuto vincere uno dei premi che intendeva istituire.
Avutane conferma egli non volle, comprensibilmente, aggiungere il danno alle beffe, ed
escluse la matematica dalla sua lista. Negli anni Trenta del Novecento, in considerazione
della mancanza del premio Nobel, l'Unione mondiale dei Matematici decise di istituire un
proprio premio apposito, da assegnare in occasione dei Congressi Internazionali. La
Medaglia Fields, così chiamata in onore di colui che la ideò, differisce in modo essenziale
dal premio Nobel. Anzitutto, comporta soltanto un assegno simbolico di pochi milioni,
invece di uno sostanziale di due miliardi. Inoltre, viene assegnata soltanto a matematici al
di sotto dei quarant'anni, invece che senza limiti d'età. Le due restrizioni mostrano che la
matematica è molto diversa dalle altre discipline, intellettuali e non. In un mondo che vive
orgogliosamente di "professionismo", in cui cioè l'amore si vende sui marciapiedi, lo sport
si pratica per gli sponsor, i programmi televisivi si producono per l'Auditel, la letteratura si
scrive per le classifiche, le ricerche si fanno per il mercato, e la scienza è al soldo dei
finanziamenti, i matematici sono ancora modestamente dei "dilettanti" nel senso di De
Coubertin, fanno il loro lavoro per il solo piacere di farlo, hanno come unico scopo il
raggiungimento della conoscenza, e non perseguono altri interessi economici che uno
stipendio che permetta loro di sopravvivere. Insomma, se la cultura è un'attività
intellettuale che si fa gratuitamente, i matematici sono forse gli unici uomini di cultura
rimasti.
BRA4350 Chi è ebreo? Chi sia l'ebreo lo sa soltanto il persecutore. Per il resto, è diventato
impossibile saperlo. Ogni definizione può essere, al massimo, una provvisoria
convenzione. Ebreo non è necessariamente chi è di "religione israelitica" o "mosaica", dal
momento che tantissimi ebrei sono atei o agnostici, e che, anche ammesso che si possa
parlare di religione israelitica, non esiste nessun criterio di tipo dogmatico per riconoscere
l'appartenenza o meno a un determinato credo. L'ebreo sarebbe definibile, semmai, in
relazione all'osservanza dei precetti: ma la stragrande maggioranza degli ebrei non
osserva più i precetti, e fra questi prevale l'opinione che importi soltanto l'osservanza dei
precetti etici, non di quelli rituali che costituiscono il tessuto dell'osservanza in senso
tradizionale. Ma non possiamo certo concludere che sono ebrei coloro che si impegnano
nell'osservanza della "legge morale". Ci sono, ovviamente, molti ebrei, e molti non ebrei,
che non se ne preoccupano affatto. Dobbiamo allora ricorrere a un criterio etnico per
definire l'ebreo? Ma a parte gruppi come i caraiti, i falascià e gli yemeniti, ebrei
etnicamente incerti, fin dal tempo di Mosè la Bibbia attesta l'appartenenza a tutti gli effetti
al popolo ebraico di uomini di stirpe diversa, come Caleb, e l'ebraismo considera ebree le
donne che, sposate ad ebrei, vogliono essere ebree: i figli che nascono da queste donne,
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essendo la discendenza ebraica matrilineare, sono ebrei, mentre non sono ebrei i figli di
un ebreo nati da una non ebrea. Ad alcune condizioni, poi, diventano ebrei i proseliti che
sottomettendosi alla Torah si circoncidono (mentre Israele toglie la cittadinanza israeliana
a chi, ebreo in tutti i possibili altri sensi, si converte ad altra religione). Eppure Mosè, con
ogni verosimiglianza, non era circonciso (Es 4, 24-26). Resterebbe da considerare, come
criterio discriminante, anche se in pratica sarebbe impossibile applicarlo, l'appartenenza
alla tradizione culturale e al costume ebraico. Ma esistono ebrei lontanissimi dalla loro
tradizione e dal loro costume, che non conoscono né l'ebraico né l'ebraismo, o che
addirittura lo ripudiano violentemente; mentre esistono ormai anche coloro che, non
essendo ebrei ma, ad esempio, cristiani, hanno per l'ebraismo un amore talmente
profondo da accogliere nella loro vita cultura, tradizioni, costumi ebraici, celebrando il
séder pasquale o altri riti con gli ebrei che li accettano, pregando con la kippah sul capo
antiche preghiere ebraiche. Chi è, dunque, ebreo? Chi è ormai l'ebreo, quell'ebreo
nomade ed esule da sempre che incarna nel mondo contemporaneo la consumazione di
ogni identità, tanto più quanto più a lungo e più accanitamente perseguita? Forse un
miscuglio, uno di quegli ibridi di cui l'ebraismo ha orrore, uno degli infiniti miscugli in
proporzioni variabili di tutti gli elementi che ho considerato, e di altri ancora ai quali non ho
pensato. Il persecutore ha fiuto, coglie l'ebreo in una qualunque di queste mescolanze, in
cui è presente in qualche modo "quel" lievito. L'ebreo forse non esiste più nella storia del
mondo, esiste solo quel lievito disperso ovunque nella pasta.
BRA4351 La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e
plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola
oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta
ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.
Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della
società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma
abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, maestri
d'arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre
speciali gradazioni. La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale,
non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove
condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche. L'epoca nostra,
l'epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi.
La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi
classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e proletariato. Dai servi della gleba
del medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani ebbero sviluppo
i primi elementi della borghesia. La scoperta dell'America e la circumnavigazione dell'Asia
offrirono un nuovo terreno alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della
Cina, la colonizzazione dell'America, lo scambio con le colonie, l'aumento dei mezzi di
scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima d'allora sconosciuto al
commercio, alla navigazione, all'industria, e in pari tempo favorirono il rapido sviluppo
dell'elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che s'andava sfasciando.
L'organizzazione feudale o corporativa dell'industria da quel momento non bastò più ai
bisogni, che andavano crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura.
I maestri di bottega vennero soppiantati dal medio ceto industriale; la divisione del lavoro
tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nelle singole officine
stesse. Ma i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni. Anche
la manifattura non bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine rivoluzionare la
produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna; al medio
ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i moderni borghesi. La grande
industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell'America aveva preparato. Il
mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle
comunicazioni via terra. Quello sviluppo, a sua volta, ha reagito sull'espansione
dell'industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l'industria, il
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commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i
suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi, che erano una eredità del medioevo.
BRA4567 Circondarono il cespuglio ma la scrofa se ne andò, portandosi via un'altra lancia nel
fianco. Quello strascico di lance la impacciava, e le punte aguzze, infilate di sbieco, erano
un tormento. Essa andò a sbattere contro un albero, cacciandosi ancora più addentro una
delle lance; dopo di che chiunque dei cacciatori poteva inseguirla facilmente, tanto copioso
era il sangue che perdeva. Il pomeriggio passava, nebbioso e paurosamente soffocante; la
scrofa continuava a scappare davanti a loro, perdendo sangue, barcollando come pazza,
e i cacciatori le andavano dietro, posseduti da una gioia feroce, eccitati del lungo
inseguimento e da tutto quel sangue. Ormai la potevano vedere, quasi la raggiungevano,
ma essa saettò via con le sue ultime forze e riprese una certa distanza. Le erano proprio
dietro quando essa arrivò, barcollando, ad una radura dove crescevano dei bei fiori e delle
farfalle danzavano una intorno all'altra e l'aria era calda e ferma. Qui, abbattuta dal calore,
la scrofa piombò al suolo, e i cacciatori si gettarono su di lei. Quella spaventosa irruzione
fuori da un mondo conosciuto la rese frenetica: strillava e saltava, e l'aria era piena di
sudore e di fracasso e di sangue e di terrore. Ruggero correva intorno al mucchio,
spingendo con forza la sua lancia ogni volta che vedeva la carne della scrofa: Jack le
balzò sul dorso e piantò giù il coltello: Ruggero trovò un punto che cedeva e cominciò a
spingere, buttandosi sul bastone con tutte le sue forze. Adagio adagio la lancia penetrava
e gli strilli terrorizzati divennero un grido solo, altissimo. Poi Jack trovò la gola, e il sangue
gli sprizzò sulle mani, caldo caldo. La scrofa si accasciò sotto di loro ed essi le furono
sopra con tutto il loro peso, appagati finalmente. Le farfalle danzavano sempre, distratte in
mezzo alla radura.
BRA4772 Ermes aveva fama di essere il più ingegnoso fra gli dei, e certo fu anche il più precoce di
tutti i neonati. Appena deposto nella culla, si divincolò dalle fasce, si rizzò sui piedini e uscì
a respirare l'aria fresca. Vide una tartaruga nell'erba, e la salutò con garbo: "Salve,
amabile creatura, compagna delle danze, amica dei banchetti! è una gioia vederti: che bel
giocattolo!". Ma nelle gentili parole si celava un presagio minaccioso poiché, con la
rapidità di un genio, il dio bambino aveva compreso la futura funzione di quello splendido
guscio. Egli lo afferrò e ne tolse la polpa, vi tese una pelle di bue, fissò due bracci
congiunti da una traversa, e applicò al guscio sette corde fatte con budello di pecora,
intonandole in armonia. Aveva inventato la cetra; e si mise a cantare, accompagnando la
voce a quel dolce suono. Poi gli venne un formidabile appetito, e per saziarlo rapì le
mandrie di Apollo; ma costui prese malissimo la prodezza di quell'insolente bambino.
Ermes dovette placare la sua ira con il dono del nuovo strumento; e da allora Apollo è il
dio della musica, che suscita "la gioia, l'amore e il dolce sonno". Così l'Inno omerico a
Ermes narra il mito, collegando la scoperta della musica con l'invenzione dello strumento
musicale. I trattatisti antichi preferivano identificare il primo strumento nella voce umana,
da cui in seguito sarebbero derivati per imitazione tutti gli altri. Saffo invoca la sua cetra
(chelys, propriamente "tartaruga") perché "diventi parlante"; e Platone paragona la voce di
Socrate a quella del flauto. Ma fino dai tempi più remoti l'accompagnamento strumentale
era ritenuto una necessità imprescindibile per l'esecuzione della poesia, tanto che una
volta Archiloco, in mancanza di un citaredo, imitò il suono della cetra con il ritornello
onomatopeico ténella. D'altro lato, altrettanto antico era l'uso di composizioni per strumenti
assolo; e ancora una volta il precedente ricorre in un episodio del mito, allorché Atena
imitò con il flauto il pianto delle Gorgoni immortali sulla loro sorella mortale Medusa,
decapitata da Perseo. La dea fece dono di questa musica agli uomini perché la
possedessero per sempre; e Pindaro la ascoltò dal flautista Mida di Agrigento in un
concorso musicale, lasciandone fulgida memoria nel carme composto per celebrare la
vittoria dell'artista, la XII Pitica. La cetra e il flauto sono gli esemplari tipici delle due
famiglie, a corda e a fiato, in cui i musicologi greci suddividevano gli strumenti; mentre non
tutti sono d'accordo nell'introdurre un terzo gruppo per gli strumenti a percussione,
considerati affini a quelli a corda poiché in entrambi i casi il suono era prodotto da un
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contatto. Ma accanto a questo sistema fondamentale esistevano altri criteri di
classificazione: in base all'altezza dei suoni prodotti, oppure mediante l'opposizione di
"maschile" e "femminile" in rapporto al carattere dell'intonazione, o secondo l'origine
indigena o straniera, o secondo l'uso che distingueva fra gli strumenti di città e di
campagna, da convito o da guerra. Molte cose sappiamo della musica greca; ma dai rari
testi corredati di notazioni musicali non riusciamo a ricostruirne il suono. A fomentare
questo rimpianto contribuisce la consapevolezza del ruolo centrale che la musica
occupava nella vita dei Greci. Non soltanto essa valeva come autonoma emozione
artistica, e come imprescindibile complemento del testo nella poesia lirica e nel teatro
tragico e comico; ma il suo primato si affidava anche ai significati religiosi ed etici,
psicologici ed educativi, che nella cultura greca erano attribuiti all'esperienza musicale. Nel
complesso dei Moralia di Plutarco rientra un opuscolo di dubbia attribuzione, ma
certamente di buona attendibilità, in cui si tratta sia la storia della musica antica sia gli
ardui problemi teorici e tecnici di un'arte che era pervenuta a un formidabile livello di
complessità.
BRA4773 Nella prima cantica si rappresenta il peccato con le sue rispettive pene. È l'umanità
fermata allo stato bruto, quando si è fatta immemore della natura celeste da cui proviene
l'anima dei singoli individui. Sono "le genti dolorose c'hanno perduto il ben de l'intelletto".
Nel canto undicesimo è sviluppata la dottrina morale che vige nel regno infernale. Essa è
derivata dall'Etica aristotelica, che Dante conobbe attraverso il commento di san
Tommaso. Per Dante, non si dimentichi, Aristotele rappresenta (come si verificava nella
cultura scolastica dell'Europa da circa mezzo secolo) il più grande filosofo. Si può dire che
nella sua coscienza si profilava una triforme realtà intellettuale: Aristotele era il massimo
esponente del pensiero, così come al vertice della vita spirituale si trovava il vicario di
Cristo e al sommo della società politica l'imperatore. Aristotele aveva formulato la teoria
del mondo morale per tutti i secoli e per tutti gli uomini; san Tommaso ne aveva tratto le
leggi per l'etica cristiana; ora Dante ne sanzionava le sentenze individuali. La sua
esperienza ambiva a porsi in un arco completo, poiché mentre i primi due pensatori, il
classico e il cristiano, si muovevano entro la sfera teoretica e universalistica, Dante
intendeva conseguirla anche lui, partendo però dall'abisso del mondo, dall'assoluta
negatività. L'Inferno impersona l'eternità del male immortalato nel giudizio di Dio: e,
pertanto, anch'esso specchio della giustizia coeterna al creato. Si intende che nelle
immagini infernali e nei protagonisti del peccato la vita tocca l'empirico, il contingente, il
frammento, diventa pulviscolo di atomi che hanno smarrito il loro centro e sono precipitati
nelle gore oscure dell'irrazionale, nel caos degli istinti e delle passioni. Ciascuno resta
l'attore di se stesso, la testimonianza irrevocabile della propria sorte, nei secoli dei secoli,
immobilizzato nella sua attitudine più personale e irriducibile; ma partecipi tutti quanti, dello
stesso ordine universale, e, loro malgrado, solidali nel registrare ed esemplificare le
inalterabili finalità della giustizia e sapienza divina. L'Inferno per la sua stessa struttura
risulta la cantica più realistica del Poema. I peccatori e le pene hanno un'estrema
evidenza fisica. Si può dire che Dante rappresenti la realtà intensificata, esasperata, in
continuo oltraggio di se stessa. In rapporto al grado di peccato e della pena, il realismo
dantesco si accentua da un cerchio all'altro, a mano a mano che si scende nel fondo
dell'abisso. Il suo atteggiamento, e con esso lo stile, si fa sempre più spietato, impassibile,
quasi sadico. Il suo linguaggio tocca nell'Inferno le punte estreme del verismo. È il trionfo
espressivo della fisicità, della corporeità, della carne colpita, fustigata, strappata, dilaniata,
snaturata, alla fine congelata, inerte, spenta. L'umanità si fa pura animalità, confina nella
natura vegetale e minerale. Se Dante si fosse limitato a questa sola sceneggiatura,
avrebbe espresso la più potente poesia realistica. Ma per aumentare il contrasto e ribadire
l'irreparabile perdizione del peccato, Dante ha collocato in mezzo a questa materia in
disfacimento gigantesche individualità, che continuano a conservare massicci retaggi di
umanità e saldi simulacri spirituali. Può sembrare un controsenso, ma nell'Inferno si
sconta il peccato e insieme si celebra il peccatore. Molte figure di dannati hanno una
statura esemplare e una tempra psichica di spessore granitico. Quel che sorprende è che
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ciascuna di esse non è rappresentata nell'atto del peccato e dell'errore, cioè nella sua
interna maledizione, bensì nel fiore della propria esperienza, al colmo della vitalità,
nell'acceso valore della coscienza. E, tuttavia, anche questo è un monito: nessuno si
salva, se il peccato lo acceca, se l'errore lo trascina.
BRA4774 Uscita esangue e traumatizzata da trent'anni di guerra, la Cambogia cerca oggi di
ricostruirsi. I problemi attuali, fra cui spiccano l'estrema povertà e una classe politica
troppo abituata a gestire con violenza il potere, restano gravi, ma sembrano poca cosa
rispetto alla ferocia omicida dei Khmer Rossi, all'invasione vietnamita, o alla guerra civile
che ha diviso il Paese fino all'altro ieri. Il compito di ricostruzione è complesso: la
Cambogia si ritrova priva di strutture di base, e sia il corpo legislativo, sia il sistema
educativo e sanitario, sia l'economia del Paese rappresentano altrettanti "lavori in corso"
che cominciano solo ora a uscire dall'emergenza. Tuttavia, il Paese può contare su uno
dei maggiori potenziali turistici dell'intera regione: la costa non è sfigurata dalla
speculazione immobiliare, e le città offrono un'atmosfera unica, tra i fasti del passato
coloniale e gli eccessi odierni da "ultima frontiera" della legalità, che si mescolano
all'architettura tradizionale e al profumo degli onnipresenti gelsomini. E in Cambogia si
trova il principale tesoro della regione, racchiuso nel parco archeologico di Angkor, dove
furono costruite le città imperiali di epoca Khmer, dal IX al XII secolo. Oggi, quello che
rimane dell'impero Khmer (che si estendeva su un'area che comprende il Vietnam, il Laos,
la Birmania e la Thailandia attuali) sono 400 chilometri quadrati di giungla, dove si trovano
circa 1550 templi fra i più seducenti e spettacolari del pianeta, passati dal 1992 sotto
protezione dell'Unesco in quanto patrimonio artistico dell'umanità. I templi vennero costruiti
in diverse tappe. Fino al XII secolo i sovrani Khmer, induisti, dedicano le loro opere
architettoniche a Shiva e a Vishnu. Nel 790 appare Jayavarman II, il quale, riscattatosi
dalla dominazione di Giava, stabilisce la capitale ad Angkor e inizia la santificazione dei
luoghi, richiamandosi alla divinità Shiva, la cui protezione è sancita con l'edificazione di un
tempio in cima a una montagna. Ma è il successore di Jayavarman II, Indravarman (877889), che getterà le basi della gloria di Angkor, caratterizzata non solo dai templi, ma
anche da un sofisticato sistema idraulico che renderà fertilissima e ricca una zona poco
favorita dalle condizioni naturali. Con la costruzione di Angkor Wat, cattedrale vishnuita
fatta erigere da Suryavarman II (1113-1145), l'architettura dei re Khmer sviluppa uno stile
e un'opulenza mai visti prima. Dominata da cinque torri scolpite, Angkor Wat è
interamente ricoperta di bassorilievi che rappresentano eleganti apsara (danzatrici celesti),
sinuosi naga (serpenti mitologici) e alcune scene del poema epico indiano Ramayana.
Vista dall'alto la cattedrale forma un mandala, una rappresentazione del cosmo per lo
sguardo esclusivo degli dei. Dopo le delicate torri di Angkor Wat, il massimo momento di
gloria architettonica Khmer arriva con la conversione al buddhismo di Jayavarman VII,
che, trascinato dalla sua devozione, costruisce più templi di quanto l'impero possa
permettersi: nasce la città murata di Angkor Tom (Angkor la Grande). Larghi viali
fiancheggiati da animali mitologici portano al centro, dove si trova il Bayon, uno dei
monumenti più belli ed enigmatici di Angkor, caratterizzato dalle 54 "torri dei volti", ognuna
decorata con quattro imponenti ritratti dal sorriso dolcissimo e misterioso del Buddha
Avalokiteshvara. Così, all'apogeo dello splendore architettonico di Angkor corrisponde il
declino militare e la prima invasione delle truppe Cham thailandesi. Dopo una seconda
invasione, un secolo dopo, la corte Khmer si sposta verso sud, per stabilirsi poi a Phnom
Penh, e fino agli inizi del 1900 il territorio consacrato dai re Khmer è in mano thailandese.
Durante mezzo millennio il fasto di Angkor resta un ricordo, che si stempera con il passare
degli anni. I templi, ricoperti in breve tempo da una giungla fitta, sono meta dei
pellegrinaggi dei più devoti, e continuano a essere visitati dai contadini che abitano nella
zona e che depositano offerte di fiori, riso e incenso ai piedi delle statue buddhiste. Non di
meno dall'epoca del protettorato francese fino a oggi, la storia Khmer e la grandezza
artistica di quell'epoca è riscoperta come la base stessa della nazione cambogiana: un
passato glorioso tramite il quale credere alle possibilità per il futuro. Oggi le cinque torri di
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merletti del tempio di Angkor Wat sono divenute il simbolo della Cambogia, riprodotte al
centro della bandiera nazionale.
BRA4775 Il termine "rivoluzione industriale" indica il processo iniziatosi con il massiccio investimento
di capitali nel nuovo tipo di industria, chiamato "sistema di fabbrica" o factory system, che
nasce in Inghilterra attorno al 1770 e in cui per la prima volta le operazioni fino allora
compiute dall'uomo vengono eseguite in prevalenza dalle macchine. In questo nuovo
modo di produzione viene resa definitiva quella separatezza tra il produttore diretto
(l'operaio) e i mezzi di produzione (le macchine) che, secondo Marx, è tipica del modo di
produzione capitalistico. A causa delle trasformazioni tecniche, si instaurano dei rapporti di
produzione, economici e sociali radicalmente nuovi, e si vengono a formare due classi
contrapposte: quella degli imprenditori capitalisti e quella degli operai, cioè della grande
massa dei prestatori di manodopera salariata. Tra i settori produttivi che "accumularono" i
capitali da investire nella nuova industria - e che sicuramente interagirono - va ricordata
l'agricoltura. Sin dall'inizio del 1700, si erano andati in essa accentuando vari fenomeni di
razionalizzazione e di ristrutturazione aziendale, per cui crebbe l'ampiezza media delle
aziende, si estesero le migliorie agronomiche e tecniche, e venne liquidato il sistema
comunitario prevalente dei "campi aperti" e delle "terre comuni", con la conseguente
emarginazione della yeomanry, cioè di quella classe di piccoli proprietari terrieri e di piccoli
affittuari che fino al secolo precedente costituivano il nerbo dell'agricoltura inglese. Le
complesse trasformazioni agricole ricordate portarono sicuramente a un aumento della
produttività e quindi a una maggiore disponibilità di cibo, dalla quale probabilmente fu
favorito il forte incremento demografico che ebbe inizio in Inghilterra attorno al 1760. Un
terzo fattore, oltre al progresso agricolo e allo sviluppo demografico, contribuì al decollo
industriale: l'industria della lana. Essa, nella sua forma domiciliare, era già molto diffusa,
anche nel secolo precedente, un po' dovunque, ma principalmente nello Yorkshire, con le
città di Leed e Halifax. Ma il sistema domiciliare non era l'unico in Inghilterra. Il Rapporto
sulla manifattura della lana del 1806 ci informa che, particolarmente nelle contee
occidentali e settentrionali, era già da lungo tempo praticata una sorta di manifattura
domiciliare organizzata dai mercanti di panni, i quali acquistavano la lana nazionale ed
estera e, per tesserla, radunavano nella propria abitazione o in edifici annessi molti operai
che lavoravano a tempo pieno, con parecchi telai e già con una notevole suddivisione di
compiti. I mastri manifatturieri riuscivano ad accumulare in tal modo anche ricchezze
considerevoli, giungendo a impiantare delle vere e proprie manifatture fin dai primi del
1700. Queste tre forme di organizzazione della produzione laniera rappresentarono anche
gradini successivi dell'accumulo dei capitali e dell'industrializzazione del settore. Specie
nel gradino più alto si andavano affinando quei processi lavorativi e compiendo quelle
innovazioni e scoperte tecniche che furono decisive per il decollo industriale. Altro fattore
non trascurabile dell'accumulazione furono i grandi profitti realizzati dagli inglesi nei
commerci internazionali. Sin dalla seconda metà del 1500 erano state fondate delle grandi
compagnie di commercio e di navigazione e nel 1600 era stata costituita la Compagnia
delle Indie. Il Navigation Act del 1651 fu lo strumento dell'enorme potenza marittima e
commerciale dell'Inghilterra. Infatti, proibendo a qualsiasi navigatore straniero di importare
in Inghilterra prodotti che non fossero del proprio Paese di origine decretava in sostanza
che ogni commercio tra l'Inghilterra e i Paesi extraeuropei (Asia, Africa, America) doveva
essere svolto con navi inglesi, fabbricate in Inghilterra e senza alcun intermediario. Fu
organizzata così quella economia "mercantilistica" che, nel porre al centro di ogni
interesse dello Stato la bilancia dei pagamenti, di fatto sanciva che la ricchezza e la
potenza della nazione dipendevano in primo luogo dai commerci, dalle speculazioni, dai
monopoli e dai protezionismi.
BRA4776 Dominata, in vetta al colle, dall'antica cattedrale normanna, dedicata a san Gerlando, dal
Vescovado e dal Seminario, Girgenti era la città dei preti e delle campane a morto. Dalla
mattina alla sera, le trenta chiese si rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e
l'invito alla preghiera, diffondendo per tutto un'angosciosa oppressione. Non passava
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giorno che non si vedessero per via in processione funebre le orfanelle grigie del Boccone
del povero: squallide, curve, tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina
sul petto, e un cero in mano. Tutti, per poca mancia, potevano averne
l'accompagnamento; e nulla era più triste che la vista di quella fanciullezza oppressa dallo
spettro della morte, seguito così ogni giorno, a passo a passo, con un cero in mano, dalla
fiamma vana nella luce del sole. Questo è il ritratto che Pirandello disegna, nel romanzo I
vecchi e i giovani, di Girgenti (oggi Agrigento) l'amata e odiata sua città natale. Akràgas
per i Greci coloni di Gela, Agrigentum per i Romani, Kerkent per gli Arabi e infine Girgenti.
Luigi Pirandello vi nacque il 28 giugno 1867 (l'anno del colera) e vi trascorse gli anni
dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza. Gli anni della prima infanzia di Luigi sono avvolti nel
buio. Sensibile, precoce, psicologicamente fragile, il bambino ha un estremo bisogno di
affetti familiari. Ne riceverà dalla madre, dai fratelli e dalle sorelle, non dal padre. Insicuro,
attenderà dagli altri, con ingenua fiducia, ripetutamente delusa, quella sicurezza che sa di
non possedere. Intorno ai tredici anni Luigi dovette lasciare Girgenti per Palermo, a causa
di un rovescio finanziario del padre, travolto dal fallimento di due produttori di zolfo ai quali
aveva anticipato quasi tutto il suo capitale. Luigi soffrì del distacco: Girgenti era pur
sempre il paese dell'infanzia e gli rimase nel cuore. Ed è Girgenti il teatro dei due
avvenimenti più importanti (e drammatici) della vita di Pirandello. Dopo Palermo, Luigi
venne a Roma, per frequentarvi l'università, ma uno screzio con il rettore lo convinse a
trasferirsi a Bonn in Germania, dove si laureò con una tesi in filologia romanza, Suoni e
sviluppi di suoni nella parlata di Girgenti. Poco dopo il ritorno in Italia ricevette dal padre la
proposta di sposare la figlia di un socio in affari. Antonietta Portulano era bella, giovane,
onestissima e portava una cospicua dote. Luigi non sollevò obiezioni; andò a vederla, gli
piacque e dette il suo consenso. Il matrimonio ebbe luogo nel gennaio 1894, in chiesa e in
municipio. Poi gli sposi partirono per Roma, dove andarono ad abitare nella casa che Luigi
aveva preparato, all'angolo tra via Sistina e via del Tritone. Nel 1895 nacque Stefano, e, a
distanza di due anni l'uno dall'altro, Lietta e Fausto. Intanto, Luigi era stato nominato
docente di linguistica al Magistero Femminile di Roma e viveva con la tranquiliità
economica derivante dagli interessi della dote di Antonietta, affidata al padre perché la
investisse nel commercio dello zolfo. Ma un brutto giorno accadde l'irreparabile. Una
nuova miniera di zolfo, acquistata dal padre, e nella quale aveva messo tutto il denaro
della dote oltre al suo capitale personale, fu allagata e il capitale perso. La notizia del
disastro provocò ad Antonietta una paralisi. Una rivista letteraria, La Nuova Antologia
offriva mille lire per un romanzo inedito e Luigi si mise a scrivere perché aveva bisogno di
quel denaro: il romanzo era Il fu Mattia Pascal ed ebbe un successo straordinario.
Antonietta, intanto, non migliorava: la paralisi era in parte scomparsa, ma al suo posto
erano subentrati i sintomi della follia. Una follia che raggiunse le forme di una gelosia
paranoica, nei confronti prima delle allieve del Magistero, poi della figlia Lietta, la quale,
accusata di avere un rapporto incestuoso con il padre, tentò il suicidio. Fu allora che
Antonietta venne internata in una clinica, dove rimase fino alla morte, avvenuta molti anni
dopo quella del marito. In seguito, negli anni dell'attività teatrale, Pirandello ebbe modo di
conoscere Marta Abba, l'attrice del suo ultimo grande amore, non ricambiato. In una
lettera del 30 marzo 1930, l'autore scriveva alla Abba che si apprestava a recitare in
Sicilia: Se ti avvenisse di toccare per qualche giorno Girgenti … salutami il bosco del Caos
e la vecchia bicocca dove sono nato. Forse non li vedrò più. Moriva sei anni dopo, il 19
dicembre 1936.
BRA4778 Il presidente R. Reagan e alcuni dei suoi ministri o consiglieri usano il linguaggio della
guerra fredda; denunciano l'espansionismo sovietico, vedono la presenza sovietica in tutti
i tumulti che agitano l'umanità attraverso il mondo. Ma la retorica antisovietica non
permette di trinciar giudizi sulle diverse scuole di pensiero negli Stati Uniti. In realtà, la
classe politica, i commentatori delle relazioni internazionali, restano profondamente divisi
su certi dati (a esempio, il rapporto di forze), sulla politica e i progetti del Cremlino.
Cominciamo con i fatti e le discussioni che essi suscitano. L'Unione Sovietica si è
assicurata una superiorità militare sugli Stati Uniti? A una domanda del genere non può
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essere data nessuna risposta semplice e categorica, visto che noi conosciamo in anticipo
le quantità ma non le qualità; il valore delle armi e degli eserciti si rivela solo in
combattimento. Detto questo, le quantità note, le qualità valutate alla luce dell'esperienza
autorizzano un giudizio almeno probabile. A meno di rifiutare le cifre pubblicate nel
fascicolo Soviet Military Power dal ministero americano della Difesa, mi pare
incontestabile che l'Unione Sovietica possieda uno stock di armi molto superiore a quello
degli Stati Uniti e una capacità di produzione industriale di armi ugualmente superiore.
Bisogna dare una grande importanza ai cinquantamila carri armati, ai ventimila cannoni, ai
cinquemila elicotteri? Si potrebbe obiettare che queste cifre globali non significano un
granché, che la logistica non permetterebbe lo spiegamento di tutte queste armi in campo
di battaglia, che comunque le forze armate sovietiche sono distribuite su molti fronti e che
le grandi battaglie, paragonabili a quelle della seconda guerra mondiale, sono ormai
inconcepibili, perlomeno tra le grandi potenze che dispongono di armi nucleari. Lasciamo
da parte le cifre globali e diamo uno sguardo alla bilancia centrale. Il SALT 2, non ratificato
dal Senato americano, verrebbe di fatto rispettato dalle due parti (supponendo che la
verifica via satellite sia veramente attendibile). Secondo il trattato, gli Stati Uniti
possiedono 1054 missili intercontinentali di cui 550 con MIRV, 656 missili sui sottomarini
(SLBM) di cui 469 con MIRV e 573 bombardieri pesanti, alcuni dei quali dotati di missili da
crociera; da parte sua, l'Unione Sovietica possiede 1398 ICBM di cui 608 con MIRV e 950
SLBM dei quali 144 dotati di MIRV e 156 bombardieri pesanti. Esiste un equilibrio? La
triade americana comporta una parte relativamente ridotta di ICBM, probabilmente perché
i dirigenti americani pensano che non colpiranno mai per primi, e contano di più sui missili
dei sottomarini, meno vulnerabili al primo colpo. L'equilibrio è stabilito, se a definirlo è la
capacità di ciascuna delle due Superpotenze di infliggere all'altra, come reazione a un
primo colpo, "distruzioni inaccettabili". Ma, ribattono i pessimisti, reagire a un primo colpo
contro le basi americane con il bombardamento delle città significa attirare sulle città
americane bombardamenti della stessa potenza.
BRA4779 Nella comune vita quotidiana i numeri costituiscono una realtà problematica che acquista
le connotazioni più varie. Si va dai conti della spesa agli sforzi per far quadrare il bilancio
di fine mese, al computo delle tasse da pagare, alla previsione delle ore di lavoro
occorrenti per montare gli scaffali in cantina. Queste situazioni sono caratterizzate
dall'essere "padroneggiabili", cioè dal fatto che ciascuno può valutare senza eccessiva
difficoltà l'estensione e la portata dei dati. Esse non sollevano problemi particolari. Spesso
però la dimensione numerica ha un che di effettistico o di misterioso. A seconda dei casi
può essere portatrice di messaggi trionfalistici, esoterici o inquietanti, come quando si
parla di armamenti, e la sua reale identità si colloca su un piano secondario. A un
significato "improprio" dei grandi numeri si assiste in tema di macrocosmo: i milioni di anni
luce che costituiscono misure frequenti di distanze interstellari sono così al di là della
comune immaginazione da destare soprattutto una meraviglia un po' attonita, una
indefinita sensazione di orgoglio per le conquiste scientifiche e tecnologiche che
consentono di inviare in esplorazione satelliti, sonde, impulsi di varia lunghezza d'onda e
natura. Potremmo dire che il dato numerico assume una connotazione piuttosto
trionfalistica. A sensazioni simili si è esposti quando ci si avvicina al microcosmo: velocità
dell'elettrone, tempi di rotazione, nanosecondi e concetti affini hanno un che di molto
esoterico. Anche il mondo della finanza, in cui si parla di investimenti da migliaia di miliardi
e si computano a milioni le ore lavorative perse per uno sciopero, dà luogo a percezioni
più "cromatiche" che tratte dall'analisi attenta del reale. Sembra fondata una delle leggi di
Parkinson (notazioni umoristiche e assai acute in tema di organizzazioni e di costume)
secondo cui quanto più una cifra da impiegare è alta, tanto meno è probabile che il
consiglio di amministrazione dia luogo a opposizioni ben strutturate. I grandi numeri
sgomentano, specialmente quando si tratta di denaro. Per piccole spese, quali le somme
da pagare per la riparazione di un muro di cinta o per coprire con una tettoia il recinto in
cui si lasciano le biciclette, è invece facile che si scatenino dispute vibrate tra i vari
consiglieri in nome del risparmio e della bontà delle realizzazioni. Effettivamente ci si
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avvale in modo "proprio" dei dati soltanto quando essi vengono utilizzati per cogliere un
certo fenomeno nella sua esatta dimensione. Le capacità in gioco sono quelle
consuetamente impegnate nelle prove di livello a contenuto numerico: abilità di calcolo,
prontezza nel cogliere gli elementi essenziali, individuazione di aspetti generali sulla base
dei valori che vengono forniti. Con le grandi cifre occorrono disponibilità e un po' di
attitudine. Quanti alberi vengono impiegati per stampare un giornale da un milione di
copie? Basta sapere quanto pesa il giornale e quale è la quantità media di legno
occorrente per ottenere la cellulosa necessaria per una copia. Si tratta poi di fare qualche
semplice operazione aritmetica. Quanti piani ha un certo grattacielo? È possibile
rispondere dividendo l'altezza, conosciuta o stimata, per i tre metri che in generale
costituiscono l'altezza media di un appartamento.
BRA4780 Non esiste nulla di più vivo dell'ambiente minerale. Quest'affermazione può suonare
paradossale, ma in proposito i geologi raccontano un breve apologo: "Una farfalla vola e si
posa su un ramo di un albero. Le chiediamo: "Secondo te, l'albero sul quale ti trovi è un
essere vivente?". La farfalla risponde: "No di certo: è tutta la vita che sto qui e non l'ho mai
visto crescere!"". Il concetto che vorremmo porre in evidenza ora comincia ad apparire più
chiaro. Esattamente come per la breve vita della farfalla il ritmo di crescita dell'albero è
troppo lento per essere avvertito, così per la nostra breve vita, l'evolversi e il continuo
modificarsi dell'ambiente geomorfologico sono eventi assolutamente impercettibili.
Nell'arco dei tempi geologici, invece, l'aspetto esteriore del globo terrestre ha subito
un'incredibile serie di variazioni: i terremoti, i fenomeni vulcanici e termali, i fenomeni
erosivi possono essere considerati come fotogrammi singoli di un'interminabile pellicola
cinematografica. Potremmo forse visionare questo film ipotetico e straordinario facendo
scorrere i fotogrammi, scattati uno ogni secolo, alla velocità di trenta al secondo. Anche a
questa velocità occorrerebbero oltre 17 giorni per vedere tutta la pellicola che ci narra la
storia della Terra fin dalla nascita, 4500 milioni di anni or sono. Gli esseri viventi
propriamente detti sono entità in grado di duplicarsi. La loro comparsa sulla Terra risale a
oltre tre miliardi di anni fa, almeno per quanto riguarda le più semplici forme batteriche, ma
gli esseri superiori sono apparsi in tempi molto più recenti. Ecco quindi che la terra, intesa
qui proprio come terreno, roccia, acqua e aria, cioè mondo minerale, è stata la culla e la
madre della vita. Una delle più recenti teorie sulla nascita dell'uomo ipotizza che le prime
strutture autoduplicanti si siano evolute proprio da alcuni minerali delle argille, quali
halloisite, illite, caolinite e altri. Una grande rivincita, dunque, per i minerali, definiti sempre
come freddi cristalli senza palpiti di vita. È chiaro che non possiamo immaginare sassi che
respirano, però queste considerazioni ci devono far capire come i confini tra i regni
animale, vegetale e minerale siano ben più labili di quanto possa sembrare. Se la cosa è
risaputa per quanto riguarda il confine vegetale-animale, al punto che ad esempio alcuni
biologi classificherebbero i funghi nel regno animale, meno nota è la problematica
riguardante il confine tra questi due regni e il regno minerale, sempre che tale confine
esista. A questo proposito va citato il caso di alcuni organismi (ma si possono definire
così?) ultramicroscopici, i batteriofagi o fagi. Queste "entità", le più piccole strutture in
grado di riprodursi, sia pure a spese dei batteri che parassitano, sono costituite da un
numero di atomi variabile tra "solo" 300 mila e 22 milioni, e sono quindi visibili
esclusivamente al microscopio elettronico. Ciò che stupisce maggiormente di questi fagi è
la forma. La loro "testa" è un poliedro di tipo cristallino sormontato da una bipiramide.
Sono minerali o animali? Si dice che la caratteristica prima della materia vivente sia la
estrema variabilità chimico-fisica, mentre il mondo minerale sarebbe caratterizzato da
cristalli regolari e immoti. Ciò però è vero solo nella teoria, in quanto i difetti reticolari, cioè
le irregolarità nella struttura dei cristalli sono la norma e non l'eccezione. Il carbonio è
l'elemento base della vita; il silicio è l'elemento base del mondo minerale. Le differenze tra
questi due elementi sono scarsissime, ma il silicio, a differenza del carbonio, realizza con
gli altri elementi legami singoli di grande stabilità che non gli consentono di evolvere in
tempi brevi. Gli scienziati tuttavia hanno ipotizzato anche una vita basata sul silicio,
enormemente più lenta, ma teoricamente possibile.
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Brani
BRA4781 All'inizio del Settecento, con la morte di Carlo II di Spagna e con il pericolo di un'egemonia
dei Borboni, l'equilibrio europeo si rompe e si fronteggiano due gruppi di potenze: Austria,
Inghilterra, Olanda da una parte, Francia e Spagna dall'altra. La morte dell'imperatore
Giuseppe I capovolge la situazione ed è perciò necessario giungere alla pace tra
Inghilterra, Francia e Austria. La Francia è ormai in crisi e la vera vincitrice di questi
conflitti solo apparentemente dinastici è l'Inghilterra, che si assume per qualche decennio
il ruolo di suprema moderatrice del difficile e complesso gioco degli equilibri, in cui poco
alla volta entrano con peso crescente due nuove potenze, la Russia e la Prussia. Nel
lungo periodo di pace che l'Europa gode verso la metà del secolo raggiunge il culmine la
potenza che l'Inghilterra è in grado di esercitare con il dominio dei mari e con la
conseguente supremazia politica ed economica, ma soprattutto con il suo grandioso
sviluppo scientifico, culturale e letterario. La pubblica opinione di quel Paese dà la misura
e l'esempio di una moderna società civile che ha il suo fulcro nella borghesia e nel ceto
dirigente che essa esprime in tutti i sensi e in tutti i campi. Lo stesso fenomeno di
emancipazione dei ceti borghesi delle "caste" e degli "ordini chiusi" tradizionali si sviluppa
successivamente anche in Francia e, più lentamente, in Germania e in Russia. La
borghesia mercantile e intellettuale incontra talora l'approvazione di certa aristocrazia e
ottiene l'appoggio di alcuni sovrani: l'ancien régime comincia a sgretolarsi. Il pensiero si
articola sui nuovi modelli forniti dallo scientismo, dal razionalismo, dal laicismo e
dall'individualismo, che saranno i fondamenti dell'Illuminismo, la più grande svolta
filosofica, politica e sociale del mondo moderno. Il primo impulso verrà dalla riflessione di
Locke e dalla ricerca di Newton, ma l'approfondimento e la divulgazione del nuovo modo
di pensare è tutta opera francese. L'esigenza di rinnovamento nell'ambito della società
europea provoca l'alleanza tra le classi più avanzate e i sovrani illuminati, mentre in
Francia il "partito dei filosofi" formula più precise rivendicazioni di libertà politica. Intanto in
Inghilterra la rivoluzione industriale, segnando il passaggio dal capitalismo mercantile al
grande capitalismo moderno, produce il triste fenomeno del proletariato e fa crollare
l'ipotesi della collaborazione tra le classi. La rivoluzione è ormai alle porte: dall'America
passerà ben presto alla Francia e diventerà un problema europeo. La letteratura di questo
periodo è tra le più ricche di fermenti e di suggestioni: riflette la vivacissima situazione
della società contemporanea e vi si immerge con l'empito della partecipazione. Il
Settecento fu un secolo prosastico con interessi filosofici, sociali, politici, economici; in una
parola di solidarietà umana e di rinnovamento civile e sociale. Voci diverse si scontrano e
pur nella diversità dei toni e delle impostazioni collaborano alla fondazione della società
moderna. Secolo per eccellenza razionale, il Settecento conobbe infatti anche il fascino
della commozione sentimentale, del languore e dell'abbandono alla voce del cuore: e
questa, anticipatrice della avanzata sensibilità romantica, è anch'essa pienamente
settecentesca e, a suo modo, rivoluzionaria.
BRA4782 Economia è una parola chiave del vocabolario degli uomini della nostra epoca. Non lo era
per gli uomini dell'Antichità o del Medioevo. Con essa ci si riferisce a quel vasto e
complesso campo di beni, strumenti, comportamenti, rapporti fra le persone che
riguardano i bisogni materiali dell'uomo e il modo di soddisfarli. Oggi sappiamo bene che i
bisogni dell'uomo variano nel tempo: non tutte le epoche hanno gli stessi bisogni e ogni
età soddisfa i propri in modo diverso. Ma l'uomo di qualsiasi tempo ha avuto dei bisogni e
ha dovuto soddisfarli, a cominciare da quelli "elementari": cibo, vestiario, abitazione.
Dunque, ogni comunità umana ha dovuto (e deve) affrontare problemi economici. Per la
loro importanza, anzi, costituiscono una delle dimensioni decisive della storia dei popoli.
Non meraviglia perciò scoprire che fin dall'Antichità ci siano tracce di una riflessione
sull'economia. Meraviglia piuttosto constatare qualcosa d'altro. Per molto tempo queste
riflessioni sono frammentarie, "affogate" in opere che s'occupano d'altro. Mancò a lungo
uno sforzo per comprendere se le singole parti del processo economico (produzione,
distribuzione, consumo dei beni) fossero tra loro legate e come, secondo quali regolarità o
"leggi". È una domanda che ci si comincia a porre in modo esplicito intorno ai secoli XVIXVII. Ne è spia un nuovo termine: economia politica. Ha notato giustamente J.A.
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Brani
Schumpeter (1883-1950), economista e storico del pensiero economico: "nel Cinquecento,
e persino più tardi, oeconomia significa ancora governo della casa", secondo l'etimologia
greca della parola. Ma già nel 1615 troviamo in Francia un libro intitolato Traicté de
l'économie politique (Trattato d'economia politica), un titolo destinato a divenire "classico":
da allora in poi moltissimi libri d'economia si chiameranno appunto così. L'autore del
Traicté, Antoine Montchrétien de Watteville, era un modesto economista che non ha
portato contributi all'avanzamento delle conoscenze economiche. Ma proprio per questo
quel titolo è un indizio: Montchrétien probabilmente l'usò perché il termine si stava già
diffondendo. L'economia stava divenendo economia politica: ci si cominciava a chiedere
oramai come si formino, crescano, si distribuiscano i mezzi atti a soddisfare i bisogni (le
"ricchezze", dicevano gli economisti dell'epoca) dell'intero corpo sociale. Il '600 e il '700
sono secoli di grande fervore di ricerca economica. Vengono individuate le questioni
decisive dell'analisi economica e trovati abbozzi di risposte di notevole rilievo scientifico.
Perché tanto interesse per l'economia proprio in quei secoli? Una delle più convincenti
risposte a tale quesito l'ha fornita Karl Marx. Secondo Marx nelle società precedenti il
capitalismo (o pre-capitalistiche) i rapporti economici fra gli uomini erano "velati", nascosti
sotto altre apparenze. Nel Medioevo, ad esempio, fra signore e servo della gleba c'era una
differenza di "grado" d'origine divina (si ricordi l'ordine trinitario). Fra capitalista e operaio il
rapporto è apertamente economico: l'uno possiede i mezzi per produrre i beni e ha
bisogno dell'altro per azionarli; il secondo ha la forza-lavoro che serve al capitalista per
mettere in moto i mezzi di produzione e ha la necessità di ricevere per il suo lavoro un
salario che il capitalista può pagargli. Una volta venuti in primo piano, senza più veli, i
rapporti economici nella realtà, la riflessione sull'economia si libera anch'essa da altre
preoccupazioni.
BRA4783 Come paragonare il mondo dei nostri giorni con quello del 1914? Oggi sulla terra vi sono
cinque o sei miliardi di persone, forse tre volte di più di quante ve ne fossero allo scoppio
della prima guerra mondiale, e questa crescita è avvenuta nonostante che durante il
secolo breve siano stati uccisi o lasciati morire per decisione dell'uomo tanti esseri umani
quanti mai prima nella storia. Una stima recente delle grandi stragi del nostro secolo
registra 187 milioni di morti (Brzezinski, 1993), che equivalgono a un rapporto di più di uno
su dieci sul totale della popolazione mondiale del 1900. Ai nostri giorni la popolazione non
è solo cresciuta numericamente, ma anche in peso e in altezza rispetto alle generazioni
precedenti; inoltre è meglio nutrita e vive più a lungo, nonostante che le catastrofi
avvenute in Africa, in America latina e nell'ex URSS negli anni '80 e '90 sembrerebbero
indicarci il contrario. Il mondo è incomparabilmente più ricco di quanto lo sia mai stato
prima, sia nella capacità di produrre beni e servizi sia nella loro varietà illimitata. Se così
non fosse, non potrebbe sussistere una popolazione mondiale assai più numerosa di
quanto sia mai accaduto sinora nella storia. Fino agli anni '80 la maggior parte delle
persone ha avuto un tenore di vita superiore a quello dei propri genitori e, nelle economie
avanzate, superiore alle loro aspettative o perfino a quanto avessero mai potuto
immaginare. A metà del secolo, per alcuni decenni, sembrò che si fosse trovato il metodo
per distribuire con una certa equità almeno una parte di questa enorme ricchezza alle
classi lavoratrici dei Paesi più ricchi, ma alla fine del secolo l'ineguaglianza ha preso di
nuovo il sopravvento. Essa si è anche massicciamente introdotta nei paesi ex socialisti,
dove in precedenza regnava una certa eguaglianza dovuta a una generale povertà. Oggi
l'umanità ha un grado di istruzione di gran lunga più alto di quello che aveva nel 1914,
visto l'enorme e crescente divario che esiste tra il grado minimo di istruzione ufficialmente
richiesto per essere considerati alfabetizzati, spesso prossimo a un analfabetismo
effettivo, e l'alta padronanza nella lettura e nella scrittura che si richiede a livello delle élite.
Il mondo è permeato da una tecnologia rivoluzionaria in costante progresso, basata sui
trionfi della scienza, che poteva essere prevista nel 1914, ma che allora era appena
iniziata a livello pionieristico. Forse la conseguenza pratica più evidente di questo
progresso tecnologico è stata una rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni che ha
pressoché annullato il tempo e la distanza. Oggi nel mondo le informazioni e gli spettacoli
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sono disponibili ogni giorno, ogni ora, in ogni casa, a un grado superiore a quello
concesso alle stesse famiglie imperiali nel 1914. Le persone possono parlarsi attraverso
gli oceani e i continenti premendo pochi pulsanti e, dal punto di vista pratico, quasi tutti i
vantaggi culturali della città sulla campagna sono stati annullati. Perché, dunque, il secolo
non è finito con la celebrazione di questo progresso meraviglioso e incomparabile e invece
si diffonde un senso di disagio e di inquietudine? Perché tante menti pensose guardano al
secolo trascorso senza soddisfazione e certamente senza fiducia nel futuro? Non solo
perché si è trattato del secolo più sanguinario che la storia ricordi, per la dimensione, la
frequenza e la durata delle guerre che lo hanno costellato - le quali cessarono solo per un
attimo negli anni '20 - ma anche perché esso ha prodotto catastrofi umane senza
precedenti, dalle più grandi carestie mai avvenute nella storia al genocidio sistematico.
BRA4785 Perché abbiamo sempre parlato della velocità della luce o di velocità minori, ma mai di
velocità maggiori di quella della luce? Perché, secondo la teoria della relatività, non ci può
essere una velocità maggiore di quella della luce. Secondo la meccanica classica, se una
particella si muove con una certa velocità, nell'autobus della Quinta strada, la sua velocità
rispetto all'osservatore esterno sarà uguale alla velocità rispetto all'autobus più la velocità
dell'autobus. Dunque, qualunque velocità può aumentare. Ma, come abbiamo visto, la
legge classica della somma delle velocità è incompatibile con le ipotesi su cui si basa la
teoria della relatività. Infatti, se la luce si muove con la velocità c rispetto all'autobus, la
sua velocità rispetto all'esterno - cioè all'osservatore posto sulla Quinta strada - sarà
sempre la costante c, qualunque sia la velocità dell'autobus. La legge classica della
somma delle velocità deve dunque essere cambiata. Una importante deduzione tratta
dalla teoria della relatività è quella che Einstein cita nel suo primo lavoro e sulla quale
ritorna in seguito in un altro breve lavoro apparso con il titolo "L'inerzia di un corpo dipende
dalla sua energia?". Se dicessi che le idee espresse in questo lavoro hanno scosso tutto il
mondo, sarei certo di non esagerare poiché qui troviamo per la prima volta l'enunciazione
teorica di un possibile nuovo fenomeno che ha aperto orizzonti sconfinati nel campo della
scienza e della tecnica di guerra e di pace. Questo breve lavoro afferma: l'uso dell'energia
atomica è, in linea di principio, possibile. Quarant'anni più tardi il lavoro di molti scienziati
ha confermato praticamente questa possibilità e oggi ognuno può rendersene conto
osservando le fotografie dell'esplosione avvenuta nel deserto del Nuovo Messico e la
devastazione di Hiroshima. Sembra quasi un'ironia che i semi per la futura utilizzazione
dell'energia atomica siano stati piantati dall'uomo più pacifico del mondo, da un uomo
solitario che aveva orrore della violenza e disprezzava la forza bruta. Einstein dimostrò
che l'uso dell'energia atomica è teoricamente possibile, ma nessuno, lui compreso, sapeva
se e quando sarebbe stato possibile in pratica: questa certezza è stata raggiunta solo di
recente. È lecito supporre che la risposta avrebbe anche potuto essere diversa e che l'uso
dell'energia atomica avrebbe potuto rivelarsi possibile solo in teoria. In tal caso il nome di
Einstein non sarebbe stato legato alla bomba atomica o allo sviluppo della tecnica, senza
tuttavia perdere nulla della sua importanza nella storia della nostra civiltà. La creazione
della teoria della relatività segna la nascita della fisica moderna; essa ha determinato un
profondo cambiamento nelle nostre idee filosofiche fondamentali e un'accurata revisione
dei fondamenti su cui è costruita la scienza moderna. Il fisico classico del diciannovesimo
secolo credeva in due leggi di conservazione: la legge di conservazione della massa e la
legge di conservazione dell'energia. La prima afferma che, per quanto un corpo sia
riscaldato, deformato, trasformato chimicamente, la sua massa totale rimane sempre la
stessa. Se si riscalda un bicchiere d'acqua, la temperatura e la quantità di calore variano.
Varierà anche la massa di questo bicchiere d'acqua? Il fisico classico risponderebbe di no.
La teoria della relatività conduce a una risposta completamente diversa.
BRA4787 L'editore è la vera anima di una casa editrice. Non solo la maggior parte delle volte le dà il
nome, ma pensa a imprimerle le necessarie spinte di sviluppo. L'editore è un imprenditore
a tutti gli effetti e, anche se qualcuno vorrebbe smentire, possiamo senza dubbio dire che
lo scopo del suo operato è il profitto. Nella nostra epoca si è verificata la graduale
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scomparsa dell'editore intellettuale e letterato, attento esclusivamente al valore culturale
delle proprie pubblicazioni, mentre si è decisamente imposta la figura dell'editore
manager, molto più pragmatico, che commisura le scelte alle possibilità reali del mercato e
a sani equilibri di bilancio. La trasformazione è cominciata negli anni Sessanta. Prima di
allora esisteva un'editoria, certo minore ma importante, che seguiva linee proprie senza
porsi come scopo prioritario il profitto. Alcuni editori, appartenenti a prestigiose famiglie di
imprenditori, consideravano l'editoria libraria solo un fiore all'occhiello, un omaggio alle
arti, in quanto traevano i loro redditi da altre attività, specie la stampa periodica, che allora
aveva ingenti introiti pubblicitari. Con il tempo cominciarono a diffondersi nel settore dei
libri alcuni criteri di gestione più orientati all'aspetto economico. Oggi la visione si è
completamente ribaltata: fare l'editore significa essere imprenditore e, come tale, compiere
delle scelte strategiche riguardanti il prodotto, prima di tutto, quindi il mercato al quale
indirizzarsi, la ricerca dei collaboratori, dei fornitori, la scelta tecnologica e la creazione di
un'immagine aziendale che sarà il biglietto da visita per l'operato attuale e futuro. Obiettivi
molto pratici e un occhio particolare al mercato, dal quale prendere tutte le informazioni
necessarie per svolgere al meglio la propria attività: notizie sulla concorrenza, statistiche,
novità, strategie di marketing che hanno avuto successo, nuovi canali di distribuzione e
molto ancora. Un progetto editoriale, per quanto originale e creativo, dovrà sempre fare i
conti con un pubblico e con un mercato in cui collocare il prodotto. L'idea iniziale
dell'editore, la sua scelta di indirizzarsi verso un tipo di produzione piuttosto che un altro
deve essere pianificata in modo strategico e dovrà nel tempo mantenere la coerenza
prefissata. Eventuali cambiamenti saranno dettati da ragioni circostanziate, quali una
variazione nei gusti dei lettori, ragioni economiche, dunque di mercato. L'obiettivo sarà
quello di creare una linea editoriale, il segno che permetterà di riconoscere la casa editrice
in mezzo alle circa tremila che ci sono in Italia. Si inizierà con l'ideazione della sigla
editoriale, primo passo verso la concretizzazione del progetto dell'editore. Poi verrà la
suddivisione in collane che rifletterà motivazioni organizzative e contenutistiche. Il pubblico
da tenere in considerazione per creare un progetto editoriale è fondamentalmente quello
dei lettori. In Italia, a differenza dei maggiori Paesi europei, il numero dei lettori è esiguo
rispetto all'offerta vastissima di titoli sul mercato; questo è il dramma principale che
attraversa la nostra editoria. Per avviare un'attività con probabilità di successo è
necessario incanalare l'offerta verso un target definito di lettori. Si tratta in sostanza di
compiere delle scelte mirate che tengano conto non di un pubblico generico che spesso
rimane solo potenziale, ma di tipologie di pubblico ben individuate, a cui indirizzare
proposte idonee, supportate da un preciso piano di comunicazione e diffusione. Tale
esigenza nasce soprattutto per un certo tipo di editoria, medio-piccola, che, per continuare
a produrre, deve orientarsi su una produzione specializzata, plasmata sui bisogni di alcuni
segmenti di clientela. Un'editoria di nicchia, dunque, tesa a soddisfare e conquistare un
pubblico in termini di qualità di offerta e di servizio e, attraverso queste due leve, creare
una sorta di legame di fidelizzazione con i propri lettori.
BRA4789 Ogni volta che qualcuno mi chiede di parlare del metodo scientifico sono in imbarazzo.
Non tanto perché nutra dubbi fayerabendiani sull'esistenza del metodo, quanto perché non
so bene né di che cosa il mio interlocutore vuole che parli, né se vuole che ne parli in
senso storico. Che cosa si intende quando si chiede qualcosa intorno al metodo? Forse
quali sono le regole grazie alle quali uno scienziato persegue un suo qualche fine da
identificare? Forse proprio qualcosa intorno a tale fine? O forse qualcosa di più generale?
Si vuole una storia del metodo scientifico attraverso i secoli? Si vuole la situazione dello
stato dell'arte? Perché tutte queste domande per una richiesta apparentemente non
ambigua, almeno stando all'intendere comune? Ebbene perché l'intendere comune, qui in
Italia, è stato viziato da un'educazione non perfettamente in linea con ciò che si fa e si
discute quando realmente ci si occupa di filosofia della scienza. Innanzitutto la filosofia
della scienza non è solo lo studio del metodo scientifico inteso quale insieme di ricette più
o meno definite o definibili che indicano prescrittivamente o descrittivamente il processo
della ricerca scientifica. In secondo luogo, anche chi si occupa di metodologia non è detto
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che si debba occupare di metodo. Infatti con "metodologia" si dovrebbe intendere la
"filosofia della scienza generale", per distinguerla dalla "filosofia delle scienze particolari".
La "filosofia della scienza generale" si occupa di problemi riguardanti concetti che, più o
meno, sono presenti in ogni ambito scientifico: la spiegazione, il realismo con i connessi
problemi della sottodeterminazione teorica a causa dei dati, il problema delle notazioni
equivalenti, l'inferenza alla miglior spiegazione o alla miglior causa o alla miglior
corroborazione, la natura delle leggi di natura, il problema della controfattualità, la
teoreticità della conoscenza e il problema del confronto fra teorie diverse, il progresso
scientifico, i rapporti fra scienza e altri domini conoscitivi o valutativi ecc. Invece la
"filosofia delle scienze particolari" si occupa dell'analisi filosofica di concetti di particolari
ambiti scientifici (il problema della massa, del tempo, dello spazio ecc.) o di particolari
teorie scientifiche (i problemi filosofici della relatività, della meccanica quantistica, della
biologia teorica ecc.). Una volta specificato quanto sopra, mi è più facile proporre delle
riflessioni sullo snodo metodo/scienza/filosofia. Dapprima parlerò della "filosofia" che di
principio non dovrebbe essere fatta senza scienza, ossia della filosofia della scienza. Così
discuterò dell'utilità di soffermarsi ancora sul metodo e delle due fallacie che derivano dal
fare filosofia della scienza senza scienza e filosofia della scienza senza filosofia. Infine,
brevemente, mi soffermerò sulla questione se sia possibile fare scienza senza filosofia e
filosofia senza scienza. Affrontare la questione del metodo scientifico comporta
innanzitutto trovarsi davanti a un trivio: fare storia del metodo? Utilizzare un approccio
descrittivista? Proporre una via prescrittivista? Inoltrarsi lungo la prima possibilità significa
vestire i panni dello storico e tentare di capire qual è il metodo scientifico teorizzato da un
particolare autore in una particolare epoca, oppure vedere come all'interno di una data
comunità scientifica, ben localizzata temporalmente, gli scienziati si sono comportati. Un
lavoro quindi perfettamente legittimo, che vede storici delle idee, storici della filosofia e
storici della scienza al lavoro. Si studia qual era il metodo cartesiano, o quello baconiano.
Si analizza il dibattito che c'è stato in Inghilterra nella prima metà dell'800 fra John F.W.
Herschel, William Whewell e John Stuart Mill. Oppure le discussioni, ormai avvenute quasi
una trentina di anni fa, fra, da una parte Karl Popper e dall'altra Paul K. Feyerabend, Imre
Lakatos e Thomas S. Kuhn.
BRA4791 Nell'ottobre 1918 Wilson, in occasione delle elezioni per il Congresso, si rivolse agli elettori
statunitensi chiedendo loro un voto massiccio per il partito democratico; fu
clamorosamente sconfessato e i repubblicani conquistarono la maggioranza sia al Senato
sia alla Camera dei rappresentanti. La sconfitta del presidente, che era stato eletto anche
in base alla convinzione che egli avrebbe tenuto il paese fuori del conflitto, fu
probabilmente dovuta al modo in cui la politica interna era stata condotta durante i due
anni di guerra e al suo atteggiamento che mostrava di voler monopolizzare la vittoria
imminente e la pace futura a vantaggio della propria parte politica. Per tutta la durata
dell'impegno bellico americano la "nuova libertà" teorizzata da Wilson era stata messa da
parte e una pesante legislazione repressiva aveva intaccato alcuni capisaldi della
tradizione politica statunitense, colpendo vessatoriamente cittadini classificati bravamente
come responsabili di reati "antipatriottici" e che al massimo potevano essere accusati di
avere opinioni non conformiste. Quando il presidente partì per l'Europa per partecipare
alla conferenza della pace, fu accompagnato dall'avvertimento di Teodoro Roosevelt che
le sue enunciazioni e i suoi ormai famosi "quattordici punti" non rappresentavano affatto
l'espressione della volontà dei cittadini degli Stati Uniti. Quando tornò con il trattato di
Versailles e col covenant della Società delle Nazioni le sue speranze di vederli ratificati
dalla nuova maggioranza repubblicana erano puramente illusorie: il minimo che si potesse
dire era che, a parte un ristretto numero di suoi fedelissimi seguaci, entrambi i rami del
Congresso non intendevano approvare il trattato nella forma che esso aveva. Il clima di
crociata democratica era mutato, sia per la fine dell'artificioso entusiasmo che aveva
contraddistinto l'intervento, sia per i risultati delle trattative di pace, sia per il diffuso timore
d'un possibile coinvolgimento in futuri conflitti che non mettevano in gioco interessi
americani. Le argomentazioni repubblicane contro la Società delle Nazioni erano in parte
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speciose, ma destinate a far breccia nell'opinione pubblica: "... quando avrete impegnato
questa repubblica ad un piano di controllo mondiale fondato sulla forza, sulla forza militare
unita delle quattro grandi nazioni del mondo - argomentava il senatore W. E. Borah, il
principale oppositore di Wilson in questa materia, - voi avrete per ciò stesso distrutto
l'atmosfera di libertà, di fiducia nella capacità di autogoverno delle masse in cui soltanto la
democrazia può allignare. Quando questa coalizione sarà formata, quattro grandi potenze,
che rappresenteranno i dominatori, governeranno metà degli abitanti della Terra: sarà un
governo fondato sulla forza e noi ne faremo parte". Per i repubblicani non si trattava
soltanto di questioni di principio (per esempio il diritto del popolo di decidere della guerra e
della pace) ma anche di una valutazione strettamente politica del trattato che "con inaudita
spietatezza" violava almeno in una dozzina di casi "la divina legge della nazionalità" e
precostituiva così i fomiti di un nuovo conflitto: quantunque enfaticamente espressa, la loro
convinzione che la Società delle Nazioni rappresentasse la garanzia dell'ordine ("ingiusto")
di Versailles non era fondamentalmente sbagliata; dove essi si sbagliavano era nel
ritenere che gli Stati Uniti potessero effettivamente condurre una politica isolazionistica,
ma probabilmente non era questo il senso da attribuire alla loro volontà di non
compromettersi in alleanze.
BRA4792 Tabù è una parola polinesiana che ci è difficile tradurre, perchè non possediamo più il
concetto a cui tale termine si riferisce. Per gli antichi romani il concetto era ancora
familiare: il latino sacer è concetto identico al tabù dei polinesiani. Anche lo hàgos dei
greci, il kodausch degli ebrei deve aver coinciso, quanto a significato, con ciò che i
polinesiani definiscono mediante il termine di tabù e che molti altri popoli d'America,
d'Africa (Madagascar), dell'Asia settentrionale e centrale esprimono attraverso analoghe
definizioni. Per noi il significato del tabù si distingue in due accezioni opposte. Da un lato
vuol dire: santo, consacrato. Dall'altro lato: inquietante, pericoloso, proibito, impuro.
L'opposto del tabù si chiama in lingua polinesiana noa, ossia "usuale", "generalmente
accessibile". Di conseguenza nel concetto di tabù è implicita un'idea di riserva: infatti il
tabù si esprime essenzialmente in divieti e restrizioni. Il significato del tabù potrebbe
coincidere spesso con la nostra espressione "orrore sacro". Le restrizioni derivanti dal
tabù sono diverse dai divieti religiosi o morali. Non vengono ricondotte al comandamento
di un dio, ma propriamente parlando si vietano da se stesse; ciò che le distacca dalle
proibizioni morali è il mancato inserimento in un sistema che dichiari necessarie, in termini
assolutamente generali, certe astensioni e che giustifichi anche tale necessità. Le
proibizioni derivanti dal tabù sono prive di qualsiasi giustificazione; la loro origine è
sconosciuta; incomprensibili ai nostri occhi, appaiono ovvie a coloro che vi sono soggetti.
Wundt definisce il tabù come il più antico codice di leggi non scritte dell'umanità. È
un'ipotesi generalmente accettata che il tabù sia più antico degli dei e che risalga a tempi
anteriori a ogni religione. Poichè ci occorre una descrizione imparziale del tabù, se
vogliamo farne oggetto di un esame psicoanalitico, citerò qui alcuni estratti dall'articolo che
l'Enciclopedia britannica dedica alla voce "Taboo", redatta dall'antropologo Northcote W.
Thomas. "In senso stretto il tabù comprende soltanto: a) il carattere sacro (o impuro) di
persone o di cose, b) il tipo di proibizione che risulta da questo carattere e c) la santità (o
impurità) che deriva dall'infrazione di questo divieto. L'opposto del tabù si chiama in lingua
polinesiana noa, vale a dire "generale" o "comune"... "In senso più lato si possono
distinguere diversi generi di tabù: 1) naturale o diretto, che è il risultato del mana (forza
misteriosa) inerente a una persona o cosa; 2) trasmesso o indiretto, che procede
anch'esso dal mana, ma è o a) acquisito oppure b) imposto da un sacerdote, da un capo o
da qualcun altro; 3) intermedio, ove sono presenti entrambi i fattori, come nel caso di una
moglie fatta propria dal marito." Il termine tabù viene usato anche per altre limitazioni
rituali, ma non si dovrebbe far rientrare nel tabù tutto ciò che potrebbe essere meglio
definito come "interdizione religiosa". Non vi è dubbio che all'inizio la punizione per la
trasgressione di tabù è affidata a una disposizione interiore che opera in maniera
automatica: il tabù violato si vendica da sè. Quando successivamente sorgono
rappresentazioni di dèi e di spiriti, con i quali il tabù entra in relazione, ci si aspetta una
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punizione automatica dalla potenza della divinità. In altri casi, probabilmente in
conseguenza di un'ulteriore evoluzione del concetto, è la società che si assume il compito
di punire il temerario, il cui modo di procedere ha messo in pericolo i compagni. In tal
modo anche i primi sistemi penali dell'umanità si riallacciano al tabù.
BRA4793 La luce e il calore che una stella emette nello spazio sono manifestazioni della sua
presenza che ci permettono di percepire appunto l'esistenza dell'astro alla distanza di
migliaia di anni luce se osserviamo a occhio, e di milioni se ci aiutiamo con i telescopi.
Inoltre, se attorno alla stella si trovano dei pianeti, essa li illumina; nel caso della Terra
questa luce è sorgente di vita. Quando all'interno di una stella hanno luogo processi
energetici, si usa dire che la stella è "viva" anche se questi processi non hanno nulla a che
fare con la vita in senso biologico. Ma la vita di una stella non dura in eterno. Tutte le stelle
muoiono; dopo quanto tempo dalla loro nascita dipende solo dalla loro massa. Quelle di
massa minore di quella del Sole possono vivere a lungo, anche decine di miliardi di anni;
quelle della stessa massa del Sole una decina; quelle di massa superiore sono destinate a
vita breve e a morte precoce. Una stella dieci volte più ricca di massa del Sole può vivere
solo qualche decina di milioni di anni. Un nulla a confronto con i tempi in gioco nei
fenomeni astronomici. Anche il modo con cui la stella perde vita, cioè cessa di produrre
energia, è diverso dall'una all'altra e dipende solo dalla massa. Se questa è minore di
quella solare la morte della stella interverrà per lenta estinzione. Nel caso del Sole, o di
stelle di massa simile, la morte interviene dopo una serie di esplosioni che si susseguono
a distanza di centinaia di milioni di anni (o qualche miliardo). Alla fine la stella si contrae in
un astro di piccole dimensioni (per esempio circa come la Terra). Se la stella è di massa
molto superiore a quella del Sole la fine è catastrofica: una colossale esplosione la
dividerà in due parti: una che si contrae, al centro, in un astro di diametro di pochi
chilometri e formato di materia iperdensa (un pulsar o addirittura un buco nero) e l'altra
rappresentata da un involucro esterno che viene proiettato a distanza sotto forma di una
gigantesca superficie sferica che continua a dilatarsi fino a disperdersi nello spazio
interstellare. Qua e là, nello spazio, si osservano delle tenui nebulose a forma di bolla
sferica, molto sottili e perlopiù trasparenti. Al centro di queste nebulose spesso si trova un
pulsar che si può osservare per la sua radioemissione cadenzata e talvolta anche per la
sua tenue luce. La costellazione del Cigno che si può osservare nelle calde notti d'estate
fino all'inizio dell'autunno è una di quelle in cui è finita una stella che si è estinta per
esplosione. Se il fenomeno è avvenuto di recente (per esempio meno di una decina di
migliaia di anni), allora nel centro della nebulosa si troverà un pulsar che conferma
l'origine della nebulosa. Se l'esplosione è più remota (come nel nostro caso), allora il
pulsar può essersi estinto; in questo caso rimane solo la nebulosa ad anello. Per
osservare l'anello del Cigno occorrono cieli dotati di estrema limpidezza e strumenti molto
luminosi: per esempio un telescopio con un obbiettivo molto grande, almeno venti
centimetri di diametro. La bellezza di questa nebulosa contrasta con la tragica fine che ha
fatto la stella che le ha dato origine. E la stessa fine devono aver fatto i pianeti, se ce
n'erano, che giravano attorno a essa.
BRA4794 I telefoni cellulari mettono in comunicazione gli utenti valendosi dell'emissione di
microonde, le stesse che permettono ai forni a microonde di cuocere gli alimenti: da qui il
timore che esse possano agire allo stesso modo sull'orecchio e sul cervello dei maniaci
del telefonino. La potenza di un forno a microonde è però di parecchie centinaia di watt,
quella di un telefonino non supera mai i due watt. Per fare chiarezza sono stati condotti
degli studi scientifici, finanziati in particolare dai costruttori di telefonini e dagli operatori
della telefonia mobile, preoccupati di mettere fine alle voci. Anni di ricerche di dosimetria
hanno dimostrato che i telefonini non provocano alcun riscaldamento di tessuti. L'assenza
di riscaldamento potrebbe però essere una semplice conseguenza dell'attivazione del
sistema di termoregolazione del corpo umano: la circolazione sanguigna si
intensificherebbe e agirebbe come un circuito di raffreddamento. Questa attivazione
sarebbe generatrice di stress e potrebbe, a lungo termine, indurre altri effetti biologici. Ma
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per il momento nessuno di questi effetti è stato riscontrato. E che ne è dei sospetti di
eventuali effetti cancerogeni dei portatili? I vari studi si contraddicono e non sono facili da
interpretare. Si dice che le microonde abbiano la capacità di eccitare le molecole. In dosi
elevate possono perfino rompere i loro legami atomici. Il dottor Henry Lai, dell'Università di
Washington, ha per esempio mostrato che, nel ratto, l'esposizione alle microonde
aumentava del 25% il numero di rotture delle molecole di DNA del cervello. Una cifra
simile dovrebbe inquietare, dato che queste rotture cromosomiche possono rendere le
cellule cancerose. Ma uno studio condotto da un'équipe californiana ha fornito indicazioni
opposte, provando che queste radiazioni limitavano la proliferazione di cellule tumorali nei
ratti ai quali era stata inoculata una sostanza cancerogena! Ricerche francesi non hanno
riscontrato nessun effetto. E se i lavori dell'équipe australiana di Michael Repacholi del
Royal Adelaide Hospital hanno rilanciato i sospetti, essi non permettono più degli altri studi
di trarre una conclusione netta. Il telefonino è allora esente da rischi? Certamente no. "I
telefoni cellulari introdotti nel complesso sanitario devono essere tenuti spenti, perché
rischiano di perturbare le apparecchiature mediche funzionanti con sistemi elettronici",
recita un avviso all'ingresso degli ospedali. È una circolare della Direzione degli ospedali
emessa il 6 ottobre 1995, che raccomanda l'adozione di questo accorgimento per
salvaguardare il corretto funzionamento delle pompe a perfusione, delle apparecchiature
per la dialisi e dei respiratori, tutti apparati che potrebbero risentire delle interferenze
dovute alle microonde dei telefonini. Si tratta di una semplice misura prudenziale, non
essendosi verificato in Francia nessun grave incidente.
BRA4795 Res severa, verum gaudium ("La vera gioia è nella cosa seria"). Questo motto ripreso da
Seneca è il motto della Gewandhaus di Lipsia da più di duecentocinquant'anni. Quando si
entra nella grande sala di questa illustre orchestra, le parole latine, scritte sul frontone di
un immenso organo, attirano immediatamente lo sguardo. Questo è un luogo di
raccoglimento in cui la musica non ha nulla del passatempo. Basta venire un giovedì o un
venerdì sera - preferibilmente, quando sono in programma Bruckner, Mendelssohn o
Brahms - per capire come la musica occupi un posto importante nella vita della gente di
Lipsia. Qui si viene in famiglia. L'atmosfera non è affatto mondana come può esserlo
talvolta a Monaco o a Berlino. Durante le pause si parla soprattutto di musica e il tono
delle conversazioni è basso come un mormorio in chiesa. Ancora prima che Felix
Mendelssohn-Bartholdy assumesse la direzione della Gewandhaus con il titolo di
Kapellmeister fra il 1835 e il 1847, quest'orchestra era già una delle più prestigiose
d'Europa. Le molte grandi opere che vi sono state eseguite per la prima volta, come il
Quinto concerto per pianoforte di Beethoven, conferiscono al luogo una dimensione
particolare. Qui il fatto di andare al concerto è sempre stato vissuto come un evento,
un'esperienza interiore coronata dai tradizionali concerti del 29, 30 e 31 dicembre, in cui
viene eseguita ogni anno, da quando lo fece per primo Arthur Nikisch nel 1918, la Nona
sinfonia di Beethoven. Nella vicinissima chiesa di San Tommaso, un'altra tradizione quella di Bach, il cui corpo riposa sotto la navata - viene attivamente tenuta in vita dal
celeberrimo coro di bambini che rappresenta, anch'esso, l'orgoglio della città. Qui, non
ascoltare musica significa trascurare la cura della propria anima. Non avere un
abbonamento alla Gewandhaus è un attentato al giusto ordine delle cose. In questo, nulla
è cambiato dal 1743, anno in cui i ricchi commercianti della città si quotarono per fondare
un "grande concerto" ben presto battezzato Gewandhausorchester, perché suonava in un
mercato coperto di tessuti. Si tratta della più antica orchestra "borghese" di tutta la
Germania, dal momento che gli altri antichissimi organismi - come la Staatskapelle di
Dresda - sono stati fondati da case principesche. In realtà questa tradizione borghese non
è mai stata interrotta, neppure dal regime comunista di Berlino Est. Quest'ultimo fece anzi
grandi sforzi per allargare il pubblico popolare della grande musica: per la prima volta nel
1958, la Gewandhaus - allora diretta dal leggendario Fritz Konwitschny - tenne un
concerto nel kombinat petrolchimico "Otto Grotewohl" di Böhlen, nell'ambito di un
programma battezzato "L'arte aiuta il carbone". In seguito ci sarebbero stati altri "concerti
sindacali". Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che il periodo comunista sia stato ideale per
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i musicisti: "Non avevamo a disposizione i migliori strumenti", "Le partiture erano
razionate", "Mai la possibilità di sorridere durante un concerto", dicono oggi quando li si
interroga sul passato. Ma, malgrado tutti i suoi difetti, il regime comunista, che non aveva
nei confronti della musica lo stesso atteggiamento di rifiuto che aveva verso la Chiesa, ha
fatto costruire senza badare a spese la "nuova sala" della Gewandhaus sulla grande
piazza del re Augusto di Sassonia a Lipsia. Inaugurata nel 1981, dotata di un'acustica
eccezionale, questa sala è una delle migliori di tutto il Paese riunificato.
BRA4796 Mai come oggi i clienti hanno premiato o rifiutato venditori di beni o di servizi basando il
proprio giudizio sul valore dell'acquisto. In passato il valore di un prodotto o di un servizio
veniva giudicato soprattutto sulla base del prezzo o della qualità, mentre oggi i
consumatori mettono in primo piano anche fattori quali rapidità, comodità e servizio. Per
avere servizio un'azienda deve essere in grado di trovare nuovi modi per fornire valore.
Come? Non è necessario andare lontano: basta dare un'occhiata al proprio computer e
alla connessione a Internet. Il commercio elettronico sembra aprire le porte a una nuova
ondata di creazione di valore. Un buon esempio in proposito è fornito da Amazon.com,
una libreria "virtuale". I libri si possono acquistare tranquillamente da casa, via computer,
24 ore al giorno, senza bisogno di negozi, impiegati, magazzini e intermediari. Lo stesso
dicasi per la musica, le automobili, i fiori e innumerevoli altri prodotti. Per quanto Internet
stia ancora attraversando il periodo dell'infanzia, sono molte le aziende che si stanno già
adoperando per offrire valore ai propri clienti in modi prima impensabili. I principi legati al
valore non vanno assunti esclusivamente dalle aziende. Si pensi, per esempio, alla
Repubblica di Singapore: negli ultimi cinque anni ha investito più di due miliardi di dollari
per la realizzazione di una modernissima infrastruttura tecnologica, destinata ad attirare le
imprese straniere. Gli sforzi fatti stanno ora ricevendo le giuste ricompense: sono molte
infatti le multinazionali che hanno deciso di stabilire il proprio centro regionale proprio nella
nuova "isola intelligente". La capacità di cambiare e di operare il cambiamento giusto sono
spesso gli elementi che contraddistinguono il vincitore dal perdente, non solo in termini
individuali, ma anche nel mondo delle imprese. I vincitori sono coloro che riescono a
vedere con debito anticipo la necessità di un cambiamento e hanno la capacità di metterlo
in atto, sia quando la posta in gioco è il futuro successo di un'azienda sia, molto più
semplicemente, quando si tratta di una questione di routine. Queste persone sono
talmente orgogliose della propria azienda da cercare di cambiarla. Basta dare un'occhiata
alle principali aziende statunitensi. Delle 100 più grandi società presenti all'inizio del
secolo ne sono rimaste solo 16. Le sopravvissute sono qui perché hanno deciso di
cambiare per adeguarsi al mercato in cui operano; hanno capito che non potevano
starsene con le mani in mano e sperare ancora di resistere. Non hanno importanza il
settore o l'area geografica in cui si opera: viviamo tutti e vivremo sempre in un mondo che
si nutre di cambiamenti: Hong Kong, malgrado le recenti turbolenze, sta iniziando un
nuovo capitolo della propria storia economica come leader asiatico; L'Europa si avvicina a
grandi passi alla moneta unica; il settimanale The Economist prevede che la Cina sarà la
prima potenza economica mondiale entro il 2020; l'espansione della Nato spinge l'Europa
Orientale a emergere. E si potrebbe continuare a lungo.
BRA4797 È sempre rischioso, almeno per chi non è abituato a giocare troppo disinvoltamente con le
idee, valutare i tempi in cui viviamo come se fossimo sempre alla vigilia di dirompenti
sconvolgimenti. Il fatidico anno 2000, a prescindere dai valori simbolici riguardo l'ingresso
nel nuovo millennio, non è altro, in fin dei conti, che l'anno successivo al 1999 e
precedente all'anno 2001. Questa elementare avvertenza, con il suggerimento alla
prudenza nell'annunciare proclami, dovrebbe valere ancor più nel campo delle previsioni
economiche e di mercato, dove domina, come è noto, l'incertezza. Lo stesso Keynes
sosteneva che "il prevedibile non si avvera mai e l'imprevisto sempre". Nel campo dei
media sono innumerevoli gli esempi di previsioni errate e di falsi annunci su presunte
svolte rivoluzionarie. Molti pseudo-strateghi avevano preconizzato, a titolo di esempio, la
fine della radio e del cinema con l'avvento della televisione, il declino di quest'ultima con la
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nascita dell'home-video, la rottamazione alla fine degli anni ottanta della "vecchia"
televisione a seguito del "rivoluzionario" sistema della tv ad alta definizione, più
recentemente la marginalizzazione progressiva della tv generalista, come tipologia di
offerta e come modello incentrato sulla pubblicità a vantaggio delle varie forme di
televisione a pagamento. È inutile ricordare che l'evoluzione del sistema ha sempre
determinato l'integrazione tra i vari mezzi di comunicazione e che in molti casi le previsioni
non sono state rispettate (la stessa tv generalista, in un mercato maturo come quello Usa,
pur perdendo quote, non ha smesso di macinare utili), mentre una quantità non
indifferente di risorse è stata inutilmente impegnata e dispersa in irrealistici progetti. Pur
con tutte le cautele suggerite da questa doverosa premessa, non si può non rilevare che il
sistema televisivo, in tutti i Paesi, si trovi di fronte a una svolta, essendo in una fase di
passaggio tra due "epoche" televisive. Vi è infatti la percezione, se non la sicurezza da
parte dei più, che l'attuale modello televisivo sia in una fase declinante, avendo perso
anche le energie e le capacità di un tempo; nel contempo appare incerto e nebuloso
l'approdo finale di un nuovo modello di cui si intravvedono solo i contorni. In effetti la
televisione non è più il luogo tranquillo di un tempo. E forse proprio questa tranquillità molti
rimpiangono. Così era la tv del monopolio pubblico, dichiaratamente pedagogica, di buona
qualità e molto rispettosa del pubblico. Lo stesso periodo iniziale, molto più dinamico, della
concorrenza tra pubblico e privato negli anni Ottanta si è caratterizzato per le forti spinte
innovative nel linguaggio ideativo e produttivo. Ora alla tranquillità di quei periodi è
subentrata una forte turbolenza. Cerchiamo quindi di capire le tendenze di fondo del
sistema televisivo così da individuarne i percorsi più ragionevolmente possibili. Sono tre, a
mio parere, i grandi vettori portanti di una profonda modificazione della televisione. Primo:
la tv, come tutto il sistema delle comunicazioni di massa, assume sempre più i connotati e
le peculiarità di un vero e proprio mercato. Secondo: si assiste da alcuni anni allo
sbriciolarsi dei confini nazionali. Il terzo elemento di rottura con il passato è la forte
turbolenza tecnologica.
BRA4799 La struttura e le tendenze attuali della famiglia in Italia sono in linea con quelle degli altri
Paesi europei e in genere dei Paesi di cultura e di stile di vita occidentali, ma con
caratteristiche differenziate che rendono da noi il quadro non del tutto coerente com'è
invece negli altri Paesi. Lasciamo pure da parte i Paesi scandinavi dove abitudini e stili
matrimoniali sono sempre stati abbastanza diversi e molto all'"avanguardia", ma
consideriamo, ad esempio, la Francia. Qui il quadro è coerente e tutto denuncia
un'accentuata disaffezione verso il matrimonio e l'istituzione familiare in generale: il
matrimonio è sempre meno scelto come modo di vivere e perciò calano i matrimoni e
anche per questo le nascite; sono diffusi e crescenti tanto la coabitazione quanto i divorzi;
diminuisce la proporzione di divorziati che si risposano; è elevata e in aumento la
proporzione di figli naturali; va crescendo la proporzione di famiglie con un solo genitore; è
in forte calo la dimensione media familiare; aumenta sensibilmente l'età media dei
componenti la famiglia. Si potrebbe già forse prefigurare per il futuro una famiglia costituita
senza alcun legame formale e un'alta e crescente "mobilità coniugale" nel corso della vita
di ognuno. In Italia invece il quadro non è coerente; ci sono elementi di disaffezione, che
sono la forte diminuzione dei matrimoni e anche il più intenso calo delle nascite, ma ci
sono anche elementi di non disaffezione: i divorzi restano molto pochi; la coabitazione in
unioni consensuali è ridottissima e, in particolare, praticamente nulla la coabitazione
giovanile; la proporzione di figli naturali è crescente ma tuttora bassissima così come la
proporzione di famiglie con un solo genitore non vedovo; il numero dei divorziati che si
risposa è molto elevato. E ancora: nelle indagini di opinione i giovani in maggioranza
hanno dichiarato che il matrimonio è la forma più adeguata per vivere insieme (salvo poi
scioglierlo se le cose non vanno). Nel 1987 l'8% di tutti gli intervistati ha detto che il calo
dei matrimoni è un bene (il 19% nel 1983) e il 46 un male. è difficile dire come si disegnerà
il futuro, anche perché, sia pure nel quadro di un modello occidentale di formazione delle
famiglie, non vi è dubbio che emergano nettamente specificità nazionali legate alla
tradizione e alla cultura dei singoli popoli. Se in Italia il calo dei matrimoni può essere visto
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come il fenomeno leader che da un lato è il sinonimo di un profondo e radicato cambio di
mentalità e dall'altro è un evento che trascina dietro di sé, a cascata, tutta una serie di
conseguenze (coabitazione, figli naturali ecc.), allora il futuro è di tipo nordeuropeo. Se
invece il calo dei matrimoni è il frutto di una lunga fase congiunturale negativa legata a
difficoltà contingenti, come l'elevata disoccupazione giovanile e la difficoltà a trovare casa,
e se lo sviluppo della società nei prossimi anni farà scemare l'importanza dell'individuo
come unità sociale di base, potenzierà pertanto la necessità di ricorrere a una strategia
familiare di organizzazione della vita quotidiana e la "sicurezza" sarà il futuro anche delle
reti interfamiliari, allora quella attuale potrebbe risultare solo una fase di aggiustamento. Il
matrimonio, impegno reciproco e legalizzato di un uomo e di una donna davanti alla
società visto in opposizione alla precarietà di unioni episodiche, non è mai stato
un'istituzione inattaccabile né ben sopportata, ma sembra imperitura. La si vilipendia, si
sogna di annientarla, ma essa perdura, anche perché la continuità delle tradizioni è quasi
sempre riaffiorata sotto le apparenze degli elementi di rottura. Già nel 1907 Léon Blum in
un libro che fece scalpore si interrogava su "questa istituzione che funziona male", al fine
di sapere "se era preferibile abbandonarla del tutto o se era possibile emendarla". Nel
passato l'istituzione è stata emendata più volte e a renderla dinamica e vitale sono stati gli
"emendamenti" che mutamenti tecnologici, cultura e costume hanno imposto agli individui
e alla società. Per il futuro la risposta, ovviamente, verrà con gli anni, ma si deve essere
ben consapevoli che in ogni caso le politiche adottate non sono certo neutrali rispetto alla
soluzione che verrà trovata e alla conseguente risposta che verrà data.
BRA4800 Difficile pensare che esista qualcosa di più caldo del cuore del Sole e più denso del nucleo
di un atomo. Eppure, è proprio quanto hanno ottenuto i fisici del CERN di Ginevra nei loro
acceleratori. Gli esperimenti mostrano prove convincenti dell'esistenza di un nuovo stato
della materia, in cui persino neutroni e protoni si "disintegrano" e i quark che li
costituiscono si muovono liberamente in un plasma 20 volte più denso di un nucleo e 100
mila volte più caldo del Sole. Il risultato è stato annunciato con una conferenza stampa il
10 febbraio scorso cui ha partecipato lo stesso direttore del CERN Luciano Maiani.
Sarebbe la prima volta che questo plasma di quark e gluoni (o più brevemente Qgp) viene
osservato e, se confermato, il risultato sarebbe un'ulteriore conferma della teoria del Big
Bang, l'esplosione primordiale che avrebbe dato inizio all'universo tra 12 e 15 miliardi di
anni fa. Secondo i fisici, infatti, questo stato della materia è esistito solo nei primissimi
istanti successivi al Big Bang. Poi, appena la materia ha iniziato a espandersi e
raffreddarsi, il Qgp si è condensato formando i neutroni, i protoni e le altre particelle
elementari, più o meno come accade al vapore acqueo quando raffreddandosi si
condensa in goccioline d'acqua. La caccia al Qgp è iniziata nel 1994 con un progetto che i
ricercatori hanno scherzosamente battezzato Little Bang. La prima difficoltà era
raggiungere la temperatura e l'energia sufficiente a disintegrare le particelle nucleari
"liberando" i quark che le costituiscono. Il risultato è stato ottenuto facendo collidere tra
loro nuclei di piombo a un'energia di 3,5 Teraelettronvolt (mille miliardi di elettronvolt). I
nuclei di piombo, il cui peso atomico è 208, sono molto più pesanti delle particelle che
normalmente circolano negli acceleratori. I fisici del CERN, composto da scienziati
provenienti da Repubblica Ceca, Francia, India, Italia, Germania, Svezia e Svizzera,
hanno dovuto progettare e costruire strumenti del tutto nuovi, nonché adattare alcuni
vecchi acceleratori del laboratorio di Ginevra, come il Proto Sincrotrone e il Super Proto
Sincrotrone. Ma l'aspetto più complesso dell'impresa è stato senza dubbio riuscire a
osservare effettivamente il Qgp. Il problema è che i fisici possono osservare direttamente
solo i "frammenti" del Little Bang, cioè le particelle che raggiungono i rivelatori. Da questi
segnali bisogna poi ricostruire cosa è avvenuto prima e capire se le particelle rilevate sono
state effettivamente generate dal plasma di quark e gluoni. La faccenda non è affatto facile
e al CERN sono giunti al risultato finale solo dopo aver confrontato e integrato le
osservazioni di ben sette esperimenti indipendenti, ciascuno dei quali doveva cercare una
particolare "firma" del Qgp. Le conclusioni assomigliano dunque a un gigantesco puzzle e
sebbene i comunicati del CERN parlino di "prove circostanziali" i ricercatori sono piuttosto
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fiduciosi di aver osservato effettivamente il Qgp. Infatti, ogni tentativo di interpretare i
risultati dei sette esperimenti utilizzando le normali teorie sull'interazione delle particelle
sono falliti, mentre le osservazioni sono compatibili con l'esistenza del Qgp. "Questo
risultato è un importante passo avanti nella comprensione dell'evoluzione iniziale
dell'universo", ha dichiarato Maiani, "ora la sfida passa ai nostri colleghi del Relativistic
Heavy Ion Collider (Rhic) del Brookhaven National Laboratory e più tardi al Large Hadron
Collider (Lhc) l'acceleratore del CERN". Infatti, tutte le proprietà dello stato della materia
appena scoperto rimangono ancora da studiare ed è proprio questo il compito che
toccherà ai nuovi acceleratori di Brookhaven e del CERN.
BRA5001 Fabrizio si buttò giù per le scale, poi, arrivato sulla piazza, si mise a correre. Era appena
arrivato davanti al castello di suo padre che il campanile suonò le dieci. Ogni colpo gli
echeggiava dentro, a mettergli addosso uno strano turbamento. Si fermò. Voleva riflettere,
anzi, voleva lasciarsi andare alla commozione che la vista di quella casa, guardata con
tanta freddezza il giorno prima, gli ispirava adesso. Un rumore di passi venne a risvegliarlo
dalle sue fantasticherie. Si guardò intorno. Era in mezzo a quattro gendarmi. Fabrizio
aveva intorno alla cintura due ottime pistole appena caricate. Alzò il cane. Il rumore attirò
l’attenzione dei gendarmi, gli fece correre il rischio di essere arrestato. Era in pericolo e
decise che avrebbe sparato per primo. Per fortuna, i gendarmi, che stavano girando per il
paese a far chiudere le osterie, non si erano certo dimostrati insensibili alle premure che
gli erano state usate in molti di quei simpatici locali, e così non furono molto pronti a fare il
loro dovere.
BRA5006 Poiché mi sarebbe stato necessario risalire la corrente almeno per cinquecento metri,
prima di trovare un luogo sgombro di erbe e di giunchi dove poter prender terra, v’erano
per me nove probabilità su dieci di non poter dirigermi in quella bruma e di affogare, per
buon nuotatore che fossi. Cercavo di ragionare. Mi sentivo la volontà fermissima di non
aver per nulla paura, ma in me c’era un’altra cosa, oltre la mia volontà, e questa altra cosa
aveva paura. Mi chiedevo di che cosa potessi temere; il mio io coraggioso derise il mio io
codardo, e mai colsi così bene, come in quel giorno, il contrasto di due esseri che sono in
noi, l’uno che vuole, l’altro che resiste, e ognuno, di volta in volta, vittorioso.
BRA5008 In guerra i civili sono sempre stati esposti a rischi, ma i metodi della guerra moderna
aumentano tali rischi e colpiscono un maggior numero di persone. Le guerre recenti
sembrano caratterizzate da flussi interminabili di fuggiaschi che cercano di sottrarsi alle
violenze e alla fame e vengono rinchiusi in campi di raccolta. Le agenzie occidentali
tentano di dispensare aiuti e protezione, spesso in concorrenza l’una con l’altra e con
autorità politiche o militari che mirano a dominare i profughi. Molte di queste agenzie fanno
del loro meglio, in condizioni spaventose, e spesso con buoni risultati. Ma troppo spesso
l’aiuto che esse sono in grado di offrire è, al massimo, un palliativo a breve termine. La
loro opera e le intenzioni caritatevoli dei loro membri vengono sfruttate a fini politici e
spesso le agenzie sono costrette a diventare parte del problema.
BRA5314 Augusto si era accontentato di una semplice dimora accanto a quella di Livia, sul Palatino;
il primo vero palazzo imperiale, situato sul lato occidentale del colle Palatino, fu quindi la
Domus Tiberiana, sede dei Giulio-Claudi. Questo fino a Nerone: dopo l'incendio del 64
d.C. infatti, l'imperatore volle costruire per sé un nuovo palazzo sfruttando il largo spazio
lasciato nel centro di Roma dai quartieri distrutti dal fuoco, che aveva imperversato più
giorni. Il progetto, dovuto, secondo la testimonianza di Tacito, agli architetti Severo e
Celere, si ispirava alle grandi ville marittime costruite sul Golfo di Napoli, ma era di una
grandiosità inusitata: adagiati tra le colline del Palatino e della Velia, gli edifici occupavano
parte del colle Oppio, gli horti imperiali sull'Esquilino e arrivavano fino al Celio, dove il
tempio del divo Claudio era stato trasformato in ninfeo. Al centro, nella parte più bassa
della valle, era stato creato un lago artificiale, sul quale digradavano i giardini e i boschi
che erano parte integrante del progetto. Ben poco oggi è rimasto della fastosa casa di
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Nerone, che già 34 anni dopo la costruzione fu distrutta in parte da un altro incendio. Nel
104, infatti, Traiano costruì sopra il padiglione del colle Oppio le sue terme, usando le
strutture neroniane come costruzioni; e proprio questa circostanza ha salvato dalla totale
distruzione il grande padiglione conservatosi al di sotto delle terme traianee, l'unico edificio
rimastoci della Domus Aurea. Si tratta di una lunga struttura di circa 150 stanze, affacciate
sui giardini digradanti; gli ambienti, privi di porte, di servizi e di riscaldamento, dovevano
avere una funzione di rappresentanza più che di dimora vera e propria. Sebbene i lavori di
costruzione delle terme traianee abbiano in parte creato divisioni e muri all'interno di essi e
questi abbiano perduto, con l'interramento, tutto il fascino della luce che ne esaltava le
decorazioni e i colori, ancora oggi le strutture di questo edificio sorprendono per la loro
grandiosità. Le pareti anticamente rivestite di marmo, le pitture e gli stucchi delle volte,
l'uso del calcestruzzo per le ardite coperture a botte e a cupola, la decorazione raffinata ed
elegante riempirono di ammirazione anche coloro i quali, alla fine del Quattrocento,
entrarono per caso attraverso i fori delle volte, calandosi letteralmente nei vani riempiti di
terra e riscoprendo la casa di Nerone. La fortuna che nel Rinascimento ebbero le
decorazioni delle "grottesche" (così erano chiamate le stanze neroniane per il loro
interramento) si riscontra nei numerosi disegni rimastici e nelle imitazioni che ne sono
state fatte all'interno di palazzi e dimore rinascimentali. Pittori come Perugino, Filippino
Lippi, Pinturicchio, Ghirlandaio copiarono le eleganti colonnine, i candelabri, le ghirlande e
l'inesauribile diffondersi di viticci, disegni vegetali, animali e quadretti di genere inseriti in
appropriati punti della decorazione generale. Molti dei disegni cinquecenteschi sono oggi
preziosi per avere un'idea più completa della decorazione, allora molto meglio leggibile e
ora spesso del tutto offuscata. Oltre alle pitture la "riscoperta" della Domus Aurea portò
alla messa in luce di opere d'arte che la decoravano: tra le statue rinvenute allora nelle
sue sale vi sono, per fare qualche esempio, il Galata suicida e il Galata morente, il
Laocoonte: splendidi ma limitati resti di una decorazione scultorea che doveva raccogliere
il meglio dei capolavori della statuaria antica. Oggi la visita del padiglione della Domus
Aurea permette di ammirare sia la grandiosità dell'insieme che la preziosità dei particolari
e di farsi un'idea di quello che doveva essere al momento della sua realizzazione il
palazzo di Nerone.
BRA5315 Città del Messico è una città di superlativi: è insieme la più antica (669 anni) e la più alta
(2240 metri) città del continente nordamericano e, con i suoi 22 milioni di abitanti, è la più
popolosa del mondo. è il centro della vita culturale, politica e finanziaria del Messico, in cui
è ancora molto radicata l'eredità azteca. Per capire Città del Messico, è necessario
conoscere com'era prima dell'arrivo dei conquistatores spagnoli nel XVI secolo: la raffinata
e prospera capitale della civiltà azteca. Un migliaio di anni dopo la fine della grande città
tolteca di Teotihuacan, gli Aztechi, che vagavano in cerca della terra promessa da una
profezia, costruirono la loro città dopo avere incontrato un'aquila, che teneva un serpente
nel becco, appollaiata sul ramo di uno spinoso ficodindia. Nel 1325, la data ufficiale della
fondazione di Città del Messico (su cui però non tutti gli storici sono d'accordo), la città fu
fondata in quello stesso luogo. Tenochtitlan, questo era il suo nome, era perfino allora la
più grande città dell'emisfero ovest e, secondo gli storici, una delle tre più grandi della
terra. Tenochtitlan occupava quella che era allora un'isola nel basso lago Texcoco, unita
ad altre città satellite sulle rive (oggi quartieri) da una rete di calzadas (canali e
sopraelevate; oggi superstrade). Quando il conquistador spagnolo Hernan Cortés mise gli
occhi sulla città per la prima volta, fu abbagliato dalla splendida metropoli, che a lui e ai
suoi uomini ricordava Venezia. La conquista fu resa possibile da una serie di fattori: il
superstizioso imperatore azteco Montezuma II credette che il bianco, barbuto Cortés a
cavallo fosse un discendente del potente serpente-dio Quetzalcoatl, il quale, secondo una
profezia tragicamente ironica, era atteso dall'est nell'anno 1519 per governare quella terra.
Di conseguenza, Montezuma accolse il forestiero, offrendogli oro e una sfarzosa
sistemazione. Come ricompensa, Cortés iniziò lo sterminio della popolazione di
Tenochtitlan, che andò avanti per almeno due anni. Si unì a lui un enorme esercito di
indios che odiavano Tenochtitlan, raccolti da altre colonie, ormai stanchi di sopportare il
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dominio e di pagare le tasse dell'impero azteco. Cortés riuscì a distruggere Tenochtitlan
con la forza del loro esercito, un sistema di brigantini costruiti appositamente per
attraversare il lago, con i cavalli, con le armi da fuoco e con le armature importate
dall'Europa; il vaiolo e il raffreddore, inoltre, contribuirono a falcidiare la popolazione. Solo
due secoli dopo la sua fondazione, la giovane capitale azteca giaceva in rovina, con circa
metà della sua popolazione decimata dalla battaglia, dalla fame e dalle contagiose
epidemie europee contro cui non avevano difesa. La conquista portò alla formazione di
una nuova cultura, che è qualcosa di più della combinazione delle sue distinte componenti
etniche; una filosofica targa del 1964 nella Plaza de las Tres Culturas (Piazza delle Tre
Culture), a nord del centro, riassume molto bene la fisionomia generale della città,
affermando: "Il 13 agosto 1521, difesa dall'eroico Cuauhtémoc (successore di
Montezuma), Tlatelolco cadde sotto il potere di Hernan Cortés. Non fu né un trionfo né
una sconfitta. Fu la nascita sofferta della nazione messicana". Cortés iniziò a costruire
Città del Messico, la capitale di quella che lui chiamò patriotticamente Nuova Spagna, la
colonia dell'Impero spagnolo destinata a espandersi verso nord, coprendo quelli che sono
ora gli Stati Uniti del sud e, verso sud, in direzione di Panama. Nel luogo del distrutto
centro rituale azteco - oggi lo Zocalo - cominciò a costruire una chiesa (antenata della
gigantesca Cattedrale Metropolitana), ville ed edifici governativi.
BRA5316 Una piccola schiera di figure nude, di selvaggi, cammina attraverso l'erba alta della
steppa. Portano lance dalla punta d'osso, alcuni hanno persino arco e frecce. Fisicamente
somigliano, è vero, agli uomini dei nostri giorni, ma il loro comportamento ha qualcosa di
animalesco, gli occhi sono inquieti, impauriti, da selvaggina che si sente continuamente
braccata. Non sono ancora uomini liberi, non sono i signori della terra, ma creature
inseguite che in ogni cespuglio temono un pericolo. Sono anche avviliti. Tribù più forti li
hanno da poco costretti ad abbandonare il loro territorio di caccia e a ripiegare nella
steppa verso occidente, in una regione ignota dove le belve sono assai più numerose che
nella loro terra di un tempo. Per di più, poche settimane prima, l'anziano del gruppo,
l'esperto cacciatore che li guidava, è stato ucciso da una tigre dai denti a sciabola. Ma la
sofferenza maggiore per l'orda è la mancanza di sonno. Nella terra dove vivevano prima,
avevano sempre dormito raccolti intorno al fuoco, circondati a una certa distanza da quei
fastidiosi sciacalli, che però facevano per lo meno buona guardia.
BRA5317 Poiché mi sarebbe stato necessario risalire la corrente almeno per cinquecento metri,
prima di trovare un luogo sgombro di erbe e di giunchi dove poter prender terra, v'erano
per me nove probabilità su dieci di non poter dirigermi in quella bruma e di affogare, per
buon nuotatore che fossi. Cercavo di ragionare. Mi sentivo la volontà fermissima di non
aver per nulla paura, ma in me c'era un'altra cosa, oltre la mia volontà, e quest'altra cosa
aveva paura. Mi chiedevo di che cosa potessi temere; il mio io coraggioso derise il mio io
codardo, e mai colsi così bene, come in quel giorno, il contrasto di due esseri che sono in
noi, l'uno che vuole, l'altro che resiste, e ognuno, di volta in volta, vittorioso.
BRA5318 In guerra i civili sono sempre stati esposti a rischi, ma i metodi della guerra moderna
aumentano tali rischi e colpiscono un maggior numero di persone. Le guerre recenti
sembrano caratterizzate da flussi interminabili di fuggiaschi che cercano di sottrarsi alle
violenze e alla fame e vengono rinchiusi in campi di raccolta. Le agenzie occidentali
tentano di dispensare aiuti e protezione, spesso in concorrenza l'una con l'altra e con
autorità politiche o militari che mirano a dominare i profughi. Molte di queste agenzie fanno
del loro meglio, in condizioni spaventose, e spesso con buoni risultati. Ma troppo spesso
l'aiuto che esse sono in grado di offrire è tutt'al più un palliativo a breve termine. La loro
opera e le intenzioni caritatevoli dei loro membri vengono sfruttate a fini politici e spesso le
agenzie sono costrette a diventare parte del problema.
BRA5320 Biblioteca senza fine, ipermercato per acquisti, ambiente per socializzare, alcova virtuale,
rifugio per criminali, droga che dà dipendenza. Definire il ruolo preciso di Internet nei
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meccanismi della vita quotidiana è sempre più difficile. E non finisce qui: il diffondersi della
rete sembra contribuire a un nuovo modello di sviluppo sostenibile. A questa conclusione
è giunto uno studio riguardante esclusivamente la realtà statunitense, del Center for
Energy and Climate Solutions (Cecs), società con sede in Virginia, che collabora con
numerose agenzie federali e grandi organizzazioni ambientaliste. I dati della ricerca
evidenziano una crescita economica nel '97 e '98 del 4% annuo. Nello stesso biennio la
richiesta di energia è cresciuta in maniera quasi impercettibile, facendo registrare
l'incremento più basso da cinquanta anni a questa parte. Ma il dato veramente singolare è
un altro. Nonostante l'impennata, l'energia necessaria per ottenere l'equivalente di un
dollaro di Prodotto Interno Lordo è diminuita. Facendo misurare sia nel '97 che nel '98 una
flessione del 4%. Tutto questo è avvenuto in un biennio in cui il costo dell'energia era
quanto mai conveniente, considerando che dal 1986 i prezzi erano in discesa continua e
costante. E sorpresa gradita agli ambientalisti, e non solo, l'emissione, nel 1998, dei
"greenhouse gas" - i gas ritenuti responsabili dell'effetto serra - è cresciuta "solamente"
dello 0,2 per cento. Come dichiarano gli autori, "se, come molti credono, esiste una nuova
economia (ovvero l'economia legata alle nuove tecnologie di cui Internet è attore
fondamentale) deve esistere anche una nuova economia dell'energia che dovrebbe avere
profondi impatti sulle risorse energetiche e sull'ambiente". Secondo le prime analisi
dell'Epa, l'agenzia federale per la protezione dell'ambiente, e dell'Argonne National
Laboratory la riduzione di energia per dollaro di PIL è figlia, per un terzo, del settore al
momento trainante dell'economia americana: l'information technology. Un settore
intrinsecamente a bassa intensità energetica se si considera il tipo di produzione: per
produrre un software, infatti, è necessaria meno energia che per un'automobile. I rimanenti
due terzi provengono da una maggiore efficienza del ciclo produttivo dei settori tradizionali
di produzione. La bacchetta magica di tutto ciò? Internet. Nello studio del Cecs si
sottolinea come l'avvento della rete rende più efficace il sistema di produzione, trasporto e
vendita: "Non esiste spreco più grande di energia che fabbricare il prodotto sbagliato,
trasportarlo in negozio e lasciarlo invenduto", afferma Joseph Romm, uno degli autori del
documento. E le nuove tecnologie di comunicazione permettono di prevedere in tempo
reale le richieste dei consumatori riducendo le sovrapproduzioni e le scorte inutili di
materie prime. E si risparmia anche nelle infrastrutture. Un esempio su tutti: la più grande
libreria del mondo oggi è virtuale, Amazon. E poi ancora il telelavoro che contribuisce a
ridurre gli spostamenti del personale. Questo significa meno uffici, meno macchine in giro
e trasporti merci ridotti. Ovvero minore necessità di combustibile e conseguente risparmio
di energia. Con una ricaduta ambientale non da poco vista la dipendenza dell'economia da
combustibili di origine fossile, fonti primarie dei gas serra.
BRA5322 Sia in termini geografici che in termini socioculturali, la definizione del mondo arabo, che
coincide per certi aspetti con la ricerca di identità degli arabi, presenta notevoli problemi.
Storicamente il cuore di questa realtà, che è insieme un popolo e una civiltà, sarebbe la
penisola arabica. Ma - a parte il prestigio che la Mecca e i "luoghi santi" dell'Islam hanno
comunque mantenuto nel corso dei secoli, assicurando di conseguenza un potere
misurabile anche sul piano politico ed economico alle dinastie che si sono assunte la
funzione di loro "custodi" (si è formato qui il solo Stato che porta il nome di Arabia, benché
con un aggettivo, Saudita, che ne limita la portata) - il centro di gravità della "nazione
araba" è andato spostandosi con il tempo nella regione siro-palestinese, Mezzaluna o
"Crescente" fertile, estendibile alla Mesopotamia, dove (a Beirut, Damasco e
Gerusalemme) è sorto, attraverso l'elaborazione degli intellettuali e l'attività di
organizzazioni politiche, il nazionalismo arabo moderno. Con l'apparizione della potenza
petrolifera, la struttura del mondo arabo si è nuovamente rimodellata a vantaggio dell'area
del Golfo. Un altro polo - fuori del Vicino o Medio Oriente - è ravvisabile nel Nord Africa,
che ha sempre conosciuto una vicenda autonoma rispetto alle "capitali" dell'islamismo o
dell'arabismo, ma che ciononostante appartiene a pieno titolo alla loro storia. Il caso
dell'Egitto (o della Valle del Nilo se si vuole considerare anche il Sudan) si pone a sé,
perché - oltre a essere dotato di un suo nazionalismo territoriale non riconducibile né
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all'Islam né all'insieme dei popoli arabi (e che alle volte viene detto appunto "faraonico") fa in un certo senso da elemento di congiunzione fra i due o tre sottosistemi regionali. Il
mondo arabo è fortemente caratterizzato dall'Islam, che è una religione-ideologia con la
pretesa di regolare le istituzioni pubbliche e la vita sociale. La rilevanza politica dell'Islam è
uscita ancora ravvivata dall'esperienza coloniale, con i suoi effetti alienanti. La cultura
islamica si ripropone anche attraverso la lingua araba, che è in fondo il criterio più sicuro
per qualificare gli arabi (chi parla arabo è arabo). Tuttavia, sebbene per molti motivi sia
l'Islam "l'avvenimento centrale" per gli arabi, che anche nell'epoca moderna e
contemporanea troveranno nell'Islam una personalità storico-culturale da contrapporre in
toto all'Occidente, il mondo arabo non va confuso con il più vasto universo musulmano, di
cui è parte integrante e determinante, sia perché esiste un'etnia araba prima dell'Islam e lo
stesso Maometto si riferiva agli arabi come a un popolo già costituito, sia perché
dell'universo islamico fanno parte, in Asia e nell'Africa subsahariana, Stati e popoli molto
diversi dagli arabi anche ai fini delle vicende della colonizzazione e della
decolonizzazione. L'indipendenza dei Paesi arabi segue tragitti alquanto tormentati, dando
vita a entità statali che trovano la loro ragion d'essere in compromessi di carattere pattizio
o dinastico, nel contesto generale dell'emancipazione della nazione araba dalla sua
dipendenza e dalla sua crisi. Meglio definiti sono i contorni nazionali degli Stati arabi nel
Nord Africa. Se negli anni fino alla prima guerra mondiale il termine antagonistico della
rinascita era stato l'Impero ottomano, il movimento indipendentista si è rivolto in seguito
contro il colonialismo della Francia e della Gran Bretagna o - in termini più globali - contro
l'imperialismo di parte occidentale. Si passa così al secondo livello del nazionalismo
arabo. Comunemente si parla di panarabismo, ma non si tratta a rigore di una somma di
più nazionalismi territoriali perché la nazione araba preferisce definirsi nella sua totalità,
attribuendo a circostanze indebite, accidentali o predeterminate a soddisfare interessi
altrui, la frammentazione della nazione araba in Stati. Poiché però l'indipendenza è
avvenuta su basi territoriali o subnazionali, e anche la lotta per l'indipendenza si è svolta
avendo intanto come finalità lo spazio nazionale limitato della colonia o del mandato, il
panarabismo ha finito per presentarsi come un movimento parallelo, persino posteriore al
nazionalismo.
BRA5324 Fabrizio si buttò giù per le scale, poi, arrivato sulla piazza, si mise a correre. Era appena
arrivato davanti al castello di suo padre che il campanile suonò le dieci. Ogni colpo gli
echeggiava dentro, a mettergli addosso uno strano turbamento. Si fermò. Voleva riflettere,
anzi, voleva lasciarsi andare alla commozione che la vista di quella casa, guardata con
tanta freddezza il giorno prima, gli ispirava adesso. Un rumore di passi venne a risvegliarlo
dalle sue fantasticherie. Si guardò intorno. Era in mezzo a quattro gendarmi. Fabrizio
aveva intorno alla cintura due ottime pistole appena caricate. Alzò il cane. Il rumore attirò
l'attenzione dei gendarmi, gli fece correre il rischio di essere arrestato. Era in pericolo e
decise che avrebbe sparato per primo. Per fortuna, i gendarmi, che stavano girando per il
paese a far chiudere le osterie, non si erano certo dimostrati insensibili alle premure che
gli erano state usate in molti di quei simpatici locali, e così non furono molto pronti a fare il
loro dovere.
BRA5326 Vladimir Nabokov nacque il 23 aprile 1899 a San Pietroburgo, al 47 di via Morskaia
(attualmente via Herzen), in un ambiente aristocratico liberale e anglofono. Figlio maggiore
di una famiglia di cinque ragazzi, Vladimir Nabokov beneficia, con i suoi fratelli e le sue
sorelle, di una educazione trilingue. Questo trilinguismo dell'infanzia sarà determinante per
la sua opera di scrittore russo, poi americano. L'autore viaggia al principio del secolo in
Europa con i suoi genitori, scopre la passione per i lepidotteri e gli scacchi, la felicità di
vivere vicino a una "biblioteca di diecimila opere". Tra il 1911 e il 1917 segue i corsi
dell'Istituto Ténichev a San Pietroburgo, e la sua prima opera, una raccolta di poesie
stampate in 500 esemplari, comparve a titolo privato nel 1916. La Rivoluzione del 1917
interrompe brutalmente questa infanzia idilliaca. Il padre dell'autore, Vladimir Dimitriévitch
Nabokov, eminente giurista e figlio di un anziano ministro della Giustizia, era membro del
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Partito costituzionale democratico e della prima Duma del 1906 (il primo ed effimero
parlamento russo). Oppositore determinato del dispotismo dello zar, aveva conosciuto la
prigione nel 1908. Al principio del 1917, fa parte del Governo provvisorio di Kerenski e
della nuova Assemblea costituente. La Rivoluzione d'ottobre costringe i Nabokov a
rifugiarsi dapprima in Crimea. Il 15 aprile 1919, la famiglia lascia definitivamente la Russia
con destinazione Londra. Tra il 1919 e il 1923, Vladimir Nabokov studia letteratura russa e
francese a Cambridge (Trinity College). Suo padre, che si è installato a Berlino con il resto
della famiglia per dirigere con Hessen il giornale emigrato Roul, è assassinato da fascisti
russi nel marzo 1922. È in questo giornale di Berlino, così come nei giornali russi emigrati
di Parigi, che Nabokov fa comparire poesie, articoli di critica, traduzioni dal francese o
dall'inglese, poi le sue prime novelle e estratti dei suoi primi romanzi. A partire dal 1923,
con la comparsa della sua traduzione russa di Alice nel Paese delle meraviglie, poi dei
suoi propri romanzi, in particolare La difesa di Luzin (1930), Camera oscura (1932), La
svista (1936) e soprattutto Il dono (1937), Nabokov si impone come il più eccezionale
romanziere russo del suo tempo. Residente a Berlino dal 1923 al 1937, l'autore che ha
sposato Vera Evseievna Slonim il 15 aprile 1925 si installa, per fuggire il nazismo, a Parigi
all'inizio del 1937, dove alcuni suoi libri sono già stati tradotti in francese. Lo scrivano
poliglotta, che firmava le sue opere russe con lo pseudonimo di Sirine, comincia a
metamorfizzarsi in uno scrittore in lingua inglese. Dopo aver tradotto, non senza
rimaneggiarli, due suoi romanzi russi in inglese, La svista che diviene Disperazione
(Londra, 1937) poi Camera oscura ribattezzata Risa nel buio (New York, 1938), Nabokov
scrive a Parigi nel 1938 il suo primo romanzo in lingua inglese, La vera vita di Sebastian
Knight, che comparirà solo nel 1941, cioè un anno dopo il suo arrivo in America, il 28
maggio 1940. Tutta l'opera di Nabokov sarà ormai scritta in inglese. Nominato professore
alla Stanford Univeristy nel 1941, accetta successivamente un posto di entomologo al
Museo di zoologia comparata di Harvard, tenendo tuttavia lezioni di letteratura al
Wellesley College. L'amicizia e il sostegno di Edmund Wilson e di Mary McCarthy, poi dei
responsabili del New Yorker, gli permettono di acquisire un ascolto che non aveva mai
sperato. Nominato professore di letteratura alla Cornell University nel 1948, tiene lezioni
su "I grandi maestri europei del romanzo", e questo fino al 1959, un anno dopo il successo
dello scandalo di Lolita (pubblicato prima in inglese a Parigi, da Olympia Press, nel 1955),
che gli permette di vivere grazie alla sua penna e fa scoprire un'opera immensa.
BRA5327 A Gabriele D'Annunzio fu chiesto una volta se sapeva il tedesco. Rispose di no, ma
aggiunse che "se lo immaginava". Un granduca russo, alla fine di un recital a corte di un
valentissimo giovane pianista e compositore, gli chiese di suonargli il "Chiaro di Luna " di
Cajkoskij. Gli astanti musicalmente smaliziati rimasero di sasso. Sua altezza aveva
grossolanamente equivocato sul nome del compositore. Infatti, di chiari di Luna noti e
amati ce ne sono solo due, quello di Beethoven e quello di Debussy. Nessuno,
ovviamente, si azzardò a correggere il granduca. Il pianista, imperterrito, tra la
stupefazione generale, suonò un piacevole brano che nessuno seppe riconoscere. Finiti
gli applausi, il granduca mormorò deluso: "Bello, ma non era questo che volevo sentire". Il
pianista si inchinò: "Altezza, penso che, se Cajcoskij avesse scritto un "Chiaro di Luna", lo
avrebbe scritto più o meno così". Questa facoltà di immaginativa ricostruzione ci può
consentire di classificare, alla buona, tra di noi, le scienze naturali. A un polo troviamo
quelle che, come la chimica, sono rette da pochi principi basilari, e da una ferrea logica
interna. Scienze nelle quali si tratta essenzialmente di applicare questi principi e questa
logica a una sequela di fatti concreti. Sono scienze non troppo lontane dalla matematica, i
cui fatti si possono in larga misura, appunto, immaginare, cioè ricostruire in proprio con il
ragionamento. Di solito, per caratterizzarle, si usa il termine di scienze "deduttive". La
regina di queste è, naturalmente, la fisica. Anche la biologia si è progressivamente
conquistata un posto solido tra queste. Oggi si studiano, anche nelle scuole secondarie,
testi di biologia che partono dai meccanismi dell'evoluzione, dalla struttura dei geni e dagli
equilibri genetici, deducendo da questi una sequela di interessanti applicazioni specifiche.
Al polo opposto troviamo, invece, le scienze che, come la botanica e l'anatomia,
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collezionano fatti e li raggruppano in modo sistematico. I fatti di queste scienze non si
possono "immaginare" in alcun modo. Qui il ragionamento non può supplire alla memoria.
Di solito si caratterizzano con il termine di scienze "tassonomiche" o "sistematiche".
BRA5328 Nel 1962, il controllo degli armamenti non andava oltre gli studi accademici. La crisi di
Cuba è dell'ottobre-novembre 1962, il primo accordo americano-sovietico di sospensione
parziale degli esperimenti nucleari è del luglio 1963. Quanto a me, io mostravo un grande
scetticismo circa le probabilità di disarmo o di riduzione degli armamenti. Gli avvenimenti
non hanno contraddetto il mio scetticismo: su questo punto più che su ogni altro la
Repubblica americana non può venire considerata un attore individuale. Prima di fare
qualche osservazione sul controllo degli armamenti, torno alla crisi di Cuba. G.A. Allison
ha scritto un libro appassionante sui giorni trascorsi fra la scoperta dei missili sovietici a
Cuba e la decisione, prima, della quarantena, poi della liquidazione della crisi. Il libro
dimostra fino a che punto le persone hanno avuto peso nelle discussioni, sino a che punto
ciascuno obbediva agli interessi del settore cui apparteneva. Forse il libro vuol suggerire
che si sarebbe potuta prendere un'altra decisione, che avrebbe comportato rischi enormi.
La pace o la guerra dipendevano forse da quelle lunghe discussioni; l'amministrazione non
era assediata dal tempo; poteva riflettere. Anche in questo caso, straordinariamente
favorevole alla tesi suggerita, mi pare legittima un'altra prospettiva sulla crisi. Il Presidente
aveva dichiarato che non avrebbe tollerato armi offensive a Cuba. Era già deciso che J.F.
Kennedy avrebbe preteso e ottenuto il ritiro dei missili. Si discuteva dei modi per arrivare
allo scopo correndo il minimo di rischio. Il Presidente escluse l'attacco alle rampe di lancio
per due ragioni, ciascuna delle quali bastava probabilmente a scartare l'ipotesi. Gli aviatori
non garantivano una distruzione del 100%, certi consiglieri condannavano l'immoralità di
una simile operazione. Una volta escluso l'intervento chirurgico, rimaneva la pressione
diplomatica, sostenuta dalla minaccia di una invasione preparata con ostentazione.
L'Unione Sovietica cedette a un semi-ultimatum, ma ottenne in cambio il ritiro dei missili
americani dalla Turchia e la promessa americana di non attaccare Cuba (promessa
teoricamente caduta per il rifiuto di Fidel Castro di accettare il controllo che J.F. Kennedy
esigeva come contropartita della promessa). Il Presidente dipendeva dai suoi informatori
(furono commessi errori, le informazioni essenziali giunsero con un ritardo di tre
settimane); dipendeva dalla CIA, dai Capi di Stato Maggiore delle tre armi, dai suoi
consiglieri personali. Ma, dettagli a parte, lo svolgimento corrispose alla razionalità
dell'attore: bisognava obbligare i sovietici a togliere i loro missili nel modo più civile
possibile (per quanto questa esigenza non si basasse su alcuna regola di diritto
internazionale). Ci riuscì, ma scendendo a un compromesso, a concessioni, dato che
giudicava rischioso umiliare una grande potenza, capace di reagire se spinta all'estremo.
Probabilmente le concessioni non erano necessarie, ma risultavano dal codice
d'interpretazione del Presidente e dei suoi consiglieri.
BRA5329 Le drammatiche vicende della guerra sul suolo italiano avrebbero mostrato che tre forze si
sarebbero contese il dominio del Paese: gli Alleati, i comunisti, la Democrazia cristiana.
Cominciamo con l'osservare in dettaglio ognuna di loro visto che le rispettive strategie
determinarono in larga misura il futuro assetto politico della penisola. Dall'estate del 1943
gli Alleati, e gli inglesi in particolare, rivendicarono per sé l'Italia. Il controllo del
Mediterraneo era un obiettivo strategico tradizionale dell'Inghilterra, e gli americani
accondiscesero al desiderio britannico di avere un ruolo preponderante in quell'area. I
Russi furono rapidamente esclusi da ogni controllo diretto sui destini della penisola.
Malgrado le rabbiose proteste di Stalin, l'idea di una commissione congiunta dei tre grandi
per decidere i termini dell'armistizio con l'Italia fu presto abbandonata. La forza delle armi
decideva ormai tutto. Quando Churchill e Stalin si incontrarono al Cremlino nell'ottobre
1944, si divisero l'Europa tra loro: gli Alleati in Occidente, i russi in Oriente. L'accordo non
era del tutto chiaro rispetto allo status di alcuni paesi, soprattutto la Iugoslavia e la Grecia,
ma non sussistevano dubbi circa il destino dell'Italia. Churchill confidò casualmente a
Stalin che non aveva un gran rispetto per il popolo italiano. Stalin concordò affermando
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che era il popolo italiano che aveva prodotto Mussolini, un commento difficilmente
inseribile in qualsiasi conosciuta analisi di classe sulle origini del fascismo. Gli inglesi
erano dunque l'elemento esterno che aveva maggiore influenza sull'Italia, e qualsiasi
riassunto dei loro atteggiamenti non ispira un giudizio incoraggiante. Churchill era stato in
passato un ammiratore di Mussolini e aveva elogiato, persino dopo il 1945, il modo in cui
questi aveva salvato il popolo italiano dal bolscevismo a cui si stava abbandonando nel
1919, mettendo l'Italia in una posizione che essa non aveva mai avuto all'interno
dell'Europa. Il primo ministro inglese si era molto rammaricato che il Duce avesse scelto
l'alleato sbagliato: "non capì mai la forza della Gran Bretagna, né le sue capacità di
resistenza e la sua forza marittima. Per questo procedette verso la rovina". La principale
preoccupazione di Churchill era di difendere ciò che egli chiamava "i tradizionali rapporti di
proprietà" dalla minaccia aggressiva del comunismo. Egli voleva che il re rimanesse al suo
posto, o che vi restasse perlomeno il figlio Umberto. Non era interessato a sradicare il
fascismo dall'apparato statale italiano ed era contento, come ha scritto Pavone "di offrire
l'immunità in cambio dell'obbedienza". Per lo statista inglese, Vittorio Emanuele e Badoglio
costituivano la migliore garanzia di continuità dell'ordinamento tradizionale, ed anche i più
compiacenti interlocutori che gli inglesi potessero trovare. Churchill dava poca importanza
all'antifascismo italiano. Di Croce aveva detto che era "un professore nano", e nel febbraio
1944 fece un discorso famoso ed offensivo, schierandosi a favore della monarchia e
contro il Cnl: "Quando bisogna tenere in mano una caffettiera è meglio non romperne il
manico fino a quando non se ne è trovato uno nuovo altrettanto conveniente e utilizzabile
o almeno fino a quando non c è uno strofinaccio per le mani".
BRA5330 Il parlare dello "scopo" dell'attività scientifica può forse suonare un po' ingenuo; è chiaro,
infatti, che scienziati differenti si propongono scopi differenti, e che la scienza in se stessa
(qualunque cosa ciò possa significare) non ha scopi. Tutto questo lo ammetto. E tuttavia
sembra che quando parliamo di scienza ci rendiamo conto più o meno chiaramente che
esiste qualcosa che è caratteristico dell'attività scientifica; e poiché l'attività scientifica ha
tutto l'aspetto di un'attività razionale e l'attività razionale deve avere qualche scopo, può
darsi che il tentativo di descrivere lo scopo della scienza non sia del tutto futile. Secondo
ciò che intendo proporre, lo scopo della scienza è quello di trovare spiegazioni
soddisfacenti di tutto ciò che ci colpisce come bisognoso di spiegazione. Per spiegazione
(o spiegazione causale) si intende un insieme di asserzioni, una delle quali descrive lo
stato di cose che si deve spiegare l'explicandum, mentre le altre, le asserzioni esplicative,
costituiscono la "spiegazione" nel senso più stretto della parola (l'explicans
dell'explicandum). Possiamo ritenere, di regola, che la verità dell'explicandum sia più o
meno ben nota o che si assuma che lo sia. Non ha infatti molto senso il chiedere la
spiegazione di uno stato di cose che può rivelarsi del tutto immaginario (possiamo
illustrare un caso del genere ricorrendo all'esempio dei dischi volanti: ciò di cui abbiamo
bisogno non è, forse, la spiegazione dei dischi volanti, ma quella dei resoconti delle
apparizioni dei dischi volanti; tuttavia, se i dischi volanti esistessero davvero, non ci
sarebbe più bisogno di altre spiegazioni di tali resoconti). D'altra parte l'explicans, che
costituisce l'oggetto della nostra ricerca, non sarà, di regola, noto, ma dovrà essere
scoperto. Così, la spiegazione scientifica, in tutti i casi in cui costituisca una scoperta, sarà
la spiegazione del noto mediante l'ignoto. Per essere soddisfacente (l'essere
soddisfacente può essere questione di grado) l'explicans deve soddisfare un certo numero
di condizioni. In primo luogo deve implicare logicamente l'explicandum. In secondo luogo
l'explicans dev'essere vero, anche se, in generale, la sua verità non è nota; in ogni caso
non deve risultare falso, neanche in seguito all'esame critico più serrato. Se non sappiamo
che è vero (e di solito accade proprio così), devono esistere prove indipendenti in suo
favore; o, in altre parole, l'explicans deve poter essere controllabile indipendentemente:
sarà tanto più soddisfacente quanto più indipendenti e quanto più severi saranno i controlli
che ha superato. Così, devo ancora chiarire l'uso che io faccio dell'espressione
"indipendente" e quello delle espressioni opposte: "ad hoc" e (nei casi estremi) "circolare".
Sia a un explicandum che sappiamo vero; poiché, come è evidente, a segue da a stesso,
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possiamo sempre offrire a come spiegazione di se stesso. Ma ciò sarebbe altamente
insoddisfacente, anche se, in questo caso, sapremmo che l'explicans è vero e che
l'exlicandum segue da esso. Dobbiamo perciò escludere le spiegazioni di questo tipo, a
causa della loro circolarità. Ma il tipo di circolarità che ho in mente è questione di grado.
Consideriamo il dialogo che segue: "Perché oggi il mare è agitato?" "Perché Nettuno è
molto arrabbiato". "Ma quale prova puoi portare a sostegno della tua asserzione che
Nettuno è molto arrabbiato?" "Oh, ma non vedi come è agitato il mare? E il mare non è
sempre agitato quando Nettuno è arrabbiato?" Troviamo insoddisfacente questa
spiegazione, perché (proprio come nel caso della spiegazione pienamente circolare), la
sola prova dell'explicans è l'explicandum stesso.
BRA5331 M'ama o non m'ama? Milioni di romantici innamorati cercano una risposta, forse illusoria,
sfogliando disciplinatamente la regolamentare margherita; ed è motivo di meraviglia che
esistano ancora margherite con i petali tutti al loro posto, stante il numero elevato degli
innamorati e stante il fatto che in amore le certezze sono davvero poche. Ma se negli affari
di cuore ogni cosa appare sfuggente, incerta, contraddittoria, possiamo almeno consolarci
al pensiero che in altri campi ci sono sicurezze assolute e indiscutibili? Se ci pensiamo
bene, dobbiamo riconoscere che le situazioni che consentono di mettere tranquillamente
la mano sul fuoco sono meno di quanto si potrebbe credere a prima vista. Nel giorno di
ferragosto a Roma, farà caldo? Quasi certamente sì. Lanciando 100 volte una moneta
verrà sempre testa? Quasi certamente no. Però... però c'è pur sempre un quasi che ci
separa dalla certezza, perfino davanti a eventi piuttosto scontati! La verità - fastidiosa, ma
inesorabile - è che nella vita è molto raro che si possa essere proprio certi di qualcosa. Ciò
non toglie che noi tutti saggiamente rifiutiamo di farci paralizzare dal margine di incertezza
che è insito nelle cose, e "scommettiamo" sul verificarsi di certi eventi: i romani prenotano
alberghi in località di mare o di montagna per il ferragosto, i giocatori puntano sul fatto che
il numero di teste e di croci, in 100 lanci, sia più o meno equilibrato. Insomma, pur
consapevoli dell'esistenza di un margine di rischio, non ci tiriamo indietro e operiamo
scelte in condizioni di incertezza. Le decisioni che prendiamo nelle numerosissime
situazioni in cui disponiamo di una quantità di informazioni non sufficiente per avere la
certezza del verificarsi o meno di un evento sono guidate da una valutazione
probabilistica. Per millenni tale valutazione - anche nei casi più semplici - è stata condotta
"a occhio", sulla base di ragionamenti informali o di esperienze non quantificate. Ad
esempio, l'abitante di una popolosa città dove ogni anno, attraverso un sorteggio,
venivano scelti i dieci cittadini tenuti a sacrificare ciascuno un vitello alla divinità locale,
avrebbe potuto giudicare tale usanza molto nobile e pia, nella (fondata) speranza che nel
corso della sua vita non sarebbe mai toccato a lui privarsi del vitello: il gran numero degli
abitanti della sua città e la positiva esperienza degli anni precedenti fornivano un
sufficiente conforto alla sua magnanimità (e al suo ottimismo). Solo in tempi relativamente
recenti (a partire dal diciassettesimo secolo) si sviluppa il tentativo di basare le valutazioni
di probabilità su considerazioni di tipo quantitativo. Tale tentativo coincide con la
fondazione di un capitolo della matematica del tutto nuovo e originale, il cosiddetto calcolo
delle probabilità. La nascita del calcolo delle probabilità è sollecitata da curiosità e
problemi che prendono forma in ambienti piuttosto lontani da scuole e accademie: furono
gli accaniti giocatori che passavano le loro serate nelle sale da gioco o nelle taverne ad
avvertire per primi l'esigenza di un modo rigoroso e "scientifico" di valutare la probabilità.
Paradossale? Non troppo. In effetti, a ben rifletterci, sale da gioco e taverne costituivano i
"laboratori" ideali della nuova scienza. Infatti è nel gioco che i problemi della probabilità si
presentano in forma semplice e "pulita", all'interno di esperienze ripetibili e indipendenti da
circostanze esterne e accidentali. Prendiamo ad esempio il gioco dei dadi: è possibile
analizzare in modo sistematico le configurazioni che si possono presentare, effettuare
calcoli, fare previsioni e verificarle attraverso delle prove; in una parola, è possibile e
abbastanza naturale procedere in direzione di una matematizzazione. Altra cosa, ben
diversa e ben più difficilmente formalizzabile, è fare previsioni e calcoli rispetto al prossimo
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raccolto di riso o rispetto alle reazioni della popolazione a un determinato provvedimento
delle autorità.
BRA5332 Alla vigilia della prima guerra mondiale tutta l'industria automobilistica italiana, così come
gran parte di quella europea, non è ancora in grado di andare oltre la fase di produzione in
piccola serie, a differenza di quanto sta accadendo all'industria automobilistica
statunitense già avviata alla produzione di massa. Come è noto, le ragioni di questa
situazione sono rintracciabili nella relativa modestia del mercato interno, con le sue
caratteristiche d'élite, che ancora non ha fatto uscire il nuovo mezzo di trasporto
dall'eccezionalità di un prodotto rivolto a sportivi e appassionati. La personalizzazione
della vettura è ancora il tratto dominante e questo influenza la mentalità dei primi
imprenditori, orientata prevalentemente agli aspetti tecnici del prodotto e ben poco alle
esigenze della produzione e della commercializzazione. Ma mentre per la Fiat questa
circostanza è vissuta come un limite al quale si cerca di porre rimedio fin dai primi anni di
vita, cosicché l'azienda si trova pronta a cogliere le opportunità della grande produzione
bellica, nel primo conflitto mondiale, non solo nelle sue strutture ma soprattutto nella
mentalità e predisposizione organizzativa del suo vertice, la Lancia tende
consapevolmente a rimanere agganciata a un modo di produrre meno standardizzato e
invece più attento alle richieste di una fascia ristretta del mercato. Di qui il permanente
interesse per le gare sportive in quanto luogo di confronto con i processi innovativi, la
precoce presenza sui mercati internazionali, la costante ricerca dell'eccellenza tecnica che
finisce per influenzare direttamente e indirettamente tutte le funzioni aziendali, dalla
produzione al marketing alla finanza, fino a costruire una vera e propria cultura aziendale.
L'analisi dei dati estratti dalle cartelle del personale impiegatizio potrà confermare o meno
questa ipotesi; essa certo già emerge dagli organigrammi funzionali ricavati indirettamente
dalla stessa fonte: non si spiegherebbe altrimenti la relativa precoce complessità
strutturale della Lancia a fronte della centralizzazione gestionale attuata da Vincenzo
Lancia. Per tale ragione non credo si possa parlare di un ritardo della Lancia che si protrae
nel tempo, secondo una visione evoluzionistica dell'industria automobilistica; si ha
l'impressione di essere di fronte invece a una consapevole scelta industriale fondata su
parametri del tutto peculiari, quali la propensione intellettuale del suo fondatore, la
remuneratività precoce del mercato interstiziale prescelto, l'accumulo in azienda di una
vocazione tecnica da valorizzare. Quest'ultimo fattore in particolare è espresso in forme
singolari dall'iconografia raccolta e commentata dalla Valtorta. Qui ancora una volta si
dimostra l'importanza della fotografia industriale come fonte interpretativa sia dell'oggetto
ripreso sia del soggetto promotore del documento fotografico. Non di rado la fotografia
supplisce alle lacune ormai irreparabili nella documentazione su alcuni aspetti
fondamentali della storia aziendale, si pensi soltanto alle tecnologie, agli impianti, alle
condizioni di lavoro. È certo il caso della Lancia per il periodo tra la prima guerra mondiale
e gli anni trenta. C'è tuttavia da chiedersi se sapranno mai gli storici con la loro attuale
professionalità sfruttare appieno questa fonte.
BRA5333 Assumere una maschera triste oppure allegra, così come travestirsi con abiti aristocratici o
plebei, implica una scelta di ruolo; chiunque abbia partecipato a una festa in maschera, al
Carnevale di Venezia, alla sfilata di Viareggio, sa che il comportamento di ciascuno si
modella sul personaggio interpretato. A loro volta gli osservatori si attendono che
Arlecchino sia saltellante, il Vampiro terrifico, Messalina seducente, il Doge regale.
Nell'assunzione del ruolo si esprime una ricerca di identificazione, spesso il desiderio di
sperimentare, sia pure per un breve tempo e in un contesto particolare, un'altra vita.
Desiderio di tutti e di tutte le epoche, come è testimoniato dalle rappresentazioni
drammatiche e teatrali e, perché no, dalla complicità con cui vengono accolte le maschere.
Il travestimento è una cosa seria. Bisogna stare al gioco sia da interpreti che da spettatori.
Si dà luogo a un effetto catartico, di scarica delle tensioni cui condanna la consueta realtà:
il dirigente d'azienda si veste da Pierrot e l'educatrice da Angelica o da Gianburrasca; a
loro volta uno studente del primo anno di fisica può impersonare Einstein, manifestando
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un'ambizione che non confesserebbe neppure a sé stesso, e un impiegato di banca
travestirsi da Gengis Khan. Per qualche ora, per un giorno, ciò è perfettamente lecito. Dà il
piacere dell'insolito. Permette all'altra parte di sé di manifestarsi e l'esperienza non è fonte
di ansia perché non viene posto davvero in discussione il proprio modo di essere. Gli altri
non conoscono la nostra vera identità; si può ridere, parlare forte, lasciarsi andare a
scherzi un po' spinti. E se la conoscono fa lo stesso. Tutti stanno al gioco. A questo
complesso di sensazioni proprie e altrui si deve probabilmente l'immenso successo delle
celebrazioni di Carnevale che ogni anno coinvolgono uomini e donne a milioni in una
sarabanda di canti, di colori, di clamore. Purtroppo l'allentarsi delle inibizioni può anche
condurre a eccessi pericolosi e asociali. Non a caso l'indossare in pubblico una maschera
è vietato da molte legislazioni. Mutarsi il volto con un'immagine tragica o buffonesca sia
pure di cartapesta, con un viso anonimo o celebre, costituisce anche una rivalsa della
gente comune. Come sarebbe altrimenti possibile a chi non è professionista della parola e
del gesto impersonare dignitosamente stati d'animo, personaggi, situazioni? La maschera
dà sicurezza, permette di calarsi nella parte prescelta senza troppi problemi e di tornare se
stessi in modo assai semplice: basta toglierla. Addestramento e sensibilità interpretativa
sono invece richiesti in abbondanza agli attori. Essi devono saper evidenziare le azioni
(movimenti, parole, discorsi) che le persone pongono in essere per averle coscientemente
apprese oppure assimilate in maniera inconsapevole o perché innate. E così pure devono
individuare gli atti, ovvero i contenuti intenzionali delle azioni. Accentuare taluni aspetti o
certi altri, a seconda dei casi, significa interpretare tipi umani diversi. Nell'osservazione del
comportamento altrui l'attore si comporta dunque come un etologo attento a cogliere
azioni, atti, gesti caratteristici. E su questi ultimi si sofferma specialmente quel tipo
particolare di attore che è il mimo. Egli infatti comunica con il pubblico mediante idonei
segnali visivi che, secondo le classificazioni proposte dal noto etologo Desmond Morris,
rientrano principalmente nelle categorie dei gesti espressivi, schematici, simbolici e
propriamente mimici.
BRA5337 La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza
per la fantasia o conoscenza per l'intelletto; conoscenza dell'individuale o conoscenza
dell'universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice
d'immagini o produttrice di concetti. Continuamente si fa appello, nella vita ordinaria, alla
conoscenza intuitiva. Si dice che di certe verità non si possono dare definizioni; che non si
dimostrano per sillogismi; che conviene apprenderle intuitivamente. Il politico rimprovera
l'astratto ragionatore, che non ha l'intuizione viva delle condizioni di fatto; il pedagogista
batte sulla necessità di svolgere anzitutto nell'educando la facoltà intuitiva; il critico si tiene
a onore di mettere da parte, innanzi a un'opera artistica, le teorie e le astrazioni e di
giudicarla intuendola direttamente; l'uomo pratico, infine, professa di vivere d'intuizioni più
che di ragionamenti. Ma a questo ampio riconoscimento che la conoscenza intuitiva riceve
nella vita ordinaria, non fa riscontro un pari e adeguato riconoscimento nel campo della
teoria e della filosofia. Della conoscenza intellettiva c'è una scienza antichissima e
ammessa indiscussamente da tutti, la logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è
appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del
leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile
posticino di ancella o di portinaia. Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume
della intellettiva? È un servitore senza padrone: e, se al padrone occorre il servitore, è ben
più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L'intuizione è cieca; l'intelletto le
presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la
conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad
alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri,
validissimi. E se è indubitabile che in molte intuizioni si possono trovare mescolati concetti,
in altre non vi è traccia di un simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario.
L'impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di un Paese, delineato
da un cartografo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, o
quelle con le quali chiediamo, e comandiamo e ci lamentiamo nella vita ordinaria, possono
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ben essere tutti fatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali. Ma, checché si pensi di
questi esempi, e posto anche si voglia e debba sostenere che la maggior parte delle
intuizioni dell'uomo civile siano impregnate di concetti, v'è ben altro, e di più importante e
conclusivo, da osservare. I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi
sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e
autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d'intuizione. [...]
L'attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona
paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell'abito di dare alla parola
"espressione" un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si
dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee,
colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò
ogni sorta di manifestazioni dell'uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia.
BRA5338 La gente ha sempre sostenuto che il matrimonio fondato sull'innamoramento è migliore di
quello per interesse o per dovere. Gli psicologi e i sociologi invece hanno sempre diffidato
della passione amorosa. Io sono a favore della concezione popolare e sosterrò la mia tesi
nel prossimo Congresso della Società italiana di sessuologia clinica che avrà luogo a
Torino. La domanda che ci poniamo è questa: perché la maggior parte delle coppie
entrano in crisi nei primi anni, talvolta nei primi mesi di convivenza o di matrimonio? Io
penso che avvenga perché non c'è amore o non c'è vero innamoramento. In molti casi la
gente si sposa perché si sente sola, o per abitudine, o per consolarsi di una delusione. In
altri casi è innamorato uno solo dei due. Ma non basta nemmeno che i due si amino. Infatti
vi sono diversi tipi di amore. C'è l'amore fiducioso dell'amicizia. C'è un tenero voler bene.
Ci sono le infatuazioni divistiche. Poi ci sono gli amori appassionati. Ma anche questi sono
diversi. Abbiamo le cotte improvvise che durano pochi giorni o pochi mesi. Ci sono amori
che sembrano legati ad un luogo, per esempio ad una vacanza. Quella persona ci appare
stupenda nel suo ambiente, al mare o in montagna, ma, rivedendola in città, perde tutto il
suo fascino. Vi sono poi amori intensi, febbrili - le infatuazioni - che hanno la proprietà di
scomparire improvvisamente. Dopo molti anni di studi sono giunto alla conclusione che
queste forme di amore devono essere considerate esplorazioni, tappe iniziali del processo
amoroso che, se procede fino in fondo, produce il vero innamoramento bilaterale. Solo
allora avviene il processo di fusione che produce una nuova collettività in cui si compie la
ricreazione delle due personalità e l'elaborazione di un unico progetto. Questo processo
però non è affatto semplice. Ciascuno vi porta i suoi sogni, vuol realizzare i suoi desideri
più profondi. L'amore si sviluppa attraverso prove, pressioni reciproche. Poi si consolida in
regole di convivenza, fiducia reciproca. Conservando però al suo centro il brivido, il
batticuore, il mistero. Solo se questo processo viene compiuto per intero la coppia ha
molte probabilità di restare viva e vitale. Recentemente mi sono arrivati i risultati di una
ricerca fatta da Jùrg Willi, lo psichiatra di Zurigo, secondo cui sono più stabili e più felici le
coppie nate dall'innamoramento. E, in questi giorni, ho avuto la possibilità di compiere un
ulteriore approfondimento della mia teoria attraverso una ricerca empirica finanziata dalla
società XXX. Abbiamo studiato circa 500 giovani dai 13 ai 30 anni, maschi e femmine.
Quasi tutti costoro avevano un "ragazzo o una ragazza". Circa il 20 per cento
confessavano di non essere innamorati. Ma, studiando a fondo anche coloro che dicevano
di essere innamorati, abbiamo potuto accertare che, in realtà, quelli veramente innamorati
erano molto meno. In sostanza, nel nostro campione, su 100 coppie, i veri innamoramenti
bilaterali non erano più del 30 per cento. Questo anche nelle età più avanzate, verso i 30
anni. Quindi è vero: moltissime coppie si avviano alla convivenza e al matrimonio senza
essere veramente innamorate. Ma se è così fragile il loro rapporto all'inizio, come potrà
durare in seguito? Quante crisi precoci, quanti divorzi devastanti sono in incubazione fin
dall'inizio, perché non c'è amore o c'è amore incompleto, o perché il processo amoroso si
è fermato ad una fase iniziale, insufficiente a creare una vera comunità amorosa?
BRA5340 Medioevo significa letteralmente "età di mezzo". Questo termine è di norma usato dagli
storici per delimitare il periodo di circa mille anni compreso tra la fine del mondo classico e
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l'inizio dell'età moderna. Per maggiore precisione, i limiti per l'inizio e la fine del Medioevo
furono stabiliti nella caduta dell'impero romano d'Occidente (476 d.C.) e nella scoperta
dell'America da parte di Cristoforo Colombo (1492). Si tratta però di una delimitazione
convenzionale, prodotta da una visione della storia, per molti aspetti, oggi messa in
discussione. L'idea di Medioevo, infatti, si affacciò per la prima volta durante il
Rinascimento quando l'entusiasmo per la riscoperta del mondo antico portò a considerare
il lunghissimo periodo intermedio come un'epoca di decadenza. Per la cultura dei secoli
XV e XVI, infatti, l'epoca successiva al crollo del mondo antico appariva come una notte
della civiltà, durante la quale si erano spente la bellezza e la sapienza antica, considerate
dagli intellettuali e dagli artisti del Rinascimento il culmine più alto raggiunto dalla civiltà
umana. A questa visione negativa del Medioevo contribuì pure la diffusione del
protestantesimo: per i protestanti il Medioevo, che fu fortemente caratterizzato dalla
presenza politica e temporale del papato, appariva come un lungo periodo di corruzione
spirituale dopo la fase pura e nobile che aveva caratterizzato il cristianesimo primitivo. Il
termine "Medioevo" si diffuse grazie all'erudito tedesco Cristoforo Cellario, autore nel 1688
di una fortunata Storia del Medioevo. Lo storico tedesco dava dell'età di mezzo un quadro
desolante: decadenza delle arti e delle lettere, crisi della vita cittadina, imbarbarimento e
regresso complessivo dell'Europa. Soltanto verso la fine di questo periodo la società si
sarebbe a poco a poco risollevata per risorgere poi nell'epoca del Rinascimento. Questo è
ancora il presupposto dell'opera storica più importante del secolo XVIII, La decadenza e la
caduta dell'impero romano dell'inglese Edward Gibbon, secondo il quale, per circa 1000
anni, la storia dell'Europa si era sviluppata all'insegna di una barbarie solo parzialmente
attenuata da fugaci momenti di ripresa. Quest'idea rimase indiscussa sino agli inizi
dell'Ottocento, quando il movimento romantico favorì una rivalutazione complessiva del
periodo medievale, soprattutto a causa del fatto che proprio durante quest'epoca erano
maturate le radici più autentiche delle varie culture europee: infatti, come il mondo romano
era stato accentrato e unitario, così la società medievale fu articolata e complessa, tale da
non poter essere considerata come una sola identità socio-politica. Si riscoprì inoltre che
anche la cultura e l'arte medievale avevano avuto momenti di vario splendore e originalità.
La storiografia più recente tende a recuperare tutta la complessità e la ricchezza della vita
culturale, economica e politica di quest'età. Vi è da chiedersi, comunque, quali siano i limiti
cronologici di quest'epoca. Se è indubbio che molti fenomeni storici furono tipici del
Medioevo (ad esempio, l'apporto demografico di popolazioni come i Germani, i Franchi, i
Normanni o gli Slavi, oppure la nascita delle lingue moderne), è pure vero che l'"età di
mezzo" proseguì sviluppi già in atto nell'ultima fase del mondo antico. Ad esempio,
l'affermazione del cristianesimo come religione unitaria per tutto il mondo europeo,
l'impoverimento delle campagne, la crisi della vita cittadina.
BRA5342 La maggior parte degli esseri umani si comporta come lo storico: riconosce la natura della
propria esperienza solo alla fine, retrospettivamente. Nel corso degli anni '50 molte
persone, soprattutto nei paesi "sviluppati" sempre più prosperi, divennero consapevoli che
i tempi erano notevolmente migliorati, soprattutto se con la memoria riandavano agli anni
precedenti la seconda guerra mondiale. Un politico conservatore inglese combatté e vinse
le elezioni politiche nel 1959 con lo slogan: "Non siete mai stati così bene".
Un'affermazione che era indubbiamente corretta. Tuttavia solo quando il grande boom
terminò, nei travagliati anni '70, in attesa dei traumatici anni '80, gli osservatori - a
cominciare soprattutto dagli economisti - cominciarono a capire che il mondo,
particolarmente il mondo del capitalismo avanzato, aveva attraversato una fase del tutto
eccezionale della propria storia; forse una fase unica. Cercarono i nomi per descriverla: i
"trent'anni di gloria" dei francesi; il quarto di secolo di Età dell'oro degli angloamericani.
L'oro luccicò di più sullo sfondo opaco e scuro dei successivi decenni di crisi. Per diverse
ragioni ci volle così tanto tempo a riconoscere il carattere eccezionale dell'epoca. Per gli
USA, che dominarono l'economia del mondo dopo la seconda guerra mondiale,
quell'epoca non fu così rivoluzionaria. Essa semplicemente continuò l'espansione degli
anni di guerra che, come abbiamo visto, furono anni favorevoli solo per quel Paese. Gli
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USA non avevano subito danni, avevano accresciuto il prodotto nazionale lordo di due
terzi e alla fine della guerra la loro produzione industriale rappresentava quasi i due terzi
della produzione industriale mondiale. Inoltre, proprio in ragione della dimensione e del
progresso dell'economia americana, i suoi risultati durante gli Anni d'oro non furono così
impressionanti come lo fu il tasso di crescita di altri paesi, che partivano da una base assai
più piccola. Fra il 1950 e il 1973 l'economia americana crebbe più lentamente
dell'economia di ogni altro Paese industriale a eccezione della Gran Bretagna e, ciò che è
più significativo, la sua crescita non fu superiore a quella realizzata nei più dinamici periodi
passati del suo sviluppo. In tutti gli altri paesi industriali, compresa perfino la fiacca Gran
Bretagna, l'Età dell'oro infranse tutti i record precedenti. Infatti, per gli USA quella fu,
economicamente e tecnologicamente, un'epoca di relativo arretramento, piuttosto che di
avanzamento. Il divario di produttività per ora di lavoro tra l'economia americana e quella
di altri paesi diminuì e se nel 1950 la ricchezza nazionale pro capite era il doppio di quella
francese o tedesca, cinque volte più alta di quella del Giappone e la metà più grande di
quella britannica, gli altri stati stavano recuperando velocemente e continuarono ad
avvicinarsi ai livelli americani negli anni '70 e '80. La priorità maggiore per i paesi europei e
per il Giappone era di riprendersi dalla guerra e, nei primi anni dopo il 1945, essi
misurarono il loro successo semplicemente guardando ai punti di riferimento del passato e
non al futuro. Negli stati non comunisti la ripresa significava anche superare la paura della
rivoluzione sociale e dell'avanzata comunista, eredità della guerra e della resistenza.
Mentre la maggior parte dei paesi (ma non la Germania e il Giappone) era tornata con il
1950 ai livelli di prima della guerra, l'inizio della Guerra fredda e l'esistenza in Francia e in
Italia di potenti partiti comunisti scoraggiavano ogni euforia. In ogni caso ci volle del tempo
prima che i benefici materiali della crescita si facessero sentire. In Gran Bretagna
divennero tangibili solo a metà degli anni '50. Prima d'allora nessun politico avrebbe potuto
vincere le elezioni con lo slogan adottato da Harold Macmillan. Persino in una regione
italiana prospera come l'Emilia-Romagna, i benefici della "società opulenta" non divennero
generali fino agli anni '60. Inoltre l'arma segreta per costruire una società opulenta di
massa, cioè il pieno impiego, non si generalizzò fino agli anni '60, quando il tasso medio di
disoccupazione nei paesi dell'Europa occidentale si assestò all'1,5%.
BRA5343 Nessuna epoca storica è stata più dipendente dalle scienze naturali e più permeata da
esse del ventesimo secolo. Tuttavia nessuna epoca, dopo la ritrattazione di Galileo si è
trovata più a disagio con la scienza. Questo è il paradosso con cui deve scontrarsi lo
storico di questo secolo. Ma prima di addentrarmi nel merito, occorre definire le dimensioni
del fenomeno. Nel 1910 tutti i fisici tedeschi e inglesi messi insieme ammontavano a forse
ottomila persone. Alla fine degli anni '80 il numero di scienziati e ingegneri impegnati
effettivamente nella ricerca e nello sviluppo sperimentale nel mondo è stato stimato a circa
cinque milioni, di cui quasi un milione negli USA, la potenza scientifica trainante, e un po'
più di un milione negli stati dell'Europa. Anche se gli scienziati, perfino nei paesi sviluppati,
continuavano a formare una frazione minuscola della popolazione, il loro numero saliva
vistosamente e raddoppiò all'incirca nei vent'anni dopo il 1970, anche nelle economie più
avanzate. Comunque, alla fine degli anni '80, essi formavano la punta di un iceberg assai
più grande: quello che si poteva definire la potenziale manodopera scientifica e
tecnologica, riflesso della rivoluzione dell'istruzione della seconda metà del secolo. Esso
rappresenta forse il 2% della popolazione mondiale e forse il 5% della popolazione
nordamericana. I veri e propri scienziati sono sempre più selezionati per mezzo di ricerche
avanzate, i cui risultati vengono esposti in una "dissertazione di dottorato" che è divenuta il
biglietto d'ingresso nella professione. Negli anni '80 il tipico Paese occidentale sviluppato
sfornava qualcosa come 130-140 dottori di ricerca in ambito scientifico per ogni milione di
abitanti. Questi paesi spendevano somme molto elevate per le attività di ricerca, tratte per
lo più dal bilancio dello stato anche nei paesi capitalistici. Le forme più costose della
"grande ricerca scientifica" sono di fatto al di fuori della portata di qualunque singolo
Paese tranne che degli USA (fino ai giorni nostri). C'è però una novità ancor più
importante. Nonostante il fatto che il 90% delle pubblicazioni scientifiche (il cui numero
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raddoppia ogni 10 anni) compaia in quattro lingue europee (inglese, russo, francese e
tedesco), la scienza eurocentrica è finita nel ventesimo secolo. L'Età della catastrofe e
specialmente il temporaneo trionfo del fascismo trasferirono il suo centro di gravità negli
USA, dove è poi rimasto. Fra il 1900 e il 1933 solo sette Premi Nobel per materie
scientifiche sono stati assegnati agli USA che ne hanno invece ricevuti 77 tra il 1933 e il
1970. Gli altri paesi di colonizzazione europea si sono affermati anch'essi come centri
indipendenti di ricerca - Canada, Australia, la spesso sottovalutata Argentina - , anche se
alcuni di loro, per ragioni politiche o per la loro dimensione ridotta, esportano la maggior
parte dei loro scienziati (Nuova Zelanda, Sudafrica). Nello stesso tempo il crescere degli
scienziati non europei, specialmente di quelli dell'Asia orientale e del subcontinente
indiano, è stato impressionante. Prima della seconda guerra mondiale solo un asiatico
aveva vinto un Premio Nobel per le materie scientifiche (C. Raman, Premio Nobel per la
fisica nel 1930); dopo il 1946 i Premi Nobel sono stati assegnati a più di dieci scienziati
asiatici, tra i quali vi sono giapponesi, cinesi, indiani e pakistani, e questo dato non
permette di valutare pienamente la crescita della scienza in Asia, così come il dato relativo
ai Premi Nobel statunitensi prima del 1933 faceva torto alla crescita della scienza negli
USA. Alla fine del secolo ci sono ancora aree del mondo che producono pochissimi
scienziati in termini assoluti e ancor meno in termini relativi, ad esempio la maggior parte
dell'Africa e dell'America latina. E' tuttavia impressionante che almeno un terzo dei premi
Nobel asiatici non compaiano come cittadini dei loro paesi d'origine, ma come scienziati
americani.
BRA5344 L'esplosione delle conoscenze e l'introduzione di indagini di laboratorio sempre più
raffinate rendono davvero difficile tratteggiare la storia della medicina di questo secolo,
che si caratterizza comunque come periodo nel quale avvengono in successione due fatti
fondamentali: la riconduzione della fisiologia all'interazione tra molecole e questo fa
esplodere la biochimica come metodologia essenziale nell'avanzamento delle
conoscenze; la riconduzione della produzione delle molecole al codice genetico e al DNA,
cioè al programma scritto anch'esso su molecole e memorizzato in ogni cellula e questo
segna l'ingresso della biologia molecolare nella medicina. Selezionare i principali contributi
non è semplice. Si potrebbe cominciare ricordando Mendel, anche se i suoi studi vengono
per alcuni decenni dimenticati, sicché assumono importanza rilevante dopo la loro
riscoperta all'inizio del Novecento. Si alternano in questo secolo scoperte di meccanismi
biologici e patologici fondamentali che trovano rapida applicazione nella clinica e nascono
così dietro alle nuove tecnologie per indagare organi e tessuti nuove branche mediche
specialistiche (per esempio radiologia, medicina nucleare); analogamente, dietro le
emergenti tecnologie cellulari e molecolari si sviluppa la medicina molecolare. Dal 1901 gli
avvenimenti più salienti per la medicina sono scanditi il 10 dicembre di ogni anno
(anniversario della morte di Alfred Bernhard Nobel), dall'assegnazione da parte
dell'apposito Comitato del Karolinska Institute di Stoccolma dei premi Nobel per la
medicina o la fisiologia. Talvolta avvengono anche premiazioni Nobel da parte
dell'Accademia delle Scienze svedese per la fisica o la chimica per scoperte che hanno
rilevante applicazione nella biomedicina: si vedano tra tutti i riconoscimenti conferiti in
questi settori a Lord Ernest Rutherford nel 1908 e a Marie Curie Sklodowska nel 1911 per
la scoperta degli elementi radioattivi. Nelle assegnazioni vi sono anche un paio di infortuni,
con premi rivelatisi decisamente immotivati, come a Finsen nel 1903 per la cosiddetta
finsenterapia o fototerapia. C'è da rilevare che nella motivazione del premio compaiono
sempre due elementi: l'importanza della scoperta e, almeno nei primi tempi
d'assegnazione, il beneficio che da essa deriva all'umanità. Nel corso del ventesimo
secolo la tecnologia, sia per la disponibilità di nuovi e raffinati strumenti diagnostici, sia per
la possibilità di assistenza del malato critico, porta ad altre importanti innovazioni. La
chirurgia inizia a divenire "sostitutiva" di organi malati mediante i trapianti. Il primo
trapianto di rene avviene tra due gemelli, Richard e Ronald Herrick, nel 1957 a Boston.
Nel 1967 avviene il primo trapianto di fegato, eseguito da Thomas Starzl a Denver,
Colorado; a dicembre dello stesso anno Christian Barnard a Città del Capo esegue il
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primo trapianto cardiaco. Quando il rigetto diviene largamente controllabile mediante l'uso,
a partire dal 1978, della ciclosporina A, la possibilità di trapianto si estende rapidamente
alle isole pancreatiche, al midollo osseo, al polmone e al complesso cuore-polmone,
mentre si tentano trapianti di cellule embrionali (per esempio cellule di ghiandole surrenali
nel cervello di persone affette da morbo di Parkinson). Si avvicina sempre più, nel
passaggio dalla ricerca di base all'applicazione clinica, la possibilità per il medico di
modificare processi fondamentali dell'essere umano, come e quando si è generati o si
nasce o si muore. La medicina si ritrova di fronte ad antichi dilemmi, che riguardano come
conciliare il rispetto dell'individuo con le possibilità offerte dalla tecnologia, come rispettare
la volontà dell'individuo, conciliandola con l'antico giuramento di Ippocrate che prescrive di
non dar morte neppure a chi lo chieda.
BRA5346 La biologia è scienza, e in quanto tale è l'espressione di un'attitudine essenziale
dell'umanità, quella di cercare, di scoprire, di andare sempre più avanti. La scienza
simboleggia lo spirito che ha spinto il progresso durante i millenni e che è incarnato nelle
scoperte essenziali della storia dell'umanità: il fuoco, la ruota, le correnti del contatto dei
metalli e così via. In tutti i casi c'è stata un'osservazione acuta, un'estrapolazione audace,
un adattamento ingegnoso della tecnologia esistente. E poi la nuova conquista incorporata
in nuove tecnologie, in nuove applicazioni e in conoscenze che formano la base della
nostra filosofia del mondo e della vita. E chi è lo scienziato? Non è un dio o un mago; è
l'uomo. Qualunque uomo è uno scienziato; quel che può fare dipende dalle circostanze.
Nel progresso della ricerca, nel fare le scoperte, sono tre i fattori importanti: le conoscenze
precedenti, un'osservazione acuta e, quasi sempre, qualche elemento accidentale. Questa
triade si può riconoscere nella scoperta della penicillina da parte di Fleming, che aprì un
importante campo di ricerca, quello degli antibiotici. Fleming studiava certi batteri che
faceva crescere su scatole di vetro in cui c'era uno strato di agar nutritivo, e che lì
producevano piccole colonie dorate. Un giorno notò una grossa chiazza di color grigiastro
che copriva buona parte dello strato nutritivo. Era un contaminante, un fungo microscopico
derivante dall'aria, che avrebbe dovuto rovinare l'esperimento. Ma invece Fleming notò
che nelle vicinanze di quel contaminante non c'erano le solite chiazze dorate. Molti altri
ricercatori forse non l'avrebbero nemmeno notato. Lui, al contrario, pensò che il fungo
producesse una sostanza che impediva ai batteri di crescere, e ne riconobbe la possibile
importanza medica. Di lì venne la penicillina, dal nome del fungo contaminante. Che il
fattore caso debba essere importante è chiaro, perché allo stato attuale della biologia una
scoperta non può essere prevedibile soltanto sulla base delle conoscenze precedenti,
altrimenti non sarebbe una scoperta. Ma per fare una scoperta è essenziale il fattore
uomo, perché l'importanza di un'osservazione occasionale, come quella di Fleming, può
essere riconosciuta solo da una mente attenta, preparata e aperta a concetti nuovi, a
nuove sfide. Un fattore essenziale per il progresso della biologia, e della scienza in
generale, è l'interazione della ricerca con la società. Infatti quest'ultima è responsabile
della formazione dello scienziato e della sua possibilità di lavorare nel campo che gli
interessa, procurandogli i mezzi per portare avanti la ricerca e soprattutto preparando
l'ambiente in cui si deve sviluppare il suo lavoro. L'ambiente in cui si svolge la ricerca ha
infatti un'importanza fondamentale per il suo successo. Ciò si deduce dall'osservazione
che le scoperte più importanti avvengono solo in certi Paesi, in certe città, in certe
università. Se si considerano i premi Nobel come il paradigma di coloro che fanno le
scoperte più riconosciute, si vede che essi non sono distribuiti a caso nel mondo, ma sono
concentrati solo in un alcuni laboratori. Non solo: si possono anche riconoscere dei veri e
propri alberi genealogici dei premi Nobel. Generalmente un maestro di grande statura
produce allievi anch'essi di grande statura, e anch'egli proviene da un maestro di grande
distinzione. Queste genealogie esistono perché i maestri costituiscono l'ambiente adatto,
mantenendo laboratori di alta attività e produzione scientifica, dove si affrontano problemi
nuovi ed eccitanti con grande rigore, usando concetti e tecnologie nuove.
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BRA5347 Già 70 anni fa, Bertrand Russell affermava che bisogna distinguere nettamente le
proposizioni riguardanti cose dalle proposizioni che esprimono una relazione. "Questa
mela è rossa" è una proposizione riguardante una qualità di questa mela. "Questa mela è
più grossa di quella" è una proposizione che riguarda la relazione tra le due mele e quindi
non ha nulla a che fare con l'una o l'altra mela presa in se stessa. La qualità dell'"essere
più grande" non appartiene a nessuna delle due mele, e sarebbe una pura assurdità
volerla attribuire a una di esse. Questa importante distinzione venne più tardi ripresa e
ulteriormente sviluppata dall'antropologo e studioso dell'informazione Gregory Bateson.
Egli stabilì che in ogni comunicazione sono presenti sempre entrambe le proposizioni, o in
altre parole, che esiste in essa un livello oggettivo e uno relazionale. Con ciò egli ci ha
aiutato a comprendere meglio come si possa giungere in breve tempo ad avere delle
difficoltà con il partner - chiunque esso sia, ma quanto più intimo tanto meglio.
Supponiamo che una donna chieda al marito: "Questa minestra l'ho fatta in una maniera
nuova. Ti piace?" Se gli piace può rispondere senz'altro "Sì" e lei ne sarà contenta. Se
invece non gli piace e non teme di deludere la moglie, può dire: "No". Problematica è però
la situazione, statisticamente più frequente, in cui la minestra è disgustosa, ma egli non
vuole offendere la moglie. A livello oggettivo (quello cioè che si riferisce all'oggetto
"minestra") il marito dovrebbe dire: "No"; a livello relazionale dovrebbe dire "Sì" per non
ferirla. Cosa dirà dunque? La sua risposta non può essere "Sì" e "No", perché la parola
"Ni" esiste soltanto come battuta scherzosa. Egli cercherà così di trarsi fuori dai guai in
qualche modo, magari dicendo: "Ha un sapore interessante", nella speranza che la moglie
capisca. Ma le probabilità sono minime. Conviene tenere presente l'esempio di un uomo
sposato di mia conoscenza la cui moglie, al ritorno nella nuova casa dalla luna di miele, gli
mise sul tavolo una grande scatola di Corn Flakes come prima colazione, supponendo in
buona fede (a livello relazionale) ma erroneamente (a livello oggettivo) che li avrebbe
mangiati volentieri. Non voleva ferirla e si propose, se proprio bisognava, di mandare giù
quella roba e poi di pregarla, una volta finita la scatola, di non comprarne un'altra. Come
una brava moglie, però, ella ne prese nota e prima ancora che la scatola finisse ne aveva
già presa un'altra. Oggi, 16 anni dopo, ha abbandonato la speranza di farle capire con
tatto che lui detesta i Corn Flakes. La reazione della moglie sarebbe inimmaginabile.
BRA5348 È nella politica francese che appaiono più evidenti i legami tra il governo e le banche,
soprattutto a causa dell'ammontare degli investimenti francesi negli altri Paesi europei.
Sebbene fosse ancora l'Inghilterra il paese che vantava la quantità maggiore di
investimenti all'estero, meno del 6% del totale riguardava l'Europa, contro il 62% della
Francia. Ciò non impediva che gli imprenditori francesi con interessi nelle colonie francesi
o in Marocco godessero di un'influenza sproporzionata alla loro effettiva importanza
finanziaria, ma indicava che, a causa della gran quantità di denaro francese investita negli
altri paesi europei, la connessione tra politica d'investimento delle banche e politica estera
del governo stava diventando molto stretta. Anche al governo tedesco sarebbe piaciuto
sostenere la propria politica con pressioni di tipo finanziario; ma mentre la Germania soffrì
di una penuria permanente di capitali dopo gli anni di rapida espansione industriale della
seconda metà dell'Ottocento, i risparmiatori francesi (anche se talvolta erano accusati dai
nazionalisti di investire più all'estero che in patria) disponevano di forti quantità di
risparmio accumulato. Le tendenze degli investitori inglesi erano del tutto diverse, poiché
la maggior parte dei capitali britannici fuori del Regno Unito si volgeva all'Impero e
all'America del Nord e del Sud, per cui la politica britannica in Europa restò, in una certa
misura, indipendente dai condizionamenti finanziari che invece influenzarono i francesi.
Più di ogni altro schieramento internazionale antecedente il 1914, l'alleanza franco-russa
fu cementata da vincoli che erano, oltre che politici e strategici, anche finanziari. Sebbene
la stipulazione dell'alleanza (del 1893) all'origine fosse la conseguenza di pressioni
strategiche e politiche su entrambi i contraenti, i negoziati coincisero con il lancio della
prima serie di grandi prestiti russi sul mercato finanziario francese. I prestiti iniziali del
1888, 1889 e 1890 furono seguiti da investimenti francesi in altri settori dell'economia
zarista - crediti alle amministrazioni locali, ferrovie, miniere e imprese industriali di ogni tipo
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- col risultato che nel 1914 quasi un quarto di tutti gli investimenti francesi all'estero
riguardavano la Russia. È impossibile che da vincoli finanziari di tali proporzioni non
derivassero conseguenze politiche, anche se si prescinde da condizioni particolari
connesse ad alcuni prestiti, come ad esempio la costruzione di ferrovie strategiche o la
promessa di commesse alle imprese francesi. Le banche che incoraggiavano i clienti a
investire i loro risparmi nei titoli o nelle miniere o nelle ferrovie russe avevano tutto da
guadagnare nel dipingere la Russia come un paese forte, stabile politicamente ed
economicamente in espansione, avvalorando insomma l'immagine di un alleato valido. Ad
onta degli attacchi della Sinistra francese contro l'autocrazia e l'oppressione zarista, e
nonostante i reiterati rifiuti dei Rothschild e di altri banchieri ebrei di partecipare ai prestiti
russi come segno di protesta contro i maltrattamenti cui erano fatti segno gli ebrei in
Russia, la fiducia francese nell'alleato orientale rimase sorprendentemente alta fino allo
scoppio della guerra, anzi fino a tutto il 1917.
BRA5350 Quando il diploma universitario fu introdotto in Italia, attraverso la legge 341 del 1990, nei
più importanti paesi industrializzati i corsi di studio di analoga natura rappresentavano una
realtà già consolidata, anche se avevano caratteristiche differenziate nei contesti
educativi. Ma, nonostante questa eterogeneità, ovunque l'istruzione superiore di primo
livello forniva titoli a contenuto pratico-professionale, più o meno specialistico, il cui
carattere fondamentale era quello di essere rapidamente spendibili sul mercato del lavoro
e di essere fondati su curricoli diversi rispetto a quelli che caratterizzano i diplomi di
secondo livello (le lauree), soprattutto per il minore spessore teorico e per il più alto livello
di specializzazione. Va anche detto che la percentuale di studenti dei cicli brevi, sul totale
di quelli interessati alla formazione superiore, è nei paesi industrializzati abbastanza
elevata: si va da un 17% della Svezia a un 33% del Regno Unito; percentuali queste che
ancora oggi, a oltre tre anni di attuazione del corso di diploma universitario, sono
notevolmente lontane da quelle riscontrabili nel nostro paese. La direttiva Cee 89/49 del
21/12/88, recepita in Italia con decreto legislativo n.115 del 27/1/1992, ha avuto
certamente un ruolo decisivo nell'indurre anche l'Italia ad attrezzarsi per essere in linea
con gli altri Paesi europei: secondo questa direttiva, infatti, per poter svolgere un'attività
professionale nei paesi della UE occorre aver svolto un corso di studio post secondario di
almeno tre anni, anche se non necessariamente in strutture universitarie. Mancando in
Italia un segmento formativo di questo tipo, si rendeva necessario introdurlo, per potersi
uniformare agli altri paesi europei. Certo, esistevano già nel nostro paese alcune forme di
istruzione post-diploma, come la formazione professionale di secondo livello, il postdiploma secondario della formazione professionale regionale, le Scuole dirette a fini
speciali concentrate soprattutto nel settore delle professioni paramediche, i corsi di livello
superiore delle Accademie musicali e quelli dell'Isef; ma in ogni caso queste esperienze, di
dimensioni complessivamente modeste, erano solo in parte collocabili all'interno
dell'Istruzione superiore (per esempio, le Scuole dirette a fini speciali avevano il compito di
formare specifiche professioni, ma non quello di fornire una preparazione metodologica
scientifica). Quando fu realizzata la riforma del 1990, l'Italia era quindi priva di
un'istruzione superiore di primo livello, che desse il giusto spazio non solo agli aspetti
professionalizzanti, ma anche alla teoria e alla dimensione professionale o almeno semiprofessionale. A livello internazionale ci si trovava di fronte a una realtà variegata, in cui
esistevano diverse tipologie di istruzione superiore di primo livello; queste, come è stato
opportunamente osservato, erano sostanzialmente riconducibili a tre fondamentali modelli:
"binario", "integrato" e "misto". Il primo prevede l'esistenza di un settore non universitario a
fianco di quello accademico; il secondo un processo di diversificazione istituzionale
all'interno dell'università; il terzo, la presenza di un intreccio tra i due precedenti modelli. In
Italia fu scelto il modello integrato, fondato sull'esistenza di un'unica istituzione, senza
differenze a livello funzionale, nel senso che i corsi di diploma universitario sono gestiti
dalla stessa istituzione accademica senza la creazione di uno specifico organismo, sia
pure all'interno dell'università. Questo carattere fortemente integrato ha comportato
implicitamente la scelta della "serialità", ossia la possibilità di osmosi tra il corso di laurea e
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quello di diploma, e quindi l'implicita accentuazione di motivi di coerenza e di continuità tra
queste diverse offerte formative.
BRA5351 La tecnologia classica ci lascia perplessi di fronte ai risultati che riuscì a ottenere e alle
sorprendenti intuizioni che a quel tempo ebbero i tecnici e gli scienziati. Tuttavia ci si
chiede come mai, a fronte di tali conoscenze accumulate nel corso dei secoli, non
corrisponda una adeguata diffusione di macchine. Anzi, se si prescinde dalla ruota, dal
telaio, dalla pressa (usata sia per i panni che per la trasformazione dei prodotti agricoli
quali le olive e l'uva), dagli argani e dalle gru (usati per la realizzazione di imponenti opere
monumentali) si può affermare che l'antichità era un mondo senza macchine. Il mondo
antico disdegnava il lavoro manuale e l'uomo libero si dedicava alla cosa pubblica e alla
politica, alla scienza pura e alle arti. Il lavoro artigianale e la creazione tecnica erano
considerati compiti esclusivi degli stranieri e degli schiavi. Le cose di questo mondo erano
considerate il riflesso di un lontano mondo delle idee, di conseguenza il metodo
sperimentale non ebbe una grande importanza. Sola eccezione era la geometria i cui
principi appartenevano al mondo delle idee. Nel libro "Problemi di meccanica" della fine
del IV secolo, attribuito ad Aristotele, si parla appunto di molti problemi di meccanica e di
applicazioni tecniche, ma non fini a se stessi, bensì come mere discussioni per la
soluzione dei cosiddetti "aforismi" che erano poi annullati in partenza dalle contraddizioni
insite nella speculazione filosofica come, ad esempio, la possibilità di muovere un grosso
carico con una piccola forza. Aristotele considerava la tecnologia un'attività contro natura:
tecnica significa machinatio, e cioè astuzia. Infatti nei problemi di meccanica tecnica si
dovevano compiere azioni, o "macchinazioni", a danno della natura, sottraendo a essa con
grande astuzia i procedimenti, e superando man mano le difficoltà che si incontravano.
Tutti i meccanismi descritti da Aristotele vengono riportati al principio della leva ed egli
giunge a dimostrare che il fatto meraviglioso di smuovere un grosso peso con una piccola
forza, trova la sua spiegazione dialettica e paradossale nel cerchio. Infatti, sia la leva che il
carico si spostano con archi cerchi. Quindi il cerchio contribuisce con le sue peculiari
caratteristiche a formare il principio della leva. In questo modo è possibile compiere, in
un'unica armonia, azioni opposte e apparentemente contrastanti. Non solo, ma quando
con un'asta di ferro si fa leva sotto una massa pesante e con uno sforzo relativamente
piccolo solleviamo tale massa, si nota la sproporzione tra lo spostamento in altezza della
massa e lo spostamento percorso dall'altra estremità dell'asta. Al contrario avviene, per
esempio, quando si solleva per appoggiarla a un muro, una lunghissima scala. La parte
più alta è più lontana dal punto in cui si appoggiano le mani, e molto più lunga della parte
che va dal punto di appoggio delle mani alla fine della scala. In questi casi descritti vi è
una compensazione fra spazio e forza che stabilisce un equilibrio della natura. Equilibrio
che si ottiene con il dispositivo della leva che crea con l'inganno il modo di attuare grandi
effetti con piccolo sforzo. La leva diviene così il simbolico capostipite delle cosiddette
"macchine semplici" quali la vite, il cuneo, la carrucola e l'argano. Questi dispositivi sono la
base delle macchine più "complesse" che si svilupparono nel corso dei secoli successivi.
Tuttavia questo sviluppo fu lentissimo e l'introduzione delle macchine nelle industrie
produttive fu trascurabile. Nella Grecia di età ellenistica si ha notizia di stabilimenti nei
quali lavoravano molti schiavi e dove venivano prodotti coltelli, falci e parti di mobili. La
grande produzione era prevalentemente a carattere artigianale domestico, e non si sentiva
ancora la necessità della macchina come elemento sostitutivo del lavoro.
BRA5353 È noto che, con gli attuali vaccini anti-influenzali la copertura dura due-tre mesi: si spiega
come, ad esempio, nell'epidemia dell'anno scorso che è durata per un periodo di tempo
più prolungato rispetto a quello degli anni precedenti si siano avuti casi in cui l'influenza è
stata contratta due volte nella stessa annata o come, in alcuni casi, la malattia si sia
manifestata in persone che in precedenza, ma assai anticipatamente, si erano sottoposti
alla vaccinazione. Con questo nuovo vaccino si risolve anche il dubbio di quando
vaccinare: utilizzandolo già in settembre-ottobre, si ha una copertura che si estende fino a
febbraio. La maggior durata dell'immunizzazione è stata ottenuta nei laboratori della ditta
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americana Chiron dal dottor Rino Rappuoli, aggiungendo al vaccino tradizionale una
nuova sostanza cosiddetta adiuvante, chiamata mf59, costituita da un'emulsione di acqua
e olio contenente squalene (un derivato del colesterolo) e due surfattanti. Con l'aggiunta di
questo adiuvante il rilascio della sostanza avviene solo all'interno della cellula,
potenziando quindi al massimo l'attività del vaccino. Comunque, o utilizzando questo tipo
di vaccino (più costoso di circa il 50% rispetto a quello classicamente in uso) o utilizzando
quello tradizionale, che mantiene intatta tutta la sua efficacia, si sottolinea ancora una
volta l'importanza della vaccinazione, unica arma in nostro possesso per combattere
l'influenza. Occorre tenere presente che in Italia questa malattia costituisce la terza causa
di morte per patologie infettive e che, secondo i dati dell'INPS, in media, ci sono nel nostro
Paese, ogni anno, tre milioni e duecentomila lavoratori colpiti, con un costo per ogni caso
di non meno di 600.000 lire. Anche per il prossimo inverno le previsioni non sono
favorevoli, dato che circa il 20 per cento della popolazione ne verrà colpito. Il vaccino
utilizzato quest'anno è costituito dai ceppi: A/Wuhan/359/95, A/Bayer/7/95,
B/Beijing/184/93 e potrà essere somministrato ad adulti e bambini oltre i 3 anni in una sola
dose iniettata per via intramuscolare; per i bambini da 6 mesi a 3 anni è prescritta metà
dose. A tutti coloro mai precedentemente vaccinati contro l'influenza (adulti e bambini)
deve essere somministrata una seconda dose dopo 4-6 settimane. La vaccinazione antiinfluenzale è particolarmente raccomandata in quelle categorie di persone, adulti e
bambini, in cui le eventuali complicanze dell'influenza possono produrre gli effetti più gravi
e precisamente: soggetti con malattie croniche dell'apparato respiratorio, come bronchiti
croniche ed enfisema, asma bronchiale, bronchiectasie, mucoviscidosi, tubercolosi
polmonare; soggetti con patologie renali croniche; soggetti diabetici; pazienti con
deficienza immunitaria congenita o acquisita. La vaccinazione è raccomandata anche ai
pazienti che vivono in istituti nei quali l'introduzione dell'infezione potrebbe diffondersi
rapidamente. La vaccinazione è inoltre raccomandata, oltre che alle persone anziane,
anche per quei soggetti che possono trasmettere il virus influenzale a soggetti ad alto
rischio e al personale addetto a pubblici servizi di primario interesse con particolare
riguardo, nel mondo della scuola, a insegnanti, personale amministrativo, bidelli.
BRA5354 Lo scorso anno l'Economist ha pubblicato i dati fondamentali di una ricerca condotta in
170 Paesi relativamente a quello che potremmo chiamare lo stato di salute dei Paesi
stessi. Sono interessanti le indicazioni che possiamo trarne per i quindici Stati che
attualmente fanno parte dell'Unione Europea. Sette Paesi, tra i quali l'Italia, sono nella lista
dei primi venti che presentano le economie più forti. Sempre tra i primi venti, otto Paesi
dell'Unione fanno registrare il più alto PIL pro-capite; in questo caso, l'Italia occupa la
diciannovesima posizione. Tra quelli che presentano gli indici più alti di sviluppo umano, la
cosiddetta qualità della vita, dodici Paesi dell'Unione sono tra i primi venti. Dieci Paesi
dell'Unione Europea, sempre tra i primi venti, sono considerati i paesi leader nel
commercio mondiale; l'Italia in questo caso occupa la sesta posizione. Sette Paesi, con
l'Italia al quinto posto, sono compresi tra i primi venti con la più alta produzione industriale.
Le statistiche dell'Economist rilevano però che nella lista dei primi venti Paesi soltanto tre
dell'Unione Europea - la Germania, la Svezia e la Danimarca - hanno la percentuale
maggiore di popolazione in forza lavoro. Anche i tassi relativi all'andamento della
disoccupazione negli ultimi dieci anni dimostrano una situazione di forte malessere nella
quale versano quasi tutti i Paesi dell'Unione Europea. Tra le sfide più rilevanti che i Paesi,
soprattutto quelli avanzati, devono oggi affrontare quella della disoccupazione ha, dunque,
caratteri di crescente problematicità e drammaticità. Le statistiche ufficiali di Eurostat
segnalano la persistenza di alti tassi di disoccupazione in tutti i Paesi dell'Unione Europea,
con un aumento degli stessi tassi nel periodo 1991-1995. Per l'Italia si è passati dall'8,8
all'11,9. Imponenti i dati riguardanti la disoccupazione delle persone con meno di 25 anni:
si va dal 3,9 per il Lussemburgo al 31,9 per la Spagna, con il 21,6 per l'Irlanda e il 18,6 per
la Francia. L'Italia è al 29,2. Nonostante le varie misure adottate per aumentare
l'occupazione, quest'ultima non si è sviluppata; si sostiene che la possibilità di creare posti
di lavoro stia in un'economia europea più flessibile e nell'eliminazione o nella riduzione dei
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costi o dei rischi a carico delle imprese. Sta di fatto che la situazione complessiva non
sembra migliorare, anche se si citano come eccezioni i casi dell'Irlanda, della Gran
Bretagna e dell'Olanda dove i metodi della concertazione sociale, della flessibilità del
mercato del lavoro, del risanamento dei conti pubblici hanno contribuito a contenere o
ridurre la disoccupazione. Rispetto alle modificazioni che il mercato del lavoro sempre più
subirà, alle innovazioni tecnologiche e alle trasformazioni del quadro dei bisogni formativi
e dei profili professionali, occorre prestare attenzione a quella che è la più rilevante riforma
strutturale che ha effetti anche sul mercato del lavoro: quella dell'istruzione e della
formazione. P. Flynn, Commissario europeo agli Affari Sociali e firmatario con E. Cresson
del Libro Bianco "Insegnare e Apprendere: verso la società della conoscenza" fa notare
che entro 10 anni l'80% della forza lavoro europea "avrà abbandonato per sempre ogni
contatto con il sistema scolastico-universitario e non avrà alcuna occasione di
apprendimento e riqualificazione professionale". È quindi nella formazione che l'Europa
deve investire.
BRA5355 Un grande popolo era alle prese con un inverno difficile. Immersa nella nebbia e nella
malinconia, quel 1° gennaio 1947 Londra tremava dal freddo. Mai, forse, la capitale
britannica aveva conosciuto un Capodanno tanto lugubre. In quel mattino festivo, erano
rare le abitazioni in cui ci fosse acqua calda sufficiente a riempire una vasca da bagno, e
ancora più rari i londinesi che si svegliavano con l'obbligatorio cerchio alla testa dopo una
notte di bisboccia. Il poco whisky posto in vendita per le feste era andato a ruba al prezzo
di otto sterline a bottiglia, poco più di trentamila lire italiane attuali. Nelle vie deserte
scivolavano pochissime automobili, fuggitivi fantasmi di una nazione priva di benzina.
Intabarrati nei loro cappotti lisi e fuori moda dopo sei anni di guerra o in fruste uniformi
smesse, pochi erano i passanti frettolosi, con la testa incassata e l'aria tetra. Quando
pioveva, un odore particolare impregnava le strade, ed era il tanfo di marciume e di
bruciato che emanava dalle rovine disseminate per tutta la città. I dock e i quartieri attorno
alla cattedrale di San Paolo erano ancora un cumulo di macerie, lugubri casematte di
cemento continuavano a levarsi ad alcuni incroci, barriere di filo spinato costellavano i
prati del Green Park. Tuttavia quella città triste e martoriata era la capitale di un Paese
vittorioso. Diciassette mesi prima, l'Inghilterra aveva trionfato nella più spaventosa guerra
della storia dell'umanità. L'eroismo del suo popolo, il suo coraggio nelle avversità e la sua
indomabile tenacia le erano valsi l'ammirazione del mondo intero; adesso, però, stava
pagando il prezzo esorbitante di quella vittoria. La sua industria era paralizzata, le casse
vuote, più di due milioni di inglesi erano disoccupati. L'anno che cominciava sarebbe stato
l'ottavo vissuto in un regime di restrizioni draconiane. Quasi tutti i beni di consumo erano
sottoposti a un severo razionamento: i generi alimentari, i combustibili, l'alcool, la corrente
elettrica, il vestiario, persino la celebre stout dei pub e le palle da cricket. Sui giornali si
leggevano i consigli degli umoristi per "riciclare" la carta igienica. "Cinghia e geloni" era la
nuova parola d'ordine del popolo che aveva abbattuto Hitler ostinandosi a formare con le
dita la "V" della vittoria. Solo una famiglia su quindici era stata in grado di concedersi il
lusso di un tacchino e, poiché sui giocattoli gravava una tassa del cento per cento,
moltissime calze di bambini appese al caminetto erano rimaste vuote. Molto spesso sugli
scaffali e nelle vetrine dei negozi c'erano cartelli che annunciavano l'esaurimento di questa
o di quella scorta. Terminati le patate, la legna, il carbone, le sigarette, la pancetta. La
cupa realtà con la quale quel mattino di Capodanno, l'Inghilterra si trovava a fare i conti,
era stata perfettamente riassunta da un'impietosa frase del suo maggiore economista:
"Siamo un paese povero" aveva detto Jonh Maynard Keynes ai suoi compatrioti "e
dobbiamo imparare a vivere di conseguenza".
BRA5357 La guerra mondiale fece precipitare la crisi nella quale si dibatteva da tempo l'Impero
russo. Sarebbe naturalmente erroneo ritenere che il conflitto avesse in qualche misura
determinato questa crisi; ma sarebbe altrettanto erroneo ritenere che esso abbia avuto
una scarsa importanza nel determinare il collasso dell'autocrazia zarista, responsabile di
uno stato di arretratezza che si traduceva in una inferiorità tecnica e produttiva che era alla
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radice dei rovesci militari. I sintomi della debolezza dell'Impero zarista si erano registrati
nei primi anni del secolo in occasione della guerra russo-giapponese: già allora la negativa
prova militare aveva avuto come contraccolpo un'insurrezione che aveva denunciato il
profondo fossato che divideva l'autocrazia del paese, ed aveva posto il problema di
soddisfare non solo delle rivendicazioni di carattere sociale, ma anche delle fondamentali
esigenze di natura politica. Un processo di industrializzazione era cominciato in Russia
nell'ultimo ventennio dell'Ottocento. In connessione con l'inizio di questo processo,
l'intellettualità si era resa conto che l'evoluzione del paese non poteva essere frutto di
azioni individuali sfocianti nel terrorismo, ma sarebbe stata frutto dell'evoluzione dei
rapporti economici, i quali tuttavia erano segnati da un'intrinseca contraddizione, dal
momento che nello stesso tempo in cui la politica economica si orientava verso
l'industrializzazione, non si intendeva intaccare i rapporti di tipo precapitalistico esistenti
nelle campagne. Il decollo industriale fu reso possibile dall'adozione di una politica
protezionistica, dalla compressione dei salari operai e dall'ancoraggio del rublo all'oro,
fattori che richiamarono in Russia capitali stranieri attratti dai profitti molto elevati che in
tale contesto era possibile realizzare. Il settore che registrò gli investimenti più cospicui fu
quello delle costruzioni ferroviarie: il suo sviluppo determinò l'incremento delle industrie
estrattive del ferro e del carbone e la formazione d'una industria metalmeccanica, mentre
si ebbero considerevoli progressi anche nel settore tessile e in quello della produzione
petrolifera nella zona transcaucasica. L'afflusso del capitale estero fu molto massiccio:
esso nel 1890 costituiva 1/3 del capitale delle società russe e nel 1900 addirittura il 50%.
L'industria russa nacque con un alto livello di concentrazione, che non fu però determinata
da un processo di selezione operato dalla concorrenza e venne a creare un forte squilibrio
tra poche regioni industrializzate e il resto del paese, nel quale rimasero pressochè intatti
rapporti di produzione di tipo assolutamente arretrato. Questa situazione pose il problema
dei rapporti tra un proletariato industriale, dotato, per la sua stessa concentrazione, d'una
notevole forza d'urto sociale e politico, e un mondo contadino in preda a una profonda
miseria e dotato di istituzioni e strutture comunitarie passibili, in prospettiva, di sviluppo o
di distruzione. Si affacciò allora l'idea che non esistesse uno schema unico di sviluppo che
obbligasse tutti i paesi ad attraversare una fase capitalistica simile a quella che avevano
attraversato i paesi industrializzati dell'Europa occidentale, e che la Russia sarebbe potuta
arrivare al socialismo percorrendo una via diversa. I "socialdemocratici" russi tuttavia, con
alla testa Plechanov, criticarono questa prospettiva e sostennero che il passaggio
attraverso uno stadio di capitalismo sviluppato sarebbe stato inevitabile anche per la
società russa, e che quindi le forze veramente rivoluzionarie dovevano essere identificate
nella borghesia liberale e nella classe operaia, mentre il proletariato doveva favorire la
rivoluzione liberale borghese.
BRA5358 Quando aprì lo stabilimento di Highland Park, Henry Ford era ancora per lo più un
assemblatore. Acquistava motori e telai dai fratelli Dodge, quindi per completare ogni
veicolo aggiungeva una miriade di articoli ordinati presso altre aziende. Entro il 1915,
tuttavia, Ford aveva portato tutte queste attività all'interno dello stabilimento ed era sulla
buona strada verso l'integrazione verticale completa (ossia, fabbricare autonomamente
tutto ciò che è inerente alle automobili, partendo dalle materie prime). Quest'evoluzione
raggiunse la sua conclusione logica nel complesso di Rouge a Detroit, che aprì nel 1931.
Ford perseguì l'integrazione verticale in parte perchè aveva perfezionato le tecniche della
produzione di massa prima dei suoi fornitori e poteva ottenere un considerevole risparmio
sui costi facendo tutto da solo. Ma aveva anche altre ragioni, fra cui la sua particolare
natura che lo rendeva profondamente diffidente nei confronti di tutti. Il motivo principale
restava comunque il fatto che gli servivano pezzi con tolleranze più ridotte e termini di
consegna più ravvicinati di quanto fosse pensabile fino ad allora. Limitarsi ad acquistare
quanto era disponibile sul mercato, aveva riflettuto, sarebbe stato irto di difficoltà. Il
problema, come vedremo, fu che la totale integrazione verticale introdusse la burocrazia
su scala così vasta che provocò a sua volta altri problemi, non facilmente risolvibili. La
dimensione del potenziale produttivo possibile, e necessario, del sistema di Ford si
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scontrò con una difficoltà organizzativa, questa volta causata da problemi di spedizione e
dalle barriere commerciali. Ford desiderava produrre la vettura completa nello stesso
posto e venderla al mondo intero. Ma i sistemi dell'epoca non erano in grado di trasportare
a basso costo immense quantità di automobili finite senza danneggiarle. Inoltre le politiche
dei governi, oggi come allora, imponevano spesso barriere all'importazione di unità finite.
Così Ford decise di disegnare, progettare e produrre i pezzi a Detroit. Le automobili,
invece, sarebbero state assemblate in località lontane. Nel 1926, le automobili Ford
venivano assemblate in più di trentasei città degli Stati Uniti e in diciannove paesi stranieri.
Non passò molto tempo che questa soluzione cominciò a incappare in un altro
inconveniente. Il prodotto standard non era adatto indistintamente a tutti i mercati del
mondo. Per esempio, per gli americani il modello T della Ford era un'automobile piccola,
in particolare dopo che la scoperta del petrolio nel Texas aveva fatto crollare i prezzi della
benzina rendendo economicamente fattibili lunghi viaggi in automobile. Al contrario, in
Inghilterra e negli altri paesi europei, con le loro città affollate e le strade strette, il modello
T sembrava molto più grande. In più, non avendo trovato giacimenti di petrolio in patria,
negli anni Venti gli europei cominciarono a gravare la benzina di pesanti imposte per
scoraggiarne l'importazione. Gli europei iniziarono ben presto a chiedere a gran voce
un'automobile più piccola di quella che Ford voleva vendere. Oltre a ciò, massicci
investimenti diretti nei paesi stranieri fomentavano il risentimento nei confronti del
predominio di Ford sull'industria locale. In Inghilterra, per esempio, dove nel 1915 Ford era
diventato il principale produttore di automobili, il suo pacifismo nella prima guerra mondiale
fu denunciato apertamente e i dirigenti inglesi dell'azienda riuscirono infine a convincere
Detroit a offrire una cospicua partecipazione di minoranza agli inglesi per smorzarne
l'ostilità. Ford incontrò barriere in Germania e Francia anche dopo la prima guerra
mondiale. Le imposte sui pezzi e sui veicoli finiti continuavano ad aumentare. Così per gli
inizi degli anni Trenta Ford aveva creato tre impianti produttivi totalmente integrati in
Inghilterra, Germania e Francia. Queste aziende fabbricavano prodotti speciali secondo i
gusti nazionali ed erano gestite da dirigenti del posto che cercavano di minimizzare le
ingerenze di Detroit.
BRA5359 Il comico è stato a lungo considerato come un genere minore, adatto al massimo per i
bambini e per le persone meno colte e quindi non degno di essere preso seriamente in
considerazione. E questi pregiudizi non sono scomparsi del tutto nemmeno ai nostri giorni,
nonostante il fatto che, per esempio, uno scritore come Giovanni Boccaccio sia
considerato uno dei padri fondatori della nostra letteratura. Comico, in generale, è tutto ciò
che fa ridere. E anche se i meccanismi da cui nasce il riso sono molto diversi tra loro,
possiamo individuarne di tre tipi fondamentali: quelli relativi alle situazioni raccontate (per
esempio un tizio che scivola su una buccia di banana); quelli relativi al linguaggio utilizzato
(come i giochi di parole); e infine quelli che dipendono dalla relazione tra linguaggio e
situazioni (come nel caso di un picnic che venga raccontato utilizzando il gergo militare). Il
primo caso di situazione comica è appunto quello delle torte in faccia, dell'uomo che
scivola sulla buccia di banana, e di tutte quelle situazioni che fanno ridere perché ci
colgono alla sprovvista e costituiscono una sorpresa. Questo, per lo meno, è il motivo per
cui ridiamo la prima volta, perché visto che si tratta di situazioni del tutto prevedibili
impariamo ben presto a riconoscerle in anticipo. A partire da quel momento, quindi, a farci
ridere è il fatto che sia il personaggio a essere preso alla sprovvista, mentre noi abbiamo
già capito cosa gli succederà. Un altro caso è quello di situazioni quali lo scambio di
persona, in cui il malinteso fa sì che dalle azioni di un personaggio - proprio perché viene
scambiato con un altro - scaturiscano negli altri delle reazioni spropositate e non
pertinenti. E anche in questo caso ridiamo per via della nostra posizione di superiorità,
vale a dire perché sappiamo benissimo chi sia realmente quel personaggio. Un ulteriore
meccanismo è quello dell'esagerazione, che consiste nel "gonfiare" i fatti a tal punto da
renderli del tutto inverosimili, sproporzionati rispetto alla norma e spesso anche rispetto ai
limiti naturali delle cose. E infine, così come ci sono situazioni comiche, ci sono anche
personaggi comici, come quello di chi - qualsiasi cosa faccia - combina immancabilmente
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un pasticcio. I meccanismi del comico relativi al linguaggio sono invece i giochi di parole, i
doppi sensi, i paradossi ecc. Se qualcuno dice: "Mio nonno cadde durante la prima guerra
mondiale, poi si rialzò e cominciò a scappare", fa un gioco di parole, che funziona grazie al
fatto che in un primo tempo crediamo che il verbo "cadere" significhi "morire in battaglia",
mentre in seguito scopriamo che significa "finire per terra". Se consideriamo la famosa
storiella di Woody Allen che racconta di essere andato a pesca di tonni e di averne
pescate quattro scatolette, abbiamo un paradosso, vale a dire una frase che non può
essere presa nel suo significato letterale. I meccanismi che dipendono dalla relazione tra
linguaggio e situazioni, infine, consistono nel contrasto fra gli eventi e lo stile con cui
vengono raccontati, e sono essenzialmente di due tipi: l'innalzamento, che consiste
nell'utilizzare un linguaggio altisonante per raccontare banalità che accadono a persone
qualunque, e l'abbassamento, che consta, all'opposto, nell'utilizzare un linguaggio
popolare per raccontare eventi di grande importanza che accadono a eroi e a personaggi
valorosi. Un'ultima considerazione: il contrasto su cui il comico si basa ha la funzione di
fare riflettere sulla differenza tra le realtà e le apparenze, sul funzionamento del linguaggio
e sul fatto che basta vedere le cose da un altro punto di vista per scoprire in esse dei
nuovi aspetti. Anche il comico, quindi, è una cosa seria.
BRA5360 Galileo fin dai primi anni del suo insegnamento padovano, divenne un convinto
copernicano, ma tenne dapprima celato il suo pensiero poiché - come scrisse in una
lettera a Keplero - "mi spaventa la sorte del nostro maestro Copernico … diventato
oggetto di riso e di scherno". Le sue scoperte astronomiche del 1610 gli fornirono nuovi e
più probanti argomenti a favore della teoria copernicana. Infatti, per esempio, l'esistenza
dei satelliti di Giove era una prova che nel cosmo si trovano più centri di rotazione. Le
opere più squisitamente copernicane di Galileo furono: il Dialogo sopra i due massimi
sistemi (1632) e i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze
(1638). In questi scritti egli smantella i principi della fisica aristotelica: i gravi cadono tanto
più velocemente quanto più sono pesanti; per conservare il moto e la velocità di un corpo
è necessaria l'azione costante di una forza motrice. Questi principi erano stati ricavati da
una falsa generalizzazione fondata sull'osservazione di alcuni fenomeni quotidiani male
interpretati. Ma l'opera di Galileo è grande sia nella polemica distruttrice sia nel pensiero
costruttivo. Egli infatti pone le basi di una nuova dinamica e ne enuncia alcune leggi,
anche se queste vengono formulate per un particolare campo di forze, quello della gravità
terrestre. In questo campo a lui si devono le seguenti scoperte: la legge di caduta dei gravi
e il moto parabolico dei proietti; il principio di inerzia da lui formulato nella sua accezione
parziale inerente al piano orizzontale terrestre e il principio di relatività, che gli serve per
una stringente critica alle più ricorrenti obiezioni formulate contro il movimento della Terra.
Fra queste ricorderemo il disaccordo apparente fra il movimento della Terra e uno dei
fenomeni più comunemente osservati: quello della caduta verticale dei gravi lanciati verso
l'alto. Infatti, obiettavano gli oppositori di Copernico, se la Terra si muove, il grave
dovrebbe ricadere a occidente dal punto di lancio, poiché essa si sarebbe spostata
contemporaneamente verso oriente. Egli invece non darà alcuna risposta al problema
delle cause del moto circolare dei pianeti, considerando tale moto naturale. Fu Keplero ad
affrontare in forma rudimentale tale problema e a spodestare il predominio del moto
circolare introducendo quello ellittico, che ripugnava all'ideale platonico di perfezione, e
stabilendo le leggi del moto dei pianeti intorno al Sole. Spetta a Newton la gloria di avere
realizzato una prima vasta sintesi in cui fisica, matematica e astronomia si collegano in un
sistema coerente e unitario, nel quale i concetti di spazio, tempo, materia, forza e
gravitazione universale vengono precisati e si inseriscono in una concezione razionale
della natura e dell'universo. Legati a questa concezione e anche ad alcune vedute
teologiche di Newton sono i concetti di tempo e di spazio, considerati assoluti e
indipendenti sia dall'uomo come dai fenomeni. Per Newton, il tempo è "assoluto, vero,
matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno e rimane
sempre uguale e immobile". Questa concezione dello spazio e del tempo muterà solo con
la relatività di Einstein. L'opera fondamentale di Newton, i Principi matematici di filosofia
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naturale (1687), può essere considerata il primo trattato di meccanica razionale, nel quale,
partendo da alcuni assiomi, che ancora oggi in larga parte sono alla base
dell'insegnamento elementare, si deducono per via matematica tutte le leggi che regolano
una molteplicità di fenomeni. Certo, senza Keplero e le sue tre famose leggi, Newton non
sarebbe giunto a enunciare la legge della gravitazione universale, come, senza l'opera di
Galileo, non avrebbe potuto formulare i principi della dinamica. Del resto, egli stesso ebbe
a dichiarare: "Sono un nano che poggia sulle spalle di giganti".
BRA5361 La Francia della prima metà del 1600 era lontana dal formare un insieme omogeneo sotto
le stesse leggi e la stessa amministrazione. La monarchia si reggeva su una serie di
contratti con gruppi sociali, gruppi economici, istituzioni ecclesiastiche. Molte province
avevano un loro parlamento con il potere di approvare o meno l'entità delle imposte da
pagare al sovrano. Né vi era una sola giustizia, giacché restavano ancora una sessantina
di diritti consuetudinari. La vendita degli uffici pubblici, divenuti ereditari nel 1601-1602
dietro pagamento di una somma annua chiamata paulette, aveva concentrato nelle mani
dei privati le funzioni di giudici e ripartitori delle imposte. Da circa quattro secoli i sovrani
capetingi avevano cercato di uniformare la legislazione e le consuetudini, di ridurre
all'obbedienza città, province, sudditi. In particolare, l'obiettivo fondamentale della politica
di Luigi XIII (1610-1643) e di Luigi XIV (1643-1715) fu quello di organizzare uno Stato
centralizzato ed efficiente; ma la piena attuazione di questo complesso programma si
sarebbe realizzata solo con la rivoluzione del 1789 e con Napoleone. Luigi XIII si avvalse
della collaborazione, in qualità di primo ministro, del cardinale Richelieu, il quale cercò di
abbattere tutti gli ostacoli che si frapponevano all'esercizio di un potere monarchico
assoluto. La sua politica di graduali riforme e nuove iniziative in campo economico dovette
però passare al secondo posto rispetto al problema della sicurezza del regno, minacciato
dalla potenza asburgica. In vista di un conflitto con gli Asburgo, due erano i problemi da
affrontare: quello finanziario e quello dell'unità nazionale. Perciò i parlamenti delle
province vennero privati della prerogativa di bloccare la raccolta di fondi per la guerra e
furono ridotti alla semplice funzione giudiziaria; in tal modo, alle province venne sottratto
contemporaneamente lo strumento fondamentale della loro autonomia rispetto al governo
centrale. Un altro grave colpo fu inferto agli ufficiali addetti alla riscossione delle imposte,
ai quali vennero affiancati - con lo scopo di sostituirli gradualmente - dei commissari regi,
gli intendenti, con il compito di ripartire in modo più equo il carico fiscale. Questi
provvedimenti attuavano una vera e propria rivoluzione, che colpiva soprattutto la classe
borghese detentrice degli uffici. Alla morte di Richelieu (1642) il Paese aveva ampliato i
suoi territori a spese dell'Impero asburgico con l'acquisto dell'Alsazia, del Rossiglione e
dell'Artois, e la monarchia aveva rafforzato il proprio potere, senza avere tuttavia eliminato
le resistenze interne. Nel periodo 1648-52 essa dovette sostenere una breve ma violenta
guerra civile per respingere, prima, l'attacco dei parlamenti e della nobiltà di ufficio e di
toga, diretto a limitare il potere del re (Fronda parlamentare), e poi la rivolta dei principi
(Fronda dei principi). Il cardinale Mazzarino che aveva preso il posto di Richelieu, riuscì a
battere l'opposizione armata, ma il Paese rimase stremato. Alla morte di Mazzarino (1661)
Luigi XIV non volle più accanto a sé primi ministri troppo violenti e per oltre cinquant'anni il
Paese fu dominato dalla sua volontà centralizzatrice. La parte essenziale della sua opera
fu pensata e decisa nel giro di un decennio (dal 1661 al 1672), periodo che corrispose a
una politica di pace verso l'esterno. Dopo il 1672 la nuova macchina statale alimentò
invece una politica di guerra, che rese pressoché vane le conquiste economiche di quel
decennio. Molto del merito di quell'opera fu di Jean Baptiste Colbert, che, con la qualifica
di Controllore generale delle Finanze, ebbe in mano tutta la vita economica del Paese,
dall'amministrazione finanziaria all'agricoltura, dall'industria ai lavori pubblici, al
commercio.
BRA5362 Sull'origine della vita dal mondo inorganico si è discusso interminabilmente, e tuttora si
discute. Ma i dati sperimentali di cui dispone la biologia moderna sono tali da far ritenere
che la soluzione di questo problema appaia oggi meno vaga di quanto non lo fosse una
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cinquantina di anni or sono. In antico si riteneva possibile che da sostanze inorganiche o
da sostanze organiche in decomposizione si originassero animali, come mosche, anguille,
rane, topi. J. B. Van Helmont, nel secolo XVII, affermava che basta lasciare alcuni stracci
vecchi e sudici in una soffitta, perché da questi nascano topi. La generazione spontanea
era pacificamente ammessa da filosofi e naturalisti. Il primo a porsi il problema in termini
scientifici fu il celebre medico e poeta aretino Francesco Redi, che si propose di risolvere
la questione mediante l'esperimento. Prese carni di diverse specie, le lasciò andare in
putrefazione, e vide che dopo un certo tempo da esse nascevano mosche. Immaginò
allora l'esperimento di porre le carni entro vasi di vetro la cui apertura fosse chiusa con
carta strettamente aderente, e constatò che in questi vasi mai s'ingenerano mosche.
Ripetute "infinite volte" le esperienze, il Redi, nella sua celebre opera Esperienze intorno
alla generazione degli insetti poté concludere che le mosche nascono dalla carne
putrefatta soltanto quando altre mosche vi abbiano precedentemente deposto le uova. I
sostenitori della generazione spontanea opposero argomentazioni ed esperimenti: tutti
fallaci. Il padre gesuita Athanasius Kircher, per esempio, diede la seguente ricetta per far
nascere le rane: prendi la polvere della melma di quelle paludi dove le rane avevano fatto i
"nidi", impastala con acqua piovana, e nelle mattine di estate mettila ad un tepido calore di
sole, innaffiala con acqua piovana e vedrai formarsi certe bolle che si trasformeranno in
ranuzze bianche. Il Redi dichiarò di non aver mai "avuto l'onore" di veder riuscire questi
esperimenti, ancorché l'avesse reiteratamente provati. Le osservazioni e le conclusioni
negative del Redi furono poi confermate ed estese da altri naturalisti e specialmente da A.
Vallisnieri. Verso la metà del Settecento quasi tutti i naturalisti erano ormai convinti della
inesistenza della generazione spontanea delle rane, dei vermi, degli insetti. Ma di recente
erano stati scoperti altri organismi minutissimi, visibili soltanto al microscopio, che si
sviluppano prodigiosamente nelle infusioni di sostanze organiche in acqua. Per questa
ragione furono chiamati Infusori, nome che è loro rimasto: oggi sono classificati fra gli
esseri unicellulari, o Protozoi. Si pensò che questi organismi microscopici si originassero
per spontanea aggregazione delle particelle organiche che si distaccano dalle erbe, o altre
sostanze messe in infusione. Questa ipotesi fu sostenuta in base a osservazioni ed
esperimenti-sbagliati-dall'inglese J. T. Needham e il Buffon vi costruì sopra una teoria. Il
grande biologo Lazzaro Spallanzani, poco persuaso della verità dei fatti asseriti dal
Needham, istituì esperimenti accurati e giunse alla conclusione che se si portano a
temperatura elevata le infusioni, i recipienti che le contengono e l'aria che giunge a
contatto del liquido, esse non dànno origine ad alcun infusorio. Questi "animalcoli"
nascono soltanto da microscopici germi preesistenti: se questi vengono distrutti col calore,
le infusioni rimangono sterili. Queste ricerche furono oggetto-come già un secolo prima
quelle del Redi-di vivace polemica: ma le conclusioni erano giuste, e infine tutti furono
costretti ad accettarle. La disputa rinacque ancora una volta a distanza di un secolo, a
proposito dei batteri. L. Pasteur, con lo stesso metodo usato da Spallanzani, dimostrò che
anche i batteri si originano da germi piccolissimi, presenti nel pulviscolo atmosferico, e
che, a loro volta, provengono da altri batteri. Essi possono venire uccisi col calore o con
altri mezzi, e allora il brodo di cultura rimane sterile.
BRA5363 Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari
oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube
sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un'automobile sono oggetti artificiali. Ma
appena si analizzano tali giudizi ci si accorge che essi non sono né immediati né del tutto
obiettivi. Sappiamo che il coltello è stato forgiato dall'uomo per un uso, per una
prestazione progettata in precedenza. L'oggetto materializza quindi l'intenzione
preesistente da cui ha tratto origine e la sua forma è giustificata dalla prestazione a cui era
destinato ancor prima della sua effettiva realizzazione. Nulla di simile per il fiume o per la
roccia che sappiamo o pensiamo modellati dal libero gioco di forze fisiche alle quali non
sapremmo attribuire alcun 'progetto'. Tutto ciò naturalmente è valido se si ammette il
postulato fondamentale del metodo scientifico secondo cui la Natura è oggettiva e non
proiettiva.
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BRA5364 La metacognizione è la consapevolezza che l'individuo ha dei processi cognitivi, e che si
manifesta sia nella conoscenza delle operazioni e dei procedimenti di cui fa uso, sia nella
capacità di osservarsi mentre si esegue un compito, ponendolo sotto controllo. Grazie
all'attività metacognitiva, il soggetto è in grado di riconoscere che cosa sta facendo,
interviene per scegliere la strategia più adatta in ogni fase del compito, ne controlla
l'applicazione, verifica se i risultati sono soddisfacenti e se il lavoro può ritenersi concluso,
e così via. Varie ricerche sperimentali hanno dimostrato che nell'esecuzione delle attività
complesse riescono meglio quei soggetti che impiegano più tempo nelle fasi di riflessione
e di controllo e, relativamente, un tempo minore in quelle di esecuzione. Gli apprendimenti
innescati con largo impiego di capacità metacognitive sarebbero, inoltre, più duraturi. Per
quanto riguarda in particolare la scrittura, molti sostengono che prendere coscienza dei
propri processi cognitivi sarebbe una base importante per lo sviluppo di una competenza
matura. Gli studenti, difatti, assumerebbero un ruolo più attivo e motivato nelle attività di
composizione e, soprattutto, il loro sforzo per acquisire strategie più complesse
acquisterebbe un significato grazie alla consapevolezza degli obiettivi cognitivi che si
propongono, delle potenzialità delle strategie che ancora non padroneggiano e dei
progressi via via realizzati. Si può concludere, di qui, che non è sufficiente che gli studenti
imparino a usare delle tecniche. Occorre, anche, che ne divengano coscienti e
acquisiscano la conoscenza del processo di composizione nelle sue varie componenti,
così da essere in grado di governarlo. La scrittura non è infatti un'attività compatta e
indivisibile, ma un'azione complessa che coinvolge una pluralità di operazioni: costituisce
un processo. L'idea che essa comprenda più fasi risale tuttavia alla retorica classica, che
distingueva, come è noto, cinque stadi operativi: l'inventio (reperimento delle idee e dei
dati), la dispositio (organizzazione e ordinamento dei materiali in funzione dello sviluppo
del discorso), l'elocutio (messa a punto verbale), la memoria (memorizzazione del
discorso) e l'actio (esecuzione conclusiva). Di questi cinque stadi, solo i primi tre
interessano direttamente la composizione. Gli ultimi due, infatti, sono riferiti all'esecuzione
del testo, destinato a una pubblica performance orale nelle assemblee politiche o
giudiziarie. Nel quadro di tale impostazione si collocano anche le proposte, più recenti,
della manualistica neo-retorica, diffusa soprattutto in ambiente anglo-americano. Il modello
classico viene qui però ulteriormente articolato, con l'attribuzione di uno spazio specifico
all'attività di revisione del testo prodotto. Questa concezione tradizionale è alla base di
tutte le elaborazioni successive, che si propongono tuttavia di superarne la staticità.
Nell'impianto retorico vi è l'idea infatti che le diverse attività implicate nello scrivere si
susseguano in modo rigidamente lineare, e che ciascuna di esse rappresenti un momento
chiuso del processo complessivo. Chi scrive, invece, non segue una sequenza di tipo
rigorosamente progressivo, ma si muove con una certa libertà da uno stadio all'altro, torna
su stadi precedenti, anticipa stadi successivi. Per esempio, dopo aver preparato la
"scaletta" ed aver dato inizio alla stesura del testo, può avere dei ripensamenti e
modificare di conseguenza il piano precedentemente elaborato. Oppure, durante la fase di
revisione, può cogliere un vuoto informativo e retrocedere alla ricerca di dati e idee. Le
operazioni di scrittura, insomma, non vengono affrontate in sequenza lineare, ma piuttosto
in maniera ricorsiva. Oggi si preferisce perciò considerare la composizione come un
processo costituito di sotto-processi, ognuno dei quali si distingue per un compito specifico
che viene affrontato (ad esempio elaborare idee, pianificare, revisionare …), ma non è
vincolato a una posizione rigida in una sequenza di atti scritturali. Chi scrive spezza
l'azione complessiva in sotto-azioni, per ridurre la complessità del compito, ma si muove in
modo elastico e flessibile fra le diverse componenti operative, coordinandole mediante un
sistema di regolazione che gli permette di tenere sotto controllo l'insieme dell'attività.
BRA5365 Dennis Charles, responsabile dell'ufficio acquisti di una grande azienda americana, è
famoso per le sue strategie commerciali un po' fuori del comune: per stabilire i budget da
destinare ai vari settori di vendita non fa affidamento su proiezioni economiche,
demografiche o di marketing, ma usa i dati diffusi dagli enti che si occupano di previsioni
meteorologiche a lungo termine. In base alle informazioni così ottenute stabilisce, per
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esempio, quanti ventilatori o condizionatori ordinare in vista dei mesi estivi senza correre il
rischio di avere giacenze di magazzino. E, a quanto dice, la sua tattica si è rivelata
vincente nella maggioranza dei casi. Del resto, la storia insegna che la vita dei popoli è
sempre stata strettamente legata alle condizioni climatiche. Il biblico esodo degli ebrei
verso la Palestina fu determinato tra l'altro dalla grande siccità che, intorno al 1300 a.C.,
colpì la zona del Nilo. Nel 1450 in Groenlandia tutti gli abitanti morirono a causa
dell'eccessiva rigidità del clima, ma se ne ebbe notizia solo cinquanta anni dopo perché
l'isola rimase a lungo circondata da un'enorme barriera di ghiaccio che impediva di
raggiungerla. Ma qual è l'efficacia delle previsioni meteorologiche? "Dipende da quella che
in termini scientifici si chiama validità della previsione", spiega Antonio Ghezzi, esperto di
climatologia dell'Osservatorio Meteorologico di Milano Duomo. "Le previsioni a breve
termine, cioè fino a 18-24 ore, hanno una percentuale di successo pari al 95%. Quelle a
medio termine, su un periodo compreso tra 24 e 72 ore, ci danno un'idea dell'evoluzione
generale della situazione atmosferica, per quel che riguarda in particolare la temperatura
ed eventuali precipitazioni. Infine, le cosiddette previsioni a lungo termine, cioè fino a 168
ore, ci dicono solo la tendenza di singoli parametri, quali appunto la temperatura e le
precipitazioni". E superate le 168 ore? "Oltre questi termini si passa alle cosiddette
'previsioni climatologiche', distinguibili, a loro volta, in tre categorie: a breve termine, riferite
a periodi da 10 a 30 giorni; a medio termine, stagionali o annuali; a lungo termine, ovvero
pluriennali o addirittura secolari. Comunque queste previsioni ci forniscono soltanto stime
di massima, cioè non sono in grado di stabilire se un determinato giorno ci sarà il sole o
pioverà. Ovvio che la loro attendibilità diminuisca con l'aumentare del periodo temporale
preso in considerazione". In ogni caso, i meteorologi hanno obiettivi molto ambiziosi: la
ricerca sta già esplorando nuove strade per ottenere previsioni certe su scala stagionale.
L'ottimismo degli scienziati in questo campo si basa essenzialmente su tre fattori: il
costante miglioramento nella comprensione dei processi chimico-fisici che regolano
l'atmosfera, la continua evoluzione dei modelli matematici che simulano gli eventi climatici
a partire dai dati forniti dalle stazioni meteorologiche sparse in tutto il mondo e il crescente
progresso nel campo della tecnologia dei satelliti destinati alle osservazioni ambientali del
pianeta. Occorre sottolineare che negli ultimi anni in tutto il mondo si verificano sempre più
frequentemente eventi meteorologici che sembrano sfuggire al controllo dei ricercatori.
Basta ricordare la nevicata avvenuta a Milano il 17 aprile 1991. "Quell'episodio", spiega
Ghezzi, "fu effettivamente imprevedibile. Fu provocato da un improvviso afflusso di aria
artica, probabilmente proveniente dalla Groenlandia, che in sole 3 ore e mezza provocò un
abbassamento di temperatura pari a 16,5 gradi centigradi". Un evento con caratteri
estremi, ma inquadrabile nella normale variabilità climatica o un'indicazione del fatto che
l'atmosfera del nostro pianeta sta cambiando? "Nella comunità scientifica molti sono ormai
convinti che il clima del nostro pianeta stia attraversando una fase di forte instabilità"
afferma Ghezzi, "come se la terra fosse sotto stress e, purtroppo, il quadro generale lascia
supporre che eventi meteorologici anomali si ripeteranno sempre più spesso che nel
passato".
BRA5366 Alla fine degli anni sessanta, all'immobilità del governo si erano aggiunti gli "scandali"
provocati dalla corruzione di una classe politica da troppo tempo al potere. Immobilità e
scandali avevano intaccato poco l'immagine e il potere della classe politica, mentre la
situazione sociale era radicalmente cambiata: gli italiani ormai sapevano che le riforme di
cui il centrosinistra si era riempito la bocca per quasi un decennio non sarebbero arrivate,
e intanto il miracolo economico si stava spegnendo senza nuove prospettive. La gente
doveva adeguarsi, cercando da sola le soluzioni che la politica era incapace o
disinteressata a dare. Però stava avvenendo qualcosa: la riforma della scuola aveva
portato all'istruzione di massa ma aveva abbandonato un'enorme quantità di studenti a
programmi, strutture e docenti che non potevano e soprattutto non volevano prendere atto
del cambiamento. Se le difficoltà erano gravi nelle scuole medie e superiori, diventavano
gravissime all'università, a cui, dopo la riforma, poteva accedere chiunque avesse
frequentato una qualsiasi scuola superiore. Nel quinquennio 1962-1967 gli studenti
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universitari raddoppiarono superando il mezzo milione: un'università pensata per poco più
di 125.000 non poteva reggere l'impatto. Solo i professori avrebbero potuto e dovuto fare
qualcosa, rivolgendosi ai politici responsabili di un simile squilibrio. Se non era una strada
facile, era l'unica seria e possibile, ma per i docenti mettere in discussione il sistema
universitario avrebbe significato rivedere la legislazione che regolava il loro rapporto di
lavoro. Per un salario medio-alto e un'ottima posizione bastavano 52 ore all'anno di
presenza: troppe, perché la maggior parte dei docenti era occupata anche in altri impegni
professionali, pubblici o privati, comunque più lucrosi. I professori rovesciarono così la
responsabilità di tutto sugli studenti. Dopo la riforma i docenti divennero non solo più
autoritari e sfuggenti, ma trasformarono il momento dell'esame da meccanismo per la
valutazione in strumento per risolvere il sovraffollamento, in una farsa in cui l'autoritarismo
dei metodi e il soggettivismo dei giudizi erano spinti all'eccesso, rendendo gli esami
insuperabili specialmente per i più deboli e i più poveri, che spesso erano anche i più
volenterosi e desiderosi di promozione sociale, gli studenti-lavoratori. Fin dall'inizio lo
Stato si era reso conto della situazione e aveva trovato un pessimo rimedio per una cattiva
legge: non fissare un limite di tempo per raggiungere la laurea, come avveniva in quasi
tutti i paesi occidentali. Studenti demotivati e "fuori corso" contrapposti a professori assenti
e non disposti ad accettare la nuova realtà divennero la regola di un'università senza
regole, in luogo dove si premiavano non i migliori ma i più abbienti. Inoltre la laurea non
garantiva a nessuno di inserirsi in un mercato del lavoro difficilissimo che, per la maggiore
offerta di diplomato o laureati e la congiuntura economica sfavorevole, era governato dalla
politica. Tutto ciò, infatti, avvenne quando le contraddizioni basilari e l'ipocrisia dell'intero
sistema economico e politico, alla fine del Boom, erano ancora più evidenti. La
maggioranza degli studenti poteva ritrovarsi ed esprimere la propria frustrazione soltanto
all'università, dove era cresciuta e dove trasferiva le sue amare esperienze. Per la prima
volta nella storia italiana, l'università si trasformava da luogo di formazione della classe
dirigente a luogo di critica del sistema e dei partiti, sia quelli che l'avevano prodotto, sia
quelli che non erano stati in grado di trovare un'alternativa. Gli studenti cominciarono a
pensarsi non più come protagonisti della società futura ma come "oggetti" di uno scambio
incontrollabile da loro, "merce intellettuale" venduta e comprata da un sistema in cui non si
riconoscevano.
BRA5367 Con la partenza di molti inglesi durante la guerra dei Cent'Anni e di numerosi tedeschi al
momento del Grande Scisma, l'Università di Parigi tendeva a reclutare personale
francese. Dal tempo del regno di Filippo il Bello, almeno, essa occupava un posto politico
di primo piano. Carlo V la chiamerà "la figlia maggiore del Re". Essa è ufficialmente
rappresentata nei concili nazionali della Chiesa di Francia e nelle assemblee degli Stati
Generali. La sua mediazione sarà chiesta nel momento della lotta tra Ètienne Marcel e i
parigini da una parte e la corte dall'altra, e al momento dell'insurrezione dei Mollotiens;
essa sarà uno dei firmatari del Trattato di Troyes. Il suo prestigio è immenso. Questo
prestigio non le viene soltanto dai suoi membri effettivamente discenti o docenti, ma da
tutti i maestri che occupano in Francia e all'estero posti di grande importanza e che hanno
mantenuto con essa legami assai stretti. Tuttavia essa resta legata al papato, tanto più
che i papi di Avignone, tutti francesi, la favoriscono notevolmente. Essi la legano a sé per
via di donazioni sempre più imponenti. Ormai ogni anno parte, diretto alla Corte di
Avignone, un ruolino contenente i nomi dei maestri per i quali l'Università chiede al papa di
attribuire rendite o titoli per assegnazione dei benefici ecclesiastici. Se essa è la figlia
primogenita del re di Francia è altresì la prima scuola della Chiesa e occupa un posto di
arbitrio internazionale in materia teologica. Lo scisma turbò questo equilibrio. Da principio
l'Università optò per il papa di Avignone poi, stanca delle sempre maggiori esazioni del
papato e preoccupata di ristabilire l'unità della Chiesa, essa fece sì che il re di Francia lo
abbandonasse, sia pure momentaneamente, e reclamò senza sosta che venisse adunato
un concilio per metter fine allo scisma con abdicazione dei pontefici rivali. Nello stesso
tempo essa diveniva il campione della superiorità del concilio rispetto al papa e
dell'indipendenza relativa della Chiesa nazionale nei riguardi della Santa Sede, del
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gallicanesimo. Le agitazioni, da cui fu caratterizzato il regno di Carlo VI, culminarono con
la rivoluzione della fazione borgognona, detta dei cabochiens, dal nome del suo capo, il
beccaio Caboche, scoppiata a Parigi e determinarono la spartizione del paese tra inglesi e
francesi. Parigi era la capitale del re inglese. È certo che l'Università non abbracciò subito
né tutta intera il partito borgognone. Il duca di Borgogna si appoggiava sugli ordini
mendicanti cui l'Università era tradizionalmente avversa. Essa aveva condannato e
perseguitava Jean Petit, che aveva fatto l'apologia dell'assassinio del duca d'Orléans. Al
momento della conquista inglese molti dei maestri abbandonarono Parigi e formarono
l'ossatura amministrativa del regno di Bourges e popolarono la nuova Università di
Poitiers. Quelli che erano rimasti a Parigi, dopo essersi accostati ai borgognoni, si
sottomisero alla volontà degli inglesi. Il più famoso episodio di questo periodo inglese
dell'Università di Parigi è l'azione che essa condusse contro Giovanna d'Arco.
Manifestando a Giovanna la propria ostilità essa faceva soltanto ciò che piaceva al suo
padrone straniero. Essa seguiva anche l'opinione popolare che era molto ostile alla
Pulzella, come testimonia, tra gli altri, il Bourgeois de Paris, e mostrava inoltre sino a che
punto questi intellettuali imbevuti della propria importanza fossero incapaci a liberarsi della
loro alterigia di dotti dinanzi alla gloriosa ingenuità, alla candida ignoranza di Giovanna. Si
sa che l'Università diresse il processo contro la Pulzella e annunciò la sua condanna al re
d'Inghilterra con una non dissimulata soddisfazione.
BRA5368 Alcuni economisti negli anni settanta ritenevano che, con il trascorrere del tempo, il divario
esistente tra il mondo economicamente sviluppato e quello sottosviluppato fosse destinato
a ridursi. Il motivo fondamentale risiedeva nella considerazione che i Paesi poveri,
caratterizzati dalla presenza di manodopera a basso costo, avrebbero attirato i capitali
stranieri mediante i quali iniziare una fase di ammodernamento e di progresso. Queste
previsioni si sono però dimostrate errate ed il differenziale di benessere non accenna a
diminuire, anzi: dal secondo dopoguerra ad oggi esso ha registrato incrementi pressoché
ininterrotti e continua ad aumentare, nonostante in questi ultimi anni alcuni Paesi una volta
poveri abbiano dimostrato incredibili capacità di sviluppo e stiano diventando nazioni
industrializzate e moderne a tutti gli effetti. Il problema delle aree nelle quali regna la
miseria è la necessità di investimenti ingentissimi, senza i quali non è pensabile un
ribaltamento della situazione. Ora, se questi Paesi non possono contare su entrate dovute
alla cessione di risorse interne (es. materie prime), peraltro in genere estremamente
soggette alla fluttuazione delle quotazioni, dipendono totalmente dalle politiche di
investimento di altri Paesi e quindi, poiché non esiste una programmazione di interventi
concertata in maniera tale da soddisfare la loro necessità di investimenti, da variabili
assolutamente incontrollabili. Alcuni casi hanno però dimostrato che una politica di riforme
economiche, anti-inflattiva e di apertura ai capitali stranieri in un regime di agevolazioni
fiscali per le attività produttive possono, se non risolvere tutti i problemi, porre le basi per lo
sviluppo; tutto ciò fermo restando il fatto che il basso costo della manodopera è un
requisito essenziale.
BRA5370 M'ama o non m'ama? Milioni di romantici innamorati cercano una risposta, forse illusoria,
sfogliando disciplinatamente la regolamentare margherita; ed è motivo di meraviglia che
esistano ancora margherite con i petali tutti al loro posto, stante il numero elevato degli
innamorati e stante il fatto che in amore le certezze sono davvero poche. Ma se negli affari
di cuore ogni cosa appare sfuggente, incerta, contraddittoria, possiamo almeno consolarci
al pensiero che in altri campi ci sono sicurezze assolute e indiscutibili? Se ci pensiamo
bene, dobbiamo riconoscere che le situazioni che consentono di mettere tranquillamente
la mano sul fuoco sono meno di quanto si potrebbe credere a prima vista. Nel giorno di
ferragosto a Roma, farà caldo? Quasi certamente sì. Lanciando 100 volte una moneta
verrà sempre testa? Quasi certamente no. Però... però c'è pur sempre un quasi che ci
separa dalla certezza, perfino davanti a eventi piuttosto scontati! La verità - fastidiosa, ma
inesorabile - è che nella vita è molto raro che si possa essere proprio certi di qualcosa. Ciò
non toglie che noi tutti saggiamente rifiutiamo di farci paralizzare dal margine di incertezza
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che è insito nelle cose, e "scommettiamo" sul verificarsi di certi eventi: i romani prenotano
alberghi in località di mare o di montagna per il ferragosto, i giocatori puntano sul fatto che
il numero di teste e di croci, in 100 lanci, sia più o meno equilibrato. Insomma, pur
consapevoli dell'esistenza di un margine di rischio, non ci tiriamo indietro e operiamo
scelte in condizioni di incertezza. Le decisioni che prendiamo nelle numerosissime
situazioni in cui disponiamo di una quantità di informazioni non sufficiente per avere la
certezza del verificarsi o meno di un evento sono guidate da una valutazione
probabilistica. Per millenni tale valutazione - anche nei casi più semplici - è stata condotta
"a occhio", sulla base di ragionamenti informali o di esperienze non quantificate. Ad
esempio, l'abitante di una popolosa città dove ogni anno, attraverso un sorteggio,
venivano scelti i dieci cittadini tenuti a sacrificare ciascuno un vitello alla divinità locale,
avrebbe potuto giudicare tale usanza molto nobile e pia, nella (fondata) speranza che nel
corso della sua vita non sarebbe mai toccato a lui privarsi del vitello: il gran numero degli
abitanti della sua città e la positiva esperienza degli anni precedenti fornivano un
sufficiente conforto alla sua magnanimità (e al suo ottimismo). Solo in tempi relativamente
recenti (a partire dal diciassettesimo secolo) si sviluppa il tentativo di basare le valutazioni
di probabilità su considerazioni di tipo quantitativo. Tale tentativo coincide con la
fondazione di un capitolo della matematica del tutto nuovo e originale, il cosiddetto calcolo
delle probabilità. La nascita del calcolo delle probabilità è sollecitata da curiosità e
problemi che prendono forma in ambienti piuttosto lontani da scuole e accademie: furono
gli accaniti giocatori che passavano le loro serate nelle sale da gioco o nelle taverne ad
avvertire per primi l'esigenza di un modo rigoroso e "scientifico" di valutare la probabilità.
Paradossale? Non troppo. In effetti, a ben rifletterci, sale da gioco e taverne costituivano i
"laboratori" ideali della nuova scienza. Infatti è nel gioco che i problemi della probabilità si
presentano in forma semplice e "pulita", all'interno di esperienze ripetibili e indipendenti da
circostanze esterne e accidentali. Prendiamo ad esempio il gioco dei dadi: è possibile
analizzare in modo sistematico le configurazioni che si possono presentare, effettuare
calcoli, fare previsioni e verificarle attraverso delle prove; in una parola, è possibile e
abbastanza naturale procedere in direzione di una matematizzazione. Altra cosa, ben
diversa e ben più difficilmente formalizzabile, è fare previsioni e calcoli rispetto al prossimo
raccolto di riso o rispetto alle reazioni della popolazione a un determinato provvedimento
delle autorità.
BRA5371 Negli anni immediatamente successivi alla prima Guerra Mondiale la Germania conobbe
una grave crisi economica, dovuta in particolar modo alla pesante eredità del conflitto. I
debiti di guerra risultarono essere ingentissimi ed i vincitori, sebbene ne avessero tutto il
diritto, presentarono una lista di richieste assolutamente impossibile da soddisfare per un
Paese quasi allo stremo. L'inflazione prese rapidamente a galoppare, raggiungendo livelli
vertiginosi, tanto che nel novembre 1923 il cambio dollaro/marco era di 1 contro
4.200.000.000. Il futuro non prometteva nulla di buono poiché, sempre a causa della
sconfitta, la Germania aveva perso l'intera flotta mercantile, i pescherecci d'alto mare, il
25% della propria produzione di carbone ed il 75% della produzione di minerali ferrosi.
Nonostante questa pesante eredità, a partire dal 1923 si riuscì a stabilizzare la quotazione
della moneta e la qualificata manodopera tedesca poté nuovamente iniziare a produrre
con profitto, tanto che, nel giro di sei anni, venne ricostituita la flotta mercantile ed
intrapreso un piano di riassetto urbanistico che fece scuola nel mondo. Le ragioni della
svolta del 1923 sono forse soprattutto di ordine psicologico: quando l'inflazione raggiunse
livelli praticamente fantascientifici, il pensiero dominante nelle coscienze tedesche divenne
quello di considerare che le cose, peggio di così, non potevano andare e che tanto valeva,
quindi, tentare di risollevare la situazione con i mezzi a disposizione. Vennero introdotti
nuovi macchinari e nuovi metodi di lavoro; vennero investiti i capitali esteri, soprattutto
statunitensi, che affluirono nuovamente nel Paese e l'economia conobbe uno slancio
poderoso, ma fragile. Fragile perché le risorse impiegate nel periodo del
Wirtschaftswunder, il miracolo economico, erano pressoché interamente derivanti da
prestiti stranieri a breve termine e come tali portavano dentro di loro quegli elementi di
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incertezza, instabilità, che non tardarono a produrre effetti. A ciò va aggiunto un quadro
politico tutt'altro che chiaro, a causa della mancanza di una guida forte ed autoritaria alla
testa del Paese, tanto cara ai tedeschi vecchio stampo, e della presenza di forze politiche
senza iniziativa e tutto sommato non disposte ad assumersi l'onere che la guida di un
Paese nel quale serpeggiava il malcontento avrebbe comportato. Il partito
socialdemocratico, infatti, pur rappresentando al termine del conflitto la principale forza
politica tedesca, manteneva un atteggiamento di minima resistenza sia a livello di politica
estera che di politica interna, senza considerare il fatto che, avendo firmato il trattato di
Versailles, si era indirettamente assunto la responsabilità del conflitto agli occhi dei
tedeschi. La seconda forza politica era rappresentata dai democratici, ma questi si
proponevano con un programma, i tratti salienti del quale erano decisamente inaccettabili
per la maggior parte della popolazione: esso prevedeva una serie di accordi con Francia e
Gran Bretagna, argomenti certamente non facili da sostenere in quel periodo tanto che,
nell'arco di circa tredici anni, la percentuale di voti a loro favore diminuì dal 16% all'1%
circa.
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BRA4003 La dilatazione temporale del periodo di