PARTITO CSP Data NASCE, A LECCE, IL FRONTE DELLA GIOVENTU’ COMUNISTA! LECCE E PROVINCIA di Francesco COLACI revolution NUMERO 0— DICEMBRE 2012 Volume 1, Numero 1 COMUNISTA Vi è presente oggi, nel panorama politico nazionale, una classe dirigente che crede di poter fare politica attraverso alleanze con forze che appoggiano i governi delle austerità. Noi giovani siamo stanchi di questo riformismo malato e fine a sé stesso, un riformismo che dà strapotere ai mercati e in cui la forza popolare non conta più nulla, che salva il sistema bancario a discapito degli studenti, dei precari e dei disoccupati. La vera politica, quella moderna e di città, si pratica nelle strade, tra i cittadini, aiutandoli a risolvere le questioni sociali più aspre, tra le “micro” e le “macro” vertenze. Questo panorama è presente, a maggior ragione, in una città del Sud Italia quale Lecce, in cui la gente non ha voce in capitolo, in cui la pseudopolitica è affidata esclusivamente agli ambienti imprenditoriali e del malaffare. Fortunatamente le nuove generazioni avvertono un grande bisogno di cambiamento, sognano una realtà migliore, dove vi sia realmente una forma di democrazia partecipativa, in cui dopo tanto tempo, allo scopo di lucro, si sostituisca il fine della realizzazione di una società più giusta. Per questo motivo, io e altri giovani militanti, accomunati da un grande ideale, e avendo a cuore le problematiche della nostra città, abbiamo scelto di dar vita, qui a Lecce, al Fronte del- Associazione di volontariato Società Operaia per la Valorizzazione degli Interessi Economici e Territoriali la Gioventù Comunista; un’associazione ormai radicata a livello nazionale (Roma, Milano ecc..), che sta portando avanti battaglie sociali importantissime, dal diritto allo studio alla p re c a r i e t à g i o v a n i l e . L’entusiasmo è tanto, così come la speranza di cambiamento; siamo dunque pronti a mettere in campo le nostre forze e a portare, qui a Lecce, le lotte sociali dei cui frutti, in questo momento, migliaia di ragazzi hanno bisogno. Alla politica delle promesse e delle parole, preferiamo quella dell’azione concreta e dei risultati. Siamo quello che facciamo! x info ed adesione: 3202117348 “IL GOLPE EUROPEO” L’ultimo libro di Marco RIZZO In libreria X info e richieste copie: 338 3578399 [email protected] COORDINAMENTO COMUNISTA SALENTINO X info e adesioni: 3202117348 X info e adesioni: 3331761370 [email protected] [email protected] Francesco Colaci Marco Delle Rose IL COMUNISTA ANTONIO GRAMSCI Di Maurizio Nocera Nella storia dell’Italia del Novecento c’è una pagina orribile e incancellabile: quella del fascismo mussolinista. Si tratta di una pagina che il popolo italiano subì con conseguenze inenarrabili, rintracciabile anche nella vicenda politica e umana di Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista d’Italia (Livorno, 21 gennaio 1921). Gramsci fu impunemente arrestato (8 novembre 1926) e incarcerato in quanto comunista, in quanto difensore della classe operaia e dei diritti fondamentali del nostro popolo. Il suo arresto e la sua incredibile detenzione fu voluta in primo luogo da Benito Mussolini che, non solo per questo ma anche per questo, è oggi considerato un criminale politico. Sconcertante e priva di qualsiasi prova documentale è la condanna, accettata poi dalla corte giudicante, del pubblico ministero che, a conclusione della sua requisitoria al Tribunale speciale del 1928 (processo agli antifascisti), richiesta motivandola così: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Così dicendo fece condannare Gramsci a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione «per attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe». Tutti reati di cui Gramsci non poteva essere imputabile, perché la sua battaglia egli l’aveva condotta alla luce del sole. Per di più, non va dimenticato che egli, quando venne arrestato, era deputato comunista (eletto il 6 aprile 1924) quindi, tanto per dire, protetto dall’immunità parlamentare. Quello che i fascisti non sopportarono di Gramsci fu quanto egli era riuscito a capire del loro movimento, smascherandolo sin dai suoi esordi. Ecco quanto egli scrisse a tale proposito: «Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della pratica tradizionale delle classi dirigenti italiane e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia» (v. A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista, Einaudi 1978, p. 495). In quegli anni, Gramsci aveva un riferimento ben preciso di come dovesse essere organizzata l’Italia unita post risorgimentale. Non più governata dall’inadeguata aristocrazia, finita nel pattume della storia dalla Rivoluzione Pagina 2 francese del 1789, né tanto meno dalla già corrotta borghesia, ma governata dalla classe operaia e dai suoi alleati (in primo luogo i contadini e le masse rurali o della campagna in genere), attraverso la più alta forma di democrazia sperimentata fino a quel momento e che egli, intelligentemente, aveva intuito: i consigli di fabbrica e la repubblica consiliare. Secondo Gramsci, la conquista del potere politico della classe operaia doveva avvenire attraverso un’azione egemonica che puntasse all’abbattimento dello stato borghese e all’instaurazione della dittatura democratica del proletariato, forma di organizzazione sociale questa prioritaria, attraverso la quale successivamente avviare la costruzione della società socialista di transizione. Fu fondamentalmente questo il motivo per cui la mente di Gramsci, secondo i caporioni fascisti, non doveva più pensare e per questo fu condannato incredibilmente a quella severa pena che per lui significò la morte. Erano quegli gli anni ’20 e i fascisti organizzavano in tutto il paese persecuzioni e repressioni. Il 28 ottobre 1922 c’era stata la marcia su Roma e Mussolini era stato nominato capo del governo da un re savoiardo imbelle e incapace di capire quel che stava accadendo nel paese. La prima manifestazione violenta degli squadristi nel Salento si ebbe a Gallipoli, nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, dove fascisti gallipolini, aiutati da loro ca- merati di Lecce, Taviano e Tuglie, diedero l’assalto alla sezione socialista: scardinata la porta, la invasero e, dal balcone, gettarono sulla sottostante piazza Imbriani, mobili, documenti, opuscoli di propaganda e suppellettili facendone un falò. La bandiera della sezione socialista fu ridotta a brandelli e la popolazione venne zittita con minacce e aggressioni. Le successive manifestazioni che seguirono portarono all’uccisione, sempre per mano fascista, dell’accalappiacani comunale Sanfelice. È questo il primo omicidio che sarà perpetrato dagli squadristi salentini in Terra d’Otranto. Ne seguiranno altri, come d’altronde accadrà nel resto d’Italia con l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, e poi quelli dei liberali Piero Gobetti e Giovanni Amendola, dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, del prete Giovanni Minzoni (parroco di Argenta), di molti altri ancora. I mussolinisti, attraverso i loro Tribunali speciali, comminarono 28.000 anni di carcere e confino a migliaia e migliaia di lavoratori, spesso semplici cittadini. Furono arrestati, torturati, spesso uccisi cattolici, repubblicani, anarchici, marxisti. In tutto furono 42 i fucilati nel ventennio su sentenza del Tribunale Speciale. Come dire: una barbarie omicida. A pagare uno dei tributi più alti a tanta ferocia furono i comunisti, cioè quelli che si mostrarono più conseguentemente antifascisti e tra loro, a pagare con la vita, fu Antonio Gramsci, morto il 28 aprile 1937 dopo oltre dieci anni di carcere duro. Quando, l’8 novembre 1926, fu arrestato, egli era già sposato (1923) con la russa Julka Schucht, dalla quale aveva avuto due figli, Delio e Giuliano, il secondo dei quali non fu mai da lui conosciuto. A questi due bambini, Gramsci inviò delle toccanti lettere dal carcere che, raccolte in volume, divennero uno dei libri più belli (ancora oggi lo è) del Novecento, L’albero del riccio. Per di più egli, nel momento in cui venne arrestato, era già deputato al Parlamento italiano, eletto il 6 aprile 1924, quindi parlamentare con la tutela dell’immunità parlamentare. Gli anni più lunghi della sua reclusione Gramsci li trascorse nel carcere di Turi (Bari) dove, a partire dal febbraio 1929, fu detenuto con la cifra n. 7.047. Furono questi anni, appunto durissimi, che segnarono il suo corpo, peraltro già minato sin dall’infanzia dal morbo di Pott, a cui, a partire dal 1931, si aggiunse l’arteriosclerosi. I medici fascisti sapevano di questi suoi gravi malanni, e tuttavia non R E V O L U TI O N “ODIO GLI INDIFFERENTI” “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che di Antonio GRAMSCI la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. 11 febbraio 1917 GRAMSCI E L’UNITA’ D’ITALIA di Francesco TRINCHERA Nella sua lunga carriera di pensatore politico e storico Gramsci ci fornisce un quadro preciso del processo di unificazione dell'Italia. Nei suoi quaderni dal carcere, precisamente il secondo volume, intitolato per l'appunto "Sul Risorgimento" il padre del comunismo italiano ci fornisce una dettagliata analisi di quel processo, che lui lontano da ogni politica patriottarda descriveva come una mossa imperialista per soggiogare il mezzogiorno e le sue risorse. Gramsci era ben lungi dal sostenere la monarchia borbonica, ed era altrettanto lontano dal negare la necessità di un'unità italica che già con Dante aveva trovato un piano comune linguistico, e territoriale ancor prima se pensiamo a Roma. Gramsci critica i metodi e le motivazioni reali che portarono all'unità. Essa non fu figlia di un ideale romantico e patriottico bensì fu una mossa presa di comune accordo tra inglesi e piemontesi. I primi tolti di mezzo i Borbone avrebbero avuto il predominio delle tratte commerciali sui mari i secondi, ormai quasi in bancarotta per i debiti accumulati nel fornire supporto militare nella guerra in Crimea avrebbero visto rimpinguarsi le proprie casse. Nel 1859 tra Lombardia e Sardegna si arrivava alla presenza di 35 milioni di monete, contro le 443 presenti nelle Due Sicilie. Anche i dati inerenti all'analfabetismo erano importanti, ogni 10.000 abitanti, 7.000 piemontesi non sapevano leggere e scrivere, contro i 5000 delle Due Sicilie. Inoltre il problema della disoccupazione che nelle Due Sicilie era inesistente (1.189.000 impiegati nell'industria e 2.569.000 nell'agricoltura) invece gravava pesantemente sul Regno di Sardegna che aveva 345.000 lavoratori nelle industrie e 1.341.000 nell'agricoltura. Il debito pubblico piemontese, sopratutto in conseguenza della sopracitata guerra in Crimea dal 1847 al 1861 ebbe un aumento del 565%, contro il 26% duosiciliano. Lo spolpamento delle ricchezze meridionali avvenne già con un aumento postunitario delle tasse. Le tasse provinciali aumentarono da 6000 a 40.000 lire. Venne ristabilito il latifondo, precedentemente cancellato per regio decreto borbonico. Questi semplici dati matematici ci danno un quadro preciso di quella che era la situazione economica nell'Italia preunitaria e ci danno già un idea di quali sono stati i veri motivi economici e politici che hanno spinto Cavour e Garibaldi ad assalire il Regno di Napoli. Ebbene si perchè fu proprio un assalto militare, che lontano dalla retorica, fu pieno di stragi, come quella di Pontelandolfo e Casalduni, o quella di Bronte. Il colonello Negri, famigerato per le stragi da lui ordite, non faceva risparmiare ai suoi bersaglieri nemmanco donne, bambini e addirittura animali da allevamento. Addirittura si ha all'unità il triste primato di aver inventato il campo di concentramento. A Fenestrelle interi vagoni di soldati meridionali approdavano, e come in un precursore di Awschwitz vigeva il motto "Ognuno non vale in quanto è ma vale in quanto produce". I soldati incapaci per il decadimento fisico di lavorare venivo chiusi in celle a morire di stenti o divorati dai topi. Che l'unità andasse fatta non c'è dubbio, ma le metodiche e le motivazioni che hanno spinto Cavour a realizzarla sono fortemente criticabili, e dobbiamo al coraggio e all'onestà intellettuale di Gramsci queste approfondite ricerche ed analisi. Sarà bene che il lettore quando si troverà di fronte ai dati allarmanti della situazione attuale del mezzogiorno sappia cosa era stato questo un tempo, e come si è arrivati in queste condizioni, non possiamo perciò che consigliare la lettura dei quaderni dal carcere come base storica e politica per ogni militante che si definisca comunista e rivoluzionario.