Volume 12, numero 1-2 Novembre 2005 Editore Publiediting Casella Postale 58 Pessano con Bornago (Milano) [email protected] telefono 02 9504830 - 346 3000047 Sommario Editoriale Rassegna clinica Direttore responsabile Mara Sala Segreteria di redazione Martina Serra Impaginazione Roberto Colombo Stampa Grafica Comense, Como Review Il dolore degli altri R. Tagliati 7 Nimesulide nel trattamento dell’artrosi M. Bianchi, M. Broggini 8 Due approcci terapeutici al dolore post-operatorio in chirurgia urologica. Aspetti farmacologici e psicologici S. Manfré, S. G. Cella, G. L. Berti, A. M. Bacchioni, P. Pettman 17 Gabapentina e pregabalina nel dolore neuropatico cronico: valutazione costo beneficio P. Marchettini, E. Mauri, C. Marangoni 22 Il paziente difficile in algologia: tipologie e modelli di gestione G. De Benedittis 29 PATHOS è una rivisa edita da Publiediting Registrata al Tribunale di Milano al numero 666 - 210905 6 Atti congressuali Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 Editoriale IL DOLORE DEGLI ALTRI Romano Tagliati Giornalista, scrittore Il solo strumento che possediamo per comprendere la sofferenza è, almeno per ora, quello di sperimentarla su noi stessi. Noi siamo in grado di percepire soltanto il nostro dolore. L’idea di curarlo parte da lì. Il dolore degli altri non si vede e non si sente e il solo modo di comprenderlo, di prenderne coscienza, è appunto quello di guardare dentro di noi. Noi siamo la prima vittima e la prima scuola, la sola che ci consenta di avvicinarci al nostro prossimo con un’informazione incontestabile in grado di farci comprendere la condizione degli altri. Da quel momento il vallo che dobbiamo superare è lo stesso che incontriamo sul percorso verso la libertà e verso la giustizia, cioè quello che ci consente di passare dal desiderio di liberarci dalle catene del nostro dolore all’idea di vincere il dolore in generale. Il dolore degli altri. Il tema è antico, come il male. La terapia ci riconduce agli sciamani, all’origine della scienza, ai filosofi dell’antica Grecia. E’ un tema filosofico: la coscienza di sé e della necessità sociale di occuparci della salute collettiva, legata alla nostra stessa sopravvivenza, e alla nostra felicità, che negli altri riflette la nostra condizione di forza e di fragilità. La novità sta casomai nel fatto che oggi, finalmente, si è compreso che il dolore degli altri è un tema profondamente sociale, che vede proprio nel reciproco soccorso la validità di una catena che se da noi parte, in qualche modo a noi ritorna. Ma è anche un tema biblico, che riporta la nostra memoria all’idea di soccorso nella parabola del buon samaritano. Sono passati duemila anni, ma nella parabola del samaritano c’è ancora una lezione fondamentale. Passa un sacerdote, guarda il malcapitato e tira diritto per la sua strada. Passa un levita, che scuote il capo e fa la stessa cosa. Il samaritano si ferma. E nel momento in cui offre il suo soccorso, compie un atto così fondamentale da offrirci ancor oggi lo spunto per una profonda riflessione che sta alla base della civiltà di tutti i tempi: vincere l’indifferenza. Con la differenza che mentre il samaritano non è in grado di versare sulle ferite del malcapitato che qualche goccia di vino e offrire la sua pietà, il suo conforto, la «scienzacoscienza» ha invece cercato nel suo connubio la forza di farsi concretamente carico del concetto generale, allargato al mondo intero di chi soffre e, nel limite imposto delle sue capacità, del livello di evoluzione raggiunto dalla ricerca, di tentare ogni strada per risolverlo. Il dolore, che per moltissimi secoli ha occupato la mente di scrittori, di filosofi, di uomini di religione, non di rado come un segno inalienabile di espiazione o di castigo, giunto a quel punto diventa un sintomo, l’allarme di un processo in corso che, una volta identificato, va al più presto eliminato. L’uomo, per quanto spaventato dall’idea dell’ignoto, forse non teme la morte che, non coincidendo con la vita cosciente, non cade sotto i nostri sensi. Ma il dolore, la sofferenza, egli li teme al punto da desiderare la morte. La scienza ha fatto passi da gigante. E’ aumentato notevolmente il numero di malattie curabili e ogni giorno s’affaccia una nuova speranza. Purtroppo il concetto di evoluzione fa ancora fatica, in certi ambienti, ad associarsi all’idea che la guarigione non debba per forza accompagnarsi alla supina sopportazione del dolore. Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 7 Rassegna clinica NIMESULIDE NEL TRATTAMENTO DELL’ARTROSI NIMESULIDE IN THE TREATMENT OF OSTEOARTHRITIS Mauro Bianchi Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia medica Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano Marco Broggini Ambulatorio di Reumatologia e Malattie Metaboliche dell’Osso Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese RIASSUNTO L’artrosi è la malattia articolare più diffusa nella popolazione mondiale. E’ responsabile di un alto costo sociale e della comparsa di dolore e disabilità grave, soprattutto negli anziani. I principali obiettivi della terapia farmacologica dell’artrosi consistono nella riduzione del dolore e dell’infiammazione, nel favorire il mantenimento di un certo grado di mobilità e nel contrastare la progressione della malattia, riducendo la degradazione della cartilagine articolare. La gravità della sintomatologia dolorosa richiede frequentemente l’impiego di antinfiammatori non steroidei (FANS). Senza questi farmaci, molti pazienti con artrosi sintomatica non potrebbero ricevere un trattamento realmente efficace. In base a un’ampia esperienza internazionale, nimesulide si configura come un FANS dotato di elevata efficacia analgesica e di altre proprietà favorevoli per la terapia di patologie articolari. Negli ultimi anni sono stati effettuati numerosi studi comparativi per valutare gli effetti di questo farmaco in pazienti con artrosi. Lo scopo di questa rassegna consiste nel considerare le principali caratteristiche dell’artrosi e nel mettere in evidenza il ruolo della nimesulide come farmaco particolarmente affidabile per il trattamento di questa patologia. Parole chiave Dolore articolare, nimesulide, FANS, artrosi 8 SUMMARY Osteoarthritis (OA) is the most common joint disorder among the world’s population. It is costly and a major cause of pain and disability, especially in the elderly. The main aims of pharmacotherapy for OA are to provide pain relief, reduce inflammation, maintain movement and to positively affect the natural course of this disease by reducing the degradation of joint cartilage. The severity of pain often prompts treatment with nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs), which are commonly used. Many patients with symptomatic OA cannot manage without them. World-wide experience with nimesulide confirms that it is a NSAID with good analgesic efficacy and a number of pharmacological properties that may result particularly favourable in the treatment of joint diseases. In the last few years several controlled studies have been done in order to investigate its effects in patients with OA. The objective of this review is to deal with some aspects concerning the main features of OA and to point out the role of nimesulide as a drug particularly effective in the treatment of this disease. Key words Joint pain, nimesulide, NSAIDs, osteoarthritis Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 INTRODUZIONE L’artrosi è una malattia che interessa una parte assai numerosa della popolazione mondiale.1-3 E’ stato recentemente riportato che la maggior parte delle persone di età superiore ai 55 anni presenta segni radiografici di artrosi.4 Per quanto riguarda il nostro Paese, è stato stimato che circa 5 milioni di persone soffrono di artrosi sintomatica (del ginocchio, della mano o dell’anca).5 Dal punto di vista eziopatogenetico il processo artrosico origina dalla perdita dell’equilibrio fisiologico tra fenomeni catabolici e riparativi a livello della cartilagine.6 In seguito, si verifica il coinvolgimento dell’osso subcondrale, della membrana sinoviale e della muscolatura, con la comparsa di un vero e proprio scompenso articolare. Di regola, al danno anatomo-funzionale, si sovrappone lo sviluppo di un fenomeno infiammatorio più o meno intenso; per questo motivo l’entità della sintomatologia non è sempre correlabile con il grado di alterazione svelato dall’esame radiologico.4,7 Per meglio comprendere il ruolo dell’infiammazione nella patogenesi dell’artrosi, è necessario tenere presente che la cartilagine articolare non è una struttura inerte irrimediabilmente destinata all’usura meccanica con il passare del tempo. E’ noto da tempo che essa non svolge una semplice funzione di rivestimento e che la sua integrità è indispensabile per ammortizzare lo stress meccanico sui capi ossei, distribuire correttamente il carico articolare e favorire lo scorrimento delle superfici articolari. Solo negli ultimi anni, però, è stato chiaramente dimostrato che si tratta di un tessuto metabolicamente attivo e soggetto a un rimodellamento continuo.8-10 All’interno della cartilagine articolare sono riconoscibili una componente cellulare rappresentata dai condrociti e una matrice extracellulare formata da collagene, acido jaluronico e proteoglicani. I condrociti hanno un ruolo fondamentale nella sintesi e nella degradazione della matrice.11 In condizioni fisiologiche, questi due processi sono in equilibrio tra loro, mentre in caso di artrosi si verifica una prevalenza dei fenomeni degradativi. Questi ultimi dipendono dalla produzione eccessiva rispetto alle reali esigenze metaboliche del tessuto cartilagineo di enzimi ad attività proteasica, quali le metalloproteasi (MMP) e le serinproteasi (Tabella 1). L’attività delle MMP è regolata in senso positivo dalle serinproteasi e in senso inibitorio da altri enzimi genericamente indicati come TIMP (Tissue Inhibitors of Metalloproteinases). Dalla degradazione cartilaginea all’infiammazione sinoviale Alla distruzione della matrice extracellulare operata dalle MMP liberate dai condrociti consegue il rilascio di frammenti cartilaginei nel liquido sinoviale. Tali detriti vengono fagocitati da cellule della sinovia, le quali reagiscono sintetizzando citochine e altre sostanze pro-infiammatorie.12 A loro volta, questi mediatori inducono l’espressione di cicloossigenasi-2 (COX-2) e di ossido nitrico sintasi (NOs) all’interno dei condrociti.13,14 E’ stato evidenziato che la PGE2 prodotta in grande quantità per l’azione enzimatica della COX-2, oltre a perpetuare la flogosi, può provocare fenomeni di apoptosi nei condrociti articolari.15 In definitiva, quindi, nella patogenesi dell’artrosi è identificabile un evento iniziale costituito dalla degradazione enzimatica della matrice cartilaginea, cui fa seguito l’attivazione di fenome- Tabella 1 Le tre grandi famiglie di enzimi prodotti dai condrociti Metalloproteasi (Collagenasi, Stromalisina o MMP-3, etc.) Serinproteasi (Attivatore urochinasico del plasminogeno, uPA) (Attivatore tissutale del plasminogeno, tPA) TIMP (Tissue Inhibitors of Metalloproteinases) Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 9 ni infiammatori che interessano la membrana sinoviale e che amplificano i processi degradativi (Figura 1). Nimesulide e dolore artrosico Sul piano clinico l’artrosi si manifesta con dolore, limitazione funzionale e deformità articolare. Il dolore è senza dubbio il sintomo principale. Nella maggior parte dei casi, esso insorge in maniera graduale, peggiora in seguito al movimento articolare e diminuisce con il riposo. Inizialmente, è più accentuato all’inizio del movimento e nelle ore serali. Con il passare del tempo e l’aggravarsi della patologia il dolore aumenta di intensità, tende a divenire persistente e a manifestarsi anche di notte. Dal punto di vista fisiopatologico, si tratta di un dolore misto e multifattoriale. Misto perché, nella maggior parte dei casi, a una componente somatica legata all’interessamento dell’osso subcondrale e della sinovia, si aggiunge un’alterazione della trasmissione nervosa periferica per un abbassamento della soglia di attivazione dei nocicettori.16 Multifattoriale perché alla genesi del dolore contribuiscono fattori di natura diversa (Tabella 2). E’ chiaro che ciascuno di essi non partecipa in modo isolato e che le alterazioni di tipo fisico favoriscono quelle biochimiche e viceversa. L’impiego di nimesulide per trattare il dolore in pazienti affetti da artrosi si fonda su solide basi sperimentali e cliniche. Due studi condotti agli inizi degli anni Novanta hanno individuato in 200 milligrammi al giorno per via orale (100 mg ogni 12 ore) la posologia ottimale in questo specifico ambito terapeutico.17,18 A questo dosaggio, nimesulide si è dimostrata 10 Figura 1 Rappresentazione schematica della patogenesi dell’artrosi CONDROCITI ATTIVATI METALLOPROTEASI DEGRADAZIONE DELLA CARTILAGINE RILASCIO DI FRAMMENTI NEL LIQUIDO SINOVIALE FAGOCITOSI DEI FRAMMENTI E FLOGOSI SINOVIALE SOSTANZE PRO-INFIAMMATORIE ATTIVAZIONE E MORTE DEI CONDROCITI Tabella 2 Fattori meccanici e chimici responsabili del dolore artrosico Fattori meccanici Fattori chimici Compressione da parte di osteofiti Mediatori liberati dai condrociti e dalla sinovia Ipertono muscolare Edema dell’osso subcondrale con ischemia secondaria Uso improprio dell’articolazione colpita Cristalli e detriti Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 Flogosi significativamente superiore al placebo nel ridurre il dolore (sia a riposo sia al movimento) e la rigidità mattutina.19 Per quanto riguarda il confronto con altre molecole della stessa classe, una meta-analisi ha evidenziato che nimesulide (200 mg/die per due settimane) è almeno altrettanto efficace di FANS quali il diclofenac, il naprossene, il ketoprofene e il piroxicam.20 In questa sede è possibile analizzare soltanto alcuni dei molti dati a nostra disposizione. Innanzitutto, vale la pena di ricordare i risultati ottenuti da Gui-Xin in 123 pazienti con artrosi del ginocchio.21 Dopo 7 e 21 giorni di trattamento nimesulide (100 mg x 2) è stata giudicata più efficace e meglio tollerata rispetto a diclofenac (50 mg x 3) sia da parte dei medici sia dai pazienti. Huskisson e coll. hanno condotto uno studio multicentrico, in doppio cieco per gruppi paralleli, su 279 pazienti con artrosi del ginocchio o dell’anca.22 L’ipotesi in base alla quale era stato allestito il protocollo sperimentale, e cioè che la somministrazione prolungata di nimesulide (200 mg/die) fosse in grado di garantire un beneficio antalgico sovrapponibile a quello prodotto dal trattamento con diclofenac a pieno dosaggio, ha trovato sicura conferma (Figura 2). Tuttavia, è importante notare che la percentuale di pazienti con effetti collaterali a carico del tratto gastroenterico è risultata significativamente inferiore nel gruppo trattato con nimesulide rispetto a quella riscontrata nel gruppo trattato con il farmaco di riferimento (36,3% e 47,2%, rispettivamente). Questi dati confermano e ampliano quanto riportato l’anno precedente da un gruppo portoghese, che aveva considerato in modo particolare la presenza di lesioni gastriche dopo un mese di terapia con nimesulide o diclofenac.23 Kriegel e coll. hanno confrontato l’efficacia e la tollerabilità di nimesulide (100 mg al mattino e alla sera) e di naprossene (250 mg al mattino e 500 mg alla sera) in uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, cui hanno preso parte 370 pazienti con artrosi del ginocchio o dell’anca.24 Le valutazioni effettuate mediante VAS, WOMAC (Western Ontario and McMaster Universities Osteoarthritis Index) e misurazione dell’indice funzionale di Lequesne a partire da due settimane dall’inizio della terapia e fino alla conclusione dei 12 mesi di trattamento documentano un analogo miglioramento sintomatologico nei due gruppi in esame. In riferi- Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 mento alla tollerabilità gastroenterica, gli autori hanno segnalato una percentuale sensibilmente inferiore di effetti collaterali in corso di trattamento con nimesulide (77 casi, pari al 47,5%) rispetto al gruppo trattato con il farmaco di confronto (96 casi, pari al 54,5%). Gli autori di uno studio controllato in doppio cieco su 49 pazienti con artrosi del ginocchio hanno rilevato alcune differenze non trascurabili dopo terapia con nimesulide (200 mg/die) e piroxicam (20 mg/die). Infatti, dopo 8 settimane dall’inizio del trattamento, la capacità funzionale è risultata migliorata nel 72,2% dei pazienti del gruppo nimesulide e nel 44,4% di quelli che avevano ricevuto il FANS di confronto. Dopo 24 settimane le percentuali sono state del 100% e del 66,7%, rispettivamente. 11 Dolori gastrici si sono manifestati in 4 pazienti trattati con nimesulide e in 12 pazienti trattati con piroxicam.25 Più recentemente, l’efficacia di nimesulide nel trattamento del dolore da artrosi del ginocchio in fase acuta è stata confrontata con quella di celecoxib in uno studio prospettico, randomizzato, in doppio cieco.26 L’intensità del dolore è stata misurata mediante scala dell’analogo visivo (VAS) in condizioni basali e dopo 15, 30, 60, 120 e 180 minuti dall’assunzione orale di una compressa di nimesulide o celecoxib. L’azione analgesica di nimesulide si è rivelata decisamente superiore a quella dell’altro FANS considerato. Inoltre, è opportuno sottolineare che soltanto nei pazienti trattati con nimesulide i valori di VAS sono risultati significativamente inferiori a quelli basali già dopo 15 e 30 minuti dall’assunzione del farmaco (Figura 3). Dopo tre ore, la percentuale di pazienti nei quali è stata riscontrata una riduzione dell’intensità del dolore uguale o superiore al 50% rispetto al basale è risultata del 66,6% per nimesulide e del 16,6% per celecoxib. Questi risultati confermano la notevole rapidità dell’azione analgesica di nimesulide già osservata nel corso degli studi pre-clinici e in altri ambiti terapeutici.27-28 Nimesulide e cartilagine articolare Le nuove scoperte sul ruolo cruciale svolto dagli enzimi prodotti dai condrociti nell’attivazione e nel controllo dei meccanismi che portano alla degradazione della cartilagine hanno indotto molti ricercatori a valutare le modificazioni di queste sostanze proteiche in seguito al trattamento con i 12 Tabella 3 Percentuale di inibizione dell’attività enzimatica dopo incubazione di collagenasi di tipo XI estratta da Clostridium hystolyticum con la stessa quantità (10 µM) di vari farmaci antinfiammatori e analgesici.31 Farmaco Inibizione (%) Nimesulide 91,9 ± 2,0 Meloxicam 40,6 ± 0,7 Piroxicam 35,0 ± 3,3 Sulindac 28,7 ± 5,2 Tolmetin 20,2 ± 2,7 Morfina 6,7 ± 6,6 Indometacina 5,6 ± 1,4 Paracetamolo 4,6 ± 5,6 I valori sono espressi come media ± D.S. Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 farmaci più utilizzati nella terapia dell’artrosi. Le prime informazioni sugli effetti di nimesulide sono state fornite da Pelletier e coll.29 Essi hanno evidenziato che, a concentrazioni terapeutiche, questo farmaco inibisce in modo significativo la sintesi dell’attivatore urochinasico (uPA) del plasminogeno in fibroblasti prelevati da pazienti con artrosi del ginocchio. Al tempo stesso, nimesulide si è dimostrata capace di stimolare la produzione di PAI-1, un potente inibitore del sistema del plasminogeno e, quindi, della sintesi di metalloproteasi (Figura 4). Studiando campioni di cartilagine umana artrosica gli stessi autori hanno osservato che nimesulide riduce la sintesi di stromalisina (MMP-3) e il rilascio di proteoglicani stimolato da interleuchina-1.30 La considerevole efficacia di questo FANS nell’inibire l’azione enzimatica della collagenasi emerge dai dati ottenuti da Barracchini e coll.31 Sotto tale profilo, nimesulide si è rivelata chiaramente come il più potente fra tutti gli antinfiammatori e gli analgesici testati durante lo studio (Tabella 3). A fronte dei risultati assai promettenti ottenuti negli studi in vitro, numerosi clinici hanno ritenuto di grande interesse valutare gli effetti di nimesulide sui livelli di metalloproteasi in soggetti artrosici. Dopo somministrazione del farmaco per tre settimane a 20 pazienti con artrosi del ginocchio o dell’anca, Kullich e coll. hanno rilevato non solo un evidente miglioramento sintomatologico (variazione da 120 a 45 del punteggio globale del WOMAC), ma anche una diminuzione statistica- Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 13 mente significativa della concentrazione plasmatica di MMP-8 e di MMP-3, due tipi di collagenasi che agiscono in maniera sequenziale nel determinare la degradazione della cartilagine articolare (Figura 5).32,33 In accordo con questi dati, un recente studio condotto su 60 pazienti con artrosi generalizzata ha documentato un significativo decremento dei livelli plasmatici di MMP-3 dopo somministrazione di nimesulide alla dose di 200 milligrammi al giorno per tre settimane. E’ interessante notare che il trattamento con ibuprofene (1200 mg/die) è risultato associato a un incremento della concentrazione di questa metalloproteasi (da 29 ± 9 a 32 ± 11 ng/ml, media ± DS).34 Prima di concludere questo capitolo è opportuno accennare a quanto riportato da un gruppo di ricercatori della Mount Sinai School of Medicine di New York. Usando come modello sperimentale una linea cellulare di condrociti esposti a un agente altamente tossico quale la staurosporina, essi hanno dimostrato che nimesulide può esercitare un’azione protettiva sull’apoptosi delle cellule presenti nella cartilagine articolare.35 CONCLUSIONI La riduzione del dolore e il conseguente miglioramento della mobilità è senza dubbio il principale obiettivo di ogni terapia dell’artrosi.36-38 Nel contempo, però, appare sempre più necessario e possibile rallentare la progressione di questa patologia. Mentre l’attuazione di programmi educazionali e riabilitativi può intervenire sulle cause di natura meccani- 14 ca, la correzione delle alterazioni biochimiche richiede un approccio farmacologico.39,40 Grazie alla sua spiccata attività analgesica, ai suoi effetti favorevoli sul metabolismo della cartilagine articolare e a una larghezza d’impiego del tutto rassicurante (oltre 450 milioni di pazienti trattati nel mondo)41 nimesulide si presenta come un FANS particolarmente affidabile per il trattamento dell’artrosi.42,45 BIBLIOGRAFIA 1) Bagge E et al. Prevalence of radiographic osteoarthritis in two elderly Europeanpopulations. Rheumatol Int 1992; 12: 33-38. 2) Oliveria SA et al. Incidence of symptomatic hand, hip, and knee osteoarthritis among patients in a health maintenance organization. Arthritis Rheum 1995; 38: 1134-1141. 3) Zhang Y et al. 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Ortopedici Traumatologi Ospedalieri d’Italia Sorrento, 25-27 maggio 2006 Informazioni: www.csrcongressi.com Rachide & Riabilitazione Multidisciplinare Secondo Evidence-Based Meeting organizzato da ISICO con la collaborazione del Gruppo di Studio della Scoliosi e delle patologie vertebrali (GSS) Assago, Milano (Jolly Hotel), 11 marzo 2006 Informazioni: Isico,Via Crivelli 20, 20122 Milano [email protected] 29°Congresso Nazionale AISD Palazzo Gran Guardia, Verona, 8-10 Giugno 2006 Informazioni: Segreteria AISD, Tel +390862433326, Fax +390862433327, [email protected] IV Riunione Dei Centri di Terapia del Dolore del Veneto Cittadella, Padova. 5-6 maggio 2006 Informazioni: Medik.net- tel 800.904.889 XVII Congresso SMART Simposio Mostra A/R e T. I. Milano Fiera, 10-12 maggio 2006 Informazioni: www.starpromotion.it XXIX Congresso Nazionale Società Italiana di Chirurgia Vertebrale - G.I.S. Padova, 9-10 giugno 2006 Informazioni: www.csrcongressi.com 55° Congresso Nazionale SIN Società Italiana di Neurochirurgia Sorrento, 24 - 27 settembre 2006 Informazioni: www.csrcongressi.com Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 15 Fotografo: Francesco Zizola CI OCCUPIAMO DI STORIE DAL FINALE GIÀ SCRITTO. E GLI CAMBIAMO IL FINALE. NUMERO VERDE 800996655 W W W. M E D I C I S E N Z A F R O N T I E R E . I T Rassegna clinica DUE APPROCCI TERAPEUTICI AL DOLORE POST-OPERATORIO IN CHIRURGIA UROLOGICA. ASPETTI FARMACOLOGICI E PSICOLOGICI COMPARISON BETWEEN TWO THERAPEUTIC APPROACHES TO POST-OPERATIVE PAIN IN UROLOGICAL SURGERY. PSYCHOLOGICAL AND PHARMACOLOGICAL ASPECTS Sergio Manfré, Silvano G. Cella Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia medica Università di Milano e Serv. Farm. Clinica, A.O. Ospedale Civile di Legnano Gianni L. Berti, Antonio M. Bacchioni U.O. di Urologia, A. O. Ospedale Civile di Legnano Paula Pettman Department of Psychology, University of Southampton, United Kingdom RIASSUNTO La terapia analgesica post-operatoria, in quanto fattore di primaria importanza per un recupero ottimale del paziente sottoposto a intervento chirurgico, costituisce un obiettivo di qualità e di risparmio per un’azienda ospedaliera. Sotto questo profilo, la disponibilità di protocolli validati in un determinato contesto clinico e l’attenzione a tutti i fattori coinvolti nella genesi del dolore assumono un’importanza fondamentale per conseguire un effettivo successo terapeutico. In questo studio è stato valutato il beneficio antalgico offerto da vari schemi di trattamento del dolore post-operatorio in 88 pazienti sottoposti a prostatectomia transuretrale (TURP). Oltre a verificare l’efficacia di approcci farmacologici differenti, si è voluto considerare l’impatto di un’accurata informazione del paziente prima dell’intervento chirurgico sulla successiva risposta alla terapia analgesica. I risultati ottenuti dimostrano la validità di uno schema terapeutico basato sull’utilizzo di un oppiaceo in infusione continua e mettono in evidenza l’opportunità di un approccio multidisciplinare al paziente con dolore post-operatorio. Parole chiave Dolore post-operatorio, FANS, informazione del paziente, morfina, TURP SUMMARY The post-operative analgesic therapy represents a target of quality and saving for a Hospital because it ensures a positive outcome for surgery-treated patients. From this point of view, it is important to use validated protocols in each specific clinical context and to pay attention to all the factors involved in the genesis of pain. In this study the analgesic benefit offered by different protocols of treatment of post-operative pain in 88 patients who underwent an operation of transurethral prostatectomy (TURP) has been evaluated. In addition to verifying the efficacy of different pharmacological therapies, we wanted to estimate the impact of providing the patients with detailed information before surgery on the following response to the analgesic therapy. Our present results demonstrate the validity of a therapeutic protocol based on the use of an opiate administered by continuous intravenous infusion and point out the importance of a multidisciplinary approach to the patient with post-operative pain. Key words Postoperative pain, NSAIDs, patient information, morphine, TURP Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 17 INTRODUZIONE Negli ultimi anni è stata sottolineata da più parti la necessità di mettere in atto processi di riorganizzazione assistenziale capaci di garantire una maggiore qualità delle cure parallelamente a una razionalizzazione della spesa e, laddove possibile, a un contenimento dei costi. In quest’ottica, l’ultimo Piano Socio-Sanitario elaborato dalla Regione Lombardia ha posto tra gli obiettivi prioritari la realizzazione del progetto ”Ospedale senza dolore”. Esso prevede l’attuazione di una strategia di miglioramento del processo assistenziale, specificamente rivolto al controllo del dolore di qualsiasi origine. Tra gli strumenti proposti per raggiungere tale obiettivo, oltre alla creazione di osservatori specifici del dolore nelle varie strutture di ricovero e cura, al coordinamento dell’azione delle diverse figure professionali interessate e alla formazione continua del personale coinvolto nella rilevazione e nel controllo del dolore nei suoi differenti aspetti, sono stati indicati la promozione di interventi idonei ad assicurare la piena disponibilità dei farmaci analgesici (con particolare riferimento agli oppiacei, secondo quanto suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’allestimento di protocolli specifici per il trattamento dei diversi tipi di dolore.1 Naturalmente, l’efficacia e la qualità dei vari approcci devono essere rigorosamente valutate e dimostrate seguendo criteri adeguati e ben definiti.2 Alla luce di tali elementi, la terapia analgesica post-operatoria, in quanto fattore di primaria importanza per un 18 recupero ottimale del paziente sottoposto a intervento chirurgico, viene oggi considerata un obiettivo di qualità e di risparmio per un’azienda ospedaliera.3-5 Come già accennato, per conseguire questi scopi è necessario approfondire la conoscenza del problema da parte del personale sanitario e favorire la creazione di nuovi rapporti di collaborazione fra diverse figure professionali. Il dolore è un’esperienza spiacevole altamente complessa, all’interno della quale svolgono un ruolo difficilmente quantificabile ma talvolta preponderante svariati fattori legati alla sfera emotiva.6 Nonostante l’esistenza di un accordo generale rispetto a questa considerazione, l’influenza di un’accurata preparazione del paziente all’intervento chirurgico mediante un intervento di tipo educativo-psicologico basato su accurate informazioni pre-operatorie sulla percezione del dolore post-operatorio e sull’efficacia di farmaci analgesici è stata valutata in modo sporadico e poco sistematico.7 Per il fatto di essere eseguito secondo una tecnica ben collaudata su pazienti dello stesso sesso e di età poco differente, la prostatectomia transuretrale (TURP) offre notevoli garanzie in termini di omogeneità. Infatti, questo tipo d’intervento provoca un dolore di intensità poco variabile tra un paziente e l’altro. Per queste ragioni, abbiamo ritenuto interessante confrontare il beneficio antalgico offerto da vari schemi di trattamento del dolore post-operatorio in pazienti sottoposti a TURP. Con questa indagine abbiamo inteso verificare sia l’efficacia di approcci farmacologici differenti sia l’impatto Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 di un’accurata informazione del paziente prima dell’intervento sull’intensità del dolore post-operatorio. Lo studio è stato svolto presso l’Unità Operativa di Urologia in collaborazione con il Servizio di Farmacologia Clinica, nell’ambito di un innovativo rapporto di convenzione tra il Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia medica dell’Università degli Studi di Milano e l’Azienda Ospedaliera “Ospedale Civile di Legnano”. PAZIENTI E METODI Hanno partecipato allo studio 88 pazienti di età compresa fra 33 e 81 anni, affetti da ipertrofia prostatica benigna e sottoposti a intervento di prostatectomia transuretrale (TURP) presso l’Unità Operativa di Urologia dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale Civile di Legnano”. In tutti i casi l’intervento chirurgico è stato effettuato in anestesia spinale subaracnoidea con bupivacaina 0,5% (15 mg). Dopo aver sottoscritto il modulo di consenso informato per la partecipazione allo studio, i pazienti sono stati suddivisi in due gruppi. I pazienti del primo gruppo (N = 46) hanno ricevuto una terapia antalgica post-operatoria basata sulla somministrazione di un farmaco antinfiammatorio non steroideo (FANS) per via intramuscolare dopo un’ora dalla conclusione dell’intervento chirurgico e, successivamente, al bisogno. I pazienti del secondo gruppo (N = 42) sono stati sottoposti a terapia antalgica postoperatoria mediante infusione endovenosa continua di morfina cloridrato (30 o 40 mg/die, per un peso cor- poreo inferiore o superiore a 70 kg, rispettivamente). Entrambi i gruppi di soggetti sono stati divisi in due ulteriori sottogruppi ai quali, al momento del ricovero o comunque prima dell’intervento chirurgico, è stato consegnato e spiegato in modo dettagliato un opuscolo informativo appositamente allestito sulle caratteristiche della patologia prostatica, il tipo di intervento che sarebbe stato eseguito e i disturbi che il paziente avrebbe potuto avvertire in seguito all’intervento stesso. In pratica, quindi, si sono configurati 4 gruppi di trattamento, come evidenziato in Tabella 1. L’intensità del dolore è stata misurata mediante una scala analogico-visiva (VAS da 0 a 10 cm) ogni 12 ore nelle prime 60 ore dopo la conclusione dell’intervento chirurgico. Oltre alla sintomatologia dolorosa, è stata valutata mediante VAS l’ansia soggettivamente avvertita da ciascun paziente. Inoltre, è stata riportata sulla cartella per la raccolta dei dati l’eventuale presenza di nausea e di vomito. Il protocollo sperimentale è stato approvato dal Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale Civile di Legnano”. I dati sono stati analizzati mediante analisi della varianza (ANOVA) a due vie, seguita da test t di Bonferroni per i confronti multipli. Valori di P inferiori o uguali a 0,05 sono stati considerati statisticamente significativi. Tabella 1 Configurazione dei 4 gruppi di trattamento (totale 88 pazienti) Gruppi Trattamento Primo gruppo FANS i.m. al bisogno Secondo gruppo FANS i.m. al bisogno + approccio psico-educativo Terzo gruppo Morfina in infusione e. v. continua Quarto gruppo Morfina in infusione e. v. continua + approccio psico-educativo RISULTATI La durata dell’intervento è risultata particolarmente omogenea: 60 minuti circa. Come prevedibile, la riduzio- Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 19 ne del dolore è apparsa significativamente superiore nel gruppo dei pazienti trattati con morfina in infusione endovenosa continua rispetto a quello trattato con FANS al bisogno (Figura 1). L’intervento psico-educativo non è apparso in grado di aumentare il beneficio antalgico indotto dalla somministrazione del farmaco oppiaceo (dati non illustrati). Di particolare interesse appare invece l’osservazione che un’accurata informazione del paziente si è rivelata in grado di migliorare in modo significativo l’azione analgesica di un FANS al bisogno. Tale effetto è apparso evidente soprattutto dopo 24 e 36 ore dalla conclusione dell’intervento chirurgico (Figura 2). E’ stato suggerito che un’adeguata informazione del paziente prima dell’atto chirurgico è in grado di ridurre lo stato d’ansia e, di conseguenza, l’intensità del dolore post-operatorio.8 I nostri dati non dimostrano una differenza statisticamente significativa fra l’ansia misurata nei diversi gruppi in esame; tuttavia, è possibile notare una netta tendenza alla diminuzione dell’ansia nei pazienti ai quali, oltre alla somministrazione di un FANS, è stato offerto il supporto di tipo psicoeducativo. Per quanto riguarda la tollerabilità, la somministrazione di morfina è risultata associata alla comparsa di nausea e vomito nel 26,2% dei casi; tale sintomatologia è comparsa in circa il 15% dei pazienti trattati con FANS. chiaramente dimostrato che un adeguato controllo del dolore post-operatorio è di fondamentale importanza per migliorare il risultato dell’atto chirurgico e per favorire una precoce riabilitazione del paziente. In questa prospettiva, occorre riconoscere la necessità di inquadrare il problema relativo al trattamento del dolore post-operatorio nell’ambito più generale della valutazione dei successi e dei fallimenti terapeutici.9 I dati emersi da questo studio mettono in luce la possibilità di trattare in modo altamente efficace il dolore post-operatorio in un determinato contesto chirurgico sia standardizzando la terapia antalgica sia associando alla somministrazione di farmaci analgesici interventi di altra natura, che tengano conto di tutti i fattori responsabili del dolore, con particola- DISCUSSIONE A prescindere dai molteplici aspetti di ordine etico, negli ultimi anni è stato 20 Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 re riferimento a quelli attinenti la sfera della psicologia. Infatti, nella pratica clinica viene spesso dimenticato che il dolore è un’esperienza sensoriale soggettiva influenzata da svariati fattori quali l’educazione, l’attenzione, l’ansia, l’umore, la cultura e l’esperienza.10 Non è quindi inutile ribadire che il dolore, qualsiasi dolore, richiede un approccio multidisciplinare da parte di figure con competenze diverse e fra loro sinergiche. Da questo punto di vista, ci sembra opportuno sottolineare la positiva esperienza realizzata presso l’Azienda “Ospedale Civile di Legnano” grazie alla fattiva collaborazione fra chirurghi dell’Unità Operativa di Urologia, psicologi e medici del Servizio di Farmacologia Clinica. Alla luce di tali elementi, l’istituzione di gruppi collaborativi per il tratta- mento del dolore post-operatorio aventi lo scopo di realizzare un’efficace terapia antalgica e di verificarne l’utilità per il paziente e per l’azienda appare sicuramente auspicabile. Per quanto riguarda qualche considerazione specifica sui risultati ottenuti, questo studio dimostra ancora una volta che l’impiego della morfina in infusione continua è assolutamente da preferire rispetto a quello di un agente al bisogno, indipendentemente dalla classe farmacologica cui esso appartiene. Il maggior impegno organizzativo richiesto dall’attuazione di protocolli di questo genere non appare particolarmente gravoso e viene ampiamente compensato dal vantaggio in termini di beneficio per il paziente. Sul versante della tollerabilità, tuttavia, la somministrazione in infusione continua non è apparsa in grado di ridurre sensibilmente la comparsa di nausea e di vomito rispetto a quanto abitualmente osservato in caso di somministrazione dell’oppiaceo per via orale. Trattandosi di un aspetto tutt’altro che trascurabile dal punto di vista clinico, una valutazione più approfondita e specifica degli effetti indesiderati legati alla somministrazione di oppiacei per via infusionale o per via orale in pazienti sottoposti a interventi di chirurgia urologica sarebbe senz’altro auspicabile. Nel concludere, è opportuno ricordare ancora una volta che questo studio è stato reso possibile dalla collaborazione, all’interno di un contesto favorevole raramente riscontrabile, fra più figure professionali dotate di competenze diverse ma impegnate a garantire la migliore assistenza al paziente con dolore post-operatorio. BIBLIOGRAFIA 1) Regione Lombardia, L’Ospedale senza dolore. In: Il Piano Socio-sanitario Regionale 20022004 (approvato con d.g.r. n. VII del 5 ottobre 2001) http://www.sanita.regione.lombardia.it/ atti/pssr/pianosociosanitario.htm, p.120, 2001. 2) Tarlov A et al. The medical outcome study. 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Gabapentina è risultata efficace anche nella cura della nevralgia posterpetica, delle sindromi dolorose croniche regionali complesse, del dolore neuropatico in corso di cancro, di sindrome da immunodeficienza acquisita e anche in forme miste di dolore neuropatico; è ben tollerata e a dosi medie il ritiro dagli studi clinici per effetti avversi equivale a quello del placebo. Recentemente è stata introdotta in Italia la pregabalina, approvata per il dolore neuropatico. Il farmaco è stato studiato nella neuropatia diabetica e nella neuropatia posterpetica. Non sono per ora disponibili studi di confronto tra i due farmaci e l’equiparazione delle dosi efficaci può essere soltanto stimata, confrontando i dati con placebo. Uno studio animale indicherebbe però che il rapporto di dose efficace tra gabapentina e pregabalina sia di circa 3 a 1. Anche ricorrendo a confronti tra le dosi di 6 a 1, gabapentina rimane nettamente più vantaggiosa, con un costo medio mensile per il SSN inferiore di circa 25 euro e continua pertanto a proporsi come farmaco di prima scelta nella cura del dolore neuropatico. Parole chiave dolore neuropatico, gabapentina, costo/efficacia, pregabalina 22 SUMMARY Pain caused by injury of the nervous system is in almost all cases a chronic condition difficult to treat. In 1998 the first clinical trial on the efficacy of gabapentin to treat pain in diabetic neuropathy appeared. Gabapentin is also effective in treating post herpetic neuralgia, chronic regional pain syndrome, neuropathic pain in cancer, in immunodeficiency syndrome, and also in mix conditions of neuropathic pain. Gabapentin is well tolerated and at medium doses the drop out from clinical trials due to side effects equates placebo. Recently pregabalin, also approved for the treatment of neuropathic pain, has been introduced on the Italian market. The drug has been studied in diabetic painful polyneuropathy and in postherpetic neuralgia. Thus far, there are no studies available comparing the two drugs and comparison on the effective doses may only be estimated, relying on the comparison with placebo. One animal study might indicate that the ratio between effective doses of intravenous gabapentin and pregabalin should be about 3 to 1. Even comparing the drug with a ratio of 6 to 1, gabapentin remains much more advantageous, with an average inferior monthly cost of about 25 euro for italian NHS and remains the gold standard and first line treatment for neuropathic pain. Key words neuropathic pain, gabapentin, cost/efficacy, pregabalin Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 INTRODUZIONE Dolore neuropatico Il dolore neuropatico è conseguente a lesione del sistema nervoso centrale o periferico.1 Le lesioni nervose periferiche colpiscono i tratti nervosi esterni al midollo, prima o dopo il ganglio (pre o post gangliari). In casi eccezionali il dolore neuropatico periferico si manifesta in forma acuta, come nella nevralgia erpetica acuta o nella compressione radicolare improvvisa dell’ernia discale all’esordio. Questi dolori sono particolarmente intensi perché coincidono con la stimolazione immediata e simultanea dell’intero tronco nervoso. La nevralgia erpetica acuta può fin dall’inizio coinvolgere selettivamente le fibre amieliniche e produrre prevalentemente una sensazione di bruciore. Nelle forme traumatiche di radicolopatia o neuropatia, la sensazione provata ricorda di solito una scossa elettrica, con combinazione di formicolii, aghi, spilli e bruciori, sintomi dell’attivazione simultanea delle fibre di tutti i calibri. Tali sintomi acuti ricordano la scossa elettrica oltre che per la qualità, anche per l’istantaneità della durata e sono spesso seguiti da una sensazione dolorosa che dura a lungo nel tempo.2 Dolore cronico L’elevata frequenza di scarica nervosa può modificare in modo permanente il comportamento neuronale, e la lesione diretta dell’assone prodotta dall’infiammazione, dall’ischemia o dal trauma può alterarne la stabilità di membrana con conseguente depolarizzazione ectopica o moltiplicazio- ne d’impulsi. Per questi motivi la maggioranza dei dolori neuropatici sono cronici; durano, di fatto, ben più di tre mesi che è il tempo minimo per definire cronico un dolore secondo la IASP (International Society for the Study of Pain) e in alcuni casi durano addirittura per tutta la vita. L’intensità di uno stimolo è conseguente al numero di fibre nervose eccitate e alla loro frequenza di scarica (reclutamenti spaziale e temporale). Nei nervi periferici le fibre sono raccolte in gruppi secondo la modalità sensoriale trasmessa e le fibre della trasmissione nocicettiva non fanno eccezione. Quando il trauma o la malattia colpiscono un tratto del sistema nervoso periferico provocando dolore, vi è un’elevata probabilità che le fibre nocicettive coinvolte siano numerose. In aggiunta, una delle caratteristiche fisiopatologiche del dolore neuropatico è l’elevata frequenza di scarica dell’attività neuronale aberrante.3 Di conseguenza, nel dolore neuropatico cronico si verifica spesso la concomitanza di elevati reclutamenti spaziali e temporali ed è per questo motivo che i dolori neuropatici tendono di norma a essere particolarmente intensi. Manifestazioni cliniche Questi dolori intensi e di lunga durata non sono quasi mai conseguenti a gravi lesioni tissutali, perché il dolore origina direttamente dalle strutture nervose e non dalle regioni anatomiche in cui è localizzato il sintomo; il dolore si associa invece a distorsioni della sensibilità con combinazione di ipersensibilità e ipoestesia nel territorio innervato dal nervo leso. La combinazione di elevata e continua intensità del dolore, l’assenza di alterazioni Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 anatomiche locali evidenti e i complessi disturbi della sensibilità costituiscono un insieme sintomatologico particolarmente disturbante, oltre che per la gravità del dolore in sé, anche per la totale estraneità della sensazione aberrante a qualunque esperienza sensoriale normalmente sperimentata. Questo stato di cose e l’apparente ineluttabilità e assenza di remissione del dolore sono all’origine dei gravi disturbi d’ansia e depressione che colpiscono oltre due terzi dei pazienti affetti da dolore neuropatico cronico.4 L’assenza di evidenti lesioni tissutali contribuisce allo scarso riconoscimento dello stato di malattia di cui soffrono questi pazienti, che spesso non sono diagnosticati accuratamente dai medici e neppure compresi dai famigliari. Per comunicare questo dolore “non visibile” i malati non di rado sviluppano disturbi motori per proteggere la parte offesa e anche per manifestare in modo visibile l’handicap di cui soffrono. Queste alterazioni del movimento, non conseguenti a danno diretto delle vie motorie, possono essere interpretate come distonie o come dimostrazioni della natura psicologica dell’intera sintomatologia. EPIDEMIOLOGIA Le neuropatie dolorose più comuni sono la nevralgia post erpetica e la polineuropatia diabetica. La nevralgia erpetica è quasi sempre clinicamente ovvia per la presenza di eruzioni cutanee, che mancano solo in casi eccezionali, ed è noto che in una percentuale di casi che aumenta con l’aumentare dell’età i dolori possono persistere 23 cronicamente anche dopo la guarigione cutanea.5 Il diabete è la più comune causa di malattia del nervo periferico nel mondo occidentale e circa il 20 per cento dei pazienti con diabete riferisce sintomi di dolore neuropatico nel corso della propria vita.6 I dolori sono di qualità e intensità che variano dalla parestesia disturbante, al crampo, al bruciore intenso e devastante; per l’elevato numero di casi osservabili anche questa neuropatia dolorosa è normalmente riconosciuta e diagnosticata. Tuttavia in alcuni casi il dolore compare prima che siano evidenti altri segni clinici di polineuropatia quali perdita dei riflessi, ipotrofia muscolare, alterazioni dell’esame elettromiografico. In questi casi, che paradossalmente sono quelli con i dolori di maggiore intensità perché la lesione colpisce primariamente le piccole fibre deputate alla trasmissione del dolore, l’origine neuropatica del dolore può essere sottostimata. La natura neuropatica del dolore è ancora poco diagnosticata in molte altre condizioni cliniche, in particolare in altre forme di neuropatia periferica infiammatoria o metabolica e nelle neuropatie iatrogene post chirurgiche e post traumatiche. TRATTAMENTO Il farmaco ideale per trattare il dolore neuropatico deve avere le seguenti caratteristiche: - deve essere efficace sull’iperattività neuronale patologica; - non deve interferire con l’attività neuronale fisiologica; - deve avere un metabolismo sempli- 24 ce e una completa eliminazione per essere tollerato nel tempo. Si riporta spesso che i comuni analgesici (paracetamolo, FANS e oppioidi) non siano efficaci sull’iperattività neuronale. In realtà anche i FANS riducono parzialmente l’iperattività neuronale, almeno nei modelli sperimentali animali,7 ma per ottenere qualche effetto clinicamente utile sono necessarie dosi tanto elevate e con assunzioni di così lunga durata da causare gravi effetti collaterali; inoltre i FANS non sono indicati nell’uso cronico ad alte dosi per il rischio di gastrolesività. Gli studi clinici sugli oppioidi nel dolore neuropatico documentano un’efficacia, ma soltanto nel dolore grave. Mancano inoltre dati sull’efficacia nel tempo che può essere ridotta per la tendenza a indurre tachifilassi.8 È noto da quasi mezzo secolo che alcuni dolori si curano meglio con antiepilettici che con analgesici. La nevralgia essenziale del trigemino è stata la prima condizione clinica trattata con un antiepilettico, la carbamazepina.9 Purtroppo la carbamazepina non è molto più efficace dell’amitriptilina e degli altri analgesici per curare gli altri tipi di dolore neuropatico.10 Per questo motivo la cura del dolore neuropatico per molti anni è rimasta approssimativa e quasi sempre affidata alla politerapia con combinazione di analgesici convenzionali, amitriptilina, carbamazepina e anche neurolettici (“cocktail litico”). Negli anni Ottanta gli studi sperimentali sui fenomeni positivi originanti dai nervi periferici rendevano sempre più evidente che dolore neuropatico e parestesie originavano dall’attività anormale delle fibre nervose periferiche. Questa attività ripetitiva Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 aveva molte analogie con l’epilessia salvo l’inesauribilità che era specifica del nervo periferico. In questo clima culturale ripresero impulso i tentativi di curare i dolori neuropatici con antiepilettici. Fortunatamente in quegli anni si erano resi disponibili antiepilettici di nuova generazione, dal profilo di tollerabilità più favorevole, che si dimostrarono più efficaci della carbamazepina per trattare questi dolori. I successi con questi farmaci erano però spesso incostanti e non riproducibili su larga scala. Nel 1998, però Backonja11 e colleghi riportarono che la gabapentina era efficace nel trattare i dolori da neuropatia diabetica in un trial controllato in doppio cieco in un gruppo numeroso di pazienti. Studi successivi confermarono l’efficacia della gabapentina nel dolore neuropatico e il farmaco divenne lo standard di riferimento terapeutico “gold standard” per questo tipo di dolore, di cui si può affermare che abbia fatto la storia. La gabapentina è risultata significativamente efficace non soltanto nei dolori neuropatici più studiati, come la neuropatia diabetica e la nevralgia posterpetica,12 ma anche in altri dolori neuropatici incluse le lesioni nervose periferiche,13 nei dolori neuropatici da cancro14 nei dolori da neuropatia da immunodeficienza acquisita15 e nelle sindromi dolorose croniche regionali complesse.16 Gabapentina è un farmaco particolarmente sicuro: in una revisione degli effetti collaterali riportati in tre diversi trial clinici controllati, la percentuale di drop out per effetti avversi era equivalente al placebo, per dosi medie di 1800 mg die.17 Tra i farmaci introdotti sul mercato sottoposti prevalentemente a studi clinici sul dolore, vi è la pregabalina, con un’indicazione al trattamento del dolore neuropatico periferico. In base ai dati delle sperimentazioni cliniche, gabapentina e pregabalina sono entrambe efficaci nella cura del dolore da neuropatia diabetica e nevralgia posterpetica.11,12,18,19 L’esperienza sul campo nell’uso clinico pluriennale ha largamente confermato l’efficacia di gabapentina per la cura di queste condizioni dolorose, e anche la sua efficacia in altre sindromi di dolore neuropatico cronico; per pregabalina non ci sono ovviamente per il momento esperienze dirette. Secondo un’analisi dell’Agenzia Italiana del Farmaco, la letteratura disponibile “non dimostra consistenti vantaggi in termini di efficacia o sicu- rezza” della pregabalina rispetto alla gabapentina.20 Nei trial clinici gabapentina è stata somministrata a dosaggi di 900-3600 mg die. Pregabalina è stata testata con risultati significativamente positivi a 150 e 300 e 600 mg/die. In uno studio aperto per quanto riguarda la dose, con possibilità di raggiungere la posologia fino a 600 mg die i pazienti hanno preferito i dosaggi più alti.21 Non esistendo un’esperienza pratica delle posologie medie di pregabalina utilizzate nella realtà clinica, qualora si volesse confrontare gabapentina e pregabalina per efficacia e costo è inevitabile limitarsi a un’analisi stimata. I confronti tra i due farmaci si affidano per il momento a modelli teorici con simulazione dei risultati, e il profilo d’efficacia della pregabalina nei con- fronti della gabapentina è per il momento soltanto ipotetico. L’unico studio di confronto tra gli effetti dei due farmaci disponibile riguarda la modificazione delle soglie meccaniche in ratti con lesione nervosa sperimentale. In questo studio gabapentina e pregabalina sono state somministrate per via endovenosa a dosi di 1030-60-100 mg/Kg e 5-10-20-50 mg/Kg. Le dosi di 10 mg/Kg di gabapentina e di 5 mg/Kg di pregabalina non inibivano le risposte d’evitamento, a 30 mg/Kg di gabapentina e 10 mg/Kg di pregabalina si registravano già effetti significativi e simili tra i due farmaci. La curva di risposta proporzionale alle dosi era uguale tra i due farmaci.22 Se si dovessero confrontare le posologie di questo modello con la realtà clinica si potrebbe Tabella 1 Pregabalina vs Gabapentina. Costi della terapia giornaliera e mensile per il SSN PREGABALINA Posologia giornaliera GABAPENTINA TDC (€) TMC (€) Posologia giornaliera Differenza TDC (€) TMC (€) € min. 75+75 2,16 64,79 min. 300x3 1,34 40,09 24,70 med. 150+150 3,22 96,69 med. med. 300x6 400x4 2,67 1,96 80,18 58,86 16,51 37,83 max 300+300 4,65 139,45 max 300x8 3,56 106,91 32,54 Legenda: TDC = costo terapia giornaliera TMC= costo terapia mensile Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 25 applicare un rapporto gabapentina/ pregabalina di 3 a 1. Anche applicando la proporzione di circa 6 a 1, basata sui dati della letteratura umana con somministrazione per via orale, si può al momento considerare che la posologia di pregabalina di 150 mg die corrisponda a 900 mg die di gabapentina, 300 mg die a 1800 mg e 600 mg die a 2400. In questo caso, i costi terapeutici per il SSN sarebbero 64,79 euro mensili verso 40,09 (delta 24,7), 96,69 verso 80,18 (delta 16,51) e 139,45 verso 106,91 (delta 32,54). La differenza di costo mensile è rilevante (Tabella 1), specialmente per quanto riguarda i dosaggi elevati che sono nell’esperienza pratica i più utilizzati. Considerando pertanto il rapporto costo beneficio, gabapentina rimane indubbiamente lo standard di riferimento e il farmaco di prima linea per la cura del dolore neuropatico. BIBLIOGRAFIA 1) Merskey H, Bogduk N. Classification of chronic pain: description of chronic pain syndromes and definition of pain terms IASP press, Seattle 1994 2) Woolf CJ, Mannion RJ. Neuropathic pain: aetiology, symptoms, mechanisms and management. Lancet 1999; 353:1959-1964. 3) Campero M, Serra J, Marchettini P, Ochoa JL. Ectopic impulse generation and autoexcitation in single myelinated afferent fibers in patients with peripheral neuropathy and positive sensory symptoms. Muscle & Nerve 1998; 21:1661-1667. 4) Meyer-Rosenberg K, Burckhardt CS, Huizar K, Kvarnstrom A, Nordfors LO and Kristofferson A. A comparison of the SF-36 and Nottingham Health Profile in patients with chronic neuropathic pain. Eur J Pain 2001; 5:379-389. 5) Edmunds WJ, Brisson M, Rose JD. The epidemiology of herpes zoster and potential costeffectiveness of vaccination in England and 26 Wales. Vaccine 2001; 19: 3076-3090. 6) Tesfaye S, Kempler P. Painful diabetic neuropathy. Diabetologia 2005; 48: 805-807. 7) Sotgiu ML, Biella G, Formaglio F, Marchettini P. Central effect of ketorolac involving NMDA receptors activity. Brain Res 1998; 813(1): 223-226. 8)Eisenberg E, McNicol ED, Carr DB. 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J Am Med Assoc 1998; 280: 1837-1842. 13) Serpell MG and the Neuropathic Pain Study Group. Gabapentin in neuropathic pain syndromes: a randomised, double-blind, placebocontrolled trial. Pain 2002; 99: 557-566. 14) Caraceni A, Zecca E, Bonezzi C, Arcuri E, Tur RY, Maltoni M, Visentin M, Gorni G, Martini C, Tirelli W, Barbieri M, De Conno F. Gabapentin for neuropathic cancer pain: a randomized controlled trial from the Gabapentin Cancer Pain Study Group. J Clin Oncol 2004; 22:2909-2917. 15) Hahn K, Arendt G, Braun JS, Von Giesen HJ, Husstedt IW, Maschke M, Straube E, Schielke E. A placebo-controlled trial of gabapentin for painful HIV-associated sensory neuropathies. J Neurol 2004; 251: 1260-1266. 16) van de Vusse AC, Stomp-van den Berg SGM, Kessels AHF, Weber WEJ. Randomised controlled trial of gabapentin in Complex Regional Pain Syndrome type 1. BMC Neurol 2004; 4: 1-9. 17) Parsons B, Tive L, Huang S. Gabapentin: a pooled analysis of adverse events from three clinical trials in patients with postherpetic neuralgia Am J Geriatr Pharmacother 2004; 2: 157-162. 18) Sabatowski R, Gàlvez R, Cherry DA, Jacquot F, Vincent E, Maisonobe P, Versavel M, the 1008-045 Study Group. Pregabalin reduces pain and improves sleep and mood disturbances in patients with post-herpetic neuralgia: results Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 of a randomised, placebo-controlled clinical trial. Pain 2004; 109: 26-35. 19) Richter RW, Portenoy R, Sharma U, Lamoreaux L, Bockbrader H, Knapp LE. Relief of painful diabetic peripheral neuropathy with pregabalin. A randomized placebo-controlled trial. J Pain 2005; 6: 253-260. 20) AIFA, Ministero della Salute. Gabapentin e pregabalin nel dolore neuropatico. Bollettino d’Informazione sui Farmaci 2005; 4: 152-159 (www.agenziafarmaco.it /bollettino_n4_2005. html). 21) Freynhagen R, Strojek K, Griesing T, Whalen E, Balkenohl M. Efficacy of pregabalin in neuropathic pain evaluated in a 12-week randomised, double blind, multicentre, placebocontrolled trial of flexible- and fixed-dose regimens. Pain 2005; 115: 254-263. 22) Wallin J, Jian-Guo C., Yakhnitsa V., Schechtmann G., Meyerson B.A., Linderoth B. Gabapentin and Pregabalin suppress tactile allodynia and potentiate spinal cord stimulation in a model of neuropathy. Eur J of Pain 6: 261-272, 2002. Gabapentin Teva RIASSUNTO DELLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO 1.DENOMINAZIONE DEL MEDICINALE Gabapentin Teva 300 mg capsule rigide. 2.COMPOSIZIONE QUALITATIVA E QUANTITATIVA Ogni capsula rigida da 300 mg contiene 300 mg di gabapentin.Per quanto riguarda gli eccipienti, v. paragrafo 6.1. 3. FORMA FARMACEUTICA Capsula rigida. Capsula rigida di gelatina con cappuccio e corpo arancioni, riempita di polvere bianca-biancastra con piccoli agglomerati. Il cappuccio e il corpo della capsula sono stampigliati ciascuno con i numeri “93” e “39”. 4.INFORMAZIONI CLINICHE 4.1 Indicazioni terapeutiche Come terapia adiuvante per l’epilessia parziale con o senza episodi di convulsioni secondarie generalizzate in pazienti refrattari agli antiepilettici standard. Trattamento sintomatico delle nevralgie posterpetiche. 4.2 Posologia e modo di somministrazione Per gli schemi posologici che non possono essere ottenuti con questi dosaggi sono disponibili sul mercato altri dosaggi appropriati. Epilessia Trattamento individuale L’intervallo della dose abituale varia da 900 a 2.400 mg/die suddivisa in 3 dosi a seconda della risposta. Il tempo massimo tra la dose serale e la seguente dose mattutina non deve superare le 12 ore, al fine di prevenire nuovi attacchi. Adulti e adolescenti Il trattamento inizia con Gabapentin capsule rigide da 300 mg. L’aggiustamento del dosaggio efficace può aumentare rapidamente ed essere ottenuto in alcuni giorni somministrando 300 mg il primo giorno, 300 mg 2 volte al giorno il secondo giorno e 300 mg 3 volte al giorno il terzo giorno usando il seguente schema posologico: Dose mattina Dose mezzogiorno Giorno 1 (300 mg/die) == == Giorno 2 (600 mg/die) 1 capsula rigida 300 mg == Giorno 3 (900 mg/die) 1 capsula rigida 300 mg 1 capsula rigida 300 mg Dose sera 1 capsula rigida 300 mg 1 capsula rigida 300 mg 1 capsula rigida 300 mg In alternativa si raccomanda una dose iniziale di 300 mg di Gabapentin 3 volte al giorno (corrispondenti a 900 mg di Gabapentin al giorno). In seguito la dose può essere aumentata fino a 1.200 mg al giorno suddivisa in 3 dosi e, se necessario, può essere effettuato un ulteriore aggiustamento usando aumenti da 300 mg al giorno. La dose massima raccomandata in pazienti adulti e adolescenti è di 2.400 mg al giorno. Se si usa una dose elevata e l’aggiustamento è rapido, aumenta il rischio di vertigine durante il periodo di aggiustamento. Non è necessario monitorare le concentrazioni plasmatiche di gabapentin per ottimizzare la terapia. Nevralgia posterpetica Nel trattamento della nevralgia posterpetica la dose di mantenimento di Gabapentin viene adattata in base all'effetto clinico e aggiustata conformemente alle istruzioni sotto riportate. Di solito l'effetto desiderato si ottiene nell’intervallo di dosaggio tra 1.800-2.400 mg/die, tuttavia in alcuni casi può essere necessario aumentare il dosaggio fino a un massimo di 3.600 mg/die. Adulti Il trattamento inizia con Gabapentin 300 mg capsule rigide. L’aggiustamento del dosaggio efficace può aumentare rapidamente ed essere ottenuto in alcuni giorni somministrando 300 mg il primo giorno, 300 mg 2 volte al giorno il secondo giorno e 300 mg 3 volte al giorno il terzo giorno usando il seguente schema posologico: Dose mattina Dose mezzogiorno Giorno 1 (300 mg/die) == == Giorno 2 (600 mg/die) 1 capsula rigida 300 mg == Dose sera 1 capsula rigida 300 mg 1 capsula rigida 300 mg Giorno 3 (900 mg/die) 1 capsula rigida 1 capsula rigida 1 capsula rigida 300 mg 300 mg 300 mg Se necessario, può essere effettuato un ulteriore aggiustamento usando aumenti da 300 mg al giorno suddivisi in tre dosi fino ad un massimo di 3.600 mg/die. L'intervallo fra la dose serale e quella mattutina seguente non deve superare le 12 ore. Non sono documentate sicurezza ed efficacia di gabapentin impiegato in questa indicazione per periodi superiori ai 5 mesi. Pazienti con funzionalità renale compromessa Nei pazienti con funzionalità renale compromessa si raccomanda la somministrazione di una dose ridotta. Si raccomanda il seguente dosaggio: Clearance della creatinina (ml/min) Dose giornaliera totale (mg)1 Pazienti in emodialisi Inizialmente viene somministrata > 80 900-3600 una dose di 300-400 mg ed in 50-79 600-1800 seguito una dose di 200-300 30-49 300-900 mg di gabapentin ogni 4 ore di 15-29 150*-600 emodialisi. Pazienti anziani (> 65 anni) Non è richiesto aggiu< 15 150*-300 stamento del dosaggio a meno 1 La dose giornaliera totale è suddivisa in 3 dosi *(300 mg a giorni alterni) che la funzionalità renale sia compromessa nel qual caso la posologia deve essere adattata come sopra descritto. Bambini (< 12 anni) Non sono state valutate efficacia e sicurezza in questo gruppo di pazienti. Gabapentin può essere somministrato indipendentemente dai pasti. La capsula deve essere ingerita intera con mezzo bicchiere di liquido. Per coloro che hanno problemi a deglutire, la capsula può essere aperta e svuotata e la polvere mischiata con qualcosa che mascheri il sapore amaro. 4.3 Controindicazioni Ipersensibilità a gabapentin (principio attivo) o a qualsiasi altro eccipiente. 4.4 Speciali avvertenze e precauzioni per l'uso Gabapentin non è di solito considerato efficace nel trattamento di episodi tipo “assenza” e può aggravare tali episodi in alcuni pazienti. Pertanto, Gabapentin deve essere usato con cautela in pazienti con attacchi misti che comprendono episodi tipo “assenza”. Il dosaggio di Gabapentin deve essere aggiustato in pazienti con funzionalità renale compromessa (v. paragrafo 4.2 Posologia e modo di somministrazione). Riduzione del dosaggio, interruzione o sostituzione di farmaci anticonvulsivanti alternativi devono essere attuate gradualmente in un periodo minimo di una settimana. Non è consigliato l’uso di Gabapentin nei bambini (al di sotto dei 12 anni), in quanto l’esperienza clinica in questo tipo di popolazione è insufficiente (v. paragrafo 4.2 Posologia e modo di somministrazione). In alcuni pazienti non rispondenti a precedenti terapie, il rischio di attacchi può essere ridotto con gabapentin. Se non si ottiene un effetto soddisfacente, gabapentin deve essere sospeso gradualmente. Un'interruzione improvvisa può, infatti, aumentare il rischio di un maggior numero di attacchi o, addirittura, di un peggioramento dello stato epilettico. Si raccomanda cautela in pazienti con anamnesi di disturbi psicotici. All’inizio della terapia con Gabapentin sono stati riportati episodi psicotici in alcuni pazienti con, e raramente senza, anamnesi di disturbi psicotici. La maggior parte di questi eventi si è risolta sospendendo Gabapentin o riducendone il dosaggio. Contiene il giallo tramonto (E110) che raramente può causare reazioni allergiche. 4.5 Interazioni con altri medicinali e altre forme di interazione L'assunzione concomitante di gabapentin e di antiacidi diminuisce la biodisponibilità di gabapentin approssimativamente del 20%. Si raccomanda di assumere gabapentin due ore dopo la somministrazione di qualsiasi antiacido. Non sono state osservate interazioni fra gabapentin e fenobarbital, fenitoina, acido valproico o carbamazepina. Gabapentin non influenza i contraccettivi a base di noretisterone e/o etinilestradiolo. Bisogna tenere in considerazione la possibilità di un mancato effetto contraccettivo in caso di assunzione contemporanea di altri farmaci antiepilettici già noti per la diminuzione dell’efficacia contraccettiva. Per la determinazione delle proteine urinarie, si raccomanda di utilizzare il metodo di precipitazione con l’acido solfosalicilico a seguito della segnalazione di falsa positività impiegando le strisce reattive Ames N-Multistick SG® quando gabapentin è stato associato ad altri farmaci anticonvulsivanti. Il cibo non influenza la farmacocinetica di gabapentin. 4.6 Gravidanza e allattamento Gravidanza Non è noto se l’impiego del farmaco sia sicuro in gravidanza, poiché l'esperienza d’uso nelle donne gravide è limitata. Studi sugli animali hanno dimostrato un rischio per il feto a seguito di somministrazione di gabapentin (v. 5.3 Dati preclinici di sicurezza). In genere, l'uso di antiepilettici in gravidanza aumenta di 23 volte il rischio di malformazioni rispetto a quanto osservato nei bambini di madri non epilettiche. È stata rilevata un’ampia gamma di malformazioni, tra cui le più comuni sono state malformazioni cardiache e scheletriche, del tratto urinario e orofacciali (labio/palatoschisi). La compromissione o l'interruzione della profilassi antiepilettica può costituire un rischio significativo per la madre e il feto, forse superiore a quello di malformazioni. Generalmente il rischio di lesioni embrio-fetali è minimo se si ricorre a monoterapia, se si opta per la dose minima possibile e se si somministra folato prima e durante la gravidanza. In gravidanza gabapentin deve essere somministrato solo se i benefici sono superiori a un possibile rischio. Allattamento Gabapentin è escreto nel latte materno e il rapporto medio latte/plasma è pari a 0,73. La dose stimata ingerita dal bambino è 1,2 mg per chilo al giorno. E’ sconosciuto l’effetto sui neonati allattati al seno e non si può comunque escluderlo. Gabapentin non deve, pertanto, essere usato durante l'allattamento: si dovrà decidere se sospendere l’allattamento al seno o il farmaco tenendo in considerazione l’importanza del farmaco per la madre. 4.7 Effetti sulla capacità di guidare veicoli e di usare macchinari Gabapentin esercita un’influenza minore o moderata sulla capacità di guidare e di usare macchinari. Agisce sul Sistema Nervoso Centrale e può provocare sonnolenza, vertigine o altri sintomi correlati e potrebbe essere potenzialmente pericoloso in pazienti impegnati nella guida di veicoli od operanti su macchinari. I pazienti devono evitare di guidare o di usare macchinari finché non sia stato accertato che la loro capacità di eseguire tali attività non sia influenzata dal farmaco. 4.8 Effetti indesiderati Effetti indesiderati, specialmente ridotta vigilanza, difficoltà di concentrazione e atassia sono comuni durante il trattamento con antiepilettici. In associazione con altri antiepilettici sono stati riferiti effetti indesiderati approssimativamente nel 50% dei pazienti. Gli effetti indesiderati sono in genere descritti da lievi a moderati e diminuiscono dopo 2 settimane. Comuni (>1/100, < 1/10) Disturbi generali e condizioni del sito di somministrazione: sonnolenza, torpore, affaticamento, vertigini, cefalea, insonnia, aumento di peso, anoressia, edema periferico o generalizzato e aumento dell’appetito. Disturbi del Sistema Nervoso: atassia, nistagmo, tremore, amnesia, disturbi dell’eloquio, parestesia, spasmi muscolari, riflessi assenti, rallentati o amplificati, pensieri abnormi. Disturbi del Sistema Gastroenterico: dispepsia, nausea e/o vomito, diarrea, secchezza delle fauci, costipazione, dolore addominale, anomalie dentarie, gengiviti. Disturbi psichiatrici: nervosismo, depressione, disorientamento, labilità emotiva. Disturbi della vista: diplopia, disturbi visivi. Disturbi muscolo-scheletrici, disturbi del tessuto connettivo e osseo: artralgia, mialgia, lombalgia, fratture. Sangue e disturbi del sistema linfatico: vasodilatazione, ipertensione. Disturbi al torace, al mediastino e alla respirazione: riniti, faringiti, tosse. Disturbi renali e urinari: incontinenza. Disturbi del sistema riproduttivo e della ghiandola mammaria: impotenza. Non comuni (>1/1000, <1/100) Disturbi generali e condizioni del sito di somministrazione: edema periferico. Sangue e disturbi del sistema linfatico: leucopenia. Cute e disturbi dei tessuti sottocutanei: prurito. Disturbi del sistema nervoso: confusione, ipoestesia. Disturbi psichiatrici: depressione, psicosi/allucinazioni, ostilità. Sangue e disturbi del sistema linfatico: fluttuazione del glucosio nel sangue. Disturbi al torace, al mediastino e alla respirazione: dispnea. Molto rari (<1/10.000) Reazioni allergiche (sindrome di Stevens-Johnson ed eritema multiforme). In pazienti in trattamento con Gabapentin sono stati riportati casi di pancreatite emorragica, ipotensione, bradicardia, sincope, fibrillazione atriale, anomalie elettrocardiografiche e rash maculopapulosi. Manifestioni cliniche nei tests di laboratorio In associazione con altri farmaci antiepilettici, sono stati riportati livelli elevati di enzimi epatici. In alcuni pazienti è stato osservato un possibile aumento dose-dipendente nella frequenza degli attacchi epilettici. Sono stati inoltre segnalati attacchi epilettici ripetuti dose-correlati di tipo non comune. 4.9 Sovradosaggio Non è stata rilevata tossicità acuta letale con sovradosaggi di gabapentin fino a 49 g al giorno. I sintomi del sovradosaggio sono vertigini, diplopia, eloquio confuso, sonnolenza, apatia e diarrea lieve. Tutti i pazienti si sono rimessi completamente con le opportune terapie di sostegno. Gabapentin può essere rimosso dal plasma tramite emodialisi. Ma questo, come dimostrato dall’esperienza, generalmente non è necessario. 5. PROPRIETÀ FARMACOLOGICHE 5.1 Proprietà farmacodinamiche Categoria farmacoterapeutica: antiepilettici. Codice ATC: N03AX12. Il principio attivo gabapentin è un acido amminometilcicloesano-acetico idrosolubile. Meccanismo d'azione: Non completamente noto. Gabapentin è strutturalmente correlato al neurotrasmettitore GABA (acido gamma-aminobutirico) ma il suo meccanismo d'azione differisce da quello di altre sostanze che interagiscono sulla sinapsi GABA. Alcuni studi in-vitro con gabapentin sul tessuto cerebrale di ratto hanno indicato che un nuovo sito di legame peptidico può essere associato agli effetti antiepilettici. A concentrazioni terapeutiche gabapentin non si lega ad altri farmaci noti o a recettori dei neurotrasmettitori cerebrali, quali benzodiazepina, GABAA, GABAB, glutammato, glicina o recettori dell’N-metil-d-aspartato (NMDA). Gabapentin non interagisce con i canali di sodio in vitro, ed in questo si differenzia dalla fenitoina e dalla carbamazepina. Gabapentin provoca una leggera riduzione nel rilascio dei neuro-trasmettitori monoamminici in vitro. Studi nei ratti dimostrano che gabapentin aumenta la sintesi del GABA in diverse aree cerebrali. 5.2 Proprietà farmacocinetiche Assorbimento La biodisponibilità di gabapentin dipende dalla dose ed è approssimativamente del 60% in seguito ad una dose di 300 mg e del 42% dopo 800 mg. Questo perché l’assorbimento è dosedipendente. La biodisponibilità non è influenzata dall’ingestione concomitante di cibo. La farmacocinetica di gabapentin non è influenzata da dosi ripetute e le concentrazioni plasmatiche allo steady-state possono essere calcolate sulla base di una dose singola. Alle dosi raccomandate la concentrazione plasmatici massima (4-5,5 µg /ml) viene raggiunta dopo 2-3 ore. Distribuzione Il legame di gabapentin con le proteine plasmatiche è < 3% e il volume iniziale di distribuzione è 58 ± 11 litri. In pazienti epilettici la concentrazione di gabapentin nel Sistema Nervoso Centrale è di circa il 20% della corrispondente concentrazione plasmatica minima allo steady-state. Biotrasformazione Gabapentin non è metabolizzato nell’uomo e non induce gli enzimi ossidasi epatici a funzione mista responsabili del metabolismo. Eliminazione Gabapentin viene eliminato inalterato per via renale. Non sono stati individuati metaboliti. L'emivita di eliminazione è dose-indipensente e varia da 5 a 7 ore. L’eliminazione di gabapentin è descritta nel modo migliore mediante farmacocinetica lineare. Nei pazienti anziani e nei soggetti con insufficienza renale il tasso di eliminazione diminuisce in maniera direttamente proporzionale alla clearance della creatinina. Gabapentin può essere rimosso dal plasma mediante emodialisi (v. 4.2 Posologia e modo di somministrazione e 4.9 Sovradosaggio). 5.3 Dati preclinici di sicurezza Gabapentin non è potenzialmente genotossico. Inoltre, non si è rivelato mutageno nei test standard in-vitro su batteri o su cellule di mammiferi. Gabapentin non ha causato aberrazioni cromosomiche strutturali nelle cellule di mammiferi in-vitro o in-vivo e non ha determinato la formazione di micronuclei nel midollo osseo di criceti. Gabapentin è stato somministrato mediante dieta a topi a dosaggi di 200, 600 e 2.000 mg/kg/die e a ratti a dosaggi di 250, 1.000 e 2.000 mg/kg/die per due anni. Un aumento statisticamente significativo dell’incidenza di tumori pancreatici a cellule acinose è stato riscontrato solo nei ratti maschi alla dose più elevata. La massima concentrazione plasmatica del farmaco e l’area sotto la curva nei ratti trattati con 2.000 mg/kg è 10 volte più elevata della concentrazione in individui trattati con 3.600 mg/die. I tumori pancreatici a cellule acinose nel ratto maschio hanno un basso grado di malignità, non hanno influenzato la sopravvivenza, non hanno dato luogo a metastasi o a invasione dei tessuti circostanti e risultavano simili a quelli osservati negli animali di controllo. La rilevanza di questi tumori pancreatici a cellule acinose nel ratto maschio in relazione al rischio cancerogeno nell’uomo è di significato incerto. Studi di tossicità riproduttiva condotti sugli animali (topi, ratti, conigli) hanno rivelato fetotossicità, come idrouretere/idronefrosi reversibile e diminuzione dell’ossificazione nella progenie dopo l'esposizione in utero. L'idrouretere/idronefrosi è stato riscontrato anche dopo esposizione peri- e postnatale. 6. INFORMAZIONI FARMACEUTICHE 6.1 Elenco degli eccipienti Contenuto della capsula - Talco - Amido pregelatinizzato (mais) - Involucro della capsula - Gelatina - Ossido di ferro nero (E172) - Ossido di ferro rosso (E172) - Ossido di ferro giallo (E172) - Titanio diossido (E171) - Inchiostro di stampa - Gommalacca - Ossido di ferro nero (E172) - Lecitina di soia - Agente antischiuma 6.2 Incompatibilità Non pertinente. 6.3 Periodo di validità 2 anni 6.4 Speciali precauzioni per la conservazione Non conservare a temperatura superiore ai 25° C. Conservare nel contenitore originale. Tenere il blister nell’imballaggio esterno. 6.5 Natura e contenuto del contenitore Blister di PVC/PVdC/Alluminio trasparente o bianco-opaco. Astucci: 20, 28, 30, 50, 90, 100, 500 (10 x 50) o 1000 (20 x 50) capsule rigide. E’ possibile che non tutte le confezioni siano commercializzate. 6.6 Istruzioni per l’impiego e la manipolazione Nessuna istruzione particolare. 7.TITOLARE DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO Teva Pharma Italia S.r.l. - V.le G. Richard, 7 - 20143 Milano 8. NUMERO DELL'AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO 50 capsule da 300 mg – Codice A.I.C. n. 036001170/MG 9. DATA DI PRIMA AUTORIZZAZIONE/RINNOVO DELL'AUTORIZZAZIONE maggio 2004 10. DATA DI REVISIONE (PARZIALE) DEL TESTO giugno 2004 Io mi chiamo per sempre presente Cesarina. E allora? Se tu potessi per un attimo sentirti come me, capiresti il bello della vita. www.eallora.org Atti congressuali IL PAZIENTE DIFFICILE IN ALGOLOGIA TIPOLOGIE E MODELLI DI GESTIONE THE DIFFICULT PATIENTS IN PAIN THERAPY: HOW TO RECOGNIZE AND MANAGE THEM Giuseppe De Benedittis Centro per lo Studio e la Terapia del Dolore (CSTD) Università di Milano, U. O. Neurochirurgia, Ospedale Maggiore Policlinico, IRCCS RIASSUNTO I pazienti difficili rappresentano una minoranza agguerrita con insaziabile dipendenza/aggressività che evoca emozioni negative nel personale medico e paramedico. Queste difficili relazioni medico-paziente interferiscono e talora impediscono un corretto ed efficace trattamento medico. I pazienti difficili si lamentano di sintomi/segni apparentemente inspiegabili o rifiutano di aderire al trattamento. Spesso si tratta di sintomi fisici e il dolore è il sintomo di presentazione primario, anche se il disturbo di base è spesso psichiatrico. La prevalenza dei pazienti difficili nella popolazione medica generale è stimata intorno al 15-30% (una visita medica su sei). Questa minoranza richiede un impegno temporale, umano e professionale che drena il 50% delle risorse mediche. L’individuazione di questi pazienti può avvenire sul piano fenomenologico, psicopatologico e psicodinamico. Non esistono sindromi dolorose croniche caratterizzate da pazienti difficili, ma talune popolazioni speciali di pazienti (e.g., failed back syndrome, algie facciali atipiche) presentano un maggior rischio di pazienti difficili. La gestione di questi è sempre problematica, talora impossibile. Il miglior approccio rimane, laddove praticabile, quello empatico, tuttavia corretto a ridimensionare aspettative e motivazioni e a ripristinare confini di ruolo, impegno e di obiettivi clinici, spesso violati o distorti. Parole chiave Paziente difficile, algologia, tipologie, modelli gestionali SUMMARY When physicians experience negative reactions to patients, they often perceive the patients as “difficult”. Such patients make up 15% to 30% of primary care practice populations. They are those whom most physicians dread. The dependency of difficult patients heavily influences the doctor-patient relationship and the outcome of the treatment. These patients often present with physical symptoms that could not be medically explained. Pain is the most frequent complaint, though unrecognized psychopatological disorders are more prevalent among these patients. Conversely, difficult patients are rather common in chronic pain syndromes, particularly in back pain, failed back syndrome and atypical facial pain. Diagnosis can be achieved on phenomenological, psychopathological and psychodynamic grounds. The management of difficult patients can prove to be a tough task for both physicians and nurses, as they are time-consuming, draining the emotional resources of the therapist, and evoke feelings of aversion and frustration. Appropriate use of patient-doctor communication skills and an effort to improve relations with the patient through empathy, tolerance and non-judgemental listening are suggested as ways of transform a difficult encounter into a workable patient-doctor relationship. Key Words Difficult patient, pain therapy, stereotypes, management Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 29 INTRODUZIONE Il dolore e la sofferenza sono una moneta di conio universale e, come tali, evocano generalmente empatia e solidarietà nel medico e in tutte le figure professionali deputate all’assistenza del paziente. E tuttavia – perché non confessarlo ? – vi è una minoranza agguerrita e rumorosa di pazienti con insaziabile dipendenza/aggressività che evoca emozioni negative e comportamenti inappropriati nel personale medico e paramedico, i quali, da un lato interferiscono pesantemente e talora impediscono un corretto ed efficace trattamento medico, dall’altro generano frustrazione, risentimento, impotenza e avversione nel medico. Sono i cosiddetti “pazienti difficili”. Le reazioni emotive del medico nei confronti di un paziente sono state definite da Freud “controtransfert”, riferito ai conflitti inconsci dell’analista. Successivamente, tale termine ha esteso il suo significato a includere emozioni e sentimenti negativi, inconsci e consci, nei confronti del paziente.1 Molti medici dunque li paventano: i pazienti difficili (PD) si lamentano di sintomi/segni apparentemente inspiegabili o rifiutano di aderire al trattamento. Spesso si tratta di pazienti con sintomi fisici e il dolore è il sintomo di presentazione primario, ma il loro disturbo di base è spesso psichiatrico. Questo genere di pazienti presenta notevoli problemi di gestione clinica, oltre a determinare costi sociosanitari elevati a causa delle numerose visite specialistiche ed esami effettuati, non di rado superflui. Un problema ulteriore è dato dal fatto che essi sfuggono alla classificazione psichiatrica poiché presentano segni subclinici che 30 non soddisfano i criteri DSM-IV di specifici disturbi psichiatrici.2 Questi pazienti sono esistiti da sempre, ma l’avvento dei nuovi sistemi di assistenza manageriale con le conseguenti limitazioni temporali e d’impegno, e l’inevitabile processo di burocratizzazione del rapporto medico-paziente, esacerbano la situazione. Se la nostra società di fastfood diventa una fast-care society, non c’è dubbio che ciò non può che andare a detrimento di una sostenibile e funzionale relazione medico-paziente, lasciando frustrati medici e pazienti.3 Denominazioni. I medici inglesi li chiamano heart-sink patients, perché quando li visitano hanno un tuffo al cuore.4 Negli USA numerose sono le denominazioni adottate: crocks (rottami)5, problem6 o hateful (odiosi)7, anche se la denominazione difficult, scevra da valutazioni di giudizio ed emotive, sembra essere quella che ha riscosso maggiore fortuna nella letteratura anglosassone. Prevalenza. Non vi sono dati epidemiologici certi, ma le prevalenza dei PD nella popolazione medica generale è variamente stimata dal 15% al 47%.3,8,9 Questa minoranza insaziabile e rumorosa richiede un impegno temporale, umano e professionale che drena il 50% delle risorse mediche!10 Se consideriamo la principale interazione medico-paziente, una visita medica su sei viene percepita come “difficile” dal medico.11 Su 550 pazienti afferiti consecutivamente al Centro per lo Studio e la Terapia del Dolore dell’Università di Milano, l’incidenza dei PD è stata del 16% (n=88). Esiste il paziente difficile? Nonostante la maggioranza degli studi pubblicati abbia affrontato il problema Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 solo dal punto di vista del medico che percepisce il paziente come difficile, ignorando il pur cruciale ruolo del medico, talora frustrato e controaggressivo, taluni studi più recenti enfatizzano il ruolo dell’interazione medicopaziente (medical encounters).11-14 Forse non esistono soltanto pazienti difficili ma “diadi difficili” (difficult dyads).8,15-18 Una difficile relazione medico-paziente può influire sull’outcome del trattamento. Questa può dipendere dalle caratteristiche del paziente, da quelle del medico e di entrambi. Vi sono “pazienti difficili” che sono problematici per tutti i medici e “dottori difficili” che sono problematici per tutti pazienti (non occasionalmente). In uno studio sul controllo di relazione per il trattamento del dolore12, è stato rilevato come circa la metà delle transazioni paziente-medico siano caratterizzate dalla competizione per il controllo della relazione. Se il ruolo del paziente e del medico/ paramedico sono stati più o meno studiati nella problematica del “paziente difficile”, nulla è stato scritto del pur importante ruolo del milieu familiare, delle figure significative per il paziente, che non di rado interagiscono negativamente nella relazione medicopaziente, contribuendo, talora in maniera determinante, all’attivazione e/o esasperazione di dinamiche interpersonali difficili e problematiche. Chi è il paziente difficile? E’ stato suggerito che la psicopatologia contribuisca significativamente al PD. Ciò è particolarmente importante perché la maggior parte dei contatti sanitari dei pazienti avviene in ambito medico piuttosto che psichiatrico. I principali approcci nosografici e diagnostici al PD sono: (a) fenomenologico; (b) psicopatologico; (c) psicodinamico. Fenomenologia del PD. La letteratura consente di stilare un ritratto del paziente difficile (PD).3,4,8,9,11,14,19-22 (a) sono spesso single o comunque individui con diminuito sostegno sociale e/o familiare; (b) lamentano segni/sintomi multipli (> 5), spesso fisici, vaghi, complessi, ambigui, di maggiore severità, che comportano un elevato grado di “incertezza medica” o sono francamente inspiegabili (“somatizzazione”), altamente correlati al numero di problematiche psichiatriche lungo il corso dellla loro vita; (c) mancanza di controllo sulla loro malattia; (d) sickness prone complainer con bassa soglia per lamentele; (e) richiesta abnorme e reiterata di assistenza medica; (f) reiezione del modello medico proposto con scarsa aderenza (compliance) ai trattamenti proposti; (g) maggiore insoddisfazione per le cure ricevute; (h) tratti ossessivo-compulsivi (da cui la necessità compulsiva di avere un controllo sulla salute fisica e mentale) con “difficoltà interpersonali”, associate a uno stile comportamentale “abrasivo”; (i) nei confronti del medico, insaziabile nelle richieste, time consuming, frustrante e irritante, talora verbalmente abusivo e aggressivo; (j) manipolativo e bugiardo, non di rado violatore di confini (boundary-buster) e incline ai conflitti interpersonali (conflict-prone patient); (k) presenza di vantaggi secondari e pending litigation; (l) marginalità produttiva. Nell’ambito dei sintomi fisici, il dolore è il sintomo di presentazione primario.2 I sintomi fisici possono contribuire alla difficoltà disfunzionale del paziente soprattutto per la loro associazione con disturbi mentali, agendo fondamentalmente in due modi: (a) creando nel paziente eccessive e dereistiche aspettative nel trattamento; (b) conferendo al paziente il “ruolo di ammalato”.20 Psicopatologia del PD. Sul piano psicopatologico, i PD sono più frequentemente associati a: (a) disturbi somatoformi ; (b) ipocondria ; (c) disturbi d’ansia e del tono umorale; (d) disturbi di personalità, spesso in termini di disturbo dipendente/aggressivo di personalità, caratterizzato da eccessivo bisogno di assistenza medica e aggressività agita sotto forma di passività.2,8,9,16,20 Conroy et al.20 hanno rilevato in un studio su PD una preoccupazione elevata per la propria salute in assenza di patologia o comunque sproporzionata rispetto al livello obiettivo di patologia riscontrata. I livelli di ansia elevata associata alla salute risultavano anche correlati al numero di visite specialistiche ed al livello di esami praticati. In una serie di studi su psicopatologia e relazioni difficili medico-paziente, Hahn et al.,8,16 hanno utilizzato il Difficult Doctor-Patient Relationship Questionnaire (DDPRQ), classificando il 10-20% dei pazienti incontrati come ‘difficili’. Questi pazienti sono caratterizzati da sintomi psicosomatici, da almeno un disturbo di personalità lieve e da più di una caratteristica. Caratteristiche demografiche del paziente, del medico e della diagnosi non sono associate ai punteggi elevati, anche se le donne tendono ad avere punteggi più alti. Il fatto che la visita medica possa essere percepita come difficile indipendentemente dal provider medico suggerisce che la difficile relazione medicopaziente sia prevalentemente secondaria alle difficoltà del paziente e non a Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 quelle del medico. Schafer & Nowlis,9 infine, hanno rilevato come i PD abbiano maggiore probabilità di avere disturbi di personalità, prevalentemente in termini di disturbo dipendente di personalità; inoltre, dato inquietante, nessuno dei medici partecipanti allo studio aveva realizzato tale condizione. In ambito algologico, è stato osservato come alcuni disturbi di personalità siano relativamente comuni nelle popolazioni di pazienti con dolore cronico non-oncologico e significativamente più frequenti rispetto alla popolazione medica generale o addirittura a popolazioni psichiatriche.23,24 Queste condizioni misconosciute possono favorire l’insorgenza di interazioni medico-paziente difficili in setting clinici non sufficientemente preparati per individuarle e affrontarle. Psicodinamica del paziente difficile. Benché la classica descrizione di Groves7 dei “pazienti odiosi” (hateful patients) si basi su tipologie di personalità, essa fa riferimento a un modello psicodinamico controtransferale. Groves individua quattro stereotipi di PD, dei quali fornisce criteri d’individuazione e modelli di gestione: (a) il dipendente scalatore (dependent clinger); (b) l’esigente insoddisfatto (entitled demander); (c) il manipolatore auto-reiettivo (manipulator); (d) il negatore auto-distruttivo (denier). Il dipendente scalatore. Gli arrampicatori dipendenti scalano da richieste moderate e ragionevoli di rassicurazione a richieste ingravescenti, reiterate di spiegazioni, farmaci, affetti e ogni forma immaginabile di attenzione. Quale che sia il loro problema (nessuna malattia evidenziabile o grave malattia) la caratteristica principale di questi 31 pazienti è la loro auto-percezione di bisogni inesausti e la percezione del medico come fonte inesauribile e resiliente di assistenza. Sul piano controtransferale, il medico diventa una madre inesauribile, il paziente un figlio inatteso, indesiderato e non amato. L’esigente insoddisfatto. Gli esigenti assomigliano agli arrampicatori nella profondità inesausta dei loro bisogni, ma differiscono perché, piuttosto che utilizzare un’inconscia seduzione e petulanza, usano l’ intimidazione, la squalifica e la colpevolizzazione, così da porre il medico nel ruolo di inesauribile provider di assistenza. Essi appaiono meno naive degli arrampicatori, poiché utilizzano la punizione come minaccia (mancato pagamento degli onorari in ambito privato, esposti/denunce in ambito pubblico/mediatico, minaccia di azioni legali immotivate per malpractice). Il manipolatore. Gli aiuto-reiettivi o “crocks” (rottami) sono comuni a ogni medico. Come gli arrampicatori e gli esigenti sembrano disporre di un bisogno infinito di gratificazioni emotive. A differenza dei dipendenti arrampicatori, non sono seduttivi e querimoniosi; a differenza degli esigenti non sono apertamente ostili. Anzi, sembrano aderire alle prescrizioni terapeutiche, ma ritornano sempre insoddisfatti del risultato raggiunto. Il loro pessimismo e catastrofismo sembrano essere direttamente proporzionali agli sforzi e all’entusiasmo del medico. Quando un dolore recede, subito un altro prende il suo posto. Spesso inseguono “vantaggi secondari” (come ad es., in talune failed back syndrome o nelle sindromi risarcitive). La dipendenza patologica si manifesta, al suo estremo, come “capacità di 32 manipolazione” (manipulativess), ovvero un intenso, coperto, contraddittorio e auto-distruttivo tentativo di soddisfare i propri bisogni. E’ la manifestazione comportamentale del bisogno del paziente di essere dipendente e al tempo stesso distante dalla fonte del proprio sostegno emozionale (dilemma bisogno/paura). Negatore auto-distruttivo. I negatori auto-distruttivi esibiscono un comportamento inconsciamente auto-distruttivo, come il paziente che continua a bere pur avendo una epatopatia grave. Esistono dei “negatori maggiori” (major deniers) che negano senza alcun intento auto-distruttivo. Questi pazienti tendono a essere workaholics e socialmente impegnati, privilegiano la loro indipendenza e negano la malattia e le restrizioni imposte dal medico. Il “negatore auto-distruttivo” (selfdestructive denier) è tutta un’altra storia. Questi pazienti non sono indipendenti e usano il meccanismo di difesa della negazione nel tentativo di sopravvivere. Piuttosto sono di base profondamente dipendenti e hanno rinunciato alla speranza di vedere soddisfatti i propri bisogni. Sembrano gloriarsi dello loro stessa distruzione e trovano il massimo piacere nello sconfiggere furiosamente i tentativi del medico di tutelare le loro vite e la loro salute. Possono rappresentare una forma cronica di comportamento suicidario, che li può portare a lasciarsi morire. Storie di pazienti difficili in algologia 1 - Il seduttore. Una donna di 53 anni, con anamnesi di depressioni ricorrenti e di algie diffuse, viene plurioperata per lombosciatalgia secondaria a supposta patologia discale, senza alcun beneficio Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 antalgico (failed back syndrome). Nonostante i ripetuti insuccessi della chirurgia del rachide e di altre, infinite terapie praticate (farmacologiche, fisiatriche, omeopatia, pranoterapia), la paziente insiste nel richiedere un ennesimo intervento chirurgico, a dispetto dei suggerimenti contrari del terapista del dolore che, comunque, viene ripetutamente e insistentemente investito, con un misto di petulanza e di seduzione, di richieste di nuove visite e trattamenti. 2 - Il giocatore. Dopo un’estrazione dentaria complessa e indaginosa, una giovane donna di 26 anni, con anamnesi di depressione cronica e di cefalea nel recente passato, lamenta algie orofacciali persistenti e refrattarie al trattamento medico. Nonostante altre consulenze specialistiche abbiano escluso una correlazione diretta tra intervento odontoiatrico e sequele algologiche, la paziente cita in giudizio il dentista ritenuto responsabile della propria condizione. Parallelamente chiede una consulenza algologica per risolvere il quadro algico, giudicato intollerabile e invalidante. Ma di fronte all’alternativa di scegliere tra trattamento antalgico e risoluzione della pending litigation, la paziente opta senza esitazione per questa seconda ipotesi, chiedendo al terapista del dolore una relazione medica da poter utilizzare in sede legale contro il sanitario da lei denunciato. 3 - Manipolazioni familiari. Una donna di 41 anni, HIV sieropositiva, si presenta per un herpes zoster acuto toracico molto esteso e non responsivo ai trattamenti antivirali. La paziente è completamente subornata alla madre, alcolista cronica, violenta e possessiva. Nonostante un buon esito antalgico di un trattamento topico e le raccoman- dazioni di iniziare al più presto un appropriato ciclo di trattamento che, in aggiunta al controllo del dolore, riduca il rischio elevato (nella sua condizione) di evoluzione in nevralgia posterpetica, la paziente, pur dichiarandosi aderente al trattamento, adduce la scarsa collaborazione della madre alla terapia prescritta come giustificazione per l’interruzione del trattamento. Contemporaneamente persegue trattamenti “dolci” (omeopatia, agopuntura), che tuttavia non controllano il dolore e non impediscono la temuta evoluzione in nevralgia posterpetica. 4 - Una coppia autodistruttiva. Un odontoiatra di 43 anni si presenta con una storia di algie craniofacciali in Ia branca trigeminale e una TAC cerebrale sospetta per una lesione intracranica. Il terapeuta suggerisce al paziente una risonanza magnetica encefalica, che il paziente rifiuta di fare, non convinto dell’ipotesi diagnostica e della competenza del medico. Qualche giorno dopo, il terapeuta viene telefonicamente apostrofato brutalmente dalla moglie del paziente (non presente alla visita), la quale lo accusa di aver terrorizzato il marito con una diagnosi tanto grave quanto infondata. Tre mesi dopo il paziente comincia a lamentare deficit neurologici multipli e ingravescenti, che impongono il ricovero. La diagnosi è di neoplasia del tronco encefalico, giudicata a quello stadio inoperabile. Il paziente muore due mesi dopo. Come gestire il paziente difficile? Non esiste area della pratica medica immune da pazienti difficili. Tuttavia non v’è dubbio che la psichiatria e talune malattie croniche invalidanti comportano il maggior rischio di pazienti difficili. Nell’ambito delle affezioni croniche, il dolore ha un ruolo privilegiato. Non esistono sindromi dolorose croniche caratterizzate da pazienti difficili, ma non v’è dubbio che talune popolazioni speciali di pazienti (e.g., failed back syndrome, algie facciali atipiche) presentino un maggior rischio di PD. La gestione di questi pazienti, che spesso mettono a dura prova le risorse professionali, temporali ed emozionali del medico e del personale paramedico, è, come si può facilmente intuire, problematica. I modelli gestionali dipendono dalla rapida e corretta individuazione della tipologia di PD, dalle specifiche reazioni emotive e comportamentali negative che elicitano nel medico e dalla capacità di quest’ultimo di opporre appropriati modelli controtransferali. Sono infine rilevanti, ove presenti, problematiche medico-legali (compensation, pending litigation). Il tempestivo riconoscimento del PD e la rapida adozione di modelli gestionali adeguati possono prevenire o addomesticare non soltanto interazioni medico-paziente difficili, che finiscono spesso col penalizzare l’outcome del trattamento, ma anche errori di diagnosi e di trattamento, contribuendo così a ridurre i notevoli costi sociosanitari. Non esiste un modello gestionale unico per tutti i PD, ma alcuni criteri possono guidare utilmente il comportamento del medico:10,13-15,19,25,26 la più efficace gestione di questi pazienti è l’empatia. L’abilità di comunicare empaticamente rende gli incontri meno ostici e favorisce l’alleanza terapeutica. Importanti sono quindi i controlli controtransferali, anche se ciò può risultare problematico e talora impossibile. Ascoltare il paziente e assumere un atteggiamento non giudica- Volume 12 PATHOS Nro 1-2, 2005 torio (non-judgemental). Rispettare i sistemi di convinzione del paziente, ma tentare di correggere, con fermezza e garbo, atteggiamenti oppositivi e pregiudizi che ostacolino l’outcome terapeutico. Tentare di comprendere le motivazioni (talora inconsciamente difensive) e gli aspetti simbolici dell’interazione difficile e del comportamento disfunzionale del paziente: segni/ sintomi inspiegabili sul piano medico, emozioni forti (paura, rabbia, risentimento, ostilità), patologie psichiatriche (ipocondria, depressione, isteria, disturbi di personalità), impairment cognitivo, causa di feedback incompleti e inappropriati, vantaggi secondari, inganno o auto-inganno. Stabilire chiari confini nell’interazione/relazione medico-paziente (confini temporali, di ruolo, d’impegno, di obiettivi perseguibili). Evitare il confronto col paziente e controllare impulsi controaggressivi. Affrontare il disaccordo su diagnosi e terapia (incongruenza), ed, eventualmente, la sfiducia del paziente nel terapeuta. Accettare e fronteggiare le proprie emozioni negative forti elicitate dal paziente. Elicitare la cooperazione della famiglia del paziente difficile. Se necessario, qualora si ritenga inadeguato il proprio controllo controtransferale, indirizzare il paziente a un altro collega. Consigliabile l’approccio di team (per diluire la responsabilità e il rischio di burn-out syndrome). Analisi (su videotape) degli incontri con uno specialista e partecipazione a gruppi Balint. In ambito algologico, è bene avere presenti alcuni principi tattico-strategici fondamentali: il dolore è sempre e soltanto “reale”, e la sofferenza è sempre autentica e degna di attenzione e di rispetto anche quando non riconosca una evi- 33 dente causa organica. Evitare di dire al paziente che non c’è nulla che non vada o che debba convivere col proprio dolore. Legittimare l’esperienza del paziente, accettando e facendo accettare un margine d’incertezza diagnostico-terapeutica, e tentare di empatizzare. Evitare etichette “pericolose”, inutilmente connotative e fonti di pregiudiziali resistenze alla terapia (ad es. dolore psicogeno, psicosomatico o somatico). Ridimensionare le aspettative faustiane di una “perfetta cura” e le motivazioni dereistiche, che impediscono al paziente di accettare gli obiettivi e i limiti di una “buona pratica medica”. Evitare di proporre l’abolizione del dolore, ma negoziare un ragionevole controllo, coinvolgendo il paziente nel processo di decision-making. Attivare un continuo feed-back col paziente che misuri e monitori il livello di soddisfacimento del paziente e della qualità del servizio prestato (come ad es., il Quality Of Care Questionnaire).25 Il diario del dolore non è soltanto un fondamentale strumento di valutazione del dolore e dell’outcome del tratatmento, ma anche un prezioso indicatore della compliance del paziente e della qualità della relazione terapeutica. Non misurare il successo del trattamento solo in termini di sollievo del dolore, ma anche in termini di miglioramento complessivo della qualità di vita. Non rispondere al paziente con sentimenti di rabbia, squalifica, frustrazione, reiezione. In presenza di problematiche medicolegali in corso, subordinare il trattamento alla definizione (ritiro, sospensione o conclusione) del procedimento medico-legale. 34 CONCLUSIONE I pazienti difficili rappresentano una realtà significativa nella pratica medica generale e, ancor più, in malattie croniche, come il dolore. Costituiscono anche uno spinoso problema di gestione, in quanto evocano nel medico e nel personale paramedico emozioni negative e comportamenti inappropriati, che favoriscono errori diagnostici e penalizzano pesantemente l’outcome terapeutico di questi pazienti, oltre a risultare frustranti e irritanti per il medico/paramedico. Il controllo controtransferale e una comunicazione il più possibile empatica possono favorire una gestione meno ardua, che tuttavia rimane problematica e pone limiti considerevoli alla pratica medica. BIBLIOGRAFIA 1) De Benedittis G. Countertransference and resonance in hypnotic relationship. Paper presented at the “Advanced International Seminar on The Use of the Therapist’s Self in Ericksonian Therapy”. Capri, 2001. 2) Conroy RM, Smyth O, Siriwardena R and Fernandes P. Health Anxiety and Characteristics of Self-initiated General Practitioner Consultations. J Psychosom Res 1999; 46 (1): 45-50. 3) Lipsitt DR. The challenge of the “difficult patient” (dejà vu all over again-only more so) Gen Hosp Psychiat 1997; 19 (5): 313-314; 315-323. 4) McGaghie WC, Whitenack DC. A scale for measurement of the problem patient labeling process. J Nerv Ment Disord 1982; 170: 598-604. 5) Lipsitt DR. Medical and psychological characteristics of “crocks”. Int J Psychiat Med 1970; 1: 15-25. 6) Drossman D. 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