Coordinato da Cristiano Iurilli agenzia adiconsum • anno XV - n. 56 • 7 luglio 2003 Stampato in proprio in luglio 2003 In questo numero: Allevamento di bovini e tutela del consumatore Risarcimento del danno da vacanza rovinata Novità giurisprudenziali - Allevamento di bovini e tutela del consumatore - Risarcimento del danno da vacanza rovinata - Danno morale derivante dalla morte di un congiunto - Annullamento ed illegittimità del “fermo” amministrativo - Danno per caduta su scala mobile - Divieto di anatocismo anche per i mutui ordinari Registrazione Tribunale di Roma n. 350 del 9.06.88 – Sped. in abb. post. comma 20/c art.2 L.662/96 Filiale di Roma Consumi & diritti NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI Allevamento di bovini e tutela del consumatore Nota a Cassazione Sezione III penale, sentenza del 16/1/02. La detenzione in azienda di animali bovini destinati alla vendita per il consumo trattati con sostanze ad effetto anabolizzante, è ancora oggi punita come reato. La massima “La detenzione in azienda di animali bovini destinati alla vendita per il consumo, trattati con sostanze ad effetto anabolizzante, è ancor’oggi punito come reato ai sensi dell’art. 5 lett. a) L. 30 aprile 1962 n. 283 in quanto il rapporto tra la citata legge generale e quella speciale (art. 3, I comma, lett. d) D. L. 336/99) che vietava la detenzione in azienda di animali trattati con sostanze ad effetto anabolizzante successivamente depenalizzata dal D.L. 30/12/99 n. 507, non realizza un fenomeno abrogativo, ma dà soltanto origine ad un rapporto tra norma generale derogata e norma speciale derogatoria con la conseguenza che venuta meno l’efficacia della norma speciale, quella generale si è automaticamente riespansa, anche con le fattispecie medio tempore previste dalla disciplina caducata.” I riferimenti legislativi L. 30/4/62 n. 283, disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande; art. 5 D.L. 4/8/99 n. 336, attuazione delle direttive 96/22/Ce e 96/23/Ce, concernenti il divieto di utilizzazione di alcune sostanze ad azione ormonica, tireostatica, e delle sostanze ßagoniste nella produzione di animali e le misure di controllo su talune sostanze e sui loro residui negli animali vivi e nei loro prodotti; art. 3 D.L. 30/12/99 n.507, depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio ai sensi dell’art. 1) L. 25/6/99 n. 205. Brevi note a commento La sentenza in rassegna riconsidera penalisticamente rilevante la condotta dell’allevatore che detenga animali, destinati alla vendita ed al consumo umano, trattati con sostanze ad effetto anabolizzante. A prima vista, parrebbe “bizzarro” che una condotta così inosservante della salute del consumatore possa essere tollerata dal nostro sistema. Ma il problema è nato non già con la mancanza di una norma di tutela generale volta a garantire la genuinità delle sostanze alimentari poste in vendita (tutela operante in via generale con la L. 283/62), ma –paradossalmente– con l’introduzione di una norma ad hoc, e precisamente l’art. 3 D.L. 336/99 che vietava espressamente la detenzione di animali anabolizzati, poi abrogata per effetto della c.d. “depenalizzazione dei reati minori”, con il conseguente quesito interpretativo di verificare se detta “condotta” sia ancora degna di tutela penale (apparentemente venuta meno proprio con la depenalizzazione) o se debba rientrare in una fattispecie punita solo con una sanzione amministrativa. Test noi consumatori 2 Consumi & diritti Per comprendere meglio il fenomeno è necessario ripercorrere brevemente l’excursus legislativo. Il dato normativo di partenza è costituito dalla L. 283/62, il cui art. 5 lett. a), ha vietato di produrre o porre in commercio alimenti adulterati e/o con presenza di cariche microbiche o batteriche pericolose, o comunque nocive per la salute. Detta norma –di carattere generale rispetto alla fattispecie cristallizzata nell’art. 3 D.L. 335/99– è stata utilizzata nel corso degli anni proprio per colpire il comportamento di quegli allevatori che, per realizzare un ciclo produttivo più veloce e redditizio, “gonfiavano” i propri bovini con gli anabolizzanti, pratica molto diffusa negli anni ’80 e tutt’ora, rivisitata e corretta, in voga. Nei primi anni ‘90, a seguito di una maggiore sensibilizzazione sulla tutela del consumatore, il legislatore europeo si è preoccupato di considerare detto comportamento come intollerabile all’interno della disciplina del commercio comunitario, così promulgando una precisa direttiva comunitaria (in realtà due, la 96/22/Ce e la 96/23/Ce) per arginare e colpire anche questo fenomeno di adulterazione di prodotti destinati al consumo. Le due direttive entrano nel sistema del diritto italiano grazie al D.L. 336/99 che, in conformità alle disposizioni comunitarie, all’articolo 3, I comma, lett. b), vieta la detenzione in azienda di animali trattati con anabolizzanti et similia, prevedendo una sanzione penale (arresto o ammenda). Dunque, la condotta dell’allevatore che deteneva bovini adulterati con anabolizzanti per la loro vendita non veniva più “sussunta” e contestata come violazione dell’art. 5 L. 283/62 (legge generale di tutela della salute), ma come violazione della più specifica (e dunque speciale) norma di cui all’art. 3 D.L. cit.. Tutto ciò in perfetta sintonia con i principi generali del diritto in materia di successione di leggi penali del tempo. Purtroppo, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, detta norma viene “scolorita” della sua natura penalistica, per essere apparentemente condotta nell’alveo delle mere violazioni amministrative. Con il D.L. 507/99 il legislatore infatti è intervenuto nel sistema depenalizzando alcune fattispecie di reato, tra cui anche quella prevista e punita dal sopracitato articolo 3. Con l’abrogazione di questa fattispecie di reato si è aperto così un vulnus nel sistema della tutela penale del consumatore, posto che la depenalizzazione risponde ad una precisa scelta di politica legislativa, quella cioè di non voler più ritenere “pericolose per la collettività” quelle condotte oggetto –appunto– di diversa valutazione criminale. In sostanza, prima face, l’abrogazione del reato di cui all’art. 3 del D.L. 336/99 è agli interpreti apparsa come volontà espressa del legislatore di non considerare più degna di sanzione penale la condotta dell’allevatore detentore di animali ”anabolizzati”. Così un primo orientamento della Suprema Corte che, con sentenza del 13 marzo 2001, ha ritenuto completamente espunta dal sistema penale proprio la condotta punita dall’art. 3 D.L. 336/99, con conseguente impossibilità di diversa contestazione e di reviviscenza dell’art. 5 L. 283/62 alla fattispecie concreta. Ma questa interpretazione (apparentemente corretta) strideva con i principi di tutela della salute dei consumatori, Test noi consumatori 3 Consumi & diritti e soprattutto con il buon senso, poiché adulterare bovini destinati alla vendita con gli anabolizzanti è un fatto che mette concretamente in pericolo la salute del consumatore. Dunque, investita di altro ricorso per un caso analogo, la Corte di Cassazione ritorna sui propri passi, e lo fa con un ragionamento più sofisticato, ma impeccabile, da un punto di vista logico-giuridico: l’abrogazione di una norma speciale non ha l’effetto di abrogare la norma generale previgente utilizzata per la contestazione di quello stesso fatto punito con detta norma, posto che la norma generale –in quanto tale– continua a sopravvivere e a punire tutte quelle ipotesi “sussumibili” al suo interno, indipendentemente dalle sorti della norma speciale derogatoria poi espunta dal sistema. Oggi pertanto la condotta dell’allevatore che somministri agli animali destinati alla vendita al consumo umano sostanze anabolizzanti o simili vietate verrà ancora punito per il reato di cui all’art. 5 lett. a) L. 283/62, con buona pace dei consumatori, soggetti principe di questa importante tutela. Avv. Fabio Arcangeli Risarcimento del danno da vacanza rovinata Sentenza Giudice di Pace di Milano, Sez. III, 12 febbraio 2003, pubblicata il 25 febbraio 2003 Inadempimento al contratto di viaggio tutto compreso, risarcimento del danno bioogico da vacanza rovinata, riferimenti giurisprudenziali. Il testo della sentenza REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice di Pace di Milano, dr. Fedele Moscato della sezione III^ civile, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 11802 del Ruolo Generale dell’anno 2002 di questo Ufficio e promossa da (omissis) Oggetto: risarcimento danni in materia turistica SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato alla convenuta, premesso: -che in data 08/08/2001 i consumatori avevano acquistato, presso una agenzia di viaggi di Milano, un pacchetto turistico organizzato dal tour operator “****” e relativo ad un soggiorno di due settimane in Honduras e Messico dal 5 al 19/ 10/2001 al costo di euro 4.441,01 e che tale pacchetto comprendeva il viaggio aereo Milano-Roatan, il soggiorno in Honduras dal 5 al 12 ottobre nell’albergo previsto, il trasferimento aereo da Roatan a Cancun, il soggiorno in quest’ul- Test noi consumatori 4 Consumi & diritti tima località fino al 19/10/2001 presso il Bahia Maya Club ed, infine, il trasferimento aereo di ritorno da Cancun a Milano; -che pochi giorni prima della partenza il tour operator comunicava agli acquirenti del pacchetto turistico di cui innanzi la indisponibilità di quest’ultimo albergo che era stato chiuso per restauri, senza proporre altre alternative in relazione alla seconda settimana prevista dal pacchetto acquistato; -che essi, perciò, si rivolgevano ad altro tour operator operante in Messico ed in data 01/10/2001 stipulavano con l’odierna convenuta un nuovo contratto comprendente i trasferimenti aerei di cui innanzi ed il soggiorno limitato alla prima settimana in Honduras, mentre stipulavano con Alpitour il contratto per il soggiorno in Messico, il tutto per un importo complessivo di euro.3.062,59; -che due giorni prima della prevista partenza dall’Honduras per il Messico, dove era previsto il soggiorno relativo alla seconda settimana di vacanze con ****, apprendevano dalla responsabile in loco della “****” che il trasferimento aereo di ritorno da Cancun a Milano del 19/10/2001 era stato cancellato e che a fronte di ciò era loro proposto o di rinunciare alla settimana di soggiorno in Messico - rientrando anticipatamente in Italia una settimana prima _- oppure di prolungare il soggiorno in Honduras a proprie spese fino al 22/10/2001; -che tali soluzioni proposte non venivano da loro accettate per l’evidente aggravio di costi conseguenti alla perdita di quanto pagato ad ***** ed all’esborso ulteriore per il soggiorno in Honduras e che, preso atto del disinteresse e della poca disponibilità mostrata dai responsabili in loco del tour operator, erano stati costretti ad adoperarsi, con notevoli perdite di tempo, per trovare una soluzione adeguata; -che, dopo molte insistenze e contatti telefonici con la sede di Milano di”****”, soltanto il giorno della partenza da Roatan ricevevano la conferma del volo di sostituzione ed un numero telefonico di un responsabile a Cancun da contattare una volta arrivati in Messico per ottenere i biglietti aerei di rientro; -che sopportando ulteriori disagi e spese telefoniche riuscivano ad entrare in possesso di tali biglietti solamente il giorno della partenza per Milano; -che, rientrati in Italia, formalizzavano il proprio reclamo nei confronti dell’odierna convenuta che replicava in modo non soddisfacente offrendo a parziale ristoro un buono sconto vincolato di £. 800.000, costringendoli a rivolgersi all’Unione Nazionale Consumatori per la tutela dei loro diritti; convenivano in giudizio dinanzi a questo Giudice di Pace, all’udienza del 20/03/2002, rinviata d’ufficio al giorno 27/03/ 2002, la “**** S.p.A.” deducendo in diritto, articolando mezzi di prova e chiedendo, previo accertamento e declaratoria di inadempimento contrattuale di quest’ultima, condannarsi la stessa al risarcimento del danno patrimoniale e non, anche a titolo di danno morale “da vacanza rovinata”, provvisoriamente quantificato in euro 1000,00 o nella diversa misura ritenuta di giustizia anche in via equitativa, oltre interessi dalla domanda e nei limiti della competenza per valore del Giudice adìto e pubblicazione della sentenza di condanna sui principali quotidiani a tiratura nazionale, spese di lite rifuse. All’udienza fissata si costituiva la convenuta “**** S.p.A.” depositando e scambiando comparsa in cui contestava fermamente sotto ogni profilo le avverse pretese perché com- Test noi consumatori 5 Consumi & diritti pletamente infondate e chiedeva il rigetto delle domande attoree. Rilevava la incomprensibilità dei motivi delle lamentele attoree in relazione alle modifiche dell’originario pacchetto di viaggio ed alla mancata proposta alternativa in relazione al soggiorno in Messico, giacché gli attori hanno liberamente sottoscritto il contratto includendovi tale soggiorno con altro tour operator ivi operante. Assumeva di non ritenersi responsabile per la cancellazione del volo dal Messico in Italia perché essa avvenne per esclusiva iniziativa della compagnia aerea Air ***** che la informò della circostanza e precisava che, a seguito della esigenza espressa dagli attori di voler comunque andare in Messico, tale sig. ***** - direttore del villaggio turistico presso cui soggiornavano in Honduras _ contrariamente a quanto dai medesimi sostenuto, offriva la propria disponibilità per la soluzione del problema contattando gli uffici italiani della *** anche in orario notturno a causa del diverso fuso orario e riusciva a far riservare a nome dei due clienti due posti riservati su un volo del 20/10/2001 da Cancun a Milano. Sosteneva la inconsistenza delle lamentele degli attori e l’assoluta infondatezza delle loro pretese in punto di an e di quantum, deducendo in proposito e concludeva chiedendo, per tali motivi, assolversi la società convenuta da ogni avversa domanda, con vittoria delle spese di giudizio. Sentite liberamente le parti in causa e dato atto della mancata conciliazione sulla proposta transattiva formulata e quantificata dalla convenuta all’udienza del 29/04/2002, concessi i termini ex art.320 c.p.c., ammesse ed assunte le prove per testi nonché dato atto a verbale dell’udienza del 29/11/ 2002 dell’ulteriore proposta transattiva quantificata dalla convenuta nell’importo di _ 600,00 omnicomprensivi e reiteratamente invitate le parti a ricercare una soluzione bonaria della vertenza, senza esito, all’udienza del 23/01/2003 sulle loro definitive conclusioni di cui alle comparse depositate e scambiate, la causa veniva trattenuta per la decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE L’istruzione probatoria e l’esame di tutta la documentazione prodotta dalle parti ha permesso a questo Giudice di formarsi sufficiente ed esaustivo convincimento che le domande attoree, seppur ritenute eccessive nella loro definitiva determinazione in punto di quantum, tuttavia appaiono meritevoli di attenzione ed, in parte condivisibili circa la specifica richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale, cosiddetto “da vacanza rovinata”, da ricondurre negli equilibrati e giusti ambiti di corrispondenza tra la effettiva entità e qualificazione del disagio subìto e la misura del ristoro. In questo caso - tralasciando di esaminare i fatti che hanno preceduto la stipula del contratto oggetto del presente procedimento, perché privi di interesse ai fini di questa decisione - gli attori, in virtù del contratto in esame, validamente stipulato con la convenuta, hanno fondato le loro domande sostenendo che, a causa dell’annullamento del volo di ritorno dal Messico in Italia loro comunicato nell’imminenza della partenza dall’Honduras per il Messico, hanno subìto i disagi dello stress emotivo e fisico causato da tale notizia, nonché perdita di tempo anche notturno per ottenere che la situazione relativa al programmato viaggio di ritorno in Italia si normalizzasse. I medesimi hanno attribuito il loro stato di Test noi consumatori 6 Consumi & diritti disagio al comportamento della convenuta e più segnatamente del suo responsabile in loco nella persona di *****, responsabile del villaggio che li ospitava in Honduras, il quale aveva mostrato poca cortesia e disponibilità nei loro confronti, abbandonandoli a loro stessi e costringendoli ad attivarsi personalmente per risolvere la nuova situazione creatasi per colpa della convenuta. Fra gli atti prodotti da entrambe le parti si rinviene la comunicazione inviata via fax dalla convenuta ai propri responsabili in Honduras in data 10/10/2001 con cui si notiziava circa l’annullamento del volo Cancun/Milano e si proponevano le alternative da sottoporre ai clienti. Si rinviene, anche, la comunicazione datata 11/10/2001 indirizzata agli attori con la quale si dava conferma del nuovo operativo del volo a loro nome “richiesto già da ieri” e cioè lo stesso giorno della comunicazione di annullamento. Per stessa ammissione della convenuta, certamente il suo responsabile in Honduras Sig.**** si mise in contatto con i suoi uffici di Milano, anche in orari notturni, per risolvere la questione e, dalle risultanze della prova per testi, emerge la circostanza che ciò avvenne a seguito delle insistenze degli attori ed alla loro presenza, tantè che non risulta smentita la circostanza che almeno uno di loro conferì direttamente con una certa sig.ra **** degli uffici milanesi della convenuta, circostanza questa che emerge dal contesto della lettera datata 22/10/2001 inviata dagli attori alla stessa convenuta. Risulta dagli atti che quest’ultima offrì (vedasi sua lettera del 28/11/2001) pro bono pacis la somma di £ 800.000 sotto forma di buono sconto utilizzabile in futuro e che gli attori rifiutarono, ritenendo l’offerta non soddisfacente quanto alle modalità di utilizzo della stessa. Risulta altresì che anche le altre diverse e maggiori offerte pecuniarie, formalizzate dalla convenuta in corso di causa a fini conciliativi, sono state rifiutate dagli attori. Da tutto quanto precede emerge che la convenuta, quanto meno formalmente, nel notificare ai propri clienti la soppressione di quel volo da Cancun a Milano non prevedeva alcuna altra alternativa oltre quelle già note e prima richiamate, che per gli odierni attori erano certamente inaccettabili avuto riguardo alla perdita economica che avrebbero dovuto sopportare, oltre alla circostanza che i patti sottoscritti venivano in parte disattesi privandoli, di fatto, della possibilità di fruire della programmata vacanza messicana. Sembra quindi certamente plausibile che gli attori dovettero insistentemente sollecitare il responsabile locale della convenuta affinché egli si adoperasse in ogni modo, con ogni mezzo e celermente (vista la ristrettezza del tempo disponibile) per ricercare quella soluzione che poi, di fatto, venne trovata. Gli attori, quindi, a causa del notificato inadempimento contrattuale che solo oggi conclusivamente può definirsi di carattere formale e non sostanziale, certamente subirono, durante l’arco temporale di almeno due giorni, le conseguenze psicologicamente negative derivanti dalla circostanza di trovarsi, per unilaterale determinazione della convenuta, nella condizione di non avere più la garanzia del volo di ritorno dal Messico in Italia, di non volere e non potere rinunciare alla settimana in Messico già pagata ad altro tour operator quanto meno per motivi economici, e di doversi adoperare personalmente - pressando il responsabile locale della convenuta- per Test noi consumatori 7 Consumi & diritti ricercare una diversa soluzione a quelle proposte, senza la certezza di riuscirvi. Senza la preannunciata cancellazione del volo di cui trattasi tutto ciò non sarebbe accaduto e, nonostante il positivo esito finale della vicenda, la responsabilità delle conseguenze che ne sono derivate non può che gravare sulla convenuta che non può opporre agli odierni attori la presunta inadempienza di terzi (compagnia aerea) per un contratto dalla stessa sottoscritto. E tutto ciò non sarebbe accaduto se la convenuta, anziché limitarsi a proporre quelle soluzioni alternative, avesse, come era suo dovere contrattuale, proposto accanto a quelle anche la possibilità di poter rientrare in Italia dal Messico nel giorno stabilito con il cambio dell’operativo, come poi è avvenuto: ciò avrebbe tranquillizzato i clienti ed evitato qualsiasi conseguenza negativa. Per tutto quanto precede, questo Giudice ritiene che nel caso di specie debba riconoscersi agli attori quello che in giurisprudenza viene definito come risarcimento da “danno esistenziale” od anche “danno da vacanza rovinata”, (in questo caso parzialmente) in esso intendendosi individuare quel danno che, ancorché non provato nella sua quantificazione materiale, tuttavia può essere dal Giudice liquidato equitativamente con libera determinazione riferibile alle massime di esperienza di cui all’art.115, secondo comma, c.p.c.. Nel caso di specie, essendovi sufficiente prova dei fatti e delle circostanze ad essi relativi, è facilmente intuibile lo stato di frustrazione e di impotenza degli attori trovatisi inopinatamente a dover affrontare la critica situazione derivante dalla cancellazione del volo intercontinentale acuita dalla impossibilità di avere certezze di soluzione loro favorevole e dall’inerzia del responsabile del villaggio, e ciò per l’arco di tempo intercorso tra il momento in cui vennero a conoscenza della cancellazione fino a quando ebbero conferma del nuovo operativo a loro nome. Questo Giudice ritiene che in quell’arco di tempo di due o tre giorni gli odierni attori - che stavano godendo di una vacanza - subirono, per i motivi suddetti, un disagio ed una sofferenza psico-fisica che alterando la presumibile condizione di serenità e spensieratezza proprie della vacanza, provocarono un danno alla loro vita di relazione, quel danno cioè riverberantesi sui diritti fondamentali della persona e tutelato dall’art. 2 e seguenti della Carta Costituzionale che garantisce i diritti dell’uomo come singolo individuo anche in relazione ai danni “che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana” (Corte Costituz. n.84/86). Ed in tale espressione possono certamente ricomprendersi tutte quelle attività o situazioni che, nel caso di specie, hanno propiziato il viaggio nonché la realizzazione ed il godimento della programmata vacanza: ciò è normale e generale atteggiamento di ciascuno in circostanze analoghe, e perciò fatto notorio, indipendentemente dalla peculiarità del caso in esame. Valutato tutto quanto precede, questo Giudice, pronunciando secondo equità, ritiene giusto liquidare in favore degli attori la complessiva somma di euro 550,00 in moneta attuale ed omnicomprensivi, da porre a carico della convenuta. Visto l’esito complessivo del giudizio, il comportamento anche processuale delle parti e la particolarità della materia trattata nonché la sostanziale reciproca soccombenza, si Test noi consumatori 8 Consumi & diritti ritiene sussistano giusti motivi per compensare interamente fra le parti le spese di lite. La presente sentenza è provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art.282 c.p.c. P. Q. M. Il Giudice di Pace di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede: a) condanna la convenuta “**** S.P.A”, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, a pagare agli attori la complessiva somma di euro 550,00 a titolo di risarcimento dei danni, determinata equitativamente, in moneta attuale ed omnicomprensiva, come meglio precisato in motivazione; b) compensa interamente fra le parti le spese di lite. Sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege. Così deciso in Milano, 12 Febbraio 2003 Il Giudice di Pace Brevi note a commento Ancora una volta, gli uffici dei Giudici di pace sono stati investiti circa la decisione di controversie afferenti il risarcimento del c.d. “danno da vacanza rovinata”, richiesto da taluni consumatori nei confronti di tour operator inadempienti al contratto di viaggio “tutto compreso”. Con lo sviluppo “macroscopico” dei servizi turistici, diviene sempre più attuale l’approfondimento delle istanze di tutela dei consumatori acquirenti, che siano stati parte di un contratto di viaggio così come identificato dal d.lgs. 17 marzo 1995 n.111, emanato in attuazione della direttiva n. 90/314/ CEE, concernente i viaggi e le vacanze tutto compreso. Il tema investe l’ulteriore tematica del risarcimento del danno c.d. “biologico da stress”, causato da ritardo nel trasporto aereo. Dunque, la disciplina di cui al citato decreto, dovrà essere necessariamente correlata ed integrata dalle norme, nazionali ed internazionali, volte a disciplinare il contratto di trasporto aereo, ed i conseguenti diritti riconosciuti al viaggiatore. In particolare, ci riferiamo non solo alla normativa codicistica di cui agli artt.1681 e segg. c.c., bensì anche alle norme del codice della navigazione, alla Convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, e successive modifiche, sul trasporto aereo internazionale, al Reg. CE 2027/97 in materia di responsabilità del vettore aereo di persone (al proposito, ricordiamo che detta normativa si applica esclusivamente ai vettori aerei comunitari, cioè solo quelli muniti di valida licenza di esercizio rilasciata da uno Stato membro in conformità dello stesso regolamento, indipendentemente dal carattere infra o extracomunitario del volo), la legge 7 luglio 1988 n. 274 intesa a stabilire congrui massimali di responsabilità nel trasporto aereo internazionale di persone, così da riallineare il nostro ordinamento alla Convenzione di Varsavia, con riguardo al beneficio della limitazione di responsabilità del vettore, e –al fine di adeguata regolamentazione del fenomeno c.d. dell’overbooking (sovraprenotazione)– il regolamento del Consiglio CEE n. 295 del 4 febbraio1991, con cui sono infatti state stabilite norme comuni su un sistema di compensazione per il negato imbarco dei passeggeri muniti di biglietto valido e prenotazione confermata, ed in partenza da un paese della Comunità, indipendentemente dalla naziona- Test noi consumatori 9 Consumi & diritti lità del vettore o dell’utente e soprattutto dal luogo di destinazione, che può quindi essere lo stesso Stato di partenza od un Paese terzo. Nel caso di specie, gli attori avevano acquistato un pacchetto turistico comprendente trasferimenti aerei e soggiorno di due settimane in Honduras e in Messico ma, trascorsa la prima settimana, ad alcuni giorni dalla prevista partenza per il Messico, il tour operator **** S.p.A. informava i consumatori che, poiché il volo di rientro Cancun/Milano era stato cancellato, essi potevano rientrare in Italia anticipatamente, rinunciando alla settimana di vacanza in Messico, già regolarmente pagata, oppure prolungare il soggiorno in Honduras a proprie spese oltre la data originariamente stabilita. Gli attori reclamavano di essere stati abbandonati a loro stessi e costretti ad attivarsi personalmente per risolvere la situazione creatasi per colpa della convenuta. A fronte della domanda attorea, il tour operator fondava la propria linea difensiva sull’attribuzione della responsabilità della mancata partenza, al comportamento (colposo) della compagnia aerea Air ****, ritenendosi dunque esente da qualsivoglia responsabilità contrattuale ovvero extracontrattuale. Per i motivi espressi in sentenza, il Giudice di pace adito, accoglieva, seppur in misura ridotta, la domanda attorea, ritenendola fondata. La sentenza in esame procede ad una attenta applicazione di numerose disposizioni contenute nel d.lgs. 111/95, di cui conferma la ratio di tutela. Ricordiamo infatti come spesso –a fronte della previsione di cui all’art.7– nel testo dell’opuscolo informativo che ex lege dovrebbe essere rilasciato al consumatore, non viene specificato il termine entro il quale quest’ultimo dovrebbe essere informato dell’annullamento del programma per la mancata adesione del numero minimo dei partecipanti previsto, ovvero per altre cause. Tale lacuna viene però colmata con il disposto dell’art.13, III comma, del detto decreto, ove viene previsto il termine di venti giorni precedenti alla partenza: per cui la mancata indicazione di tale termine nelle condizioni generali del contratto, renderebbe le clausole riferite all’annullamento del servizio, invalide per contrasto con norme imperative. Altresì, l’art.12 relativo alle modifiche delle condizioni di contratto, in ordine alle modifiche del contenuto del contratto, enuncia espressamente due distinte ipotesi, a seconda che le modifiche intervengono prima della partenza o siano successive alla stessa. Per la fase anteriore alla partenza, la norma prevede che nel caso in cui il venditore o l’organizzatore abbia la necessità di modificare in modo significativo alcuni elementi del contratto, ne deve dare immediata comunicazione al cliente in forma scritta, indicando il tipo di modifiche. A tal proposito si deve passare ad una corretta interpretazione del concetto di modifica significativa, in quanto sarebbe riduttivo applicare tale concetto ai soli casi in cui questa comporti una variazione del prezzo: non a caso, la direttiva 90/314, parla di “modifiche significative di un elemento essenziale del contratto, “quale” il prezzo”. Quindi un’interpretazione sistematica di tale norma, anche e spe- Test noi consumatori 10 Consumi & diritti cialmente in riferimento all’art.11 in tema di revisione di prezzo, dovrebbe comportare l’estensione del concetto di significativa modifica anche ai casi in cui essa non comporti una variazione di prezzo. A titolo esemplificativo, rientreranno in questa apposita disciplina tutti i casi in cui sia spostata in modo rilevante la data di partenza o di rientro, oppure vi sia stata una modifica concernente il tipo di sistemazione o di trasporto. Sulle modifiche intervenute dopo la partenza, l’organizzatore, nel caso in cui una parte essenziale dei servizi previsti non possa essere adempiuta, dovrà predisporre adeguate soluzioni alternative, senza alcuna limite all’adozione delle stesse. Dunque, dai citati riferimenti, non solo risulta un’obbligazione a carico del tour operator di informare adeguatamente il consumatore circa le modalità con cui quest’ultimo debba essere reso edotto su eventuali modifiche ovvero annullamenti del viaggio, bensì anche l’onere di porre in essere ogni attività necessaria ed adeguata, al fine di evitare al consumatore ogni tipo di disagio conseguente ad un eventuale inadempimento, ricercando le soluzioni più opportune. A fronte dell’inadempimento ai citati obblighi, le norme dagli artt.14 a 18, prevedono il risarcimento dei danni a favore del viaggiatore, secondo le rispettive responsabilità del tour operator o del venditore del pacchetto turistico, salvo che venga provato che l’impossibilità delle prestazioni sia derivata da causa a loro non imputabile; nel caso in cui si avvalessero della collaborazione di terzi per l’esecuzione delle prestazioni contrattuali, saranno comunque tenuti al risarcimento del danno subito dal consumatore, salvo il diritto di rivalsa nei confronti di costoro. E proprio detta ultima previsione, rappresenta la fattispecie oggetto della controversia di cui alla presente decisione in commento. Dobbiamo comunque sottolineare che, a fronte di pronunce “positive” e favorevoli alle istanze risarcitorie dei consumatori, numerosi sono i casi di pronunce giurisprudenziali in cui il giudicante procede ad un limitato riconoscimento “economico” del danno subito, ovvero ad una compensazione delle spese di lite. Con salvezza delle ipotesi in cui tale atteggiamento sia giustificato sia dalla fattispecie concreta sia dall’iter di causa, la prima conseguenza di tali decisioni, è un concreto ed oggettivo affievolimento delle posizioni di tutela del consumatore, altresì “costretto” ad agire giudizialmente nei confronti di professionisti (ex art.1469 bis c.c.), e ad affrontare procedimenti spesso lunghi e complessi. Nel caso di specie, il Giudice ha riconosciuto lo stato di frustrazione e di impotenza degli attori trovatisi inopinatamente a dover affrontare la critica situazione derivante dalla cancellazione del volo intercontinentale, riconoscendo a questi ultimi il risarcimento del c.d. “danno esistenziale” o “danno da vacanza rovinata” (derivante dai disagi e dalle sofferenze psico-fisiche che, alterando la presumibile condizione di serenità e spensieratezza propria della vacanza, provocano un danno alla vita di relazione dei consumatori), tuttavia concludendo circa l’opportunità di compensare le spese tra le parti, a causa della indicata “particolarità della materia trattata”: in tal modo, la vittoria del consumatore Test noi consumatori 11 Consumi & diritti diviene dunque “soccombenza” e mancato riconoscimento di una effettiva tutela sostanziale. Nota bibliografica CARRASSI S. C., Ulteriore oscillazione giurisprudenziale sul “danno da vacanza rovinata” (Nota a T. Venezia, 24 settembre 2000, Mattuzzi c. Soc. Palma crociere viaggi), in Danno e resp., 2001, 861; SERRA T., Inadempimento del contratto di viaggio e danno da vacanza rovinata (Nota a Giudice di pace Siracusa, 26 marzo 1999, Giudice c. Soc. Sivet), in Giust. civ., 2000, I, 1207; GUERINONI E., “Danno da vacanza rovinata” e “danno biologico da viaggio non effettuato” (Nota a Giudice di pace Venezia, 1 giugno 2000, Cianchetti c. Soc. viaggi Bucintoro), in Giudice di pace, 2000, 307; ZENO ZENCOVICH V., Il danno da vacanza rovinata: questioni teoriche e prassi applicative (Nota a P. Roma, 11 dicembre 1996, Putti c. Viaggi del Mappamondo), in Nuova giur. civ., 1997, I, 879. Precedenti giurisprudenziali Giudice di pace Siracusa, 26-03-1999, in Giust. civ., 2000, I, 1205, n. SERRA. Nel caso di inadempimento del contratto di viaggio da parte dell’organizzatore di viaggio che abbia comportato il mancato godimento delle utilità promesse è risarcibile anche il danno da vacanza rovinata, che costituisce un danno non patrimoniale, assimilabile al danno biologico e va inteso come pregiudizio subito dalla salute dell’individuo, avuto riguardo alla proiezione negativa nel suo futuro esistenziale delle conseguenze dell’evento dannoso. Pretura Ivrea, 21-09-1998, in Danno e resp., 1999, 565, n. GRANIERI. Il danno arrecato al turista dall’organizzatore di viaggi per effetto dell’inadempimento delle prestazioni previste da contratto e sulla base dei materiali promozionali (c.d. danno da vacanza rovinata) costituisce un’ipotesi di danno non patrimoniale risarcibile a prescindere dalla configurabilità di un illecito penale. Tribunale Torino, 08-11-1996, in Resp. civ., 1997, 818, n. GORGONI. Il risarcimento del danno da overbooking nell’albergo prenotato dall’organizzatore di viaggi comprende, nel caso di “riprotezione” presso albergo di categoria inferiore, non solo la differenza tra il prezzo effettivamente sborsato dai viaggiatori ed il prezzo che questi avrebbero dovuto corrispondere qualora la prenotazione avesse avuto originariamente ad oggetto il servizio successivamente offerto, ma anche il risarcimento del danno c.d. “da vacanza rovinata”. Sul tema delle modifiche al contratto di viaggio “tutto compreso”, riteniamo opportuno allegare il testo di una recente sentenza del Tribunale di Treviso (non commentata), ove il tema viene ampiamente trattato. Avv. Cristiano Iurilli Test noi consumatori 12 Consumi & diritti Tribunale di Treviso - Sezione II (G.U. dr Massimo Galli) Sentenza 14.1.2002 n.72 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO - Con atto di citazione T.R. e Z.L. convenivano in giudizio F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi **** con sede in Oderzo e ***** s.p.a. con sede in Cuneo per sentire: in via principale, dichiarare risolto il contratto di viaggio turistico intercorso tra le parti, condannare i convenuti, secondo le rispettive responsabilità accertate in corso di causa, alla restituzione del prezzo versato di L. 4.727.000 aumentato degli interessi dalla data del pagamento al saldo oltre al risarcimento delle spese di trasferta automobilistica e pernottamento da Treviso a Bologna pari a L. 750.000 o nella diversa somma di giustizia, ed ancora per sentire condannare i convenuti a risarcire in favore degli attori il danno per la mancata fruizione della vacanza determinato in L. 1.000.000 per ciascun partecipante o nella diversa somma ritenuta di giustizia; per sentire in via subordinata annullare il contratto di viaggio turistico per errore essenziale sulla data di partenza e per l’effetto condannare i convenuti alla restituzione delle somme versate pari a complessive L. 4.727.000 oltre agli interessi dalle date del pagamento al saldo; per sentire in via ulteriormente subordinata, accertata l’illegittimità del recesso esercitato dall’organizzatore turistico e la vessatorietà e la conseguente inefficacia della clausola 4.2.2 delle condizioni generali di contratto predisposte da ***** s.p.a., condannarsi la convenuta alla restituzione della complessiva somma di L. 4.772.000 o di quella diversa ritenuta di giustizia; in ogni caso con vittoria di spese. - Esponevano infatti gli attori: che in data 22 gennaio 1998 Z.L. aveva acquistato (per sè e per la propria famiglia composta dal marito e da due figli in giovane età) un pacchetto di viaggio turistico tutto compreso del tour operator ***** s.p.a. con destinazione Tenerife di otto giorni e sette notti dal 18 febbraio al 25 febbraio 1998 comprendente viaggio aereo andata e ritorno da Bologna; che il prezzo del pacchetto turistico era stato saldato in data 29 gennaio 1998 presso l’agenzia convenuta e che in tale occasione la signora F. dell’agenzia aveva confermato la data di partenza alle 18 febbraio annotandola nella quietanza; che in data 2 febbraio l’attrice Z.L. aveva ricevuto, sempre presso l’agenzia, la conferma di prenotazione del tour operator e il voucher; che contrariamente a quanto pattuito, il giorno 18 febbraio gli attori avevano appreso presso l’aeroporto di Bologna che il loro volo era partito il giorno prima; che nonostante le rimostranze sollevate il tour operator e l’agenzia viaggi avevano declinato ogni responsabilità e proposto soluzioni alternative inaccettabili per la famiglia che avrebbero comportato la perdita di due giorni di vacanza su otto già pagati. - Si costituivano F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi **** con sede in Oderzo e ***** s.p.a. con sede in Cuneo, nonché, successivamente alla chiamata in causa in garanzia da parte della *****, si costituiva anche ***** s.p.a. contrastando le pretese della parte attrice e osservando in particolare: che secondo quanto indicato nel Test noi consumatori 13 Consumi & diritti contratto e nel catalogo di riferimento, le date e le ore esatte delle partenze e degli arrivi erano da intendersi indicative in quanto soggette a variazioni da parte delle compagnie aeree anche senza preavviso; che la modifica della data di partenza indicata nella proposta di acquisto del pacchetto turistico era contenuta nella conferma di prenotazione e nel voucher consegnati in data 2 febbraio 1998; che tale modifica era stata nuovamente comunicata a voce e per iscritto (via fax) nella settimana precedente la partenza; che pertanto il disguido in cui erano incorsi gli attori poteva essere imputato solamente ad un loro difetto di attenzione; che non poteva ravvisarsi l’ipotesi di annullabilità per errore essenziale perché la data di partenza non costituiva un elemento essenziale del contratto e comunque si trattava di un errore non riconoscibile poiché gli attori non avevano mai manifestato l’intenzione di non partire il 17 febbraio 1998; che inoltre la pretesa risarcitoria era eccessiva soprattutto per il danno morale da “vacanza rovinata “ poiché gli attori avevano rifiutato le valide alternative proposte dall’agenzia di viaggi. - La causa è stata istruita con l’allegazione di documenti. - Le parti hanno precisato le conclusioni come indicato in epigrafe. MOTIVI DELLA DECISIONE - L’art.6 del D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111 prevede che il contratto di vendita dei pacchetti turistici debba essere redatto in forma scritta e in termini chiari e precisi. L’art.7 del D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111 indica tra gli elementi del contratto la data di inizio del viaggio. L’art.1469 bis del c.c. prevede l’inefficacia delle clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto e in particolare al n. 4) del secondo comma prevede l’inefficacia (per vessatorietà presunta) delle clausole che impongono un impegno definitivo al consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista rimane subordinata ad una condizione il cui avverarsi dipende unicamente dalla sua volontà. - La clausola contenuta nel modulo di proposta di acquisto del pacchetto turistico oggetto di causa (predisposto dalla ****) per effetto della quale il contratto di vendita si intendeva concluso all’accettazione da parte dell’organizzatore (e non nel momento in cui il proponente prendeva conoscenza dell’accettazione come previsto dall’art.1326 c.c. primo comma) di fatto vincolava il consumatore in modo definitivo senza possibilità di revoca della proposta; infatti ad una eventuale revoca il professionista avrebbe potuto opporre la pregressa accettazione. Si trattava inoltre di una proposta irrevocabile senza termine di scadenza. - Dall’inefficacia della suddetta clausola (rilevabile d’ufficio ex art.1469 quinquies 3° comma c.c.) consegue che il contratto avrebbe dovuto ritenersi concluso secondo la regola generale di cui all’art. 1326 c.c. alla data della consegna della conferma scritta dell’Organizzatore agli attori ossia il giorno 2 febbraio 1998. - Tale conferma datata 31 gennaio 1998 però non coincide con la proposta quanto alla data di partenza ( nella proposta 18 febbraio e nella conferma 17 febbraio) sicchè non poteva valere come accettazione della proposta ma come nuova proposta per la partenza anticipata. Test noi consumatori 14 Consumi & diritti - Questa nuova proposta non risulta essere mai stata accettata per iscritto dagli attori come previsto dalle norme citate sicché il contratto di vendita del pacchetto turistico deve ritenersi mai concluso. - Per altro anche se si ritenesse efficace la predetta clausola di anticipazione del momento conclusivo del contratto (in stridente contrasto con la lettera e con il formalismo e le garanzie di chiarezza imposte dalla normativa citata), o se si considerasse il modulo di proposta alla stregua dell’accettazione di un contratto per adesione, la modifica della data contenuta nella conferma prenotazione 31.1.1998 non sarebbe stata comunque opponibile agli attori per difetto della evidenza richiesta dagli artt.7, 9 e 12 del D.lgs. 17 marzo 1995 n.111. Tale modifica infatti non può certo ritenersi di facile intelligenza poiché la data di partenza è stata dattiloscritta (con caratteri sbiaditi nella parte superiore) senza alcun cenno che evidenziasse la modifica apportata, senza l’indicazione dei motivi della modifica (consentita solo per ragioni di necessità che devono essere esposte al consumatore) senza l’indicazione del termine entro il quale il consumatore poteva esercitare il proprio diritto di recesso esente da penale. - Per quanto esposto deve essere accolta la domanda di restituzione del prezzo formulata dagli attori. - Poichè gli attori hanno subito un pregiudizio in seguito alla condotta dell’organizzatore e del venditore del pacchetto turistico - i quali non hanno evidenziato, come avrebbero dovuto, la modifica della data di partenza - agli stessi va riconosciuto il risarcimento del danno richiesto inquadrabile o nell’ambito della responsabilità precontrattuale (qualora si ritenesse l’inesistenza del contratto scritto ) o nella responsabilità per inadempimento (nel caso si ritenesse inopponibile agli attori la modifica della data di partenza). - Il danno riguarda sia le spese inutilmente sostenute per il trasferimento da Treviso a Bologna e ritorno indicate dagli attori in lire 750.000, e solo genericamente contestate dai convenuti, sia il pregiudizio da “vacanza rovinata” individuabile nei disagi sia materiali sia psichici connessi con la perdita dell’occasione di vacanza ( v. artt.13 e 15 della L. 27 dicembre 1977 n. 1084 nonché l’art.13 del D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111.) . Quest’ultima voce di danno considerata l’opportunità offerta dai convenuti di partenza alternativa con riduzione di due giorni del soggiorno rifiutata dagli attori deve essere equitativamente limitata alla somma di lire 500.000. - Ai sensi dell’articolo 14 D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111, l’organizzatore e il venditore sono tenuti entrambi al risarcimento del danno, sicché F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi ***** con sede in Oderzo e ***** s.p.a. con sede in Cuneo, per quanto sopra esposto, andranno condannati a pagare in solido tra loro in favore degli attori la somma di lire L. 4.727.000 pari a euro 2’441,29 quale restituzione del prezzo del pacchetto turistico non fruito e la somma di lire 1.250.000 pari a euro 645,57 quale risarcimento del danno sofferto somme entrambe incrementate degli interessi legali dalla messa in mora al saldo effettivo. - La terza chiamata ***** ASSICURAZIONI s.p.a., in accoglimento della domanda di garanzia formulata da ***** andrà condannata a tenere indenne quest’ultima dagli esborsi che dovrà affrontare per effetto della presente sentenza con spese compensate per la mancanza di contestazione. Test noi consumatori 15 Consumi & diritti - Le altre spese di lite seguono la soccombenza sicché F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi ***** con sede in Oderzo e ****** s.p.a. con sede in Cuneo dovranno rifondere in solido tra loro le spese di lite sostenute dagli attori T.R. e Z.L. che si liquidano in complessivi euro 2’980,83 di cui euro 1’032,91 per onorari, euro 1’355,18 per diritti e la rimanenza per spese. - Il Giudice definitivamente decidendo, ogni diversa domanda od eccezione disattesa, P.Q.M. - Accoglie la domanda dgli attori e per effetto condanna le parti convenute F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi ***** con sede in Oderzo e ****** s.p.a. con sede in Cuneo a pagare, in solido tra loro, in favore di T.R. e Z.L. la somma di lire L. 4.727.000 pari a euro 2’441,29 quale restituzione del prezzo del pacchetto turistico non fruito, e la somma di lire 1.250.000 pari a euro 645,57 quale risarcimento del danno sofferto somme entrambe incrementate degli interessi legali dalla messa in mora al saldo effettivo oltre le spese di lite che si liquidano in complessivi euro 2’980,83 di cui euro 1.032,91 per onorari, euro 1’355,18 per diritti e la rimanenza per spese. Condanna inoltre la terza chiamata ***** ASSICURAZIONI s.p.a., a tenere indenne F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi ***** con sede in Oderzo dagli esborsi che dovrà affrontare per effetto della presente sentenza con spese compensate per la mancanza di contestazione sulla domanda di garanzia. Treviso, li 14 gennaio 2002 Il Giudice dr. Massimo Galli Danno morale derivante dalla morte di un congiunto Nota ad Ordinanza del Tribunale di Roma del 20 giugno 2002; Giudice Rossetti Riconosciuto il risarcimento del danno. La massima Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.2059 c.c., nella parte in cui limita la risarcibilità del dolore derivante dalla perdita di un prossimo congiunto ai casi determinati dalla legge, frustrando un diritto fondamentale dell’individuo e differenziando ingiustamente la condizione di chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito accertato e di chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito presunto in base all’art.2054 c.c. (o ad altra presunzione di legge), in riferimento agli artt.2 e 3 Cost.. La fattispecie Il caso esaminato dal Tribunale di Roma e sotteso alla suddetta ordinanza è dato da un grave incidente stradale Test noi consumatori 16 Consumi & diritti occorso in Roma l’11 maggio del 1997 in cui restarono coinvolti due veicoli e nel quale persero la vita quattro persone. L’azione di risarcimento del danno viene esperita dagli eredi delle vittime imputando (in un caso) alla controparte la responsabilità civile nella causazione del sinistro ovvero richiedendo la condanna “di chi di dovere” al risarcimento dei danni rispettivamente patiti. Note a commento Il Tribunale, investito del merito della causa, ritiene, esaurita l’attività istruttoria, che nessuna delle parti processuali sia riuscita ad assolvere all’onere probatorio dei fatti costitutivi dei diritti rispettivamente vantati e pertanto a superare la presunzione di colpa di cui all’art. 2054 c.c. con conseguente necessaria attribuzione della responsabilità nella misura del 50% in capo a ciascuno dei conducenti. Ed è proprio l’applicazione del meccanismo presuntivo di cui all’art. 2054 c.c. che induce il Giudice a ritenere non accoglibili le domande di risarcimento del danno morale. Poiché l’art. 2059 –motiva il Tribunale– consente il risarcimento del danno non patrimoniale solo nei casi previsti dalla legge (essenzialmente a fronte di fatti lesivi costituenti astrattamente reato) e premesso che il danno non patrimoniale derivante da fatto illecito costituente reato non può essere liquidato quando la responsabilità dell’autore sia stata accertata in base ad una presunzione e non in base alla oggettiva ricostruzione del fatto, nel caso di specie, essendo il decisum radicato sulla presunzione di cui all’art. 2054 c.c., non dovrebbe né potrebbe aver luogo il risarcimento del danno non patrimoniale. Tuttavia è lo stesso Giudice che, così decidendo, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 2059 quanto alla sue conseguenze applicative nei termini prospettati, promuove l’incidente di costituzionalità. Il sindacato della Corte dovrà essere condotto verificando che la limitazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dall’art. 2059 c.c. non comporti alcuna violazione di precetti costituzionali. Segnatamente, il Tribunale indica, quali parametri intesi a verificare la legittimità della norma in questione, gli artt. 2 e 3 della Costituzione preposti alla tutela ed al riconoscimento dei diritti fondamentali della persona ed alla definizione costituzionale del principio di eguaglianza. Norme, queste, il cui autentico rispetto dovrà essere valutato anche alla luce della relazione intercorrente tra l’art. 2059 e l’art. 2054 del codice civile. L’art. 2059 c.c. dispone che “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. La norma si iscrive in una concezione del fatto illecito tradizionalmente ispirata ad una nozione patrimoniale del danno che tende ad identificare il danno patrimoniale alla persona con il mero sacrificio di interessi economici connessi alla lesione di interessi personali direttamente riconducibili al fatto illecito. L’inadeguatezza della concezione “economica” del danno risarcibile collide peraltro con la tendenza –tipica della moderna civiltà giuridica– all’ampliamento del novero dei diritti risarcibili ed alla definizione di un tessuto di emersione di questi non prettamente patrimoniale ed è da tempo oggetto di discussione in dottrina. Test noi consumatori 17 Consumi & diritti Tanto più all’esito di una ridefinizione dell’impianto risarcitorio del danno alla persona che vede consolidarsi l’idea del danno biologico quale tertium genus rispetto al danno patrimoniale ed al danno morale soggettivo “puro” comprensivo di tutti gli effetti negativi incidenti sulla salute della persona indipendentemente da ogni conseguenza riflessa sul patrimonio. Stadio ultimo di tale ermeneutica evolutiva in senso personalistico è il riconoscimento della risarcibilità del danno morale indipendentemente dalla dimostrazione di una lesione all’integrità psico-fisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale (cfr. Cass. SS. UU., 21 febbraio 2002 n. 2515, FI, 2002, I, 999). L’intervento, sollecitato dal Tribunale mediante l’ordinanza che qui si esamina, si inserisce in un percorso già coltivato da altri Giudici di merito. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. venne proposta all’attenzione della Consulta perché ritenuta la norma in contrasto con gli artt. 2 e 24 della Costituzione nella parte in cui, in ragione di quanto disposto dall’art. 185 del codice penale, limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali a quelli derivanti da fatto illecito costituente reato (cfr. Trib. Padova, 22 marzo 1973, GM, 1974, I, 347). La Corte, nel pronunciarsi in occasione della sentenza n. 87 del 26 luglio 1979 (in FI, 1979, I, 2542 con nota di F. Giardina e M. Santilli) a favore della costituzionalità dell’art. 2059 in relazione all’art. 3 della Costituzione, ha evidenziato il principio per cui “rientra nella discrezionalità del legislatore adottare un trattamento differenziato, ove non vengano in considerazione situazioni soggettive costituzionalmente garantite”. Restava l’arduo compito di definire ed isolare, nell’ambito della più vasta categoria delle situazioni soggettive ritenute meritevoli di tutela, gli interessi giuridicamente protetti che rectius dovessero assurgere a diritti costituzionalmente garantiti (di qui la riproposizione della questione con riferimento alla risarcibilità del diritto alla salute (cfr. Trib. Genova, ord. 8 ottobre 1979, RCP, 1980, 112). D’altra parte la stessa Corte con la pronuncia n. 88 del 26 luglio 1979 ( in FI ibidem) osserva che “l’espressione “danno non patrimoniale”, adottata dal legislatore, è ampia e generale e tale da riferirsi...a qualsiasi pregiudizio che si contrappone, in via negativa, a quello patrimoniale, caratterizzato dalla economicità dell’interesse leso”. La legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. viene argomentata dal Giudice delle leggi in quanto i limiti posti dalla norma debbono intendersi riferiti “al solo danno morale subiettivo ” ossia “ al momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico in relazione a fatti illeciti particolarmente qualificati” e non già alla “menomazione psico-fisica dell’offeso” (Corte Cost., 30 giugno 1986, n. 184, FI, 1986,I, 2053 con nota di Ponzanelli) ed, ancora, attribuendosi al principio della risarcibilità del danno ingiusto “un contenuto comprensivo anche della riparazione alle menomazioni di beni di valore assoluto e primario, il danno è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la compromissione del bene riveste in sé e per sé” (Corte Cost., 30 dicembre 1979, n. 641, FI, 1988,I, 694). Test noi consumatori 18 Consumi & diritti Alla luce della irrisolta problematicità della fattispecie, parte della dottrina osserva che “l’unica soluzione che consenta di uscire dall’impasse sembra essere quella che poggia su una ridefinizione del concetto di danno patrimoniale: non più inteso, secondo l’orientamento tradizionale, come necessariamente caratterizzato dalla patrimonialità dell’interese leso, ma riferito a qualsiasi pregiudizio suscettibile di diretta valutazione economica mediante criteri obiettivi” (così L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto Civile, Torino, 1989, vol. III, 681). È il Tribunale di Bologna (ord., 13 giugno 1995, Giur. it., 1995, I, 2, 892 con nota di G. Comandé) a sollevare nuovamente questione di legittimità dell’art. 2059, nella parte in cui la norma non consentirebbe in ogni caso –anche in presenza di un mero illecito civile– il risarcimento del momentaneo patema d’animo integrando una violazione del diritto alla salute anche laddove la stessa non presenti gli estremi di una precisa patologia. La Consulta (ord. 22 luglio 1996, n. 293, FI, 1996, I, 2963, con nota di G. De Marzo) ribadendo la diversità, non incisa dall’art. 2059, tra il danno alla salute ed il danno morale quale pretium doloris salva la legittimità della norma. L’ordinanza romana, dunque, ripropone all’attenzione della Consulta la controversa questione della legittimità di una scelta legislativa che è orientata alla limitazione sub specie della previa tipizzazione legislativa delle ipotesi lesive, della risarcibilità del danno morale o, più correttamente, del danno non patrimoniale. Il Tribunale osserva che in verità l’idea della risarcibilità del solo danno patrimoniale si è affermata nella dottrina e nella giurisprudenza solo alla fine dell’800 sotto l’egida dell’allora vigente art.1151 del codice civile del 1865. Ciò quando per oltre duemila anni non si era mai dubitato della risarcibilità del danno morale. La giurisprudenza del primo ‘900 che stigmatizza il nuovo orientamento ricorre ad argomenti quali l’applicabilità della normativa codicistica ai soli rapporti giuridici patrimoniali, l’incertezza nella definizione dei criteri fruibili al fine della liquidazione del danno morale, l’inidoneità di un risarcimento comunque pecuniario a rifondere un danno morale per sua natura non riducibile in termini economici. Più che appartenere dunque alla nostra coscienza giuridica, l’idea della non risarcibilità del danno morale, osservano i giudici romani, “ha recepito un’“idea ordinante” fondata sull’assunto secondo cui i diritti della personalità non costituiscono elementi del patrimonio del titolare e la loro lesione non dà perciò luogo a risarcimento”. Muovendo dalla ratio della norma così ricostruita, appare dubbia la sua compatibilità con i precetti costituzionali laddove, leggiamo in un passo dell’ordinanza, “questo Tribunale ritiene impossibile continuare a fingere di ritenere che la sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da alcun precetto costituzionale e quindi, non costituendo un diritto della personalità, non possa essere risarcita se non nei casi di cui all’art.2059 c.c.”. La norma in oggetto, che è indubbiamente ispirata all’idea di una sostanziale uniformazione tra responsabilità civile e responsabilità penale per cui leggiamo, nei lavori preparatori del codice civile, “soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più Test noi consumatori 19 Consumi & diritti energica repressione con carattere anche preventivo”, collide con l’art. 2 della Costituzione che tutela i diritti fondamentali dell’individuo in quanto la sofferenza morale che segue la perdita di un prossimo congiunto è senz’altro una “proiezione della personalità nella realtà sociale” meritevole di tutela, nonché con l’art. 3 della Carta fondamentale nella parte in cui ingiustamente differenzia la condizione di chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito accertato da chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito presunto. L’art.2059 c.c. adotta un criterio di stretta tipicità la cui evidenza è accentuata a fronte della genericità della clausola di cui all’art. 2043 c.c. relativa ai danni materiali “quasi che pure la joie de vivre sia da considerare meritevole di tutela anche civile soltanto di fronte alle lesioni di quei beni personali che formano oggetto della più efficace tutela penale” (così A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1999, 219). Se il danno morale in sede civile è risarcibile solo a fronte di una condotta umana penalmente rilevante, un meccanismo come quello introdotto dall’art. 2054 c.c. che, in via presuntiva, in difetto dei necessari adempimenti probatori, introduce la regola del concorso di colpa, non potrà mai consentire, nel difetto dell’accertamento del fatto materiale di reato, titolo per ottenere il risarcimento del danno morale ossia quel “denaro del pianto” (traducendo dal tedesco Schmerzensgeld) in cui la funzione direttamente corrispettiva lascia il posto ad una ratio più genericamente satisfattoria ovvero sanzionatoria. Le argomentazioni sviluppate dai giudici romani corroborate da una disamina “culturale” oltreché propriamente giuridica appaiono tanto più significative se pensiamo a come, norme quali l’art. 2054 c.c., che ricorrono ad una presunzione operativa in difetto di prova contraria resa dalle parti interessate, trovano frequente applicazione giurisprudenziale sia nei casi in cui il materiale istruttorio non venga adeguatamente valutato o integrato sia per la difficoltà oggettiva intrinseca alla ricostruzione di eventi lesivi ed alla conseguente attribuzione di responsabilità alla luce di norme quali quelle preposte alla circolazione stradale dotate sovente di una portata precettiva non tassativamente determinata. La questione di legittimità costituzionale si ripropone dunque in tutta la sua evidenza nonostante la Consulta abbia già ritenuto di “salvare” l’art. 2059 fornendone una interpretazione “costituzionalmente orientata” per cui la lesione di un diritto costituzionalmente protetto, anche in presenza di una norma come l’art. 2059 c.c., sarebbe comunque risarcibile in base al combinato disposto dell’art. 2043 c.c. e della norma che si assume di volta in volta violata (Corte Cost., 30 giugno 1986 n. 184 cit.). La tesi del combinato disposto è a parere del Tribunale insufficiente per una serie di ragioni. In primo luogo perché, se si ritenesse l’art. 2043 c.c. una norma in bianco, il precetto andrebbe ricercato in altre norme dell’ordinamento, in primis quelle costituzionali; se si valutasse l’art. 2043 c.c. non identificativo di una norma in bianco, costituirebbe danno risarcibile la lesione di qualsiasi interesse rilevante per l’ordinamento, ancorché non costituzionalmente fondato. È una tesi, quella del combinato disposto, che peraltro prova troppo inducendo l’interpretatio abrogans dell’art. 2059 c.c. ritenendosi, ad esempio nel caso di specie, che la Test noi consumatori 20 Consumi & diritti perdita del prossimo congiunto costituisce lesione di un diritto costituzionalmente protetto anche in assenza dell’accertamento di un reato. L’art. 2059 c.c., bene osserva il Tribunale, diventerebbe un “guscio vuoto”. L’interpretazione conforme alla costituzione idonea a salvare la legittimità della norma coinciderebbe in sostanza con la sua interpretatio abrogans, con evidente distorsione della logica conservatrice preposta ad una corretta ermeneutica. Ancora, la tesi del combinato disposto indurrebbe, nei casi in cui venga accertato il fatto di reato, ad una duplicazione del risarcimento ancorato allo stesso evento lesivo e risarcibile sia ex artt. 2043 c.c. e 2 Cost. quale lesione di un diritto costituzionalmente garantito, sia ex art. 2059 c.c. quale danno morale con evidente violazione dei dettami di ragionevolezza. Da ultimo si osserva come la ratio sottesa all’art. 2059 c.c. debba essere ricondotta ad un contesto processuale connotato dalla subordinazione dell’accertamento dell’illecito in sede civile all’accertamento del fatto-reato in sede penale. Subordinazione compiutamente superata per effetto dell’attuale art.75 c.p.p. che scinde il percorso civilistico inteso al risarcimento del danno dal processo penale deputato all’accertamento del reato. Appare in sostanza insanabile ed insuperata l’antinomia tra una norma che conserva la propria originaria “radice penale”, pur inserita nello strumentario tipicamente compensativo della responsabilità civile, ed una cultura oggi davvero multiforme del danno alla persona quale danno ingiusto ipso facto risarcibile a prescindere dal criterio di imputazione della responsabilità. Avv. Monica Filippi Annullamento ed illegittimità del “fermo” amministrativo Nota a Tribunale di Salerno, ordinanza 18 aprile 2003 - Proc. N. 271/2003 Carenza di potere, mancanza di un regolamento di attuazione, illegittimità, anche costituzionale, del provvedimento di fermo. Test noi consumatori Il testo dell’ordinanza Il G.U. Letti gli atti; Atteso che il ricorrente, in vista del futuro giudizio di merito tendente all’annullamento di un provvedimento di fermo amministrativo, chiede, in questa sede cautelare atipica, la sospensione degli effetti del provvedimento medesimo; che deduce di aver ricevuto, in data 27.12.2002, una lettera raccomandata contenente la comunicazione dell’avvenuto fermo amministrativo presso il Pubblico Registro Automobilistico di Salerno, della sua autovettura FIAT ULYSSE 21 Consumi & diritti 2.1 TD 12V, targata AR 713 WX, già dal 4.12.2002, con conseguente divieto di circolazione del veicolo e richiesta di pagamento di € 639,77; che la missiva non indicava il motivo del fermo, ma riportava soltanto il numero di tre cartelle esattoriali, sicché nello stesso giorno 27.12.2002 si era recato presso gli uffici dell’E. TR. s.p.a. per chiedere spiegazioni; che soltanto in questa occasione l’E. TR. gli aveva fornito il c.d. estratto di ruolo con la descrizione delle causali della pretesa; che aveva così appreso che gli veniva richiesto il pagamento di una multa risalente all’anno 1995 per complessivi € 832,88, il pagamento di tasse per lo smaltimento di rifiuti per gli anni 1993 e 1994 per un totale di € 4,24, ed il pagamento di tasse per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani relativi all’anno 1992, per un totale di € 4,26; che non aveva mai ricevuto la notificazione delle cartelle esattoriali indicate, peraltro solo con un numero, nella comunicazione dell’adozione del provvedimento di fermo; che i pretesi crediti erano caduti in prescrizione e, comunque, il fermo era stato emesso in carenza di potere; che l’autovettura sottoposta a fermo costituiva l’unico suo mezzo di trasporto per ragioni di lavoro; Visto l’atto di costituzione in giudizio della società resistente; Atteso che l’E. TR. s.p.a. ribadisce la legittimità del provvedimento adottato ai sensi dell’art. 86 del D.P.R. 602 del 1973, assumendo la sussistenza del potere in virtù della norma citata e del regolamento di attuazione emanato con D.M. 7.9.1998 n. 503; che assume la natura cautelare del fermo e la conseguente inammissibilità di un provvedimento di sospensione dell’ esecuzione; che deduce altresì la rituale notificazione delle cartelle esattoriali menzionate nel provvedimento di fermo, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per le imposte ed i tributi, la definitività del carico iscritto a ruolo per mancanza impugnazione nei termini di legge delle cartelle esattoriali; Premesso quanto sopra, OSSERVA La questione sottoposta all’esame di questo giudice prende le mosse dall’adozione di un provvedimento di fermo amministrativo di veicolo privato adottato dalla società resistente in applicazione del disposto dell’ art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 come modificato con l’art. 1 del decreto legislativo 27.4.2001 n. 193. L’istituto in esame è stato introdotto nell’ordinamento con l’art.5 del D.L. 31.12.1996 n.669, convertito in legge 28.2.1997 n.30, che ha inserito l’art.91bis nel D.P.R. n.602 del 1973. L’art. 91 bis attribuiva il potere di fermo amministrativo di veicoli a motore ed autoscafi alla Direzione Generale delle Entrate sul presupposto dell’impossibilità di eseguire il pignoramento per mancato reperimento del veicolo del contribuente. Il quarto comma dell’ art. 91 bis prevedeva l’emanazione di un regolamento di attuazione, emanato con D. M. 7.9.1998 n. 503. La norma è stata successivamente trasfusa, senza modifiche, nell’art.86 del medesimo D.P.R., con l’art.16 del decreto legislativo n. 46 del 1999. Test noi consumatori 22 Consumi & diritti Con l’art.1 del decreto legislativo n. 193 del 2001 l’istituto ha subito, invece, radicali modificazioni, giacché è stato sostituito il primo comma dell’art. 86 del D.P .R. n. 602 del 1973 ed è stato attribuito il potere di fermo direttamente al concessionario esattore con previsione di presupposti diversi da quelli in precedenza richiesti. Il provvedimento di fermo oggi si inserisce, invero, in una fase anteriore a quella prettamente esecutiva, giacché è stata eliminata la necessità di un verbale di pignoramento negativo, richiedendosi, di regola, soltanto il decorso di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento. L’istituto, a seguito delle modifiche legislative ricordate, ha perso dunque, il suo originario carattere di misura della fase esecutiva –in quanto rimedio da adottare in caso di irreperibilità dei veicoli da sottoporre a pignoramento, come previsto dall’art. 3 comma 2 del D.M. n. 503 del 1998, con richiamo all’art. 79 D.P.R. 28.1.1998 n. 79, che regola le ipotesi del pignoramento negativo o insufficiente e la trasmissione del relativo verbale all’ufficio finanziario o all’ente che emesso il ruolo per l’apposizione del visto– per assumere la natura di misura cautelare, successiva alla notificazione della cartella esattoriale ma anteriore all’esecuzione, a garanzia del credito da soddisfare. La nuova natura del fermo amministrativo -affermata, nel caso in esame, dalla stessa società resistente- e le novità dell’istituto, concernenti il soggetto legittimato ad adottare il provvedimento nonché tutti i presupposti per la sua emanazione, rendono ragione della necessità di uno specifico regolamento di attuazione, previsto dall’ultimo comma dell’ art. 86 in esame e non ancora emanato. La norma prevede espressamente infatti, la emanazione di un regolamento di attuazione; essa si pone, dunque, come norma di principio necessitante di integrazione. La tesi della non necessità di un regolamento di attuazione –nonostante l’espressa previsione di legge– e della applicabilità del D.M. n. 504 del 1998, nelle parti compatibili con la nuova norma, si scontra invero, con la impossibilità di individuare una norma del regolamento di attuazione che conservi compatibilità con il nuovo sistema, con riferimento alle concrete modalità di esercizio del potere, alle condizioni ed ai limiti del medesimo, alla necessaria proporzione tra pretesa creditoria e bene vincolato a garanzia del credito, e con riferimento allo stesso contenuto del provvedimento. Nel regime anteriore alla riforma in esame tutti gli elementi sopra individuati erano puntualmente disciplinati dalle varie norme applicabili, a cominciare dall’art.79 citato (che consentiva l’apposizione del visto soltanto per crediti superiori alle £ 500.000) e dalle norme del processo esecutivo, ed in particolare dall’art.496 c.p.c., che consentono di porre rimedio alla eventuale sproporzione di valore tra credito e beni pignorati. Il nuovo sistema, al contrario, estrapolando la norma dalla fase esecutiva, impedisce l’applicazione del menzionato art.496 c.p.c., e, nello stesso tempo, eliminando la necessità di un verbale di pignoramento negativo e del visto dell’ente creditore, non prevede neppure un limite minino al disotto del quale non è adottabile la misura –fortemente coercitiva– del fermo amministrativo. Test noi consumatori 23 Consumi & diritti L’attività della P.A., e dei suoi concessionari, deve essere improntata al rispetto delle regole costituzionali di buona amministrazione (intesa anche come migliore contemperamento degli interessi in gioco e minor danno per i destinatari dell’azione amministrativa), e di imparzialità (intesa anche come parità sostanziale di trattamento e, quindi, di corrispondenza di eguali reazioni ad uguali azioni), nonché al rispetto dei principi di legalità, trasparenza e ragionevolezza (intesi, nello specifico, come necessità della previa compiuta disciplina normativa dei pubblici poteri, e del conseguente esercizio del potere nel rispetto del canone della razionalità operativa, allo scopo di evitare atti arbitrari o irrazionali). La norma dell’art.86 in esame non contiene una compiuta disciplina del potere del concessionario, né questa è rinvenibile nel regolamento di attuazione del precedente disposto normativo, relativo ad altra ipotesi di fermo amministrativo, perché riferita ad altro soggetto e ad altri presupposti, come visto. Consente, allo stato della legislazione, un potere assolutamente discrezionale, quasi rudimentale, senza limiti minimi di importo, senza controlli di proporzionalità della misura, con possibilità di applicazione indiscriminata della medesima, ed unica, misura alle situazioni più diverse, neppure individuate analiticamente ed illustrate nel provvedimento. Una lettura costituzionalmente legittima dell’art.86, nella sua nuova formulazione, non può che passare, dunque, attraverso la conclusione sopra esposta della necessità di uno specifico regolamento di attuazione –in aderenza, si ripete, al contenuto dell’ultimo comma dell’art. 86 in parola– e della natura di mera norma di principio contenuta nel primo comma dell’art. 86. La diversa interpretazione, proposta dalla società convenuta, non potrebbe non esporre a censure di illegittimità costituzionale la norma medesima, giacché, allo stato della legislazione, contrastante con tutti i principi, anche di livello costituzionale, sopra ricordati. L’interpretazione qui accolta, invece, se per un verso rende la norma conforme al dettato costituzionale ed a tutti i principi del diritto amministrativo, per altro verso impone di escludere, finché non interverrà il necessario regolamento di attuazione, l’attualità del potere attribuito –finora– solo in linea di principio al concessionario. Un provvedimento di fermo adottato nelle more dal concessionario è, conseguentemente, adottato in carenza di potere, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario a conoscere della questione. Ferme le competenze degli altri giudici ordinari o amministrativi speciali per le ipotesi di opposizione alla cartella esattoriale in dipendenza della natura del credito iscritto a ruolo, deve rilevarsi, invero, che in caso di impugnazione del solo provvedimento di fermo –ossia di impugnazione indipendente dalla contestazione del credito al quale il provvedimento accede–, non può non ravvisarsi la giurisdizione del giudice ordinario, da individuarsi secondo gli ordinari criteri di competenza. Non è sostenibile, in primo luogo, che l’unico rimedio consentito sia costituito dalla opposizione alla ordinanza ingiunzione o a cartella esattoriale, nei termini rispettivamente previsti dalla normativa speciale di riferimento, giacché una cosa è reagire contro l’esercizio del potere Test noi consumatori 24 Consumi & diritti sanzionatorio o di pretesa tributaria, altra cosa è contestare autonomamente l’adozione di una misura ulteriore quale è quella del fermo amministrativo. D’altra parte l’art. 2 del decreto legislativo 31.12.1992 n. 546, come modificato dalla legge 28.12.2001 n. 448, esclude la giurisdizione tributaria per gli atti della esecuzione forzata successivi alla notificazione della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art.50 del D.P.R. n. 602 del 1973, e limita la cognizione della pretesa tributaria con specifico riferimento ad atti individuati dall’art.19 del decreto legislativo n. 546 del 1992. Il provvedimento di fermo di cui all’art.86 in “esame è atto successivo alla notificazione della cartella esattoriale e, comunque, non è compreso nell’elenco di cui all’art.19 citato, né è espressamente indicato da altra disposizione come impugnabile dinanzi alle Commissioni Tributaria, sicché deve escludersi la giurisdizione degli organi menzionati in caso di impugnativa del solo provvedimento di fermo. Escludere anche la giurisdizione del giudice ordinario, o di altro giudice, equivale a violare l’art. 113 della Costituzione, che dispone che contro gli atti della P .A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Secondo gli ordinari criteri di riparto della giurisdizione, il G.O. conosce delle domande dirette a far valere la carenza di potere della P .A., mentre il giudice amministrativo conosce dell’illegittimità dell’atto, ossia del cattivo uso del potere, sicché deve affermarsi la giurisdizione del G.O. a conoscere della controversia. La giurisdizione ordinaria va affermata, peraltro, anche con riferimento alla specialità della disciplina che regola la materia, con particolare riferimento alle disposizioni del D.P.R. n.602 del 1973 riconfermate anche in occasione dell’ultima modifica normativa in tema di riparto di giurisdizione introdotta con l’art.12 della legge n.449 del 2001. Superata, quindi, l’eccezione del difetto di giurisdizione sollevata dalla parte resistente, deve esaminarsi l’eccezione di inammissibilità di un provvedimento di sospensione, vertendosi in una fase anteriore a quella esecutiva. Se l’eccezione è fondata con riferimento ad una impugnazione qualificabile come opposizione a precetto, non è tuttavia fondata con riferimento ad una azione mirante alla declaratoria di illegittimità di un provvedimento emesso in carenza di potere. D’altra la stessa giurisprudenza citata dalla parte resistente ammette il ricorso alla tutela cautelare atipica allorché si intenda opporsi ad una esecuzione non ancora iniziata. Nel caso in esame non è affatto richiesta la sospensione di una esecuzione iniziata, bensì la declaratoria di un vizio comportante l’inefficacia –provvisoria, all’esito di questa fase– di un provvedimento. In ossequio alle regole della procedura cautelare atipica azionata, l’accoglimento dell’istanza deve essere valutata alla luce della sussistenza dei presupposti previsti dall’art.700 c.p.c., ossia del fumus boni iuris e del periculum in mora. In ordine al primo requisito si è già detto sopra, pervenendo alla conclusione della probabile fondatezza della censura mossa alla condotta della controparte, che appare posta in essere in assoluta carenza di potere, e, conseguentemente, del probabile esito positivo per il ricorrente del futuro giudizio di merito. Test noi consumatori 25 Consumi & diritti Quanto al periculum in mora, va osservato che la limitazione alla libertà di locomozione dipendente dalla efficacia del provvedimento di fermo è idonea a determinare conseguenze alla vita lavorativa e di relazione, non soltanto di natura economica, con grave difficoltà di pervenire ad un integrale ristoro per equivalente. Opinare diversamente equivale a consentire una reintroduzione surrettizia dell’istituto del “solve et repete” espulso dal nostro ordinamento. La domanda cautelare merita, dunque, accoglimento. Non incide sul giudizio espresso l’ulteriore eccezione mossa dalla resistente in ordine alla rituale notificazione della cartella esattoria (affermazione rimasta, peraltro, del tutto sfornita di prova) ed alla definitività dell’accertamento per decorso del termine per l’impugnazione, non discorrendosi, in questa sede, della sussistenza del credito bensì della sola legittimità della misura adottata a garanzia della riscossione del preteso credito. P.Q.M. Sospende l’efficacia del provvedimento di fermo impugnato, disposto dalla società resistente sull’autovettura Fiat Ulysse 2.1 TD 12 V targata AR 713 WX in data 16.12.2002; fissa il termine di giorni trenta dalla comunicazione della presente ordinanza per l’introduzione del giudizio di merito. Manda alla cancelleria per le comunicazioni e gli adempimenti di rito. Salerno,15.4.2003 Depositata il 18 aprile 2003. Note di commento LA FATTISPECIE Il Signor Antonio Paolillo riceveva il 27 dicembre 2002 una “lettera” raccomandata A.R. n.60238557666-2 dall’E. TR.SpA, Servizio Riscossione Tributi Concessionaria della Provincia di Salerno, la quale metteva a conoscenza il ricorrente di due cose: 1) dell’avvenuto fermo amministrativo, presso il Pubblico Registro Automobilistico tenuto dall’ACI sede provinciale di Salerno, della sua autovettura FIAT ULYSSE 2.1 TD 12V, targata AR713WX, già dal 4/12/ 2002, con conseguente divieto di circolazione del veicolo e 2) del pagamento di 639,77 Euro. Tale lettera, però, non conteneva il motivo per il quale l’E. TR.SpA disponeva il fermo, ma indicava soltanto il numero di tre cartelle, vale a dire: 1) 0020542759, 2) 2680380348 e 3) 2680500271. Il ricorrente, lo stesso giorno (27/12/2002), andava all’E. TR. SpA per chiedere il motivo di questo provvedimento e quest’ultimo immediatamente gli forniva il c.d. l’estratto di ruolo, in cui venivano descritti (indicando il tipo di tributo, l’emissione e l’importo) i tributi che il ricorrente non avrebbe pagato e che erano: a) multa emessa nel 1995 sull’autovettura targata SA913692 (diversa da quella sul quale oggi è stato posto il fermo) con relativa sanzione aggiuntiva, il cui totale è di 832,88 Euro; b) tasse smaltimento rifiuti del 1993 e del 1994 pagate in ritardo, il cui totale è di 4,24 Euro; c) tassa rifiuti solidi urbani del 1992 pagata in ritardo, il cui totale è di 4,26 Euro. Test noi consumatori 26 Consumi & diritti LA QUESTIONE Il provvedimento in esame mette in evidenza l’ammissibilità del procedimento d’urgenza ex art.700 c.p.c. per dichiarare l’inefficacia del fermo amministrativo di beni mobili registrati disposti dall’art.86 del D.P.R. 602/1973. Il Tribunale di Salerno, in presenza del G.U. Dott.ssa Rosa Sergio, che deposita il provvedimento il 15 aprile 2003, accoglie il ricorso ex art.700 c.p.c. e fissa 30 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza per l’introduzione del giudizio di merito. Il citato provvedimento di fermo del veicolo è, sia da un punto di vista fattuale che di diritto, illegittimo per una serie di motivi. Innanzitutto, la normativa dispone che entro cinque giorni dall’annotazione, l’esattore informi, con lettera raccomandata, il debitore e l’Ufficio delle Entrate, al quale in precedenza spettava la gestione della procedura e che, per l’effetto della sopravvenuta normativa, ha perso ogni controllo preventivo sulla regolarità delle procedure adottate dall’esattore e sulla verifica della sussistenza a monte di un valido titolo esecutivo. Si ricorda che dalla data di iscrizione del provvedimento di fermo, come ricorda lo stesso Concessionario nella sua lettera del 27.12.2002, “è vietata la circolazione del veicolo sottoposto a fermo, pena l’irrogazione della sanzione prevista dall’art.214, comma 8, D.L. 30.4.1992 n. 285 - sanzione pecuniaria -”, nonché è prevista la perdita delle garanzie assicurative e il sequestro del mezzo, se usato durante il periodo d’inibizione. Il mancato rispetto dei termini è previsto a pena di illegittimità dei successivi atti, e non occorre certo ricordare che, essendo un atto ricettizzio, ha validità, per il debitore, dal momento della sua ricezione, essendo solo da tale momento ad esso conoscibile. In secondo luogo, tale tipo di provvedimento cautelare, previsto dall’articolo 86 D.P.R. 29.9.1973 n. 602, così come modificato dall’art. 1 D.Lgs.n.193/2001, è privo di una normativa di riferimento. Infatti, questa nuova misura di tipo cautelare è stata disciplinata per la prima volta dall’indicato DPR n.602/73, che all’art. 86, comma 4, esplicitamente prevede che “con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, sono stabiliti le modalità, i termini e le procedure per l’attuazione di quanto previsto nel presente articolo (articolo così sostituito dall’art. 16, d.lg. 26 febbraio 1999, n. 46).” Ora, allo stato, tali Decreti attuativi non sono ancora stati emanati, per cui nulla è stato determinato in merito alle modalità, termini e procedure di attuazione. Il regolamento avrebbe dovuto indicare anche la somma minima per poter procedere al fermo, e disciplinare le modalità per impugnare il provvedimento. Tale fermo, invece, viene disposto senza una normativa di riferimento in materia, in palese violazione dell’art. 24 della Costituzione, che disciplina il diritto alla difesa del cittadino. Oltre tutto vi è una palese sproporzione tra quanto richiesto ed il valore dei veicoli sottoposti a fermo amministrativo e ciò, in assenza di una normativa di riferimento, senza alcuna prevista possibilità di impugnativa. Del resto si contesta anche la possibilità di sottoporre a fermo un bene che è strumentale allo svolgimento della professione del ricorrente. Nel Regolamento attuativo doveva essere prevista anche una norma Test noi consumatori 27 Consumi & diritti che prevedesse l’impignorabilità dei beni strumentali, cioè usati per necessità professionali. Infine, l’Ente esattore non ha nemmeno rispettato la procedura prevista dallo stesso articolo da Lei stessa richiamato nel provvedimento di comunicazione del fermo. In base all’art. 86 citato, comma 1 “Decorso inutilmente il termine di cui all’articolo 50, comma 1, il Concessionario può disporre il fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia alla Direzione regionale delle entrate ed alla regione di residenza –comma così sostituito dall’art. 1, d. lgs. 27 aprile 2001, n. 193–”. Ora secondo quanto prescritto dall’art. 50 “Il concessionario procede ad espropriazione forzata quando è inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla dilazione ed alla sospensione del pagamento (circostanza, questa, mai realizzatasi)”. Ma poi prosegue lo stesso articolo “Se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi con le modalità previste dall’articolo 26, di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni (comma così modificato dall’art.1, d. lgs. 27 aprile 2001, n. 193)”. Sembra inutile aggiungere che tale circostanza non è mai stata realizzata da parte del Concessionario. Non avendo realizzato tali adempimenti, gli atti successivi sono illegittimi ed inefficaci secondo lo stesso art.50 citato “L’avviso di cui al comma 2 è redatto in conformità al modello approvato con decreto del Ministero delle finanze e perde efficacia trascorsi centottanta giorni dalla data dalla notifica”. Avv. Rocchina Staiano Danno per caduta su scala mobile Nota a sentenza Corte di Cassazione sezione III civile; sentenza 13 febbraio 2002, n. 2075; Pres. Fiduccia, Est. Durante, P.M. Martone Conferma App. Roma 3 maggio 1998. Riconosciuto il risarcimento del danno per caduta su una scala mobile a servizio di una stazione della metropolitana. Test noi consumatori La massima Va confermata la decisione di merito che, nel rigettare la domanda con cui era stata chiesta la condanna del servizio di trasporto pubblico al risarcimento dei danni conseguenti alla caduta su una scala mobile a servizio di una stazione della metropolitana, aveva escluso la possibilità di invocare la presunzione di responsabilità a carico del custode, in quanto la vittima non era stata in grado di provare la correlazione tra la caduta e l’asserita presenza di una sostanza oleosa sui gradini. 28 Consumi & diritti La fattispecie e le note a commento La fattispecie di cui alla massima sopra riportata rappresenta il caso di un utente del servizio di trasporto pubblico che, cadendo da una scala mobile posta al servizio di una stazione della metropolitana in quel di Roma, si era procurato lesioni personali di non lieve entità. In particolare, il danneggiato asseriva che la caduta era stata determinata dalla presenza di una non ben precisata sostanza oleosa sui gradini della suddetta scala mobile. Il giudice di prime cure respingeva la richiesta di risarcimento dei danni fisici formulata da parte del danneggiato e tale statuizione veniva successivamente confermata anche in sede di gravame. L’iter logico-giuridico condotto da entrambi i giudici del merito risultava fondato sul fatto che da parte dell’utente danneggiato non era stata fornita la prova occorrente perché potesse operare la presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c.; non erano cioè stati dimostrati né la pericolosità della scala in relazione alla presenza della sopra prospettata sostanza oleosa, né soprattutto il nesso eziologico tra tale presenza e l’evento della caduta da cui erano derivate le lamentate lesioni personali. L’utente del servizio di trasporto promuoveva quindi ricorso per Cassazione, deducendo la sussistenza nella fattispecie de qua dei presupposti indefettibili perché potesse farsi luogo all’applicazione della suddetta presunzione di responsabilità, ritenendo cioè di aver compiutamente dimostrato nei precedenti gradi di giudizio: 1) la qualità di custode in capo all’ente gestore del servizio di trasporto pubblico (effettivo potere fisico sulla scala e corrispondente obbligo di custodire la stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo), nonché 2) la riconducibilità causale dell’evento dannoso all’utilizzo della scala. Viceversa, non era stato per nulla provato da parte dell’ente gestore della metropolitana che il danno era derivato da un fattore esterno integrante un’ipotesi di caso fortuito con efficacia esimente. La difesa del ricorrente faceva altresì rilevare che se era pur vero che il danneggiato aveva l’obbligo di provare il rapporto eziologico tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, tuttavia tale prova doveva ritenersi circoscritta unicamente alla dimostrazione che l’evento-caduta si era prodotto nell’ambito del normale dinamismo connaturato alla scala mobile, senza che dovesse acquistare rilevanza l’ulteriore circostanza della riconducibilità in concreto della caduta alla presenza della denunciata sostanza scivolosa. La Corte di Cassazione, pur riconoscendo la presenza in detta fattispecie di un effettivo rapporto di custodia, faceva tuttavia rilevare che la domanda proposta dal ricorrente non risultava sorretta da adeguata ed esauriente prova in ordine al fatto che la caduta fosse dipesa dalla particolare situazione venutasi a creare per la presenza della sostanza oleosa sui gradini della scala. Ad avviso del Supremo Collegio, proprio al raggiungimento di tale fondamentale prova doveva intendersi subordinata l’applicazione della presunzione di responsabilità, vedendosi pertanto costretto a respingere i motivi posti a fondamento del ricorso ed a confermare l’impugnata sentenza. Test noi consumatori 29 Consumi & diritti La ratio decidendi sottesa alla menzionata pronuncia va ricercata nei risultati cui è pervenuta la più recente dottrina in tema di responsabilità del custode per danni da cosa custodita, di cui all’art. 2051 c.c., e dalla elaborazione giurisprudenziale che ne è derivata. Ed invero, a fronte di un consolidato orientamento giurisprudenziale che individua nella norma in questione un caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della responsabilità sarebbe pur sempre nel fatto dell’uomo (nella specie del custode), che è venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza, la dottrina recente contrappone una ricostruzione della fattispecie in termini di responsabilità oggettiva (in tal senso MONATERI, La responsabilità civile, in Tratt. Sacco, Torino, 1998, 1038; cfr., ad esempio, Trib. Verona 4 giugno 1997, Gaioni c. Supermercati PAM, in Danno e Responsabilità, 1998, 65, N. DI NEPI) e, contemporaneamente, denuncia il carattere declamatorio del richiamo alla presunzione di colpa operato dalla giurisprudenza (Cfr., fra gli altri, MONATERI, La responsabilità civile, cit.; FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 598, che definisce la presunzione di responsabilità una vera mostruosità logica): “La giurisprudenza continua a parlare di presunzione di colpa del custode solo per rendere omaggio alla tradizione, dato che poi richiede, ai fini della liberazione dalla responsabilità, non la prova dell’assenza di colpa (ossia la prova della propria diligenza, prudenza o perizia), ma la prova positiva del caso fortuito, ossia dell’evento interruttivo del rapporto causale, e non concede esonero da responsabilità ove la causa del danno sia rimasta ignota, tanto che il custode risponde del danno anche se è incapace di intendere e di volere” (GALGANO, Trattato di diritto civile e commerciale, Padova, 1990, 331). L’orientamento della dottrina prevalente ha, da qualche tempo, trovato accoglimento sia nella giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Napoli 23 dicembre 1995, Nunziante e altri c. Sacchi, Nuova Giur. Civ. Comm., 1997, I, 146, N. MATTEO; Trib. Venezia 28 marzo 1997, Alessandri c. Vattari e altri, Danno e Responsabilità, 1997, 497, N. LAGHEZZA; Trib. Verona 4 giugno 1997, Gaioni c. Supermercati PAM, e Trib. Verona 4 ottobre 1996, Rattotti c. PAM S.p.a., in Danno e Responsabilità, 1998, 65, N. DI NEPI ), sia in quella di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 1998, n. 5031, Cola c. Com. S. Marinella e altro, in Resp. Civ. e Prev., 1998, 1375, n. FORZIATI e in Danno e Responsabilità, 1998, 1101, N. LAGHEZZA; ma vedi anche Cass. civ., sez. un., 11 novembre 1991, n. 12019, Carminetti c. Com. Caldano, in Corriere Giur., 1992, 180, n. ALPA). Pertanto, avendo riconosciuto pressoché unanimemente (per lo meno all’indomani di Cass. 20 maggio 1998, n. 5031) che il comportamento del responsabile è estraneo alla struttura della normativa di cui all’art. 2051 c.c., poiché la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma sulla relazione intercorrente tra questi e la cosa, la giurisprudenza mostra una particolare attenzione alla prova dell’esistenza del rapporto di causalità, vuoi sotto il profilo del riscontro del nesso eziologico tra la res in custodia e l’evento pregiudizievole (cfr. Cass. 3 agosto 2001, 10687), vuoi sotto quello dell’accertamento dell’autonoma idoneità causale di un fattore esterno in grado Test noi consumatori 30 Consumi & diritti di interrompere il predetto collegamento tra la cosa ed il danno (cfr. Cass. 17 gennaio 2001, n. 584). Tale maggiore attenzione da parte dei giudici in ordine alla prova del rapporto di causalità si configura quindi come un efficace contrappeso al rigido criterio oggettivo di determinazione della responsabilità che connota la fattispecie ex art. 2051 c.c.. In altre parole, l’esigenza di non prescindere dal nesso di causalità comporta che, sebbene si neghi in linea di principio l’essenzialità di una prova dell’esistenza di una specifica ed intrinseca pericolosità della cosa in sé, si arrivi comunque a pretendere, qualora il nocumento non risulti causato dal dinamismo connaturato alla cosa, la dimostrazione che nella stessa sia insorto un agente dannoso, non importa se proveniente dall’esterno. (cfr. Cass. 30 marzo 1999, n. 30411 e 16 febbraio 2001, n. 2331: “... Ai fini della responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c. il danneggiato deve provare il nesso eziologico tra la cosa in custodia e il danno ... Pertanto, se egli afferma di essere caduto da una scala per la presenza sui gradini di materiale scivoloso, deve provare l’esistenza di tali elementi, perché configurano il fatto costitutivo della domanda …”). Detto orientamento, a parere dello scrivente, risulta decisamente da condividere e ben si attaglia alla fattispecie in commento. Del resto, un esonero per il danneggiato dall’onere di dimostrare l’esistenza di un efficace nesso causale tra la res in custodia ed il danno –nella specie tra quella particolare condizione in cui era venuta a trovarsi la scala a seguito della presenza della sostanza oleosa (presenza peraltro solo prospettata e mai effettivamente dimostrata)– si sarebbe tradotto in un allargamento dei confini della presunzione di responsabilità, con aggravamento della posizione del custode (ente gestore della metropolitana) al di là di quanto è giustificato da un’equilibrata tutela del danneggiato stesso. Avv. Antonio Parachini Divieto di anatocismo anche per i mutui ordinari Anche per le rate scadute, gli interessi moratori devono distinguere la componente in capitale da quella in interessi. Test noi consumatori Che per i contratti di conto corrente stipulati tra la banca ed il proprio cliente vi fosse un divieto di pattuizione preventiva di interessi anatocistici era ormai chiaro: infatti, dapprima la Corte di Cassazione, con sentenza n. 2374/1999, aveva sancito la nullità della clausola di capitalizzazione degli interessi passivi, se anteriore alla scadenza degli stessi; successivamente, la delibera CICR del 9 febbraio 2002 ha previsto, all’art. 2, secondo comma, che “Nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori”; infine, anche la Consulta (sent. 425/2001) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il terzo comma dell’art. 25 del D.lgs. n. 342/1999, con il quale il legislatore, modificando l’art. 120 del TUB, aveva stabilito che le clausole contrattuali che prevedevano la produzione di interessi sugli interessi, conte- 31 Consumi & diritti nute nei contratti stipulati prima del 22/04/2000, dovevano ritenersi valide ed efficaci. Ora l’orientamento di favore nei confronti del cliente della banca, e, soprattutto, la corretta applicazione delle norme sancite dal Codice Civile, sono stati confermati dalla Suprema Corte anche in materia di mutui ordinari. Infatti, con la sentenza n. 2593/2003, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla legittimità di una clausola, inserita nei contratti di mutuo, la quale prevedeva che, per rate scadute, gli interessi moratori dovessero decorrere sull’intera somma da corrispondere nella rata, senza distinguere la componente in capitale e quella in interessi. Facendo un piccolo passo indietro, per chiarezza va detto che, nei cosiddetti “mutui ad ammortamento”, ogni rata si compone di una quota rimborsata in conto capitale e di una quota di interessi che il mutuatario deve corrispondere al mutuante come “compenso” del finanziamento. La questione affrontata dalla Suprema Corte, pur riguardando un’ipotesi patologica del rapporto di mutuo (ossia la mancata corresponsione della rata periodica), verteva sul problema del calcolo degli interessi moratori: questi, cioè, devono essere calcolati sull’intera rata non pagata o solo sulla quota capitale della rata non corrisposta? Nella prima ipotesi, si darebbe inevitabilmente vita ad una forma di anatocismo, poiché la quota-interessi, che compone la rata di mutuo non corrisposta, verrebbe capitalizzata e considerata, quindi, come la base del calcolo degli interessi moratori. La Corte di Cassazione, tenendo conto del divieto di anatocismo previsto dall’art. 1283 C.C., ha stabilito che gli interessi che vanno a formare l’importo della rata scaduta conservano la loro natura e non si trasformano in capitale, cosicché la clausola contrattuale che preveda diversamente, integrando un fenomeno anatocistico vietato dal Codice Civile, è illegittima. Ma cosa prevede esattamente il succitato articolo 1283? “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”. Dal testo dell’articolo, quindi, si deduce che il divieto di anatocismo può essere derogato solo per: 1) l’esistenza di un uso contrario; 2) la proposizione di una domanda giudiziale; 3) la presenza di una convenzione posteriore alla scadenza degli interessi e sempre che siano decorsi sei mesi. Nel caso di specie non entravano in gioco le due ipotesi previste sub 2 e 3, mentre poteva assumere rilevanza, e quindi legittimare il ricorso all’anatocismo, l’esistenza di un uso contrario al disposto normativo. Per uso contrario, ovviamente, non può intendersi un semplice uso contrattuale, insufficiente a derogare ad una disposizione codicistica, ma sarebbe stato necessario un uso normativo, ossia un comportamento tenuto dalla generalità degli interessati i quali vi si adeguano nel convincimento di adempiere ad un precetto di diritto. La Corte di Cassazione, però, prima di verificare l’esistenza di tali usi, ha ritenuto necessario valutare se dovessero essere presi in considerazione solo gli usi preesistenti all’en- Test noi consumatori 32 Consumi & diritti trata in vigore del Codice Civile o anche quelli formatisi successivamente. Pur dando atto che, in merito, la dottrina è tuttora divisa, la Suprema corte ha ritenuto che debba essere preferibile il primo orientamento. Infatti, se si fa riferimento al contenuto dell’art. 1283 c.c., va detto che, pattuizioni contrarie al divieto di anatocismo espresso dall’articolo, benché ripetute costantemente nel tempo con riferimento ai mutui ordinari, sarebbero state comunque inidonee a generare un uso normativo dopo il 1942, poiché tale uso sarebbe stato un uso contra legem venutosi a creare dopo l’entrata in vigore del Codice e nullo perché contrario al divieto posto da una norma di carattere imperativo. Se ne deduce che gli unici usi contrari che legittimamente possono derogare al dettato dell’art. 1283 C.C. sono quelli formatisi prima del 1942. Tuttavia, dalle raccolte degli usi effettuate a cura delle Camere di commercio, emerge che, prima del 1976, se era ammesso l’anatocismo per altre operazioni bancarie, nulla si dice in merito ai contratti di mutuo. Solo da questa data, e non in tutte le raccolte curate da amere di commercio, è possibile rinvenire l’uso di applicare gli interessi di mora su rate scadute di mutui e finanziamenti. Pertanto, la circostanza che tale uso faccia la sua comparsa nelle suddette raccolte solo 34 anni dopo l’entrata in vigore del Codice Civile, porta a dedurre che esso non poteva esistere prima del 1942. Queste sono state, quindi, le conclusioni della Corte: poiché non è ammesso un uso contra legem successivo all’entrata in vigore della norma imperativa e poiché, prima di tale data, non esisteva un uso che permetteva di applicare l’anatocismo sulle rate scadute di mutui ordinari, è illegittima la clausola contrattuale, prevista in alcuni contratti di finanziamento, mediante la quale le parti convengono l’applicazione di interessi moratori anche sulla quota interessi della rata scaduta di un mutuo. Questa sentenza è un successo importante a vantaggio non solo dei consumatori, ma, in generale, di tutti i mutuatari delle banche, soprattutto se si tiene conto che il mutuo oggetto del giudizio era un mutuo ordinario e non un mutuo fondiario, per il quale tali principi non possono essere applicati. Alcuni hanno sostenuto che le banche, potrebbero aggirare l’ostacolo e, sfruttando l’ipotesi sub 2) sopra indicata, proporre una domanda giudiziale; ma tale soluzione potrebbe essere veramente difficile da gestire per gli istituiti di credito, i quali, seppure in possesso di disponibilità economiche maggiori dei mutuatari, sembra improbabile che aprano un contenzioso per poche rate di mutuo non pagate solo per ottenere la capitalizzazione degli interessi che, fino ad ora, per il mutuante, era automatica e a costo zero. Pertanto, questa sentenza, seppure faccia stato solo tra le parti del giudizio, oltre a costituire un precedente importante, rappresenta una tappa fondamentale nel processo di incremento della tutela del contraente più debole, realizzato, in questo caso, riappropriandosi di principi già presenti nel nostro ordinamento e finora troppe volte non correttamente interpretati o finanche ignorati. Avv. Cristina Castiello Test noi consumatori 33 Consumi & diritti www.adiconsum.it un click e sei in adiconsum online per te tutte le notizie ed i servizi dell’associazione – – – – – – news e attualità dei consumi comunicati stampa eventi (forum, seminari, convegni, corsi) dossier e studi specifici facsimile di reclami, ricorsi, richieste di risarcimento tutte le pubblicazioni (Test noi consumatori, Guide del consumatore, Adibank, CD Rom ecc.) – iscrizione e consulenza online Partecipa anche tu alla nostra attività di difesa del consumatore: sei il benvenuto tra noi ADICONSUM, DALLA PARTE DEL CONSUMATORE. 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