Coordinato da Cristiano Iurilli
agenzia adiconsum • anno XV - n. 56 • 7 luglio 2003
Stampato in proprio in luglio 2003
In questo numero:
Allevamento di bovini
e tutela del consumatore
Risarcimento del danno
da vacanza rovinata
Novità giurisprudenziali - Allevamento di bovini e tutela del consumatore
- Risarcimento del danno da vacanza rovinata
- Danno morale derivante dalla morte di un congiunto
- Annullamento ed illegittimità del “fermo”
amministrativo
- Danno per caduta su scala mobile
- Divieto di anatocismo anche per i mutui ordinari
Registrazione Tribunale di Roma n. 350 del 9.06.88 – Sped. in abb. post. comma 20/c art.2 L.662/96 Filiale di Roma
Consumi & diritti
NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI
Allevamento di bovini
e tutela del consumatore
Nota a Cassazione
Sezione III penale, sentenza del 16/1/02.
La detenzione in
azienda di animali
bovini destinati alla
vendita per il
consumo trattati
con sostanze ad
effetto
anabolizzante, è
ancora oggi punita
come reato.
La massima
“La detenzione in azienda di animali bovini destinati alla
vendita per il consumo, trattati con sostanze ad effetto
anabolizzante, è ancor’oggi punito come reato ai sensi dell’art.
5 lett. a) L. 30 aprile 1962 n. 283 in quanto il rapporto tra la
citata legge generale e quella speciale (art. 3, I comma, lett. d)
D. L. 336/99) che vietava la detenzione in azienda di animali
trattati con sostanze ad effetto anabolizzante successivamente
depenalizzata dal D.L. 30/12/99 n. 507, non realizza un
fenomeno abrogativo, ma dà soltanto origine ad un rapporto
tra norma generale derogata e norma speciale derogatoria con
la conseguenza che venuta meno l’efficacia della norma speciale, quella generale si è automaticamente riespansa, anche con
le fattispecie medio tempore previste dalla disciplina caducata.”
I riferimenti legislativi
L. 30/4/62 n. 283, disciplina igienica della produzione e
della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande; art.
5 D.L. 4/8/99 n. 336, attuazione delle direttive 96/22/Ce e
96/23/Ce, concernenti il divieto di utilizzazione di alcune
sostanze ad azione ormonica, tireostatica, e delle sostanze ßagoniste nella produzione di animali e le misure di controllo
su talune sostanze e sui loro residui negli animali vivi e nei
loro prodotti; art. 3 D.L. 30/12/99 n.507, depenalizzazione
dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio ai sensi
dell’art. 1) L. 25/6/99 n. 205.
Brevi note a commento
La sentenza in rassegna riconsidera penalisticamente
rilevante la condotta dell’allevatore che detenga animali,
destinati alla vendita ed al consumo umano, trattati con
sostanze ad effetto anabolizzante.
A prima vista, parrebbe “bizzarro” che una condotta così
inosservante della salute del consumatore possa essere
tollerata dal nostro sistema.
Ma il problema è nato non già con la mancanza di una
norma di tutela generale volta a garantire la genuinità delle
sostanze alimentari poste in vendita (tutela operante in via
generale con la L. 283/62), ma –paradossalmente– con
l’introduzione di una norma ad hoc, e precisamente l’art. 3
D.L. 336/99 che vietava espressamente la detenzione di
animali anabolizzati, poi abrogata per effetto della c.d.
“depenalizzazione dei reati minori”, con il conseguente quesito interpretativo di verificare se detta “condotta” sia ancora
degna di tutela penale (apparentemente venuta meno proprio con la depenalizzazione) o se debba rientrare in una
fattispecie punita solo con una sanzione amministrativa.
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Per comprendere meglio il fenomeno è necessario ripercorrere brevemente l’excursus legislativo.
Il dato normativo di partenza è costituito dalla L. 283/62,
il cui art. 5 lett. a), ha vietato di produrre o porre in commercio
alimenti adulterati e/o con presenza di cariche microbiche o
batteriche pericolose, o comunque nocive per la salute.
Detta norma –di carattere generale rispetto alla fattispecie
cristallizzata nell’art. 3 D.L. 335/99– è stata utilizzata nel
corso degli anni proprio per colpire il comportamento di
quegli allevatori che, per realizzare un ciclo produttivo più
veloce e redditizio, “gonfiavano” i propri bovini con gli
anabolizzanti, pratica molto diffusa negli anni ’80 e tutt’ora,
rivisitata e corretta, in voga.
Nei primi anni ‘90, a seguito di una maggiore
sensibilizzazione sulla tutela del consumatore, il legislatore
europeo si è preoccupato di considerare detto comportamento come intollerabile all’interno della disciplina del commercio
comunitario, così promulgando una precisa direttiva comunitaria (in realtà due, la 96/22/Ce e la 96/23/Ce) per arginare
e colpire anche questo fenomeno di adulterazione di prodotti
destinati al consumo. Le due direttive entrano nel sistema del
diritto italiano grazie al D.L. 336/99 che, in conformità alle
disposizioni comunitarie, all’articolo 3, I comma, lett. b),
vieta la detenzione in azienda di animali trattati con
anabolizzanti et similia, prevedendo una sanzione penale
(arresto o ammenda).
Dunque, la condotta dell’allevatore che deteneva bovini
adulterati con anabolizzanti per la loro vendita non veniva più
“sussunta” e contestata come violazione dell’art. 5 L. 283/62
(legge generale di tutela della salute), ma come violazione della
più specifica (e dunque speciale) norma di cui all’art. 3 D.L. cit..
Tutto ciò in perfetta sintonia con i principi generali del
diritto in materia di successione di leggi penali del tempo.
Purtroppo, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, detta
norma viene “scolorita” della sua natura penalistica, per
essere apparentemente condotta nell’alveo delle mere violazioni amministrative.
Con il D.L. 507/99 il legislatore infatti è intervenuto nel
sistema depenalizzando alcune fattispecie di reato, tra cui
anche quella prevista e punita dal sopracitato articolo 3.
Con l’abrogazione di questa fattispecie di reato si è aperto
così un vulnus nel sistema della tutela penale del consumatore, posto che la depenalizzazione risponde ad una precisa
scelta di politica legislativa, quella cioè di non voler più
ritenere “pericolose per la collettività” quelle condotte oggetto –appunto– di diversa valutazione criminale.
In sostanza, prima face, l’abrogazione del reato di cui
all’art. 3 del D.L. 336/99 è agli interpreti apparsa come
volontà espressa del legislatore di non considerare più degna
di sanzione penale la condotta dell’allevatore detentore di
animali ”anabolizzati”.
Così un primo orientamento della Suprema Corte che, con
sentenza del 13 marzo 2001, ha ritenuto completamente
espunta dal sistema penale proprio la condotta punita dall’art.
3 D.L. 336/99, con conseguente impossibilità di diversa
contestazione e di reviviscenza dell’art. 5 L. 283/62 alla
fattispecie concreta.
Ma questa interpretazione (apparentemente corretta)
strideva con i principi di tutela della salute dei consumatori,
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e soprattutto con il buon senso, poiché adulterare bovini
destinati alla vendita con gli anabolizzanti è un fatto che
mette concretamente in pericolo la salute del consumatore.
Dunque, investita di altro ricorso per un caso analogo, la
Corte di Cassazione ritorna sui propri passi, e lo fa con un
ragionamento più sofisticato, ma impeccabile, da un punto di
vista logico-giuridico: l’abrogazione di una norma speciale
non ha l’effetto di abrogare la norma generale previgente
utilizzata per la contestazione di quello stesso fatto punito
con detta norma, posto che la norma generale –in quanto
tale– continua a sopravvivere e a punire tutte quelle ipotesi
“sussumibili” al suo interno, indipendentemente dalle sorti
della norma speciale derogatoria poi espunta dal sistema.
Oggi pertanto la condotta dell’allevatore che somministri
agli animali destinati alla vendita al consumo umano sostanze anabolizzanti o simili vietate verrà ancora punito per il
reato di cui all’art. 5 lett. a) L. 283/62, con buona pace dei
consumatori, soggetti principe di questa importante tutela.
Avv. Fabio Arcangeli
Risarcimento del danno
da vacanza rovinata
Sentenza Giudice di Pace di Milano,
Sez. III, 12 febbraio 2003,
pubblicata il 25 febbraio 2003
Inadempimento
al contratto di
viaggio tutto
compreso,
risarcimento del
danno bioogico da
vacanza rovinata,
riferimenti
giurisprudenziali.
Il testo della sentenza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice di Pace di Milano, dr. Fedele Moscato della
sezione III^ civile, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 11802 del Ruolo Generale dell’anno 2002 di questo Ufficio e promossa
da (omissis)
Oggetto: risarcimento danni in materia turistica
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato alla convenuta, premesso:
-che in data 08/08/2001 i consumatori avevano acquistato, presso una agenzia di viaggi di Milano, un pacchetto
turistico organizzato dal tour operator “****” e relativo ad un
soggiorno di due settimane in Honduras e Messico dal 5 al 19/
10/2001 al costo di euro 4.441,01 e che tale pacchetto
comprendeva il viaggio aereo Milano-Roatan, il soggiorno in
Honduras dal 5 al 12 ottobre nell’albergo previsto, il trasferimento aereo da Roatan a Cancun, il soggiorno in quest’ul-
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tima località fino al 19/10/2001 presso il Bahia Maya Club ed,
infine, il trasferimento aereo di ritorno da Cancun a Milano;
-che pochi giorni prima della partenza il tour operator
comunicava agli acquirenti del pacchetto turistico di cui
innanzi la indisponibilità di quest’ultimo albergo che era stato
chiuso per restauri, senza proporre altre alternative in
relazione alla seconda settimana prevista dal pacchetto
acquistato;
-che essi, perciò, si rivolgevano ad altro tour operator
operante in Messico ed in data 01/10/2001 stipulavano con
l’odierna convenuta un nuovo contratto comprendente i
trasferimenti aerei di cui innanzi ed il soggiorno limitato alla
prima settimana in Honduras, mentre stipulavano con Alpitour
il contratto per il soggiorno in Messico, il tutto per un importo
complessivo di euro.3.062,59;
-che due giorni prima della prevista partenza dall’Honduras
per il Messico, dove era previsto il soggiorno relativo alla
seconda settimana di vacanze con ****, apprendevano dalla
responsabile in loco della “****” che il trasferimento aereo di
ritorno da Cancun a Milano del 19/10/2001 era stato cancellato e che a fronte di ciò era loro proposto o di rinunciare alla
settimana di soggiorno in Messico - rientrando anticipatamente
in Italia una settimana prima _- oppure di prolungare il
soggiorno in Honduras a proprie spese fino al 22/10/2001;
-che tali soluzioni proposte non venivano da loro accettate
per l’evidente aggravio di costi conseguenti alla perdita di
quanto pagato ad ***** ed all’esborso ulteriore per il
soggiorno in Honduras e che, preso atto del disinteresse e
della poca disponibilità mostrata dai responsabili in loco del
tour operator, erano stati costretti ad adoperarsi, con notevoli perdite di tempo, per trovare una soluzione adeguata;
-che, dopo molte insistenze e contatti telefonici con la sede
di Milano di”****”, soltanto il giorno della partenza da Roatan
ricevevano la conferma del volo di sostituzione ed un numero
telefonico di un responsabile a Cancun da contattare una
volta arrivati in Messico per ottenere i biglietti aerei di rientro;
-che sopportando ulteriori disagi e spese telefoniche
riuscivano ad entrare in possesso di tali biglietti solamente il
giorno della partenza per Milano;
-che, rientrati in Italia, formalizzavano il proprio reclamo
nei confronti dell’odierna convenuta che replicava in modo
non soddisfacente offrendo a parziale ristoro un buono sconto
vincolato di £. 800.000, costringendoli a rivolgersi all’Unione
Nazionale Consumatori per la tutela dei loro diritti;
convenivano in giudizio dinanzi a questo Giudice di Pace,
all’udienza del 20/03/2002, rinviata d’ufficio al giorno 27/03/
2002, la “**** S.p.A.” deducendo in diritto, articolando
mezzi di prova e chiedendo, previo accertamento e declaratoria
di inadempimento contrattuale di quest’ultima, condannarsi
la stessa al risarcimento del danno patrimoniale e non, anche
a titolo di danno morale “da vacanza rovinata”, provvisoriamente quantificato in euro 1000,00 o nella diversa misura
ritenuta di giustizia anche in via equitativa, oltre interessi
dalla domanda e nei limiti della competenza per valore del
Giudice adìto e pubblicazione della sentenza di condanna sui
principali quotidiani a tiratura nazionale, spese di lite rifuse.
All’udienza fissata si costituiva la convenuta “**** S.p.A.”
depositando e scambiando comparsa in cui contestava fermamente sotto ogni profilo le avverse pretese perché com-
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pletamente infondate e chiedeva il rigetto delle domande
attoree. Rilevava la incomprensibilità dei motivi delle lamentele attoree in relazione alle modifiche dell’originario pacchetto di viaggio ed alla mancata proposta alternativa in
relazione al soggiorno in Messico, giacché gli attori hanno
liberamente sottoscritto il contratto includendovi tale soggiorno con altro tour operator ivi operante.
Assumeva di non ritenersi responsabile per la cancellazione del volo dal Messico in Italia perché essa avvenne per
esclusiva iniziativa della compagnia aerea Air ***** che la
informò della circostanza e precisava che, a seguito della
esigenza espressa dagli attori di voler comunque andare in
Messico, tale sig. ***** - direttore del villaggio turistico
presso cui soggiornavano in Honduras _ contrariamente a
quanto dai medesimi sostenuto, offriva la propria disponibilità per la soluzione del problema contattando gli uffici italiani
della *** anche in orario notturno a causa del diverso fuso
orario e riusciva a far riservare a nome dei due clienti due
posti riservati su un volo del 20/10/2001 da Cancun a Milano.
Sosteneva la inconsistenza delle lamentele degli attori e
l’assoluta infondatezza delle loro pretese in punto di an e di
quantum, deducendo in proposito e concludeva chiedendo,
per tali motivi, assolversi la società convenuta da ogni
avversa domanda, con vittoria delle spese di giudizio.
Sentite liberamente le parti in causa e dato atto della
mancata conciliazione sulla proposta transattiva formulata e
quantificata dalla convenuta all’udienza del 29/04/2002, concessi i termini ex art.320 c.p.c., ammesse ed assunte le prove
per testi nonché dato atto a verbale dell’udienza del 29/11/
2002 dell’ulteriore proposta transattiva quantificata dalla convenuta nell’importo di _ 600,00 omnicomprensivi e
reiteratamente invitate le parti a ricercare una soluzione
bonaria della vertenza, senza esito, all’udienza del 23/01/2003
sulle loro definitive conclusioni di cui alle comparse depositate
e scambiate, la causa veniva trattenuta per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’istruzione probatoria e l’esame di tutta la documentazione prodotta dalle parti ha permesso a questo Giudice di
formarsi sufficiente ed esaustivo convincimento che le domande attoree, seppur ritenute eccessive nella loro definitiva
determinazione in punto di quantum, tuttavia appaiono
meritevoli di attenzione ed, in parte condivisibili circa la
specifica richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale,
cosiddetto “da vacanza rovinata”, da ricondurre negli equilibrati e giusti ambiti di corrispondenza tra la effettiva entità
e qualificazione del disagio subìto e la misura del ristoro.
In questo caso - tralasciando di esaminare i fatti che hanno
preceduto la stipula del contratto oggetto del presente
procedimento, perché privi di interesse ai fini di questa
decisione - gli attori, in virtù del contratto in esame, validamente stipulato con la convenuta, hanno fondato le loro
domande sostenendo che, a causa dell’annullamento del volo
di ritorno dal Messico in Italia loro comunicato nell’imminenza
della partenza dall’Honduras per il Messico, hanno subìto i
disagi dello stress emotivo e fisico causato da tale notizia,
nonché perdita di tempo anche notturno per ottenere che la
situazione relativa al programmato viaggio di ritorno in Italia
si normalizzasse. I medesimi hanno attribuito il loro stato di
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Consumi & diritti
disagio al comportamento della convenuta e più segnatamente
del suo responsabile in loco nella persona di *****, responsabile del villaggio che li ospitava in Honduras, il quale aveva
mostrato poca cortesia e disponibilità nei loro confronti,
abbandonandoli a loro stessi e costringendoli ad attivarsi
personalmente per risolvere la nuova situazione creatasi per
colpa della convenuta.
Fra gli atti prodotti da entrambe le parti si rinviene la
comunicazione inviata via fax dalla convenuta ai propri
responsabili in Honduras in data 10/10/2001 con cui si
notiziava circa l’annullamento del volo Cancun/Milano e si
proponevano le alternative da sottoporre ai clienti. Si rinviene, anche, la comunicazione datata 11/10/2001 indirizzata
agli attori con la quale si dava conferma del nuovo operativo
del volo a loro nome “richiesto già da ieri” e cioè lo stesso
giorno della comunicazione di annullamento.
Per stessa ammissione della convenuta, certamente il suo
responsabile in Honduras Sig.**** si mise in contatto con i
suoi uffici di Milano, anche in orari notturni, per risolvere la
questione e, dalle risultanze della prova per testi, emerge la
circostanza che ciò avvenne a seguito delle insistenze degli
attori ed alla loro presenza, tantè che non risulta smentita la
circostanza che almeno uno di loro conferì direttamente con
una certa sig.ra **** degli uffici milanesi della convenuta,
circostanza questa che emerge dal contesto della lettera
datata 22/10/2001 inviata dagli attori alla stessa convenuta.
Risulta dagli atti che quest’ultima offrì (vedasi sua lettera
del 28/11/2001) pro bono pacis la somma di £ 800.000 sotto
forma di buono sconto utilizzabile in futuro e che gli attori
rifiutarono, ritenendo l’offerta non soddisfacente quanto alle
modalità di utilizzo della stessa.
Risulta altresì che anche le altre diverse e maggiori offerte
pecuniarie, formalizzate dalla convenuta in corso di causa a
fini conciliativi, sono state rifiutate dagli attori.
Da tutto quanto precede emerge che la convenuta, quanto
meno formalmente, nel notificare ai propri clienti la soppressione di quel volo da Cancun a Milano non prevedeva alcuna
altra alternativa oltre quelle già note e prima richiamate, che
per gli odierni attori erano certamente inaccettabili avuto
riguardo alla perdita economica che avrebbero dovuto sopportare, oltre alla circostanza che i patti sottoscritti venivano
in parte disattesi privandoli, di fatto, della possibilità di fruire
della programmata vacanza messicana.
Sembra quindi certamente plausibile che gli attori dovettero
insistentemente sollecitare il responsabile locale della convenuta affinché egli si adoperasse in ogni modo, con ogni mezzo
e celermente (vista la ristrettezza del tempo disponibile) per
ricercare quella soluzione che poi, di fatto, venne trovata.
Gli attori, quindi, a causa del notificato inadempimento
contrattuale che solo oggi conclusivamente può definirsi di
carattere formale e non sostanziale, certamente subirono,
durante l’arco temporale di almeno due giorni, le conseguenze psicologicamente negative derivanti dalla circostanza di
trovarsi, per unilaterale determinazione della convenuta,
nella condizione di non avere più la garanzia del volo di ritorno
dal Messico in Italia, di non volere e non potere rinunciare alla
settimana in Messico già pagata ad altro tour operator quanto
meno per motivi economici, e di doversi adoperare personalmente - pressando il responsabile locale della convenuta- per
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Consumi & diritti
ricercare una diversa soluzione a quelle proposte, senza la
certezza di riuscirvi.
Senza la preannunciata cancellazione del volo di cui
trattasi tutto ciò non sarebbe accaduto e, nonostante il
positivo esito finale della vicenda, la responsabilità delle
conseguenze che ne sono derivate non può che gravare sulla
convenuta che non può opporre agli odierni attori la presunta
inadempienza di terzi (compagnia aerea) per un contratto
dalla stessa sottoscritto.
E tutto ciò non sarebbe accaduto se la convenuta, anziché
limitarsi a proporre quelle soluzioni alternative, avesse, come
era suo dovere contrattuale, proposto accanto a quelle anche
la possibilità di poter rientrare in Italia dal Messico nel giorno
stabilito con il cambio dell’operativo, come poi è avvenuto:
ciò avrebbe tranquillizzato i clienti ed evitato qualsiasi conseguenza negativa.
Per tutto quanto precede, questo Giudice ritiene che nel caso
di specie debba riconoscersi agli attori quello che in giurisprudenza viene definito come risarcimento da “danno esistenziale”
od anche “danno da vacanza rovinata”, (in questo caso
parzialmente) in esso intendendosi individuare quel danno che,
ancorché non provato nella sua quantificazione materiale,
tuttavia può essere dal Giudice liquidato equitativamente con
libera determinazione riferibile alle massime di esperienza di
cui all’art.115, secondo comma, c.p.c..
Nel caso di specie, essendovi sufficiente prova dei fatti e
delle circostanze ad essi relativi, è facilmente intuibile lo stato
di frustrazione e di impotenza degli attori trovatisi
inopinatamente a dover affrontare la critica situazione derivante dalla cancellazione del volo intercontinentale acuita
dalla impossibilità di avere certezze di soluzione loro favorevole e dall’inerzia del responsabile del villaggio, e ciò per
l’arco di tempo intercorso tra il momento in cui vennero a
conoscenza della cancellazione fino a quando ebbero conferma del nuovo operativo a loro nome.
Questo Giudice ritiene che in quell’arco di tempo di due o tre
giorni gli odierni attori - che stavano godendo di una vacanza
- subirono, per i motivi suddetti, un disagio ed una sofferenza
psico-fisica che alterando la presumibile condizione di serenità
e spensieratezza proprie della vacanza, provocarono un danno
alla loro vita di relazione, quel danno cioè riverberantesi sui
diritti fondamentali della persona e tutelato dall’art. 2 e
seguenti della Carta Costituzionale che garantisce i diritti
dell’uomo come singolo individuo anche in relazione ai danni
“che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici
della persona umana” (Corte Costituz. n.84/86). Ed in tale
espressione possono certamente ricomprendersi tutte quelle
attività o situazioni che, nel caso di specie, hanno propiziato il
viaggio nonché la realizzazione ed il godimento della programmata vacanza: ciò è normale e generale atteggiamento di
ciascuno in circostanze analoghe, e perciò fatto notorio, indipendentemente dalla peculiarità del caso in esame.
Valutato tutto quanto precede, questo Giudice, pronunciando secondo equità, ritiene giusto liquidare in favore degli attori
la complessiva somma di euro 550,00 in moneta attuale ed
omnicomprensivi, da porre a carico della convenuta.
Visto l’esito complessivo del giudizio, il comportamento
anche processuale delle parti e la particolarità della materia
trattata nonché la sostanziale reciproca soccombenza, si
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ritiene sussistano giusti motivi per compensare interamente
fra le parti le spese di lite.
La presente sentenza è provvisoriamente esecutiva ai
sensi dell’art.282 c.p.c.
P. Q. M.
Il Giudice di Pace di Milano, definitivamente pronunciando,
così provvede:
a) condanna la convenuta “**** S.P.A”, in persona del suo
legale rappresentante pro tempore, a pagare agli attori la
complessiva somma di euro 550,00 a titolo di risarcimento
dei danni, determinata equitativamente, in moneta attuale
ed omnicomprensiva, come meglio precisato in motivazione;
b) compensa interamente fra le parti le spese di lite.
Sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege.
Così deciso in Milano, 12 Febbraio 2003
Il Giudice di Pace
Brevi note a commento
Ancora una volta, gli uffici dei Giudici di pace sono stati
investiti circa la decisione di controversie afferenti il risarcimento del c.d. “danno da vacanza rovinata”, richiesto da
taluni consumatori nei confronti di tour operator inadempienti al contratto di viaggio “tutto compreso”.
Con lo sviluppo “macroscopico” dei servizi turistici, diviene
sempre più attuale l’approfondimento delle istanze di tutela
dei consumatori acquirenti, che siano stati parte di un
contratto di viaggio così come identificato dal d.lgs. 17 marzo
1995 n.111, emanato in attuazione della direttiva n. 90/314/
CEE, concernente i viaggi e le vacanze tutto compreso.
Il tema investe l’ulteriore tematica del risarcimento del
danno c.d. “biologico da stress”, causato da ritardo nel
trasporto aereo.
Dunque, la disciplina di cui al citato decreto, dovrà essere
necessariamente correlata ed integrata dalle norme, nazionali
ed internazionali, volte a disciplinare il contratto di trasporto
aereo, ed i conseguenti diritti riconosciuti al viaggiatore.
In particolare, ci riferiamo non solo alla normativa codicistica
di cui agli artt.1681 e segg. c.c., bensì anche alle norme del
codice della navigazione, alla Convenzione di Varsavia del 12
ottobre 1929, e successive modifiche, sul trasporto aereo
internazionale, al Reg. CE 2027/97 in materia di responsabilità del vettore aereo di persone (al proposito, ricordiamo che
detta normativa si applica esclusivamente ai vettori aerei
comunitari, cioè solo quelli muniti di valida licenza di esercizio
rilasciata da uno Stato membro in conformità dello stesso
regolamento, indipendentemente dal carattere infra o
extracomunitario del volo), la legge 7 luglio 1988 n. 274
intesa a stabilire congrui massimali di responsabilità nel
trasporto aereo internazionale di persone, così da riallineare
il nostro ordinamento alla Convenzione di Varsavia, con
riguardo al beneficio della limitazione di responsabilità del
vettore, e –al fine di adeguata regolamentazione del fenomeno c.d. dell’overbooking (sovraprenotazione)– il regolamento del Consiglio CEE n. 295 del 4 febbraio1991, con cui sono
infatti state stabilite norme comuni su un sistema di compensazione per il negato imbarco dei passeggeri muniti di
biglietto valido e prenotazione confermata, ed in partenza da
un paese della Comunità, indipendentemente dalla naziona-
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lità del vettore o dell’utente e soprattutto dal luogo di
destinazione, che può quindi essere lo stesso Stato di
partenza od un Paese terzo.
Nel caso di specie, gli attori avevano acquistato un
pacchetto turistico comprendente trasferimenti aerei e soggiorno di due settimane in Honduras e in Messico ma,
trascorsa la prima settimana, ad alcuni giorni dalla prevista
partenza per il Messico, il tour operator **** S.p.A. informava i consumatori che, poiché il volo di rientro Cancun/Milano
era stato cancellato, essi potevano rientrare in Italia
anticipatamente, rinunciando alla settimana di vacanza in
Messico, già regolarmente pagata, oppure prolungare il
soggiorno in Honduras a proprie spese oltre la data originariamente stabilita.
Gli attori reclamavano di essere stati abbandonati a loro
stessi e costretti ad attivarsi personalmente per risolvere la
situazione creatasi per colpa della convenuta.
A fronte della domanda attorea, il tour operator fondava
la propria linea difensiva sull’attribuzione della responsabilità della mancata partenza, al comportamento (colposo)
della compagnia aerea Air ****, ritenendosi dunque esente
da qualsivoglia responsabilità contrattuale ovvero extracontrattuale.
Per i motivi espressi in sentenza, il Giudice di pace adito,
accoglieva, seppur in misura ridotta, la domanda attorea,
ritenendola fondata.
La sentenza in esame procede ad una attenta applicazione
di numerose disposizioni contenute nel d.lgs. 111/95, di cui
conferma la ratio di tutela.
Ricordiamo infatti come spesso –a fronte della previsione
di cui all’art.7– nel testo dell’opuscolo informativo che ex lege
dovrebbe essere rilasciato al consumatore, non viene specificato il termine entro il quale quest’ultimo dovrebbe essere
informato dell’annullamento del programma per la mancata
adesione del numero minimo dei partecipanti previsto, ovvero per altre cause.
Tale lacuna viene però colmata con il disposto dell’art.13,
III comma, del detto decreto, ove viene previsto il termine di
venti giorni precedenti alla partenza: per cui la mancata
indicazione di tale termine nelle condizioni generali del
contratto, renderebbe le clausole riferite all’annullamento del
servizio, invalide per contrasto con norme imperative.
Altresì, l’art.12 relativo alle modifiche delle condizioni di
contratto, in ordine alle modifiche del contenuto del contratto, enuncia espressamente due distinte ipotesi, a seconda
che le modifiche intervengono prima della partenza o siano
successive alla stessa.
Per la fase anteriore alla partenza, la norma prevede che
nel caso in cui il venditore o l’organizzatore abbia la necessità
di modificare in modo significativo alcuni elementi del contratto, ne deve dare immediata comunicazione al cliente in
forma scritta, indicando il tipo di modifiche.
A tal proposito si deve passare ad una corretta interpretazione del concetto di modifica significativa, in quanto
sarebbe riduttivo applicare tale concetto ai soli casi in cui
questa comporti una variazione del prezzo: non a caso, la
direttiva 90/314, parla di “modifiche significative di un
elemento essenziale del contratto, “quale” il prezzo”. Quindi
un’interpretazione sistematica di tale norma, anche e spe-
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cialmente in riferimento all’art.11 in tema di revisione di
prezzo, dovrebbe comportare l’estensione del concetto di
significativa modifica anche ai casi in cui essa non comporti
una variazione di prezzo.
A titolo esemplificativo, rientreranno in questa apposita
disciplina tutti i casi in cui sia spostata in modo rilevante la
data di partenza o di rientro, oppure vi sia stata una modifica
concernente il tipo di sistemazione o di trasporto.
Sulle modifiche intervenute dopo la partenza, l’organizzatore, nel caso in cui una parte essenziale dei servizi previsti non
possa essere adempiuta, dovrà predisporre adeguate soluzioni
alternative, senza alcuna limite all’adozione delle stesse.
Dunque, dai citati riferimenti, non solo risulta un’obbligazione a carico del tour operator di informare adeguatamente il consumatore circa le modalità con cui quest’ultimo debba essere reso edotto su eventuali modifiche
ovvero annullamenti del viaggio, bensì anche l’onere di
porre in essere ogni attività necessaria ed adeguata, al
fine di evitare al consumatore ogni tipo di disagio conseguente ad un eventuale inadempimento, ricercando le
soluzioni più opportune.
A fronte dell’inadempimento ai citati obblighi, le norme
dagli artt.14 a 18, prevedono il risarcimento dei danni a
favore del viaggiatore, secondo le rispettive responsabilità
del tour operator o del venditore del pacchetto turistico, salvo
che venga provato che l’impossibilità delle prestazioni sia
derivata da causa a loro non imputabile; nel caso in cui si
avvalessero della collaborazione di terzi per l’esecuzione
delle prestazioni contrattuali, saranno comunque tenuti al
risarcimento del danno subito dal consumatore, salvo il
diritto di rivalsa nei confronti di costoro.
E proprio detta ultima previsione, rappresenta la fattispecie
oggetto della controversia di cui alla presente decisione in
commento.
Dobbiamo comunque sottolineare che, a fronte di pronunce “positive” e favorevoli alle istanze risarcitorie dei consumatori, numerosi sono i casi di pronunce giurisprudenziali in
cui il giudicante procede ad un limitato riconoscimento
“economico” del danno subito, ovvero ad una compensazione
delle spese di lite.
Con salvezza delle ipotesi in cui tale atteggiamento sia
giustificato sia dalla fattispecie concreta sia dall’iter di causa,
la prima conseguenza di tali decisioni, è un concreto ed
oggettivo affievolimento delle posizioni di tutela del consumatore, altresì “costretto” ad agire giudizialmente nei confronti di professionisti (ex art.1469 bis c.c.), e ad affrontare
procedimenti spesso lunghi e complessi.
Nel caso di specie, il Giudice ha riconosciuto lo stato di
frustrazione e di impotenza degli attori trovatisi
inopinatamente a dover affrontare la critica situazione derivante dalla cancellazione del volo intercontinentale, riconoscendo a questi ultimi il risarcimento del c.d. “danno esistenziale” o “danno da vacanza rovinata” (derivante dai disagi e
dalle sofferenze psico-fisiche che, alterando la presumibile
condizione di serenità e spensieratezza propria della vacanza, provocano un danno alla vita di relazione dei consumatori), tuttavia concludendo circa l’opportunità di compensare le
spese tra le parti, a causa della indicata “particolarità della
materia trattata”: in tal modo, la vittoria del consumatore
Test noi consumatori
11
Consumi & diritti
diviene dunque “soccombenza” e mancato riconoscimento di
una effettiva tutela sostanziale.
Nota bibliografica
CARRASSI S. C., Ulteriore oscillazione giurisprudenziale
sul “danno da vacanza rovinata” (Nota a T. Venezia, 24
settembre 2000, Mattuzzi c. Soc. Palma crociere viaggi), in
Danno e resp., 2001, 861; SERRA T., Inadempimento del
contratto di viaggio e danno da vacanza rovinata (Nota a
Giudice di pace Siracusa, 26 marzo 1999, Giudice c. Soc.
Sivet), in Giust. civ., 2000, I, 1207; GUERINONI E., “Danno
da vacanza rovinata” e “danno biologico da viaggio non
effettuato” (Nota a Giudice di pace Venezia, 1 giugno 2000,
Cianchetti c. Soc. viaggi Bucintoro), in Giudice di pace, 2000,
307; ZENO ZENCOVICH V., Il danno da vacanza rovinata:
questioni teoriche e prassi applicative (Nota a P. Roma, 11
dicembre 1996, Putti c. Viaggi del Mappamondo), in Nuova
giur. civ., 1997, I, 879.
Precedenti giurisprudenziali
Giudice di pace Siracusa, 26-03-1999, in Giust. civ.,
2000, I, 1205, n. SERRA.
Nel caso di inadempimento del contratto di viaggio da
parte dell’organizzatore di viaggio che abbia comportato il
mancato godimento delle utilità promesse è risarcibile anche
il danno da vacanza rovinata, che costituisce un danno non
patrimoniale, assimilabile al danno biologico e va inteso come
pregiudizio subito dalla salute dell’individuo, avuto riguardo
alla proiezione negativa nel suo futuro esistenziale delle
conseguenze dell’evento dannoso.
Pretura Ivrea, 21-09-1998, in Danno e resp., 1999,
565, n. GRANIERI.
Il danno arrecato al turista dall’organizzatore di viaggi per
effetto dell’inadempimento delle prestazioni previste da contratto e sulla base dei materiali promozionali (c.d. danno da
vacanza rovinata) costituisce un’ipotesi di danno non
patrimoniale risarcibile a prescindere dalla configurabilità di
un illecito penale.
Tribunale Torino, 08-11-1996, in Resp. civ., 1997,
818, n. GORGONI.
Il risarcimento del danno da overbooking nell’albergo
prenotato dall’organizzatore di viaggi comprende, nel
caso di “riprotezione” presso albergo di categoria inferiore, non solo la differenza tra il prezzo effettivamente
sborsato dai viaggiatori ed il prezzo che questi avrebbero
dovuto corrispondere qualora la prenotazione avesse avuto originariamente ad oggetto il servizio successivamente
offerto, ma anche il risarcimento del danno c.d. “da
vacanza rovinata”.
Sul tema delle modifiche al contratto di viaggio “tutto
compreso”, riteniamo opportuno allegare il testo di una
recente sentenza del Tribunale di Treviso (non commentata),
ove il tema viene ampiamente trattato.
Avv. Cristiano Iurilli
Test noi consumatori
12
Consumi & diritti
Tribunale di Treviso - Sezione II
(G.U. dr Massimo Galli)
Sentenza 14.1.2002 n.72
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
- Con atto di citazione T.R. e Z.L. convenivano in giudizio
F.M. quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi
**** con sede in Oderzo e ***** s.p.a. con sede in Cuneo per
sentire: in via principale, dichiarare risolto il contratto di
viaggio turistico intercorso tra le parti, condannare i convenuti, secondo le rispettive responsabilità accertate in corso di
causa, alla restituzione del prezzo versato di L. 4.727.000
aumentato degli interessi dalla data del pagamento al saldo
oltre al risarcimento delle spese di trasferta automobilistica
e pernottamento da Treviso a Bologna pari a L. 750.000 o
nella diversa somma di giustizia, ed ancora per sentire
condannare i convenuti a risarcire in favore degli attori il
danno per la mancata fruizione della vacanza determinato in
L. 1.000.000 per ciascun partecipante o nella diversa somma
ritenuta di giustizia; per sentire in via subordinata annullare
il contratto di viaggio turistico per errore essenziale sulla data
di partenza e per l’effetto condannare i convenuti alla
restituzione delle somme versate pari a complessive L.
4.727.000 oltre agli interessi dalle date del pagamento al
saldo; per sentire in via ulteriormente subordinata, accertata
l’illegittimità del recesso esercitato dall’organizzatore turistico e la vessatorietà e la conseguente inefficacia della clausola
4.2.2 delle condizioni generali di contratto predisposte da
***** s.p.a., condannarsi la convenuta alla restituzione della
complessiva somma di L. 4.772.000 o di quella diversa
ritenuta di giustizia; in ogni caso con vittoria di spese.
- Esponevano infatti gli attori: che in data 22 gennaio 1998
Z.L. aveva acquistato (per sè e per la propria famiglia
composta dal marito e da due figli in giovane età) un
pacchetto di viaggio turistico tutto compreso del tour operator
***** s.p.a. con destinazione Tenerife di otto giorni e sette
notti dal 18 febbraio al 25 febbraio 1998 comprendente
viaggio aereo andata e ritorno da Bologna; che il prezzo del
pacchetto turistico era stato saldato in data 29 gennaio 1998
presso l’agenzia convenuta e che in tale occasione la signora
F. dell’agenzia aveva confermato la data di partenza alle 18
febbraio annotandola nella quietanza; che in data 2 febbraio
l’attrice Z.L. aveva ricevuto, sempre presso l’agenzia, la
conferma di prenotazione del tour operator e il voucher; che
contrariamente a quanto pattuito, il giorno 18 febbraio gli
attori avevano appreso presso l’aeroporto di Bologna che il
loro volo era partito il giorno prima; che nonostante le
rimostranze sollevate il tour operator e l’agenzia viaggi
avevano declinato ogni responsabilità e proposto soluzioni
alternative inaccettabili per la famiglia che avrebbero comportato la perdita di due giorni di vacanza su otto già pagati.
- Si costituivano F.M. quale legale rappresentante della
ditta agenzia viaggi **** con sede in Oderzo e ***** s.p.a.
con sede in Cuneo, nonché, successivamente alla chiamata
in causa in garanzia da parte della *****, si costituiva anche
***** s.p.a. contrastando le pretese della parte attrice e
osservando in particolare: che secondo quanto indicato nel
Test noi consumatori
13
Consumi & diritti
contratto e nel catalogo di riferimento, le date e le ore esatte
delle partenze e degli arrivi erano da intendersi indicative in
quanto soggette a variazioni da parte delle compagnie aeree
anche senza preavviso; che la modifica della data di partenza
indicata nella proposta di acquisto del pacchetto turistico era
contenuta nella conferma di prenotazione e nel voucher
consegnati in data 2 febbraio 1998; che tale modifica era
stata nuovamente comunicata a voce e per iscritto (via fax)
nella settimana precedente la partenza; che pertanto il
disguido in cui erano incorsi gli attori poteva essere imputato
solamente ad un loro difetto di attenzione; che non poteva
ravvisarsi l’ipotesi di annullabilità per errore essenziale perché la data di partenza non costituiva un elemento essenziale
del contratto e comunque si trattava di un errore non
riconoscibile poiché gli attori non avevano mai manifestato
l’intenzione di non partire il 17 febbraio 1998; che inoltre la
pretesa risarcitoria era eccessiva soprattutto per il danno
morale da “vacanza rovinata “ poiché gli attori avevano
rifiutato le valide alternative proposte dall’agenzia di viaggi.
- La causa è stata istruita con l’allegazione di documenti.
- Le parti hanno precisato le conclusioni come indicato in
epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
- L’art.6 del D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111 prevede che il
contratto di vendita dei pacchetti turistici debba essere
redatto in forma scritta e in termini chiari e precisi. L’art.7 del
D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111 indica tra gli elementi del
contratto la data di inizio del viaggio. L’art.1469 bis del c.c.
prevede l’inefficacia delle clausole che determinano a carico
del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli
obblighi derivanti dal contratto e in particolare al n. 4) del
secondo comma prevede l’inefficacia (per vessatorietà presunta) delle clausole che impongono un impegno definitivo al
consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista rimane subordinata ad una condizione il cui
avverarsi dipende unicamente dalla sua volontà.
- La clausola contenuta nel modulo di proposta di acquisto
del pacchetto turistico oggetto di causa (predisposto dalla
****) per effetto della quale il contratto di vendita si
intendeva concluso all’accettazione da parte dell’organizzatore (e non nel momento in cui il proponente prendeva
conoscenza dell’accettazione come previsto dall’art.1326
c.c. primo comma) di fatto vincolava il consumatore in modo
definitivo senza possibilità di revoca della proposta; infatti ad
una eventuale revoca il professionista avrebbe potuto opporre la pregressa accettazione. Si trattava inoltre di una
proposta irrevocabile senza termine di scadenza.
- Dall’inefficacia della suddetta clausola (rilevabile d’ufficio ex art.1469 quinquies 3° comma c.c.) consegue che il
contratto avrebbe dovuto ritenersi concluso secondo la regola generale di cui all’art. 1326 c.c. alla data della consegna
della conferma scritta dell’Organizzatore agli attori ossia il
giorno 2 febbraio 1998.
- Tale conferma datata 31 gennaio 1998 però non coincide
con la proposta quanto alla data di partenza ( nella proposta
18 febbraio e nella conferma 17 febbraio) sicchè non poteva
valere come accettazione della proposta ma come nuova
proposta per la partenza anticipata.
Test noi consumatori
14
Consumi & diritti
- Questa nuova proposta non risulta essere mai stata
accettata per iscritto dagli attori come previsto dalle norme
citate sicché il contratto di vendita del pacchetto turistico
deve ritenersi mai concluso.
- Per altro anche se si ritenesse efficace la predetta
clausola di anticipazione del momento conclusivo del contratto (in stridente contrasto con la lettera e con il formalismo e
le garanzie di chiarezza imposte dalla normativa citata), o se
si considerasse il modulo di proposta alla stregua dell’accettazione di un contratto per adesione, la modifica della data
contenuta nella conferma prenotazione 31.1.1998 non sarebbe stata comunque opponibile agli attori per difetto della
evidenza richiesta dagli artt.7, 9 e 12 del D.lgs. 17 marzo
1995 n.111. Tale modifica infatti non può certo ritenersi di
facile intelligenza poiché la data di partenza è stata dattiloscritta
(con caratteri sbiaditi nella parte superiore) senza alcun
cenno che evidenziasse la modifica apportata, senza l’indicazione dei motivi della modifica (consentita solo per ragioni di
necessità che devono essere esposte al consumatore) senza
l’indicazione del termine entro il quale il consumatore poteva
esercitare il proprio diritto di recesso esente da penale.
- Per quanto esposto deve essere accolta la domanda di
restituzione del prezzo formulata dagli attori.
- Poichè gli attori hanno subito un pregiudizio in seguito
alla condotta dell’organizzatore e del venditore del pacchetto
turistico - i quali non hanno evidenziato, come avrebbero
dovuto, la modifica della data di partenza - agli stessi va
riconosciuto il risarcimento del danno richiesto inquadrabile
o nell’ambito della responsabilità precontrattuale (qualora si
ritenesse l’inesistenza del contratto scritto ) o nella responsabilità per inadempimento (nel caso si ritenesse inopponibile
agli attori la modifica della data di partenza).
- Il danno riguarda sia le spese inutilmente sostenute per
il trasferimento da Treviso a Bologna e ritorno indicate dagli
attori in lire 750.000, e solo genericamente contestate dai
convenuti, sia il pregiudizio da “vacanza rovinata” individuabile
nei disagi sia materiali sia psichici connessi con la perdita
dell’occasione di vacanza ( v. artt.13 e 15 della L. 27 dicembre
1977 n. 1084 nonché l’art.13 del D.lgs. 17 marzo 1995 n.
111.) . Quest’ultima voce di danno considerata l’opportunità
offerta dai convenuti di partenza alternativa con riduzione di
due giorni del soggiorno rifiutata dagli attori deve essere
equitativamente limitata alla somma di lire 500.000.
- Ai sensi dell’articolo 14 D.lgs. 17 marzo 1995 n. 111,
l’organizzatore e il venditore sono tenuti entrambi al risarcimento del danno, sicché F.M. quale legale rappresentante
della ditta agenzia viaggi ***** con sede in Oderzo e *****
s.p.a. con sede in Cuneo, per quanto sopra esposto, andranno condannati a pagare in solido tra loro in favore degli attori
la somma di lire L. 4.727.000 pari a euro 2’441,29 quale
restituzione del prezzo del pacchetto turistico non fruito e la
somma di lire 1.250.000 pari a euro 645,57 quale risarcimento del danno sofferto somme entrambe incrementate degli
interessi legali dalla messa in mora al saldo effettivo.
- La terza chiamata ***** ASSICURAZIONI s.p.a., in
accoglimento della domanda di garanzia formulata da *****
andrà condannata a tenere indenne quest’ultima dagli esborsi
che dovrà affrontare per effetto della presente sentenza con
spese compensate per la mancanza di contestazione.
Test noi consumatori
15
Consumi & diritti
- Le altre spese di lite seguono la soccombenza sicché F.M.
quale legale rappresentante della ditta agenzia viaggi *****
con sede in Oderzo e ****** s.p.a. con sede in Cuneo
dovranno rifondere in solido tra loro le spese di lite sostenute
dagli attori T.R. e Z.L. che si liquidano in complessivi euro
2’980,83 di cui euro 1’032,91 per onorari, euro 1’355,18 per
diritti e la rimanenza per spese.
- Il Giudice definitivamente decidendo, ogni diversa domanda od eccezione disattesa,
P.Q.M.
- Accoglie la domanda dgli attori e per effetto condanna le
parti convenute F.M. quale legale rappresentante della ditta
agenzia viaggi ***** con sede in Oderzo e ****** s.p.a. con
sede in Cuneo a pagare, in solido tra loro, in favore di T.R. e
Z.L. la somma di lire L. 4.727.000 pari a euro 2’441,29 quale
restituzione del prezzo del pacchetto turistico non fruito, e la
somma di lire 1.250.000 pari a euro 645,57 quale risarcimento del danno sofferto somme entrambe incrementate degli
interessi legali dalla messa in mora al saldo effettivo oltre le
spese di lite che si liquidano in complessivi euro 2’980,83 di
cui euro 1.032,91 per onorari, euro 1’355,18 per diritti e la
rimanenza per spese. Condanna inoltre la terza chiamata
***** ASSICURAZIONI s.p.a., a tenere indenne F.M. quale
legale rappresentante della ditta agenzia viaggi ***** con
sede in Oderzo dagli esborsi che dovrà affrontare per effetto
della presente sentenza con spese compensate per la mancanza di contestazione sulla domanda di garanzia.
Treviso, li 14 gennaio 2002
Il Giudice
dr. Massimo Galli
Danno morale derivante
dalla morte di un congiunto
Nota ad Ordinanza del Tribunale di Roma
del 20 giugno 2002; Giudice Rossetti
Riconosciuto il
risarcimento del
danno.
La massima
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art.2059 c.c., nella parte in cui limita la
risarcibilità del dolore derivante dalla perdita di un prossimo
congiunto ai casi determinati dalla legge, frustrando un diritto
fondamentale dell’individuo e differenziando ingiustamente la
condizione di chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito
accertato e di chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito
presunto in base all’art.2054 c.c. (o ad altra presunzione di
legge), in riferimento agli artt.2 e 3 Cost..
La fattispecie
Il caso esaminato dal Tribunale di Roma e sotteso alla
suddetta ordinanza è dato da un grave incidente stradale
Test noi consumatori
16
Consumi & diritti
occorso in Roma l’11 maggio del 1997 in cui restarono
coinvolti due veicoli e nel quale persero la vita quattro
persone. L’azione di risarcimento del danno viene esperita
dagli eredi delle vittime imputando (in un caso) alla controparte la responsabilità civile nella causazione del sinistro
ovvero richiedendo la condanna “di chi di dovere” al risarcimento dei danni rispettivamente patiti.
Note a commento
Il Tribunale, investito del merito della causa, ritiene,
esaurita l’attività istruttoria, che nessuna delle parti processuali
sia riuscita ad assolvere all’onere probatorio dei fatti costitutivi
dei diritti rispettivamente vantati e pertanto a superare la
presunzione di colpa di cui all’art. 2054 c.c. con conseguente
necessaria attribuzione della responsabilità nella misura del
50% in capo a ciascuno dei conducenti.
Ed è proprio l’applicazione del meccanismo presuntivo di
cui all’art. 2054 c.c. che induce il Giudice a ritenere non
accoglibili le domande di risarcimento del danno morale.
Poiché l’art. 2059 –motiva il Tribunale– consente il risarcimento del danno non patrimoniale solo nei casi previsti
dalla legge (essenzialmente a fronte di fatti lesivi costituenti
astrattamente reato) e premesso che il danno non patrimoniale
derivante da fatto illecito costituente reato non può essere
liquidato quando la responsabilità dell’autore sia stata accertata in base ad una presunzione e non in base alla oggettiva
ricostruzione del fatto, nel caso di specie, essendo il decisum
radicato sulla presunzione di cui all’art. 2054 c.c., non
dovrebbe né potrebbe aver luogo il risarcimento del danno
non patrimoniale.
Tuttavia è lo stesso Giudice che, così decidendo, ritenuta
rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità dell’art. 2059 quanto alla sue conseguenze
applicative nei termini prospettati, promuove l’incidente di
costituzionalità.
Il sindacato della Corte dovrà essere condotto verificando
che la limitazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale
derivante dall’art. 2059 c.c. non comporti alcuna violazione
di precetti costituzionali. Segnatamente, il Tribunale indica,
quali parametri intesi a verificare la legittimità della norma in
questione, gli artt. 2 e 3 della Costituzione preposti alla tutela
ed al riconoscimento dei diritti fondamentali della persona ed
alla definizione costituzionale del principio di eguaglianza.
Norme, queste, il cui autentico rispetto dovrà essere
valutato anche alla luce della relazione intercorrente tra l’art.
2059 e l’art. 2054 del codice civile.
L’art. 2059 c.c. dispone che “il danno non patrimoniale deve
essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. La norma
si iscrive in una concezione del fatto illecito tradizionalmente
ispirata ad una nozione patrimoniale del danno che tende ad
identificare il danno patrimoniale alla persona con il mero
sacrificio di interessi economici connessi alla lesione di interessi
personali direttamente riconducibili al fatto illecito.
L’inadeguatezza della concezione “economica” del danno
risarcibile collide peraltro con la tendenza –tipica della
moderna civiltà giuridica– all’ampliamento del novero dei
diritti risarcibili ed alla definizione di un tessuto di emersione
di questi non prettamente patrimoniale ed è da tempo
oggetto di discussione in dottrina.
Test noi consumatori
17
Consumi & diritti
Tanto più all’esito di una ridefinizione dell’impianto
risarcitorio del danno alla persona che vede consolidarsi
l’idea del danno biologico quale tertium genus rispetto al
danno patrimoniale ed al danno morale soggettivo “puro”
comprensivo di tutti gli effetti negativi incidenti sulla salute
della persona indipendentemente da ogni conseguenza riflessa sul patrimonio.
Stadio ultimo di tale ermeneutica evolutiva in senso
personalistico è il riconoscimento della risarcibilità del danno
morale indipendentemente dalla dimostrazione di una lesione all’integrità psico-fisica o di altro evento produttivo di
danno patrimoniale (cfr. Cass. SS. UU., 21 febbraio 2002 n.
2515, FI, 2002, I, 999).
L’intervento, sollecitato dal Tribunale mediante l’ordinanza che qui si esamina, si inserisce in un percorso già coltivato
da altri Giudici di merito.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c.
venne proposta all’attenzione della Consulta perché ritenuta
la norma in contrasto con gli artt. 2 e 24 della Costituzione
nella parte in cui, in ragione di quanto disposto dall’art. 185
del codice penale, limita la risarcibilità dei danni non
patrimoniali a quelli derivanti da fatto illecito costituente
reato (cfr. Trib. Padova, 22 marzo 1973, GM, 1974, I, 347).
La Corte, nel pronunciarsi in occasione della sentenza n. 87
del 26 luglio 1979 (in FI, 1979, I, 2542 con nota di F. Giardina
e M. Santilli) a favore della costituzionalità dell’art. 2059 in
relazione all’art. 3 della Costituzione, ha evidenziato il principio
per cui “rientra nella discrezionalità del legislatore adottare un
trattamento differenziato, ove non vengano in considerazione
situazioni soggettive costituzionalmente garantite”.
Restava l’arduo compito di definire ed isolare, nell’ambito
della più vasta categoria delle situazioni soggettive ritenute
meritevoli di tutela, gli interessi giuridicamente protetti che
rectius dovessero assurgere a diritti costituzionalmente garantiti (di qui la riproposizione della questione con riferimento
alla risarcibilità del diritto alla salute (cfr. Trib. Genova, ord.
8 ottobre 1979, RCP, 1980, 112).
D’altra parte la stessa Corte con la pronuncia n. 88 del 26
luglio 1979 ( in FI ibidem) osserva che “l’espressione “danno
non patrimoniale”, adottata dal legislatore, è ampia e generale e tale da riferirsi...a qualsiasi pregiudizio che si contrappone, in via negativa, a quello patrimoniale, caratterizzato
dalla economicità dell’interesse leso”.
La legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. viene argomentata dal Giudice delle leggi in quanto i limiti posti dalla
norma debbono intendersi riferiti “al solo danno morale
subiettivo ” ossia “ al momentaneo, tendenzialmente
transeunte, turbamento psicologico in relazione a fatti illeciti
particolarmente qualificati” e non già alla “menomazione
psico-fisica dell’offeso” (Corte Cost., 30 giugno 1986, n. 184,
FI, 1986,I, 2053 con nota di Ponzanelli) ed, ancora, attribuendosi al principio della risarcibilità del danno ingiusto “un
contenuto comprensivo anche della riparazione alle
menomazioni di beni di valore assoluto e primario, il danno
è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una
concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella
rilevanza economica che la compromissione del bene riveste
in sé e per sé” (Corte Cost., 30 dicembre 1979, n. 641, FI,
1988,I, 694).
Test noi consumatori
18
Consumi & diritti
Alla luce della irrisolta problematicità della fattispecie,
parte della dottrina osserva che “l’unica soluzione che consenta di uscire dall’impasse sembra essere quella che poggia
su una ridefinizione del concetto di danno patrimoniale: non
più inteso, secondo l’orientamento tradizionale, come necessariamente caratterizzato dalla patrimonialità dell’interese
leso, ma riferito a qualsiasi pregiudizio suscettibile di diretta
valutazione economica mediante criteri obiettivi” (così L.
Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto
Civile, Torino, 1989, vol. III, 681).
È il Tribunale di Bologna (ord., 13 giugno 1995, Giur. it.,
1995, I, 2, 892 con nota di G. Comandé) a sollevare
nuovamente questione di legittimità dell’art. 2059, nella
parte in cui la norma non consentirebbe in ogni caso –anche
in presenza di un mero illecito civile– il risarcimento del
momentaneo patema d’animo integrando una violazione del
diritto alla salute anche laddove la stessa non presenti gli
estremi di una precisa patologia. La Consulta (ord. 22 luglio
1996, n. 293, FI, 1996, I, 2963, con nota di G. De Marzo)
ribadendo la diversità, non incisa dall’art. 2059, tra il danno
alla salute ed il danno morale quale pretium doloris salva la
legittimità della norma.
L’ordinanza romana, dunque, ripropone all’attenzione
della Consulta la controversa questione della legittimità di
una scelta legislativa che è orientata alla limitazione sub
specie della previa tipizzazione legislativa delle ipotesi lesive,
della risarcibilità del danno morale o, più correttamente, del
danno non patrimoniale.
Il Tribunale osserva che in verità l’idea della risarcibilità del
solo danno patrimoniale si è affermata nella dottrina e nella
giurisprudenza solo alla fine dell’800 sotto l’egida dell’allora
vigente art.1151 del codice civile del 1865.
Ciò quando per oltre duemila anni non si era mai dubitato
della risarcibilità del danno morale.
La giurisprudenza del primo ‘900 che stigmatizza il nuovo
orientamento ricorre ad argomenti quali l’applicabilità della
normativa codicistica ai soli rapporti giuridici patrimoniali,
l’incertezza nella definizione dei criteri fruibili al fine della
liquidazione del danno morale, l’inidoneità di un risarcimento
comunque pecuniario a rifondere un danno morale per sua
natura non riducibile in termini economici. Più che appartenere
dunque alla nostra coscienza giuridica, l’idea della non risarcibilità
del danno morale, osservano i giudici romani, “ha recepito
un’“idea ordinante” fondata sull’assunto secondo cui i diritti
della personalità non costituiscono elementi del patrimonio del
titolare e la loro lesione non dà perciò luogo a risarcimento”.
Muovendo dalla ratio della norma così ricostruita, appare
dubbia la sua compatibilità con i precetti costituzionali laddove,
leggiamo in un passo dell’ordinanza, “questo Tribunale
ritiene impossibile continuare a fingere di ritenere che la
sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo
congiunto non sia tutelata da alcun precetto costituzionale e
quindi, non costituendo un diritto della personalità, non
possa essere risarcita se non nei casi di cui all’art.2059 c.c.”.
La norma in oggetto, che è indubbiamente ispirata all’idea
di una sostanziale uniformazione tra responsabilità civile e
responsabilità penale per cui leggiamo, nei lavori preparatori
del codice civile, “soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa
all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più
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Consumi & diritti
energica repressione con carattere anche preventivo”, collide
con l’art. 2 della Costituzione che tutela i diritti fondamentali
dell’individuo in quanto la sofferenza morale che segue la
perdita di un prossimo congiunto è senz’altro una “proiezione
della personalità nella realtà sociale” meritevole di tutela,
nonché con l’art. 3 della Carta fondamentale nella parte in cui
ingiustamente differenzia la condizione di chi perde il congiunto
in conseguenza di un illecito accertato da chi perde il congiunto
in conseguenza di un illecito presunto.
L’art.2059 c.c. adotta un criterio di stretta tipicità la cui
evidenza è accentuata a fronte della genericità della clausola di
cui all’art. 2043 c.c. relativa ai danni materiali “quasi che pure
la joie de vivre sia da considerare meritevole di tutela anche
civile soltanto di fronte alle lesioni di quei beni personali che
formano oggetto della più efficace tutela penale” (così A.
Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1999, 219).
Se il danno morale in sede civile è risarcibile solo a fronte
di una condotta umana penalmente rilevante, un meccanismo come quello introdotto dall’art. 2054 c.c. che, in via
presuntiva, in difetto dei necessari adempimenti probatori,
introduce la regola del concorso di colpa, non potrà mai
consentire, nel difetto dell’accertamento del fatto materiale
di reato, titolo per ottenere il risarcimento del danno morale
ossia quel “denaro del pianto” (traducendo dal tedesco
Schmerzensgeld) in cui la funzione direttamente corrispettiva
lascia il posto ad una ratio più genericamente satisfattoria
ovvero sanzionatoria.
Le argomentazioni sviluppate dai giudici romani corroborate da una disamina “culturale” oltreché propriamente
giuridica appaiono tanto più significative se pensiamo a
come, norme quali l’art. 2054 c.c., che ricorrono ad una
presunzione operativa in difetto di prova contraria resa dalle
parti interessate, trovano frequente applicazione
giurisprudenziale sia nei casi in cui il materiale istruttorio non
venga adeguatamente valutato o integrato sia per la difficoltà
oggettiva intrinseca alla ricostruzione di eventi lesivi ed alla
conseguente attribuzione di responsabilità alla luce di norme
quali quelle preposte alla circolazione stradale dotate sovente di una portata precettiva non tassativamente determinata.
La questione di legittimità costituzionale si ripropone
dunque in tutta la sua evidenza nonostante la Consulta abbia
già ritenuto di “salvare” l’art. 2059 fornendone una interpretazione “costituzionalmente orientata” per cui la lesione di un
diritto costituzionalmente protetto, anche in presenza di una
norma come l’art. 2059 c.c., sarebbe comunque risarcibile in
base al combinato disposto dell’art. 2043 c.c. e della norma
che si assume di volta in volta violata (Corte Cost., 30 giugno
1986 n. 184 cit.).
La tesi del combinato disposto è a parere del Tribunale
insufficiente per una serie di ragioni. In primo luogo perché,
se si ritenesse l’art. 2043 c.c. una norma in bianco, il precetto
andrebbe ricercato in altre norme dell’ordinamento, in primis
quelle costituzionali; se si valutasse l’art. 2043 c.c. non
identificativo di una norma in bianco, costituirebbe danno
risarcibile la lesione di qualsiasi interesse rilevante per
l’ordinamento, ancorché non costituzionalmente fondato.
È una tesi, quella del combinato disposto, che peraltro
prova troppo inducendo l’interpretatio abrogans dell’art.
2059 c.c. ritenendosi, ad esempio nel caso di specie, che la
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Consumi & diritti
perdita del prossimo congiunto costituisce lesione di un
diritto costituzionalmente protetto anche in assenza dell’accertamento di un reato.
L’art. 2059 c.c., bene osserva il Tribunale, diventerebbe
un “guscio vuoto”.
L’interpretazione conforme alla costituzione idonea a salvare la legittimità della norma coinciderebbe in sostanza con
la sua interpretatio abrogans, con evidente distorsione della
logica conservatrice preposta ad una corretta ermeneutica.
Ancora, la tesi del combinato disposto indurrebbe, nei casi
in cui venga accertato il fatto di reato, ad una duplicazione del
risarcimento ancorato allo stesso evento lesivo e risarcibile sia
ex artt. 2043 c.c. e 2 Cost. quale lesione di un diritto
costituzionalmente garantito, sia ex art. 2059 c.c. quale danno
morale con evidente violazione dei dettami di ragionevolezza.
Da ultimo si osserva come la ratio sottesa all’art. 2059 c.c.
debba essere ricondotta ad un contesto processuale connotato dalla subordinazione dell’accertamento dell’illecito in
sede civile all’accertamento del fatto-reato in sede penale.
Subordinazione compiutamente superata per effetto dell’attuale art.75 c.p.p. che scinde il percorso civilistico inteso al
risarcimento del danno dal processo penale deputato all’accertamento del reato.
Appare in sostanza insanabile ed insuperata l’antinomia
tra una norma che conserva la propria originaria “radice
penale”, pur inserita nello strumentario tipicamente
compensativo della responsabilità civile, ed una cultura oggi
davvero multiforme del danno alla persona quale danno
ingiusto ipso facto risarcibile a prescindere dal criterio di
imputazione della responsabilità.
Avv. Monica Filippi
Annullamento
ed illegittimità del “fermo”
amministrativo
Nota a Tribunale di Salerno, ordinanza 18
aprile 2003 - Proc. N. 271/2003
Carenza di
potere, mancanza
di un regolamento
di attuazione,
illegittimità, anche
costituzionale, del
provvedimento di
fermo.
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Il testo dell’ordinanza
Il G.U.
Letti gli atti;
Atteso che il ricorrente, in vista del futuro giudizio di merito
tendente all’annullamento di un provvedimento di fermo
amministrativo, chiede, in questa sede cautelare atipica, la
sospensione degli effetti del provvedimento medesimo;
che deduce di aver ricevuto, in data 27.12.2002, una
lettera raccomandata contenente la comunicazione dell’avvenuto fermo amministrativo presso il Pubblico Registro
Automobilistico di Salerno, della sua autovettura FIAT ULYSSE
21
Consumi & diritti
2.1 TD 12V, targata AR 713 WX, già dal 4.12.2002, con
conseguente divieto di circolazione del veicolo e richiesta di
pagamento di € 639,77;
che la missiva non indicava il motivo del fermo, ma
riportava soltanto il numero di tre cartelle esattoriali, sicché
nello stesso giorno 27.12.2002 si era recato presso gli uffici
dell’E. TR. s.p.a. per chiedere spiegazioni;
che soltanto in questa occasione l’E. TR. gli aveva
fornito il c.d. estratto di ruolo con la descrizione delle
causali della pretesa;
che aveva così appreso che gli veniva richiesto il pagamento di una multa risalente all’anno 1995 per complessivi €
832,88, il pagamento di tasse per lo smaltimento di rifiuti per
gli anni 1993 e 1994 per un totale di € 4,24, ed il pagamento
di tasse per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani relativi
all’anno 1992, per un totale di € 4,26;
che non aveva mai ricevuto la notificazione delle cartelle
esattoriali indicate, peraltro solo con un numero, nella comunicazione dell’adozione del provvedimento di fermo;
che i pretesi crediti erano caduti in prescrizione e, comunque, il fermo era stato emesso in carenza di potere;
che l’autovettura sottoposta a fermo costituiva l’unico suo
mezzo di trasporto per ragioni di lavoro;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della società
resistente;
Atteso che l’E. TR. s.p.a. ribadisce la legittimità del
provvedimento adottato ai sensi dell’art. 86 del D.P.R. 602
del 1973, assumendo la sussistenza del potere in virtù della
norma citata e del regolamento di attuazione emanato con
D.M. 7.9.1998 n. 503;
che assume la natura cautelare del fermo e la conseguente
inammissibilità di un provvedimento di sospensione dell’
esecuzione;
che deduce altresì la rituale notificazione delle cartelle
esattoriali menzionate nel provvedimento di fermo, il difetto
di giurisdizione del giudice ordinario per le imposte ed i
tributi, la definitività del carico iscritto a ruolo per mancanza
impugnazione nei termini di legge delle cartelle esattoriali;
Premesso quanto sopra,
OSSERVA
La questione sottoposta all’esame di questo giudice prende le mosse dall’adozione di un provvedimento di fermo
amministrativo di veicolo privato adottato dalla società resistente in applicazione del disposto dell’ art. 86 del D.P.R. n.
602 del 1973 come modificato con l’art. 1 del decreto
legislativo 27.4.2001 n. 193. L’istituto in esame è stato
introdotto nell’ordinamento con l’art.5 del D.L. 31.12.1996
n.669, convertito in legge 28.2.1997 n.30, che ha inserito
l’art.91bis nel D.P.R. n.602 del 1973. L’art. 91 bis attribuiva
il potere di fermo amministrativo di veicoli a motore ed
autoscafi alla Direzione Generale delle Entrate sul presupposto dell’impossibilità di eseguire il pignoramento per mancato
reperimento del veicolo del contribuente. Il quarto comma
dell’ art. 91 bis prevedeva l’emanazione di un regolamento di
attuazione, emanato con D. M. 7.9.1998 n. 503.
La norma è stata successivamente trasfusa, senza modifiche, nell’art.86 del medesimo D.P.R., con l’art.16 del
decreto legislativo n. 46 del 1999.
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22
Consumi & diritti
Con l’art.1 del decreto legislativo n. 193 del 2001 l’istituto
ha subito, invece, radicali modificazioni, giacché è stato
sostituito il primo comma dell’art. 86 del D.P .R. n. 602 del
1973 ed è stato attribuito il potere di fermo direttamente al
concessionario esattore con previsione di presupposti diversi
da quelli in precedenza richiesti.
Il provvedimento di fermo oggi si inserisce, invero, in
una fase anteriore a quella prettamente esecutiva, giacché è stata eliminata la necessità di un verbale di
pignoramento negativo, richiedendosi, di regola, soltanto
il decorso di sessanta giorni dalla notificazione della
cartella di pagamento.
L’istituto, a seguito delle modifiche legislative ricordate,
ha perso dunque, il suo originario carattere di misura della
fase esecutiva –in quanto rimedio da adottare in caso di
irreperibilità dei veicoli da sottoporre a pignoramento, come
previsto dall’art. 3 comma 2 del D.M. n. 503 del 1998, con
richiamo all’art. 79 D.P.R. 28.1.1998 n. 79, che regola le
ipotesi del pignoramento negativo o insufficiente e la trasmissione del relativo verbale all’ufficio finanziario o all’ente
che emesso il ruolo per l’apposizione del visto– per assumere
la natura di misura cautelare, successiva alla notificazione
della cartella esattoriale ma anteriore all’esecuzione, a garanzia del credito da soddisfare.
La nuova natura del fermo amministrativo -affermata, nel
caso in esame, dalla stessa società resistente- e le novità
dell’istituto, concernenti il soggetto legittimato ad adottare il
provvedimento nonché tutti i presupposti per la sua emanazione, rendono ragione della necessità di uno specifico
regolamento di attuazione, previsto dall’ultimo comma dell’
art. 86 in esame e non ancora emanato. La norma prevede
espressamente infatti, la emanazione di un regolamento di
attuazione; essa si pone, dunque, come norma di principio
necessitante di integrazione.
La tesi della non necessità di un regolamento di attuazione
–nonostante l’espressa previsione di legge– e della applicabilità
del D.M. n. 504 del 1998, nelle parti compatibili con la nuova
norma, si scontra invero, con la impossibilità di individuare
una norma del regolamento di attuazione che conservi
compatibilità con il nuovo sistema, con riferimento alle
concrete modalità di esercizio del potere, alle condizioni ed ai
limiti del medesimo, alla necessaria proporzione tra pretesa
creditoria e bene vincolato a garanzia del credito, e con
riferimento allo stesso contenuto del provvedimento.
Nel regime anteriore alla riforma in esame tutti gli elementi sopra individuati erano puntualmente disciplinati dalle
varie norme applicabili, a cominciare dall’art.79 citato (che
consentiva l’apposizione del visto soltanto per crediti superiori alle £ 500.000) e dalle norme del processo esecutivo, ed
in particolare dall’art.496 c.p.c., che consentono di porre
rimedio alla eventuale sproporzione di valore tra credito e
beni pignorati.
Il nuovo sistema, al contrario, estrapolando la norma dalla
fase esecutiva, impedisce l’applicazione del menzionato
art.496 c.p.c., e, nello stesso tempo, eliminando la necessità
di un verbale di pignoramento negativo e del visto dell’ente
creditore, non prevede neppure un limite minino al disotto del
quale non è adottabile la misura –fortemente coercitiva– del
fermo amministrativo.
Test noi consumatori
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Consumi & diritti
L’attività della P.A., e dei suoi concessionari, deve essere
improntata al rispetto delle regole costituzionali di buona
amministrazione (intesa anche come migliore contemperamento degli interessi in gioco e minor danno per i destinatari
dell’azione amministrativa), e di imparzialità (intesa anche
come parità sostanziale di trattamento e, quindi, di corrispondenza di eguali reazioni ad uguali azioni), nonché al
rispetto dei principi di legalità, trasparenza e ragionevolezza
(intesi, nello specifico, come necessità della previa compiuta
disciplina normativa dei pubblici poteri, e del conseguente
esercizio del potere nel rispetto del canone della razionalità
operativa, allo scopo di evitare atti arbitrari o irrazionali).
La norma dell’art.86 in esame non contiene una compiuta
disciplina del potere del concessionario, né questa è rinvenibile
nel regolamento di attuazione del precedente disposto
normativo, relativo ad altra ipotesi di fermo amministrativo,
perché riferita ad altro soggetto e ad altri presupposti, come
visto. Consente, allo stato della legislazione, un potere assolutamente discrezionale, quasi rudimentale, senza limiti minimi
di importo, senza controlli di proporzionalità della misura, con
possibilità di applicazione indiscriminata della medesima, ed
unica, misura alle situazioni più diverse, neppure individuate
analiticamente ed illustrate nel provvedimento.
Una lettura costituzionalmente legittima dell’art.86, nella
sua nuova formulazione, non può che passare, dunque,
attraverso la conclusione sopra esposta della necessità di uno
specifico regolamento di attuazione –in aderenza, si ripete,
al contenuto dell’ultimo comma dell’art. 86 in parola– e della
natura di mera norma di principio contenuta nel primo
comma dell’art. 86.
La diversa interpretazione, proposta dalla società convenuta, non potrebbe non esporre a censure di illegittimità
costituzionale la norma medesima, giacché, allo stato della
legislazione, contrastante con tutti i principi, anche di livello
costituzionale, sopra ricordati.
L’interpretazione qui accolta, invece, se per un verso
rende la norma conforme al dettato costituzionale ed a tutti
i principi del diritto amministrativo, per altro verso impone di
escludere, finché non interverrà il necessario regolamento di
attuazione, l’attualità del potere attribuito –finora– solo in
linea di principio al concessionario.
Un provvedimento di fermo adottato nelle more dal
concessionario è, conseguentemente, adottato in carenza di
potere, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario a
conoscere della questione.
Ferme le competenze degli altri giudici ordinari o amministrativi speciali per le ipotesi di opposizione alla cartella
esattoriale in dipendenza della natura del credito iscritto a
ruolo, deve rilevarsi, invero, che in caso di impugnazione del
solo provvedimento di fermo –ossia di impugnazione indipendente dalla contestazione del credito al quale il provvedimento accede–, non può non ravvisarsi la giurisdizione del
giudice ordinario, da individuarsi secondo gli ordinari criteri
di competenza.
Non è sostenibile, in primo luogo, che l’unico rimedio
consentito sia costituito dalla opposizione alla ordinanza ingiunzione o a cartella esattoriale, nei termini rispettivamente previsti dalla normativa speciale di riferimento, giacché una cosa è reagire contro l’esercizio del potere
Test noi consumatori
24
Consumi & diritti
sanzionatorio o di pretesa tributaria, altra cosa è contestare
autonomamente l’adozione di una misura ulteriore quale è
quella del fermo amministrativo. D’altra parte l’art. 2 del
decreto legislativo 31.12.1992 n. 546, come modificato dalla
legge 28.12.2001 n. 448, esclude la giurisdizione tributaria
per gli atti della esecuzione forzata successivi alla notificazione della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di
cui all’art.50 del D.P.R. n. 602 del 1973, e limita la cognizione
della pretesa tributaria con specifico riferimento ad atti
individuati dall’art.19 del decreto legislativo n. 546 del 1992.
Il provvedimento di fermo di cui all’art.86 in “esame è atto
successivo alla notificazione della cartella esattoriale e,
comunque, non è compreso nell’elenco di cui all’art.19 citato,
né è espressamente indicato da altra disposizione come
impugnabile dinanzi alle Commissioni Tributaria, sicché deve
escludersi la giurisdizione degli organi menzionati in caso di
impugnativa del solo provvedimento di fermo.
Escludere anche la giurisdizione del giudice ordinario, o di
altro giudice, equivale a violare l’art. 113 della Costituzione,
che dispone che contro gli atti della P .A. è sempre ammessa
la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.
Secondo gli ordinari criteri di riparto della giurisdizione, il
G.O. conosce delle domande dirette a far valere la carenza di
potere della P .A., mentre il giudice amministrativo conosce
dell’illegittimità dell’atto, ossia del cattivo uso del potere,
sicché deve affermarsi la giurisdizione del G.O. a conoscere
della controversia.
La giurisdizione ordinaria va affermata, peraltro, anche
con riferimento alla specialità della disciplina che regola la
materia, con particolare riferimento alle disposizioni del
D.P.R. n.602 del 1973 riconfermate anche in occasione
dell’ultima modifica normativa in tema di riparto di giurisdizione introdotta con l’art.12 della legge n.449 del 2001.
Superata, quindi, l’eccezione del difetto di giurisdizione
sollevata dalla parte resistente, deve esaminarsi l’eccezione
di inammissibilità di un provvedimento di sospensione,
vertendosi in una fase anteriore a quella esecutiva.
Se l’eccezione è fondata con riferimento ad una
impugnazione qualificabile come opposizione a precetto, non
è tuttavia fondata con riferimento ad una azione mirante alla
declaratoria di illegittimità di un provvedimento emesso in
carenza di potere. D’altra la stessa giurisprudenza citata dalla
parte resistente ammette il ricorso alla tutela cautelare
atipica allorché si intenda opporsi ad una esecuzione non
ancora iniziata.
Nel caso in esame non è affatto richiesta la sospensione di
una esecuzione iniziata, bensì la declaratoria di un vizio
comportante l’inefficacia –provvisoria, all’esito di questa
fase– di un provvedimento.
In ossequio alle regole della procedura cautelare atipica
azionata, l’accoglimento dell’istanza deve essere valutata alla
luce della sussistenza dei presupposti previsti dall’art.700
c.p.c., ossia del fumus boni iuris e del periculum in mora. In
ordine al primo requisito si è già detto sopra, pervenendo alla
conclusione della probabile fondatezza della censura mossa
alla condotta della controparte, che appare posta in essere in
assoluta carenza di potere, e, conseguentemente, del probabile esito positivo per il ricorrente del futuro giudizio di merito.
Test noi consumatori
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Consumi & diritti
Quanto al periculum in mora, va osservato che la limitazione alla libertà di locomozione dipendente dalla efficacia del
provvedimento di fermo è idonea a determinare conseguenze
alla vita lavorativa e di relazione, non soltanto di natura
economica, con grave difficoltà di pervenire ad un integrale
ristoro per equivalente. Opinare diversamente equivale a
consentire una reintroduzione surrettizia dell’istituto del
“solve et repete” espulso dal nostro ordinamento.
La domanda cautelare merita, dunque, accoglimento.
Non incide sul giudizio espresso l’ulteriore eccezione
mossa dalla resistente in ordine alla rituale notificazione della
cartella esattoria (affermazione rimasta, peraltro, del tutto
sfornita di prova) ed alla definitività dell’accertamento per
decorso del termine per l’impugnazione, non discorrendosi,
in questa sede, della sussistenza del credito bensì della sola
legittimità della misura adottata a garanzia della riscossione
del preteso credito.
P.Q.M.
Sospende l’efficacia del provvedimento di fermo impugnato, disposto dalla società resistente sull’autovettura Fiat
Ulysse 2.1 TD 12 V targata AR 713 WX in data 16.12.2002;
fissa il termine di giorni trenta dalla comunicazione della
presente ordinanza per l’introduzione del giudizio di merito.
Manda alla cancelleria per le comunicazioni e gli
adempimenti di rito.
Salerno,15.4.2003
Depositata il 18 aprile 2003.
Note di commento
LA FATTISPECIE
Il Signor Antonio Paolillo riceveva il 27 dicembre 2002
una “lettera” raccomandata A.R. n.60238557666-2 dall’E. TR.SpA, Servizio Riscossione Tributi Concessionaria
della Provincia di Salerno, la quale metteva a conoscenza
il ricorrente di due cose: 1) dell’avvenuto fermo amministrativo, presso il Pubblico Registro Automobilistico tenuto
dall’ACI sede provinciale di Salerno, della sua autovettura
FIAT ULYSSE 2.1 TD 12V, targata AR713WX, già dal 4/12/
2002, con conseguente divieto di circolazione del veicolo
e 2) del pagamento di 639,77 Euro. Tale lettera, però, non
conteneva il motivo per il quale l’E. TR.SpA disponeva il
fermo, ma indicava soltanto il numero di tre cartelle, vale
a dire: 1) 0020542759, 2) 2680380348 e 3) 2680500271.
Il ricorrente, lo stesso giorno (27/12/2002), andava all’E.
TR. SpA per chiedere il motivo di questo provvedimento e
quest’ultimo immediatamente gli forniva il c.d. l’estratto
di ruolo, in cui venivano descritti (indicando il tipo di
tributo, l’emissione e l’importo) i tributi che il ricorrente
non avrebbe pagato e che erano:
a) multa emessa nel 1995 sull’autovettura targata
SA913692 (diversa da quella sul quale oggi è stato posto il
fermo) con relativa sanzione aggiuntiva, il cui totale è di
832,88 Euro;
b) tasse smaltimento rifiuti del 1993 e del 1994 pagate in
ritardo, il cui totale è di 4,24 Euro;
c) tassa rifiuti solidi urbani del 1992 pagata in ritardo, il cui
totale è di 4,26 Euro.
Test noi consumatori
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Consumi & diritti
LA QUESTIONE
Il provvedimento in esame mette in evidenza l’ammissibilità
del procedimento d’urgenza ex art.700 c.p.c. per dichiarare
l’inefficacia del fermo amministrativo di beni mobili registrati
disposti dall’art.86 del D.P.R. 602/1973.
Il Tribunale di Salerno, in presenza del G.U. Dott.ssa Rosa
Sergio, che deposita il provvedimento il 15 aprile 2003,
accoglie il ricorso ex art.700 c.p.c. e fissa 30 giorni dalla
comunicazione della presente ordinanza per l’introduzione
del giudizio di merito.
Il citato provvedimento di fermo del veicolo è, sia da un
punto di vista fattuale che di diritto, illegittimo per una serie
di motivi.
Innanzitutto, la normativa dispone che entro cinque
giorni dall’annotazione, l’esattore informi, con lettera
raccomandata, il debitore e l’Ufficio delle Entrate, al quale in
precedenza spettava la gestione della procedura e che, per
l’effetto della sopravvenuta normativa, ha perso ogni controllo preventivo sulla regolarità delle procedure adottate
dall’esattore e sulla verifica della sussistenza a monte di un
valido titolo esecutivo. Si ricorda che dalla data di iscrizione
del provvedimento di fermo, come ricorda lo stesso Concessionario nella sua lettera del 27.12.2002, “è vietata la
circolazione del veicolo sottoposto a fermo, pena l’irrogazione
della sanzione prevista dall’art.214, comma 8, D.L. 30.4.1992
n. 285 - sanzione pecuniaria -”, nonché è prevista la perdita
delle garanzie assicurative e il sequestro del mezzo, se usato
durante il periodo d’inibizione. Il mancato rispetto dei termini
è previsto a pena di illegittimità dei successivi atti, e non
occorre certo ricordare che, essendo un atto ricettizzio, ha
validità, per il debitore, dal momento della sua ricezione,
essendo solo da tale momento ad esso conoscibile.
In secondo luogo, tale tipo di provvedimento cautelare,
previsto dall’articolo 86 D.P.R. 29.9.1973 n. 602, così
come modificato dall’art. 1 D.Lgs.n.193/2001, è privo di
una normativa di riferimento. Infatti, questa nuova misura
di tipo cautelare è stata disciplinata per la prima volta
dall’indicato DPR n.602/73, che all’art. 86, comma 4,
esplicitamente prevede che “con decreto del Ministro delle
finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e dei lavori
pubblici, sono stabiliti le modalità, i termini e le procedure
per l’attuazione di quanto previsto nel presente articolo
(articolo così sostituito dall’art. 16, d.lg. 26 febbraio 1999,
n. 46).” Ora, allo stato, tali Decreti attuativi non sono
ancora stati emanati, per cui nulla è stato determinato in
merito alle modalità, termini e procedure di attuazione. Il
regolamento avrebbe dovuto indicare anche la somma
minima per poter procedere al fermo, e disciplinare le
modalità per impugnare il provvedimento. Tale fermo,
invece, viene disposto senza una normativa di riferimento in
materia, in palese violazione dell’art. 24 della Costituzione,
che disciplina il diritto alla difesa del cittadino. Oltre tutto vi
è una palese sproporzione tra quanto richiesto ed il valore dei
veicoli sottoposti a fermo amministrativo e ciò, in assenza di
una normativa di riferimento, senza alcuna prevista possibilità di impugnativa. Del resto si contesta anche la possibilità
di sottoporre a fermo un bene che è strumentale allo
svolgimento della professione del ricorrente. Nel Regolamento attuativo doveva essere prevista anche una norma
Test noi consumatori
27
Consumi & diritti
che prevedesse l’impignorabilità dei beni strumentali, cioè
usati per necessità professionali.
Infine, l’Ente esattore non ha nemmeno rispettato la
procedura prevista dallo stesso articolo da Lei stessa richiamato nel provvedimento di comunicazione del fermo. In base
all’art. 86 citato, comma 1 “Decorso inutilmente il termine di
cui all’articolo 50, comma 1, il Concessionario può disporre il
fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in
pubblici registri, dandone notizia alla Direzione regionale
delle entrate ed alla regione di residenza –comma così
sostituito dall’art. 1, d. lgs. 27 aprile 2001, n. 193–”. Ora
secondo quanto prescritto dall’art. 50 “Il concessionario
procede ad espropriazione forzata quando è inutilmente
decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della
cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla
dilazione ed alla sospensione del pagamento (circostanza,
questa, mai realizzatasi)”. Ma poi prosegue lo stesso articolo
“Se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica
della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve
essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi con le modalità
previste dall’articolo 26, di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque
giorni (comma così modificato dall’art.1, d. lgs. 27 aprile
2001, n. 193)”. Sembra inutile aggiungere che tale circostanza non è mai stata realizzata da parte del Concessionario. Non
avendo realizzato tali adempimenti, gli atti successivi sono
illegittimi ed inefficaci secondo lo stesso art.50 citato “L’avviso di cui al comma 2 è redatto in conformità al modello
approvato con decreto del Ministero delle finanze e perde
efficacia trascorsi centottanta giorni dalla data dalla notifica”.
Avv. Rocchina Staiano
Danno per caduta
su scala mobile
Nota a sentenza Corte di Cassazione
sezione III civile; sentenza 13 febbraio 2002, n.
2075; Pres. Fiduccia, Est. Durante, P.M. Martone
Conferma App. Roma 3 maggio 1998.
Riconosciuto il
risarcimento del
danno per caduta
su una scala mobile
a servizio di una
stazione della
metropolitana.
Test noi consumatori
La massima
Va confermata la decisione di merito che, nel rigettare la
domanda con cui era stata chiesta la condanna del servizio
di trasporto pubblico al risarcimento dei danni conseguenti
alla caduta su una scala mobile a servizio di una stazione
della metropolitana, aveva escluso la possibilità di invocare
la presunzione di responsabilità a carico del custode, in
quanto la vittima non era stata in grado di provare la
correlazione tra la caduta e l’asserita presenza di una
sostanza oleosa sui gradini.
28
Consumi & diritti
La fattispecie e le note a commento
La fattispecie di cui alla massima sopra riportata rappresenta il caso di un utente del servizio di trasporto pubblico
che, cadendo da una scala mobile posta al servizio di una
stazione della metropolitana in quel di Roma, si era procurato
lesioni personali di non lieve entità.
In particolare, il danneggiato asseriva che la caduta era
stata determinata dalla presenza di una non ben precisata
sostanza oleosa sui gradini della suddetta scala mobile.
Il giudice di prime cure respingeva la richiesta di risarcimento dei danni fisici formulata da parte del danneggiato e
tale statuizione veniva successivamente confermata anche in
sede di gravame.
L’iter logico-giuridico condotto da entrambi i giudici del
merito risultava fondato sul fatto che da parte dell’utente
danneggiato non era stata fornita la prova occorrente perché
potesse operare la presunzione di responsabilità ex art. 2051
c.c.; non erano cioè stati dimostrati né la pericolosità della
scala in relazione alla presenza della sopra prospettata
sostanza oleosa, né soprattutto il nesso eziologico tra tale
presenza e l’evento della caduta da cui erano derivate le
lamentate lesioni personali.
L’utente del servizio di trasporto promuoveva quindi
ricorso per Cassazione, deducendo la sussistenza nella
fattispecie de qua dei presupposti indefettibili perché
potesse farsi luogo all’applicazione della suddetta presunzione di responsabilità, ritenendo cioè di aver
compiutamente dimostrato nei precedenti gradi di giudizio: 1) la qualità di custode in capo all’ente gestore del
servizio di trasporto pubblico (effettivo potere fisico sulla
scala e corrispondente obbligo di custodire la stessa, cioè
di vigilarla e di mantenerne il controllo), nonché 2) la
riconducibilità causale dell’evento dannoso all’utilizzo
della scala.
Viceversa, non era stato per nulla provato da parte
dell’ente gestore della metropolitana che il danno era derivato da un fattore esterno integrante un’ipotesi di caso fortuito
con efficacia esimente.
La difesa del ricorrente faceva altresì rilevare che se era
pur vero che il danneggiato aveva l’obbligo di provare il
rapporto eziologico tra la cosa in custodia e l’evento dannoso,
tuttavia tale prova doveva ritenersi circoscritta unicamente
alla dimostrazione che l’evento-caduta si era prodotto nell’ambito del normale dinamismo connaturato alla scala mobile, senza che dovesse acquistare rilevanza l’ulteriore circostanza della riconducibilità in concreto della caduta alla
presenza della denunciata sostanza scivolosa.
La Corte di Cassazione, pur riconoscendo la presenza in
detta fattispecie di un effettivo rapporto di custodia, faceva
tuttavia rilevare che la domanda proposta dal ricorrente non
risultava sorretta da adeguata ed esauriente prova in ordine
al fatto che la caduta fosse dipesa dalla particolare situazione
venutasi a creare per la presenza della sostanza oleosa sui
gradini della scala.
Ad avviso del Supremo Collegio, proprio al raggiungimento
di tale fondamentale prova doveva intendersi subordinata
l’applicazione della presunzione di responsabilità, vedendosi
pertanto costretto a respingere i motivi posti a fondamento
del ricorso ed a confermare l’impugnata sentenza.
Test noi consumatori
29
Consumi & diritti
La ratio decidendi sottesa alla menzionata pronuncia va
ricercata nei risultati cui è pervenuta la più recente dottrina
in tema di responsabilità del custode per danni da cosa
custodita, di cui all’art. 2051 c.c., e dalla elaborazione
giurisprudenziale che ne è derivata.
Ed invero, a fronte di un consolidato orientamento
giurisprudenziale che individua nella norma in questione un
caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della
responsabilità sarebbe pur sempre nel fatto dell’uomo (nella
specie del custode), che è venuto meno al suo dovere di
controllo e vigilanza, la dottrina recente contrappone una
ricostruzione della fattispecie in termini di responsabilità
oggettiva (in tal senso MONATERI, La responsabilità civile, in
Tratt. Sacco, Torino, 1998, 1038; cfr., ad esempio, Trib.
Verona 4 giugno 1997, Gaioni c. Supermercati PAM, in Danno
e Responsabilità, 1998, 65, N. DI NEPI) e, contemporaneamente, denuncia il carattere declamatorio del richiamo alla
presunzione di colpa operato dalla giurisprudenza (Cfr., fra
gli altri, MONATERI, La responsabilità civile, cit.; FRANZONI,
Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma,
1993, 598, che definisce la presunzione di responsabilità una
vera mostruosità logica): “La giurisprudenza continua a
parlare di presunzione di colpa del custode solo per rendere
omaggio alla tradizione, dato che poi richiede, ai fini della
liberazione dalla responsabilità, non la prova dell’assenza di
colpa (ossia la prova della propria diligenza, prudenza o
perizia), ma la prova positiva del caso fortuito, ossia dell’evento interruttivo del rapporto causale, e non concede
esonero da responsabilità ove la causa del danno sia rimasta
ignota, tanto che il custode risponde del danno anche se è
incapace di intendere e di volere” (GALGANO, Trattato di
diritto civile e commerciale, Padova, 1990, 331).
L’orientamento della dottrina prevalente ha, da qualche
tempo, trovato accoglimento sia nella giurisprudenza di
merito (cfr. Trib. Napoli 23 dicembre 1995, Nunziante e altri
c. Sacchi, Nuova Giur. Civ. Comm., 1997, I, 146, N. MATTEO;
Trib. Venezia 28 marzo 1997, Alessandri c. Vattari e altri,
Danno e Responsabilità, 1997, 497, N. LAGHEZZA; Trib.
Verona 4 giugno 1997, Gaioni c. Supermercati PAM, e Trib.
Verona 4 ottobre 1996, Rattotti c. PAM S.p.a., in Danno e
Responsabilità, 1998, 65, N. DI NEPI ), sia in quella di
legittimità (cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 1998, n. 5031,
Cola c. Com. S. Marinella e altro, in Resp. Civ. e Prev., 1998,
1375, n. FORZIATI e in Danno e Responsabilità, 1998, 1101,
N. LAGHEZZA; ma vedi anche Cass. civ., sez. un., 11
novembre 1991, n. 12019, Carminetti c. Com. Caldano, in
Corriere Giur., 1992, 180, n. ALPA).
Pertanto, avendo riconosciuto pressoché unanimemente
(per lo meno all’indomani di Cass. 20 maggio 1998, n. 5031)
che il comportamento del responsabile è estraneo alla struttura della normativa di cui all’art. 2051 c.c., poiché la
responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma sulla relazione intercorrente tra questi
e la cosa, la giurisprudenza mostra una particolare
attenzione alla prova dell’esistenza del rapporto di
causalità, vuoi sotto il profilo del riscontro del nesso eziologico
tra la res in custodia e l’evento pregiudizievole (cfr. Cass. 3
agosto 2001, 10687), vuoi sotto quello dell’accertamento
dell’autonoma idoneità causale di un fattore esterno in grado
Test noi consumatori
30
Consumi & diritti
di interrompere il predetto collegamento tra la cosa ed il
danno (cfr. Cass. 17 gennaio 2001, n. 584).
Tale maggiore attenzione da parte dei giudici in ordine alla
prova del rapporto di causalità si configura quindi come un
efficace contrappeso al rigido criterio oggettivo di determinazione della responsabilità che connota la fattispecie ex art.
2051 c.c..
In altre parole, l’esigenza di non prescindere dal nesso di
causalità comporta che, sebbene si neghi in linea di principio
l’essenzialità di una prova dell’esistenza di una specifica ed
intrinseca pericolosità della cosa in sé, si arrivi comunque
a pretendere, qualora il nocumento non risulti causato
dal dinamismo connaturato alla cosa, la dimostrazione
che nella stessa sia insorto un agente dannoso, non
importa se proveniente dall’esterno. (cfr. Cass. 30 marzo
1999, n. 30411 e 16 febbraio 2001, n. 2331: “... Ai fini della
responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c. il danneggiato deve
provare il nesso eziologico tra la cosa in custodia e il danno
... Pertanto, se egli afferma di essere caduto da una scala per
la presenza sui gradini di materiale scivoloso, deve provare
l’esistenza di tali elementi, perché configurano il fatto
costitutivo della domanda …”).
Detto orientamento, a parere dello scrivente, risulta
decisamente da condividere e ben si attaglia alla fattispecie
in commento.
Del resto, un esonero per il danneggiato dall’onere di
dimostrare l’esistenza di un efficace nesso causale tra la res
in custodia ed il danno –nella specie tra quella particolare
condizione in cui era venuta a trovarsi la scala a seguito della
presenza della sostanza oleosa (presenza peraltro solo prospettata e mai effettivamente dimostrata)– si sarebbe tradotto in un allargamento dei confini della presunzione di
responsabilità, con aggravamento della posizione del custode (ente gestore della metropolitana) al di là di quanto è
giustificato da un’equilibrata tutela del danneggiato stesso.
Avv. Antonio Parachini
Divieto di anatocismo anche
per i mutui ordinari
Anche per le rate
scadute, gli
interessi moratori
devono distinguere
la componente in
capitale da quella in
interessi.
Test noi consumatori
Che per i contratti di conto corrente stipulati tra la banca
ed il proprio cliente vi fosse un divieto di pattuizione preventiva di interessi anatocistici era ormai chiaro: infatti, dapprima la Corte di Cassazione, con sentenza n. 2374/1999, aveva
sancito la nullità della clausola di capitalizzazione degli
interessi passivi, se anteriore alla scadenza degli stessi;
successivamente, la delibera CICR del 9 febbraio 2002 ha
previsto, all’art. 2, secondo comma, che “Nell’ambito di ogni
singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità
nel conteggio degli interessi creditori e debitori”; infine,
anche la Consulta (sent. 425/2001) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il terzo comma dell’art. 25 del D.lgs. n.
342/1999, con il quale il legislatore, modificando l’art. 120
del TUB, aveva stabilito che le clausole contrattuali che
prevedevano la produzione di interessi sugli interessi, conte-
31
Consumi & diritti
nute nei contratti stipulati prima del 22/04/2000, dovevano
ritenersi valide ed efficaci.
Ora l’orientamento di favore nei confronti del cliente della
banca, e, soprattutto, la corretta applicazione delle norme
sancite dal Codice Civile, sono stati confermati dalla Suprema
Corte anche in materia di mutui ordinari.
Infatti, con la sentenza n. 2593/2003, la Corte di
Cassazione si è pronunciata in merito alla legittimità di una
clausola, inserita nei contratti di mutuo, la quale prevedeva che, per rate scadute, gli interessi moratori dovessero
decorrere sull’intera somma da corrispondere nella rata,
senza distinguere la componente in capitale e quella in
interessi.
Facendo un piccolo passo indietro, per chiarezza va detto
che, nei cosiddetti “mutui ad ammortamento”, ogni rata si
compone di una quota rimborsata in conto capitale e di una
quota di interessi che il mutuatario deve corrispondere al
mutuante come “compenso” del finanziamento. La questione
affrontata dalla Suprema Corte, pur riguardando un’ipotesi
patologica del rapporto di mutuo (ossia la mancata
corresponsione della rata periodica), verteva sul problema
del calcolo degli interessi moratori: questi, cioè, devono
essere calcolati sull’intera rata non pagata o solo sulla quota
capitale della rata non corrisposta?
Nella prima ipotesi, si darebbe inevitabilmente vita ad una
forma di anatocismo, poiché la quota-interessi, che compone
la rata di mutuo non corrisposta, verrebbe capitalizzata e
considerata, quindi, come la base del calcolo degli interessi
moratori.
La Corte di Cassazione, tenendo conto del divieto di
anatocismo previsto dall’art. 1283 C.C., ha stabilito che gli
interessi che vanno a formare l’importo della rata scaduta
conservano la loro natura e non si trasformano in capitale,
cosicché la clausola contrattuale che preveda diversamente,
integrando un fenomeno anatocistico vietato dal Codice
Civile, è illegittima.
Ma cosa prevede esattamente il succitato articolo 1283?
“In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono
produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o
per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e
sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”.
Dal testo dell’articolo, quindi, si deduce che il divieto di
anatocismo può essere derogato solo per: 1) l’esistenza di un
uso contrario; 2) la proposizione di una domanda giudiziale;
3) la presenza di una convenzione posteriore alla scadenza
degli interessi e sempre che siano decorsi sei mesi.
Nel caso di specie non entravano in gioco le due ipotesi
previste sub 2 e 3, mentre poteva assumere rilevanza, e
quindi legittimare il ricorso all’anatocismo, l’esistenza di un
uso contrario al disposto normativo.
Per uso contrario, ovviamente, non può intendersi un
semplice uso contrattuale, insufficiente a derogare ad una
disposizione codicistica, ma sarebbe stato necessario un uso
normativo, ossia un comportamento tenuto dalla generalità
degli interessati i quali vi si adeguano nel convincimento di
adempiere ad un precetto di diritto.
La Corte di Cassazione, però, prima di verificare l’esistenza di tali usi, ha ritenuto necessario valutare se dovessero
essere presi in considerazione solo gli usi preesistenti all’en-
Test noi consumatori
32
Consumi & diritti
trata in vigore del Codice Civile o anche quelli formatisi
successivamente.
Pur dando atto che, in merito, la dottrina è tuttora divisa,
la Suprema corte ha ritenuto che debba essere preferibile il
primo orientamento.
Infatti, se si fa riferimento al contenuto dell’art. 1283 c.c.,
va detto che, pattuizioni contrarie al divieto di anatocismo
espresso dall’articolo, benché ripetute costantemente nel
tempo con riferimento ai mutui ordinari, sarebbero state
comunque inidonee a generare un uso normativo dopo il
1942, poiché tale uso sarebbe stato un uso contra legem
venutosi a creare dopo l’entrata in vigore del Codice e nullo
perché contrario al divieto posto da una norma di carattere
imperativo.
Se ne deduce che gli unici usi contrari che legittimamente
possono derogare al dettato dell’art. 1283 C.C. sono quelli
formatisi prima del 1942.
Tuttavia, dalle raccolte degli usi effettuate a cura delle
Camere di commercio, emerge che, prima del 1976, se era
ammesso l’anatocismo per altre operazioni bancarie, nulla si
dice in merito ai contratti di mutuo. Solo da questa data, e non
in tutte le raccolte curate da amere di commercio, è possibile
rinvenire l’uso di applicare gli interessi di mora su rate
scadute di mutui e finanziamenti. Pertanto, la circostanza che
tale uso faccia la sua comparsa nelle suddette raccolte solo
34 anni dopo l’entrata in vigore del Codice Civile, porta a
dedurre che esso non poteva esistere prima del 1942.
Queste sono state, quindi, le conclusioni della Corte:
poiché non è ammesso un uso contra legem successivo
all’entrata in vigore della norma imperativa e poiché, prima
di tale data, non esisteva un uso che permetteva di applicare
l’anatocismo sulle rate scadute di mutui ordinari, è illegittima
la clausola contrattuale, prevista in alcuni contratti di finanziamento, mediante la quale le parti convengono l’applicazione di interessi moratori anche sulla quota interessi della rata
scaduta di un mutuo.
Questa sentenza è un successo importante a vantaggio non
solo dei consumatori, ma, in generale, di tutti i mutuatari delle
banche, soprattutto se si tiene conto che il mutuo oggetto del
giudizio era un mutuo ordinario e non un mutuo fondiario, per
il quale tali principi non possono essere applicati.
Alcuni hanno sostenuto che le banche, potrebbero aggirare l’ostacolo e, sfruttando l’ipotesi sub 2) sopra indicata,
proporre una domanda giudiziale; ma tale soluzione potrebbe essere veramente difficile da gestire per gli istituiti di
credito, i quali, seppure in possesso di disponibilità economiche maggiori dei mutuatari, sembra improbabile che aprano
un contenzioso per poche rate di mutuo non pagate solo per
ottenere la capitalizzazione degli interessi che, fino ad ora,
per il mutuante, era automatica e a costo zero.
Pertanto, questa sentenza, seppure faccia stato solo tra le
parti del giudizio, oltre a costituire un precedente importante,
rappresenta una tappa fondamentale nel processo di incremento della tutela del contraente più debole, realizzato, in
questo caso, riappropriandosi di principi già presenti nel
nostro ordinamento e finora troppe volte non correttamente
interpretati o finanche ignorati.
Avv. Cristina Castiello
Test noi consumatori
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Settimanale 56/03 (Cons.&Dir.)