Riccardo Garbini LESSICO USCIRE DA BABELE _______________ Testo su supporto informatico (CD-Rom) allegato a: Giuseppe Fioravanti PEDAGOGIA DELLO STUDIO Considerazioni e spunti per una pedagogia del desiderio L’Aquila – Japadre Editore 2003 Introduzione........................................................................................................................................ 3 ABILITÀ. ........................................................................................................................................... 7 APPRENDIMENTO. ....................................................................................................................... 10 ATTEGGIAMENTO........................................................................................................................ 11 ATTITUDINE. ................................................................................................................................. 12 COGNIZIONE ................................................................................................................................. 15 CONCETTO..................................................................................................................................... 17 CONOSCENZA ............................................................................................................................... 19 CREATIVITÀ. ................................................................................................................................. 21 CULTURA. ...................................................................................................................................... 23 CURIOSITA’. .................................................................................................................................. 27 DEMOTIVARE................................................................................................................................ 31 DEVIANZA. .................................................................................................................................... 31 DISCIPLINA.................................................................................................................................... 33 EDUCAZIONE. ............................................................................................................................... 39 FORMAZIONE................................................................................................................................ 44 FRUSTRAZIONE. ........................................................................................................................... 46 GIUDIZIO. ....................................................................................................................................... 48 GRATIFICAZIONE......................................................................................................................... 49 GUSTO............................................................................................................................................. 51 IDENTITÀ. ...................................................................................................................................... 55 INTEGRAZIONE. ........................................................................................................................... 55 INTERAZIONE. .............................................................................................................................. 56 ISTRUZIONE. ................................................................................................................................. 57 METODO......................................................................................................................................... 62 MOTIVAZIONE .............................................................................................................................. 63 OBBLIGO SCOLASTICO. ............................................................................................................. 66 POSTULATO................................................................................................................................... 70 PRINCIPI ......................................................................................................................................... 71 RAGIONAMENTO ......................................................................................................................... 71 SOCIALE. ........................................................................................................................................ 72 STATO. ............................................................................................................................................ 73 STUDIO. .......................................................................................................................................... 76 SVANTAGGIO................................................................................................................................ 79 SVILUPPO....................................................................................................................................... 80 TOLLERANZA................................................................................................................................ 81 VALORIZZAZIONE. ...................................................................................................................... 86 USCIRE DA BABELE LESSICO PER UNA PEDAGOGIA DELLO STUDIO Introduzione Il titolo di questo lessico può lasciare perplessi. Ecco alcune domande che potrebbe provocare: perché dovremmo uscire da Babele? Ma ci troviamo poi realmente in Babele? Qualora anche ci fossimo, a Babele, e desiderassimo uscirne, in che modo un lessico può servirci? Cosa centra tutto ciò con la pedagogia dello studio? Procediamo con ordine. Il mito biblico della Torre di Babele, il lessico e la pedagogia dello studio hanno un denominatore comune: il linguaggio. Il linguaggio si confonde, moltiplicandosi, nella Torre di Babele, mentre il lessico si ripropone di chiarire, puntualizzare, sciogliere i dubbi derivati dalla confusione babelica in funzione dello studio, ossia di un’attività intessuta di linguaggio (scritto o parlato che sia); in altre parole, il chiarimento del significato di alcuni termini chiave, oggi particolarmente oscuro o ‘oscurato’, può predisporre favorevolmente (ossia pedagogicamente) una persona ad abbracciare quell’attività apparentemente banale, ma in realtà misteriosamente avventurosa chiamata studio. Per una pedagogia dello studio: ecco dunque da dove nasce l’esigenza di rivolgere la nostra attenzione al linguaggio. L’importanza della proprietà di linguaggio viene oggi sovente trascurata, nonostante il fatto che «Difficilmente potremmo sentirci rassicurati da un medico che confondesse dispepsia con dispnea, o epilessia con epistassi. Eppure, oggigiorno, accettiamo spesso un linguaggio molto approssimativo da parte di chi è o dovrebbe essere un esperto in un qualsivoglia campo di conoscenza».1 La citazione è stata tratta da uno studio di pedagogia, scienza come (o forse più di) altre destinata a soffrire dell’approssimazione lessicale lamentata, soprattutto per la funzione normativa che essa riveste. Nel suo caso, difatti, la confusione dei termini e dei significati loro congiunti causa un’inevitabile confusione non solo teorica ma anche operativa, che rende inefficace il conseguimento dei suoi obiettivi, risultando quindi controproducente. Alla luce della pedagogia dello studio, la scienza che analizza l’attività dello studio, una tale trascuratezza – che richiama, come detto sopra, la Torre di Babele – deve essere evitata a maggior ragione, data l’importanza dell’obbiettivo prefisso, ossia l’acquisizione di un metodo di studio adeguato. Uscire da Babele sta dunque a significare un corretto re-inquadramento dei vocaboli-chiave, veri e propri cardini attorno i quali si costruisce un pensiero e si forma un’operatività, in quanto, come affermava Gentile “La lingua non è veste del pensiero: è il suo corpo stesso”2. Per uscire da Babele, lo strumento del lessico serve ad indicare le deviazioni del significato di questi termini-chiave, intervenute quasi sempre per motivi ideologici, ed a ricollocarli in tal modo in un contesto di nuovo saldamente ancorato alla realtà oggettiva. Al conseguimento di un tale obbiettivo quest’opera utilizza gli strumenti della linguistica e della filologia, in una visione ad un tempo diacronica e sincronico-comparativa, nel tentativo di ricostruire, per quanto possibile, una storia del vocabolo esaminato3. In particolare, la visuale filologica, L. Trisciuzzi, “Le parole della pedagogia”, La vita scolastica, anno 49, n.18, Firenze, ed. Giunti, 1994, p.20 G. Gentile, Sommario di Pedagogia come scienza filosofica, Vol. I, Firenze, Sansoni, 19825, p. 63. 3 Cercando di evitare in tal modo la tendenza separatista che affligge le ultime generazioni di docenti universitari, determinata dall’ignoranza del passato, come faceva notare W. Belardi nel suo Linguistica generale, filologia e critica dell’espressione, Roma, Bonacci Editore, 1990, pp. 23-25. Altrove (pp. 3-10) lo stesso autore sottolinea come nella filologia 1 2 potenzialmente multiforme e fortemente tendente all’astrattezza, in tale tentativo è temperata dalla consapevolezza che «[…] in un’indagine storica siamo costretti ad occuparci contemporaneamente di due variabili ognuna in movimento e indipendente l’una dall’altra, anche quando si influenzano incidentalmente: i significati e le associazioni di significato sono una, e le forme della parola un’altra, e le loro variazioni sono indipendenti. [...] Noi non conosciamo il significato originario di ogni parola, ancora meno il significato dei suoi elementi base (per esempio quella parte che ha in comune con altre parole collegate: una volta si chiamava la sua radice): c’è sempre un passato che è andato perduto.»4 Questa dose di sano realismo non esime tuttavia dall’adoperare lo strumento filologico, come indicatore di alcune dinamiche semantiche (e dunque sociali), semplicemente lo mitiga, riconducendolo entro l’alveo ragionevole di un realismo storico ed antropologico. Come viene affermato in linguistica, «Natura non facit saltus. Diversamente dai sistemi di valori, la continuità fonologica genealogica poggia proprio sul versante sul quale hanno una parte importante anche fatti di ordine naturale»5. In altre parole, si può ricostruire il percorso di un vocabolo a ritroso nel tempo, stando estremamente attenti a non confondere il suo aspetto formale con quello sostanziale – di significato – che può variare, anche di molto (molte volte come vedremo per ragioni ideologiche) pur mutando pochissimo o per nulla la forma. Ciò premesso, in questo lessico l’articolazione di ogni vocabolo prevede: - innanzitutto una definizione dello stesso, presa principalmente dal Grande dizionario della lingua italiana, a cura di Salvatore Battaglia (DLIB), includendo talvolta anche i suoi sinonimi tratti dai relativi dizionari; - la sua etimologia, con accenni, laddove sarà stato possibile, al substrato linguistico indoeuropeo ed agli esiti in altre lingue antiche della stessa famiglia del Latino, quali il Greco antico e talvolta anche il Sanscrito; - le applicazioni soprattutto nella pedagogia e nella concezione antropologica che sempre la sottende; - infine, laddove risulti necessario, anche le deviazioni (‘babeliche’) subite dal significato quali oggi appaiono nell’uso che se ne fa. In alcuni casi la deviazione del significato si evidenzia mediante la soppressione pura e semplice del termine: in tali casi dunque l’analisi non insiste sull’aspetto riduzionista. Le deviazioni, laddove presenti, sono dettate soprattutto da intenti ideologici, ossia dalla sovrapposizione di una griglia interpretativa con maglie piuttosto rigide sui dati oggettivi della realtà. Perché la realtà offre dati oggettivi; difatti, per usare l’espressione di un premio Nobel, «[…] teniamo molto, irremovibilmente, alla nostra convinzione che tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo corrisponda a dati di fatto reali del mondo extrasoggettivo.» 6. L’effetto della sovrapposizione di questa griglia interpretativa chiamata ideologia risulta in tal modo una riduzione del campo percettivo ed interpretativo della realtà. Per questa ragione le deviazioni semantiche sono state denominate ‘riduzionismi’. Come apparirà evidente più avanti, è soprattutto il tipo di riduzionismo denominato ‘statalista’ ad essere chiamato spesso in causa, dal momento che storicamente è la statolatria (culto dello Stato) ad confluiscano tutta una serie di speculazioni pertinenti il linguaggio delle epoche più antiche, mentre la linguistica come scienza è un prodotto di marca francese che ha la sua origine tra il XVII ed il XVIII secolo. 4 J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Milano, Bompiani, 2001, pp. 302-303. 5 W. Belardi, Linguistica generale op. cit., p. 146. 6 K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, Milano, Adelphi Edizioni, 1991, p. 26. aver maggiormente influenzato il lessico pedagogico italiano (e non solo quello) negli ultimi due secoli, conformemente agli scopi dichiarati –“fare gli Italiani”, oggi “fare gli Europei”- e non dichiarati della dottrina statalista di stampo hegeliano, vera e propria monopolizzatrice dei nostri tempi. Segnale inequivocabile di tale situazione è la moltiplicazione degli studi di denuncia, i quali puntualizzano come «la malattia della scuola italiana si chiama statalismo, con i nefasti effetti del burocraticismo, della selezione occulta, dell’improduttività, dell’irresponsabilità»7. Lo stesso linguaggio burocratico, che permea la scuola statale (impropriamente detta ‘pubblica’) italiana odierna, come diretta conseguenza dell’ideologia statalista presenta una forma che è «astratta, solenne, tecnicizzata, in funzione del prestigio e del potere che detiene il diffusore del messaggio. Da questa prassi consegue una sclerosi del pensiero che si sorregge sui trampoli di locuzioni fruste e cristallizzate. Ufficialità, reticenza e straniamento sono i caratteri che il messaggio assume nell’esercizio del potere.»8. Lo statalismo è dunque la malattia che affligge l’istruzione scolastica italiana degli ultimi due secoli, con inevitabili e pesanti ripercussioni sul linguaggio e sulle deviazioni di significato cui si accennava prima. Affermatasi poi grazie ai noti fatti storici dell’unificazione italiana, la dinamica dell’ideologia statalista manifesta le sue prime avvisaglie già a seguito dei moti rivoluzionari francesi e la seguente avventura napoleonica, agli inizi del XIX secolo di modo che il Principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo poteva annotare nel 1833: «[…] siccome la maggior parte degli uomini, poco astraendosi, e guidare per l’opposto facendosi dal materialismo de’ sensi, non si avvede della dolorosa mutazione de’ vocaboli; non si ferma, atterrita come prima, a commettere un’azione, il vocabolo della quale recava spavento una volta. Conciossiaché, se i giudizi si formano dal confronto delle idee, e queste vengono negli uomini suscitate dai vocaboli; i medesimi fraudolentemente cangiati, nulla diviene più agevole per la moltitudine che il formare dalle false idee giudizi falsissimi. […] infatti cosa è quello che ci presenta tuttogiorno la storia contemporanea [ossia nel 1833, NdA] ? Un fenomeno tutto nuovo; quello cioè di volere le cose, e poi mutarvi nome in appresso, sperando che non vengano riconosciute. Le rivoluzioni diventano bisogni del Secolo; le giornate di sacrilega zuffa gloriose; l’aggressione degli Stati di un venerabile alleato, e la violazione delle sue leggi, una protezione, una garanzia di sua autorità; l’anarchia incoraggiata un non-intervento; […] l’ateismo, libertà dei culti; la corruzione ministrata con pubblica autorizzazione, libertà della stampa, e dell’insegnamento.» 9 Appare quindi chiaro che un’ideologia o un riduzionismo, per affermarsi, si serve del linguaggio; per operare efficacemente con esso, deve prima intervenire in esso a livello di significato, per addomesticarlo alle idee che esso dovrà poi veicolare, trasportare. Da qui deriva l’importanza che riveste il linguaggio come ammesso qualche anno più tardi in un diverso contesto da P. M. Roget, autore dell’omonimo Thesaurus della lingua inglese: « Il linguaggio non esaurisce la sua funzione solamente nel comunicare le nostre idee agli altri, ma adempie anche l’ufficio di strumento del pensiero; esso infatti non è semplicemente il veicolo del pensiero ma gli fornisce le ali necessarie per spiccare il volo. […] Le ovvietà divengono prassi comune ed assumono l’aspetto di una saggezza profonda, semplicemente adoperando espressioni altisonanti, o imponendo paradossi pomposi. L’immaginazione diviene così preda di un balbettìo confuso pieno di frasi involute di sapore mistico e confinata in un luogo nebuloso, estraneo alla realtà, nel contempo la comprensione è ingannata ritenendola nel pieno dell’attività conoscitiva. Una parola equivocata o D. Antiseri e L. Infantino, Le ragioni degli sconfitti nella lotta per la scuola libera, Roma, Armando, 2000, p. 28. M. Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Roma-Bari, Editori Laterza, 1986, p. 186. 9 A. Capace Minutolo Principe di Canosa, Sulla corruzione del Secolo circa la mutazione dei vocaboli e delle idee, Napoli, Controcorrente, 2003, pp. 18-19 e nota 1. 7 8 fuorviante è causa sufficiente a far scoppiare discussioni violente ed interminabili: un termine inappropriato è capace di far cambiare direzione all’opinione pubblica; un sofisma è in grado di decidere questioni politiche; uno slogan lanciato ad arte in un contesto adeguatamente eccitato ha la capacità di far scoppiare guerre e cambiare i destini di un impero.»10 Tenendo conto dei fatti storici una particolare attenzione verrà data anche alle lingue straniere contemporanee, Inglese per primo, quali termini di comparazione da un lato, e ‘relazioni pericolose’ dall’altro; infatti, la falsa affinità tra parole differenti tra loro quanto a significato ma formalmente simili ha giocato talvolta un ruolo decisivo nella generazione di equivoci culturali. Infatti, «In molti casi è dato osservare che, in connessione con particolari eventi esterni (conquista, acculturazione), anche le categorie linguistiche subiscono mutamenti, slittamenti. L’imposizione culturale o semplicemente il contatto culturale possono portare a conseguenze ben avvertibili sul piano linguistico-conoscitivo. La pressione comincia naturalmente dagli usi, e si trasferisce poi al livello della lingua.»11 Infine, allo scopo di non perdere di vista quel realismo storico ed antropologico cui si è sopra accennato, un’attenzione particolare è stata riservata ad alcuni concetti espressi anche in Giapponese, ossia una lingua che si serve di un sistema di segni, la scrittura ideografica, il quale presenta un grado di astrazione differente da quello per noi usuale delle scritture fonetiche, e tale da vanificare, ad esempio, quei ‘fenomeni intralinguistici dovuti all’instabilità del segno’12. Si ricordino a tal proposito le riflessioni di M. McLuhan: «Un medium freddo, quale il geroglifico e l’ideogramma, ha effetti ben diversi da quelli di un medium caldo ed esplosivo come l’alfabeto fonetico, il quale, portato a un alto livello di astratta intensità visiva, divenne poi tipografia. La parola stampata, con la sua intensità specialistica, spezzò i legami delle corporazioni e dei monasteri medievali, creando modelli intensamente individualistici di iniziativa e di monopolio. […] L'alfabeto fonetico è una tecnologia del tutto particolare. Ci sono stati molti tipi di scrittura, pittografica e sillabica, ma praticamente un solo alfabeto (fonetico) nel quale a lettere semanticamente prive di significato corrispondono suoni semanticamente privi di significato. Questa nuda spartizione e questo parallelismo tra un mondo visivo e un mondo auditivo erano, culturalmente parlando, rozzi e spietati. La trascrizione fonetica sacrifica mondi di significato e di percezione presenti in forme come i geroglifici o gli ideogrammi cinesi.»13. 10 « The use of Language is not confined to its being the medium through which we communicate our ideas to one another; it fulfils a no less important function as an instrument of thought, not being merely its vehicle, but giving it wings for flight. […] Truism pass current, and wear the semblance of profound wisdom, when dressed up in the tinsel garb of antithetical phrases, or set off by imposing pomp of paradox. By a confused jargon of involved and mystical sentences, the imagination is easily inveigled into a transcendental region of clouds, the understanding beguiled into the belief that it is acquiring knowledge and approaching truth. A misapplied or misapprehended term is sufficient to give rise to fierce and interminable disputes: a misnomer has turned the tide of popular opinion; a verbal sophism has decided a party question; an artful watchword, thrown among combustible materials, has kindled the flames of deadly warfare, and changed the destiny of an empire.» P. M. Roget, Roget’s Thesaurus of English Words and Phrases, London, Bloomsbury, 1987, pp. viii-x. 11 G. R. Cardona, I sei lati del mondo, Roma-Bari, Editori Laterza, 1988, p. 16. 12 L’espressione, a proposito dello studio dell’anagramma poetico, è ripresa da: G. Sasso, La mente intralinguistica. L’instabilità del segno: anagrammi e parole dentro le parole, Genova, Marietti, 1993, p. 9. 13 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Garzanti, 1977 (Ediz. Orig.: Understanding Media, 1964), pp. 28 e 89. La terminologia grammaticale italiana è stata desunta in buona parte dall’opera Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, di Luca Serianni con la collaborazione di Alberto Castelvecchi (Torino, UTET, 19912). ABILITÀ. Definizione. Delle numerose accezioni presenti in DLIB la principale è «Capacità, attitudine, inclinazione, disposizione, idoneità, dote, qualità.» cui fanno seguito, tra le altre, «2. Perizia, valentia, bravura. […] 4. Destrezza, sveltezza, accortezza, furberia. […] 5. Sfacciataggine, impudenza»14 Sempre facendo riferimento al primo significato, ossia di disposizione innata, qualità, il VLIDO la designa come «Capacità, attitudini di fronte a compiti determinati». Etimologia. Il termine trova la sua origine nel lat. habĭlis ‘maneggevole’, aggettivo verbale passivo di habēre passato a valore attivo con il significato “che sa tenere in mano”15. È chiaro che il ‘saper tenere in mano’ può essere tanto la semplice manifestazione di una predisposizione naturale (da cui il significato principale), quanto il risultato acquisito di un addestramento (da cui il secondo significato della definizione). In Greco abbiamo il termine eÙcšreia destrezza, agilità, facilità, tendenza, inclinazione, dalla radice kher-, kheir con l’idea di “ghermire, prendere”, “mano, maneggiare” (Rocci, pp. 817 e 2015, vedi ATTITUDINE) corrispondente concettuale del latino habĭlis con riferimento al primo significato; di contro, l’aggettivo ƒkanÒj, “sufficiente, degno, capace, all’altezza” e ƒkanÒthj, a denotare la “capacità, idoneità, abilità, bravura” provengono dalla radice ī, siq, seiq, come derivati del verbo †kw, “vengo, vado, giungo”, ed il suo derivato ƒk£nw, “mi avanzo, vengo, arrivo” (Rocci, pp. 913-915). Questo termine presenta una stretta somiglianza al secondo significato della definizione, nel denotare l’acquisizione al termine di un processo cui si sottopone il soggetto. Un leggero spostamento di significato lo troviamo nella traduzione dei LXX, dove l’aggettivo in questione viene adoperato per rendere l’ebraico dai = “fabbisogno”, denotando dunque il passaggio dall’indicazione di una misura oggettiva a quella di un riferimento personale. Lo spostamento di significato si completa nel Nuovo Testamento, dove lo troviamo adoperato soprattutto in Luca e Paolo - con i significati di “una certa quantità di tempo”, “attitudine, capacità a svolgere un compito”.16 È pertanto la tradizione legata all’ambiente giudaico-alessandrino che introduce nel termine ‘abilità’ il connotato soggettivo di qualità innata, «Capacità e idoneità a compiere qualcosa in modo soddisfacente» significato divenuto principale nella lingua italiana, attestato per la prima volta nel XIV secolo17. Difatti i dizionari di sinonimi rendono il termine con «Idoneità, capacità, bravura, competenza, attitudine, inclinazione, virtù» (DSCGar) «Idoneità, attitudine, disposizione, inclinazione, predisposizione, propensione» (DF). In Sanscrito vi sono i termini śakti (potere, potenza, capacità, energia, sforzo) e śaktatā (competenza, abilità), entrambi dalla radice śak, “essere vigoroso, forte”, “essere capace di fare”18; bala (forza, 14 DLIB, I (1961), p. 41. AEI, p. 2. 16 Cf. DCBNT, pp. 1812-1813. 17 DELI, p. 5. 18 Affine linguisticamente secondo alcuni al greco Ôpij, ¢ossht»r, al tedesco Hag, Hecke, hegen, behagen, (SED, p. 1044). 15 vigore, resistenza, SED, p. 722); sāmarthya (adeguatezza, capacità, appropriatezza, SED, p. 1205), riferiti alla sfera soggettiva-innata; riguardo l’accezione di destrezza e bravura abbiamo i termini kuśaltā (furbizia, bravura, acutezza, SED, p. 297), yukti (unione, connessione, preparazione, pratica, espediente, artificio) dalla radice verbale yuj,“unire, congiungere, legare”19, paava (acutezza, brillantezza, intelligenza, abilità, SED, p. 579) e pravītā (efficienza, bravura, SED, p. 693). Riferimenti/rinvii I due significati delineatisi possono apparire interscambiabili, ma di fatto non lo sono. La propensione naturale, il primo significato, è una facoltà innata, una qualità personale, soggettiva, non riferibile ad alcun tipo di misurazione. La destrezza, la bravura, ossia il secondo significato, è la risultante di un processo intrapreso dal soggetto che ha un riscontro oggettivo, quindi misurabile. La possibile confusione può essersi ingenerata partendo dall’azione umana, dalla prestazione; definizioni quali «Atto che ha conoscenza approfondita» (DE), «capacità richiesta per affrontare un preciso compito» (NDP)20, o «Capacità di interpretare e intervenire sulla realtà per modificarla o in riferimento a competenze quando non corrisponde alla realtà» (DPs) risultano di doppia possibile interpretazione: 1. Atto ben eseguito o capacità per una tendenza innata, inclinazione, dell’autore, «Tratto individuale inferito dall'adeguata esecuzione di un compito» (EP); 2. Buona prestazione, frutto di una preparazione specifica, «Capacità di dominare i movimenti » (DPSE). Altrove21, si riconoscono addirittura 3 tipi di abilità: fisica, manuale e intellettuale e si individuano 4 tipi di movimento caratteristici: leggiadri e disinvolti; destri, agili e svelti; pesanti, grossolani e lenti; maldestri, impacciati ed irregolari. Riassumendo, nel primo significato l’abilità, facoltà innata, non si può misurare, nel secondo, come prestazione, sì. In Inglese22 il termine ability possiede una doppia accezione: quella di capacità, bravura (skill, talent), e quella di connessione tra causa ed effetto, capacità, potere (power, force, competency). In Francese23 abbiamo i vocaboli adresse, che ha entrambi i significati denotando tanto una qualità innata quanto una acquisita24, dextérité, nel secondo significato di destrezza, bravura25, habileté che sembra possedere qui esclusivamente le caratteristiche del primo significato26, maîtrise, che riguarda Affine al greco zeÚgnumi, zugÒn, al latino jungere, jugum, al tedesco joh, Joch, all’Inglese yoke (SED, p. 853). M. A. Ruggiero, “Abito / Abitudine / Abilità”, NDP, p. 1. 21 DEP p. 3 di A. Huth 22 RT, § 157 e § 698. 23 LS, pp. 14-15. 24 Qualité naturelle ou acquise qui permet de mener à bien ce que l’on fait, grâce à une facilité d’exécution due à une grande justesse dans les mouvements – Qualité physique d’une personne qui fait les mouvements les mieux adaptés à la réussite de l’opération, MRP, p. 19 25 Adresse de la main “droite”, et par extension, des deux mains […] et, au fig., adresse de l’esprit qui implique beaucoup d’aisance dans l’exécution – Adresse des mains; […] Adresse d’esprit pour mener une affaire à bien, MRP, p.369. 26 Caractère de celui qui sait faire, qui fait avec une adresse particulière […] c’est aussi la facilité, le tact, la finesse qu’on apporte dans la conduite et dans la direction d’une affaire, et qui suppose une grande capacité et de l’intelligence. FAA, p. 2. 19 20 un’ambito specificatamente artistico e scientifico, combinando le qualità innate con l’addestramento27 e savoir-faire, un tipo innato di capacità28. In Tedesco29 le due accezioni del termine si traducono con i sostantivi Geschicklichkeit (destrezza, con le sfumature di agilità, mobilità, abilità ed esperienza)30, Gewandtheit sinonimo del precedente, con una sfumatura che riguarda la cortesia delle buone maniere31, Fingerfertigkeit (prontezza, abilità delle mani, capacità, pratica)32, con un’attenzione rivolta senza dubbio molto più sulla prestazione che sull’aspetto innato delle qualità. In Giapponese abbiamo i sostantivi nōryoku ( , abilità, capacità, facoltà)33, composto dagli ideogrammi “abilità, funzionalità, tipo di rappresentazione drammatica” e “energia, forza” (KD, pp. 1014, 290), che si riferisce alle predisposizioni, shuwan ( , abilità, capacità, talento)34, composto dagli ideogrammi “mano” e “braccio, bravura” (KD, pp. 596, 1018)35, jukuren ( , maestria, perizia, 36 abilità) , composto dagli ideogrammi “maturità” e “impasto, elaborato” (KD, pp. 1099, 1370) vicino al francese maîtrise, e kiyō ( , destrezza, bravura)37, composto dagli ideogrammi “contenitore, capacità” e “attività, uso” (KD, pp. 689, 471). Riduzionismo. Significativamente non attestato in DIP, la parola ‘abilità’ è oramai usata come sinonimo di ‘capacità prestazionale’, dunque quantificabile, misurabile, riducibile a numeri, suscettibile di essere trasformata in computo statistico. Appare del tutto trascurato pertanto il significato principale del termine, il quale ha a che vedere con le qualità innate, mentre l’inglese ability, anch’esso provvisto di una doppia accezione, negli stessi casi in cui indica una pura potenzialità viene invece tradotto con capacità di prestazione in Italiano. Da quest’ amputazione semantica derivano i termini “abilità trasversale”, “disabile”, o il recentissimo “diversamente abile”, i quali non avrebbero senso qualora gli si attribuisse il significato primario del termine: l’abilità trasversale potrebbe risultare una qualità innata in più specie animali, il “disabile” sarebbe una persona assolutamente inadatta (a fare che?), mentre il “diversamente abile” potrebbe indicare forse un essere umano con le qualità innate di un pesce o di un’altra specie animale. ABILITÀ TRASVERSALI. Vedi ABILITÀ, DISCIPLINA Qui marque non seulement l’habileté mais encore la supériorité dans un art ou dans une science, suppose une grande expérience et une complète sûreté de soi 28 Habileté, industrie, qui permet de réussir ce qu’on entreprend, ou de se tirer d’embarras, plutôt parce que l’on a l’habitude, l’expérience de ce que l’on fait, que par ingéniosité – Habileté à résoudre les problèmes pratiques ; compétence, expérience dans l’exercice d’une activité artistique ou intellectuelle, MRP,p. 1163. 29 TIS, p. 3. 30 «Gewandtheit, Wendigkeit, Beweglichkeit, Geübtheit» DW, p. 668. 31 «Verbindliche Umgangsformen» DW, p. 677. 32 «Können, Übung» DW, p. 568. 33 DGI, p. 823. 34 DGI, p. 486. 35 Il significato qui di “mano felice” appare quasi un calco concettuale del latino habĭlis e del greco eÙcšreia. 36 DGI, p. 478. 37 DGI, p. 258. 27 APPRENDIMENTO. Definizione. «1. l’apprendere, l’imparare. 2. conoscenza.»38 Poco attestato in altri dizionari con il senso «Imparare, intendere, erudire, comprendere» (DE), «Acquisizione di una o più cognizioni di ordine teorico o pratico» (VLIDO), «Imparare, acquisire, assimilare, conoscere» (DSCGar) Etimologia. Il termine rimonta al latino adprĕhendo, is, pretendi, prĕhensum, ĕre = prendere, afferrare; impossessarsi di; conoscere; affine a comprĕhendo, is pretendi, prĕhensum, ĕre = prendere, afferrare, catturare; chiudere, abbracciare, contenere; comprendere, abbracciare, intendere, comprendere, racchiudere. Comprĕhendere aliquid animo, cogitatione, mente = afferrare una cosa nell'animo, pensiero, mente. Aliquid ad memoria comprĕhendere = ritenere racchiudere una cosa nella mente Per quanto attiene al Greco – il verbo manq£nw – vedi STUDIO. Non attestato in DELI ed AEI. Riferimenti/rinvii. In ambito pedagogico, troviamo apprendimento definito come un «Processo psichico che consente al soggetto di acquisire in forma durevole ma non per fattori innati o per processi di maturazione conoscenze e competenze.» (DPSE), oppure «Processo psichico che consente una modificazione durevole del comportamento per effetto di esperienza» (DPs), «Processo mediante il quale un comportamento viene acquisito o modificato, escludendo le modificazioni della crescita e quelle temporanee» (EP), «Acquisizione, fissazione, elaborazione, di contenuti di esperienza e nuovi modi di comportamento. Si tratta di una funzione psicologica connessa con la memoria d'importanza capitale per la conservazione, sviluppo e perfezionamento della vita umana.» (DPSaie), «[…] capacità di autoelaborazione delle conoscenze acquisite, in una ristrutturazione del campo conoscitivo, la quale si riorganizza come un tutto pur nella progressiva tensione a più ampie e più unitarie “totalità”, ma seguendo in ciò lo sviluppo bio-psichico e spirituale proprio di ciascuna persona.» NDP39. Nel processo dell’apprendimento, secondo S. Tommaso, si può imparare basandosi sulla propria indagine od esperienza (e questa è l’inventio), oppure con l’assistenza di un maestro (e questa è la disciplina)40. Da questa breve rassegna di definizioni prese prevalentemente da dizionari di pedagogia (anche se in DIP risulta non attestato) e tenendo presente l’etimologia, si vede chiaramente che apprendimento indica l’assunzione di un concetto, una tecnica, uno strumento, ossia una modalità passiva di azione – secondo la dinamica dello stimolo-risposta – senza che vi sia un intervento attivo della persona. La causa generante dell’apprendimento è sempre esterna al soggetto, che la rielabora come esperienza. «L’apprendimento è la tendenza che una parte o fase di un’esperienza vissuta ha a rimanere nella persona, e insieme a ritornare in maniera appropriata in una esperienza ulteriore. Nella misura in cui si è costituita una tale tendenza si può dire che si sia effettuato un apprendimento.»41. In questo senso «l’apprendimento nel suo senso più ampio è una modificazione teleonomica del comportamento»42. Ma anche quest’ultima definizione non rifugge dal basarsi sul principio dello stimolo-risposta, 38 DLIB, I (1961), p. 583. G. Flores d'Arcais, “Insegnare / Apprendere”, NDP, p. 602. 40 J. W. Donohue, “Lo scolastico: L’Aquinate”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. Saggi di storia del pensiero pedagogico. Brescia, Editrice La Scuola, 1972, pp. 162-163. 41 W. H. Kilpatrick, Filosofia dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1963, pp. 342-343. 42 Cf. K. Lorenz, L’altra faccia … op. cit., pp. 118-126. 39 naturalmente connaturato con l’attività dell’autore della medesima, l’etologia, ossia lo studio del comportamento animale. Riduzionismo. Da come risulta dalle definizioni sempre più articolate che lo caratterizzano, il termine è oramai adoperato come sinonimo di studio: «1. Studio, conoscenze; comprensione […] 2. Ammaestramento, esercizio, pratica; indottrinamento» (DF). In realtà esso costituisce solo una fase dell’attività dello studio. L’apprendimento è difatti un prendere, un assumere passivamente qualcosa senza includere alcuna forma personale di rielaborazione attiva. ATTEGGIAMENTO. Definizione. «L’atteggiare la persona secondo modi particolari; l’assumere con studiata attenzione un aspetto, un comportamento espressivo di un sentimento, di un’intenzione particolare; modo di presentarsi, gesto, movenza; espressione del volto. 2. (figur.) Comportamento in una circostanza determinata; disposizione verso un evento, un’azione, una dottrina, un problema. 3. (fig.) Contraffazione; posa.»43 Etimologia. Da «atto» lat. āctu(m) < ăgere ‘fare’ (AEI, p. 33, dove viene indicata anche un’accezione del vocabolo «attitùdine1» con il medesimo significato e fatta derivare dal latino medievale actitudo, -inis, e passato nel francese attitude e in tal guisa rientrato in Italia in età moderna). Con il significato del «Modo di atteggiare il corpo o parti di esso » è attestato nella letteratura italiana dal XVII secolo (B. Davanzati), come «contegno comportamento» dalla fine del XVIII (1798, V. Russo)44 In Sanscrito il termine ‘atteggiamento’ si può tradurre con; sthāna, (postura, posizione, atto del rimanere) e sthiti (stato eretto, stato permanente, permanenza, durata, mantenimento)45; avasthā (situazione, condizione)46; bhāva (divenire, essere, esistenza, apparenza, stato, condizione, SED, p. 754) e bhūmi (terra, regione, posto, postura, atteggiamento, base, fondamento, SED, p. 763)47; ākāra (forma, figura, contorno, apparenza, gesto, atteggiamento corporeo, SED, p. 127); rūpa (apparenza esteriore, fenomeno, forma, SED, p. 885); vtti (uso generale, costume, modo di essere, natura, carattere)48. Riferimenti/rinvii. L’atteggiamento è dunque il modo di collocare il proprio essere psico-fisico nello spazio e nel tempo come indicato chiaramente dalla lista di sinonimi attestata «1. espressione, mimica; gesto, atto; posa, positura, postura, posizione; movenza andatura, portamento, aria, piglio; aspetto; 2. (est.) contegno, comportamento, condotta; stile, tono, tratto, modo, maniera;» (DSCGar). L’estensione del significato trae origine da un vero e proprio prolungamento nel tempo di tale modalità. 43 DLIB, I (1961), p. 808. DELI (I, p. 86). 45 Entrambi dalla radice sthā, “stare”, affine linguisticamente al greco ƒ-st£nai, al latino stare, all’inglese stand, al tedesco stehen, (SED, pp. 1262-1264). 46 Dove alla radice sthā è aggiunto il prefisso spaziale ava, “sotto”, “in basso” (SED, p. 106). 47 Entrambi prodotti dalla radice verbale bhū, “essere”, “trovarsi nella condizione”, “divenire”, affine al greco fÚw (genero, produco), œfun, fÚsij (natura), al latino fuit, al tedesco bin, all’inglese be (SED, p. 760). 48 Dalla radice vt, “girare”, “muovere”, affine al latino vertere, al tedesco werden, al suffisso inglese ward (SED, p. 1009). 44 «L’atteggiamento è l’unità significativa che struttura un sistema di valutazione e connota il grado di disposizione di un soggetto (e/o gruppo, epoca, società, civiltà) nei confronti di oggetti singoli (e/o realtà sociale, mondo umano) esistenti nel suo universo psicologico.» (NDP)49. Le prime analisi dell’atteggiamento risalgono a A. Comte e W. Wundt, nella seconda metà dell’Ottocento. Nel secolo scorso, lo studio degli atteggiamenti – riconosciuti essere composti da tre fattori: 1. Affettività; 2. Tendenza all’azione; 3. Conoscenza - ha elaborato una scienza del comportamento sociale basata sull’induzione di determinati atteggiamenti mediante degli esercizi ripetuti, allo scopo di creare delle abitudini.50 Per il termine, sia in Inglese che in Francese, attitude, spesso confuso con aptitude “attitudine” vedi ATTITUDINE. Tale confusione non può sorgere in Tedesco dove il temine ‘atteggiamento’51 si traduce con i sostantivi Haltung (portamento, comportamento, posizione del corpo o di sue parti nella stasi e nel movimento, contegno, comportamento, collocamento intellettuale, padronanza di se stesso)52, Ausdruck (espressione, il modo di esprimersi, di parlare, di cantare, di suonare, i segni esteriori, il manifestare esperienze interiori, aria, mimica)53, Gebärde (gesto, affine a gebären = partorire – movimento per manifestare un qualche sentimento o desiderio)54, Einstellung (collocamento, affine ad einstellen = mettere – l’azionamento, sentimento, postura interiore, condotta, mentalità,)55, Standpunkt (punto di vista), del tutto differenti da quelli della voce seguente. In Giapponese abbiamo i termini taido ( , atteggiamento, comportamento, contegno)56, composto dagli ideogrammi “condizione” e “misura, limite” (KD, pp. 903, 1204), e shisei ( , positura, posa, postura, atteggiamento)57, composto dagli ideogrammi “figura, postura” e “energia, vigore” (KD, pp. 703, 300). Riduzionismo. Per la voluta o meno confusione con il significa di disposizione innata, vedi ATTITUDINE. ATTITUDINE. Definizione. «Attitudine1, disposizione naturale, inclinazione, tendenza, capacità, qualità attiva, idonea. Attitudine2, atteggiamento, modo di presentarsi, positura della persona, aspetto, figura»58 Etimologia. 49 M. A. Ruggiero, “Atteggiamento / Comportamento / Condotta”, NDP, p. 114. M. A. Ruggiero, “Atteggiamento / Comportamento / Condotta”, NDP, p. 115. 51 TIS, p. 49. 52 Stellung des Körpers oder eines Körperteils im Sitzen, Stehen, Gehen, bei Bewegung, Benehmen, Verhalten, geistige Einstellung, Selbstbeherrschung, DW, p. 733. 53 Die Art, sich auszudrücken, zu sprechen, zu singen, zu spielen, äusserliche Zeichen, Kundgeben inneren Erlebens, Miene, Mienenspiel, DW, p. 246. 54 Bewegung, um etwas – Empfindung, Willen - auszudrücken, DW, p. 635. 55 Das Einstellen, Gesinnung, innere Haltung, Denkart, DW, p. 481. 56 DGI, p. 631. 57 DGI, p. 435. 58 DLIB, I (1961), p. 821. 50 In AEI (p. 33) abbiamo la voce «attitùdine1», fatta derivare dal latino medievale aptitudo, -inis, da ăptus «adatto», mentre la voce «attitùdine2», di limitata diffusione (tanto da non comparire in molti dizionari), deriva dal latino medievale actitudo, -inis, calco del precedente, ma con un preciso riferimento ad actu(m) «atto». Il riferimento principale è dunque quello di “disposizione, capacità innata”, e riguardo a questo concetto in Greco abbiamo il termine eÙcšreia che indica “destrezza, agilità, facilità, tendenza, inclinazione”, dalla radice kher-, kheir con l’idea di “ghermire, prendere”, “mano, maneggiare” (Rocci, pp. 817 e 2015), nonché il vocabolo dÚnamij, tradotto con “forza”, “potere”, “potenza”, possiede anche il significato di “capacità, attitudine, talento”59. In Sanscrito il termine ‘attitudine’ si può tradurre con śīla (abito, costume, condotta morale, disposizione, tendenza), śīlatva e śīlatā (disposizione, inclinazione, pratica abituale, moralità, virtù)60, abhiprāya (proposito, intenzione, desiderio)61, āśaya (letto, posto, asilo, domicilio, ricettacolo, disposizione mentale, modo di pensare)62 ed il simile āśraya63 (dimora, asilo, inclinazione, origine), svabhāva (“natura propria”)64, rīti (andamento, movimento, corso, uso, costume, maniera, disposizione naturale, dizione, modo di scrivere e di parlare)65. In Italiano è attestata la comparsa del termine con il significato di «Capacità, disposizioni» nel XIV secolo66. Riferimenti/rinvii. In Italiano dunque appare chiaramente il carattere innato dell’attitudine, come risulta anche dalle definizioni di altri dizionari: «Disposizioni innate per delle attività» (VLIDO); «Disposizione, inclinazione, istinto, talento» (DSCGar); «Idoneità, disposizione, inclinazione, predisposizione, propensione, istinto, tendenza, vocazione» (DF); «Disposizione naturale, capacità» (DE). In campo pedagogico, tale significato è ben evidenziato in alcuni dizionari ed enciclopedie specialistici: «Disposizione a svolgere un'attività» (EP); «Capacità psichica preesistente al suo sviluppo dovuto a condizioni in cui si vive e all'educazione ricevuta.» (DPSE); «Potenzialità che rende un soggetto adatto ad un'attività, legata all'apprendimento che può rimanere anche sempre in stato latente.» (DPs); «Alcuni bambini possiedono attitudini per certe attività e in loro prendono rapido sviluppo.» (DIP). La caratteristica dell’originalità innata, connaturata, congenita, appare più sfumata in altre opere specialistiche, le quali spostano l’accento più sulla sua manifestazione, coinvolgendo anche l’attività e la prestazione: «La psicologia mette in evidenza la differenza di capacità tra soggetti. L'attitudine è il risultato di funzioni elementari che messe insieme danno vita ad una manifestazione psichica, che caratterizza l'azione di un individuo ma porta l'impronta della personalità con fattori complessi.» (DPSaie); «Capacità potenziale di compiere un'attività specifica, assume anche il significato di inclinazione e fa sentire la differenza nel rendimento di un individuo rispetto ad un altro.» (DP); il NDP67 riprende la definizione di DP, sottolineandone maggiormente la distanza con le inclinazioni. 59 Accezione 3. in VGI, p. 288, mentre Rocci, p. 531, lo mette fra i significati primari. Tutti e tre i termini derivati dalla radice verbale śīl, contemplare, agire, fare, SED, p. 1079. 61 Dalla radice abhi-pra+i, avvicinarsi, appressarsi con il pensiero, pensare a, SED, p. 66. 62 Dalla radice ā-śī, restare, rimanere, riposare su qualcosa, SED, p. 157. 63 Questo termine non è citato in DES alla voce “Aptitude” (p. 23). Con questo termine i Buddhisti indicheranno anche i cinque sensi più la mente, intesa come sensorio comune. 64 Formato dal prefisso riflessivo sva, affine al greco ›, Ój, sfÒj, al latino sua, al tedesco sich, con i significati di: luogo nativo, disposizione innata, natura propria, SED, p. 1275. 65 Dalla radice rī, rilasciare, liberare, - al riflessivo - fluire, fluidificarsi, SED, p. 881. 66 DELI, I, p. 87: av.1347, B. da S. Concordio. 67 A. M. Murdaca, “Attitudine”, NDP, p. 120. 60 In Inglese aptitude (“attitudine”, più formale, che mantiene chiaramente la radice latina) o bent (anche «inclinazione») è concettualmente distante, ossia non è da confondere con il termine morfologicamente simile attitude, il cui significato originario è quello di posizione del corpo, ossia di «atteggiamento»68, inserito dal Roget (RT § 240) nella sezione della General form, accanto a termini come posture, lineament, phase e turn. In Francese vi è una situazione simile: aptitude come disposition indica l’inclinazione naturale, mentre il simile attitude come pose, allure, sta ad indicare l’atteggiamento, la posa, l’aria che si assume69. Aptitude è descritta come “la qualità quale viene determinandosi in una particolare tendenza”, annoverata tra i sinonimi di capacité, assieme a compétence e talent70, nonché tra quelli di penchant, ove compare accanto a pente, inclination, faible, disposition, prédisposition, tendance, propension71. Per il temine attitude, invece, ossia il “modo di tenere il corpo più o meno convenientemente rispetto ad una situazione data”72, abbiamo i sinonimi posture, position, air, allure73. In Tedesco74, si traduce con i sostantivi Anlage (disposizione, talento - capacità innata, disposizione intellettuale)75, il più intenso Begabung (dono della natura, ingegno – qualificazione innata, disposizione a speciali capacità)76, oppure Neigung77 (inclinazione - sentimento amorevole, affetto, predilezione, voglia di qualcosa)78. In Giapponese abbiamo i termini tekisei ( , attitudine)79, composto dagli ideogrammi “favorevole” e “natura, carattere” (KD, pp. 466, 1184), e soshitsu ( , disposizione, dote naturale, stoffa)80 composto dagli ideogrammi “elemento, principio” e “qualità, natura” (KD, pp. 1358, 1499). Parte delle attitudini può derivare dall’imprinting astrologico determinatosi alla nascita, ossia alla prima inspirazione del neonato, intendendo con tale termine inglese «processo che determina la fissazione irreversibile di una reazione su una particolare situazione stimolo.»81 Riduzionismo. La confusione favorita dalla somiglianza dell’italiano attitudine con il termine inglese attitude - che significa in realtà «atteggiamento» (v.) - ha finito con il generare una perfetta sovrapposizione dei due termini nella nostra lingua (Rossetti, pp. 37-38), finendo in tal modo per colorare in senso fatalistico traduzioni di testi inglesi e, al contrario, per avanzare pretese di ‘modellamento’, di vero e proprio plagio nei confronti delle altre persone in nome della formazione (v.). Se lo stesso vocabolario italiano mostra una certa affinità fonetica tra i due termini (entrambi derivati da actum, sia pure con differenti sviluppi), non così accade, ad esempio, in Tedesco o in Giapponese. L’equivoco, per noi italiani nasce come abbiamo visto – alle prese con le lingue francese ed inglese. 68 OP&FF, p. 9. DFI, pp. 1208-1209. 70 «La qualité en tant qu’elle se détermine dans une direction particulière», LS, pp. 106-107; MRP, p. 172. 71 LS, p. 429, ma manca in MRP. 72 « se dit d’une manière de tenir le corps plus ou moins convenable à la circonstance présente», LS, p. 60. 73 MRP, p. 83. 74 TIS, p. 50, sub voce «attitudine1». 75 «Angeborene Fähigkeit, Veranlagung», DW, p. 199. 76 « Angeborene Befähigung, Anlage zu besonderen Fähigkeiten», DW, p. 287. 77 Affine a neigen = inclinarsi. 78 « Liebevolle Gesinnung, Zuneigung, Vorliebe, Lust zu etwas», DW, p. 1135. 79 DGI, p. 711. 80 DGI, p. 612. 81 «Il periodo critico della disponibilità all’imprinting cade spesso molto presto nell’ontogenesi dell’individuo e in alcuni casi la sua durata si limita a poche ore, o rimane comunque sempre circoscritta entro rigidi limiti di tempo. La determinazione dell’oggetto, una volta compiutasi, non è più reversibile.» K. Lorenz, L’altra faccia … op. cit., p. 141. 69 Purtroppo, di tale equivoco ne fanno le spese alcune traduzioni di saggi interessanti, che finiscono con l’essere poco comprensibili, ovvero uno strumento per imporre addirittura i comportamenti, come in questi passaggi: «[…] tali attitudini vanno apprese durante i sei anni precedenti l’ingresso del fanciullo a scuola, ossia a casa. […] senza attitudini che portino all’ordine la scuola è una tecnica del tutto inefficiente.[corsivo mio, NdA]»82 «[…] saranno i motivi e l’attitudine [sic] dell’agente, più, naturalmente, il suo potere di penetrazione mentale, a determinare, generalmente parlando, il modo in cui egli condurrà l’esame, il suo intento nel fare in quel modo, e lo spirito in cui alla fine egli agirà; e tutte queste cose prese insieme (incluse le conseguenze di quel che fa) determinano la qualità morale del suo atto. Inoltre, […] è il motivo di un atto, più l’attitudine [sic] esistente all’inizio dell’esame, l’attitudine alla valutazione [sic] e l’attitudine a portare ad effetto la decisione [sic], ciò che principalmente determina l’effetto educativo dell’atto su colui che agisce.»83 Bene che vada - da questa traduzione ‘traditrice’ -, l’idea che può trasmettere è una sorta di predestinazione, secondo la quale le qualità umane con il loro connotato etico sono il risultato di un’eredità biologica! Per concludere, a proposito di manipolazione degli esseri umani, preme segnalare un ulteriore passaggio, tratto da un’opera contemporanea che sta condizionando pesantemente il mondo dell’istruzione, non solo italiana: «[…] lo sviluppo dell’attitudine a contestualizzare e globalizzare i saperi diviene un imperativo dell’educazione.»84 Da quanto detto, appare chiaro che anche la cosiddetta “valutazione delle attitudini” ed il relativo strumento del “test attitudinale”, si risolvono semanticamente in tentativi chimerici di misurare, ossia di tradurre secondo parametri quantitativi, ciò che è irriducibile alla quantità: la qualità innata. Questo equivoco segue lo stesso principio di quanto detto a proposito della doppia accezione del termine abilità (v.). COGNIZIONE Definizione. «Atto dell'intelletto mediante il quale si apprende qualche cosa, conoscenza, notizia, percezione. 2. Facoltà del conoscere, dell’apprendere, dell’intendere, intelligenza. 3. (ant.) Scienza, dottrina, sapere»85 Etimologia. Dal latino tardo cognitiō -ōnis: Conoscenza, studio, nozione, cognizione; nome d’azione del sistema di cognoscĕre, tratto da cognĭtus86. Con il significato di «atto, modo, effetto del conoscere» è attestato nella lingua italiana fin dal XIV secolo87. Riferimenti/rinvii. Presente nella lingua italiana già dal XIV secolo, il termine cognizione ancora per Marsilio Ficino significa composizione e adattamento del soggetto conoscente agli oggetti che gli si presentano.88 N. Postman, Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Roma, Armando, 19832, pp. 165-166. W. H. Kilpatrick, Filosofia … op. cit., p. 147. 84 E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 19. 85 DLIB, III (1964), pp. 266-267. 86 AEI, p. 86. 87 DELI, I, p. 250: av. 1332 Alberto della Piacentina. 82 83 Significato principale del sostantivo è dunque l’atto dell’intelletto e la relativa facoltà del conoscere, come traspare dalle definizioni di altri dizionari, specialistici e non: «Acquisizione di dati relativi ad una conoscenza. Facoltà di comprendere qualcosa e rendersene conto» (VLIDO); «Conoscenza, cognizione, informazione, approfondimento» (DSCGar); «1. (lett.) conoscenza, conoscimento, contezza (lett.), consapevolezza, coscienza, comprensione, notizia (lett.) […] 2. Nozioni, informazioni […] 3. (dir.) competenza» (DF); «Corrisponde a conoscenza. In psicologia è usato per indicare capacità (percezione, rappresentazione, intelligenza, memoria) che consentono di raccogliere, valutare, e trasformare informazioni» (DPSE). In alcune opere specialistiche la definizione si fa più articolata: «In termini finalistici la cognizione permette di adattare il comportamento dell'organismo alle esigenze dell'ambiente o di modificarle per i propri bisogni. L'analisi della funzione cognitiva si basa su percezione, intelligenza, ragionamento, giudizio, memoria a breve e a lungo termine, rappresentazione interna, linguaggio, sapere, pensiero» (EP);«Sono le funzioni che permettono all'organismo di raccogliere informazioni relative all'ambiente, immagazzinarle, analizzare, valutarle, trasformarle per agire nel mondo. In termini finalistici il comportamento dell'organismo alle esigenze dell'ambiente e modificarle per i propri bisogni.» (DPs) Nelle due ultime definizioni notiamo l’introduzione del concetto di funzione, il quale richiama (in un caso) l’aggettivo denominativo “cognitivo”, introdotto nell’uso come calco dell’inglese cognitive con il significato di “conoscitivo”. La fortuna di questo aggettivo negli ultimi anni è stata tale da oscurare addirittura il sostantivo da cui ha avuto origine, fino al punto di divenire esso stesso ‘padre’ di un altro aggettivo di recentissima acquisizione89 – “metacognitivo” – il quale ha generato a sua volta il sostantivo (ad elevato tasso di astrattezza, come si può vedere) deaggettivale “metacognizione”. Esaminando ora brevemente questi termini, ci troveremo in pieno campo riduzionista. Vedi anche CONOSCENZA. Riduzionismo. L’aggettivo cognitivo che in origine si chiamava conoscitivo e riferiva al contenuto, oggi grazie al prefisso meta90 ha apparentemente ampliato il suo campo semantico finendo per riferirsi ad un intero processo. Secondo la moda culturale corrente, «Quando si parla di METACOGNIZIONE, si intende l'insieme delle attività mentali che presiedono al funzionamento cognitivo. Così, in un qualsiasi processo cognitivo, si possono distinguere, da un lato, le operazioni che rendono possibile il processo e dall'altro gli aspetti metacognitivi rappresentati dalle conoscenze, valutazioni e decisioni che portano il soggetto ad effettuare il processo in un modo piuttosto che in un altro.»91 In tal modo il processo conoscitivo (‘cognitivo’), invece di puntare direttamente alla contemplazione dell’oggetto, si contorna di pensieri analitici accessori con reale funzione diaframmatica, ossia si sofferma su se stesso e su aspetti accessori, sfuggendogli così l’unità sintetica, unica ed irripetibile, costituita dalla volontà personale. A somiglianza di Narciso, la capacità analitica della mente si ferma ad osservare se stessa; apparentemente intenta a sezionare tutta l’attività conoscitiva con il suo metro, in realtà non vuole vedere altro che se stessa riflessa anche nelle facoltà superiori – che allora divengono ‘meta - analitiche’ (ecco la nascita del termine meta-cognizione). Come Narciso, ella si innamora di se stessa, escludendo ogni altro essere od oggetto dalla sua contemplazione, ed è destinata Cognitio per quondam mentis cum rebus aequationem perficitur. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna. Volume primo. Il problema della conoscenza nell’umanesimo e nel Rinascimento, Roma, Newton Compton editori, 1976, p. 109. 89 Ancora non attestato in VLIZ. 90 Il quale, si noti per inciso, ha conosciuto nel neo-Italiano una prodigiosa fortuna. Cfr. la sua assenza nella monumentale opera di G. Rohlfs Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (I prefissi, vol. III, pp. 347-361). 91 www.bdp.it/~noee0001/progetti/metacognizione/ introduzione.htm 88 inevitabilmente ad illanguidire: la proliferazione di vocaboli creati senza alcun aggancio con la realtà92 ne costituisce un chiaro segnale. Essi difatti generano una sorta di torpore (significativamente narcosis in greco da cui Narciso) che conduce la capacità analitica – come Narciso – a fare di se stessa “il servomeccanismo della propria immagine estesa e ripetuta”93. CONCETTO Definizione. «Nozione, idea che la mente si forma di una cosa (mettendone insieme le caratteristiche essenziali e costanti). 3. Ciò che la mente concepisce, pensiero. 9. Opinione, giudizio, parere, ipotesi. 15. (log.) Nozione rispondente ai requisiti di universalità e generalità.»94 Etimologia. Si fa derivare dal latino conceptus, participio passato di concĭpere, composto da cum e capĕre concepito, generato, afferrato dalla mente95. Riferimenti/rinvii. Non presente in NDP. Solitamente, indica una conoscenza universale, astratta, e nella filosofia classica è sinonimo di idea universale. Vi sono differenti prospettive su questo termine da parte delle scuole filosofiche: secondo i nominalisti e gli empiristi, il concetto non avrebbe nessun valore, essendo un puro flatus vocis; secondo Platone ed i suoi discepoli ha valore oggettivo e rispecchia le realtà archetipiche sussistenti in natura; secondo Aristotele, San Tommaso ed i realisti esso possiede un valore del tutto oggettivo e parzialmente soggettivo.96 Infatti in S. Tommaso esso è frutto dell’astrazione di un oggetto ed è pensiero nella forma attuale; infatti, l’oggetto intelligibile si può trovare nella mente in tre modi: «primo, sotto la forma di abito, cioè come oggetto della memoria; secondo, come oggetto del pensiero attuale, ossia come concetto; terzo come inferito da un altro oggetto»97 Nicola Cusano invece riconosce l’esistenza di un concetto assoluto che «non può esser altro che la forma ideale di tutto quello che può esser concepito: l’eguaglianza di tutto quello che può ricever forma.»98 Basti pensare al novello conio metacognizione; esso è un sostantivo astratto deaggettivale, derivato da un calco di una lingua straniera, che ha oscurato la traduzione italiana, a sua volta derivata da un sostantivo deaggettivale della tarda latinità costituitosi dal participio passato del verbo ‘conoscere’: almeno quattro passaggi dal significato originario, che costituiscono altrettanti diaframmi - come livello di astrazione non c’è male. 93 Espressione tratta da M. McLuhan, Gli strumenti … op. cit., p. 47. 94 DLIB, III (1964), pp. 463-464. 95 AEI, p. 92. 96 Cf. A. Livi, Lessico della filosofia. Etimologia, semantica & storia dei termini filosofici, Milano, Ares, 1995, p. 36. 97 «Intelligibile autem est in intellectu tripliciter: primo quidam, habitualiter, vel secundum memoriam […]; secondo autem, ut in actu consideratum vel conceptum; terbio, ut ad aliud relatum.» ST, Prima Pars, Quaestio CVII, Art. I, p. 499. 98 Absolutus conceptus aliud esse nequit, quam idealis forma omnium, quae concipi possunt: quae est omnium formabilium aequalitas. (Idiota, II, 79b), citato in: E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, op. cit., p. 84. 92 Nella scienza pedagogica l’importanza attribuita al concetto è legata al suo ruolo basilare nel processo conoscitivo, stadio preparatorio di quello del giudizio (v.) passaggio necessario per quello conclusivo del ragionamento (v.) . «Le rappresentazioni costituiscono la base, il fondamento del concetto ma non possono identificarsi con questo […]. Per capacità di astrazione non intendiamo altro che rilevare mediante un concetto il quale si forma attraverso la riproduzione rappresentativa di certi contenuti dell’esperienza i caratteri generali ed essenziali delle cose, la capacità cioè di giungere ad uno sguardo di insieme, ad un ordinamento della realtà che permetta di considerare il particolare dal punto di vista del generale. […] Se i concetti possono talvolta presentarsi come “stati di consapevolezza”, come formazioni indipendenti, alla cui genesi le rappresentazioni forniscono il fondamento senza che però nessuna rappresentazione insorga ad illustrarli, dobbiamo d’altra parte notare che vi è sempre la possibilità che nel pensiero un maggior o un minor numero di rappresentazioni siano richiamate proprio per dare evidenza ai concetti, per dar loro un’immagine. […] La forma di pensiero ricca di immagini si trova negli uomini che vivono in immediato contatto con la realtà concreta sia perché cercano di intervenire praticamente in essa, sia perché è forte in essi il componente dell’esperienza estetica cosicché gli aspetti rappresentativi del reale vengono a fare direttamente parte dell’interiorità come una base del significato stesso del mondo.»99 Diversamente da questa impostazione, lo sviluppo filosofico operatosi nell’idealismo impone una riduzione dell’intera realtà nel puro aspetto concettuale, come evidenziato in questo passo: «Il concetto, conoscenza vera ed assoluta, dev’essere, e non può essere altro che concetto che lo spirito ha di se medesimo (conceptus sui) […] Il concetto, pertanto, al pari della sensazione, è la coscienza che l’Io ha di sé nella sua determinatezza: è, dunque anch’esso sensazione. Alta quanto si voglia (mai così alta che alla mente non rimanga pur sempre da salire d’infiniti cubiti ancora): lontana sì, per gran distanza, che si percorre solo con grandi sforzi e in virtù di fede e di amore, dalla sensazione dell’uomo volgare, a cui lo scienziato nega il concetto delle cose che egli studia; ma pur fatta di quella medesima stoffa, vivente della medesima vita. Universale sì il concetto (non generale), ma come la sensazione; e assoluto, com’essa: universale e assoluta a suo luogo, nel suo momento. E infatti ha la sua storia, che è la storia delle scienze.»100 Tale sviluppo continua ai giorni nostri con l’opera di E. Morin, che al riguardo afferma:«La concezione trasforma il conosciuto in concepito, cioè in pensato. Nell’idea di concezione si può trovare: - l’idea di generazione o di procreazione; - l’idea di formazione concettuale; - l’idea recente, ma pertinente, di design, cioè di configurazione originale costitutiva di un modello per insiemi, assemblaggi o oggetti nuovi. Possiamo, inglobando questi tre sensi, definire la concezione come la generazione, da parte di una mente umana, di una configurazione originale costituente un’unità organizzata.»101 La conseguenza di questa teoria è che «non ci sono più, non ci saranno più concetti semplici alla base: per qualunque oggetto fisico, e quindi anche per l’universo.» 102 perseguendo la finalità «di cambiare lo sguardo su tutte le cose, dalla fisica a homo.»103 In questo passaggio si può vedere all’opera lo stesso F. Lersch, La struttura del carattere, Padova, CEDAM, 1950, pp. 235-237. G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., pp. 72-73. 101 E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 19933, p. 208. 102 E. Morin, La natura della natura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001, p. 171. Dobbiamo tuttavia tenere conto dello strumento linguistico adoperato dall’autore: in Francese difatti il termine concept è di esclusiva pertinenza filosofica o linguistica, nella lingua corrente adoperandosi altre parole come idée, notion, principe o opinion. Cf. FAA, pp. 41-42. 103 E. Morin, La natura … op. cit.., p. 174. 99 100 principio narcisista tendente all’astrattezza già delineato nella voce COGNIZIONE (v.). Anche in questo, la finalità dell’intenzione del sociologo francese appare in realtà quella di predisporre una serie più efficiente di diaframmi conoscitivi tra la persona e la realtà oggettiva. CONOSCENZA Definizione. «Il conoscere, l’apprendere – in particolare: il conoscere intimamente e adeguatamente cose o persone; cognizione, notizia, consapevolezza. 2. Per lo più al plurale: nozioni, cognizioni acquisite su diverse parti, sezioni, aspetti delle scienze e delle arti. […] 4. Virtù, facoltà di conoscere, di intendere, intelletto, coscienza. 5. Scienza, dottrina, pratica, perizia, saggezza.»104 Etimologia. Dal latino tardo cognoscentia, dal classico cognoscĕre, composto da co e (g)noscĕre, verbo incoativo dalla radice g(e)no105. Anche intelligentia = Intendere qualcosa , conoscenza, competenza, esperienza, abilità; intelligentia iuris = profonda conoscenza del diritto; pars animi rationis atque intelligentiae particeps = parte dell'anima dotata di ragione e di intelligenza per intendere qualcosa. In Greco abbiamo i verbi a„sq£nomai “percepisco con i sensi, odorato, vista, udito” affine al latino audio (Rocci, p. 44) e gignèskw “prendo conoscenza, osservo, apprendo, discerno” (Rocci, p. 389) che «indicano originariamente la percezione di un oggetto di conoscenza con gli organi del senso»106; il termine sÚnesij “comprensione, conoscenza” ed il verbo sun…hmi “percepire, conoscere, capire” sono adoperati nella traduzione dei LXX per tradurre gli ebraici binah e tebunah, dagli stessi significati.107 In Sanscrito abbiamo i termini j–āna (conoscenza), saj–ā (accordo, comprensione reciproca, armonia, conoscenza chiara) e parij–āna (percezione, pensiero, conoscenza) 108, vidatha (conoscenza, saggezza), vidyā (conoscenza, scienza, apprendimento) e savid (consapevolezza, intelligenza, conoscenza, percezione)109, buddhi (il potere di formare e ritenere concetti e nozioni generali)110. Con il significato di «Atto, facoltà del conoscere, ossia apprendere con l'intelletto, controllo delle facoltà sensoriali e intellettuali» il temine è presente nella lingua italiana sin dalla fine del XIII secolo111. Riferimenti/rinvii. In tutti i dizionari c’è un riferimento puntuale al significato principale: «Essere in grado di intendere, avere cognizione precisa di qualcosa» (VLIDO); «Sapere, avere cognizione, riconoscere» (DSCGar); «1. Cognizione, consapevolezza, contezza (lett.), percezione, idea, comprensione, apprendimento, 104 DLIB, III (1964), p. 574. AEI, p. 97. 106 DCBNT, p. 343. 107 Cf. DCBNT, p. 1496. 108 Tutti e tre derivati dalla radice j–ā “conoscere, avere cognizione, percepire”, simile a quella del verbo greco gignÒskw e latino co-gno-sco. SED, p. 425. 109 Tutti e tre derivati dalla radice vid “conoscere, comprendere, percepire, apprendere” simile a quella del verbo greco eŒdon, oŒda e latino videre, con esiti simili in Tedesco wissen, e Inglese wot. SED, p. 963. 110 Dalla radice budh, “svegliare, svegliarsi, divenire consapevole, osservare, seguire”, simile al greco punq£nomai, puqšsqai, al tedesco bieten, all’inglese bid. SED, p. 733. 111 DELI, I, p. 270: av. 1257 Bonagiunta. 105 nozione […] 2. Cultura, istruzione, erudizione, sapere, sapienza, cervello […] 3. (est.) conoscente […] 4. (est.) familiarità, dimestichezza […] 5. Coscienza, sensi, controllo, facoltà. […]» (DF); «Insieme di fatti tramite i quali la realtà si presenta al soggetto» (EP). In ambito più propriamente pedagogico, questo aspetto è decisamente sottolineato: «La conoscenza ha finalità educative e in essa cultura e educazione si saldano e viene compresa nella cultura generale. Educazione alla virtù è insieme educazione alla conoscenza. […] Conoscenza razionale vera è la penetrazione intellettuale delle condizioni soggettive ed oggettive intorno al sapere» (DIP); «La conoscenza ha finalità educative e in lei cultura e educazione si saldano e sono comprese nella cultura generale. Educazione alla virtù e insieme educazione alla conoscenza, Socrate diceva: “Sapere è virtù”.» (DPSaie); «Termine che abbraccia tutti gli aspetti cognitivi (percezione, memoria, immaginazione, pensiero, critica, giudizio). In psicologia la conoscenza è ottenuta dall'integrazione dell'esperienza con il passaggio dal concreto all'astratto» (DPs). In ambito biblico «non è un semplice processo intellettivo, orientato a formulare un giudizio. È un’attività complessa, prodotta dall’uomo intero; mette in opera l’intelligenza, il cuore, la volontà, e anche il corpo.»112. La prospettiva biblica trova un’eco precisa in S. Tommaso con le sue definizioni del processo: «Si ha la conoscenza perché l’oggetto conosciuto viene a trovarsi nel conoscente»113, e «la conoscenza ha luogo nella misura in cui il conosciuto è nel conoscente»114. La definizione tommasiana trova un preciso riscontro in alcuni dizionari specialistici: «Intesa come adeguamento dell'intelletto alle cose o come adeguamento delle cose all'intelletto. Poi si è avuta la separazione tra soggetto e oggetto.» (DPSE). Concludendo questa breve rassegna, riguardo la conoscenza si può affermare che «In senso generale, è la presenza della realtà alla coscienza del soggetto dotato di intelligenza. Quando è perfetta, essa coincide con la verità»115. In epoca moderna, molte sono le prospettive riguardo la conoscenza ed il suo processo: dal pragmatismo di J. Dewey, secondo il quale la conoscenza può e deve essere pianificata per l’utilità sociale116 , visione questa, la quale non tiene conto dei fini della conoscenza, che fu già ampiamente criticata da Maritain117; per l’idealismo di G. Gentile «la conoscenza non è un’alterazione bensì una creazione delle cose. […] la cosa non c’è prima di essere conosciuta.»118. A questa conclusione arriva ponendosi in un contesto dualista e dovendo per forza prendere posizione: «Noi siamo dunque a questo bivio: o negare lo spirito, il pensiero, il soggetto, noi stessi che dovremmo fare la negazione; o negare la materia. Non occorre dire che la scelta ci è imposta dall’impossibilità di un atto che per non farsi dovrebbe farsi: quel negare il pensiero, che è pensare, cioè affermare il pensiero. Porre, quindi, l’uomo come soggetto, assolutamente: soggetto, cioè, e nient’altro che soggetto.»119 112 DB, p. 223. «Nam cognitio fit per hoc quod cognitum est in conoscente» ST, Prima Pars, Quaestio LIX, Art. II, p. 281. 114 «Cognitio enim contigit secundum quod cognitum est in conoscente» ST, Prima Pars, Questio XII, Art. 4, p. 52. 115 A. Livi, Lessico … op. cit., p. 37. 116 «[…] poiché la democrazia rappresenta come principio il libero scambio, la continuità sociale deve sviluppare una teoria della conoscenza che riconosca nella conoscenza il processo per cui un’esperienza è utilizzata al fine di dare direzione e significato ad un’altra», J. Dewey, Democrazia e educazione, , Firenze, La Nuova Italia, 19659, p. 441. 117 «è un disgraziato errore quello di definire il pensiero umano come un organo di risposta agli stimoli e alle situazioni attuali dell’ambiente, vale a dire in termini di conoscenza e reazioni animali, poiché una simile definizione si applica esattamente al modo di pensare proprio degli animali senza ragione. Al contrario, è perché ogni idea umana – per aver un senso – deve attingere in qualche modo (sia pure nei simboli di una interpretazione matematica dei fenomeni) ciò che le cose sono o ciò in cui esse consistono; è perché il pensiero umano è uno strumento piuttosto un’energia vitale di conoscenza o d’intuizione spirituale;» J. Maritain, L’educazione al bivio, Brescia, Editrice La Scuola, 1963, p. 28. 118 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., pp. 11-12. 119 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., p. 93. 113 Per il comportamentismo «ogni conoscenza si origina dall’osservazione, sia attraverso la percezione sensoriale diretta, sia per mezzo degli strumenti che aiutano l’osservazione e la misurazione.[…] Il sistema percettivo umano, ampliato comunque nella sua ricettività dall’ausilio strumentale, è limitato a ciò che si può percepire; i limiti della percezione umana sono anche i limiti della conoscenza. Un altro limite a quanto l’uomo può conoscere è rivelato dal “principio di Indeterminazione” di Heisemberg.»120. Riduzionismo. L’insistere esclusivamente sul processo di astrazione insito nell’organo della vista porta alle posizioni che apparentemente ripudiandola, permettono all’astrazione di rientrare dalla finestra: «La conoscenza progredisce principalmente non con la sofisticazione, la formalizzazione e l’astrazione, ma la capacità di contestualizzare e di globalizzare.»121. È chiaro da questo passaggio che la conoscenza è vista come un processo all’infinito, senza un punto di arrivo, secondo quel principio narcisistico già illustrato a proposito della creazione di nuovi termini (v. COGNIZIONE). Dal passaggio che segue, si nota la riduzione che si fa della conoscenza e del sapere a processo meramente cerebrale: «Già da tempo la filosofia critica ci aveva insegnato che la conoscenza non è una proiezione della realtà su uno schermo mentale ma la risultante di un’organizzazione cognitiva operante su dati sensoriali. Oggi, le neuroscienze cominciano a farci capire come si costruisca la traduzione delle realtà esterne. La conoscenza cerebrale è innanzitutto una traduzione di eventi fisici in messaggi interneuronici portatori di informazioni, poi, per il tramite di inter-retro-macro-computazioni, essa traduce questi messaggi in rappresentazioni e, simultaneamente o successivamente, le attività psichiche traducono tali rappresentazioni in parole e idee, a loro volta organizzate in discorsi e teorie, che sono costruzioni nooculturali volte a ricostruire, in modo analogico e simulativi, le forme o le strutture delle realtà esterne.»122. Queste considerazioni non fanno altro che riproporre, secondo nuovi termini e costrutti logici, il vecchio razionalismo cartesiano, come svelato nella seguente asserzione, forte in quanto poeticamente pregnante: «Ma so sempre meglio che l’unica conoscenza che valga è quella che si alimenta di incertezza e il solo pensiero che vive è quello che si mantiene alla temperatura della propria distruzione.»123. Un dogma notevole, che basa però la conoscenza sull’ignoranza. Vedi anche quanto esposto alla voce COGNIZIONE sulla metacognizione come conoscenza. CREATIVITÀ. Definizione. «Capacità, facoltà, attitudine a creare. 2. Attività, operosità dinamica, forza costruttiva.»124 Etimologia. Il termine deriva dall’aggettivo “creativo” – dal latino creāre- che in Italiano è presente dal XV secolo, ma solo nell’accezione di “pertinente alla creazione”; solo dal 1970 è attestato il significato di “chi M. J. McCue Aschner, “L’uomo pianificato: Skinner”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. ... op. cit., pp. 448-449. 121 E. Morin, La testa ben fatta … op. cit., p. 8. 122 E. Morin, La conoscenza … op. cit., p. 234. 123 E. Morin, Il Metodo. Ordine disordine organizzazione, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 32. 124 DLIB, III (1964), p. 937. 120 elabora annunci pubblicitari”, mentre il suo uso nel mondo dell’alta moda (con le relative ‘creazioni’) è un calco dal francese création, attestato sin dall’inizio del XX secolo125. Riferimenti/rinvii. Sviluppandosi la seconda accezione della definizione, con il significato sostanziale di immaginazione compare in vari dizionari: «Capacità produttiva della ragione o della fantasia (creativo -inventivo)» (VLIDO); «Fantasia, estro, inventiva» (DSCGar); «capacità creativa, fantasia, fecondità, genialità, inventiva, estro, vena (fig.), arte» (DF); Proveniente dall’ambito della psicologia, il termine in pedagogia è venuto via via acquisendo sempre più importanza, come provato da vari testi126: «Educazione che favorisce la produttività del pensiero e dell'espressione, ciò che facilita i processi di ristrutturazione nel campo percettivo e intellettivo» (EP); «Si indica una dimensione esistenziale della persona umana, che usando facoltà logiche ed emotive tende a porsi in modo aperto all'ambiente rivendicando il valore unico di apertura al diverso per una società migliore» (DP); «Può essere considerata componente dell'intelligenza che consente all'uomo di andare oltre il noto ed è caratteristica di artisti o scienziati» (DPSE); «Carattere evidente in individui capaci di riconoscere pensieri ed oggetti e nuove connessioni che portano a cambiamenti» (DPs); in NDP127 «si indica una dimensione esistenziale della persona umana che, utilizzando integralmente tutte le sue facoltà logiche ed emotive, tende a porsi in modo aperto ed originale nei confronti dell’ambiente.» Di derivazione palesemente psicologica, il concetto appare per la prima volta con il Romanticismo e l’Idealismo tedesco. Con Adorno e la sua teoria critica della società, il pensiero creativo diviene pensiero dialettico. Dewey dedicò (1917) un saggio all’Intelligenza creativa. Negli anni ’50 queste ricerche vengono riprese da Bruner, approfondendo i fattori che favoriscano od inibiscano la creatività e la possibilità di educarla, nonché da Rogers, che considera la creatività come l’affermazione dell’io in tutti gli aspetti della vita psichica.128 Per l’idealismo di Gentile «l’atto psichico è sempre nuovo e sempre creativo: non condizionato se non da se stesso. Una sensazione provata è la realizzazione di una natura determinata dell’Io»129. L’atto così delineato dal filosofo italiano è assoluto (sciolto da tutto, da cui il nome attualismo dato al suo sistema), in quanto completamente svincolato dal tempo e dallo spazio. In quest’ottica, l’aggettivo “creativo” adoperato da Gentile è pregno di quel carattere trascendente, tipico del concetto di creazione ex-nihilo, che rende l’uomo un vero e proprio creatore del mondo, a discapito dell’oggettività dei dati esterni ad esso. Riduzionismo. Si preferisce il termine ‘creatività’ a quelli, più pertinenti, di ‘originalità’ e di ‘immaginazione’, arrivando addirittura a coniare delle espressioni pleonastiche come “originalità creativa”. Abbiamo un esempio della sua fortuna, derivata dall’aggettivo creativo, nel passaggio: «L’attuale gioventù che cresce deve essere aiutata a formarsi uno spirito creativo nell’affrontare i problemi o le situazioni della vita, anziché seguire semplicemente il parere delle masse.»130. Concludendo, la sua estrema diffusione nel linguaggio odierno possiede due ordini di ragioni: 125 DELI, I, p. 294. Ma ‘creatività’ non è attestato né in DELI, né in AEI. Anche se risulta non attestato in DE, DIP e DPSaie. 127 F. Falcinelli, “Creatività”, NDP, p. 269. 128 F. Falcinelli, “Creatività”, NDP, pp. 270-274. 129 G. Gentile, Sommario di Pedagogia… op. cit., p. 45. 130 W. H. Kilpatrick, Filosofia … op. cit., p. 524. 126 - perché fomentato dalla somiglianza linguistica con l’inglese creative e creativity (adoperati soprattutto in campo artistico); per la maggiore pregnanza di significato che l’aggettivo creativo ha assunto nei confronti degli aggettivi sinonimi, grazie all’apporto della filosofia idealistica gentiliana. CULTURA. Definizione. «Il complesso delle conoscenze intellettuali mediante le quali una persona, attraverso un’autonoma, organica e approfondita rielaborazione, si è venuta formando ed affinando intellettualmente e spiritualmente, pervenendo alla formazione della propria personalità; l’ideale di formazione umana tendente alla realizzazione dell’uomo nella sua autentica forma e natura umana; dottrina, istruzione, l’essere educato e ingentilito spiritualmente. […] 4. Educazione, disciplina, istruzione. […] 5. Adornamento, cura della persona. […] 6. Adorazione, venerazione, culto religioso, religione.»131 Dal latino cultura, participio futuro con valore finale reso astratto del verbo colĕre vedi i significati dati in Fioravanti132: «a) coltivare, nel senso di fare, lavorare, operare sul creato; b) coltivarsi, vale a dire il crescere interiormente e perfezionare le proprie qualità umane; c) rendere culto, il che significa essere consapevole della propria natura di creatura, in grado di raggiungere la saggezza. Il processo di formazione della cultura quindi non ha mai termine perché la funzione di coltivare se stessi cessa solo con la morte; ecco perché lo studio finalizzato alla cultura è un compito di tutta la vita, non limitato ai soli anni di scuola.» La triplice composizione essenza del termine è confermata anche dai dizionari: «1. Sapienza, istruzione, dottrina, conoscenza, sapere, erudizione […] 2. Civiltà, civilizzazione […] 3. Coscienza, mentalità. […] 4. Coltivazione, coltura» (DF). In alcuni dizionari specialistici, come ad esempio NDP133, vi sono esaminati molti problemi e svariate problematiche del termine – dall’antropologia culturale alla cultura educativa - senza arrivare però ad una formulazione definitiva più o meno complessa. Etimologia. A sua volta il verbo latino deriverebbe dalla radice indoeuropea KWEL «indicante il movimento circolare (non solo in senso proprio, ma figurato) e quindi interesse, coltivazione, protezione»134. Nel mondo latino esiste comunque il concetto di cultura animi, come di ‘cura del proprio animo’. In Greco abbiamo il termine paidšia “educazione, formazione, cultura, disciplina” ed il verbo correlato paideÚw “educare, formare, addestrare, istruire” che trovano la loro radice in pa‹j “fanciullo” (il puer latino), indicando con ciò l’atto ed il concetto dello “stare insieme con un fanciullo”.135 La limitazione è insita nell’oggetto (il fanciullo) che marca il significato. Il termine cultura invece non ha età. Per lavoro e azione abbiamo il termine œrgon . Altri termini greci ad intendere l’azione umana sono dr©ma e pr©xij, mentre per culto il termine è latre…a; con il significato anche di servizio, cura. 131 DLIB, III (1964), p. 1045. G. Fioravanti, Riflessioni e spunti per una pedagogia della scuola, L’Aquila, Japadre, 2001, p. 69. 133 G. Flores d’Arcais, “Cultura”, NDP, pp. 274-292. 134 AEI, p. 87. 135 DCBNT, p. 549. 132 In Sanscrito il termine ‘cultura’ si può tradurre con le parole seguenti: sevana (rendere omaggio, servizio, accadimento, adorazione)136 e anusevana (osservanza, pratica, coltivazione), oppure nella specifica accezione cognitiva vidyānusevana “coltivazione delle scienze, studio scientifico” (SED, p. 964),137; parikāra “autodisciplina, purificazione, iniziazione”138; anuhāna “intrapresa, azione, prestazione”139; anupālana mantenimento, preservazione, custodia”140 e pratipālana “protezione, custodia, mantenimento, osservanza”141; savardhana “sviluppo, crescita, arricchimento”142. In Italiano, cultura nel senso di ‘civiltà’ deriva dal tedesco Kultur143. Riferimenti/rinvii. In un dizionario filosofico troviamo la seguente definizione: «è un termine metaforico per indicare lo sviluppo delle qualità umane nella società»144 Ma non è in realtà metaforico, in quanto, come abbiamo visto, il termine è intessuto di tre significati principali, tra loro strettamente collegati. «L’uomo non è soltanto un “animale di natura”, come l’allodola o l’orso. È anche un “animale di cultura”, la cui specie può sussistere soltanto con lo sviluppo della società e della civiltà;»145 In Francese il termine culture nasce come un’accezione particolare di civilisation, debitrice in tal senso dell’uso tedesco146, mentre con culture générale si intende il bagaglio delle conoscenze generali che una persona al termine del proprio ciclo di studi è supposta possedere147, come accezione di savoir. Negli ultimi tempi è adoperato anche con la duplice accezione di “sviluppo di alcune facoltà innate mediante degli appositi esercizi intellettuali e la totalità delle conoscenze acquisite”148. In Inglese culture sta a significare «l’insieme dei modelli di comportamento; l’esercizio della scienza, della filosofia e delle arti; istruzione» e per tradurre correttamente la parola cultura in tale lingua talvolta è necessario ricorrere ad una perifrasi149. Significativamente, non compare nel RT. A designare la parola cultura, in Giapponese abbiamo il termine bunka ( , cultura, civiltà)150, composto dagli ideogrammi “scrittura, testo, letteratura” e “trasformazione, atto della trasformazione” (KD pp. 312, 156), molto vicina al significato di civiltà, Kultur. In San Tommaso il termine cultura è adoperato principalmente ad intendere il lavoro agricolo e il culto divino151. Per parlare dell’accezione relativa al sapere, adopera il temine disciplina, la quale riconosce 136 SED, p. 1247. Tutti e tre derivati dalla radice sev, “servire”, “allevare”, “abitare”, “frequentare”, “rifugiarsi”, SED, p. 1247. 138 SED, p. 603. 139 Dalla radice anu + hā, “trovarsi vicino”, “governare”, “praticare”, “effettuare”, SED, p. 40. 140 Dalla radice anu + pāl, SED, p. 35. 141 Dalla radice prati + pāl, SED, p. 667. 142 SED, p. 1116. 143 AEI, p. 113. 144 A. Livi, Lessico … op cit., p. 40. 145 J. Maritain, L’educazione … op. cit., p. 14. 146 LS, p. 129. 147 «L’ensemble des connaissances générales que possède, sur la littérature, l’histoire, la géographie, la philosophie, les sciences et les arts, une personne ayant terminé ses études» LS, p. 534. 148 «Développement de certains facultés de l’esprit par des exercices intellectuels appropiés; ensamble des connaissances acquises» (MRP, pp. 308-309). 149 OP&FF, p. 39. 150 DIG, p. 944. 151 B. Mondin, Dizionario enciclopedico del pensiero di San Tommaso d’Aquino, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1991, p. 173. 137 fondamentale per il perfezionamento di quelle virtù per le quali l’uomo possiede un’attitudine naturale.152 Una serie di definizioni mirano ad evidenziare questo tratto, caratterizzante l’essere umano: «Chiamasi cultura il complesso delle attitudini idonee a permettere comportamenti superiori alla dinamica degli istinti, cioè, il complesso di competenze individuali costituenti un patrimonio diverso e inderivabile dallo genetico: un patrimonio che dev’essere appreso.»153; «[la cultura] è la capacità di estendere l’ambito e l’accuratezza della nostra percezione dei significati»154; per T. S. Eliot, la C. addirittura la cultura è «ciò che rende la vita degna di essere vissuta»155: nelle sue Notes Towards the Definition of Culture, egli afferma: «[…] la cultura è una meta cui non possiamo puntare direttamente. Essa piuttosto è il prodotto di una serie di attività più o meno armoniche, ognuna perseguita per se stessa»156 «La cultura è un universale umano. È uno stile di vita e di soluzione, organica e coerente, di tutti i problemi di un uomo o di una comunità omogenea.»157; Ortega y Gasset centra la sua riflessione sul rapporto fra scienza e cultura. Quale concetto di cultura ha il nostro autore? “La cultura è il sistema vitale delle idee di ogni tempo (J. Ortega y Gasset, Misión de la Universidad, in “Obras Completas”, 12 voll., Alianza Editorial, Madrid 1987, vol. IV, pp. 322)”; o anche: “ la cultura è il sistema delle idee vive che ogni tempo possiede. Meglio: il sistema delle idee a partire dalle quali quel tempo vive (ibid., p. 341).” 158 «Ogni accumulo di sapere, che è un fatto costitutivo per lo spirito dell’uomo culturale, si fonda sulla formazione di strutture rigide. Perché queste strutture possano essere ereditate di generazione in generazione e perché sia possibile un accumulo di sapere durante un lungo periodo di tempo, è necessario che le strutture stesse siano dotate di un’invarianza relativamente alta. Il sapere complessivo di una cultura, che è contenuto in tutti i suoi usi e costumi, nei suoi procedimenti, dall’agricoltura alla tecnica, nel lessico e nella grammatica della sua lingua, e tanto più nel sapere ‘saputo’ della cosiddetta scienza, deve essere colato in strutture dalla forma relativamente costante, se deve essere accumulato e trasmesso ad altri.»159 La triplice accezione del termine cultura, come evidenziata da Fioravanti, trova una sua precisa corrispondenza nei tre ambiti fondamentali (“strutture dall’alto grado di invarianza” per usare il linguaggio di K. Lorenz) che costituiscono la sfera dell’azione umana160, riconosciuta nelle varie epoche sotto latitudini differenti. In questa sede, ci basti accennare brevemente ad alcuni esempi di questo triplice ambito, espunti da una rassegna imponente, corrispondente - più o meno – all’intera storia umana, la quale meriterà in futuro una trattazione specifica. In Grecia, ad esempio, osserviamo un vero e proprio canone per la paideia, la formazione che includeva l’addestramento fisico, quello intellettuale e spirituale. Le divinità più frequentemente «Homini naturaliter inest quaedam aptitudo ad virtutem; sed ipsa virtutis perfectio nocesse est quod homini adveniat per aliquam disciplinam.» ST, Prima Secundae, Quaestio XCV, Art. I, p. 959. 153 M. Peretti, Cultura, Brescia, Editrice La Scuola, 1978, p. 11. 154 J. Dewey, Democrazia … op. cit., p. 159. 155 G. H. Bantock, “L’uomo acculturato: Eliot”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi … op. cit., p. 374. 156 G. H. Bantock, “L’uomo acculturato: Eliot”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi … op. cit., p. 382. 157 G. Corallo, Pedagogia, Torino, SEI, 1972, vol. II, p. 197. 158 Cf. G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità e responsabilità del sapere, Casale Monferrato, Piemme, 1998, p. 78. 159 K. Lorenz, L’altra faccia … op. cit., p. 327. 160 Cioè: io; il mondo ciò che è al di fuori di me; la metafisica, ossia ciò che è al di là di me e del mondo. Le famose eterne domande della filosofia: chi sono? Dove sono? Dove vengo? Dove vado? Perché? 152 onorate con sacelli di culto all’interno dei ginnasi erano Hermes, Herakles e Eros, rispettivamente preposti appunto alla sfera intellettuale (ossia la speculazione, il riflesso del mondo fuori di me), fisica (la coltivazione del proprio io) e spirituale (la capacità di discernere il bene dal male, l’amore dall’odio): se il primo simboleggiava il logos, il discorso, e pertanto la paideia in senso lato, il secondo richiamava la vigoria fisica, il terzo sovrintendeva alla philia (amicizia-amore-desiderio), stimolando e disciplinando così la sfera dei comportamenti sociali, in collaborazione con Agon, la competizione161. «L’uomo conosce se stesso e conosce anche il mondo, per cui è in grado di ricordare ciò che si addice alla sua funzione e riconoscere di quali cose può servirsi, e quali invece servire, rendendo grazie e lode a Dio, venerando la sua immagine, senza dimenticare che egli stesso è la seconda immagine di Dio, perché Dio ha due immagini: il mondo e l’uomo.» (Asclepio, 10)162. Infatti secondo il Corpus Hermeticum, il mondo è immagine di Dio (I, 31; V, 2; VIII, 2; XII, 15) o dell’eternità (XI, 15); l’uomo è l’immagine del mondo (VIII, 5); l’uomo essenziale è immagine di Dio (I, 12)163. La cultura è dunque la sintesi della possibile azione umana nei tre ambiti a lei pertinenti, e questi tre ambiti si trovano riflessi nella stessa costituzione umana: «Questa distinzione dello spirito, dell’anima e del corpo è stata applicata sia al ‘macrocosmo’ che al ‘microcosmo’, la costituzione essendo analoga a quella dell’altro, sicché si deve necessariamente ritrovare elementi che si corrispondano rigorosamente da una parte e dall’altra … I Pitagorici consideravano un quaternario fondamentale che comprendeva in primo luogo il Principio, trascendente in rapporto al Cosmo, poi lo Spirito e l’Anima universali, ed infine la Hylé primordiale; … Comunque, gli Stoici deformarono questo insegnamento in un senso ‘naturalistico’, perdendo di vista il Principio trascendente, e non considerando più che un ‘Dio’ immanente, il quale, per essi, si assimilava in modo puro e semplice allo Spiritus Mundi; … quest’Anima mundi ha avuto soltanto una parte semplicemente ‘demiurgica’ … la formazione del Corpus Mundi»164 Il ternario Deus- Homo- Natura fu il campo di speculazione filosofica medievale in Occidente. Questa robusta intelaiatura tripartita permise lo sviluppo delle conoscenze, come attestato ad esempio dagli stessi metodi di istruzione invalsi fino all’epoca moderna: vedi quadro degli Scolopi. Similmente nella scienza alchemica, si parlava di un ternario composto da Zolfo, Mercurio e Sale, che formavano gli ‘elementi primi’ dell’uomo, sui ed attraverso i quali dunque si doveva intervenire. Perfino nell'antica civiltà cinese troviamo una precisa rispondenza dei tre ambiti, raffigurati ideogrammaticamente come tre piani: il Wang (l’Imperatore o Re-Pontefice cinese) indica chiaramente nell’ideogramma il concetto di unico asse che mantiene uniti tre piani differenti e paralleli, e l’imperatore è colui che si fa “garante” del mantenimento di tali piani, asse unico che li unisce. I tre ambiti dell’azione umana – Uomo, Mondo, Dio – si riflettono anche nei fondamenti e principi della Pedagogia (v. Fioravanti cap. IX): 1. L’uomo come persona, ossia la riflessione antropologica, io; 2. Il realismo, analisi obiettiva cosmologica, il mondo; 3. Valorizzazione degli elementi positivi, investigazione di carattere etico, eziologico e teleologico che predispone a un processo analitico, razionale e sintetico simile a quello della scienza teologica, Dio. I riflessi di questa triplice ripartizione, rilucono inaspettatamente in differenti epoche tra i più svariati pensatori. Lo stesso Comenio, ad esempio, riconosce nel “Gran libro della Natura” – dove Dio si È la tesi fondamentale dell’opera di Th. F. Scanlon, Eros and Greek Athletics, Oxford, 2002. B. M. Tordini Portogalli (a cura di), Ermete Trismegisto Corpo Ermetico e Asclepio, Milano: SE srl, 1997, pag. 122. 163 B. M. Tordini Portogalli (a cura di), Ermete Trismegisto … op. cit., pp. 23, 39, 49, 82, 73, 51, 17. 164 R. Guénon, La grande triade, Roma, Editrice Atanor, 1971, p. 71. 161 162 rivelava agli uomini – un insieme di tre libri: della natura, della mente e le Sante Scritture165; è facile riconoscere anche in questo caso gli ambiti rispettivamente del Mondo, dell’Uomo e di Dio. Conferma, sia pure in negativo, del triplice campo applicativo costituito dalla cultura è anche il tipo di riduzioni speculari che il suo concetto ha conosciuto. Riduzionismi. Vedi Fioravanti, cap. IX. CURIOSITA’. Definizione. «L’essere curioso, sia per abitudine, sia in una circostanza determinata o per un oggetto particolare; smania pettegola di venire a conoscenza dei fatti altrui, di penetrare nell’intimità degli altri; ozioso e superficiale interesse per ciò che si sta osservando. 2. Desiderio di vedere o di sapere per amore del conoscere; vivo stimolo intellettuale che spinge a ricercare l’informazione precisa, la notizia esauriente.»166 Etimologia. Dal latino curiositās -ātis, da curiosus “che si dà cura di qualcosa”. Riferimenti/rinvii. Non attestato in NDP Nelle Confessioni di S. Agostino si può trovare una vasta e attenta fenomenologia della curiositas tipicamente umana. Analizzando le caratteristiche dell’umana curiositas viene notata una tentazione per molti aspetti pericolosa: oltre alla concupiscenza della carne, che consiste nel piacere di tutti i sensi e nella loro massima soddisfazione - una schiavitù in cui si consumano quelli che si allontanano da Dio – si ingenera nell’anima, indotta da questi stessi sensi, una curiosità avida e vana, che si ammanta del nome di conoscenza e di scienza. Non cerca la soddisfazione nella carne, ma l’esperienza per suo mezzo. Siccome fa parte dell’impulso alla conoscenza, e gli occhi sono fra i sensi lo strumento principe della conoscenza, la parola divina la definisce concupiscenza degli occhi. Agli occhi in senso proprio compete il vedere. Ma questo verbo lo usiamo anche per gli altri sensi, quando sono impiegati a scopo di conoscenza. Così ad esempio non diciamo “ascolta com’è scintillante” o “annusa com’è lucido” o “assaggia quanto brilla” o “tocca che splendore” , mentre la conoscenza interessa tutte cose che si vedono. Per questo l’esperienza sensoriale in generale si chiama, come si è detto, concupiscenza degli occhi. Tutti gli altri sensi si arrogano per analogia la funzione visiva, della quale però gli occhi detengono il primato, quando indagano qualcosa allo scopo di conoscere. Dal che si può distinguere con maggior evidenza quale sia la parte del piacere e quale quella della curiosità nell’esperienza sensoriale. Il piacere insegue la bellezza, l’armonia, la fragranza, il sapore, la morbidezza: la curiosità anche i loro contrari, e non per procurarsi la nausea ma il capriccio di far esperienza e conoscenza. E per via di questo morboso desiderio che negli spettacoli vengono esibiti ogni sorta di mostri. Di qui viene anche che si proceda ad indagare i fenomeni della natura fuori di noi, che a nulla giova conoscere, e dove gli uomini altro non cercano se non la conoscenza di per se J. K. Clauser, “Il Pansofo: Comenio”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 210. 166 DLIB, III (1964), p. 1073. 165 stessa. Di qui anche le arti magiche cui si fa appello, sempre allo stesso scopo di un sapere perverso. Di qui infine le tentazioni che perfino la religione propone a Dio, quando si chiedono segni e miracoli: non per qualche motivo di salvezza, ma solo per il gusto di farne la prova. Eppure, sono innumerevoli le minuzie irrilevanti che tentano la nostra curiosità ogni giorno: e quante volte non si cade in tentazione? È notevole la circospezione con cui fin dalle primissime battute, Agostino introduce alla curiositas. Il pericolo della curiositas s’origina dall’ essere maliosa e la sua insidiosità dall’essere qualcosa di proteiforme. La curiositas è per S. Agostino, un vizio. Ora, un vizio non sarebbe mai pienamente tale, nel senso che non sarebbe così pernicioso, se non sembrasse sempre qualcos’altro. E ancora non sarebbe così multiforme se non sconfinasse in altri vizi, o peggio, se non tentasse di farsi passare, grazie al suo fascino insinuante addirittura per una virtù. Ne risulta una doppiezza della curiositas, doppiezza che va affrontata da parte di chi la teme con una doppia tattica. Essa, infatti, in quanto vizio implica innanzitutto in chi la descrive dei distinguo e poi uno smascheramento. Agostino perciò si trova impegnato sia a differenziare la curiositas da altre tendenze viziose, sia a rivelare in che consista il suo sviante travestimento. Agostino, prima di giungere a parlare della curiositas, aveva distinto nelle confessioni, tre tipi di concupiscenza: quella della carne, quella degli occhi e l’ambitio saeculi, ovvero la superbia (X, 30, 41) aveva, però, sino a quel momento analizzato solo la prima (dove figuravano tra le altre le tentazioni della gola, dell’olfatto, dell’udito e della stessa vista) identificando la curiositas con la seconda. Tale triade ricalca un passo neotestamentario, la prima lettera di Giovanni 2, 16 dove si dichiarano eminentemente mondane e quindi, nient’affatto di provenienza divina, la concupiscentia carnis, la concupiscentia ocularum e la superbia vitae. Lo stesso Agostino ribadisce la coincidenza della curiositas con la concupiscentia ocularum. Tale coincidenza è perfetta al punto che “l’espressione brama degli occhi esaurisce ogni forma di curiosita”. Salta, così, agli occhi un primato della vista sugli altri sensi e, non è a caso, che tale vistosa egemonia s’attui attraverso il linguaggio, che, sempre per Agostino la conoscenza riguarda. La concupiscentia ocularum e quella della carne differiscono proprio per il carattere intellettuale della prima. La seconda, s’appaga della semplice soddisfazione delle proprie brame, mentre la prima eccede tali carnali appetiti. E l’eccesso della curiositas sta nel non accontentarsi mai delle forme più viete della voluptas. Essa è, più avida dei già avidi sensi, giacché tende sempre ad un al di là di questi, pur passandone attraverso reputandoli ancillari rispetto a se medesima. Vi è, una vera e propria coincidenza tra la signoria conoscitiva della vista sugli altri sensi e il dominio intellettuale, sempre sui sensi esercitato, da parte della curiositas: oculi autem sunt ad nascendum in sensibus principes. Agostino ammette un altra differenza tra experientia e cognitio, in modo tale che la curiositas parteciperebbe più alla prima che alla seconda. Ma si tratta, di una diversità di intenzione e di scopo, talché anche la stessa conoscenza può essere vana e mendace se fine a se stessa. Agostino dichiara, la vanità della curiositas è “travestita”da cognitio e da scientia. Sotto il “mantello” (pallium) della curiositas si nasconde, continua Agostino, solo una vana brama di “sapere tanto per sapere”. Ora, il male, per Agostino, si cela nel capriccio nel ghiribizzo di tutto provare e conoscere, trascurando l’unica cosa da cercare: DIO. La concupiscentia ocularum è anche una temptatio e lo è a maggior ragione della semplice concupiscentia carnis. La curiositas proprio nel suo “desiderare soltanto di far esperienza”, cede doppiamente alla tentazione, giacché essa desidera sempre nuovi tentativi. Ma, assecondando questo desiderio, la curiositas riproduce la più originaria delle scene: quella del peccato originale. A partire dal momento della caduta di Adamo ed Eva e, segnatamente, da quando costoro guardarono curiosus la loro nudità, la vita degli uomini sulla terra sarebbe divenuta una diuturna tentazione. Gli uomini sarebbero per sempre stati naturalmente portati alla curiositas. Quest’ultima, infatti, sempre secondo Agostino, “fa parte dell’impulso della conoscenza”, per cui diventa arduo immaginare di poter apprendere alcunché senza che la curiositas in qualche modo non vi partecipi. La nota pagina di Essere e tempo di Heidegger, non solo ripropone la connessione agostiniana tra chiacchiera e curiosità, ma anche sottolinea con forza come quest’ultima si leghi alla distrazione, al punto di desiderarla continuamente. L’atto di distrarsi è espresso due volte di seguito con avertere (volgere piegare altrove, stornare) , talché il trionfo del divertissement risulta essere una conversio non già verso Dio, bensì verso la nuova fonte di curiositas. Agostino pone come antitesi alla curiositas l’ordine. La curiositas, è perversa in quanto non rispetta la collocazione gerarchica degli esseri che compongono l’universo rifiutandosi, perciò, di conoscere “per gradi”: non vuol salire per quella scala, che mena su fino alle cose immortali e sempiterne. (De vera religione 29, 52). Questa insurrezione della curiositas è ribadita anche in un passo delle Confessioni (I, 14, 23) dove, peraltro, Agostino non nega che questa abbia qualcosa di buono. Siamo all’inizio della sua autobiografia, quando il futuro vescovo di Ippona è ancora un fanciullo ed è angariato dalle dure punizioni dei suoi maestri. E veniva somministrata allo scolaretto una buona dose di sferzate proprio perché egli si mostrava assai tardo e riottoso nell’imparare la lingua greca. Ben diverso era stato invece, il suo apprendimento del latino, all’epoca della sua primissima infanzia. Erano state le nutrici ad insegnarglielo tra mille carezze e scherzosi giochetti. E, confrontando quel beato e tenero apprentissage con quello severo, quanto infruttuoso, che, ne seguì, Agostino elogia l’efficacia pedagogica alla libera curiositas, che ignora nell’imparare, costrizione e paura. Le balie, infatti, lungi dal frustarlo, gli lasciavano dire tutto quello che gli passava per il capo. Continuando sulla curiositas, nel brano tratto dall’ultimo libro delle Confessioni (XIII, 21, 30), s’insiste sull’immagine del mare, ossia del fluttuante abisso dell’incertezza, dall’ignoranza e dal peccato derivata. Al mare si contrappone la terraferma, cosa che non desta meraviglia se non altro perché la curiositas e i suoi “destabilizzanti” effetti erano stati definiti infirmitas. L’infirmitas illustra, infatti, il carattere errante e discorrente della curiositas, quel dispersivo fluxus, che Agostino auspica sia contenuto con correttive verberate. L’irrequietezza della curiositas sarà, poi, sottolineata da uno dei lettori più noti di Agostino, ossia da Heidegger, nel paragrafo di Essere e tempo (par. 36). La curiosità, dice insomma Heidegger, non è capace di soffermarsi, talché di questa si può dire che “è ovunque e in nessun luogo”. Ma se la sapienza è essenzialmente frutto di una consapevole attività razionale, la filosofia si oppone all’erudizione in cui si affissava la scuola antica, come a vana curiositas. Estetismo, retorica ed erudizione vengono da Agostino coinvolti in un’unica condanna. Se così la cultura, lo studio delle discipline liberali, l’istruzione nelle varie scienze, in quanto necessari a ben intendere e a ben filosofare, sono una indispensabile preparazione ad una compiuta vita spirituale e a tale studio Agostino non si stanca di esortare i suoi discepoli (bene amat qui bene studet dice spesso, giocando sul significato di stadere, vedi STUDIO), egli contemporaneamente addita i limiti e i pericoli di una educazione dottrinale perseguita fuori di quel che gli sembra di essere il fine naturale di ogni educazione. La conoscenza letteraria e scientifica non deve essere perseguita per se stessa a pena di perdere quel lume intellettuale per cui è conoscenza disperdendosi e distruggendosi in un nozionismo senza alcun valore formativo e, in fondo, intimamente corrompente167. L’erudizione letteraria, la historia intesa alla maniera del maestro di cultura della scuola di retorica, alla maniera di Varrone come “curiositas”, è avverte Agostino, “res infinita, multiplex curarum plenior quam jucunditatis aut veritatis”168, più piena d’affanni che di giocondità e verità. Sembra di cogliere nelle parole di Agostino il mortificante affanno degli sforzi di memoria imposti agli alunni nella scuola di retorica, mortificazione che spegneva in loro la “gioia” di apprendere e la stessa “verità”. 167 168 Seneca in Lettera 88 a Lucilio. De Ordine, II, 12,37 Utilissima la scienza perché rende coloro che amano abbracciare la verità più alacri e perseveranti e più chiari d’intelletto, perché fa si che essi appetiscono più ardentemente la vita beata, perché più costantemente la ricerchino e infine più dolcemente le siano congiunti: ma a patto che la scienza sia “modesta sane atque succinta”, moderata e succinta. E se le anime “dotate di scienza e virtù meglio si sposano all’intelletto per mezzo della filosofia, e non solo sfuggono alla morte, ma godono anche di vita beatissima”, è a condizione che di tale scienza capace di rivelarci l’ordine dell’universo, si faccia moderato uso, poiché, in essa niente è più da temere dell’eccesso. L’eccesso di scienza non ordinata a un fine che la trascende (ed egli intende anche che questo fine - la stessa verità - debba essere la costante e immanente metodologia dell’educazione) conduce alla “curiositas”. La parola in cui gli eruditi comprendevano la varietà dei loro interessi culturali e che soleva accoppiarsi al termine di “antiquitas”, assume in Agostino un costante significato negativo e persino dispregiativo. Curiosus diventa l’opposto di studiosus. Allo stesso modo la dottrina perseguita per se stessa e senza metodo si trasforma in credulità mentre il naturale rigore critico dello studioso si trasforma in aperto scetticismo. Tale curiosità non è poi una forma di vera concupiscenza: “Oltre alla concupiscenza della carne che consiste nel compiacimento di tutti i sensi e delle voluttà i cui schiavi allontanandosi da Te vanno in rovina, entra nell’anima attraverso quei medesimi sensi del corpo una vana e curiosa cupidigia che non si propone il diletto della carne, ma esperienze per mezzo della carne, la quale cupidigia si copre del nome di sapere e di scienza. Poiché essa risiede nell’appetito del conoscere, e gli occhi sono tra i sensi i principali strumenti, l’oracolo divino l’ha chiamata concupiscenza degli occhi E concupiscenza degli occhi, chiarisce, perché anche per l’acquisizione di nozioni si usa il termine “vedere”, poiché “per una certa analogia, gli altri sensi usurpano la funzione degli occhi, ogniqualvolta vanno in cerca di qualche cognizione”. Né la verità della conoscenza scientifica può giustificare l’erudizione perseguita per se stessa, poiché essa è solo un “vestigio della verità”169, verità di dettaglio, dei particolari, non la verità ultima e universale. L’intero capitolo XIX del De quantitate animae è dedicato alla vana curiositas. Ed infine più estesamente nel De vera religione: “Non bisogna guardare senza interesse e senza riflessione, la bellezza del cielo, l’ordine delle stelle e lo splendore della luce, le vicende dei giorni e delle notti, le fasi del mese lunare, le quattro stagioni dell’anno concordanti coi quattro elementi, la grande potenza dei semi che germinano le specie nel ripetersi tra loro, ed ogni cosa che conserva la propria natura entro i termini propri. Nel considerare tutto ciò, non si deve credere che ci sia solo il mezzo per soddisfare la propria curiosità, per sé vana e peritura, ma sebbene il gradino per ascendere verso tutto ciò che è immortale e sempre uguale a se stesso. Il primo riflesso in proposito si riferisce alla natura di codesto principio vitale, che avverte tutto quanto si è detto e che, appunto perché anima e corpo, deve essere superiore al corpo. In tal modo Agostino ci indica decisamente in opposizione al tipo di cultura e di educazione della scuola di retorica, quali debbano essere il metodo e il fine dell’educazione, di un educazione che serva cioè non a ornamento di una vana e inutile verbosità, ma che attinga direttamente alle fonti della conoscenza per trasformarsi in amore della sapienza divina. In ST170, San Tommaso dedica tutta una Quaestio (la 167 della parte II-II, De curiositate) alla curiosità, considerandola vizio del desiderio di sapere. La curiosità, stadio naturale nel bambino dai 3 ai 5 anni, diviene un atteggiamento negativo se non si sviluppa in studiositas nella persona adulta. 169 170 De vera religione, 41,78. ST, pp. 1734-1736. In Inglese abbiamo curiosity e curiousness come desire of knowledge (RT § 455). In Francese curiosité è “le nom que l’on donne au sentiment qu’éveille tout ce qui s’écarte de l’habituel” (LS, p. 176), ovvero « 1. Tendance qui porte à apprendre, à connaître des choses nouvelles; […] 2. Désir de savoir les secrets, les affairs d’autrui.» (MRP, p. 310). Riduzionismo. Il termine studiositas non compare in Italiano ed il suo ambito semantico è stato occupato dal termine curiosità, che ha perduto così il carattere negativo, se associato all’attività adulta, che prima possedeva. Il concetto di sapere come enciclopedismo, invalso al domani dell’Illuminismo, ha peraltro rafforzato la connotazione positiva data al termine, in quanto il sapere enciclopedico è quello originato dalla curiosità sfrenata e non organicamente diretta nella studiositas, e la positività di questo suo carattere puntiforme, sconnesso e momentaneo è uscita notevolmente rafforzata nelle varie teorie comportamentaliste basate sulla dinamica dello stimolo-risposta. DEMOTIVARE. Definizione. Non attestato in DLIB (sarebbe stato incluso nel Vol. IV pubblicato nel 1966). Etimologia. Originatosi dal verbo motivare con l’aggiunta del prefisso verbale de con valore sottrattivo171, di recentissima acquisizione – non è attestato in DELI – rafforza l’aspetto transitivo presente nei sinonimi di cui ha preso il posto (disincentivare, disinteressare). Riferimenti/rinvii. Presente in alcuni dizionari recenti con il significato di «Disincentivare, disinteressare» (DSCGar e DF), ovvero «Privare o privarsi di motivazione, di fattore emotivo e sim.» (VLIZ), esso manca in tutti i vocabolari specialistici di pedagogia utilizzati, anche in quello di psicologia ed è presente solo nel dizionario dei sinonimi e contrari. Per ulteriori riferenti,vedi il termine MOTIVAZIONE,dal quale questo verbo deriva. Riduzionismo. Vedi MOTIVAZIONE DEVIANZA. Definizione. «(fis.) Componente orizzontale e trasversale, rispetto alla direzione del moto reattivo, dell’azione fluidodinamica.»172 171 Ossia esprime l’idea della rimozione di uno stato, o addirittura quella del passaggio allo stato opposto. Anche in latino esprimeva allontanamento o separazione. Cf. Rohlfs p. 350 (§ 1010). 172 DLIB, IV (1966), p. 297. Etimologia. L’origine è da ricercarsi nel verbo latino tardo deviāre “allontanarsi dalla via”, con il prefisso de già illustrato nel vocabolo precedente. Il termine devianza è solo recentemente (1973) uscito dal ristretto alveo specialistico della fisica e tramite la sociologia si è introdotto nel linguaggio comune con il significato «difficoltà dell’individuo ad adattarsi alle norme comportamentali ed etiche dell’ambiente in cui vive, che si manifesta in una condotta antisociale»173 Riferimenti/rinvii. L’unico riferimento degno di nota lo troviamo in un dizionario di sociologia: «l'insieme dei comportamenti che si allontanano da un contesto di norme» (DS). Originariamente si tentò di definire la devianza come un “fenomeno di anormalità statistica”, cioè il numero di volte in cui il soggetto deviava dalla norma prescritta, associando quindi un’azione fisica ad un andamento statistico. Successivamente in sociologia si aggiunse l'elemento dell'indesiderabilità sociale connessa al comportamento deviante: un comportamento che si discostava dalla media dei comportamenti poteva essere socialmente indesiderabile, come nel caso dei delinquenti, ma poteva anche non esserlo affatto, come nel caso di un individuo eccezionale (un santo, un artista, un genio). La devianza, caricatasi di siffatti significati, iniziò ad essere vista come lo spauracchio di tutte le collettività per i danni che poteva arrecare alla vita associata. Partendo dal postulato statalista che “è la società che forma l’individuo”, si cercò la ragione della devianza nella “socializzazione” di una persona in base a norme di un contesto sociale diverso da quello in cui vive oppure nella sua formazione incompleta; una siffatta esperienza sfociava così, fatalmente, in un’insensibilità alle norme della collettività e in una maggiore predisposizione ad atteggiamenti di devianza. La devianza venne così considerata da Cesare Lombroso, ad esempio, come una caratteristica individuale congenita174. Il passo successivo poi fu quello di considerare la devianza, per il processo dialettico cui anche la società è soggetta (secondo il postulato idealista hegeliano), non solo come un fattore puramente negativo, anzi antitesi necessaria affinché la tesi di partenza possa tramutarsi in sintesi superiore: essa infatti può facilitare il chiarimento di norme - che magari sono violate perché oscure o ambigue rendendole così più efficaci. La devianza, quindi, venne considerata un fatto normale di tutte le società, come notava Durkheim, che la considerava prodotto inevitabile dell'esistenza di norme. Benefict in un suo libro dal 1934 affermava: «In ogni società ci sono individui che non si inquadrano; ma non sono tanto persone marcate da certe uniformi caratteristiche “anormali”, quanto coloro il cui comportamento istintivo non trova conferma nelle istituzioni della cultura in cui vivono. La debolezza di questi ex – lege è in gran parte illusoria; non nasce dal fatto che ad essi manchi davvero il necessario vigore, ma dal fatto che le loro reazioni istintive sono diverse da quelle che la loro cultura impone. Sono, come dice Sapir, “alienati da un mondo impossibile”.[...] La nostra civiltà ha a che fare con norme di comportamento sociale che tramontano sotto i nostri occhi, mentre altre si levano dalla nebbia all'orizzonte, e non dobbiamo rifiutarci di tener conto del mutare di ciò che chiamiamo “normalità”, anche quando sia in gioco la legge morale in cui siamo stati allevati. Come il tener fermo a una definizione assoluta della moralità ci impedisce di accostarci liberamente ai problemi etici, così non 173 174 DELI, II, p. 331. Cf. F. Ferrarotti, Il pensiero sociologico da Auguste Comte a Max Horkheimer, Milano, Mondatori, 19772, pp. 122-127. potremo comprendere molto della società umana finche identifichiamo ciò che il nostro paese chiama normalità con le leggi necessarie e inevitabili dell'esistenza».175 Appare dunque chiaro che il concetto di devianza mediato dalla fisica, finì per assumere in sociologia una connotazione logica con la quale divenne parte integrante del processo dialettico (come antitesi) e come tale, elemento indispensabile per qualsivoglia progresso sociale. Riduzionismo. Come appare dalla definizione sopra riportata, si tratta dell’intrusione di un termine della fisica che viene caricandosi di valenze semantiche affatto estranee alla sua origine. L’intrusione venne favorita dalla sociologia (tramite considerazioni statistiche), la quale assunse tutta una terminologia dal campo delle scienze esatte, per sopperire ad una sua mancanza congenita. La riduzione operata da questo termine riguarda il comportamento umano, qui ridotto ad un vero e proprio vettore e giudicato partendo da una ‘normalità’ sociale, fittizia in quanto tradotta in mero dato quantitativo. La riduzione in termini quantificabili (normalità sociale = vettore x; devianza = vettore y) cancella completamente una serie di dati importanti alla comprensione dei comportamenti umani, quali le predisposizioni naturali, le volontà, le vocazioni, ecc., i quali sono irriducibili a qualsiasi quantificazione, poiché appartengono alla sfera qualitativa dell’essere. A tal riguardo merita di essere riportata una definizione umoristica del termine, il cui disagio di sottofondo indica l’improprietà del suo uso: «Parola viscida, lubrificata, curvilinea. Con scarsa tenuta di strada. In realtà uno scivolo per tutti quelli che scantonano: esibizionisti, nudisti, pedofili, sodomiti, gonorroici eccetera. Insomma, quelli che abbandonano anche saltuariamente la retta via. […] La parola devianza dormiva dimenticata in qualche casa, appunto, di devianza. Negletta dai dizionari. Trascurata dai linguisti. I quali linguisti ( pur avendo un nome vagamente da film porno) non bazzicano certi posti. Al contrario degli psichiatri, che di regola pescano nel torbido. Sono stati loro a cominciare. Poi gli psicologi. Poi gli psicoterapeuti. Le assistenti sociali. Le infermiere. Le parrucchiere. I barbieri. I fruttivendoli. I gelatai. La curva sud. Alla fine era troppo tardi.»176 DIDATTICA METACOGNITIVA. Vedi COGNIZIONE DISABILE. Vedi ABILITÀ DISCIPLINA. Definizione. «Insegnamento, istruzione, ammaestramento; apprendimento, studio. […] 2. Ciò che si insegna o si impara: dottrina, scienza, materia d’insegnamento scolastico - Anche: sistema di nozioni o di regole tecniche relative all’esercizio di un mestiere, di una professione, di un’arte. […] 3. Regola di comportamento, norma di vita, precetto. […] 6. Abitudine a dominare con la volontà, a prezzo di sforzo e sacrificio, i propri impulsi, sentimenti, desideri, rinunciando al piacere immediato in vista di un risultato superiore (specialmente alle norme del gruppo sociale a cui si appartiene e all’autorità che lo governa), o in obbedienza a norme morali (o di altra natura, ma considerate equivalenti alle norme 175 176 R. Benefict: Modelli di cultura, Milano, Feltrinelli, 1960. M. Garuti, Parole come virus. Le infezioni linguistiche dalla A alla Zeta. Milano, Sperling & Kupfer, 1994, pp. 19-20. morali) che pongono il bene dell’uomo nel superamento dell’egoismo individualistico; costrizione volontaria. […] 7. Esercizio assiduo e intenso, applicazione, studio, pratica costante, impegno. […] 11. Correzione, punizione, castigo (in quanto strumento di correzione e di ammaestramento morale).»177 Etimologia. Dal latino disciplina = istruzione, conoscenza, scienza, insegnamento, disciplina, norma, modo di vivere. Adulescentes in disciplinam alicui tradere=affidare ad uno i giovani perché si istruiscano (Cicerone) Disciplinam dicendi reliquit = lascio un insegnamento per gli oratori (Cicerone) Familiae disciplina = modo di vivere di una famiglia (Cicerone). Il termine a sua volta sarebbe derivato da discip(ŭ)lina, da disco ‘io imparo’, similmente al vocabolo «discepolo». Inoltre il latino decipŭla indicava una rete ‘per prendere’178, ugualmente al modo dell’italiano ‘ap-prendimento’. Per i termini greci vedi CULTURA, EDUCAZIONE. In Sanscrito si può tradurre con: vinaya (istruzione, disciplina, allenamento, esercizio), anunaya (saluto, rispetto, cortesia) e nīti (guida, gestione, accortezza politica, prudenza)179; śikā (desiderio di saper fare, studio, arte, capacità)180; abhyāsa (esercizio, abito, costume, studio, SED, p. 76); śāsana (punizione, correzione, governo, comando), anuśāsana (istruzione, direzione, comando) e śāsti (correzione, punizione)181; śii (direzione, istruzione, ordine, comando, SED, p. 297); upadeśa (istruzione, informazione, insegnamento, consiglio, SED, p. 199); adhyāpana (istruzione, lezione, SED, p. 693). Nella lingua italiana il termine è attestato sin dall’inizio del XIV secolo con le varie accezioni182. Riferimenti/rinvii. Delle numerose accezioni che abbiamo visto far parte del termine disciplina - «1 disciplinatezza, ordine […] 2 insegnamento, ammaestramento, magistero, dottrina 3 materia, ramo, scienza; cattedra 4 norma, precetto, regola, regolamento, canone, legislazione, pianificazione […] 5 obbedienza, ossequio, ottemperanza, sottomissione […] 6 cilicio, penitenza, flagello, scudiscio» (DF) - non tutte vengono annoverate in alcuni dizionari: «Complesso di norme che regolano la vita sociale» (VLIDO); «Insegnamento, ammaestramento, guida» (DSCGar) Nelle opere specialistiche di pedagogia e scienze affini, troviamo un significato più ristretto, sebbene non sempre coincidente: dal «Complesso di prescrizioni e sanzioni concernenti il comportamento degli alunni» (EP) di chiara matrice anglosassone, al più strutturato «1) L’insieme di fenomeni connessi con l'atto dell’apprendere e, quasi di riflesso e in senso estensivo 2) l’insieme di fenomeni connessi con l'atto dell’insegnare. […] Il primo significato in senso soggettivo, sta ad indicare “la costrizione autonoma della volontà personale in vista di un obbiettivo da raggiungere di carattere contenutistico o finalistico”. […] In senso oggettivo sta ad indicare concretamente “la materia dell’apprendimento, l’oggetto di studio del discente”. […] Il secondo significato in senso soggettivo, sta ad indicare “l’azione che svolge il docente quando cerca di predisporre, dirigere, guidare il discente per trasmettergli contenuti culturali o, più propriamente, per conseguire finalità educative”. In senso 177 DLIB, IV (1966), pp. 604-606. AEI, p.130. 179 Derivati tutti e tre dalla radice verbale nī, “guidare, condurre, governare” (SED, p. 565), il primo con prefisso separativo vi, a dare il senso di “separare, spartire, rimuovere” (SED, p. 971) mentre il secondo con il prefisso con valore spaziale anu a denotare “guidare fino a, conciliare, pacificare” (SED, p. 34). 180 Dal raddoppiamento con valore desiderativo della radice śak (SED, p. 1070), “essere vigoroso, forte”, “essere capace di fare”. 181 Tutti e tre derivati dalla radice śās, “correggere, punire, castigare”, “comandare, esigere, ordinare” (SED, p. 1068). 182 DELI, II, p. 345. 178 oggettivo, sta ad indicare “la norma oggetto di obbedienza in quanto imposizione estrinseca”. »183. Una posizione intermedia tra le due si può considerare la seguente: «In ambito pedagogico con due accezioni:1) materia d'insegnamento; 2) regole che servono a condurre un gruppo di individui» (DPSE). Infine, alcune opere enfatizzano l’accezione vicina al termine EDUCAZIONE: «Abbraccia l'atto che mira ad acquistare o ad assicurare le virtù nell'essere e nell'agire, legato al concetto di norma e di misura.» (DIP); «Abbraccia l'atto che mira ad acquistare virtù nell'essere e nell'agire.» (DPSaie). Il significato principale del termine, nell’ambito della pedagogia dello studio, è rappresentato indubbiamente da “materia di insegnamento” (il n. 2 della definizione), sul quale seguirà ora un breve excursus storico. In ST il termine sta ad indicare il metodo per perfezionare le virtù verso cui l’uomo possiede un’attitudine naturale184. Alla fine del XIII secolo le università medievali – gli studia generales - possedevano una loro configurazione, composta solitamente da quattro Facultates: Arti liberali, che ereditarono la tradizione del trivium e del quadrivium, Diritto, Medicina e Teologia. Le discipline ivi erano denominate Scienze, Conoscenza, Scienza e Arti liberali, mentre l’attività didattica era basata principalmente sulla lectio, affiancata poi dalla quaestio e la disputatio185. Nel XVI secolo, L. Vives nel suo trattato De disciplinis (Basilea, 1555), rifiuta ogni teoria generale che possa precedere le dottrine positive particolari. Le scienze devono darsi da se stesse i propri fondamenti.186 Nell’opera kantiana Der Streit der Fakultäten (il conflitto delle facoltà), riferendosi direttamente alla tradizione medievale, si propone una distinzione tra le “tre facoltà superiori” (Teologia, Legge, Medicina) e “quella inferiore” (Filosofia)187, la quale deve però giudicare e regolamentare le superiori; G. Vico chiama le scientiae e artes oggetto degli studi188 e disciplinae gli insegnamenti universitari189, Newmann e Maritain190 le chiamano discipline, Dawson191 Corsi di studio. Per Gentile, per il quale educazione ed istruzione coincidono, «non c'è scuola senza disciplina. La quale si potrebbe definire condizione della scuola perché qualsiasi insegnamento potrebbe essere senza disciplina intesa in senso empirico di condizioni della scuola: governo dell'insegnante, e riconoscimento della sua autorità».192 L’originaria varietà dei significati del termine disciplina si riflette anche nelle altre lingue. In Inglese to discipline significa anche «castigare, punire»193, mentre il sostantivo ha le accezioni di: order, con i suoi sinonimi di method, disposition, system (RT § 58); teaching con i sinonimi di education, initiation, preparation e training (RT § 537); exercise, exercitation (RT § 673); restraint, con i suoi sinonimi di constraint, coertion, cohibition (RT § 751). 183 S. Galeano, “Disciplina”, NDP, p. 342. ST, Prima Secundae, Quaestio XCV, Art. I, p. 959. 185 Cf. G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità … op. cit., p. 27; C. Dawson, La crisi dell’educazione occidentale, Brescia, Morcelliana, 1965, pp. 21- 34. 186 Cf. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, op. cit., p. 139. 187 Die der drei obern Fakultäten und die einer untern. 188 Studiorum materies, in: G. Vico, Il metodo degli studi del nostro tempo (a cura di B. Loré), Firenze, La Nuova Italia, 1993, p.12. 189 «Itaque studiorum universitates nobis institutae sunt, et omni disciplinarum genere instructae» G. Vico, Il metodo degli studi, op. cit., p.146. 190 Cf. J. Maritain, L’educazione … op. cit., pp. 109-118. 191 Cf. C. Dawson, La crisi dell’educazione … op. cit., pp. 238-269. 192 G. Gentile, Sommario di Pedagogia come scienza filosofica, Vol. II, Firenze, Sansoni, 19825, p. 27. 193 Rossetti, p. 135. 184 In Francese il termine discipline da un lato - come specificazione di enseignement (LS, p. 236) – “indica l’insieme di conoscenze relative ad un insegnamento particolare”194, dall’altro “le regole comuni di condotta per tutti quelli che fanno parte di un corpo, di un ordine, ecc.”, come accezione di ordre (LS, p. 409). In Tedesco il termine195 si traduce con i sostantivi Disziplin (con la seconda accezione a significare materia scientifica o sportiva oggetto di esercizio, specialità)196, Zucht (allevamento, nutrizione, vedi EDUCAZIONE), Ordnung (ordine), Fach (materia, campo dello scibile, categoria professionale, specialità, ramo)197, Wissenszweig (ramo dello scibile, scienza, ma non attestato in DW) e Lehrfach (materia d’insegnamento, che è insegnata nelle scuole o nelle università)198. In Giapponese, relativamente all’accezione di ‘materia di studio’, abbiamo i termini gakka ( , materia, corso)199, composto dagli ideogrammi “scienza, studio, apprendimento” e “corso, ramo, dipartimento, facoltà” (KD, pp. 862, 1287), kyōkamoku ( , materia di studio)200, composto dagli ideogrammi “insegnare”, “corso, ramo, dipartimento facoltà” e “ordine, classificazione” (KD, pp. 1159, 1287, 1260), gakusetsu ( , teoria, dottrina)201, composto dagli ideogrammi “scienza, studio, apprendimento” e “opinione, teoria” (KD, pp. 862, 1470) e kyōgi ( , dottrina, dogma)202, composto dagli ideogrammi “insegnare” e “giustizia, lealtà, significato” (KD, pp. 1159, 415). Riduzionismo. Oltre l'interpretazione riduttiva del termine disciplina come mera correzione203, quello che preme qui sottolineare è il tipo particolare di riduzionismo che conduce al fenomeno della proliferazione delle discipline, intese dunque come materia di studio. Partendo dalla quadruplice composizione dell’università medievale si è giunti oggi ad un numero di discipline molte volte superiore (si parla di oltre 8000 discipline)204. La principale causa di tale proliferazione va ricercata nella perdita del concetto di universalità e nella conseguente mancanza di gerarchia delle scienze. Il dissolvimento di questi due elementi (universalità e gerarchia) ha prodotto la perdita dell’incardinamento delle discipline ai campi della CULTURA (v.). Il termine ‘universalità’, presente nella lingua italiana sin dal XIV secolo, riporta alla parola ‘universo’ lett. ‘volto tutto in una direzione’205, con la funzione evidente di intendere l’unità sintetica di insiemi complessi, o vere e proprie totalità, evidenziando quale elemento dominante la direzione del loro moto; o, in altre parole, l’unicità del(/la) fine per una totalità di elementi. La perdita di questo concetto nella nostra cultura è attestata – e in qualche modo causata – dalla sua sostituzione con un neologismo quale «Désigne parfois un ensemble de connaissances relatives à un enseignement particuler […] Régles de conduite communes à tous ceux qui font partie d’un corps, d’un ordre, etc.», MRP, p. 378. 195 TIS, p. 195. 196 «wissenschaftliche oder sportliche Fachrichtung, Fachgebiet», DW, p. 427. 197 « Wissensgebiet, Berufszweig, Spezialität, Branche», DW, p. 545. 198 « Fach, das an Schulen oder Universitäten gelehrt wird», DW, p. 1005. 199 DGI, p. 191. 200 DGI, p. 259. 201 DGI, p. 175. 202 DGI, p. 260. 203 È evidente l’accezione punitiva – largamente presente in Inglese - abbia finito talvolta con il prevalere su quella istruttiva a causa dell’impostazione ideologica e ideologizzante del nostro sistema scolastico. 204 J. Götschl, J. Papst, C. Schiele, M. Macqueen, “Transdisciplinarity: Dynamic Relations between Disciplinarity, Interdisciplinarity, and Transdisciplinarity on the Basis of Scientific Cooperation”. In: E. Mariani (a cura di), Unità del sapere e del fare (Quaderno I.P.E. n° 12), Napoli, I.P.E., 2001, p. 173. Per avere un quadro legislativo, si veda il Decreto Ministeriale del 4 agosto 2000 (Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 19 ottobre 2000 n.245 - Supplemento Ordinario n.170) con la determinazione delle 42 classi di lauree universitarie con le relative centinaia di discipline. 205 DELI, V, pag. 1398. 194 ‘globalizzazione’, di origine molto più recente (fine XX secolo)206, anche se, dal punto di vista semantico, la diade ‘globalità/globalizzazione’ suggerisce solo l’appartenenza al globo terracqueo e prospetta un moto perpetuo verso ed attraverso una forma sferica, ossia priva di un vertice unico, di un unico punto di riferimento e cancella di fatto dal nostro vocabolario ogni traccia residua di unità sintetica, rimpiazzandola con una unicità indefinita, quale quella dell’appartenenza generica al nostro pianeta. La sostituzione dunque di ‘universalità’ con ‘globalizzazione’ fa così naufragare, semanticamente prima ed concettualmente poi, in un’indeterminazione geografico-geometrica un complesso di culture, civiltà e popoli assolutamente differenti tra loro. In tale prospettiva viene meno la possibilità di una loro armonizzazione per la mancanza di un principio unificatore, che dia senso ad ogni singolo elemento e favorisca il processo di integrazione. Il risultato è la condanna alla totale anonimìa. Un tale processo conduce alla frammentazione della conoscenza con l’incontrollata moltiplicazione e proliferazione esponenziale delle discipline. Questo sviluppo incontrollato fu notato addirittura da Auguste Comte il quale notava che «se il principio della divisione del lavoro applicato nel campo scientifico ha dato buoni frutti in termini di progresso delle singole scienze, esso ha avuto tuttavia un prezzo piuttosto alto: infatti, a poco a poco la divisione e la specializzazione delle ricerche furono spinte così lontano da far perdere di vista il legame di ogni branca del sapere con il tronco unico da cui si era staccata. Lo spirito umano corre il rischio di perdersi in lavori di dettaglio senza avere quella chiara visione unitaria cui tali lavori dovrebbero concorrere»207. Dalla supposta specializzazione nasce la situazione paradossale ben illustrata dalla battuta secondo la quale lo specialista saprà sempre di più su sempre di meno, e alla fine saprà tutto di niente208. Viene in tal modo avvertita la necessità di creare nuovi legami tra le singole discipline, oramai mondi perfettamente autonomi (come già postulato nel XVI secolo da Vives). Tale creazione, auspicata già da G. Vico209, inizia con Napoleone, il quale fece chiudere le antiche università e le sostituì con un organismo estremamente centralizzato rivolto agli studi superiori «la cui unità non consisteva nell’organica connessione delle singole discipline, ma nell’accentramento burocratico»210. Tentativi di sintesi contemporanei hanno il tenore del seguente passo: «L’universo ereditato dalla scienza classica aveva un centro. Il nuovo universo è acentrico, policentrico. […] Quello che costituiva lo scheletro e l’architettura dell’universo diventa un insieme di arcipelaghi che vanno alla deriva in una dispersione senza struttura.»211 Interessante notare come in questo enunciato, con la sua equivalenza concettuale tra ‘acentrico’ e ‘policentrico’212, sia all’opera lo stesso processo che ha portato alla globalizzazione. È precisamente da un tale processo disgregatore che nascono i termini interdisciplinarità, multidisciplinarità e transdisciplinarità, come vengono adoperati oggigiorno. 206 Esso è un termine contraddistinto da un suffisso nominale deverbale con connotazione fortemente astratta (-zione) derivato da un verbo a sua volta con suffisso causativo deaggettivale (-izzare) in quanto originato dall’aggettivo ‘globale’, un francesismo entrato nel vocabolario italiano solo all’inizio del XX secolo. La matrice linguistica di questa parola mostra dunque un elevato grado di astrazione (aggettivo > verbo causativo > nome astratto) di natura sostanzialmente acefala; infatti il movimento, il processo cui il termine allude risulta privo di quel criterio unico e di quel fine ordinatore che abbiamo visto chiaramente espresso nel caso di ‘universalità’. 207 F. Ferrarotti, Il pensiero sociologico … op. cit., p. 39. 208 Citata in: K. Lorenz, L’altra faccia … op. cit., pp. 68-69. 209 «[…] auspicherei che i professori delle università componessero un sistema unico di tutte le discipline» G. Vico, Il metodo degli studi op. cit., p.149. 210 A. Rigobello, “L’orizzonte tematico ed il suo sviluppo storico”, in: A. Rigobello, G. Amati, A. Bausola, M. Borghesi, M. Ivaldo, G. Mura (a cura di), L’unità del sapere. La questione universitaria nella filosofia del XIX secolo, Roma, Città Nuova, 1977, p. 15. 211 E. Morin, La natura … op. cit., p. 67. 212 In realtà profondamente differenti da un punto di vista semantico, tanto quanto un decapitato ed un mostro dalle molte teste. L’equivoco nasce a monte; infatti «Il soggetto è ancora protagonista etico della conoscenza perché ogni disciplina rimanda ad un sistema di assiomi, di valori, o più semplicemente a pre-comprensioni, di ordine sempre più astratto e generalizzante rispetto al livello gnoseologico in cui si muove l’oggetto di comprensione e di studio della disciplina medesima. L’equivalenza e la generalità di tali sistemi implica inevitabilmente scelte, opzioni mai interamente deduttive, decisioni esterne al sistema in studio, perché nessuna disciplina, neanche le più formali ed astratte, poggia su se stessa»213. Invece, se ammettiamo che «La disciplina è una categoria organizzatrice in seno alla conoscenza scientifica; vi istituisce la divisione e la specializzazione del lavoro […] una disciplina tende naturalmente all’autonomia, con la delimitazione delle sue frontiere, il linguaggio che essa si dà»214, riprendendo così il postulato dell’opera del Vives De disciplinis (XVI secolo), ci troviamo nella necessità di riunire le membra sparse al di fuori del soggetto, trovandolo o nella burocrazia di stampo napoleonico, oppure nei legami concettuali che vengono rintracciati tra una disciplina ed un’altra, veri e propri ponti gettati tra isole perfettamente autonome. Esaminiamo dunque brevemente siffatti ponti, partendo dall’interdisciplinarità: «Il dialogo interdisciplinare rappresenta anch’esso un tentativo di ricomposizione, senza dubbio di grande interesse perché scaturito e messo a tema da un’analisi interna alle scienze stesse. Tuttavia, da solo, esso non offre alcun modello di unità del sapere. In esso si mostra l’esigenza del confronto e della relazione come vie che illuminano la ricerca del vero ed aiutano ad affrontare in modo meno riduttivo alcuni problemi – specie quelli che hanno maggiormente a che vedere con la vita e la società umana – ma non si trova ancora una risposta sufficiente. Sotto un certo aspetto, l’interdisciplinarità potrebbe tramutarsi perfino in una dannosa illusione, quella di ritenere che dopo aver invitato a discutere allo stesso tavolo uno scienziato, un filosofo ed un teologo, siamo per questo automaticamente in grado di dare soluzione alle questioni più complesse, dalla cosmologia alla bioetica, dalla medicina all’economia … il tema dell’unità del sapere va dunque impostato su basi più profonde. Esso deve giungere a coinvolgere non le scienze, ma la persona. L’unità del sapere non si realizza tanto nell’unità di metodo o di contenuto, bensì in interiore nomine: l’unità non è una somma, ma un habitus (E. Samek Ludovici, “Il gusto del sapere”, Universitas, 14, 1993 n.4 pp. 18-22)»215. Vediamo chiaramente come l’interdisciplinarità sia fondamentalmente una tecnica, non un metodo, sviluppata per far fronte all’iperspecializzazione. Sfortunatamente essa viene talvolta caricata di significati – ed aspettative – molto al di là della sua pura natura di tecnica: «Interdisciplinarita’…può significare puramente e semplicemente che differenti discipline si mettono a una stesso tavolo… ma interdisciplinarità può voler dire anche scambio e cooperazione, ciò che fa si che l’interdisciplinarità possa diventare qualcosa di organico»216. Da questa incertezza ed ambiguità descrittiva, gravida di aspettative, derivano anche i relativi concetti di Multidisciplinarità, Polidisciplinarità, Transdisciplinarità: «La multi-polidisciplinarità costituisce un’associazione di discipline in virtù di un progetto, o di un oggetto, comune; […] Transdisciplinarità […] si tratta spesso di schemi cognitivi che possono attraversare le discipline »217 Secondo B. Nicolescu - autore fra l’altro di una vera e propria ‘Carta della Transdisciplinarità’218l’interdisciplinarità consiste nell’adottare metodi propri di una disciplina da parte di un’altra, la multidisciplinarità avrebbe invece come fine lo studio di uno stesso oggetto da parte di più discipline G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità … op. cit., p. 226. E. Morin, La testa ben fatta … op. cit., p. 111. 215 G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità … op. cit., p. 203. 216 E. Morin, La testa ben fatta … op. cit., p. 123. 217 E. Morin, La testa ben fatta … op. cit., p. 123. 218 Cf. B. Nicolescu, “Carta della transdisciplinarità”. In: E. Mariani (a cura di), Unità del sapere e del fare (Quaderno I.P.E. n° 12), Napoli, I.P.E., 2001, pp. 81-84. 213 214 contemporaneamente, mentre la transdisciplinarità concerne «ciò che è allo stesso tempo tra le discipline, attraverso le differenti discipline ed al di là di tutte le discipline. Il suo fine è la comprensione del mondo attuale, con l’imperativo dell’unità della conoscenza. La stessa parola è decisamente recente: è stata adoperata per la prima volta da J. Piaget nel 1970 [J. Piaget, L’épistémologie des relations interdisciplinaires, in L’interdisciplinarité – Problèmes d’einsegnement et de recherche dans les universités, OCDE, Paris, 1972, atti di un laboratorio tenuto a Nizza nel 1970].»219 Tuttavia non sono mancati i tentativi di inquadrare in maniera più comprensibile questi nuovi termini: «La formulazione di un problema di statistica può aiutare ad impostare un’analisi nel campo dell’economia o della sociologia, un problema classico per la filosofia può gettare luce sul motivo di una incompletezza formale nell’impostazione di un problema di matematica, la conoscenza di determinati fenomeni fisici può aiutare la comprensione di quanto avviene a livello chimico o biologico. Quando si scoprono queste transdisciplinarità si riaccende immediatamente l’interesse per la disciplina dell’ “altro”, si cercano i motivi più generali di quella convergenza e se ne indagano le possibilità di utilizzo […] Dalla transdisciplinarità il lavoro universitario può accedere ad un più significativo livello di dialogo, quello dell’interdisciplinarità. Ciò accade quando si riconosce che un determinato problema, per essere correttamente affrontato, richiede l’intervento organico e combinato di più discipline, poiché gli ambiti investiti da quel problema sono molteplici, e diverse le metodologie da impiegare.»220 Di diretta discendenza napoleonica, l’attuale tendenza aggregatrice delle discipline si pone l’obbiettivo così esplicitato in un’opera: «[…] questo nuovo libro enuclea ed esplicita i sette temi che devono, a mio avviso, diventare fondamentali nei nostri insegnamenti. Questi temi permetteranno di integrare le discipline esistenti e di stimolare gli sviluppi di una conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita individuale, culturale e sociale.»221 E questi sette temi (I sette saperi necessari all’educazione del futuro) secondo E. Morin sono: 1. Metaconoscenza; 2. Eludere l’infermità cognitiva; 3. Interrogazione sulla situazione del mondo; 4. Identità terrestre nell’epoca della mondializzazione; 5. Ordine – disordine organizzazione; 6. Ben pensare, introspezione per un’etica della comprensione; 7. Atropo-etica222. DIVERSAMENTE ABILE. Vedi ABILITÀ EDUCAZIONE. Definizione. «Processo di svolgimento di tutte le attività spirituali, in cui l’uomo sviluppa e affina la personalità, il carattere, le capacità, nelle diverse età e condizioni individuali e sociali, trasformandosi incessantemente: nell’età giovanile avviene specialmente attraverso la famiglia e la scuola (ed è questa l’accezione più comune del termine), mentre sull’adulto agiscono piuttosto le istituzioni religiose, 219 «that which is at once between the disciplines, across the different disciplines, and beyond all disciplines. Its goal is the understanding of the present world, of which one of the imperatives is the unity of knowledge. The word itself is quite recent: it was first introduced by J. Piaget in 1970.» B. Nicolescu, “In Vitro and In Vivo Knowledge”. In: E. Mariani (a cura di), Unità del sapere e del fare (Quaderno I.P.E. n° 12), Napoli, I.P.E., 2001, pp. 87. 220 G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità … op. cit., pp. 175-176. 221 E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001, p. 7. 222 Tale ordine ricalca quello dei sette capitoli dell’opera I sette saperi necessari all’educazione del futuro. politiche e culturali (in senso ristretto, indica a volte la formazione della coscienza etica, a volte la formazione intellettuale e culturale, cioè, propriamente, l’istruzione, a volte la formazione mondana, l’affinamento del comportamento esteriore). […] 2. Opera che tende a sviluppare nell’uomo determinate facoltà e attitudini, a prepararlo a determinati compiti; addestramento tecnico, professionale. […] 3. Per estens. L’aver cura di un fanciullo, di un giovane; il provvedere ai suoi bisogni materiali, a tutto ciò che occorre per allevarlo. 4. L’essere educato, l’effetto dell’educare: formazione intellettuale, morale, sociale; complesso di principi, convinzioni, attitudini, gusti, consuetudini di vita acquisiti attraverso l’esperienza e per influsso dell’ambiente (specialmente familiare e scolastico); cultura. […] 5. Buona creanza, belle maniere, tatto, cortesia. […] 6. Raro. Allevamento.»223 Etimologia. Ha origine da due verbi latini: 1) educare = allevare, nutrire (significato accettato in DE), condurre da un luogo ad un altro, accentuando l'aiuto esterno; 2) educĕre (etimologia presente in AEI, p. 144) = estrarre fuori, condurre fuori, prendere con sé, da verbo ex + ducĕre con il suffisso ex ad indicare il moto da luogo o ad escludere un concetto224. Questo secondo significato enfatizza il significato che i risultati raggiunti sono stati ottenuti sviluppando virtù già esistenti. NDP vede il primo verbo come intensivo del secondo. Con il significato di «atto, effetto dell’educare» è presente nella lingua italiana dal XV secolo, mentre tre secoli posteriore è l’introduzione del significato «comportamento corretto ed urbano nei rapporti sociali»225. Riferimenti/rinvii. «La parola educazione, sulla scia della moda, è diventata comprensiva di vari contenuti, e in particolare di quelli relativi sia all’istruzione che alla formazione, fino ad assorbirli completamente, con gravi danni per la chiarezza. Da un punto di vista educativo è bene definire questi tre termini, in quanto hanno tre distinti significati e altrettanti campi di applicazione; infatti educazione deriva contemporaneamente da due verbi latini: educāre, che ha il significato di allevare, nutrire, condurre da un luogo all’altro, accentuando l’aspetto relativo all’aiuto ricevuto dall’esterno; educĕre, che vuol dire estrarre, tirare fuori, condurre fuori, prendere con sé, mettendo in rilievo il fatto che i risultati vengono ottenuti sviluppando virtualità già esistenti. L’educazione quindi consiste tanto in un crescere quanto in un ricevere aiuti per il processo di crescita, ed ha come contenuto l’insieme ordinato delle qualità umane, tanto che nell’accezione comune in genere si dice che una persona è beneducata o maleducata quando ha o non ha sviluppato queste qualità. Le qualità umane come contenuto dell’educazione le troviamo in tutte le culture, dato che la sede naturale dell’educazione è la famiglia: in essa infatti si tende a svilupparle, anche inconsapevolmente, perché in ogni caso i figli interiorizzano le qualità dei genitori. Le qualità umane infatti consentono un perfezionamento dell’essere e del fare, e sono quindi in rapporto sia alle persone che alle cose, e come tali possono essere presenti in tutte le situazioni umane»226. «Fenomeno fondamentale della natura umana che tende al perfezionamento e all'evoluzione degli uomini in via di sviluppo» (DIP). 223 DLIB, V (1968), pp. 47-48. Rohlfs, p. 351 (§ 1012). 225 DELI, II, p. 373. 226 G. Fioravanti, La famiglia istituzione educativa, Japadre, L’Aquila, 1993, pag.19. 224 La crescente mancanza di chiarezza originatasi intorno al termine appare evidente scorrendo le definizioni contenute in vari dizionari, anche specialistici: «Processo di svolgimento delle attività spirituali, in cui l'uomo affina la personalità, carattere, capacità (nelle diverse età e condizioni), e individualità-sociali (trasformandosi in età giovanile attraverso la scuola e la famiglia, in età adulta con le istituzioni e la cultura)» (DLIB); «Conferimento o apprendimento di principi intellettuali e morali in accordo con le esigenze individuali e sociali, criterio che guida a comportarsi civilmente.» (VLIDO); «1 istruzione, formazione, ammaestramento, insegnamento, scuola, indirizzo 2 creanza, urbanità, civiltà, compitezza, garbo, cortesia, gentilezza, convenienza, etichetta, bon ton, galateo, cavalleria» (DF); «Indica il processo formativo, infatti non vi è educazione che non rientri nel quadro sociale in termini di immersione dell'individuo in fatti, situazioni, interventi, condizionamenti propri di una comunità.» (DP); «L'educazione è morale, fonte di virtù. Lo scopo è: 1) far ambientare il soggetto nella società; 2) sottomissione a sé come volere di Dio 3) cura dell'anima» (DPSaie); «Indica il processo di formazione dell'uomo per la scoperta delle sue caratteristiche fisiche, mentali, spirituali, azioni volute per aiutare il bambino a crescere e svilupparsi armonicamente per arricchire e potenziare le sue facoltà» (DPSE); «L'educazione aspira ad una formazione completa, armonica ed equilibrata di tutti gli aspetti della personalità (fisico, morale, intellettuale )» (EP); «La pedagogia intesa come scienza dell'educazione che è l'attività umana attraverso le influenze di un adulto che formano le disposizioni per cui un individuo si inserisce in società.» (DPs); In NDP227 si trova una lunga disquisizione che puntualizza problemi senza fornire una definizione. Nella tradizione biblica, troviamo il concetto espresso in un termine comune ai vari idiomi semitici228, torah che significa "educazione", “istruzione”,229 “insegnamento o direzione”230. Il torah denota l'attività educativa umana e divina, regola di esistenza, vita decorosa o norma di condotta nei rapporti tra gli uomini e con Dio da cui procede il nome torah la “Legge” 231. La radice del vocabolo è yrh, con l'accezione di “vedere” (illuminare) nella forma hifil (horah, “insegnare, istruire”, propriamente un cammino, una via d'uscita), da cui moreh, pl. morim, “colui che istruisce, maestro, professore” 232 Altro termine ebraico è Lamad “apprendere attraverso la vista”; 233 “studiare” ,234 derivato dall'accezione originale di “mediatore”. Nella forma limmed denota “insegnare”, cioè “far apprendere” 235 . Gli alunni vengono indicati con il termine limmud 236 che significa esattamente “pratico in qualche cosa”, e i maestri chiamano melammed, pl. melammudim.Un sostantivo derivato da questa radice è talmid 237. Infine l'idea d'insegnare è unita alla severità che si esprime con la radice ysr in diverse forme derivate 238, il nome astratto “istruzione” è musar239 (disciplina) che nella Tradizione dei LXX viene sovente reso con il termine paidšia. Esistono altre voci ebraiche con questo significato che tuttavia vengono usate meno, esse sono: hebn “far intendere, insegnare” 240, mebin, “maestro”241 e banim “figli, discepoli”242. 227 G. Flores d’Arcais “Educazione”, NDP, pp. 378-403. Per tutta la parte relativa all’ebraico, cf. DCBNT, pp. 549-551. 229 Giobbe 22:22. 230 Sam.12. 23; Is. 8:16. 231 Deut. 28:61; Gios. 8:26, Sal. 40:9,7; 8:5; Is 51:7. 232 Giob. 6:24; Sal. 27:11; 86:11; Is. 9:14. 233 Ger. 12:16; Sal 106:35. 234 Sal. 119:71. 235 Deut. 4:5; Sal. 71:17; 94:10; 119:108; Dan. 1:4. 236 Is. 8:16; 50:4. 237 I Cor.25:8. 238 Sal. 2:10; Prov. 9:7; Is. 28:26; Ez. 23:48. 239 Giob. 5:17; Ger. 3:30. 240 I Cr. 35:3; Giob. 6:24; Sal.33:15. 228 Nei LXX, mentre il verbo paidšuw rimane ancora legato al concetto vetero-testamentario di “correggere” il sostantivo paidšia tende ad assumere il contenuto greco di “istruzione, lezione”. Si può dire quindi che, in questa fase anche in Israele si è formato un certo ideale educativo, sempre tenendo presente che il punto di partenza di “questa formazione umana [...] sono sempre la conoscenza di Dio, la sua rivelazione, i suoi comandamenti”. In Deuteronomio 11:2 troviamo il concetto di paidšia kur…ou, educazione del Signore. “La bocca del giusto esprime sapienza e la sua lingua espone giustizia”243.“Beato l’uomo che ha acquistato sapienza, l’uomo che con senno si sa comportare” 244. Nei suoi Scripta super libros Sententiarum, S. Tommaso definisce l’educazione come “progresso del fanciullo verso lo stato di eccellenza specificamente umana, che è come dire verso lo stato della virtù”245. Inoltre, dedica tutta un’opera, il De Magistro (la Quaestio XI del De Veritate), al problema educativo, laddove egli identifica educazione con la disciplina246. Secondo la scuola umanistica, l’educazione doveva procedere per gradi definiti, con l’infanzia affidata alle rispettive madri, le quali avrebbero insegnato le maniere cortesi, un linguaggio acconcio, abitudini sane riguardo il vitto, con l’aiuto di buone compagnie, tanto di coetanei, quanto di adulti.247 Nel De pueris statim ac liberaliter instituendis, Erasmo sostiene che bisogna «educare il fanciullo quando la sua età è tenera e malleabile, e la sua mente flessibile e pronta a seguire qualsiasi cosa», asserendo nel contempo che l’istruzione deve essere moderata e condotta con cautela, senza attendersi troppo dai più piccini248. Una grande attenzione per l’educazione dei più piccoli manifesta anche Comenio249. Per Locke, la buona educazione è la terza virtù non cognitiva, definita dallo stesso in termini negativi: “non preoccuparsi soprattutto di se stessi né soprattutto degli altri”250. Per Gentile, «se l’educazione è formazione dello spirito, tale formazione non ha un termine assegnabile, ma non ha né pure un principio. E la ragione è che lo spirito non è nel tempo; anzi, come sappiamo, il tempo è nello spirito.»251 Vedi Fioravanti cap. II In Inglese è tradotto con good manners, politeness, good upbringing252, courtesy, mannerliness (RT § 894), mentre un vero e proprio ‘tranello’253 per noi è il termine education, che significa «istruzione» In Francese « educazione, nel suo senso più generale fa pensare più alla formazione morale che a quella intellettuale »254, mentre più specificatamente è «l’imparare a comportarsi nei modi propri al livello 241 I Cr. 25:8; 27:32. Sal. 34:12; Am.7:14. 243 Sal. 37:30. 244 Prov. 3:13. 245 Cfr. J. W. Donohue, “Lo scolastico: L’Aquinate”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 152. 246 B. Mondin, Dizionario enciclopedico … op. cit., p. 210. 247 Cfr. F. E. Schacht, “L’umanista classico: Erasmo”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 173. 248 F. E. Schacht, “L’umanista classico: Erasmo”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi … op. cit., p. 183. 249 J. K. Clauser, “Il Pansofo: Comenio”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 213. 250 K. D. Benne, “Il gentleman: Locke”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 239. 251 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. I, p. 137. 252 OP&FF, p. 69. 253 Rossetti, p. 149. 242 sociale raggiunto»255. Oppure, secondo un’altra definizione, è «Il modo di assicurare la formazione e lo sviluppo di un essere umano, nonché i mezzi necessari»256. Si nota comunque il fatto che rispetto alla lingua italiana, il termine ha meno a che vedere con le buone creanze, les bonnes manières, la politesse257. In Tedesco si traduce solitamente con Erziehung258, mentre il termine Ausbildung comporta il significato di “affinamento”259, “sviluppo”, “formazione” ed “istruzione”260; talvolta si adopera anche Zucht, “allevamento”, simile al primo significato etimologico. Riduzionismo. Vedi Fioravanti cap. II. Nel tranello citato a proposito della lingua inglese ci sono caduti in molti; e moltissimi pedagogisti ancora oggi adoperano con estrema disinvoltura il termine e. come sinonimo di istruzione261. Ovvio che la tendenza spiccatamente statalista della nostra scuola non abbia fatto nulla per superare questo equivoco, contribuendo anzi a divulgarlo e a radicarlo profondamente nel senso comune, nel tentativo di arrogare allo Stato il diritto di educare i suoi figli, solo incidentalmente provvisti di genitori. Conseguentemente, si sente oggi parlare di Finalità educativa, con il significato specifico di un fine predeterminato dalle esigenze sociali che vorrebbe giungere a ‘formare’ addirittura le abitudini individuali, piuttosto che limitarsi – come dovrebbe fare – a trasmettere strumenti, tecniche e metodi per ottenere delle prestazioni individuali. «L’educazione del popolo è un fatto di utilità generale, tocca l’esistenza di tutto l’organismo sociale, e però è un dovere nazionale, e cade nelle appartenenze o nei diritti dello Stato; il quale comprende le condizioni e gli uffici connessi con la vita della totalità collettiva. L’educazione nazionale attua la condizione indispensabile alla libertà e al benessere di tutti, è un principio di ordine, e non può essere abbandonato all’arbitrio degli individui o di una classe.»262 Quest’impostazione ha conosciuto un grande sviluppo grazie soprattutto all’opera di Giovanni Gentile il quale affermava: «La società, egualmente, deve per necessità provvedere all’educazione de’ suoi membri – ed è assurda la celebre questione della collisione dei diritti della famiglia con quelli dello Stato rispetto all’educazione, essendo i due enti, in quanto distinti e contrapposti, vuote astrazioni; […] Egli è che la mamma e figliuolo, già pel loro naturale incontro nell’allevamento, costituiscono una spirituale unità, da cui non si può sottrarre né l’una né l’altro, e quindi un’identità di processo; e la società e gl’individui costituiscono del pari un processo spirituale unico, di organizzazione sociale, che, come s’è detto del processo spirituale in genere, è tutto in ogni suo momento, processo eterno ed assoluto.»263 “Education, pris dans son sens absolu et général, fait penser plus à la formation morale, qu’à la formation intellectuelle», LS, p. 329. 255 «l’acquisition du savoir-vivre relativement au milieu dans lequel on a été élevé, come sinonimo di politesse, correction e tact », LS, pp. 534-535. 256 «Façon d’assurer la formation et le développement d’un être humain; les moyens pour y parvenir», MRP, p. 417. 257 FAA, p. 66. 258 Che il DW (p. 531) definisce: influsso sistematico e mirato sui giovani, affinché si formino spiritualmente, moralmente e fisicamente con tutte le loro capacità e potenzialità, nonché vengano a costituirsi una personalità consapevole delle proprie responsabilità e inflessibile («planmässige und zielgerichtete Einwirkung auf junge Menschen, um sie mit all ihren Fähigkeiten und Kräften geistig, sittlich und körperlich zu formen und zu verantwortungsbewussten und charakterfesten Persönlichkeiten heranzubilden») 259 TIS p. 216. 260 « Entwicklung, Gestaltung, Schulung», DW p. 245. 261 Esemplare, a tal riguardo il paragrafo Educazione pubblica e privata della voce “Educazione”, in NDP, pp. 393-394. 262 A. Angiulli, La pedagogia lo Stato la famiglia, Firenze, la Nuova Italia, 1961 (riedizione del 1882), pp. 19-20. 263 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. I, pp. 142-143. 254 Grazie anche all’impostazione gentiliana, in molte opere scritte originariamente in lingua inglese, appare sistematico l’errore di tradurre il termine education con ‘educazione’: così la ‘Filosofia dell’istruzione’ (titolo originale Philosophy of Education) di W. H. Kilpatrick viene reso con ‘Filosofia dell’educazione’ (un’opera nella quale peraltro il termine ‘istruzione’ non compare mai), oppure la celebre Democracy and Education di J. Dewey diviene ‘Democrazia ed educazione’, la raccolta di saggi intitolata The Educated Man viene tradotto ‘Gli ideali educativi’264, ingenerando il pensiero che l’educazione con il suo contenuto – ossia le virtù - dipendano dalla filosofia abbiano degli ideali e portino alla democrazia, piegando così le qualità umane alle necessità sociali del momento storico e comprimendo ancora di più l’attività personale entro le rigide griglie predeterminate della ‘ragion di Stato’. Espressioni realmente vuote di significato sono state prodotte da questo equivoco di fondo, come “obiettivo educativo”: i “Grandi obiettivi educativi del paese” vengono difatti citati in un opuscolo ministeriale (dal titolo Il riordino dei cicli. Una riforma in cammino)265 distribuito agli insegnanti nell’anno 2001, a cura dell’allora ministro Luigi Berlinguer, dove viene addirittura menzionato un “sistema educativo”, laddove, correttamente, si dovrebbe parlare di “obiettivi dell’istruzione” e di “sistemi di istruzione”, appunto per non ingenerare equivoci. Ma ancora da questo esempio, si può notare come a tutt’oggi tale equivoco permanga – volutamente? - in ampie frange della società moderna. Il cerchio appare chiudersi con questa frase – tradotta in modo equivoco - di J. Dewey, secondo il quale «Il materiale dell’educazione consiste primariamente nei valori che forniscono il contenuto alla vita sociale presente.»266, ossia a dire che se nella società odierna i valori sono legati al successo ed al denaro – i ‘valori’ per eccellenza – l’intera educazione dovrebbe ruotare intorno ad essi, piuttosto che concentrarsi sulle qualità umane. Lo stesso Dewey, aggancia saldamente l’educazione ad un intento programmatico basato sul principio dell’evoluzione: «dal momento che è inutile tentare di bloccare l’evoluzione e che è assurdo chiudere gli occhi davanti ad essa, lo scopo dell’educazione dovrebbe essere di aiutare gli individui a fronteggiare i cambiamenti sociali.»267 Si levano comunque di tanto in tanto delle voci a smascherare l’equivoco: « […] un’educazione ridotta a mera istruzione – affermerà Giovanni Paolo nel discorso all’assemblea dell’UNESCO – diviene un’alienazione dell’educazione;»268 FINALITÀ EDUCATIVA. Vedi EDUCAZIONE. FORMAZIONE. Definizione. «Il formare, il formarsi; modo con cui una cosa è formata o si forma; genesi, sviluppo. […] 2. Creazione, origine. […] 8. Educazione, sviluppo culturale o spirituale (di una persona o delle sue facoltà); preparazione o addestramento a una determinata professione. […] »269 264 A cura di P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson, Brescia, La Scuola, 1972. Citato in M. Brachetta, Sulla riforma della scuola: per una scuola libera, Roma, Armando, 2002, p. 96. 266 J. Dewey, Democrazia … op. cit., p. 248. 267 B. Holmes, “L’uomo riflessivo: Dewey”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 348. 268 G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità … op. cit., p. 223. 269 DLIB, VI (1970), p. 185. 265 Come sinonimi di questo termine si hanno «Maturazione, sviluppo, preparazione, istruzione» (DSCGar) Etimologia. Il termine formazione deriva dal latino formatio “il formare” “prender forma” (la formatio morum = formazione dei costumi – Seneca). In Greco abbiamo vari termini a denotare la forma: scÁma “figura, forma”, morf» “apparenza, esteriorità, forma”, eŒdoj “aspetto, aspetto esteriore, forma”, ·uqmÒj “foggia, forma, giusta misura, disposizione, proporzione”270. Con il significato di «Formarsi. Maturità psichica e intellettuale dovuta a studio o esperienza» compare nella lingua italiana sin dal XV secolo271. «Il termine inizialmente era usato solo per le cose, a partire dall'idealismo tedesco si usò anche con valore culturale. Usato in sostituzione a istruzione e educazione. E' usato per indicare la presenza attiva nel processo educativo di professionisti che non si identificano come educatori, per cui questa figura si è richiesta di più con l'aggiornamento di insegnanti, educatori professionali e formatori in generale.» (DPSE). Riferimenti/rinvii. Nell’antichità, il concetto che Isocrate aveva dell’educazione, esposta nell’opera Antidosis, corrisponde a quanto noi oggi chiameremmo formazione: «un continuo processo di sviluppo delle qualità innate di un giovane attraverso ripetuti e predeterminati sforzi ed esercizi sotto la guida di persona qualificata. [...] Lo scopo dell’educazione è il perfezionamento dell’uomo nella sua totalità, in modo che la sua condotta nella vita come individuo e come cittadino sia sempre retta.»272. In ST, la forma viene definita come «nient’altro che l’atto della materia»273. E la semplice impostazione tommasiana sembra ancor oggi trovare una qualche eco in definizioni quali: «Acquisizione di consistenza e fisionomia spirituale» (VLIDO). In campo specificatamente pedagogico (significativamente in NDP è presente solo nella voce “Professionale, Formazione”274), si assiste ad una progressiva amplificazione dell’ambito semantico del termine: partendo da Herbart il quale intese la formazione come un processo che agiva sulla mente dall’esterno, questo perché negava alla mente di possedere delle facoltà innate, con la conseguenza diretta che la formazione si sarebbe ridotta al solo problema di presentazione dei materiali atti a provocare un’attività formativa, si arrivò alle posizioni critiche di J. Dewey 275, secondo il quale «[…] la formazione non è soltanto formazione di attività originarie, ma ha luogo per mezzo di esse. È un processo di ricostruzione, di riorganizzazione»276 Successivamente, una tale visuale andò ampliandosi sempre più, come abbiamo già visto a proposito dell’educazione, con Gentile per il quale essa è la formazione dello spirito, intendendo con ciò la “necessità di entrare nell’anima dell’educando”277, ossia un vero e proprio plagio spirituale. La Sull’ultimo termine vedi lo studio di E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 390-400. 271 DELI, II, p. 450. Non è attestato in DE. 272 C. M. Proussis, “L’oratore: Isocrate”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 84. 273 «Forma nihil aliud est quam actus materiae», ST, Prima Pars, Quaestio CV, Art. I, p. 490. 274 R. Costa, “Professionale, Formazione”, NDP, pp. 1011-1020. 275 J. Dewey, Democrazia … op. cit., pp. 88-91. 276 J. Dewey, Democrazia … op. cit., p. 91. 277 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. I, p. 135. 270 parabola non cessa ancora ai nostri giorni con scrittori, quali il Morin, che si ripropongono di riformare addirittura l’essere dell’uomo, ed intere prospettive (riduzionismo statalista) nonché discipline (Filosofia del diritto) basate sul postulato che la stessa dignità ontologica della persona è un prodotto del riconoscimento sociale, piuttosto che una prerogativa innata. Oggigiorno il termine formazione risulta uno dei più inflazionati. Riduzionismo. Ancora oggi, non mancano le confusioni tra questo termine ed ‘educazione’, come testimoniato da questo passaggio: «[la valenza educativa e formativa della pedagogia …] Ma educativa o formativa? I due termini non sono equipollenti e hanno statuto fenomenologico diverso, anche se entrambi animano il pedagogico, ne rappresentano un po’ i due poli di oscillazione. […] L’educazione è più conformatrice, più direttiva, anche più autoritaria. Il formare, invece, è processo del soggetto; è un formarsi, un prendere forma personale e secondo la propria natura, individualità ecc.;» «Così tutto un modo di fare pedagogia – deduttivo, sovrastorico, volto a elaborare modelli definitivi e invarianti – è venuto a porsi in ombra, lasciando un altro modo di elaborare il sapere pedagogico: legandolo alle scienze, in particolare alle scienze umane, dalle quali riceve orientamento e supporti, che deve assumere come proprie “fonti”, se pure criticamente, riorganizzandole secondo quel telos pedagogico che si incardina sul binomio (anch’esso critico e pensionale) dell’educazione/formazione.»278 Questi passaggi indicano chiaramente la nebulosità semantica che avvolge i due termini, distinti non in sé – come ci si attenderebbe – ma esclusivamente assimilati alle due polarità di quel processo dialettico (in questo caso esterno/interno, individuale/comunitario), avvertito come unico e necessitante anche a costo della soppressione di un terzo termine – ossia istruzione, ma tertium non datur! – che viene bellamente omesso. Usato in sostituzione di educazione (v.) e di istruzione (v.) denota l’atteggiamento - generatore dello Statalismo - di voler “formare” il prossimo come un vaso di creta, ossia plasmarlo, modellarlo dall’esterno, secondo convenienze, circostanze, utilità, ecc. ma in ogni caso passando come un rullo compressore sopra la sua dignità ontologica di persona unica ed irripetibile. Purtroppo una tale tendenza si riscontra ancor oggi in molte opere, anche pedagogiche: «Quanto alla mente, ripensata come tabula rasa, si afferma la sua eguaglianza tra tutti gli uomini e si assegna all’educazione il ruolo fondamentale, decisivo, di formarla;» «Formazione è un processo di oggettivazione di sé nella cultura, è un universalizzarsi uscendo da sé»279. Da queste frasi ne consegue che i famosi ‘campi di oggettivazione personale’ (= parafrasi dei campi di concentramento) sarebbero dunque altamente formativi. FRUSTRAZIONE. Definizione. «Delusione, mancato appagamento (di un desiderio, di una speranza, dei sensi). […] (Psicol.) Condizione psicologica di blocco che una persona può subire, per interposizione di ostacoli (come altre persone, condizioni ambientali, incapacità personali, ecc.), nello svolgimento della sua attività diretta a raggiungere determinati scopi (e può mantenere o favorire la nevrosi)»280 F. Cambi, Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari, Gius. Laterza & figli, 2000, pp. 5 e 54. Oportet ut dialectica adveniat, p. 99. Alle pp. 129-133 si trova un tentativo di delineare i tre termini di educazione, istruzione e formazione, interessante per gli esiti particolarmente oscuri, data l’impostazione dialettica dai contorni semanticamente sfumati, che lo contraddistinguono. 279 F. Cambi, Manuale … op. cit., pp. 57 e 158. 280 DLIB, VI (1970), p. 406. 278 Etimologia. Dal verbo latino frūstrātiō ōnis “delusione”, derivato da frūstrāre = rendere vano, ingannare, sfuggire, eludere, deludere Entrato nella lingua italiana nel XIX secolo grazie a Giacomo Leopardi come sinonimo di delusione, mentre con il significato di «stato psichico di avvilimento e delusione nei confronti di una realtà avvertita come insopportabile o irraggiungibile» è frutto recente della metà del XX secolo281. Riferimenti/rinvii. Altri riferimenti: «Stato di delusione o sconfitta per difficoltà» (VLIDO); «Delusione, insoddisfazione» (DSCGar); «In senso generico è la situazione e insoddisfazione che si prova ogni qualvolta un individuo non riesce a raggiungere un fine o uno scopo.» (DPSaie). In opere più specialistiche troviamo: «Blocco psicologico che una persona subisce quando un'azione diretta a uno scopo risente di interferenze di persone o ambientali sopraggiunte ad un'incapacità personale. Si riferisce al rifiuto o privazione e al sentimento che ne deriva.» (EP); «Si parla di frustrazione quando un individuo è ostacolato nel realizzare un bisogno o un fine.» (DPSE); «Situazione interna o esterna che impedisce il raggiungimento di uno scopo.» (DPs). Dalle definizioni specialistiche si deduce, rispetto al termine più generico di “delusione”, lo specifico richiamo del suo significato ad una situazione di impedimento avvertito come esterno. Riduzionismo. Il termine, adoperato come opposto di GRATIFICAZIONE, appare caricato di valore passivo, esclusivamente reattivo, ossia di mera risposta allo stimolo esterno. Ecco esemplificato tale riduzionismo: «Componenti fondamentali per comprendere il concetto di frustrazione: a) essa può verificarsi solo per un organismo che può guidare il proprio comportamento dirigendolo verso un fine; b) il comportamento dev’essere attivato da una motivazione più o meno specifica; c) occorre che ci sia un oggetto (incentivo) corrispondente al bisogno-desiderio-attesa, in grado di gratificarli; d) non c'è frustrazione senza l'interferenza di un ostacolo che interviene tra la motivazione e l'incentivo, impedendone l'acquisizione.»282 Da questo passaggio si comprende bene il legame concettuale con i termini GRATIFICAZIONE (v.) e MOTIVAZIONE (v.); tale interrelazione è effetto ed indice di un atteggiamento passivo, il quale vede l’essere umano fondamentalmente diviso dall’ambiente circostante, con il quale anzi entra in un rapporto conflittuale finalizzato a quello dialettico, sentito come l’unico universalmente concepibile. A riprova di ciò, il documento citato continua: «III) Le cause della frustrazione. 1) Fattori fisici: uscendo dal grembo materno l'individuo è costantemente impegnato ad affrontare un ambiente fisico che ha leggi proprie [Corsivo nostro. Dal che se ne deduce che le leggi dell’individuo e dell’ambiente divergono. NdA] […] 3) Fattori personali: si suddividono in biologici, psicologici e sociali. a) Quelli biologici riguardano l'organismo (fonte di frustrazione è una particolare condizione fisica: piccolo di statura, capelli rossi, miopia...). Ovviamente la situazione fisica in sé non è causa di un disadattamento, ma lo diventa se viene vissuta così o se viene proposta al soggetto in modo frustrante. b) I fattori psicologici riguardano la personalità (ad es. vivere in un ambiente centrato sull'efficienza operativa può essere frustrante per chi possiede una 281 282 DELI, II, p. 462. Vedi http://www.homolaicus.com/ personalità desiderosa di coinvolgimento emotivo, contatto umano e comprensione). c) I fattori sociali riguardano la società (ad es. l'appartenenza a un certo contesto o classe sociale può determinare frustrazione). Da notare però che una stessa esperienza di mancata gratificazione può essere percepita da una persona come sgradevole o umiliante, mentre per un'altra può essere stimolante. Spesso l'impossibilità di soddisfare immediatamente un desiderio è utile stimolo di ricerca di nuove soluzioni.». In corsivo sono state riprodotte tutte quelle parti che rimandano direttamente all’atteggiamento passivo basato sul concetto di stimolo-risposta, come unico modo di conoscenza e di relazione. La volontà personale risulta così la grande assente283. GIUDIZIO. Definizione. «[…] 4. Filos. La facoltà del distinguere il vero dal falso e la convenienza di un dato predicato a un dato soggetto o di valutare la realtà sotto i vari aspetti possibili. […] 6. Opinione, convinzione, parere; modo di vedere e di sentire – Anche: supposizione. […] 7. Esame, ricerca, investigazione; stima, valutazione (favorevole o sfavorevole) circa persone, cose, eventi, circostanze.»284 Non attestato in NDP Etimologia. Non è una caso se il documento elettronico in questione continui con una lunga digressione sulle reazioni alla frustrazione, che riproduciamo di seguito integralmente: «IV) Reazioni alla frustrazione. 1) Persistenza dell'ostacolo: quanto maggiore è l'incentivo-motivazione, tanto maggiore sarà la tendenza a persistere nel raggiungimento di quella gratificazione che risulta impedita dalla persistenza dell'ostacolo. 2) Reazione aggressiva: la mancata gratificazione protratta nel tempo può scatenare la reazione aggressiva. L'energia viene distaccata dall'oggetto che ostacola oppure viene reinvestita (sempre in modo aggressivo) su un altro oggetto. La reazione aggressiva è proporzionata alla frustrazione. A volte, per effetto di cumulazione, si può verificare una reazione fortemente aggressiva alla fine di una lunga serie di frustrazioni di modesta entità, nessuna delle quali, singolarmente vissuta, avrebbe scatenato la crisi. • La reazione aggressiva può essere eterodiretta (rivolta verso l'esterno) oppure autodiretta (rivolta su di sé). Risponde alla seguente logica: "Se qualcosa è andato male, ci sarà una colpa; la colpa è di qualcuno; questo qualcuno deve essere punito". A seconda che il "qualcuno" sia il soggetto stesso o un altro, la reazione aggressiva è intrapunitiva o extrapunitiva. • Da sottolineare anche la reazione aggressiva rediretta: ad es. una persona frustrata può ritenere giustificato il suo risentimento nei confronti di un'altra persona (che crede si sia comportata in modo offensivo) senza rendersi conto (perché il processo è inconscio) che il suo risentimento è dovuto al fatto che quella persona ne sostituisce in realtà una terza, che era stata effettivamente offensiva nei suoi confronti e verso la quale non aveva potuto reagire. 3) Stimolante dell'intelligenza: la frustrazione attiva il comportamento, per cui può essere utilizzata per l'apprendimento, a condizione che non sia troppo intensa né troppo prolungata (ad es. nelle interrogazioni le domande troppo "tranquille" o troppo "disturbanti" del prof. hanno un rendimento di risposta minore). 4) Reazione cooperativa: la frustrazione può attivare collaborazione fra i soggetti che la subiscono (ad es. quando esiste la minaccia di un nemico comune si dimenticano i vecchi torti). 5) Ansia, Angoscia e Apatia: in tutti quei casi in cui l'entità della frustrazione subita è così elevata da superare i limiti di tolleranza da parte del soggetto. L'ansia è uno stato di agitazione-stress-timore; l'angoscia è un'incontrollabile agitazione, un'incapacità a reagire; l'apatia è caratterizzata da indifferenza-distacco-demotivazione totale, tipica di quei soggetti provati da gravi traumi emotivi (prigionia, terremoti, tortura, lutto, tradimento...) o di soggetti patologici. L'apatia è l'estrema protezione del proprio io da un'angoscia altrimenti insopportabile.». 284 DLIB, VI (1970), pp. 874-875 283 Dal latino iudicium, composto da ius “diritto”285. Con il significato di «facoltà propria della mente umana di confrontare, paragonare, distinguere persone o cose» è attestato nella lingua italiana sin dall’inizio del XIV secolo286. Riferimenti/rinvii. In Greco abbiamo il termine kr…ma “decisione, giudizio”, il quale deriva dal verbo kr…nw “separare, giudicare” (equivalente al latino cerno, Rocci, p.1089), adoperato già in età omerica, con i composti “comparare, dare un giudizio, commisurare”, “indagare, esaminare, informarsi, ricercare”, con una successiva specializzazione nel campo giuridico (kr…ma = tribunale, poi giudizio, decisione, condanna; kr…tai = giudici). Posteriormente si ha il termine kr…sij ad intendere la decisione, la scelta, la divisione, la controversia.287 In ST la seconda operazione dell’intelletto, che si realizza sia componendo sia separando i concetti288. «[…] intendiamo come capacità di giudizio la capacità di essere consapevole di certi determinati modi d’essere delle cose.»289 Vedi CONCETTO, CONOSCENZA. Riduzionismo. Al giorno d’oggi questo concetto risulta eliminato a vantaggio di “opinione”, che è adoperato come suo esatto sostituto, dal momento che è stata decretata la scomparsa della Verità. Non essendovi più verità, non vi sono dati oggettivamente assumibili da parte di una persona. Conseguentemente, non si potrà avere più un giudizio, quanto un’opinione, ossi un’idea caratterizzata da un’ampia dose di ignoranza compensata dalla soggettività dell’asserzione. GRATIFICAZIONE. Definizione. «Benevolenza, liberalità. […] 2. Premio, compenso. […]»290 Etimologia. Dal latino gratificatio -onis “gratifica, il fare un piacere, liberalità, dono” formazione del verbo gratificāri “fare piacere, servizio, compiacere, essere condiscendente”, composto da grātus “grato” e facere “fare”, molto usato nel latino ecclesiastico «per calcare voci greche corrispondenti»291, fa il suo ingresso nella lingua italiana nel XIX secolo, probabilmente dall’Inglese, dove il termine gratification è attestato sin dalla fine del XVI secolo. Riferimenti/rinvii. «Gratifica economica» (VLIDO) «soddisfazione, gioia, ricompensa» (DSCGar) Non è attestato in opere specialistiche (DPSaie, EP, DPSE, DIP, DP, DPs, NDP). Dal quale anche i termini iudex “giudice” e iudicare “giudicare”. Cf. AEI, p. 190. DELI, II, pp. 501-502. 287 Cf. DCBNT, pp. 784-785. 288 B. Mondin, Dizionario enciclopedico … op. cit., p. 281. 289 F. Lersch, La struttura … op. cit., p. 237. 290 DLIB, VI (1970), p. 1074. 291 DELI, II, p. 518. 285 286 Riduzionismo. La passività dell’atteggiamento che è alla base di questo termine è già stata esaminata nel suo opposto FRUSTRAZIONE (v.). Riprova di quanto asserito ne siano questi documenti elettronici sull’argomento: «Novantanove volte su cento la gente non accetta critiche sul proprio modo di comportarsi, per quanto sbagliato possa essere. La critica è inutile perché pone le persone sulla difensiva e le induce immediatamente a cercare una giustificazione. E’ pericolosa perché ferisce l’orgoglio della gente, la fa sentire impotente e suscita risentimento. B. F. Skinner provò con i suoi esperimenti che un animale ricompensato perché si comporta bene impara molto più velocemente di uno punito perché sbaglia. Studi successivi hanno dimostrato che lo stesso principio si applica agli esseri umani. Con la critica non solo non si riesce a correggere gli errori della gente, ma si suscita il risentimento. Il risentimento per le critiche ricevute può demoralizzare i dipendenti, i familiari, gli amici, senza contribuire a migliorare la situazione.[…] E W. James disse : “Una delle più radicate caratteristiche della natura umana è quella di seguire infaticabilmente l’apprezzamento altrui”. Quindi siamo di fronte a una fame insaziabile e chi riesce a soddisfare onestamente questo bisogno avrà la gente in pugno.»292 Al di là della finalizzazione discutibilmente pragmatica dell’enunciato, quello che in questa sede preme sottolineare è l’impostazione comportamentistica, basata sul metodo stimolo-risposta (inevitabile quindi il riferimento a Skinner) che relega la persona ad un ruolo meramente reattivo nei confronti di stimoli (buoni o cattivi che siano) o motivazioni. Altro documento elettronico significativo è il seguente: «I complimenti sono la comunicazione più semplice e diffusa di gratificazione. Mostrare apprezzamento e riconoscere un merito ad una persona la porta a consolidarsi nelle sue scelte. […] La gratificazione può essere l'unica strada per far scoprire la bellezza e il senso profondo di qualcosa che possa dare un concreto contatto con il mondo. È come aprire chi è confuso una finestra che affaccia su qualcosa per cui "vale la pena". Il bimbo capriccioso è spesso indeciso, perplesso, turbato, disorientato, disorganizzato, annebbiato o sconcertato dalla presenza di molteplici pensieri, desideri o tendenze all'azione compresenti in lui. […] La comunicazione gratificante muove appunto con lo scopo di far percepire qualcosa dentro l'altro che è l'innesco di un'emozione con valenza affettiva. La gratificazione ha anche un risvolto di stabilizzazione e di conferma del piacere di un vissuto. La gratificazione è anche un insegnamento alla fedeltà per chi non riesce ad essere stabile a causa della sua vanitosa volubilità; un complimento profondo lo fa soffermare su qualche vissuto piacevole per gustarne fino in fondo il sapore. Egli di solito fa sue solo le sensazioni nella loro espressione più acuta, non sa vivere nel meno effimero e meno eclatante sapore della fedeltà. Per lui la stabilità è la fine delle emozioni e di questa fine è spaventato perché dietro ogni emozione che scompare lui intravede costantemente l'angoscia. Un intervento di gratificazione serve a fargli riconoscere altri gusti presenti negli stessi vissuti, gusti con un accento meno intenso ma con un sapore infinitamente più duraturo. Un vero complimento delucida quegli aspetti terminali dello stato emotivo e ignora quegli iniziali, più dirompenti ma meno melodiosi. Ha poca importanza gratificarlo nel momento in cui si prepara ad un incontro e si dispone a dare il meglio di sé, è invece essenziale rivivere con lui quanto è accaduto, dopo che un vissuto sembra ormai finito. »293 In questo brano si evidenzia l’equivoco generato dall’uso di una terminologia deviata in un contesto assolutamente naturale quale il terzo principio della Pedagogia, ossia la valorizzazione degli elementi positivi (vedi Fioravanti cap. IX). Parlare in questo contesto di gratificazione, rende la valorizzazione 292 293 www.e-school.it. www.psicologia/educazione - Gratificazione - Encanta_it. “La gratificazione” di V. Masini. assolutamente dipendente dall’emozione positiva (= piacere) che si riesce a stimolare nel soggetto; infatti gratificazione è ciò che dà piacere, ed è per questo che essa è ampiamente perseguita. Ma la ricerca del piacere fine a se stesso è edonismo. Nel brano citato manca semplicemente la discriminazione tra attività e passività e ciò che è un mero strumento, del tutto facoltativo ed episodico, assurge a metodo necessario (“unica strada”). GUSTO. Definizione. «Senso che permette di percepire e distinguere i sapori. […] 2. Per estens. Sapore. […] 3. Fig. Piacere, godimento, diletto, soddisfazione, compiacimento (dello spirito o dei sensi). […] 4. Desiderio, voglia, capriccio. […] 6. Disposizione individuale e soggettiva a percepire, a giudicare e apprezzare qualcosa; spiccata inclinazione per determinati modi di essere o esperienze o attività (e, anche, il piacere che se ne trae); attitudine; predilezione, preferenza, passione. […] 7. Capacità di distinguere e apprezzare ciò che è bello e conveniente; sensibilità estetica. […]»294 Etimologia. La parola gusto trova la sua origine nel latino gustus, con il primo significato di ‘assaggio’, ‘il gustare’, accanto a quelli di ‘sapore’, ‘sorsata’, ‘saggio’ e ‘prova’. Esso è l’astratto di gurĕre - verbo perduto – dalla radice geus che ha originato, tra gli altri, anche il greco gšuomai ‘assaporo’295 ed il tedesco Kost ‘vitto’296. Tra il XVII ed il XVIII secolo si assistette allo sviluppo dell’accezione estetica297. Nella lingua italiana, esso conserva oltre alla funzione sensoriale per avvertire i sapori, anche i significati di ‘sensazione dovuta al sapore dei cibi’, ‘piacere’, ‘soddisfazione’, ‘inclinazione’, ‘voglia’, ‘appetito’, ‘attitudine al discernimento estetico’, ‘sensibilità per il bello’ ed il ‘complesso delle tendenze estetiche che caratterizzano il modo di giudicare e di esprimersi di un’epoca, di una scuola di un autore’, ossia lo ‘stile’. Riferimenti/rinvii. Non attestato in NDP. Dal punto di vista fisiologico, il gusto, nell’accezione comune, rientra nei cinque sensi esterni dei quali dispone ogni uomo. Esso offre, specificatamente, «sensazioni gustative, le quali trovano armoniosa unicità con quelle olfattive, uditive, termiche e tattili, tutte concomitanti nella percezione dei sapori, la quale può risultare modificata dal prevalere di una o di un’altra sensazione. Risulta che il gusto, il quale è senso a contatto, è in stretta relazione con l’olfatto, considerato senso a distanza; perciò capita spesso che, gustando i cibi, si è portati ad attribuire al gusto delle qualità che in realtà sono percepite in parte dall’odorato»298. «L’Oxford English Dictionary dice del gusto che esso “è il senso di ciò che è appropriato, armonioso o bello: in particolare il discernimento e l’apprezzamento del bello naturale o artistico”.»299 294 DLIB, VII (1972), pp. 180-182. Il greco gšuw “faccio assaggiare, gustare, provare, conoscere” (Rocci, p. 385) è dunque affine al latino gustus, nonché alla radice sanscrita ju con il significato di “piacere, gioire, godere” (SED, p. 424). 296 AEI p. 198. 297 DELI, II, p. 531. 298 DPSiae, II, p. 590. Questa vicinanza è assai chiara in Francese, dove per ‘gusto’ troviamo come termine generale le goût, e come termine particolare, le parfum. Cf. FAA, p. 87. 299 W. H. Kilpatrick, Filosofia … op. cit., p. 558. 295 In Inglese l’italianismo gusto sta ad indicare «entusiasmo, ardore, fervore, godimento», traducendo invece taste per il termine gusto300. Facoltà legata indissolubilmente all’originalità personale (de gustibus non est disputandum), il gusto come abbiamo potuto vedere dalle definizioni riportate sopra è lo sviluppo di una vera e propria modalità di relazione del soggetto con il mondo esterno, ciò che dà sapore al sapere. Lo schema in Fioravanti cap. IX denota la funzione intermediaria del gusto, elemento facente sì parte della sfera soggettiva ma il più vicino all’oggettività. Questa sua funzione intermediaria la ritroviamo particolarmente enfatizzata nella cultura indiana, sulla quale rivolgeremo ora la nostra attenzione. Nella cultura indiana, la parola per gusto, rasa, significò originariamente il succo, la linfa, oppure l’umore, la secrezione e per estensione l’essenza, la parte più interna. Successivamente il suo significato comprese anche “nettare”, “mercurio”, “metallo o minerale in stato di fusione”, “oro”, “gusto”, “facoltà gustativa”, quindi “lingua” come strumento e “sapore” come proprietà gustativa, “assaporamento” come azione gustativa, da cui “intonazione prevalente di un’opera”, “sentimento prevalente”. Di quest’ultima accezione vennero riconosciuti ed enumerati otto modalità espressive da adoperarsi nelle composizioni drammatiche equivalenti ad altrettanti sentimenti/passioni che s’intendeva ingenerare negli spettatori: 1. passione erotica; 2. eroismo; 3. ripugnanza; 4. furia, ira; 5. comicità; 6. terrore; 7. compassione; 8. stupore 301. Lo “Specchio della letteratura” (Sāhityadarpaa), un’opera di teoria estetica risalente al XIV secolo d.C., si ripropone di trattare a fondo il concetto di poesia (kāvya). Nel suo primo capitolo, l’autore si profonde a presentare varie definizioni dell’arte poetica, l’ultima delle quali, la preferita, recita “la poesia è espressione vocale essenziata di rasa”302, ossia del gusto/passione. Il commento ci informa che senza rasa non c’è poesia303. La vicinanza del latino sapēre come conoscenza e sapĕre come sapore trova un parallelo stupefacente nella considerazione che segue: nel IV-V sec. a.C., il Nāyaśāstra – primo trattato sulla poetica indiana giuntoci - afferma (6.31) : “senza il rasa non accade alcuna cosa significativa”304 ed altrove (7.7): “la condizione emotiva ed un consenso nel profondo del cuore fa sorgere il gusto; da questo l’intero corpo è permeato, come la legna secca dal fuoco”305. 300 Rossetti, p. 198. In Sanscrito: 1. śgara; 2. vīra; 3. bībhatsa; 4. raudra; 5. hāsya; 6. bhayānaka; 7. karua; 8. adbhuta. Dai sentimenti dell’amore (rati) può scaturire la passione/gusto erotica (śgara); dall’allegria (hāsa) quella comica (hāsya); dal dolore (śoka) quella patetica (karua); dal coraggio (utsāha) quella eroica (vīra); dall’ira (krodha) quella furiosa (raudra); dalla paura (bhaya) quella terrorizzata (bhayānaka); dalla repulsione (jugupsā) quella disgustosa (bībhatsa); dalla meraviglia (vismaya) quella stupita (adbhuta). Inoltre venne osservato che lo stato d’animo/sentimento può ingenerare alcuni effetti fisici ben individuati (anubhāva) che fungono da segnali rivelatori: immobilità (stambha), orripilazione (romā–ca), tremore (vepathu), pianto (asru), dolcezza (sveda), balbettìo (svarabhaga), pallore (vaivarya) e perdita dei sensi (pralaya), cui s’aggiungono a completare il quadro anche i 33 stati d’animo transitori. 302 Vākya rasātmaka kāvya. 303 A. K. Coomaraswamy, traduce invece “L’arte è un enunciato informato dalla bellezza ideale”, Introduzione dell’arte dell’Asia orientale, contenuto nella raccolta di saggi “Traditional Art and Symbolism” edita in Italia con il titolo Il grande brivido. Qui come in altri punti dell’opera il termine viene sempre tradotto con “bellezza”, tranne poi puntualizzare che esso: “non è una qualità oggettiva dell’arte, bensì un’attività o un’esperienza spirituale chiamata ‘assaporamento’ (āsvāda): non è di genere affettivo né dipende dalla conformità o meno dell’argomento o del materiale ai nostri gusti (che qui viene tradotto con ruci – NdA), ma nasce da una perfetta autoidentificazione con il tema, qualunque esso sia.”. E’ tuttavia da tenere in considerazione la doppia traduzione che subiscono tali passi prima di arrivare nelle librerie italiane, a danno di una perfetta aderenza al significato del testo originale, come insegna il popolarissimo ‘gioco del telefono’. 304 Na hi rasād te kaścid apyartha pravartate. 305 Bhāva hdayasavāda rasaśarīra vyāpyate tenaśuka kāham ivāgninā. 301 Alla fine del II atto dell’opera Vikramorvaśīya di Kalidasa, opera del V sec. d.C., troviamo questo verso: «Sebbene composta da cento dolci parole, la riappacificazione dell’amante priva di rasa /, non conquista il cuore delle donne, in quanto esse lo avvertono, allo stesso modo che il gioielliere non è ingannato da una pietra falsa»306. Partendo da queste considerazioni, tutta la filosofia estetica indiana fece attenzione a ricercare le cause e le condizioni per poter provocare l’assaporamento della passione, il gusto307: “Il gusto nasce (rasa nipatti) dall’unione (samyogād) di stati d’animo/sentimenti determinanti (vibhāva) conseguenti (anubhāva) e transitori (vyabhicārī)”. Ānandavardhana risalente al IX secolo d.C., autore dello Dhvanyāloka (III. 42): “Nello sconfinato mondo della poesia il poeta è l’unico creatore; tutto si sviluppa a suo piacimento. Se il poeta ha passione il mondo in poesia è permeato di gusto; qualora invece questi sia privo di passione il mondo intero sarà privo di gusto”308; (IV.4): “sebbene già noti in precedenza i termini nella poesia con il semplice uso del gusto appaiono del tutto rinnovati come gli alberi a primavera”309. La funzione intermediaria del gusto tra la sfera della soggettività e l’oggettività trova un suo preciso riscontro nella speculazione filosofica indiana. Lo Śivaismo kaśmiro presenta un particolare sviluppo del concetto di gusto come vero e proprio strumento per superare le dualità mondane: «Il Sé interiore è il palcoscenico. Egli si delizia in esso, tramite il sé che è la base della manifestazione del gioco, della danza cosmica […] e così avendo fatto dimora, attraverso la vibrazione delle sue proprie facoltà manifesta la danza cosmica. I sensi sono gli spettatori. Infatti gli occhi e gli altri sensi dell’asceta quando sono rivolti all’interno testimoniano l’intima essenza piena della delizia della manifestazione della danza universale. Non appena questa azione si intensifica, essi generano il pieno assaporamento dello stupore, la scomparsa di tutte le divisioni.»310 . Nel X sec., Abhinavagupta analizzerà ulteriormente questo ‘assaporamento’ che, a suo dire, è composto dai concetti di ‘fusione’, ‘liquefamento’ (druti), ‘espansione’ (vistāra) e ‘sboccio’, ‘schiudimento’, ‘apertura’ (vikāsa). E’ interessante notare come lo Śivaismo kaśmiro, similmente a quanto accade nel non dualismo qualificato (viśiādvaita) di Rāmānuja ed altri sistemi, i quali prendono sul serio la danza-gioco che soggiace all’evoluzione del cosmo, non rifiutano il mondo sensibile, facendone anzi oggetto di serie ed accurate analisi. In tale prospettiva, le sensazioni – fisiche quanto emotive – acquistano dignità di dati investigabili fino a divenire parte di un metodo acquisibile per la propria emancipazione. Così Rāmānuja parlerà di un ‘gusto del gioco’ (līlārasa) che la poesia sa trasmettere e che permette al fruitore di trascendere l’apparenza ripetitiva e quotidiana dell’azione creatrice gustandone nel contempo il suo distillato, il nettare. Nella corrente vainava si assiste invece ad uno sviluppo Priyavacanaśato’pi yoitā dayitajanānunayo rasād te/ praviśati hdaya na tadvidā mair iva ktrimarāga yojita// Con effetto sulla stessa drammaturgia. Il gusto viene difatti descritto come «The principal element in drama. It was the end for which perfect technique in the actors and perfect dramaturgical skill in the playwright existed.» R. E. Goodwin, The Playword of Sanskrit Drama, Delhi, Motilal Banarsidass, 1998, p. 80. 308 Apāre kāvyasasāre kavir eka prajāpati yathāsmai rocate viśva tatheda parivartate śgarī cet kavi kāvye jāta rasamaya jagat sa eva vītarāgaś cet nīrasa sarvam eva tat. 309 Dapūrvā api hyarthā kāvye rasaparigrahāt sarve navā ivābhānti madhumāsa iva drumā 310 «Rago’tarātmā rajyate’sminātmanā jagannāya krīā pradarśanāśrayena […] tatra hi aya ktapada svakaraaparispandakrameābhāsayati jagannāyam prekakāi indriyāi yoginaś cakurādīni indriyāi hi antarmukhatayā sākāt kurvanti svasvarūpam pramodanirbharam sasāranāyaprakaana tat prayoga prarūhyāpādayanti camatkāra rasa sapūratām vigalitavibhāgām» Śivasūtravimarśinī, di Kemarāja, 3. 9-11. 306 307 speculativo, soprattutto della passione e gusto erotici, śgararasa, in una direzione decisamente devota di totale abbandono all’azione del dio, con sviluppo particolare soprattutto nel Bengala311. Ancora un ulteriore sviluppo del concetto si verifica nella poesia medievale, influenzata dall’Islam: nella Mirgāvatī di Kutuban scritta nel 1505, il nakh-śikh (descrizione allegorica dalla testa ai piedi) mostra l’eroina possedere una lingua “piena di molti rasa [ossia in grado di suscitare vari tipi di passioni, di gusti], e quando ella parla ammalia i cuori … veri e propri fiori cadono dalla sua lingua di loto”312 . Dopo questo excursus apparentemente esotico, tornando alla nostra cultura, poche altre osservazioni aggiuntive a Fioravanti, cap. VII: se non vi fosse la crescita graduale di tutti gli sviluppi del gusto sarebbe sufficiente trangugiare o ingozzarsi per alimentare il motore. Così non è, con buona pace del nuovo monachesimo penitenzialdietetico. Senza il gusto, senza il piacere del gusto la scienza nutrizionista è monca. L’importanza del gusto inteso come facoltà ed atto sensoriale appare evidente nella teoria di Spitz, poiché è proprio «grazie all’intermediazione di particolari zone sensoriali, come la superficie cutanea e, soprattutto, la mucosa della regione orale, nonché l’orecchio interno, che nella funzione alimentare avviene la ricezione esterna ed interna degli stimoli». Egli asserisce che «la bocca e la sua cavità non costituiscono soltanto la zona percettiva che, sin dalla nascita, funziona con massima specificità, ma in esse gli organi sensoriali destinati agli stimoli esterni, s’incontrano e si fondono con i recettori sensoriali interni; quando la mammella e il latte riempiono la bocca del neonato, la stimolazione è, infatti, combinata e cumulativa». Spitz ha pertanto avanzato l’ipotesi che «ogni percezione incomincia nella cavità orale» 313; insomma la bocca come culla della percezione. In realtà, c’è da dire che è anche avvertendo l’odore della madre che il piccolo si attacca maggiormente al seno, e non solo esclusivamente per fame. «Le sensazioni del gusto e dell’odorato sono, infatti, prodotte rispettivamente dal contatto di sostanze solubili con le papille della lingua e di emanazione di sostanze odorose con la mucosa nasale».314 Per ciò che riguarda specificamente gli organi del gusto, deputati a ricevere la gamma di sapori, questi «hanno sede nelle cosiddette papille della mucosa linguale e vengono chiamati calici gustativi. Essi raggiungono la superficie della mucosa attraverso un foro detto, appunto, gustativo dal quale si dipartono dei prolungamenti chiamati ciglia gustative. Nel campo gustativo, in genere, rientrano: la punta, i bordi e il terzo posteriore della lingua; possono rientrare in misura ridotta, poi, la parte superiore della faringe e qualche parte della laringe e del palato». C’è inoltre da evidenziare che «il campo gustativo si modifica con l’età: si sa infatti che nei bambini coincide con tutta la superficie della lingua, mentre nel feto è molto più esteso; dopo i trentacinque anni si verifica, invece, una perdita dei bocci del gusto». I calici gustativi, al pari degli altri organi sensoriali, «sono in rapporto con fibre nervose che giungono al cervello grazie a due nervi cerebrali: quello facciale e quello glosso-faringeo. Le sensazioni gustative, escludendo quelle olfattive, si riducono a quattro sapori fondamentali: acido, amaro, dolce e salato»315. E’ noto che anche altri organi sensoriali, poi, contribuiscono notevolmente alla conoscenza percettiva da parte del lattante. Il fatto, ad esempio, che «durante l’allattamento la Dove avremo la codificazione dei cosiddetti bhakti rasa: pacificato (śānta), dominato (dāsya), compagno (sākhya), filiale (vāsalya) e dolce (mādhurya). Cf. S.K. De, “The Bhaktirasaśāstra of Bengal Vaiavism”, in: Indian Historical Quarterly, vol. 8 (1932), pp. 643-688. 312 Cf. S. M. Pandey, “Nakh-śikh in Candāyan” in: M. Offredi (a cura di) The Banyan Tree. Essays on Early Literature in New Indo-Aryan Languages, Venezia 2000, pp. 27-59. 313 L. Ancona, La dinamica della percezione, Milano, Mondadori, 1970, p. 135 314 DPSaie, II, p. 590 315 P. Fedele, Grande Dizionario Enciclopedico U.T.E.T., Torino, Ed. Unione Tipografico Editrice Torinese, 1972, Vol. GIAN-HVI, p. 887. 311 superficie cutanea della mano del neonato venga appoggiata, generalmente, dallo stesso al seno o comunque al corpo materno, questo provoca contemporaneamente una maggiore stimolazione della bocca, aumentando così l’effetto della suzione».316 Analoghe considerazioni possono farsi per «la stimolazione labirintica dovuta alla particolare posizione che assume il bambino al momento dell’allattamento. Resta, dunque, accertato che la lingua, le guance, le vie nasali e la faringe, oltre ad essere strumenti di soddisfazione cenestesica, offrono elementi indispensabili per l’esplorazione e la percezione tattile e, costituiscono, così, insieme alla simultanea funzione uditiva, un’esperienza ricettiva totale» 317. IDENTITÀ. Definizione. «L’essere o il rimanere identico. […] 2. L’insieme delle indicazioni, delle generalità, dei caratteri individuali, dei dati anagrafici che consente il riconoscimento di una persona (o anche di una cosa). […] 3. Filos. Carattere di tutto ciò che è uno, che è sempre lo stesso, pur manifestandosi sotto forme diverse. […]»318 Etimologia. Dal latino tardo (IV secolo) identitāte(m), formato da īdem “proprio quello (stesso)”319, ricalcando il greco tautÒthj “identità, essere lo stesso”. Presente sin dal XIV secolo in Italiano nell’accezione di «Uguaglianza assoluta e completa», il termine identità inteso come «qualificazione di una persona, di un luogo, di una cosa per cui essa è tale e non altra» compare nel XVII secolo320. Riferimenti/rinvii. «Rapporto di uguaglianza o coincidenza assoluta» (VLIDO) «Di persona, riferito alla persona stessa. Io = Io» (DSCGar) «Struttura mentale completa composta, che ha caratteristiche cognitive (come percezione, ricordi), che affettive (personali e interpersonali) e che comprende la propria percezione personale in quanto essere distinto e separato da altri con propri comportamenti, bisogni motivazioni e interessi.» (DPSaie) «Si definisce autorappresentazione, la percezione di sé come unitario con caratteristiche e qualità permanenti e diverse da altri. In assenza di questa capacità nascono i disturbi dell'essere.» (DPSE) «In psicologia s'intende il senso dell'essere continuo attraverso il tempo e distinto da altre» (DPs) Non è attestato in DP, DIP, EP, NDP. INTEGRAZIONE. Definizione. L. Ancona, La dinamica … op. cit., pp. 136-137. L. Ancona, La dinamica … op. cit., p. 137. 318 DLIB, VII (1972), p. 210. 319 Ossia la forma originariamente neutra del pronome dimostrativo id ampliato dalla particella indeclinabile –em. AEI, p. 199. 320 DELI, III, p. 539. 316 317 «L’integrare, il rendere intero, completo, perfetto ciò che insufficiente o incompleto o parziale; aggiunta supplementare che ha lo scopo di colmare una mancanza. […] 2. Reciproco completamento di due o più elementi, fusione in un tutto unico […] »321 Etimologia. Dal latino classico integratio –onis “rinnovamento, accrescimento, ristabilimento”, a sua volta derivato da integrus, “intero”, “non toccato”, con funzione oppositiva del prefisso in322. Come semplice «Atto o effetto dell'integrare» compare nella lingua italiana nel XVI secolo, mentre con la specifica accezione di «Supplemento che tende a colmare una mancanza.» è attestato solo dal XIX secolo.323 Riferimenti/rinvii. Anche in questo caso ci troviamo innanzi ad una duplice accezione del termine: - ristabilimento dell’unità, ovvero aggiunta che permette il recupero di un’unità originaria o il conseguimento di una completezza; - accrescimento, aggiunta pura e semplice, mediante adeguamento. Nei dizionari specialistici troviamo le definizioni seguenti: «Graduale sviluppo e maturazione delle funzioni del sistema nervoso o psichico, secondo un ordine capace di dare unità. In psicologia si indica un processo di assimilazione di nuovi elementi nella struttura psichica dell'individuo. In sociologia viene usato per indicare un adattamento nel sistema sociale che è avvenuto nei confronti di persone definite handicappate per minorazione; questo processo non è naturale ma organizzato il che richiede competenze: pedagogiche, didattiche, tecnologiche di non poco conto.» (DPP); «Composizione di un ordine dove l'unità prende rilievo rispetto al comportamento.» (DPs); Come si può notare vi è un’oscillazione di significato tra lo stato di completezza inteso come perfetto adattamento ad una situazione data (a causa della specializzazione razziale del termine verificatasi in questi ultimi decenni, vedi sotto), e quello di pienezza, di maturità psico-fisica della persona. In alcuni casi si cerca un significato che comprenda entrambi gli aspetti: «Atto o processo di formazione psicologica di nuove totalità o unità di comportamento. La perfetta integrazione coincide con la maturità; l'educatore deve tendere alla formazione dell'educando sotto l'aspetto sociale.» (DPSaie) Riduzionismo. Favorita da circostanze storiche (il processo di globalizzazione), la specializzazione razziale recente del termine, di provenienza inglese-americana, ha finito con l’essere prevalente, come testimoniato in alcuni dizionari: «Incorporazione di un'etnia in una società con esclusione di discriminazione» (VLIDO). INTERAZIONE. Definizione. «Azione o influenza reciproca. […] 2. Fis. Azione di due o più sistemi fisici uno sull’altro; azione reciproca fra due o più sistemi, forniti di energia di forma uguale o diversa»324 321 DLIB, VIII (1975), p. 178. Rohlfs, p. 355 (§ 1015). 323 DELI, III, p. 607. 324 DLIB, VIII (1975), p. 218. 322 Etimologia. Composto assolutamente moderno dal prefisso inter “tra (due o più cose, persone)” ed il sostantivo azione. La provenienza estera del termine risulta chiaro già dal prefisso: molto usato in Latino, il prefisso inter infatti risulta scarsamente attestato nella lingua italiana325. Con il significato di «Azione reciproca di forze e fenomeni di agire» è attestata in Italiano solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, di provenienza estera, visto che l’inglese interaction è di oltre un secolo più vecchio (1832) ed il francese interaction come «Réaction réciproque»326 poco più recente (1876)327. Riferimenti/rinvii. Questa «Reciproca azione e reazione di fatti o fenomeni» (VLIDO), ha fatto il suo ingresso anche nel mondo pedagogico: «azione reciproca tra più fenomeni, sostanze, persone»328 «[…] abbiamo infine visto come l’interazione sia diventata un’idea centrale nella fisica moderna. L’interazione è in effetti una nozione necessaria, cruciale; è la piattaforma girevole in cui si incontrano l’idea di disordine, l’idea di ordine, l’idea di trasformazione, infine l’idea di organizzazione.»329 Riduzionismo. Concetto che proviene dalla Fisica (Vedi anche DEVIANZA) nonostante il NDP, che lo include, asserisca nella presentazione del curatore330 «l’assunzione di tutta la tematica educativa juxta propria principia ha permesso di privilegiare il punto di vista pedagogico, imponendo perciò stesso l’esclusione di quelle voci, o di quelle trattazioni, che fanno propriamente parte di altre discipline». Il DLIB cita come suo unico esempio letterario alcuni passaggi da opere di P. Pasolini, scrittore moderno fortemente condizionato dal lessico del materialismo dialettico ed è indicativo che questo termine venga adoperato da un etologo per descrivere la conoscenza: «[…] la conoscenza umana si fonda su di un processo interattivo mediante il quale l’uomo, in quanto sistema vivente assolutamente reale ed attivo e in quanto soggetto conoscente, si confronta con i dati di un altrettanto reale mondo circostante, che sono l’oggetto del suo conoscere.»331 INTERCULTURALITÀ. Vedi CULTURA. INTERDISCIPLINARITÀ. Vedi CULTURA, DISCIPLINA. ISTRUZIONE. Definizione. 325 Cf. Rohlfs, p. 356 (§ 1017). MRP, p. 689. 327 DELI, III, p. 609. 328 G. Zanniello, “Interazione”, NDP, p. 612. Non risulta comunque attestato in DE, DPSaie, EP, DSCGar, DPP, DIP e DPs. 329 E. Morin, La natura … op. cit., p. 106. 330 G. Flores d’Arcais, “Presentazione”, NDP, p. VII. 331 K. Lorenz, L’altra faccia … op. cit., p. 18. 326 «Attività rivolta a comunicare ad altri o ad acquisire per proprio conto un dato grado di cultura; ammaestramento in una scienza o in una disciplina; [...] addestramento in un mestiere o in una professione. 2. Insegnamento […] Istruzione obbligatoria: ciclo di studi che per legge dello Stato deve essere frequentato obbligatoriamente, in un tipo di scuola unico, da tutti i cittadini al di sotto di un’età stabilita dalla legge istitutiva, ma compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa legalmente riconosciuta.»332 Etimologia. Dal latino instructio-onis “messa in opera, adattamento; costruire, fabbricazione; disposizione, ordinamento; fig. istruzione, formazione, istruzione, ammaestramento, educazione, principio, regola, dottrina”. Il sostantivo rimanda al verbo latino instruĕre “congiungere insieme, inserire; costruire, edificare; disporre, ordinare, allestire; fornire, provvedere; preparare, apparecchiare, istruire, ammaestrare congiungere insieme, preparare, inserire, disporre, ordinare, corredare”. «Come è possibile notare, in latino, il termine ha un carattere di concretezza: costruire, fabbricare materialmente e solo in senso figurato di istruire, ammaestrare, mentre con il passaggio alla lingua italiana quello che era il significato metaforico è diventato predominante. Quindi, istruire è usato propriamente nel senso di rendere abile, ammaestrare, di acquisire una o più capacità»333. «Istruzione (instr-, struzione XIV sec.) f., XVI sec; ammaestramento; v. dotta, cfr. il fr. instruction (a 1343) lat. instructio-onis fabbrica (instruere, cfr. “istruire”) da Cicerone in poi anche preparazione.» (DE) Riferimenti/rinvii. Vedi anche le voci CULTURA, DISCIPLINA, EDUCAZIONE Nella cultura veterotestamentaria non vi era una chiara distinzione, come nel mondo greco-romano, tra educazione ed istruzione. Diamo di seguito qualche esempio: Mosè fu educato e istruito in Egitto, e venne demandato ad insegnare al popolo la Legge e gli Statuti.334 Inoltre era lo stesso Dio, per primo, che istruiva il Suo popolo facendosi conoscere335. Attraverso la torah, termine che è stato tradotto come “ legge” ma il cui vero significato è “istruire”, gli ebrei venivano istruiti ed educati alla Parola di Dio336. L’insegnamento dato da Dio per mezzo di Mosè veniva inoltre trasmesso di padre in figlio: al padre difatti spettava il compito di insegnare le parole di Dio ai propri figli, raccontando ciò che Dio aveva fatto per il Suo popolo.337 Un analogo compito d’insegnamento ad un tempo etico e pratico veniva riservato ai sacerdoti, depositari di una conoscenza che aveva per oggetto il diritto sacrale su cui si basava l’esistenza d’Israele come popolo di Dio338.Questa conoscenza consisteva, inizialmente, in una breve istruzione su 332 DLIB, VIII (1975), p. 621. G. Fioravanti, Riflessioni e spunti … op. cit., pag. 42. 334 Deut. 4:10 Lev. 10:11. Tutto ciò attraverso ripetizioni ed esercizi di letture in pubblico e con l’uso di particolari composizioni canore. Cf. Deut. 31:10; 13; 19. 335 Dio infatti si rivela ad Israele manifestandogli il Suo nome “ Io sono Jhwh...” (Es.6:3; Is. 64:1;Sal.72:2), altrove istruisce il popolo facendogli conoscere la Sua salvezza e la Sua giustizia ed attraverso le sue opere istruisce Israele, presentandosi come il Suo unico Maestro: “Lui addestra le mani del Re alla guerra” (II Sam.22:35 Sal.144:1), insegna la Sua volontà ad Israele (Sal. 143:10) e la Sua via (Sal.25:4-9). 336 Deut. 4:8; Is. 5:24; Ger. 6:19; 8:8; Sal. 78:5. Dio si serve, per istruire ed educare, di intermediari: il primo è stato Mosè con la promessa: “E ora va, Io sarò con la tua bocca, Ti istruirò su quello che dovrai dire” (Es.4:12). Al Sinai Dio apparve come il Maestro che istruisce il Suo popolo: “ Ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che ho scritto per istruirli”(Es. 24:12). Vedi anche EDUCAZIONE. 337 Deut. 6:7; 11:19 Sal.78:5 Es. 12:26; 13:8 338 Os. 4:6 Ml. 2:7 333 un soggetto particolare prevalentemente di carattere culturale, ma col tempo il loro insegnamento si è esteso a tutti i campi riguardanti i rapporti del popolo d’Israele con Dio339. La torah sacerdotale coincideva, così, con la legge di Dio che essi annunziavano al popolo a scopo d’istruzione. Possono essere qui ricordati altri esempi del mondo antico: in Mesopotamia, sono state rinvenute delle vere e proprie tavolette “scolastiche” sumeriche risalenti alla seconda metà del III millennio a.C., e rivelano la diffusione delle scuole di scribi. La formazione degli scribi avveniva nell' E-DUB-BA, la “casa delle tavolette”, facendo riferimento ad un testo sumero classico, nel quale era descritta la vita quotidiana di uno scolaro. Dai documenti ritrovati, sappiamo che gli studi iniziavano durante l'infanzia, erano di lunga durata ed iniziavano con un apprendimento graduale della lettura e della scrittura degli ideogrammi sumeri. In seguito si passava agli elenchi di parole divise per sinonimi o per categorie di oggetti, ai repertori di forme grammaticali , ai primi esercizi matematici e allo studio delle raccolte giuridiche e delle grandi opere letterarie classiche, e questa fase segnava probabilmente la fine del ciclo di studi. L'istruzione era comunque facoltativa e le materie insegnate erano: scienze matematiche, geografia, scienze naturali, vocabolario e grammatica, epopee e miti. La scuola era formata da un capo (UMMIA) chiamato “padre della scuola”, che era assistito da professori subalterni delle varie materie, chiamati “fratelli maggiori”, infine c'erano gli alunni, chiamati “figli della scuola”. I maestri venivano pagati dai padri degli alunni, i quali assistevano alle lezioni che iniziavano dal mattino e terminavano al tramonto del sole. Della disciplina erano incaricati alcuni precettori. Lo svolgimento dell’istruzione avveniva, presso un grande tempio o il palazzo reale, luoghi dotati di biblioteche ricche di opere letterarie classiche, testi ufficiali, dizionari bilingui o trilingui. Questi dati provengono prevalentemente dalle tavolette di Tell Mardikh\Ebla, nella Siria del Nord, dal che si intuisce che a Ebla esistessero una o più scuole di scribi di tradizione babilonese. Nel II millennio la capitale di ciascun piccolo regno vassallo dell'impero egiziano o ittita aveva la propria “scuola di scribi”, come si deduce dalle scoperte di Ras Shamra\Ugarit al nord e quelle di Ophek al sud340. Nel I millennio ci sono pochissimi indizi che provino l'esistenza di organizzazioni dedicate all’istruzione in territorio fenicio. Alcune scoperte sporadiche sembrano indicare l'esistenza di scuole fenice a Byblos nel IX- X secolo a.C. ed il carattere elementare di questi esercizi è tipico del medium durevole adoperato, mentre gli esercizi più avanzati, scritti su papiri, non si sono conservati. Rinvenimenti di epigrafi hanno attestato l'esistenza di istituzioni dedite all’istruzione in parecchie città e fortezze dell'antico Israele in epoca regale (dal 1000 al 587 a.C.)341. A Gerusalemme si svilupparono scuole di livello superiore, reale, sacerdotale e profetico; tutto ciò spiega la creazione e la trasmissione scritta dei testi biblici di questa epoca, usati come “classici” e come manuali per l’insegnamento. 339 Lv. 10:10-11 Ez.22:26; 44:23 Deut. 31:9-13 Gli scavi di Ugarit hanno portato alla luce, un certo numero di esercizi scolastici, “calligrafici” e di testi didattici classici appartenenti alla tradizione babilonese, inoltre abbecedari, parole isolate, gruppi di parole e lettere modello ricopiate ecc. Alcuni di questi testi sono stati trovati nella casa dello scriba reale Rap'anu, ciò fa pensare che i tre personaggi nominati si dedicassero all'insegnamento e che ciò avvenisse in una stanza della loro casa. I numerosi frammenti di dizionari bilingui trovati ad Aphek sono degli indizi molto importanti a favore dell'esistenza di una scuola in questa città e alla fine del Bronzo recente. 341 Abbecedari, lettere, parole scritte più volte di seguito, elenchi di mesi e di numeri, successioni di numeri, tabelle di pesi e di misure, di capacità, disegni, esercizi per imparare a leggere una lingua straniera, probabilmente fenicia, danno una idea piuttosto precisa dei diversi esercizi scolastici elementari in uso in queste scuole. Altri indizi come i dati dei testi biblici e dell'epigrafia paleo-ebraica, ci permettono di tratteggiare un identikit storico dello sviluppo delle scuole in Israele nell'epoca reale: un tale sviluppo spiega il moltiplicarsi delle iscrizioni e la comparsa dei profeti-scrittori a partire dall'VIII secolo a. C. Questa espansione delle scuole determinò un forte aumento dell'indice dell'alfabetizzazione del paese tanto che alla fine dell'epoca reale (verso il 600 a.C.) buona parte del popolo giudaico sapeva leggere e scrivere. 340 Passando ora all’antica Grecia, ad Atene, il bambino dai sette ai quattordici anni riceveva la sua istruzione elementare presso maestri stipendiati da comunità di genitori residente nella medesima zona: il grammatistés insegnava loro a leggere e scrivere; il kitharistés a cantare e a ballare; il paidotribés i rudimenti della ginnastica e della lotta. A sedici anni entravano nella fratria, iniziando nel contempo a percepire la loro parte nella distribuzione di denaro pubblico, ed entrando con il mondo degli adulti tramite il ginnasio342. Non si dimentichi che il termine “istruzione” nasce dalla cultura romana dove l’educazione e l’istruzione dei giovani erano affidata ai genitori: «la madre insegnava ai figli le prime preghiere e suscita nel loro animo il sentimento della virtù. Qualora non possa, o non possa da sola, accudire all'educazione della prole, ella si farà aiutare non già da una schiava, ma da una parente anziana, di sicura virtù, equilibratamente severa, atta a svolgere la propria missione con dignità e autorevolezza. A sette anni il figlio maschio viene sottratto al controllo femminile, ma solo per passare sotto quello paterno […]. A fianco del padre il giovinetto romano assiste, oltre ai lavori campestri, al ricevimento dei clienti, alle sedute del senato, alle esercitazioni militari nel Campo Marzio […], al padre presta assistenza nelle celebrazioni dei riti religiosi familiari, durante i quali si esaltano le gesta degli antenati e si contemplano i loro ritratti, contribuendo a rafforzare il rispetto per il mas maiorum in generale e, in particolare, quello dei propri ascendenti diretti e per le tradizioni caratteristiche della propria famiglia [...]»343. Appare evidente dall’excursus storico sopra delineato di come la specializzazione a livello sociale dell’istruzione sia stata una prerogativa del mondo greco-romano, probabilmente di origine egiziobabilonese, non essendovi invece una chiara distinzione presso le popolazioni nomadiche del vicino oriente tra educazione ed istruzione. Venendo ora ai riferimenti moderni del termine istruzione, il carattere fortemente strumentale appare in talune definizioni come: «Istruzione, consiglio, precetto. L’istruzione è in forma d’avviso; il precetto di comando. Quella può essere tutta teorica; ma il consiglio è sempre pratico. Ogni cosa è istruzione al saggio, ma appunto per ciò, non hanno sempre i rigidi e pedantescamente spiattellati precetti.» (Tommaseo); «L’istruire, Ammaestramento. //Pubblica Istruzione. Tutti gli studi che si fanno nei pubblici istituti, le leggi, e le leggi e i regolamenti che li governano. Norma che si dà altrui intorno a chicchessia per suo governo.» (RF); «Attività mediante cui si impartiscono o acquisiscono determinate conoscenze, tecniche, abilità.»344 Un’accezione più ampia include anche il modo, oltre che lo strumento: «Istruzione e instruzione e istrutiones, Azione dell’istruzione, il Ministro e l’Effetto, e anche il modo dell’istruire e dell’essere istruito, e discorso parlato o scritto con cui si istruisce.» (TB). Si passa poi, dopo l’aspetto strumentale e modale, a comprendere anche l’oggetto: «Il complesso delle cognizioni acquistate da una persona per effetto di studio, e s’intende di quella che ogni persona civile possiede, o dovrebbe possedere Istruzione paterna, data in famiglia. Istruzione privata, data nelle scuole private o in famiglia. Istruzione obbligatoria L’Istruzione che tutti i genitori sono per legge obbligati a procurare ai figlioli.» (Broglio); «Erudizione, educazione, cultura, dottrina, scienza» (DSCGar); «Il conferimento o l’acquisizione dei dati relativi ad una preparazione tecnica o culturale, mediante un insegnamento per lo più organico; part. la preparazione tecnica e culturale dei giovani che si compie in modo sistematico nella scuola. I. programmata: tecnica, didattica consistente nel proporre una serie, coordinata in modo particolare, di domande e spiegazioni, al fine di agevolare all’allievo» (VLIDO); Cf. M. Vegetti, “La città educa gli uomini: polis classica e formazione del cittadino”, in: E. Becchi (a cura di) Storia dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1987, pp. 35-50. 343 G. Bambara, Antologia del pensiero pedagogico antico e medievale, Bologna, Zanichelli, 1972, p. 213-214. 344 A. Gallitto, “Istruzione”, NDP, p. 670. 342 In Inglese si rende con education, fonte questa di gravi equivoci con la lingua italiana (vedi EDUCAZIONE) che ha come sinonimi learning, erudition e scholarship (RT § 490); il termine instruction significa «insegnamento di breve durata, istruzioni, comando»345. In Francese abbiamo instruction, che significa da un lato «l’insieme delle spiegazioni e degli avvertimenti dati da una persona ad un’altra per la conduzione di un affare, di un compito»346 (con i suoi sinonimi directive, consigne e ordre, LS, p. 328), dall’altro «l’azione di formare il carattere di qualcuno mediante lezioni e precetti» (con i sinonimi education, enseignement e pédagogie) 347. Riduzionismo. Vedi Fioravanti cap. II È d’uopo ricordare la voluta confusione tra il termine istruzione, educazione e formazione, sia stata favorita da ideologie di stampo idealistico, con affermazioni quali: «Non c’è istruzione, adunque che non sia educativa o formale, e formativa, benché talvolta poco sia formativa, anzi non sia mai abbastanza, poiché natura dello spirito è di essere eterna formazione di sé, e non c’è istruzione pertanto che non tenda ad essere sempre più formativa, come ad estendersi e divenire sempre più largamente informativa.»348 E contro la distinzione semantica dei termini aggiungeva: «è verissimo che uomini di grande intelligenza ci appaiono privi, come si dice, di senso morale, che molti del sapere si fanno strumento ai loro fini malvagi; che non basta sapere il bene per farlo; e che i tempi di maggior cultura dell’intelligenza son pur quelli della decadenza morale, quando alla rude e violenta energia della fede nei propri destini e nelle proprie forze sottentra la raffinatezza contemplativa del dubbio, della critica e della ricerca. È verissimo che non basta l’istruzione obbligatoria e la lotta tenace e anche vittoriosa a promuovere il risveglio morale e l’elevazione degli animi; è verissimo tutto questo, ed altro ancora che si può dire a consolazione dell’ignoranza. Ma è anche vero che queste e simili osservazioni sono molto grossolane perché possano passare per quella cruna d’ago, attraverso la quale bisogna pure che si provi la verità speculativa. Alla quale non ci si potrà mai accostare senza conformarsi a quel canone che veniamo inculcando in questo Sommario: che una realtà spirituale non deve studiarsi se non nella sua immediata attualità, trascendendo la quale l’uomo abbraccerà sempre, come l’Issione della favola, invece di Giunone, la nuvola.»349 Non sarà superfluo notare come il pensiero gentiliano qui non sia svolto correttamente, perché oltre all’accusa di grossolanità (una sua opinione, non suffragata dunque da alcun dato) mossa ad alcune osservazioni del buon senso comune, non spiega affatto in cosa consista la cruna d’ago, attraverso la quale detti concetti non passerebbero. Ergo, fonda un’argomentazione logica su un non-dato, ossia una sua personale opinione, finendo per abbracciare egli la nuvola del proprio pensiero350. D’altronde, l’enfatizzazione del termine istruzione si palesa nel seguente passo: «L’istruzione va guardata, adunque, dalla parte dello scolaro: e allora non si può più definire comunicazione di sapere, ma sì piuttosto generazione di sapere. E poiché il sapere è esso medesimo la generazione del sapere, istruzione e sapere coincidono.»351 345 Cf. Rossetti, p. 217; OP&FF, p. 134. «L’ensemble des avis, des explications qu’une personne donne à une autre pour la conduite de quelque affaire, de quelque entreprise». 347 «L’action de former l’esprit de quelqu’un par des leçons, des préceptes», MRP, p. 686. 348 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. I, p. 223. 349 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. I, p. 224. 350 Dinamica nient’affatto sconosciuta in questa impostazione idealista, denominata anche attualismo. 351 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. II, p. 60. 346 METACOGNITIVO, METACOGNIZIONE. Vedi COGNIZIONE. METODO Definizione. «Serie di operazioni intellettive mediante le quali la mente organizza il ragionamento, stabilendo legami e rapporti fra i concetti, allo scopo di conoscere, scoprire o dimostrare una verità, di studiare o insegnare una scienza, un’arte, una disciplina; modo razionale, ordinato, regolato e coerente di procedere, nello svolgimento di un’operazione o di un’attività teorica o pratica, secondo una norma, un criterio, un principio direttivo o un piano prestabilito, per il conseguimento di un determinato fine o intento; procedimento; sistema. […]»352 «Occorre precisare che la parola metodo viene usata nel senso etimologico originario di “via” attraverso la quale si raggiunge un determinato obiettivo, e che non comprende quindi anche l’indicazione dei mezzi da usare: infatti una volta scelto il metodo si apre una gamma assai vasta di mezzi e di strumenti fra i quali si sceglie in base ai criteri contenuti nel metodo stesso»353. Etimologia. Dal latino methŏdus, dal greco mšqodoj ‘indagine’354, ‘strada verso una meta ben definita’. Con il significato di «criterio e norma direttivi secondo i quali si compie qualcosa» compare nella lingua italiana alla metà del XVI secolo355. Riferimenti/rinvii. Nel NDP, non è attestato, ma compare la voce “Metodologia”. Il concetto di metodo come strada diretta per raggiungere un obiettivo, quindi anche per impadronirsi di una conoscenza, di una disciplina, conobbe una grande diffusione. San Tommaso tracciando una linea di demarcazione tra teologia e filosofia, attribuì loro due differenti metodi: quello della risoluzione (ossia risalire dagli effetti alle cause) alla filosofia; quello della composizione (procedente in senso inverso, dalle cause agli effetti) alla teologia356. Chiamato ratio: nel 1559 abbiamo la ratio studiorum dei Gesuiti (vedi STUDIO); nel 1709 De nostri temporis studiorum ratione di G. Vico, dove si afferma che il metodo geometrico è strumento della fisica357. Comenio (Amos Komensky) nella sua Didactica Magna propone un metodo di apprendimento universale358, mentre al contrario il Calasanzio «non s’atteggiò a riformare i metodi di insegnamento allora in uso, e senz’altro li adottò. Forse anche pensava, e non senza ragione, che tutti i metodi sono buoni in mano a buoni maestri, nessun metodo è buono in mano ad un cattivo maestro.»359 352 DLIB, X (1978), p. 274. G. Fioravanti, Famiglia … op. cit., pag. 86. 354 AEI, p. 266. 355 DELI, III, p. 749. 356 B. Mondin, Dizionario enciclopedico … op. cit., p. 393. 357 «[…] commune instrumentum est […] physicae haec ipsa geometria, eiusque methodus», G. Vico, Il metodo degli studi … op. cit., 1993, p.14. 358 J. K. Clauser, “Il Pansofo: Comenio”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 209. 359 G. Giovannozzi, Il Calasanzio e l’opera sua, Firenze, Le Monnier, 1930, p. 33. 353 Tra i metodi elaborati nel XIX secolo, giova menzionare quello di Bell e Lancaster, o del mutuo e simultaneo insegnamento360. Eco di questa impostazione è da rintracciare nel pensiero contemporaneo di E. Morin, quando afferma: «[…] l’opposizione tra la nostra concezione e le altre diventa complementarità, perché noi professiamo una teoria multidimensionale che si sforza di assimilare le acquisizioni di tutte le discipline e di tutti i metodi.»361 Per Gentile «Il metodo è il processo della scienza; ma il processo è la formazione stessa, lo svolgimento, il costituirsi della scienza. Sicché parlare del metodo della scienza formata è come parlare della luce del buio: quella luce del buio che è lo schema di un processo spirituale: un che di fisso, che dovrebbe definire il movimento.»362 «Tutte le volte che sono in gioco valori tra loro contrastanti è indispensabile ricorrere alla filosofia se si vogliono operare delle savie scelte; ed è indispensabile, inoltre, nella misura in cui i valori in gioco rivestono importanza per la vita degli individui. Ora tale è certamente il caso dei metodi educativi [sic] in cui è in gioco la formazione degli esseri umani: del loro carattere, della loro personalità, della qualità della vita.»363 J. Dewey «I processi istruttivi convergono, nella misura in cui si concentrano nella produzione di buone abitudini di pensare. È certo lecito parlare di metodo della riflessione, se teniamo ben presente che riflettere è la via ad un’esperienza educativa [sic]. Per cui i fondamenti del metodo coincidono con i fondamenti della riflessione»364 «Il metodo è la determinazione del modo in cui sviluppa più efficacemente e fecondamene l’oggetto di una esperienza […] La supposizione che il metodo sia qualcosa di separato è legata con l’idea dell’isolamento della mente e della persona dal mondo delle cose […] Espressi nei termini dell’atteggiamento dell’individuo, gli aspetti di un buon metodo sono la franchezza, l’interesse intellettuale flessibile, o la volontà illuminata di imparare, l’integrità del proposito e l’accettazione della responsabilità quanto alle conseguenze delle nostre attività, incluso il pensiero.»365 Riduzionismo statalista. Dalla ricerca di Comenio, dalla modalità cartesiana (il dubbio universale eletto a principio) e dalla definizione gentiliana riportate sopra, si evince come il metodo finisca per essere caricato di quegli elementi fissi, immutabili, imprescindibili, che sono propri dei PRINCIPI (v.). Nella nostra cultura odierna, i metodi sostituiscono i principi. MOTIVAZIONE Definizione. «Dir. Proc. e amm. La parte di un provvedimento della pubblica autorità che consiste nell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto per cui vengono date le disposizioni portate dal provvedimento stesso. […] 3. Ciò che produce e contribuisce a determinare un fatto, situazione o stato d'animo, una condizione spirituale; causa, motivo, cagione, origine. […]»366 Cfr. F. Mastroti, Manuale del sistema di Bell e Lancaster o mutuo e simultaneo insegnamento, Napoli, Luigi Nobile, 1819. 361 E. Morin, Sociologia del presente, Roma, Edizioni lavoro, 1987, p. 21. 362 G. Gentile, Sommario di Pedagogia … op. cit., Vol. I, p. 114. 363 W. H. Kilpatrick, Filosofia … op. cit., p. 404. 364 J. Dewey, Democrazia … op. cit., p. 210. 365 J. Dewey, Democrazia … op. cit., p. 231. 366 DLIB, X (1978), p. 1028. 360 Etimologia. Composizione recente (XIX secolo), di forma latineggiante367 risalente al sostantivo motivo, dal tardo latino motivu(m) “mobile”, a sua volta originatosi da motu(m) “moto”. Con il significato di «Formulazione di motivi che hanno indotto a compiere un atto o ne hanno determinato il contenuto» compare nel periodo 1839-1841 come voce in uso presso i legali. Nella seconda metà del XX secolo è attestato in psicologia con l’accezione di «insieme delle cause intrinseche che concorrono al comportamento o alla condotta di una persona»368. Non attestato in DE Riferimenti/rinvii. Originariamente termine tecnico giudiziario, da TB viene descritto come «azione e modo del motivare specialmente una sentenza. Lo dicono, ma non è bello e si può facilmente evitare». Nei dizionari moderni si aggiunge l’accezione psicologica: «Esposizione delle ragioni che giustificano una decisione. In psicologia ciò che concorre a determinare il comportamento di un individuo in una società.» (VLIDO); «Spiegazione, giustificazione, motivo, causa, incentivo» (DSCGar). I repertori specialistici ampliano la definizione in misura notevole: «Il termine indica i dinamismi che attivano, dirigono e sostengono il comportamento» (DP); «La scienza dell'educazione ha sostituito il termine causa con quello di motivazione, in quanto un comportamento è scaturito da una risultante di causa ed effetto (fattori-comportamento). Un comportamento non è dovuto solo all'elaborazione soggettiva del campo d'azione ma anche allo scopo che è incentivo all'azione per origine interna (piacere e senso del dovere) detta intrinseca; e esterna (desiderio di approvazione, guadagno) detta intrinseca. Le motivazioni possono essere primarie quindi non apprese (la fame), e secondarie dovute all'apprendimento (senso del dovere). Nello studio, l'educatore deve essere presente, e motivare per produrre comportamenti intersoggettivamente validi (autonomia, dipendenza).» (DPSE); La sua sostituzione del termine volontà, tramite assimilazione, appare in questa serie di definizioni: «Atto volontario che sta nella decisione, nei ragionamenti dell'uomo che utilizza un fine.»(DPSaie); «Fattore del comportamento umano che dirige un organismo verso una meta, possono essere coscienti quindi semplici o inconsce e quindi complesse» (DPs); «Dinamismi che attivano, dirigono e sostengono il comportamento.» (NDP). L’ultima definizione citata fa parte di un lemma che successivamente mette in rilievo la problematicità e le interpretazioni differenti, con particolare riferimento al contributo dello psicopedagogista Bruner, il quale riconosce nella “volontà di apprendere” una motivazione costante del comportamento umano.369 In ambito pedagogico il termine, dalla scienza giuridica e dalla psicologia, è sfortunatamente penetrato anche in relazione allo STUDIO (v.): «La motivazione è la spinta a raggiungere ciò che si ritiene importante. La motivazione dà valore e significato a ciò che si fa. Le sue radici affondano nelle aspettative, nei valori e negli scopi dello studente.» «La motivazione è la spinta che anima e sostiene un’azione o un comportamento per soddisfare i propri bisogni.»370 In Inglese il termine motivation indica l’impulso ad agire in un certo modo, in modo più complesso di quanto indicato dalla parola motive, limitato sempre ad una causa esterna di azione individuale371 ed inserito dal Roget nella sezione Causes of Volition (RT § 615). 367 Cf. Rohlfs, p. 386 (§ 1061). DELI, III, p. 781. 369 A. Curatola, “Motivazione”, NDP, pp. 843-845. 370 M. Polito, Guida allo studio: il metodo, Padova, Franco Muzzio Editore, 1993, pp. 6 e 27. 371 OP&FF, p. 162. 368 Riduzionismo. Il suo uso, di derivazione giuridica, nell’ambito della lingua corrente (anche per influenza della lingua inglese) indica la tirannia della fenomenologia, intesa come metodo conoscitivo che tende ad oscurare il dato interno a vantaggio di quelli esterni alla persona. Per la sua maggiore complessità si preferisce al termine motivo, pur rimanendo inalterata la sua base di partenza. Infatti insiste sulla preminenza del fattore esterno come causa prima dell’agire. Se questo è comprensibile in un ambito giudiziario, lo è meno in senso generale, in quanto viene tralasciato il fattore interno, la volizione. A riprova di questo processo, basti citare le espressioni quali “motivazione esterna” e “motivazione interna”, i quali hanno senso solo in un’ottica fenomenologia, in quanto la prima è pleonastica, mentre la seconda è una complicazione inutile del termine volontà. Di fatto, la motivazione ha occupato il posto della volontà. Essa, di solito messa in relazione con termini quali FRUSTRAZIONE (v.) e GRATIFICAZIONE (v.), è inoltre generalmente adoperata come parafrasi di bisogno, come si evince dal brano seguente: «La motivazione è la forza che spinge l’uomo ad agire per soddisfare le proprie esigenze. Una persona manifesta molteplici necessità che possono essere differenziate in base all’importanza che hanno per le funzioni vitali. Per questo i bisogni sono stati classificati prendendo in considerazione la rilevanza di essi per la nostra sopravvivenza. A partire dal livello più basso, abbiamo: i bisogni fisiologici, quali il mangiare, il dormire, il respirare, strettamente legati alle funzioni corporee; i bisogni di sicurezza, per sentirsi protetti. Il bambino ha bisogno dei genitori per questo motivo; i bisogni di appartenenza e di amore, corrispondono all’esigenza di sentirsi parte di un gruppo, di dare e ricevere amore; i bisogni di riconoscimento e di rendimento indicano l’esigenza di essere riconosciuti come persone capaci, di sentirsi meritevoli e competenti; il bisogno di realizzazione di sé, viene soddisfatto quando una persona riesce a sviluppare in pieno le proprie capacità; il bisogno di trascendenza implica l’andare oltre la propria individualità per sentirsi parte di qualcosa di più grande, di ordine cosmico o divino. Una condizione indispensabile per riuscire a soddisfare i bisogni collocati ai livelli superiori è che tutti quelli di ordine inferiore siano stati soddisfatti. […] I bisogni posti ad un livello più alto richiedono maggiori capacità per essere realizzati, capacità che si sviluppano nel processo di crescita. Un bambino imparerà prima di tutto a mangiare, a cercare i genitori. Solo quando sarà più grande sentirà il bisogno di avere degli amici e ancora dopo vorrà ricevere i complimenti per un bel voto a scuola. Nella prima età adulta si inizierà a sentire l’esigenza di essere orgogliosi di sé, magari attraverso un lavoro impegnativo che gode di buona considerazione a livello sociale. C’è un forte legame tra l’emozione (di cui si parla più approfonditamente in uno degli articoli di questa rubrica) e la motivazione. Potremmo dire che le emozioni mettono in luce come si reagisce ad uno stimolo, sia a livello psicologico che fisico, mentre la motivazione ci dà informazioni sul perché la persona sia spinta ad agire in un determinato modo. Ad esempio, uno studente dedica il fine settimana allo studio rinunciando al divertimento perché vuole prendere un bel voto quando sarà interrogato il lunedì mattina (motivazione), ma al momento di affrontare l’interrogazione, come starà? Potrebbe essere agitato e sentire il cuore battere più forte, impallidire quando il professore lo chiama, sentire i muscoli tesi (emozione). È importante sottolineare che non tutti sentiamo gli stessi bisogni, ma essi sono legati alla nostra individualità, all’appartenenza ad un gruppo, ad una cultura. Ad esempio, la psicologia dei consumi presta grande attenzione allo studio di questi fattori per comprendere quali sono le motivazioni inconsce del consumatore. Questa branca della psicologia ha contribuito a mettere in luce l’importanza delle emozioni nella motivazione, contraddicendo la credenza secondo cui le persone motivate agiscono secondo i criteri della razionalità. Si è visto che le scelte del consumatore sono spesso dettate dai bisogni di prestigio, di conformarsi ad un gruppo per sentirsi parte di esso, di dipendenza, di identificarsi con il leader, oppure dalla necessità di differenziarsi, di resistere alle pressioni sociali. Per soddisfare queste esigenze le persone si comportano secondo modalità difficilmente spiegabili con la logica ed acquistano oggetti per ciò che essi rappresentano e non per la loro effettiva utilità. Ad esempio, la scelta di abiti, di oggetti o di stili di vita sono rappresentativi, da un lato, dei gusti personali, ma dall’altro raccontano molto dell’ambiente di provenienza, della voglia di trasgressione o di dipendenza.»372 MOTIVAZIONE ESTRINSECA/ INTRINSECA. Vedi MOTIVAZIONE. MULTIDISCIPLINARITÀ. Vedi CULTURA, DISCIPLINA. OBBIETTIVO EDUCATIVO. Vedi EDUCAZIONE. OBBLIGO SCOLASTICO. Definizione. «Obbligo che gli Stati moderni impongono ai fanciulli di ricevere istruzione. Regio decretis 5 febbraio 1928 n° 577, 172: L'obbligo scolastico si adempie frequentando le scuole elementari classificate e non; nelle località di residenza e della responsabilità alla frequenza ne rispondono i genitori o chi ne fa le veci.»373 Etimologia. In origine, la parola “obbligo” nel senso in cui oggi viene usata non esisteva in latino. L’obligatio come termine giuridico compare a Roma tra il II ed il I sec. a.C. e viene a designare il diritto che il creditore possa ottenere la soddisfazione dell’interesse protetto soltanto attraverso la collaborazione del debitore, sul quale, a tale scopo, grava un dovere di comportamento. Vi è dunque esplicitato «l’obbligo di comportamento del debitore nei confronti del creditore e la responsabilità del debitore stesso per il caso che la prestazione non venga adempiuta.»374 Nel linguaggio comune si utilizzava debitum, col significato di debito, dovere di gratitudine, officium, inteso come obbligo morale, debito di riconoscenza, religio come dovere, obbligo di coscienza e vinculum come vincolo, legame fisico, corda. La radice etimologica del termine è invece da ricercare nel verbo ob-ligare, che aveva diversi significati: “legare, attaccare a, annodare a”; “bendare, fasciare”; “vincolare con promesse, giuramenti, leggi”; “rendere qualcuno consapevole di , far commettere un delitto” 375. In Greco, abbiamo il verbo ¢nagk£zw “costringo, obbligo”, che come vocabolo derivato dalla radice ank (>latino necesse, Rocci, p. 108) raddoppiata descrive le varie forme di costrizione alle quali l’uomo è sottoposto: ¢n£gkh è il principio condizionatore di tutta la realtà, che Platone pone addirittura al di sopra degli dei376. www.psicopedagogiKa_it: “La motivazione” di A. Banche. DLIB, XI (1981), p. 720. 374 M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, Giuffrè Editore, 1990, pp. 501-502. 375 F. Calonghi, Dizionario della lingua latina, Rosenberg & Sellier, Torino, 1961, vol. I, p.1851. 376 Cf. DCBNT, p. 1086. 372 373 Con il significato di «Vincolo materiale e morale» (DE), o di «Dovere imposto dallo Stato» compare solo nel XIX secolo377. Riferimenti/rinvii. Nei dizionari la definizione suona: «Anni d'istruzione che lo Stato ha il dovere di impartire ai giovani dai sei anni» (VLIDO) Per intendere bene come sia potuta penetrare nella cultura italiana contemporanea questa strana coppia (obbligo e scuola)378 al punto di essere considerata base imprescindibile di ogni comunità civilmente organizzata ( «L’idea e la definizione giuridica di “obbligo scolastico” sono proprie di un orientamento, nel campo umano e dell’educazione, che caratterizza la società e la civiltà moderne.»)379, è necessario analizzare la sua genesi storica. Dal verbo latino con forte connotazione giuridica derivò pertanto il termine “obbligo”, con un’impronta propriamente giuridica. Infatti DLIB definisce l’obbligo come quella «posizione in cui si trova il soggetto destinatario della prescrizione, che costituisce il contenuto di una norma o di una regola di condotta (religiosa, morale, giuridica, sociale, ecc.) e in forza della quale egli è vincolato a tenere un determinato comportamento» 380. Così anche in VLIDO si definisce l’obbligo come quel «vincolo giuridicamente o moralmente previsto ed imposto, in corrispondenza delle norme vigenti all’interno della collettività o di un ambiente». In entrambe le definizioni c’è però un esplicito riferimento al significato morale e religioso del termine. Dimesse le prerogative del sistema religioso e morale, nello stato laico la parola “obbligo” è divenuta sinonimo di «vincolo, impegno, dovere, onere, costrizione, imposizione, coercizione, necessità» (DSCGar), coinvolgendo anche i bambini, tenuti ad adempiere il famigerato “obbligo scolastico”. Alla fine del XVIII secolo furono poste le basi ideologiche (= gli ideali rivoluzionari francesi) per la nascita della cosiddetta “scuola dell’obbligo”. In Italia l’obbligo scolastico comincia il 1° ottobre del 1860, quando il Ministro Gabrio Casati, ottenuti i pieni poteri nell’imminenza della seconda guerra d’indipendenza, fece entrare vigore la legge che porta il suo nome, nota come legge Casati (13 novembre 1859). «La prima disciplina giuridica della scuola primaria italiana»381 venne assunta come principio inamovibile del nostro ordinamento sebbene fosse stata varata senza essere discussa in Parlamento. La legge consisteva di 379 articoli ed era valida per Sardegna, Piemonte e Lombardia. Successivamente venne estesa alle regioni che andarono a costituire il Regno d’Italia (a cominciare dalla Toscana e dall’Emilia). I principi su cui si basava erano l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione (senza sanzioni per gli inadempienti), fondata su una vera “gerarchia da caserma”, come sostiene Nicola D’Amico in un articolo tratto da un supplemento al Sole 24 Ore del 27 dicembre 1999. Infatti la legge sosteneva che il Ministro della Pubblica Istruzione “governa l’insegnamento pubblico in tutti i rami”(art.3), “mantenendo fermi tra le Autorità a lui subordinate i vincoli di supremazia e di dipendenza stabiliti dalla legge e dai regolamenti (ibidem) e “vigila […] le scuole e gli istituti privati”(art.5), dei quali “può ordinare il chiudimento” (ibidem), retti da persone “che abbiano titoli comprovanti capacità legale e moralità” (art. 355). Lo Stato esercitava così un controllo sempre maggiore sulle istituzioni scolastiche e sugli insegnanti, anche attraverso un sistema centralisticoburocratico di tipo piramidale: in cima il Ministro, poi «il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione (21 membri di nomina regia), gli Ispettori generali, un Provveditore agli Studi in ogni provincia, il Consiglio provinciale, che “attende acciò siano osservate le leggi e i regolamenti nelle scuole e negli 377 DELI, III, p. 817 e V, p. 1171. Significativamente il lemma è assente nei Dizionari di Pedagogia e Psicologia. 379 A. Agazzi, “Obbligo scolastico / Istruzione obbligatoria”, NDP, p. 866. 380 DLIB, XI (1981), p. 719. 381 L. Agazzi, in DEP, p. 813. 378 istituti posti entro il territorio di sua giurisdizione’ (art. 41)” 382. La legge impostò inoltre l’architettura didattica su tre pilastri: 1. l’istruzione elementare, gratuita e divisa in due gradi, inferiore e superiore (della durata di due anni ciascuno); 2. l’istruzione secondaria (tecnica, normale, classica; quest’ultima in particolare rappresentò il cuore della scuola casatiana, dando accesso a tutte le facoltà universitarie ma creando una separazione di tipo classista tra chi la frequentava e chi non poteva frequentarla per motivi economici o perché non voleva); 3. l’istruzione superiore, impartita nelle università. L’istruzione elementare, alla quale si accedeva a sei anni (art. 316), era divisa in “scuole elementari maschili” e “scuole elementari femminili” (art. 321). Il ciclo inferiore poteva essere affidato a “un sotto - maestro” (art. 323) o “sotto – maestre”, le quali potevano insegnare sin dal 14°anno di età (art. 331) e la scuola, a carico dei Comuni fino al 1911, poteva avere anche classi di 70 allievi (art. 323). Si cercava di fare dell’istruzione il mezzo per unire lo Stato nascente, “formando” le nuove generazioni mediante la trasmissione dei saperi necessari allo sviluppo della società e allargando le basi del consenso politico e sociale383. La legge Casati però, nonostante il suo rigido ordinamento, non stabiliva sanzioni in merito all’inadempienza dell’obbligo scolastico, il sindaco si limitava “all’esortazione”. Fu invece la successiva legge Coppino (15 luglio 1877) a sancire “l’ammonizione” e se necessaria, l’ammenda definibile tra lire 0,50 e lire 10 (dopo aver ordinato ai Comuni di redigere le cosiddette “liste degli obbligati”!). Dunque, proprio come avviene per qualsiasi altro vincolo o prescrizione da rispettare nell’ambito giuridico, con la relativa multa in caso di inadempienza, senza sottolineare il reale valore, anche morale, da attribuire all’istruzione, quale diritto di ogni persona da difendere e salvaguardare. In seguito la legge Orlando dell’8 luglio 1904 prolungò l’obbligo fino al 12° anno di età, aggiungendo alle quattro classi della scuola elementare, il “corso popolare” (quinta e sesta classe) nei comuni aventi almeno 4.000 abitanti. In più, venne impedito ai datori di lavoro di assumere bambini che dovevano andare a scuola come sancito dalla legge. Questo impediva lo sfruttamento dei più piccoli nei diversi ambiti lavorativi, ma continuava ad evidenziare le caratteristiche di un obbligo da assolvere a tutti i costi! Infatti la legge colpiva proprio coloro che ogni giorno lottavano contro la fame e la miseria e non potevano far frequentare la scuola ai loro figli. Così nel regolamento applicativo si chiarì che l’obbligo non era preteso da chi non aveva alcuna possibilità economica, da chi era ammalato e da chi era troppo lontano da una sede scolastica. La legge Danaeo-Credaro 4 giugno 1911 avocò allo Stato le scuole dei comuni non capoluogo384, “affidò la vigilanza sull’obbligo scolastico ai Provveditorati agli Studi” 385 ed ampliò l’obbligo anche ai militari analfabeti, attraverso le cosiddette “scuole reggimentali”, istituite nei Centri di Addestramento Reclute (C.A.R.) e, dove necessario, nei corpi militari dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica. Nel 1923, dopo la salita al potere di Mussolini, furono emanati da febbraio a dicembre 12 Regi Decreti che diedero alla scuola un nuovo ordinamento amministrativo e didattico, o meglio l’impalcatura su cui si è costruita la scuola attuale. Si trattava della “più fascista delle riforme”, come l’aveva battezzata il V. Sarracino, E. M. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative, Napoli, Liguori, 2001, p.31 Così le discipline che formavano i programmi erano: nel I grado della scuola elementare, “insegnamento religioso, lettura, scrittura, aritmetica, lingua italiana, nozioni elementari del sistema metrico”; nel II grado “oltre lo svolgimento delle materie del grado inferiore, regole della composizione, calligrafia, tenuta dei libri, geografia elementare, esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, cognizioni di scienze fisiche e naturali applicabili principalmente agli usi ordinari della vita” (art. 315). Inoltre, geometria e disegno per i maschi e “lavori donneschi” per le femmine (alle donne la geometria non serviva, a quanto pare). 384 L’avocazione definitiva di tutte le scuole comunali fu attuata con il regio decreto 1° luglio 1933, n. 786. 385 DEP, III, p.466. 382 383 duce stesso ed è stata da tutti conosciuta come la riforma Gentile. La scuola rappresentava un organo istituzionale importantissimo per il regime, che mirava a trasmettere il valore del rispetto della legge, dell’ordine, della disciplina e dell’obbedienza. L’obbligo scolastico durava fino al 14° anno di età, includendo anche i ragazzi ciechi e sordomuti e aumentando l’ammenda da lire 2 a lire 50 per i responsabili dell’inadempienza all’obbligo. La scuola materna divenne il “grado preparatorio dell’istruzione elementare” e fu istituita per i bambini dai 3 ai 6 anni, ma i genitori avevano la possibilità di scegliere se farla frequentare o meno ai loro figli386. In questo modo però il governo fascista favorì indirettamente lo sviluppo dell’iniziativa privata. La scuola elementare invece, venne divisa in un grado inferiore, che comprendeva I, II e III classe e in un grado superiore, comprendente IV e V classe. Fu organizzato anche un corso integrativo di avviamento professionale della durata di tre anni, non obbligatorio. La scuola media era suddivisa in: scuola complementare, che non consentiva di proseguire gli studi; ginnasio (tre anni), che preparava al liceo classico e, quindi all’Università; istituto magistrale inferiore (quatto anni); istituto tecnico inferiore (quattro anni); scuola d’arte. Dunque con la riforma Gentile venne accentuata la natura classista della scuola già affermatasi con la legge Casati, che separava la preparazione delle future classi dirigenti da quella delle altre classi sociali. Con il R.D. 3 aprile 1926, n. 2247, nasceva inoltre l’O. N. B. (Opera Nazionale Balilla) a cui venne affidata l’educazione fisica e morale della gioventù, come ausilio alla scuola, che, da sola, non riusciva a garantire la piena fedeltà al regime. Non ci meraviglia a questo punto che lo stesso Gentile scrivesse: «Ogni educatore sa quale mezzo concreto (predica o manganello) usare, secondo le circostanze»387. Con la caduta del regime fascista uno dei principi alla base della vita di uno Stato (stavolta “democratico”) fu considerato ancora una volta il nostro “obbligo scolastico”. In Italia, dopo il 2 giugno del 1946, furono indetti contemporaneamente il referendum e le elezioni per l’Assemblea costituente, che avrebbe avuto il compito di dare al popolo italiano la Costituzione tuttora in vigore. La maggioranza degli elettori scelse la Repubblica e l’Assemblea, dopo aver proclamato Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato, iniziò il suo lavoro. Infatti affidò l’elaborazione del progetto a una commissione di 75 deputati, che si divise in tre sottocommissioni: una per i diritti civili e politici, una per l’organizzazione e la costituzione degli organi dello Stato, una per i rapporti economici e sociali. Il Presidente della Commissione, l’onorevole Ruini, illustrò il progetto all’Assemblea, accompagnato da una sua relazione, il 31 gennaio 1947. Il dibattito si protrasse dal 4 marzo al 22 dicembre 1947. E’ proprio questa discussione che ci può aiutare a comprendere come già in quell’ambito ci fossero opinioni discordanti in merito all’utilizzo dell’espressione “istruzione obbligatoria” (poi però inserita nell’art. 34 del dettato costituzionale). Il 24 aprile del 1947 il deputato democratico democristiano Franceschini propose una formula ampia e come afferma Luigi Ambrosoli, “ tale da agganciare il problema della scuola a una prospettiva più profonda” 388: «Ogni cittadino - si affermava nel suo emendamento fatto con Laura Bianchini e Giuseppe Lazzati - ha diritto a ricevere istruzione ed educazione adeguate allo sviluppo integrale della propria personalità e all’adempimento dei propri compiti sociali». La sua idea però venne rifiutata “in quanto si volle trascendere il concetto del diritto all’istruzione per affermare il principio dell’istruzione obbligatoria e gratuita” 389. In quella seduta Franceschini sostenne di non capire i motivi per cui la sua proposta fosse caduta all’esame della Commissione di Coordinamento, perché egli riteneva quella dichiarazione la migliore premessa a tutti i commi riguardanti l’insegnamento. Egli affermò che ciò che è di ogni uomo (il diritto all’educazione e all’istruzione) non può essere delegato al potere dello Stato e che l’articolo da lui difeso sanciva 386 Come del resto avviene anche oggi. Levana, 1924, n. 2. 388 L. Ambrosoli, La Scuola alla Costituente, Brescia, Paideia, 1987, p.47 389 V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica Italiana. Illustrata con i lavori preparatori e corredata di note e riferimenti, Milano, Mondadori, 1979, p. 122. 387 appunto questo diritto originario e fondamentale. Inoltre il già citato Luigi Ambrosoli, aveva ricordato come il fine dell’istruzione e dell’educazione non fosse calpestare i desideri della persona, “confondendoli nell’anonima vita statale”, ma “formare l’uomo e il cittadino”, basandosi fin dall’inizio su giusti criteri pedagogici. Dunque è proprio il diritto soggettivo all’istruzione a dover essere esaltato, un diritto che è legato alla persona e al suo desiderio (vedi STUDIO) di conoscere il mondo. Durante il dibattito alla Costituente un anno prima (29 ottobre 1946), anche il deputato Mastrojanni aveva manifestato i suoi dubbi riguardo all’uso dell’aggettivo “obbligatorio”, osservando nel contempo che alcuni fanciulli manifestano un’incapacità di tipo organico ad andare a scuola e non sono in grado di ricevere insegnamenti. Adoperando questo aggettivo pertanto si negava completamente ogni tipo di diritto e ciò non era sicuramente accettabile nell’ambito pedagogico: infatti ogni persona inizia ad apprendere in modo unico ed irripetibile, a seconda delle caratteristiche della propria mente, della propria personalità, dell’ambiente familiare e sociale di provenienza, delle proprie attitudini e dei propri desideri. Finalmente, tra il 24 e il 30 aprile del 1947, un ulteriore tentativo di cambiare la formulazione della legge venne fatto dall’onorevole Laura Bianchini, la quale propose come emendamento: “L’insegnamento, nei limiti dell’obbligo di frequenza scolastica, è gratuito.” Si era così provato a limitare il concetto di “obbligo” alla sola frequenza a scuola, ma nel frattempo veniva perso ogni riferimento con il diritto soggettivo all’istruzione. L’emendamento non fu approvato e l’onorevole Codignola poté presentare la propria modifica (poi definitiva), affermando che “da un punto di vista tecnico” non è l’insegnamento ad essere obbligatorio e gratuito, ma è l’istruzione che deve essere obbligatoria e gratuita. Ovviamente il punto di vista espresso non era pedagogico e dopo varie prove di votazione, si stabilì quello che sarebbe divenuto il secondo comma dell’art. 34 della nostra Costituzione: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”390. Riduzionismo. L’impossibile matrimonio tra i termini “obbligo” e “scuola”, reso automatico nella nostra epoca ha prodotto danni incalcolabili: oggettivamente «[…] dobbiamo onestamente ammettere che buona parte della nostra educazione [ma poche righe prima parla di istruzione, NdA] popolare è un fallimento. Non sappiamo influire durevolmente sugli scolari, in vista della loro vita avvenire. Ce lo dimostra il tipo di cultura cui si rivolgeranno, una volta lasciata la scuola.»391; soggettivamente, assistiamo alla produzione del ISM. Vedi Fioravanti, cap. IX. ORIGINALITÀ CREATIVA. Vedi CREATIVITÀ. POLIDISCIPLINARITÀ. Vedi CULTURA, DISCIPLINA. POSTULATO. Significato. «Postulato2, Principio o proposizione ammessa come vera, ma non dimostrata, e necessaria per spiegare un fatto o procedere a una dimostrazione o per fondare una teoria (e si distingue dall’assioma, inteso Le notizie riportate sono tratte dalla tesi di laurea di Manuela Strazzullo, Obbligo scolastico, libertà di indifferenza, libertà di qualità, presentata all’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa” (a.a. 2002/2003). 391 G. H. Bantock, Cultura , industrializzazione, educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 22. 390 come verità evidente, nella matematica e nella logica di tradizione classica nonché nella filosofia fino a Kant […].»392 Etimologia. Dal latino postulāre, “richiedere”, il termine con il significato «proposizione non dimostrata ma ammessa ugualmente come vera in quanto necessaria per fondare una dimostrazione o una serie di dimostrazioni» entra nella lingua italiana nel XVII secolo con Galilei393. Riferimenti/rinvii. Ateismo – dialettica – evoluzione – educazione come correzione – spirito. Non attestato in NDP Riduzionismo. Ciò che è postulato tende oggi a sostituire gli assiomi ed i principi, appropriandosi dei loro nomi. Vedi Fioravanti cap. IX. PRINCIPI Definizione. «Il fatto di cominciare, di avere, di dare, di ricevere inizio o esistenza, o, anche, di assumere una condizione da un certo punto in poi; il momento in cui ciò si verifica. […] 6. Ciò che, in modo più o meno chiaramente e direttamente causale, sta all’inizio di una serie di eventi riconoscibili come conseguenze; causa, motivazione; movente, impulso. […]»394 Etimologia. Dal latino principiu(m), a sua volta derivato da princeps, “principe”, composto da prīmus “primo” e capĕre “prendere”, con il significato cioè di “ciò che prende il primo posto”. In Italiano è presente sin dal XIV secolo con il significato «fase iniziale, origine, causa»395 Riferimenti/rinvii. Non attestato in NDP. «Ogni individuo normale, man mano che si inoltra nel cammino della vita, si viene formando più o meno definiti principi e modelli grazie ai quali giudica gli altri e dirige la sua personale condotta.»396 Riduzionismo. Il termine sta oggi scomparendo a vantaggio di valori e POSTULATI (v.), mentre le sue caratteristiche vengono associate al termine METODO (v.). Vedi Fioravanti cap. IX. RAGIONAMENTO Definizione. 392 DLIB, XIII (1986), p. 1090. DELI, IV, p. 964. 394 DLIB, XIV (1988), pp. 383-384. 395 Cf. DELI, IV, pp. 980-981. 396 W. H. Kilpatrick, Filosofia … op. cit., p. 153. 393 «Il ragionare; il processo per il quale si pensa e si discorre in forma logica e, in particolare, si muove da premesse per giungere a una conclusione […] Filos. Procedimento discorsivo di inferenza o di prova […]»397 Etimologia. Dal latino ratio, “conto, calcolo”, a sua volta derivato dal verbo rēri “contare, calcolare”. Presente nella lingua italiana sin dal XIII secolo sia con il significato «modo, atto del ragionare per arrivare ad una conclusione seguendo un procedimento logico», sia nell’accezione più particolare di «operazione mentale mediante la quale si inferisce una conclusione da una o più proposizioni precedentemente usate.»398 Riferimenti/rinvii. Non attestato in NDP. San Tommaso, seguendo Aristotele, dà la seguente definizione: «Ragionare significa procedere da una conoscenza ad un’altra, nel conoscere la verità.»399 «[La capacità di pensare in modo conseguente ed ordinato] corrisponde alla terza forma di attuazione del pensiero, alla capacità di dedurre, di dare al pensiero un legame, una coerenza, un ordine, una sistemazione.»400 La rivoluzione francese fece della Ragione una dea; partendo dal medesimo postulato «Fiche intende per ragione la legge fondamentale dell’umanità e di ogni vita spirituale»401 Riduzionismo. Come metodo conoscitivo è stato ridotto negli ultimi due secoli alla dialettica, ossia una modalità ad esso contraria. Il ragionamento è stato in tal modo ‘assassinato’ perché - in quanto esclusivamente procedimento dialettico - è costretto a procedere per opposti, non potendosi mai dipanare e svolgere in maniera continua ed armonica. La tirannia della dialettica - imperante nonostante le apparenze - nel processo conoscitivo appare quanto mai attuale, come testimoniato dall’asserzione seguente: «Come sempre, il mutamento teorico deriverà dalla dialettica tra scoperte stupefacenti e una nuova maniera di prendere in considerazione i dati d’esperienza.»402 SOCIALE. Definizione. «Che vive in società o che è naturalmente portato a vivere in società con i suoi simili […]»403 Etimologia. 397 DLIB, XV (1995), pp. 340-341. DELI, IV, p. 1026. 399 «Ratiocinari est procedere de uno intellecto ad aliud, ad veritatem intelligibilem cognoscendam.», ST, Prima Pars, Quaestio LXXIX, Art. VIII, p. 382. 400 F. Lersch, La struttura … op. cit., p. 238. 401 G. Amati, “La concezione fichtiana dell’università”, in: A. Rigobello, G. Amati, A. Bausola, M. Borghesi, M. Ivaldo, G. Mura (a cura di), L’unità del sapere. La questione universitaria nella filosofia del XIX secolo, Roma, Città Nuova, 1977, p. 70. 402 E. Morin, La natura … op. cit., p. 73. 403 DLIB, XIX (1998), pp. 227-229. 398 Dall’aggettivo latino socialis = socievole, sociale, amichevole (Amicitiae sociales = amicizie concordi), a sua volta derivato da socius, “compagno”. Con il significato «Che fa vita sociale» è attestato in Italiano fin dal XIV secolo. Da questo trassero origine nel XX secolo i termini “socializzare” e “socializzazione”, quest’ultimo a designare in psicologia e sociologia il processo dell'uomo attraverso cui diviene parte della società; entrambi erano di derivazione francese (socialiser e socialisation, presenti dalla metà del XIX secolo)404. Riferimenti/rinvii. Dalla definizione classica dell’uomo come animale sociale, l’aggettivo ha sempre rivestito una particolare importanza nella cultura delle varie epoche. Ecco una breve rassegna delle definizioni tratte da alcuni dizionari e vocabolari: «Tendente a vivere in società» (VLIDO); «Pubblico, collettivo, societario» (DSCGar); presente anche in dizionari specialistici, talvolta con un campo semantico notevolmente ampliato: «Essere sociale significa rendersi conto da parte dell'uomo che vi è relazionalità con i simili, matrice fondamentale per la formazione che è sempre educazione alla società» (DP); «Ciò che si riferisce alla vita civile, riguardo ai diritti e ai doveri delle comunità come tale e di ogni membro.» (DPSE); «Caratteristica ontologica connaturata alla condizione umana, perché l'uomo è un animale sociale che guadagna l'individualità con la relazione» (DPs). In ogni caso, il termine non esce mai dal suo specifico ambito di appositivo-attributivo. L’accresciuta importanza della parola società, avvenuta tra il XVIII ed il XIX secolo, ha trascinato con sé anche il relativo aggettivo. La società diviene campo di azione del concetto di universalità, e costituisce il punto comune di tutta una serie di pensatori: «[…] attraverso l’uscita dalla semplice soggettività, attraverso l’affermazione dell’oggettività, della personalità e della socialità; solo attraverso codesta operazione teoretica e culturale Humboldt è potuto divenire un teorico dell’educazione e, connesso a ciò, un pensatore politico. L’ulteriore conseguenza è che “L’umanità può raggiungere la sua massima perfezione solo nella società, e abbisogna dell’unione di molti non solamente per creare, con la pura e semplice moltiplicazione delle forze, opere più grandi e durature, ma soprattutto per rivelare, mediante la maggiore varietà, la propria natura nella usa reale ricchezza e in tutta la sua estensione.” […] Si costituisce così, all’insegna di quello spirito oggettivo che collega Humboldt, a Herder, a Schelling, a Fiche, a Hegel, a Dilthey, ad altre pagine dell’Ottocento tedesco, un concetto nuovo di universalità»405 Riduzionismo. L’aggettivo sostantivato maschile può sostituire un nome astratto (sull’esempio ciò che è bello > il bello, che ben si adatta al nostro caso: ciò che è sociale > il sociale), e questo termine fa parte di una serie recente proprio del linguaggio sociologico406. STATO. Definizione. «Lo stare fermo in un luogo determinato, senza muoversi o allontanarsene; condizione di immobilità […] 9. Condizione in cui si trova una persona. […] 12. Grado che dipende dalla carica esercitata o 404 DELI, V, p. 1218. M. Ivaldo, “La teoria dell’universalità in Humboldt”, in: A. Rigobello, G. Amati, A. Bausola, M. Borghesi, M. Ivaldo, G. Mura (a cura di), L’unità del sapere … op. cit., p. 52. 406 Cf. L. Serianni (con la collaborazione di A. Castelvecchi), Grammatica italiana, Torino, UTET, 19912, pp. 206-207. 405 dalla posizione gerarchica; […] 20. Potere politico o di governo di una comunità indipendente o autonoma; l’esercizio di tale potere, l’attività di governo e il governo stesso, l’amministrazione della cosa pubblica. […]»407 «Lo Stato è una persona giuridica territoriale sovrana, costituita dall'organizzazione politica di un gruppo sociale stanziato stabilmente su di un territorio» (VLIZ) «Nel diritto costituzionale moderno, con il concetto di Stato si designa il supremo ordinamento giuridico-amministrativo, a carattere coercitivo, di una determinata società. Questo ordinamento appare caratterizzato dai seguenti elementi: a, la territorialità; b, il possesso della forza legittima; c, l’accentramento del potere.»408 Etimologia. Deriva dal latino status “condizione”; in questo significato si conserva ancora nelle espressioni status questionis, ad indicare lo stato delle cose o lo stato dell’arte, stato libero, ad indicare il celibato, stato di grazia, stato d’animo. Entrato con il significato originario di “condizione” (anche estensivamente “condizione economica”) nel XIII secolo nella lingua italiana, nel XVI secolo assume l’accezione di “territorio di uno stato”409. Riferimenti/rinvii. Nella traduzione dei LXX il termine greco pÒlij “città” viene adoperato per tradurre gli ebraici ‘ir, qirjah “città” e shearim “porte”.410 Appare dunque chiaro il riferimento ad una comunità, stanziale o meno, che si riconosce nella condivisione di un territorio delimitato. È solo a partire dal rinascimento che il termine Stato ha assunto il significato moderno, sebbene all’epoca fosse legato alla ‘condizione’ del principe, ossia secondo il Machiavelli all’unica intitolata ad assommare la totalità dei poteri. Conseguentemente a tale visione, lo S. era personalizzato, «cioè si identificava con la persona del principe, a poco a poco esso si è spersonalizzato, cioè è diventato un’istituzione astratta, dotata di personalità soltanto giuridica, vale a dire fittizia e consistente in un insieme di uffici, in un apparato burocratico, nel quale tuttavia era concentrata come in un unico luogo la totalità dei poteri legittimi.»411. Questo processo appare essere la diretta conseguenza del trasferimento, operatosi nel XIII secolo, dei poteri dell’assemblea cittadina al ‘signore’, come nel caso di Obizzo d’Este a Ferrara e Guido Bonaccolsi a Mantova. Nato nell’Italia del XVI secolo, il nuovo significato di Stato assume la caratteristica dimensione nazionale nella Francia dell’ultimo quarto del secolo, nell’analisi di C. Schmitt, quando con l’opera di J. Bodin – Six livres de la République, del 1576 – si arriva ad affermare il nuovo concetto di sovranità del monarca che si vede investito dal popolo del potere di cui quest’ultimo si è in tal modo spogliato. Dal XVI al XVII secolo la teoria e la prassi politica europea vedono l’emergere dello stato occidentale, in qualità di apparato diretto dall’espressione di un volere che si accentra in un unico punto (il signore, il principe), rivendicando per sé - e con successo – il monopolio legittimo dell’esercizio – anche fisico – della forza412. 407 DLIB, XX (2000), pp. 97-104. C. Volpi, “Stato”, NDP, p. 1183. 409 DELI, V, p. 1268. 410 Cf. DCBNT, p. 1328. 411 E. Berti e G. Campanili (diretto da), Dizionario delle idee politiche, Roma, AVE, 1993, p. 858. 412 Cfr. M. Stolleis, Stato e ragion di stato nella prima età moderna, Mulino, Bologna, 1998 (Ediz. or.: Staat und Staaträson in der frühen Neuzeit: Studien zur Geschichte des öffentlichen Rechts, 1990), p. 8. 408 Secondo Weber infatti lo Stato detiene il monopolio dell’uso della forza legittima413. «L’equivoco di credere che anche nell’antichità sia esistito lo S. deriva da alcune traduzioni moderne della Politica di Aristotele – la prima delle quali è quella di J. G. Schlosser, del 1798 -, che rendono con S. il termine greco polis, per cui è insorta la consuetudine di designare la polis greca con l’espressione “città-S.”. A questo equivoco non si sono sottratti filosofi illustri come G. W. F. Hegel, il quale pure traduce con Staat il greco polis, o illustri storici, come V. Ehrenberg, autore dell’opera Der Staat der Griechen, e nemmeno un filologo e aristotelista come W. Jaeger, che però non era un filosofo della politica.»414 La stessa sorte appare conseguentemente toccare alla Repubblica di Platone (376 c), dove si parla dei filosofi come fÚlax poleîj (letteralmente “guardiano della città”), che viene tradotto ‘colui che è a guardia dello Stato’ sia nella traduzione a cura di F. Adorno415, sia in quella di F. Sartori416. In più il filologo W. Jaeger «sostenne che nella Repubblica la più alta virtù dello stato è l’educazione.»417, da cui la preparazione a quanto seguirà, ossia la ‘costruzione’ del cittadino da parte dello Stato. Con Hegel, lo Stato diviene incarnazione dello “Spirito oggettivo”, l’istituzione dove si realizza la forma più alta dell’eticità, come sintesi tra diritto (legalità esterna) e moralità (legge interiore): «Lo Stato è la realtà dell’idea etica, lo spirito etico in quanto volontà manifesta, evidente a se stesso, sostanziale, che si pensa e si conosce, e compie ciò che sa e in quanto lo sa. Nell’ethos esso ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza del singolo, nella conoscenza ed attività del medesimo, ha la sua esistenza mediata»418. Riduzionismo. «Nel momento in cui s’affaccia alla storia, lo stato moderno tende a diventare un superuomo, astratto e neutralizzante, che svolge la funzione di trascendere i conflitti interni e di produrre stabilità nel proprio territorio, rendendo sudditi (subiecti) tutti coloro che in esso vivono. Esso deve armarsi contro gli attacchi esterni e difendere la propria sovranità dalle aggressioni di altri stati parimenti organizzati»419. Questa organizzazione politica oramai spersonalizzata ci guida a proprio piacimento, ci mette in condizioni di scegliere su decisioni già prese, proprio come agivano le società del '700: «Anche qui tutto è già discusso e deciso in anticipo».420 In uno Stato come il nostro la funzione del singolo è offuscata, anzi punita, l'individuo non ha diritto di agire, ovvero, egli è libero di intraprendere qualsiasi azione purché sia limitata dal volere dello Stato, cioè da un volere universale. La moderna definizione di Stato indica la sua identificazione con la ‘società politica’, (ultimamente decisamente separata da pensatori come Maritain) ossia con l’insieme dei cittadini associati tra di loro per il conseguimento del bene comune, titolare del potere politico nelle età precedenti. Tale usurpazione semantica ha portato alla contrapposizione con la ‘società civile’, ossia con l’insieme dei cittadini considerati come individui, a tutto svantaggio di quest’ultima. Questa usurpazione semantica, che ha provvisto il termine Stato con connotazioni umane, personali, è lumeggiata già agli albori dello stato moderno «[…] al sistematico svilupparsi, in Europa, dello stato moderno s’accompagnavano anche volontarismo e un crescente soggettivismo politico. Nella misura in M. Weber, Politik als Beruf, in Gesammelte politiche Schriften, 1958, p. 494; vedi anche Economia e società, Milano Comunità 1980 [1922], IV, 9. 414 E. Berti e G. Campanili, Dizionario … op. cit., p. 859. 415 Platone, La Repubblica, a cura di F. Adorno, Torino, UTET, 1953, p. 197. 416 Platone, La Repubblica (Opere complete, vol. VI), traduzione di F. Sartori, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 92-93. 417 J. J. Chambliss, “Il Custode: Platone”, in: P. Nash, A. M. Kazamias e H. J. Perkinson (a cura di) Gli ideali educativi. … op. cit., p. 75. 418 Lineamenti di filosofia del diritto, § 257. 419 M. Stolleis, Stato e ragion di stato … op. cit., pp. 8-9. 420 Cfr. Augustin Cochin: Lo spirito del giacobinismo, Milano, Bompiani, pag. 84. 413 cui l’azione politica infrangeva l’ordinamento normativo della tradizione occidentale, acquisivano importanza l’individuo eroico e le decisioni della sua libera volontà.»421. Le connotazioni umane divengono persona, la persona diviene superuomo, il superuomo con l’idealismo diverrà l’universalità: «Se lo Stato ha da essere l'universale che vuole, la sua volontà non si manifesterà per mezzo di decreti, ma per mezzo di leggi: la legge, infatti, è espressione della Volontà generale».422 Questo raggiunto livello assoluto (ossia sciolto da tutto, totalmente indipendente) da parte dello Stato porta al conseguente annullamento dei diritti altrui, in quanto non ci sono realmente altri a parte Lui, come si evince dal seguente passaggio: «La morale volontà di tutti non può raccogliersi dallo stato intellettuale delle classi ignoranti, sì bene dai più alti rappresentanti della cultura, che sono chiamati la classe dirigente della società, e rappresentano i supremi uffici dello Stato. Il quale perciò può imporre all’intero corpo sociale l’istruzione obbligatoria, come il mezzo più indispensabile per la sua perfezione economica, intellettuale, morale, politica, senza violare la libertà, che in questo caso non esiste presso nessuno.»423 La considerazione finale del riduzionismo può essere desunta dal passo seguente di una lettera che J. R. R. Tolkien inviò al terzo figlio Christopher in data 29/11/1943: «Arresterei chiunque usi la parola Stato (intendendo qualsiasi cosa che non sia la terra inglese e i suoi abitanti, cioè qualcosa che non ha poteri né diritti né intelligenza); e dopo avergli dato la possibilità di ritrattare, lo giustizierei se rimanesse della sua idea! Se potessimo tornare ai nomi propri, sarebbe molto meglio.»424 STUDIO. Definizione. Vedi Fioravanti, capp. I, IV. Etimologia. Vedi Fioravanti, capp. I, IV. Riferimenti/rinvii. In Greco abbiamo il verbo did£skw, con il significato di “insegnare” con un raddoppiamento della radice presente probabilmente dalla più arcaica fase micenea425; nella traduzione dei LXX questo verbo traduce prevalentemente la radice ebraica lmd (limmēd = insegnare), con un intento più sacrale: non si intende tanto infatti la semplice trasmissione di conoscenza o di tecniche, quanto un vero e proprio insegnamento di vita426. Il verbo manq£nw, con il significato di “apprendere, imparare”, che quando apparve per la prima volta (con Pindaro) appare aver già dietro di sé una lunga storia. In sintesi, il verbo sta ad indicare l’azione di dirigere le proprie forze spirituali verso un obiettivo, e dalla stessa radice il termine maqhtÁj indica l’uomo che si lega ad un altro per apprendere427. Mentre connesso al desiderio abbiamo il verbo zhtšw cerco, cerco di conoscere, cerco d’ottenere, bramo, dalla radice dja-, d…zhmai con l’idea di “cerco, desidero, bramo, domando” ha dato luogo al sostantivo neutro z»thma M. Stolleis, Stato e ragion di stato… op. cit., p. 14. V. Mathieu, Cancro in Occidente, Milano, Editoriale Nuova, 1980, pag. 69. 423 A. Angiulli, La pedagogia … op. cit., pp. 23-24. 424 J.R.R. Tolkien, La realtà … op. cit., p. 74. 425 Cf. W. Belardi, Linguistica … op. cit., pp. 227-228. 426 Cf. DCBNT, p. 522. 427 Cf. DCBNT, p. 1720. 421 422 con il significato di “ricerca, ricerca scientifica, questione” (Rocci, pp. 838 e 481), con una tendenza all’inquisizione, indagine, ispezione distaccata dalla passione, tanto che lo zhtht»j è colui che indaga, l’inquisitore, il magistrato e che oƒ zhthtiko… (gli inquisitori, gli indagatori) sono i filosofi scettici. Il verbo Ñršgomai, medio di Ñršgw, indica principalmente l’azione di allungarsi, di protendersi, poi adoperato in senso traslato con il significato di “aspirazione”428. Il sostantivo zÁloj, dalla radice za/ja, indica ardore, zelo, amore, ma con la connotazione negativa di invidia, gelosia (Rocci, p. 837), mentre il sostantivo femminile spoud» è quello che più si avvicina al latino studium quanto a significati, con le accezioni di “fretta, celerità, sollecitudine”, “sforzo, pena, fatica”, “cura, sollecitudine, studio, diligenza, zelo, premura, attenzione, interessamento, sforzo, ardore, brama” (Rocci, p. 1696), mostrando al contempo una più vasta area semantica. La sua origine rimonta al verbo spšudw “affrettarsi, affrettare, accelerare, aspirare a”, con radice indoeuropea speu, spu (Rocci, p. 1692) e l’accezione omerica fu “sforzo, pena, fatica”. Il termine e quelli derivati descrivono innanzitutto un rapido movimento in vista di una persona o di una cosa, poi designano un moto interiore sempre contrassegnato da una certa gravità e serietà. «Nella traduzione dei LXX assume il significato di “fretta, velocità” (Gn 19,15; Es 12, 11.33) e in seguito quello di “zelo” (Sir 27,3; Sap 14,17). Il termine non ha alcun vero corrispondente nel testo ebraico. Spesso viene usato per tradurre bāhal = essere atterrito, sconcertato (Gb 4, 5; 21, 6; Is 21, 3), portando quindi una certa restrizione di senso rispetto all’originale ebraico. […] In Paolo è un’importante espressione della vita e della comunità cristiana, che ne determina l’agire e il comportamento etico; è un dono di Dio che occorre sviluppare. La sua forza deve dimostrarsi nell’aspirazione all’unità429, nel venire in aiuto ad altri cristiani430, nel rispondere col bene al male431, nel dirigere una comunità432. Da ciascuno viene richiesta la piena dedizione433, che con l’esempio può divenire in certo senso contagiosa434. Negli scritti più tardivi del Nuovo Testamento, il termine acquista un significato più generico e quasi di massima: tutto il modo di vivere dev’essere improntato alla spoud», se non vuol perdere il dono ricevuto e correre il rischio di non raggiungere la meta435;». Il passo riportato436 contiene un’analisi illuminante dell’uso del termine in ambiente giudaico-alessandrino e del leggero spostamento semantico operatosi nelle Lettere di San Paolo. Come si è visto dai passi riportati in nota secondo la Vulgata, il termine greco nell’uso paolino viene a sua volta tradotto da S. Girolamo con le parole sollicitudo, cura. Nel XVI secolo in seno alla Compagnia di Gesù avviene un cambiamento decisivo per l’uso che da allora in poi si farà del termine studium: nel 1558 fu composto un piccolo trattato ad opera dei professori del Collegio Romano intitolato Ratio studiorum Collegii Romani, «nel quale si riscontrano tutte le parti della futura, definitiva Ratio studiorum: la struttura o ordine della scuola, la divisione delle classi, l’orario delle lezioni, la materia da insegnare, gli autori, gli esami e tutte le esercitazioni scolastiche da praticare.» (EP, col. 9809). Vediamo che il termine viene ad assumere – stabilmente da 428 Cf. DCBNT, p. 472. Ef 4, 3: solliciti servare unitatem Spiritus in vinculo pacis. 430 Gal 2, 10: quod etaim sollicitus fui hoc ipsum facere; 2Cor 8, 7: Sed sicut […] et omni sollecitudine, in super et charitate vestra in nos, ut et in hac gratia abundetis; 8.16: Gratis autem Deo, qui dedit eamdem sollicitudinem pro vobis in corde Titi. 431 2Cor 7, 11-12: Ecce enim hoc ipsum, secundum Deum contristari vos, quantam in vobis operatur sollicitudinem […] non propter eum qui fecit iniuriam, nec propter eum qui passus est: sed ad manifestandam sollicitudinem nostram. 432 Rm 12, 8: qui preest in sollecitudine. 433 Rm 12, 11: sollecitudine non pigri. 434 2Cor 8, 8: Non quasi imperans dico: sed per aliorum sollicitudinem. 435 2Tm 2, 15: sollecite cura teipsum probabilem exhibere Deo; 2Pt 1, 5.10: curam omnem […] magis satagite; 3, 12.14: satagite immaculati; Eb 4, 11: Festinemus ergo ingredi in illam requiem; 6, 11: ostentare sollicitudinem. 436 DCBNT, pp. 2036-2037. 429 allora in poi – il significato di ‘materia di studio’. A riprova di ciò, un secolo e mezzo dopo, G. Vico, nel De nostri temporis studiorum ratione (1709) afferma che «Fine di tutti gli studi uno solo viene poi considerato, uno solo viene coltivato, uno solo viene celebrato, la verità.» «Abbiamo infine le università degli studi […] Ed in tutti questi studi letterari si ha di mira oggi un sol fine, la verità;»437 Che il significato di studio in Vico sia oramai nettamente distinto da quello di passione, lo testimonia il valore assolutamente negativo che lo scrittore napoletano attribuisce al termine passione (appetitus)438. La nozione di passione come malattia dell’anima risale alla teoria cartesiana delle passioni (Trattato delle passioni dell’anima, del 1649), differenziandosene solo quanto a metodica terapeutica439. «Valorizzare lo studio» in quanto lo studio «implica il concetto dello sforzo, che, però, può essere alleviato dal metodo e dalla motivazione.»440 Come a dire: la medicina (= lo studio) è amara ma necessaria (= obbligatoria), cerchiamo di renderla più dolce con zucchero e fantasia. In Inglese il termine study lo troviamo annoverato tra le operazioni dell’intelletto (insieme al pensiero, thought, alla riflessione, reflection, alla meditazione, meditation, RT § 451), come modalità dell’apprendimento (learning, RT § 539) e tra le conceptional volition (insieme a termini quali intention, intent, purpose, scope, RT § 620). Per studio, in Francese441 la parola étude indica principalmente un’applicazione metodica dell’attenzione per cercare di apprendere e comprendere442, con una specificazione di “impegno intellettuale teso all’osservazione e la comprensione delle cose e dei fatti”443, abbiamo poi il termine letterario soin, con il significato di “cura nei confronti di un oggetto per il quale si prova interesse”444. In Tedesco il termine445 si traduce con i sostantivi Lernen (“appropriarsi di qualcosa spiritualmente o fisicamente”, “acquisire conoscenze, capacità, competenze”) 446, Erlernen (sinonimo del precedente)447, per l’accezione inerente l’indagine Forschung (“la ricerca, l’approfondimento scientifico, l’investigazione, il puntello verso nuove conoscenze”)448, riguardo all’aspetto della formazione abbiamo i termini Hochschulbildung (“formazione acquisita nelle scuole superiori”)449 e Studium (“perfezionamento pertinente alle scuole superiori”)450, mentre con i termini Plege e Sorge si intende la cura, la premura. In Giapponese (per ‘materia di studio’ vedi DISCIPLINA) abbiamo i termini gakushū ( , studio 451 apprendimento) , composto dagli ideogrammi “scienza, studio, apprendimento” e “imparare” (KD, Rispettivamente, «Finis autem omnium studiorum unus hodie spectatur, unus colitur, unus ab omnibus celebratur, veritas.» «Denique universitates studiorum habemus, […] Atque in his ferme omnibus literarum studiis ad unum hodie spectatur finem, veritatem;» G. Vico, Il metodo degli studi del nostro tempo (a cura di B. Loré), Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp.14 e 20-22. 438 «Ma la moltitudine del volgo si fa catturare e trascinar via dalla violenza dei desideri che sono tumultuosi e turbolenti; poiché è questa una malattia dell’anima che si contrae» (At multitudo et vulgus appetitu rapitur et abripitur: appetitus autem est tumultuosus et turbulentus; cum enim sit animi labes) G. Vico, Il metodo degli studi … op. cit., p. 67. 439 Cf. G. Vico, Il metodo degli studi … op. cit., p.175, nota 19. 440 M. Polito, Guida allo studio… op. cit., pp. 34 e 47. 441 DFI, p. 2056. 442 « Application méthodique de l’esprit cherchant à apprendre et à comprendre». 443 «Effort intellectuel orienté vers l’observation et la compréhension des choses, des faits » MRP, p. 491. 444 «Préoccupation relative à un objet auquel on s’intéresse » MRP, p. 1195. 445 TIS, p. 687. 446 «Sich geistig oder körperlich aneignen, Kenntnisse, Fähigkeiten, Fertigkeiten erwerben» DW, p. 1011. 447 DW, p. 522. 448 «Das Forschen, das wissenschafliche Ergründen, Untersuchen, Streben nach neuen Erkenntnissen» DW, p. 598. 449 «Auf einer Hochschule erworbene Bildung» DW, p. 801. 450 «Ausbildung an einer Hochschule» DW, p. 1523. 451 DGI, p. 175. 437 pp. 862, 1067), benkyō ( , studio, lezione, insegnamento)452, composto dagli ideogrammi “diligenza” e “forte” (KD, pp. 387, 735), gakumon ( , studio, scienza, istruzione)453, composto dagli ideogrammi “scienza, studio, apprendimento” e “domanda, problema” (KD, pp. 862, 1582), mentre per l’accezione vicina al significato originario del termine latino abbiamo kinben ( , diligenza assiduità)454, composto dagli ideogrammi “lavoro, opera” e “diligenza” (KD, pp. 299, 387), doryoku ( , sforzo)455, composto dagli ideogrammi “sforzarsi, esercitarsi” e “potenza, energia” (KD, pp. 294, 289), nesshin ( , entusiasmo, zelo)456, composto dagli ideogrammi “calore, febbre, entusiasmo” e “cuore, mente” (KD, pp. 1100, 1177) e hairyo ( , attenzione, premura, sollecitudine)457, composto dagli ideogrammi “distribuire, assegnare” e “pensiero, considerazione” (KD, pp. 1524, 376). . Riduzionismo. Per lo studio ridotto a mero apprendimento obbligatorio, vedi Fioravanti introduzione e cap. I Per il processo dello studio ridotto a mero atto mentale, vedi Fioravanti cap. IV SVANTAGGIO. Definizione. «Danno o scapito arrecato da un evento o da una situazione negativa. […]»458 Etimologia. In Latino abbiamo il termine damnum = danno, svantaggio, perdita. (Damna atque dedecora = danni e vergogne - Sallustio). Proviene da “vantaggio” + prefisso oppositivo-sottrattivo s459. Attestato nel francese medievale, dal 1190 come svantage, ciò che è avanti, e un secolo dopo col prefisso des in senso contrario désavantage «ciò che mette in situazioni sfavorevoli» (DE), compare in Italia alla fine del XVII secolo. Dal 1960 è attestato anche l’aggettivo svantaggiato con il significato di «chi si trova in situazioni di svantaggio rispetto ad altri»460. Il termine così appare nella letteratura pedagogico-didattica italiana a partire dall’inizio degli anni ’70, soprattutto per influenza di ricerche e teorie di provenienza anglosassone e sintetizza una certa interpretazione dei problemi del disadattamento e del cattivo rendimento scolastico di allievi provenienti dalle classi sociali meno favorite sul piano economico e comunque da gruppi etnici e socioculturali marginali. Riferimenti/rinvii. Presente nei vocabolari con il significato di «Condizione di inferiorità o sfavore» (VLIDO); «Pregiudizio, danno, scapito, discapito» (DSCGar), appare nei dizionari specialistici con una particolare enfasi dedicata agli aspetti economici e culturali: «Situazione di arretratezza in confronto ad altri nell'ambito della stessa cultura» (EP); «Si parla di svantaggio per indicare situazioni economiche, socio-culturali, educative depresse, che sono di molte prestazioni insufficienti.» (DPSE); «Termine che 452 DGI, p. 958. DGI, p. 177. 454 DGI, p. 278. 455 DGI, p. 767. 456 DGI, p. 815, ecco il corrispondente esatto del latino studium, con gli ideogrammi a significare lo “stato febbrile”, ossia la passione, che “nasce dal cuore”, ossia dal gusto. 457 DGI, p. 836. 458 DLIB, XX (2000), p. 593. 459 Funzione peggiorativa che si è sviluppata dal valore privativo dell’originale latino ex. Cf. Rohlfs, p. 352 (§ 1012). 460 DELI, V, p. 1301. 453 indica situazioni educative depresse che sono alla base di situazioni educative depresse, insufficienti.» (DPs) Riduzionismo. La situazione di arretratezza e di deprivazione a confronto con altri nell’ambito della stessa cultura, viene interpretato come una mancanza socioculturale (e non organica e genetica) del soggetto la quale è reversibile, favorendo condizioni sociali e culturali che permettono di acquisire le abilità non ancora possedute. Nella retorica di marca statalista, diffusa soprattutto negli ambienti puritano-calvinisti, lo svantaggiato rappresenta una responsabilità per l’intera comunità, sentita come causa della sua infelicità, mirando a compensare con l’organizzazione sociale la fondamentale mancanza dell’educazione delle virtù personali. SVILUPPO. Definizione. «Perfezionamento, miglioramento, progresso verso un superiore livello tecnico o metodologico, qualitativo, estetico o stilistico in un determinato ambito pratico o intellettuale. […] 2. Incremento, potenziamento di un’attività industriale, terziaria, agricola, di una produzione o più genericamente di un sistema economico. […] 4. Processo di crescita verso la piena maturità psicofisica, mentale, sessuale; irrobustimento del fisico, di una parte del corpo. […] 5. Processo di crescita fino alla compiuta formazione di un organo o di un organismo animale o vegetale. […] » 461 Etimologia. Entrato nella lingua italiana nel XVIII secolo (forse dall’Inglese o dal Francese), il termine sviluppo trova la sua origine nel latino tardo (X sec.) falŭppa definito “scarti di paglia minutissimi o ramoscelli minuti” incrociatosi con un derivativo del verbo volvere “avviluppare” e successivamente accresciuto dal prefisso estrattivo-durativo462. Riferimenti/rinvii. Alcune definizioni risentono di una generalizzazione eccessiva: «Accrescimento progressivo con riferimento ad organismi viventi o ad attività peculiari dell'uomo» (VLIDO); «Espansione, ampliamento, crescita, avanzamento, potenziamento, approfondimento» (DSCGar). Il carattere indeterminato della finalità di questo processo accrescitivo (se, cioè, tendente al raggiungimento di un’unità, o se verso un traguardo indefinito) favorisce l’equivoco delle caratteristiche ad esso connesse. Il significato specifico nell’ambito pedagogico appare nei dizionari specialistici: «Stadi che l'uomo attraversa dalla nascita alla maturità» (EP); «Processo formativo della persona sia per natura (maturazione, biologica, fattori ereditari) sia per motivi culturali, educativi (ambiente esterno).» (DPSE); «Comprende le tappe e i cambiamenti nella formazione dei sessi, trasformazioni notevoli sono: 1) accrescimento; 2) involuzione» (DPSaie); «Processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, funzione, e organizzazione per tre cause: 1) maturazione; 2) influenze ambientali; 3) apprendimento che avviene prendendo posizione attiva con l'ambiente» (DPs); «Non è 461 462 DLIB, XX (2000), pp. 626-627. Cf. AEI, p. 421; DELI, V, pp. 1304, 1438. Non attestato in DE. solo crescita pura e semplice ma spiegamento di predisposizioni non ancora formate, volte a raggiungere l'optimum qualitativo.» (DIP); in NDP è citato il pensiero di Hegel e Aristotele secondo i quali esso è causato da condizionamenti esterni attraverso cui l'uomo tende alla perfezione.463 Riduzionismo. Grazie agli equivoci sopra segnalati, abbiamo in questo caso l’intrusione di una sfera etica nel significato di sviluppo, estranea al suo significato naturale legato al processo di maturazione biologica. Tale intrusione ha generato un ‘termine slogan’, con le caratteristiche naturali ed ineluttabili del suo significato pedagogico associate a quelle etiche ed utilitaristiche evocate dalla sua accezione generale. Il risultato è stato così stigmatizzato: «La nozione di sviluppo, concetto maggiore e di marca Onu di metà XX secolo, è una parola chiave sulla quale si sono incontrate tutte le vulgate politico-ideologiche dei decenni Cinquanta e Sessanta. Ma è stata veramente pensata? Essa si è imposta come nozione chiave, nello stesso tempo evidente, empirica (misurabile con gli indici di crescita della produzione industriale e dell’elevazione del livello di vita), ricca (significando di per sé contemporaneamente crescita, espansione, progresso della società e dell’individuo). Ma non si è visto che da questa nozione era anche oscura, incerta, mitologica, povera.»464 TEST ATTITUDINALE. Vedi ATTITUDINE. TOLLERANZA. Definizione. «1. Capacità di tollerare ciò che è o potrebbe rivelarsi sgradevole o dannoso. […] 2. Disposizione d’animo per la quale si ammette, senza dimostrarsi contrariato, che un altro professi un’idea, un’opinione, una religione diversa o contraria alla nostra. […] 7. (dir.) implicita o esplicita concessione che il titolare di un diritto fa dell’esercizio dello stesso ad altri pur senza rinunciare all’esclusiva titolarità.»465 Etimologia. Dal latino tolerāre, “sopportare, sostenere; tollerare, resistere a; sostentare, sostenere, nutrire, mantenere”, legato al verbo tŏllere nel suo significato di “portare, sopportare”, che ha generato i latini tolerābile(m) “tollerabile, sopportabile; resistente”, tolerante(m) “tollerante, paziente, resistente” e tolerăntia(m) “capacità di sopportare, sopportazione, tolleranza”. «Questa famiglia di parole conobbe una larga espansione nel XVIII secolo, quando le dispute sulla tolleranza religiosa si fecero vivacissime»466 Riferimenti/rinvii. 463 “Sviluppo” (voce redazionale) in NDP, pp. 1213-1215. E. Morin, Sociologia … op. cit., p. 199. 465 VLIZ, pp. 1907-1908. 466 DELI, V, p. 1346. 464 Da dati su riportati appare evidente come la parola “tolleranza” - in qualità di concetto strumentalmente nato per sedare gli animi e le azioni in seguito alla riforma protestante - abbia avuto una notevole diffusione (che ne ha ampliato anche il campo del significato) in seguito a precisi eventi storici. Prima di quel periodo, il termine è scarsamente attestato ed in contesti limitati: in San Tommaso, ad esempio, si parla di tolleranza a proposito dei culti degli infedeli, ed all’asserzione di dover punire cotali culti, risponde che «il governo umano deriva dal governo divino e lo deve imitare […] i culti degli infedeli non sono da tollerare se non per evitare un danno peggiore: ossia per evitare che si verifichi uno scandalo, sorga un dissidio o un qualche ostacolo per la salute di coloro i quali gradualmente, in tal modo tollerati, sono convertiti alla vera fede. Proprio per questa ragione la Chiesa tollerò i riti pagani ed eretici, quando vi era un gran quantità di infedeli.»467 Le parole di San Tommaso vengono a coincidere quasi perfettamente con la definizione data da una moderna enciclopedia pedagogica, dove la tolleranza è definita come «L'atteggiamento pratico che pur condannando in linea di principio un modo di pensare o di agire giudicato erroneo, lo lascia sussistere per un motivo di rispetto verso la coscienza e la libertà altrui o di superiore comprensione per l'errare umano o di salvezza o, infine, per un motivo di convenienza pratica o di minor male»468. Pur essendosi diffuso soprattutto in ambito religioso, il problema della tolleranza in realtà non perviene alla religione, in quanto come già Tertulliano ricordava «non fa parte della religione imporre la religione»469. Prendiamo in esame alcuni degli esponenti più prestigiosi di questa riflessione che si sviluppò nell’ epoca segnata dallo strappo della riforma e dalla reazione della controriforma. Il concetto di tolleranza inizia ad essere investigato nelle sue differenti applicazioni e limitazioni: ove il governo ad esempio avesse attentato ai diritti naturali, proprietà e libertà in special modo, pensatori come Locke iniziarono a riconoscere ai ‘cittadini’ il diritto di insorgere, di non tollerare. Questo vero e proprio diritto di resistenza risultava estremamente diverso dall'analogo diritto propugnato da Calvino, fondato, quest'ultimo, sul primato della sovranità popolare. Dinnanzi al medesimo concetto, per il pensatore inglese l'uso del diritto di resistenza non tendeva a realizzare le aspirazioni popolari, ma a difendere o a restaurare l'ordine costituito. Il riconoscimento del diritto di resistenza era un mezzo per indurre alla riflessione il principe e far rispettare la legalità, come evidenziato anche nella Lettera sulla tolleranza, una delle sue opere più note e più lette - anche al di fuori della stretta cerchia dei filosofi. In precedenza (1667), egli aveva composto un Saggio sulla tolleranza, dove di fatto giustificava una politica decisamente repressiva nei confronti dei cattolici che però non coinvolgesse i non conformisti. In modo paradossale (visto anche il titolo dell’opera), secondo Locke i cattolici non andavano tollerati perché erano politicamente pericolosi e i magistrati civili avevano il dovere di intervenire per proteggere i membri della società da pericoli politici. Il vero problema per lui consisteva nel mostrare che i doveri dei magistrati non erano in conflitto con la religione e che i non conformisti non erano politicamente pericolosi470. «[…] humanum regimen derivatur a divino redimine, et ispum debet imitari. […] infidelium ritus, […] non sunt aliqualiter tolerandi, nisi forte ad aliquod malum vitandum: scilicet ad vitandum scandalum vel dissidium quod ex hoc posset provenire, vel impedimentum salutis eorum, qui paulatim, sic tollerati, convertuntur ad fidem. Propter hoc enim etiam haereticorum et paganorum ritus aliquando Ecclesia toleravit, quando erat magna infidelium multitudo.» ST, secundae secundae, Qu. 10, A. 11, p. 1139. 468 EF, VIII, p. 264. 469 M. Lettieri, Dizionario delle idee, dei pensieri e delle opinioni, Novara, De Agostini, 1991, p. 653. 470 «Tutto il mandato, il potere e l'autorità del magistrato gli sono devoluti perché non li usi se non per il bene, la conservazione e la pace degli uomini nella società alla quale è preposto. Questo solo perciò è e dovrebbe essere la regola e la misura sulla base delle quali egli dovrebbe ritagliare e commisurare le proprie leggi, modellare e strutturare il suo governo. Perché, se gli uomini potessero vivere pacificamente e quietamente insieme, senza unirsi sotto certe leggi ed entrare in uno Stato, non ci sarebbe affatto bisogno di magistrati o di politica, che furono fatti solo per salvaguardare gli 467 Sosteneva inoltre che ogni aspetto della vita religiosa, credenza o atto di culto, dovesse essere tollerato perché la distinzione tra aspetti essenziali ed aspetti indifferenti della religione spetta a ciascun credente e non ai magistrati. Pertanto, conclude il ragionamento Locke, devono essere tollerate tutte le credenze, perché non hanno conseguenze pratiche e tutte le azioni, alle quali chiunque può dare il significato religioso che vuole, purché non siano nocive per la società o, in generale, trasgrediscano la morale o perché in circostanze particolari costituiscano un pericolo471. Più o meno nello stesso periodo della Lettera sulla tolleranza, tra il 1686 e il 1688, Bayle, che si era rifugiato a Rotterdam per sfuggire alle persecuzioni di Luigi XIV faceva uscire le diverse parti del Commentaire philosophique sur ces paroles de Jesus-Christe; poco prima, nel 1670, era stato pubblicato il Tractatus thelogico-politicus di Spinoza. L'insieme di questi tre testi costituisce il contributo più rilevante alla teoria della tolleranza elaborata nel corso del XVII secolo - sotto la pressione dei problemi generati dalla fine dell'uniformità religiosa europea che la riforma protestante e le guerre di religione avevano causato – in quanto in tutt’e tre si prevedeva la possibilità che uomini di credi religiosi differenti potessero convivere nella medesima comunità politica; ciò non toglieva tuttavia che i loro autori fossero consapevoli dell'importanza che la religione come strumento di governo rivestiva nella società loro contemporanea. Spinoza, ad esempio, riconosceva che la religione pubblica, costituita dai riti e dall'organizzazione ecclesiastica, fosse uno strumento efficace di garanzia dell'unità politica e dell'obbedienza dei membri della comunità nei confronti dell’autorità politica, e per questo auspicava fosse messa sotto il di essa controllo, tuttavia, nel caso si fosse trattato di credenze puramente speculative, la libertà di pensiero e di parola dovevano essere totali. Bayle in compenso, fin dalle Pensées aveva messo in dubbio che la religione fosse una componente essenziale della società umana, asserendo che anche gli atei avrebbero potuto vivere bene in comunità. Egli avvertiva la fede religiosa come un pericolo per la società politica per la difficile controllabilità di soggetti provvisti di convinzioni che potevano giustificare comportamenti anche violenti. Era questa la ragione per la quale la religione fondata sulla coscienza avrebbe dovuto trovare un limite nel rispetto delle regole morali che, da sole, garantiscono la convivenza tra gli uomini. Sia pure con prospettive diverse, entrambi Spinoza e Bayle affidavano a una società politica indipendentemente dalla credenze religiose la tutela della libertà dei cittadini dalle persecuzioni e la loro stessa libertà religiosa. Anche Locke riteneva che la professione religiosa dei governanti non dovesse ispirare il loro comportamento e che la fede dovesse essere rispettata nel modo più completo; ma, aggiungeva, gli aspetti pubblici della religione e le cerimonie avrebbero dovuto essere disciplinati in misura minima, perché la tolleranza poneva dei limiti allo stesso potere politico472. Tutti e tre, in nome della tolleranza, ritenevano che la fede, intesa come adesione libera e volontaria, non potesse essere imposta e, per questa ragione, non potesse rientrare tra gli strumenti espliciti di governo, semplice mezzo per garantire la sicurezza o per esercitare il potere sulle persone e spogliarle all’occasione dei loro beni. uomini dal reciproco inganno e dalla reciproca violenza in questo mondo», J. Locke, Saggio sulla tolleranza, Bari, Laterza, 1994, p. 66. 471 J. Locke, Saggio … op. cit., p. 71. 472 Erano soluzioni del problema che si ispiravano ad esperienze storiche diverse tra loro. Spinoza, infatti, si richiamava all'arminianesimo originario, Boyle alla tradizione dei politiques, mentre Locke aveva alle spalle le complesse esperienze del protestantesimo inglese, dall'anglicanesimo liberale ai movimenti delle sette. Un presupposto comune a questi autori era, però, la netta separazione della sfera religiosa da quella politica. Questo fenomeno della tolleranza è stato, tra l'altro, analizzato da uno storico britannico specialista proprio dei secoli XVI e XVII, Henry Kamen, nel suo libro Nascita e sviluppo della tolleranza nell'Europa moderna473. Nella recensione del suddetto in Aceprensa n° 2 del 1995, viene notato il significato dato al termine tolleranza come «la concessione di libertà a chi è ignorante in materia di religione»474. Tale assunto è valido solo per il periodo studiato dallo storico britannico, in quanto fortemente condizionato dagli eventi storici esaminati. Tolleranza, infatti (sottolinea il recensore), significa permettere un comportamento con cui non si è d'accordo. Così non solo c'è tolleranza religiosa, ma anche tolleranza politica, sociale, artistica. In linea generale si può comunque dire che tolleranza significa permettere un comportamento con il quale non ci si trova d'accordo, anche avendo i mezzi per impedirlo. Il recensore conclude sottolineando il fatto che «questo tipo di tolleranza, basata in ultima analisi sull'incredulità, non ha un interesse immediato per noi»475. Il problema della tolleranza è stato sempre legato all’atteggiamento da assumere di fronte all’errore perpetrato da altri: su ciò i padri della Chiesa avevano elaborato la famosa distinzione tra errore e colui che erra. Non bisogna, a priori, rifiutare l'errore, limitandosi a convincere chi erra, non a forzarlo. A distanza di qualche decennio, da Locke, Spinosa e Bayle, un altro grande pensatore si cimenta con questo problema: Voltaire. Causato da un fatto di cronaca nera, inizia uno studio che lo porterà alla stesura del Trattato della tolleranza: Jean Calas, un protestante di Tolosa, era stato condannato e giustiziato il 9 marzo 1762 con l'accusa di aver strangolato il figlio Marc-Antoine per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo; la fine di Marc-Antoine, trovato impiccato ad un uncino, doveva presumibilmente attribuirsi a suicidio, ma il processo, fortemente condizionato, si concluse con la condanna a morte del padre. Voltaire si incuriosì della vicenda e, dopo un’accurata indagine, si convinse che Jean Calas era innocente e la sua crudele esecuzione era stato un vero e proprio assassinio legalizzato, ispirato a quel fanatismo religioso che egli aveva sempre odiato. Gettatosi dunque a corpo morto sull'affare Calas, per tre anni Voltaire profuse il suo denaro e la sua penna, mobilitando tutte le sue amicizie influenti (era pur sempre un aristocratico): dopo tre anni ebbe successo con la sentenza del Consiglio di Stato che annullava il verdetto di condanna, ed il nuovo processo conclusosi nel marzo 1765, che vide la completa assoluzione del Calas; la vedova e il figlio sopravvissuto del Calas uscirono di prigione ed ebbero anche una pensione a titolo di risarcimento da parte del governo Tale vicenda, oltre ad ispirare il Traitè sur la tolérence (1763), tutto incentrato quindi sul fanatismo politico e religioso, fece scrivere a Voltaire in una lettera al marchese di Chauvelin: «Tutto quello che osservo intorno a me è il seme di una rivoluzione che fatalmente dovrà scoppiare, della quale io non avrò la gioia di essere testimone. I francesi arrivano tardi in tutto, ma alla fine arrivano»476. H. Kamen, Nacimiento de la tolerancia en la Europa moderna, Madrid, 1987, p. 250ss. D’altronde lo schema usato dal Kamen è molto semplice ed equivale in gran parte all’opinione diffuse in certi ambienti laici, anche nostrani: all'inizio il cristianesimo è quasi sinonimo di tolleranza; poi, dopo il IV secolo diventa intollerante verso le altre religiosi e questo atteggiamento, con alti e bassi, dura sino al XVI secolo, all'inizio della riforma protestante. Lo scontro delle confessioni religiose, con le sue intolleranza, fa capire quanto sia necessaria la tolleranza che comincia a prendere piede in maniera evidente all'inizio del XVIII secolo. 475 R. G. Perez, “El nacimiento de la tolerancia” in Aceprensa n° 2, 1995, p. 2 ss. 476 P. Alatri, Introduzione a Voltaire, Roma, Laterza, 1989, p. 49 ss. Voltaire prosegue poi : «Quando lasciano queste pacifiche e libere assemblee - continua Voltaire - alcuni vanno alla sinagoga, altri a bere; l'uno va a farsi battezzare in una larga vasca nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l'altro fa tagliare a suo figlio il prepuzio, mormorando sul capo del bambino qualche parola in ebraico che non capisce, altri ancora si recano alla loro Chiesa con il cappello in testa in attesa dell'ispirazione divina e tutti sono contenti. Se ci fosse solo una religione in Inghilterra ci sarebbe il rischio del dispotismo, se ce ne fossero due la gente si taglierebbe reciprocamente la gola, ma in effetti ce ne sono trenta e tutti vivono felici e in pace». 473 474 Fin dalle Lettres philosophiques, prendendo di mira quello che considerava l'ostacolo principale all'affermazione di una società civile libera, cioè la superstizione ed il fanatismo religioso, aveva sviluppato l’indagine sul concetto di tolleranza che fornì un preciso inquadramento foriero di una possibile evoluzione. Famoso è, a tale proposito, il passo in cui il tema della tolleranza religiosa è legato ai traffici finanziari e commerciali: «Andate alla borsa di Londra, un posto più rispettabile di molte altre corti e vi troverete rappresentanti di tutte le nazioni riuniti là per promuovere il benessere degli uomini; là l'Ebreo, il Musulmano e il Cristiano trattano l'uno con l'altro come se fossero della stessa religione; le uniche persone che considerano come infedeli sono quelle che fanno bancarotta; là il Presbiteriano si fida dell'Anabattista e l'Anglicano accetta la promessa del Quacchero»477. La tolleranza secondo Voltaire «è la prerogativa dell'umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura»478. Nel Trattato sulla tolleranza i punti focali sono essenzialmente due: il richiamo costante agli altri, dove il rinvio a culture lontane nello spazio e nel tempo funge da specchio ustorio da rivolgere contro noi stessi, per mettere a fuoco le miserie della civiltà e le corruzioni del tempo presente e, il secondo luogo, l'insistenza sull’inconsistenza della religione479. La tolleranza, per Voltaire come per i suoi predecessori Locke e Bayle, consiste in primo luogo in un problema religioso dal momento che religiose sono le radici dell'intolleranza, perlomeno quelle che egli vede e pertanto è necessario capire, con l'aiuto di un'attenta ricostruzione storica, le ragioni di tale fenomeno: così Voltaire si chiede se l'intolleranza è di diritto naturale o umana, se fu praticata dai Greci e dai Romani. Alla prima domanda egli risponde sostenendo che il diritto naturale è quello che la natura indica a tutti gli uomini, mentre il diritto umano «non può in nessun caso fondarsi se non su questo diritto di natura». Dire “credi quello che io credo e che tu non puoi credere, altrimenti morrai” significa andare contro il diritto umano. «Se questa condotta fosse conforme al diritto umano bisognerebbe che il Giapponese esecrasse il Cinese che a sua volta esecrerebbe il Siamese, mentre il Mongolo potrebbe strozzare il Persiano, il quale potrebbe massacrare il Turco»480. Il diritto all'intolleranza risulta in tal modo assurdo e barbaro: «è il diritto delle tigri; è anzi ben più orrido perché le tigri non si fanno a pezzi per mangiare». Egli sostiene che né i Greci né i Romani furono intolleranti, e le persecuzioni, soprattutto ad opera di Nerone, contro i cristiani non furono persecuzioni religiose, ma giustificate in quanto, per lui, quello giudeo è «il popolo più abominevole del mondo». Sotto gli israeliti ci sarebbero solo i negri visti da Voltaire «appena un poco sopra delle scimmie». Nel saggio Dei costumi egli infatti scrive: «I negri sono per natura gli schiavi degli altri uomini. Essi vengono dunque acquistati come bestie sulle coste dell'Africa»481. Una ben strana tolleranza da parte di uno dei suoi maggiori corifei! Riduzionismo. Prima della riforma, dunque, il tollerare era proprio di chi era nel giusto, dopo la riforma anche – seppur su basi più sottilmente morali; ancora oggi l’accezione giuridica (citata nella definizione contrassegnata dal numero 7) indica chiaramente che il ‘tollerante’, solo per essere tale, si pone già su un piano diverso e superiore, rispetto al ‘tollerato’. Indubbiamente la tanto propagandata ‘virtù’ A. J. Ayer, Voltaire, Bologna, Le Edizioni del Mulino, 1990, p. 49 ss. Voltaire, Dizionario filosofico, Milano, Rizzoli, 1993, p. 355. 479 G. Marramao, “Prefazione” in: Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. xi. 480 Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 35. 481 Collegato quanto da lui pensato è il fatto che il filosofo francese, amministratore attento del suo grosso patrimonio, investì una somma considerevole in una compagnia di navigazione che esercitava il trasporto degli schiavi verso le Americhe. 477 478 dell’uomo moderno appare in tal modo coincidere con una fondamentale superbia intellettuale e culturale, venata di egoismo ed indifferenza. Non a caso, riprendendo lo studio fatto dal Kamen, il razionalismo del XVIII secolo, a suo parere, quando difendeva la tolleranza, non lo faceva perché “la considerava essenziale per la religione, ma perché la religione non era essenziale”. Questo è più o meno il sentire medio comune riguardo al problema. Lo stesso Voltaire, nella quinta delle sue Lettere filosofiche, parla della religione anglicana osservando che un Inglese, in quanto è un uomo libero, sceglie da sé il suo cammino verso il cielo; proseguendo poi contraddice però il valore di questa affermazione sottolineando che in Inghilterra o in Irlanda, se uno vuole trovare un lavoro, deve entrare a far parte della Chiesa di Inghilterra, con il risultato che il novantacinque per cento della popolazione agisce in tal modo. Voltaire sembra non aver notato che ciò rovescia l'immagine da lui proposta dell'Inghilterra come paese della tolleranza religiosa. Con tutta probabilità trascura il problema ritenendo l'appartenenza alla Chiesa d'Inghilterra un impegno non molto serio dal punto di vista religioso, quasi un problema ozioso. TRANSDISCIPLINARITÀ. Vedi CULTURA, DICIPLINA. VALORIZZAZIONE. Definizione. «Operazione volta ad accrescere il valore di un bene attraverso migliorie, interventi in grado di sfruttare potenzialità in precedenza trascurate, propaganda pubblicitaria, ecc. […] 2. Il mettere una persona nelle condizioni di esprimere appieno le proprie qualità, capacità, doti, ecc. […] 4. Banc. Avvaloramento di un titolo di credito o di un assegno.»482 Le prime due definizioni indicano chiaramente il principio assunto come terzo elemento fondamentale della Pedagogia (v. Fioravanti cap. IX). Etimologia. Termine di recente creazione (seconda metà del XX secolo, deverbale dall’ugualmente recente valorizzare, attestato per la prima volta nel 1922, e sostituto dell’iniziale valorizzamento), trova la sua origine nel sostantivo valore, il quale è presente nella lingua italiana dall’inizio del XIV secolo con il significato di «complesso delle qualità positive in campo morale, intellettuale, professionale per le quali una persona è degna di stima»; a sua volta il sostantivo rimonta al verbo latino valēre, dapprima con il significato di “esser forte”, poi di “star bene”483. L’altra accezione del termine, con riferimento al semplice processo di accrescimento, accumulo è invece espresso dal verbo latino addĕre = “valorizzare, dare oltre, aggiungere”484. Riferimenti/rinvii. Da come appare evidente nella definizione, si possono rintracciare due prospettive distinte: nella prima, con valorizzazione si indica un sostegno, un aiuto al passaggio dalla potenzialità all’atto, ossia nella tendenza a raggiungere un’integrità, presente prima solo in potenza, più vicino al significato della matrice latina; nella seconda accezione, l’importanza è data dal puro accrescimento rispetto ad un valore dato di partenza. In alcuni vocabolari troviamo entrambi i generi di significato: «1. 482 DLIB, XXI (2002), p. 645. DELI, V, p. 1410. 484 Con esempi quali Addere in orationem quaedam = fare aggiunte al discorso (Cicerone) 483 Apprezzamento, esaltazione; […] 2. sfruttamento, utilizzazione» (DF); «con valore analogico = rivalutazione; come sinonimo = risaltare» (DSCGar); «1.Atto del mettere in valore, del far aumentare il valore; […] 2. Atto del rendere più importante, del far figurare meglio, del consentire ad una persona di esprimere completamente le proprie qualità.» (VLIZ). Riduzionismo. La semplificazione del significato, come appare in taluni vocabolari, scivola talvolta verso una concezione puramente economica, trascurando l’aspetto ontologico dell’ausilio al passaggio dalla potenza all’atto: «Azione di valorizzare un risultato» (VLIDO). Significativamente non è attestato in NDP. VALUTAZIONE ATTITUDINALE. Vedi ATTITUDINE.