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Civiltà della scrittura
n. 21, gennaio/marzo 2011
già «Rivista degli Stenografi»
fondata a Firenze nel 1877
Organo trimestrale della
Fondazione Francesco e Zaira Giulietti
di cultura stenografica, calligrafica,
grafica e linguistica
Redazione ed Amministrazione
Via dei Cairoli 16/C - 50131 Firenze
Tel. 339.4262820
www.fondazionegiulietti.it
E-mail: [email protected]
Direttore responsabile
Paolo A. Paganini
Direttore editoriale
Nerio Neri
Hanno collaborato a questo numero:
Francesco Ascoli
Indro Neri
Patrizia Pedrazzini
Sergio Sapetti
Gian Paolo Trivulzio
Anna Maria Trombetti
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n. 3604 del 22/7/1987
––––––––––––
Fondazione Francesco e Zaira Giulietti
per lo studio, la promozione e la divulgazione
delle scritture comuni e della stenografia
Gabelsberger-Noe
Riconosciuta con D.P.R.
n. 310 del 19-1-1983
Sede legale
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Consiglio di Amministrazione
Presidente Prof. Paolo A. Paganini
Vice Presidente Dr. Gianluca Formichi
Segretario Nerio Neri
Consiglieri
Prof. Giorgio Spellucci
Dr. Federico Sposato
Prof.ssa Anna Maria Trombetti
Collegio Revisori
Dr.ssa Cristina Dattoli
Dr. Gianluca Borrani
Dr. Enzo Rook
1
Paolo A. Paganini
Le generose battaglie di Andrea Innocenzi
contro i mulini a vento dell’ignoranza
6
Gian Paolo Trivulzio
Il gabelsbergeriano Mario Boni amato più
dai “nemici” che dagli amici
9
Paolo A. Paganini
Scritte erotiche e libertine dai graffiti di
Pompei alla Legge Merlin
14
Paolo A. Paganini
Andar per mostre e libri
16
Patrizia Pedrazzini
Il rischio dei media:
anestetizzare con la mediocrità.
Ma la vita non è un reality
19
Anna Maria Trombetti
Piccoli segni per grandi idee.
E la Stenografia diventa
Stenokalokagathia
22
Francesco Ascoli
La Calligrafia nella scuola italiana
dall’Unità alla Seconda guerra mondiale
(parte prima)
26
Sergio Sapetti
Sotto la lente del grafologo anche la
stenografia va in analisi
(parte prima)
29
Paolo A. Paganini
Fuori la lingua
31
L’angolo dei giochi
32
Indro Neri
Navigando.
Miniere elettroniche
La collaborazione è aperta a tutti. I manoscritti e le fotografie
non si restituiscono in nessun caso. Gli articoli firmati riflettono
le opinioni dei loro autori: non necessariamente queste coincidono con le opinioni della Direzione. La Direzione si riserva di apportare eventuali tagli agli articoli ricevuti, per motivi di spazio.
Le generose battaglie di
Andrea
Innocenzi
contro i mulini a vento
dell’ignornza
di PAOLO A. PAGANINI
Sabato 15 gennaio è mancato, all’età di 94 anni, Andrea Innocenzi. Era nato a Foligno il 7 aprile 1917. Dopo il diploma di perito elettronico conseguito a Fermo, si era
laureato in Economia e Commercio a Perugia. Fu insegnante di materie tecniche e
Direttore nelle scuole di Avviamento professionale industriale. Studioso di grafia, ha
pubblicato saggi e libri sulla stenografia e sulla scrittura comune, interessandosi anche strenuamente della prevenzione degli incidenti stradali. Scrisse nel 2001 un libro
storico biografico di successo, “L’Alleato – Il valore e la fedeltà degli italiani nella
Campagna d’Africa 1940-42”, un commosso e tragico diario di guerra.
E
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
ro legato ad Andrea Innocenzi da
mezzo secolo di consuetudini stenografiche e amicali, sempre l’un contro
l’altro armati e sempre, infine, vinti nella
rappacificante tenerezza d’un abbraccio
(Peccato che ci si debba “punzecchia-
1
re”, quando potremmo e dovremmo collaborare per il trionfo della Stenografia…, concludeva in uno scritto del
1996). Era Socio fondatore della Fondazione “Francesco e Zaira Giulietti” e
presidente onorario della stessa. Per oltre
venticinque anni ci siamo confrontati,
nell’ambito della Fondazione, su molte e
complesse problematiche organizzative e
programmatiche, sempre da lui sostenute
con una passione a volte scontrosa, altre
volte puntigliosa, ma sempre leale e coerente. Da qualche anno, l’età e problemi
di salute l’avevano costretto a lunghe e,
poi, a definitive assenze. Ed era venuta
meno una presenza attiva, dinamica, dialettica, passionale, trascinatrice e irriducibile nella difesa ad oltranza delle proprie idee.
Mentalità laica e pragmatica, guardava con realistica e pugnace determinazione ad alcuni punti fermi, che considerava cardini inalienabili di una coerente
fede culturale, come vedremo più avanti.
Nell’ambito della Fondazione e in pubblici consessi ha sempre combattuto, lui
gabelsbergeriano, un certo bigottismo
gabelsbergeriano, del quale denunciava
quell’intrinseco immobilismo dovuto a
un conservatorismo della Scuola che, secondo Innocenzi, paralizzava ogni spinta
La pagina
introduttiva di
“Stenografia
culturale”
(1968)
riformista, di semplificazione e di adeguamento ai nuovi tempi.
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
C
2
oerentemente con un ideale di fervorose innovazioni, amico personale e fedele di Francesco Giulietti (strenuo e granitico difensore d’ufficio del sistema Gabelsberger-Noe), Innocenzi
aveva pubblicato una pregevole grammatica semplificata del sistema G.N., Stenografia culturale, 1968, alla quale seguirono, nel 1961 e nel 1978, due eleganti edizioni di Stenografia per l’autodidatta; e, nel 1971, un prezioso trattato
di tecnica e di didattica stenografica,
Unità della scrittura; nel 1991, La stenografia dei posteri.
Sulla spinta di un indomito entusiasmo culturale, con un’insistenza molto
prossima all’accanimento (quando
piantava un chiodo, non demordeva), si
era poi prodigato perché venissero conosciute tutte le carte ancora inedite di
Francesco Giulietti, in particolare una
imprevedibile grammatica semplificata,
“Studio per una nuova espressione della stenografia corsiva GabelsbergerNoe”. Opera tanto più sconcertante in
quanto il noto studioso, fedele e riconosciuto custode del sistema Gabelsberger-Noe, si era sempre opposto, tutta la
vita, a ogni proposta o ipotesi di riforma
e di semplificazione del sistema. In
realtà, a onor del vero, lo studio di Giulietti risultava in un certo senso una geniale sperimentazione di laboratorio
(come ammetterà), quasi a voler dimostrare a se stesso l’impossibilità di met-
ter mano all’edificio gabelsbergeriano,
senza distruggerlo, tanto che, come prefatio allo “Studio”, volle chiarirne appunto le intenzioni, non come proposta
di riforma, ma come esperimento. E la
tenne chiusa nel cassetto fino alla morte. Innocenzi, fedele alla consegna morale di valorizzare le opere del Maestro,
tanto insistè che infine vinse ogni resistenza del Consiglio d’amministrazione
della Fondazione. E lo “Studio”, insieme con altri scritti inediti del Giulietti,
venne giustamente pubblicato e commentato sulla nostra rivista, non come
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Alcuni esempi
di script,
raffrontati con
analoghe scritture
europee (1997)
3
opera eversiva, ma come innegabile
contributo alla conoscenza del Maestro
Giulietti.
E
ppure Innocenzi (e non solo lui) ne
rimase poi sconcertato. La Scuola e i
cultori della stenografia gabelsbergeriana neanche si accorsero dell’avvenimento editoriale. Una totale mancanza d’interresse. Non una polemica, nemmeno
una critica, tanto meno un cenno di consenso. Una generale indifferenza al pur
rivoluzionario “Studio”.
L’indifferenza, sappiamo, è stato il
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Un altro studio di
Andrea Innocenzi,
rivolto a una
scrittura
abbreviata con
una macchina per
scrivere sillabica
4
cancro che ha intaccato nel profondo le
radici stesse della cultura italiana.
A
ndrea Innocenzi non si è mai rassegnato all’indifferenza. Era anzi capace di vibranti indignazioni, cercando
sempre nuove spinte propulsive per aprire varchi nell’accidioso muro dell’indifferenza.
E, fra le tante, aprì una nuova bellicosa campagna contro l’ignoranza di
Stato a difesa della scrittura comune,
conscio che una nuova barbarie di selvaggi tecnocrati multimediali aveva forse definitivamente affossato il gusto e il
piacere della cosiddetta bella scrittura.
Ebbene, male per male, pensava probabilmente Innocenzi, tanto valeva accet-
tarne le conseguenze cercando di imporre, dal di dentro, nuove regole grafiche.
Si dedicò, così, a una intensa pubblicistica a favore del cosiddetto “script”, cioè
lo stampatello, maiuscolo e minuscolo,
ormai universalmente adottato, o tollerato, dalla stessa scuola d’ogni ordine e
grado in virtù d’un presunto facilismo
grafico e d’un equivoco senso della libertà personale.
Con rigore scientifico, pubblicò, sull’argomento, La scrittura Leonardo, per
promuovere una scrittura per mancini
(1979), La scrittura dei posteri (1991),
Scrittura sillabica, come contributo alla
celerità di scrittura e rapidità di lettura
(1995), e poi La scrittura script per destrimani e mancini (1997). E, inoltre, un’infinità di saggi, di progetti e di Quaderni.
Sempre a proprie spese.
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
M
5
Il Consiglio di
Amministrazione
della
Fondazione
Giulietti si
associa,
commosso, al
cordoglio dei
familiari per
la scomparsa
del prof. dott.
Andrea
Innocenzi,
illuminato
uomo di
cultura e
appassionato
cultore delle
scritture
veloci,
socio
fondatore
della
Fondazione e
suo Presidente
onorario.
a la degenerazione della scrittura,
sia come bello scrivere sia come
applicazione corretta e sistematica dello
script, dopo lo scempio di Stato con la
soppressione della Calligrafia, è stata
inarrestabile e gli studi dell’Innocenzi,
che peraltro avevano i caratteri di una illuminata preveggenza, risalendo fin dagli anni Sessanta (incoraggiati dallo stesso Giuseppe Aliprandi, con articoli su
“Studi Grafici”), finirono anch’essi nel
dimenticatoio dell’ignoranza e dell’indifferenza.
E i giovani continuarono a scrivere
male.
E a morire.
La morte dei giovani sulle autostrade è
stata un’altra delle angosciose campagne
di Andrea Innocenzi a qualsiasi livello istituzionale, statale e ministeriale, scrivendo
al Ministero dei Lavori Pubblici (6 agosto
1988; 16 gennaio 1990; 5 novembre 1993;
2 febbraio 1995; 5 giugno 1996; 6 ottobre
2000) e allo stesso Presidente della Repubblica (9 gennaio 2002). Studi sulla velocità, sulle incongruenze del Codice della
Strada, sui diagrammi di frenata in caso di
tamponamento, sulle diverse condizioni
del terreno eccetera, sono stati un’altra
martellante campagna con i toni sinceri e
ispirati di una guerra santa. Ma tutti continuarono a correre. E a morire.
Sull’argomento ha lasciato intensi e
meticolosi scritti tecnici, come Coefficiente di sicurezza dei viaggi (1992), Per
non morire sulla strada (1993), Mancanze imperdonabili (1996), con il risultato
di lasciare, da una parte, le autorità competenti nel limbo di una cinica indifferenza e, dall’altra, il suo ingenuo e poetico entusiasmo nel proseguire, senza tentennamenti, nella sua indomita e sbigottita campagna contro le tragedie della
strada.
Alcuni anni fa, nel 1997, dopo un ennesimo “scambio di opinioni”, mi scriveva: “Ieri, a Firenze, mi ha fatto piacere
sentirti dire: Non ce l’ho con te… In
quanto alla mia stima nei tuoi confronti,
non credo che tu possa avere dei dubbi.
Solo mi duole che tu sia contrario ad
ogni “innovazione” del sistema G.N...
Vorrei, almeno, che tu apprezzassi il lavoro da me compiuto da molti anni…”
Ora, Andrea Innocenzi, moderno, generoso Don Chisciotte contro i mulini a
vento dell’ignoranza, dell’indifferenza,
della grettezza intellettuale, dei tabù culturali, delle viltà ideologiche, delle ammuffite conventicole, delle ipocrite piccinerie morali, non è più. Mi rimane il rimorso di non avergli voluto bene con altrettanta generosità. Non importa. Questa
volta non se la prenderà. Lui, ora, sta già
polemizzando con i cari compagni di tante lotte, con Aliprandi, con Giulietti, con
Rodriguez, con tutti gli altri Maestri che
l’hanno preceduto. Ma, probabilmente,
ora sarà anche in pace con se stesso. Lassù, non c’è niente da innovare, da riformare. Il sistema è perfetto...
Il gabelsbergeriano
Mario
Boni
amato più dai “nemici”
di GIAN PAOLO
TRIVULZIO
che dagli amici
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
S
6
ul n. 20 di Civiltà della scrittura, Paolo Paganini ha tracciato una piccola storia
delle riforme. Le riforme di cui parla sono quelle relative al Sistema Gabelsberger-Noe. E i miei ricordi mi portano ai primi anni ’60, in occasione della cerimonia di
inaugurazione dei corsi al Magistero stenografico di Milano, quando, dopo la seduta
d’apertura e i discorsi inaugurali, la giornata si concludeva con un pranzo.
Tali incontri conviviali erano, come sempre, l’occasione per nuove conoscenze,
per scambi di idee. In una di esse mi ritrovai a fianco a un signore che non era stato
presentato durante la cerimonia, sia pure salutato da molti dei presenti anche se avevo
notato con un certo distacco. Ci presentammo e quando udii il nome, Mario pranzo e decidemmo di incontrarci ancoBoni1, mi venne spontaneo dire: “I suoi ra. A questo secondo incontro ne seguilibri mi hanno molto aiutato a capire il rono alcuni altri, io lo invitai ad una consistema Gabelsberger Noe”. Abbastanza ferenza da me tenuta per insegnanti a Tomeravigliato mi chiese quali libri avessi rino, alla quale diedi il titolo di ‘Velocità,
letto e gli dissi che il prof. Rodriguez per imperativo della tecnica e della didattica
la mia preparazione agli esami di abilita- stenografica’. Analogo invito avevo indizione all’insegnamento mi aveva regala- rizzato a diverse altre persone del nostro
to la Grammatica ragionata e Trattato mondo di allora, e non mi attendevo
completo di abbreviazione logica (v. pag. francamente una presenza, ma ebbi il
a lato). Entrambi mi furono molto utili. piacere di vederlo comparire. Il prof.
Arrivando dall’apprendimento non su- Cima, che era pure presente, lo salutò
perficiale del sistema Cima, che ha una con calore e lo presentò ai presenti.
Durante i colloqui ebbi modo di mestruttura semplice e lineare, mi ero infatti
trovato a disagio nel compulsare i vari glio comprendere la sua personalità e, da
manuali dell’epoca, tutti corposi e pieni un certo punto di vista, capire il suo
di sottigliezze che, francamente, non mi ‘dramma’ personale. Occorre qui ricorinvitavano ad una approfondita medita- dare che il prof. Mario Boni fu giornalizione. I libri di Boni invece, pur nella sta stenografo, dapprima a Roma poi a
loro completezza, seguivano un ottimo Milano dove raggiunse la carica molfilo logico ed in particolare per quanto riguarda l’abbreviazione logica mi aveva- 1 Mario Boni (1886-1970) ha iniziato l’esercizio
no consentito di capire il pensiero che della professione presso “La Tribuna” di Roma
aveva generato quella tecnica abbreviati- nel 1907, poi al “Corriere della Sera” (1909-1913
e 1926-1945), al “Resto del Carlino” e all’Agenva.
zia Stefani(1914-1919), all’ “Ambrosiano” e “SeÈ da tener presente che i due libri ci- colo” (1920-1926). Nel 1910, a Cremona, si clastati risalivano agli anni ’20 e quindi non sificò secondo al campionato italiano di velocità
erano più reperibili in commercio. Con- stenografica a 180 parole al minuto e, nel 1914, a
versammo piacevolmente durante il Milano, primo assoluto a 180 parole.
Prefazione
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Da 8 anni vado predicando e affermando ad amici, colleghi e allievi a voce e in scritto o addirittura stampando o facendo stampare, che la terza parte delle mie
“lezioni di Stenografia”, Abbreviazione Logica, è in preparazione, di imminente pubblicazione o
addirittura in corso di stampa.
Ma alla fine… tanto tuonò che
piovve.
Esprimo soltanto e per me stesso
e per la Scuola tutta, 2 desideri,
anzi 2 fervidi auguri: che i miei
Colleghi gabelsbergeriani non ne
dicano troppo male; che i seguaci
degli altri Sistemi non ne pensino
troppo bene.
Mario Boni
Milano, il Natale 1914
7
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
8
IL LIBRO
MANUALE DI
STENOGRAFIA
G/N
25a EDIZIONE
1994
DI ENRICO NOE
IN OFFERTA
SPECIALE
AI SOCI
SI PUÒ
RICHIEDERE ALLA
FONDAZIONE
TELEFONANDO
AL NUMERO
339.4262820
to prestigiosa di capo stenografo al Corriere della Sera. Aveva partecipato a diverse gare stenografiche raggiungendo le
famose 180 parole al minuto. Per le sue
capacità si fece rapidamente notare all’interno della Scuola gabelsbergeriana e
grazie anche alla sua profonda conoscenza dei problemi stenografici, da un punto
di vista tecnico e didattico, e alla sua vasta pubblicistica, divenne segretario generale della scuola Gabelsberger-Noe e
Presidente (tra l’altro) del Consiglio superiore per gli Studi stenografici (organo
tecnico della Magistrale alla quale erano
stati affidati i compiti di apportare modificazioni alle forme di scrittura del sistema) e fu tra i principali artefici dell’azione (che oggi chiameremmo di lobby) per
far definire il suo sistema quale sistema
unico per l’insegnamento nelle scuole
pubbliche (1929).
Il Boni aveva ovviamente alta stima
dell’opera di Gabelsberger e di Noe, ma si
rendeva conto che la teoria del sistema era
molto complessa e difficilmente apprendibile nel limitato tempo (due ore la settimana) a cui era dedicato lo studio nelle
scuole di avviamento (frequentate da allievi simili a quelli delle attuali medie) o
nei primi anni degli istituti tecnici e si dedicò quindi ad una intensa attività di proposte per la semplificazione che doveva
essere didattica, ma anche tecnica.
Troppo lungo sarebbe ripercorrere le
aspre discussioni (che sono ben presentate
dal Boni stesso nella presentazione al
‘Manuale ufficiale per il pubblico insegnamento ed il Pubblico impiego’ da lui redatto e pubblicato dall’Associazione Stenografica Magistrale Italiana nel 1934), esse
videro Mario Boni con l’aiuto importante
di Marchesa Rossi (che era latinista di
fama all’Università di Torino) osteggiato
da molte persone importanti della sua
scuola, a partire dal caposcuola Guido Du
Ban (che tenne in diverse occasioni un atteggiamento pilatesco) e dal prof. Francesco Giulietti, che sempre votò contro.
Durante gli incontri con me il Boni
infatti mise costantemente l’accento sulle motivazioni tecniche e pratiche per cui
occorreva a suo giudizio riformare il sistema e non riusciva a capacitarsi come
mai lui non fosse riuscito ad aver successo nella sua iniziativa, nonostante le approvazioni ufficiali avvenute in molte
occasioni ma alle quali non seguirono
poi fatti concreti. L’ultimo atto, non indicato nella necessariamente stringata storia riportata da Paganini, fu un’azione
anche qui di lobby per far emanare (ai
primi anni ’40) una circolare da parte del
Ministero che vietava l’insegnamento
del sistema Gabelsberger semplificato in
quanto ci si doveva attenere al Manuale
Ufficiale.
Q
uesto ostracismo lo portò a disertare le riunioni del suo sistema e
soltanto in poche occasioni fu presente,
come capitò in quella in cui ebbi la fortuna di incontrarlo. Nel frattempo, e questo
l’ho scoperto solo recentemente, lui aveva collaborato ad un manuale pubblicato
in Austria di adattamento della Stenografia Unitaria tedesca per la lingua italiana.
Si trattava di un manuale completo per
gli stenografi che volessero riprendere
bene nella nostra lingua e come tale utilizzato poi nelle scuole dell’Alto Adige2.
La sua attività pubblicistica riprese
su invito del prof. Mario Marchesi che
iniziò una collana di Studi stenografici a
cui chiamò a collaborare personalità di
varia estrazione. Mario Boni tradusse e
commentò molti pensieri di Gabelsberger, da lui definito ‘colui che tutto previde’ fornendo anche consigli per gli insegnanti.
Alla sua morte scrissi un ricordo per
il Corriere Stenografico ed il prof. Giuseppe Farulli, all’epoca Presidente dell’Eusi che era rimasto in costante contatto con Boni, mi onorò con una lettera di
ringraziamento nella quale ricordava che
Boni spesso ripeteva con tristezza di essere stato apprezzato più da quelli che all’epoca potevano essere definiti ‘nemici’
che dai suoi amici sistematici.
2 In Germania, il Ministro di Stato Schultz rese
obbligatorio, con decisione del 17 ottobre 1924,
un sistema unificato nazionale (Deutsche Einheitskurzschrift), elaborato dai rappresentanti delle
maggiori scuole, Gabelsberger e Stolze-Schrey.
Uno studio di applicazione di questo sistema alla
lingua italiana fu pubblicato da Mario Boni in
“Scienza Stenografica” (Milano), di cui era direttore, nel 1931. Un’altra applicazione della Stenografia Unitaria Tedesca applicata alla lingua italiana (Deutsche Italienische Kurzschrift) fu pubblicata nel 1950 da Lang-Tipple-Boni.
c21pagan
Scritte erotiche e libertine
dai graffiti di Pompei
alla Legge
Merlin
di PAOLO
A. PAGANINI
P
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Tariffario
postribolo
9
ubblichiamo due curiosi manifestini-tariffario del secolo scorso come spregiudicato esempio ed eloquente documentazione delle cosiddette “case di piacere”. I due scritti, quello della Sora Gemma del 1932 e quello di Madama Cesara del
1938 dell’era fascista, sono il simbolo di un’epoca cosiddetta morale. Oggi, si sa,
quelle “case”, definitivamente “chiuse”, hanno consentito di rivalutare una generale moralità pubblica e privata. Leggasi: sacralità della famiglia custode dei valori
morali, ripristino del decoro e del pudore, rispetto dei giovani, difesa della dignità
della donna, esemplarità degli uomini politici, pubblicità ovunque irreprensibili,
edicole che più non esibiscono locandine scollacciate, marciapiedi ripuliti da Le stesse prostitute, se non “benemeritrans e prostitute. Oggi, insomma, con te”, erano viste con liberistica simpatia
una società moralmente ineccepibile, e di normale e “onesta” frequentazione.
Dante non lancerebbe più la sua invetti- Il sesso e le sue gioie erano indicate in
va: “Ahi serva Italia… non donna di scritte propiziatorie perfino sugli ingressi delle abitazioni, addirittura con eloprovincia, ma bordello!”.
quenti rappresentazioni iconografiche
O no?
Eppure il più vecchio mestiere del come simbolo di prosperità e benessere.
mondo ha avuto momenti di gloriose ce- Gli esempi storicamente più famosi, sullebrazioni pagane. Nell’antichità, l’ero- le case private e sui lupanari, sono raptismo era vissuto non come licenziosità, presentati dalle testimonianze più o
nel senso dispregiativo che diamo noi, meno sboccate e sessualmente elogiative
cioè come offesa della morale sessuale. ed esaltatorie dei graffiti di Pompei, in
un’epoca disinibita e avvezza ai piaceri
della carne (prima dell’eruzione del Vesuvio – 79 d.C. – si contavano almeno
venticinque lupanari).
Hic habitat felicitas, prometteva una
scritta.
E i clienti testimoniavano la loro
soddisfazione in accorati graffiti, come
questo:
“Candida me docuit nigras odisse puellas;
odero si potero, si non invitus amabo”
(Una fanciulla dalla carnagione chiara
mi istruì alla ripulsa per le ragazze dalla
pelle scura; le ignorerò se mi riuscirà, e
se no a malincuore le amerò).
E un altro, pratico e commerciale:
“Eutichide, greca, di maniere garbate,
costa solo due assi”.
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Avviso ai clienti
10
Un altro ancora, ispirato:
“Quisquis amat valeat
pereat qui nescit amare
bis tanto pereat
quisquis amare vetat
(Chi ama prosperi, muoia chi non sa
amare; due volte tanto, poi, muoia chi
impedisce d’amare.)
E un altro, tronfio:
Restitutus multas decepit saepe puellas
(Restituto ha sedotto spesso molte fanciulle).
E un altro, minaccioso e intimidatorio:
Aser, ab amonae loco
(Papero, smamma di torno alla mia bella).
E un altro, entusiasta:
Mea vita, meae deliciae, ludamus parumper:
hunc lectum campum, me tibei equom
esse putamus
(Vita mia, voluttà mia, diamo corso per
un po’ a questo gioco.
Sia questo letto un campo e sia io per te
un destriero).
Scritta pompeiana
E per finire, un cliente, offeso e minaccioso:
Niycherate, vana succula, que amas Felicione et at porta deduces, illuc tantu in
mente abeto
(Nicherate, infida zoccola, che ami Felicione e te lo porti in camporella, ricordati soltanto di quello).
I graffiti pompeiani, vecchi di duemila anni, conservati sotto la coltre
protettiva di lava, polveri e lapilli, nella loro semplicità popolare forniscono
un interessante spaccato sulla vita
dell’epoca e riassumono i vari aspetti
della vita quotidiana. Anche da un
punto di vista linguistico. Avere la
possibilità di vedere le parole di un
individuo comune, che altrimenti sarebbe totalmente dimenticato, costituisce uno dei richiami di Pompei.
Questi graffiti sono redatti generalmente in latino volgare e forniscono numerose notizie sociali e linguistiche, come
il livello di alfabetizzazione della popolazione. In questi testi sono presenti errori
di ortografia o di grammatica, come ne
testimoniano i molti graffiti licenziosi,
specie in presenza dei lupanari. Ma grazie alla presenza di questi errori è stato
possibile avere indizi preziosi circa il
modo in cui il latino era pronunciato dai
suoi locutori. Un esempio notevole è il seguente distico elegiaco “Quisquis ama
valia, peria qui nosci ama[re] / bis [t]anti
peria, quisquis amare vota”: un inno alla
vita e ai suoi piaceri trascritto in versi
metricamente regolari, ma in una lingua
fortemente volgareggiante (una versione
latinamente corretta sarebbe stata la seguente: “Quisquis amat valeat, pereat qui
nescit amare; / bis tanti pereat quisquis
amare vetat”, ovvero “Evviva chiunque
ama, abbasso chi non sa amare; due volte
abbasso chiunque si oppone all’amore”).
P
oi, nel tempo, il sesso, sappiamo, nelle sue allegre forme di piacere, e gli
stessi luoghi dove veniva celebrato a pagamento, pur tollerati e regolamentati,
sono stati condannati agli inferi della disapprovazione, come disdicevoli ricettacoli di incontinenza sessuale e di deformazioni morali, con frequentatori ritenuti viziosi o pervertiti (pur con la presenza
di rispettabili e illustri personalità della
politica e della letteratura, celibi o spo-
Affresco erotico
a Pompei
sati, senza remore morali, da Mario Soldati a Salvatore Quasimodo, da Giuseppe Marotta a Raffaele Carrieri, ad Alfonso Gatto). La stessa terminologia diventa
allusiva o dispregiativa nelle sue variegate definizioni, spesso sottintendendo,
in toni e perifrasi, giudizi di condanna
morale nei confronti di questi luoghi del
peccato, che ogni fanciulla dabbene e
giovanotto di buona famiglia si sarebbero ben guardati perfino dal nominare:
casa di prostituzione, o (anche ironicamente) casa di delizie, casa di piacere, il
già citato lupanare (dal latino lupa =
prostituta), oppure casino, bordello, postribolo (fino a diventare, ai giorni nostri, espressione comune, con altro significato: Che casino! Che bordello, per dire
Che confusione! Che caos!).
Fino a un certo punto della nostra
storia anche recente, tutti questi “luoghi
di perdizione” rappresentarono un florido commercio, tutti fornendo (come nei
manifestini da noi citati e riprodotti) ammiccanti promesse di indimenticabili
esperienze erotiche, con diversi trattamenti e nelle varie forme di benessere,
per ricchi e “per tutte le borse”, dalla
lussuosa casa di piacere per benestanti
allo squallido e sozzo postribolo per
“quindicine” di ragazze povere e derelitte a disposizione di giovani reclute o
squattrinati studenti, sia in eleganti
quartieri residenziali sia in suburbi maleodoranti e di malaffare, purché tutte
queste abitazioni tenessero, per legge, le
finestre ben chiuse, per non dare spetta-
Il ricordo d’un giovane militare (che alla casa chiusa preferì l’aria aperta)
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
F
11
u il 20 maggio 1955 che, arruolato in aeronautica, partii per il Centro Addestramento Reclute di Siena. Trenta giorni di “Car” neanche tanto
traumatici. Riuscii ad evitare molte marce di addestramento entrando a far parte della banda musicale che stavano predisponendo per il giuramento.
“Chi di voi conosce la musica?”, chiese il maresciallo. Io mi dichiarai. “Cosa sai suonare?”. “Il
violino”, risposi. “Hai mai visto una banda coi
violini?” e ne uscì una risata generale... E così feci
parte dei tre tamburini!
Durante il periodo senese ho avuto modo di incontrare il presentatore Corrado Mantoni, sul palco
di un teatro di Siena, durante una trasmissione radiofonica della Rai. Mi sembra che il programma
si chiamasse “Campanile sera” e in quell’occasione si alternavano al microfono i militari di stanza
in quella città e il teatro era gremito di commilitoni
che assistevano alle esibizioni. Verso la fine il presentatore comunicò di avere a disposizione ancora
diversi minuti, invitando sul palco quattro persone
che si sentissero di dare sfoggio delle proprie capacità canore. Un primo, poi un secondo, poi un terzo
protesero il braccio. Corrado scrutò ancora in sala
e, nel brusio, spuntò il mio. Salimmo sul palco.
Chiese i nomi di ciascuno poi il primo fece il suo
esordio, lo fece il secondo, lo fece il terzo. Non mi
ricordo se e quanti applausi seppero meritarsi. E il
quarto? In quanto a me Corrado mi disse di essere
dispiaciuto, ma che il tempo a disposizione era terminato. E mi congedò (dal palco!).
In quell’anno erano ancora aperte le case chiuse! Questo possibile gioco di parole si concluderà
nel 1958 con la “Legge Merlin”, che aboliva le
case di prostituzione. Ma a Siena, una sera, con alcuni amici commilitoni, andai in una di queste
“case chiuse”. Fu la prima e l’ultima occasione.
Salimmo al piano superiore e ci accolsero come se
fossero arrivati i principi azzurri, forse per la divisa
che si avvicinava a quel colore. Una “signora”, che
era alla cassa, ci fece accomodare e, sfoggiando un
po’ di latino, si rivolse a noi dicendoci “Carpe
diem”. Ci sedemmo. Intanto dal fondo di un corridoio giungevano le “donnine” che ci passavano davanti per farsi ammirare e proporsi. La loro età poteva variare tra i venticinque e i quarant’anni, piacevoli ma non bellissime. Sempre sorridenti, tutte
molto svestite, sebbene indossassero dei veli, quasi
per mitigare la seminudità. Per controbattere il latino della signora si poteva pensare alla massima
Castigat ridendo mores! Ma, dopo aver corretto i
costumi ridendo, una decina di minuti dopo ci accordammo per uscire. Fuori l’aria era calda, ma
meno opprimente. (f.a.)
colo a dirimpettai o guardoni. Donde il
termine “case chiuse”.
Nei testi che pubblichiamo, sono riportate le testimonianze di un giovane militare di leva (a pag. 11), che ricorda, in
uno spaccato d'epoca, una fugace esperienza con i commilitoni in una di quelle
case, prima che, nel 1958, venissero chiuse per davvero, con la famosa Legge Merlin 1 , e un’altra celebre testimonianza (introdotta, qui sotto, da A. M. Trombetti)
dello storico e letterato Leone Caetani 2,
assiduo frequentatore di postriboli.
1 Il termine Legge Merlin indica convenzionalmente la legge n. 75 – approvata il 20 febbraio
1958 dal Parlamento italiano ed entrata in vigore
sette mesi dopo (il 20 settembre a mezzanotte) –
che aveva come prima firmataria la senatrice
Lina Merlin. Con questa legge veniva decisa l’abolizione della regolamentazione della prostituzione. Contestualmente, veniva avviata la lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione altrui e,
conseguentemente, veniva decisa la soppressione
delle case di tolleranza.
2 Orientalista di fama internazionale, Leone Caetani (nato a Roma nel 1869, morto in Canada, nel
1935) scrisse testi fondamentali per la conoscenza dell’impero islamico.
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Quella stenografia osée nel Diario dell’“esuberante” Leone Caetani
12
Roma, Via
Capo le Case
(Rione III e
IV, Colonna e
Campo Marzio) in origine costituiva
l’ultimo tratto della lunghissima Via di Porta Pinciana, o meglio la sua prosecuzione verso la parte
nuova della città, tutta ancora da costruire. Il nome,
derivato da “ad caput domorum”, indica infatti che,
al tempo in cui l’olandese Gaspar Van Wittel (1685
e il 1690), detto Gaspare Vanvitelli, ne dipingeva i
palazzi periferici e il fondo stradale ancora parzialmente sterrato, lì finivano le abitazioni e cominciava la campagna. Nei due secoli successivi il piano
urbanistico aveva trasformato i due contigui rioni
inglobando sempre più strade e larghi di derivazione semirurale e, alla fine dell’Ottocento, il luogo
dove era sorta la Fontana del Tritone, commissionata nel 1642 dal Papa Urbano VIII Barberini a Gian
Lorenzo Bernini per abbellire il cortile privato antistante la sua nuova residenza, non era più la zona
campestre alla periferia dell’Urbe, ma si avviava a
diventare la celebre piazza che conosciamo.
Come tutte le strade secolari di Roma e del
mondo, anche Via Capo le Case ha perso nel tempo una parte dei suoi antichi connotati. Alcuni caratteri non le appartengono più se non nella memoria che se ne conserva e tramanda e che ormai
si avvia a diventare già leggenda. Ecco, allora,
dalle cronache ottocentesche o dai diari3 e dalle
annotazioni personali, emergere traffici, frequentazioni e commerci in tutta la loro colorita e caleidoscopica vivezza, comprese quelle “particolari”
attività.
A Via Capo le Case sono molti gli artisti che vi
alloggiano e, agli alberghi di varia categoria, si affiancano postriboli dove le cocottes offrono le loro
diuturne prestazioni a clienti di tutte le specie. In
uno di questi si reca di frequente anche il ventiquattrenne Don Leone Caetani, che, come molti altri
rampolli dell’alta società, non si sottrae alle costumanze sessuali della sua epoca e ai concetti di virilità mascolina associata alla frequentazione delle
case di piacere: frequentazione che nel suo caso diventa ossessiva, lo snerva, gli fa perdere la bella
padronanza degli istinti acquistata durante i sei
mesi del Viaggio scientifico in Persia, di recente
compiuto. È un personaggio irriconoscibile, questo
che si autodescrive nelle 26 pagine di appendice al
suo stenografico Diario4. Di esse diamo solo un piccolo stralcio nell’ambito della presente ricerca5 (v.
pag. 13), non ritenendo di destinare alla pubblicazione questa parte esulante in toto dagli aspetti del
reportage condotto dallo stesso Caetani per motivi
di studio nelle principali terre del Medioriente palestinese, arabo, turco, iraniano e curdo.
Anna Maria Trombetti
3 La più illustre, diaristica testimonianza, ci viene da “La Storia di un’anima” di Santa Teresa del Bambino Gesù e del
Volto santo, dove la stessa ricorda il suo viaggio a Roma nel
1887, che la vide ospite, nell’ “Albergo del Sud”, al civico 56,
insieme a un gruppo di pellegrini francesi richiamati nell’urbe
dal giubileo sacerdotale di papa Leone XIII. Di questa presenza femminile d’eccezione, che all’epoca dei fatti era solo una
quattordicenne (al secolo Teresa Martin) e il cui progetto era
di chiedere personalmente al Papa il permesso di farsi carmelitana a quindici anni, Via Capo le Case espone un busto ed
una lapide.
4 “Diario di Viaggio. Persia 1894”. Autografia stenografica
di Leone Caetani, decodifica di A. M. Trombetti. Cfr. “Civiltà
della Scrittura”, nn. 13 e 19.
5 Nella trascrizione, i puntini di sospensione sostituiscono
alcune parole particolarmente spinte, non pubblicabili.
Nella figura:
Gaspar Van Wittel (1652-1736) - Via Capo le Case
Olio su tela, cm. 98×49
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Traduzione dello stenoscritto
di Leone Caetani
13
6 Luglio. Venerdì. 168 giorno
Arrivo a Roma improvvisamente alle
ore 12 ¾. Sbrigo numerosi affari, pranzo
con Ninì Grazioli e la sera vado dalla
contessa Bobrinski. Ritornando a casa
mi fermo a Capo le Case: due con ritardo (B. 6).
7 Luglio. Sabato. 169 giorno
La mattina sbrigo altri affari; colazione
con i Bobrinski; pomeriggio a casa
occupato. La sera pranzo con Zia Ersilia. Vado alla stazione a salutare i
Bobrinski che partono. Ritornando a
casa, passo per Capo le Case e mi lavoro
una bolognese di nome Nerina (C. 8).
10 Luglio. Martedì
Arriviamo a Parigi, scendiamo al
“Grand Hotel”. Al nostro seguito è il
cuoco di bordo. Giro a piedi per la città
per fare qualche commissione. Visita
alla Zia Thaida: fresca come sempre!
Ritorno a casa dopo colazione a casa di
Duval. Esco solo, termino le mie commissioni e, ritornando, passo per la rue
Chaban e ... una danese molto simpatica
(D. 10). La sera andiamo al Théatre dei
“Menus Plaisirs”, ma io casco dal
sonno e lascio Livio al teatro.
11 Luglio. Mercoledì
Partenza per Londra. Mare pessimo
sulla Manica. Arrivo a Londra alle 4 ¾:
papà, mamma e Nella alla stazione.
Pranzo in casa Crawford. Al teatro con
papà e mamma: Pagliacci e Cavalleria
rusticana al “Covent Garden”. Io scendo
al Langhome Hotel.
12 Luglio. Giovedì
Arriva Roffredo. Faccio dei giri in città
con papà. Riesco ad uscire da solo soltanto nel pomeriggio. Ordino dei libri da
Quaritch e ritiro dei quattrini da Coutts.
La sera, dopo il pranzo in casa Crawford
(faccio del baccano con Evelyn e Nella
sulle misure delle ...!) vado all’”Empire”
e trovo una certa Flora tanto simpatica;
(...) andiamo a cena al “Globe”, poi
andiamo a casa sua: me la ... saporitamente un paio di volte. (E. 12).
c21mostre
Andar per
mostre
a cura di PAOLO A. PAGANINI
disegni grotteschi di Leonardo sono stati
senz’altro alla base della cultura di questo stravagante artista “surrealista”. La
mostra, divisa in nove sezioni, introduce,
tra l’altro, il visitatore nella Milano cinquecentesca, in un percorso di disegni,
pitture e oggetti d’arte usciti dalle botteghe artigianali milanesi (all’epoca rinomatissime). Fino al vivo della mostra,
nella sezione “Arcimboldo a Milano”.
Per informazioni: tel. 02.92800375.
E fu così che l’opera di Arcimboldo
venne considerata di “scuola leonardesca”
Il Rinascimento lombardo
al Castello Visconteo di Pavia
o straordinario artista milanese Giuseppe Arcimboldo, celebrato nelle più grandi Corti europee del Cinquecento per i
suoi “capricci e bizzarrie”, è in mostra al Palazzo Reale di
Milano (10 febbraio - 22 maggio) in collegamento con la
National Gallery of Art di Washington. L’opera di Arcimboldo (fonte peraltro di ispirazione per l’arte contemporanea) è
stata curiosamente etichettata in passato come “Scuola di
Leonardo”. La definizione trae origine dal fatto che i famosi
l 2011 è stato dichiarato, dai governi
d’Italia e Russia, “Anno delle cultura e
della lingua russa in Italia e della cultura
e della lingua italiana in Russia”. In questo ambito la città di Pavia ha organizzato, in collaborazione con l’Ermitage di
San Pietroburgo, al Castello Visconteo,
dal 20 marzo al 10 luglio, una mostra dedicata ai “Leonardeschi”, con ventidue
capolavori del Rinascimento lombardo
presenti nelle collezioni russe e con altrettanti dipinti della scuola di Leonardo,
provenienti dalle collezioni civiche pavesi. Saranno presenti, tra le molte altre,
opere di Cesare da Sesto (Sacra Famiglia
con Santa Caterina), di Francesco Melzi
(Flora), del Giampietrino (Maria Maddalena penitente), di Bernardino Luini (San
Sebastiano), e inoltre di Vincenzo Foppa,
del Borgognone. Un percorso di straordinarie suggestioni tra i famosi sfumati
delle atmosfere leonardesche. Per ulteriori e più dettagliate informazioni:
www. musei civici.pavia.it/leonardeschi
L
Giuseppe Arcimboldo:
L’Acqua (1556),
olio su legno di ontano,
cm 66,5×50,5
Wien, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie
I
La cultura dell’Etruria
tra l’Arno e il Tevere
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
A
14
Francesco Melzi:
Flora,
olio su tela,
cm 76×63
San Pietroburgo,
Museo Statale Ermitage
Cortona (presso il Maec-Museo, dal
5 marzo al 3 luglio), eccezionale esposizione di opere etrusche del Louvre, a testimonianza della civiltà e della cultura
dell’Etruria, tra l’Arno e il Tevere. Quaranta oggetti, tra cui alcuni capolavori, di
una delle collezioni d’arte etrusca più
importanti d’Europa esposti in Italia, nel
cuore dell’Etruria. L’Arianna (busto
femminile in terracotta di 61 cm., del III
secolo, proveniente da Falerii Novi) pervenuta al Museo del Louvre nel 1863 insieme a una consistente parte della cele-
bre collezione Campana, sarà l’opera
“simbolo” dell’importante mostra in programma, che prevede un’esposizione di
oltre quaranta opere. Per informazioni:
www.cortonamaec.org
e libri
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Henry Holiday,
Dante e Beatrice
(1883), del pittore
preraffaellita
Henry Holiday,
che immagina
l’incontro fra
Dante e Beatrice
(con il vestito
bianco).
Dalla copertina di
“Io Ghibellino
esagerato”,
di Maria Grazia
Caruso
15
La vita romanzesca di Dante
negli scrittori dell’Ottocento
L
a calabrese Maria Grazia Caruso,
giovane ricercatrice laureata in Italianistica, già affermatasi nel panorama
della pubblicistica con notevoli saggi critici e con due fondamentali volumi monografici su aspetti anche poco conosciuti della nostra letteratura, ha sempre
rivelato due caratteristiche di peculiare
originalità. La Caruso sa infatti affrontare i delicati argomenti della ricerca letteraria con l’autorevole sicurezza di una
raffinata competenza filologica e, soprattutto, con l’amorosa sensibilità d’una accuratezza critica, tesa a disvelare e a restituire i risvolti rivelatori e spesso segreti della più intima personalità dei personaggi da lei affrontati. L’ultima sua fatica ne è un’ulteriore dimostrazione, con
l’aggiunta di una capacità divulgatrice
semplice e coinvolgente. Io ghibellino
esagerato, uscito per i tipi di Manni
(Lecce, 2010), porta un sottotitolo che
subito chiarisce l’ambito della ricerca:
“La vita di Dante in alcuni racconti dell’Ottocento italiano”. Gli autori ottocenteschi di questi racconti, Gaetano Buttafuoco, Erasmo Pistolesi, Agostino Verona, Cesare Scartabelli, Luigi Capranica,
Ausonio Vero, Fedele Luxardo, Pietro
Selvatico e Cesare Da Prato, in una scrittura tra il racconto storico e la realtà romanzesca, sono ignoti ai più. La certosina, affettuosa ricerca della Caruso li riporta fuori dal cono d’ombra dell’oblio,
pubblicandone antologicamente i testi e
facendone un’esegesi critica, che rappresenta l’apparato più interessante dell’operazione. Nell’asfittico panorama critico-filologico della letteratura italiana
contemporanea, i più sensibili osservatori del giornalismo italiano ne hanno subito fiutato l’originalità e se ne sono appropriati nelle competenti pagine di cultura dei nostri giornali. Eccone alcuni.
Maurizio Cucchi su Avvenire (21 dicembre 2010) scrive tra l’altro: “I loro
scritti (degli autori ottocenteschi, n.d.r.)
costituiscono un piccolo patrimonio da
considerare soprattutto per due ragioni:
la conferma ulteriore del diffusissimo
amore per Dante e il suo valore di figura
esemplare e centralissima nella costruzione dell’identità nazionale…”
Giuseppe Amoroso, su Il Tempo (5
dicembre 2010): “Libro di indagine critica capace di coniugare felicemente una
rigorosa documentazione con l’estro di
una lettura che carpisce tutte le pieghe
dei più riposti significati…” e su La
Gazzetta del Sud (28 ottobre 2010): “…
si può con certezza riconoscerne la
straordinaria efficacia degli obiettivi raggiunti, il loro ventaglio di sempre nuove
illuminazioni…”
Mario Grasso, su La Sicilia (17 gennaio 2011): “Basterà leggere il corposo e
illuminante saggio introduttivo per farsi
un’idea della messe di materiale studiato…”
Armida Parisi, su Roma (7 gennaio
2011): “Pagine da riscoprire e assaporare, soprattutto per la passione autentica
che ne traspare. Pagine su un’Italia sognata e mai realizzata, in cui si ritrovano
impressionanti precognizioni di presente…”
c21pedra
Il
rischio
dei media:
anestetizzare
con la mediocrità
Ma la vita non è un reality
di PATRIZIA
PEDRAZZINI
L’
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Il tavolo dei
relatori.
Al centro il
cardinale Dionigi
Tettamanzi,
arcivescovo di
Milano
16
Italia? Una nazione in preda a una sorta di isteria permanente. Fatta di personalizzazioni, esasperazioni, drammatizzazioni. Comunque, di eccessi. Senza i quali,
evidentemente, la vita di tutti i giorni, il banale, insipido “quotidiano”, nemmeno meriterebbe di essere raccontato. Questa, per l’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi
Tettamanzi, la poco entusiasmante immagine che gli attuali mezzi di comunicazione
– giornali o televisioni che siano – offrono del Paese.
Intervenendo, come da tradizione l’ultimo sabato di gennaio, all’annuale incontro con la stampa in occasione della ricorrenza di San Francesco di Sales, patrono
dei giornalisti (che cade il 24 del mese),
l’alto prelato non ha usato mezzi termi- ta a lungo e finisce per generare assueni. “Se ogni pioggia è un diluvio, se tut- fazione”.
ti gli immigrati sono delinquenti, se
Per non parlare della terza conseogni politico è un corrotto, se ogni in- guenza di questo singolare modo di fare
fluenza è una pandemia”, si è chiesto, giornalismo, ancora più grave e pesante
chi salverà l’abituale fruitore di giornali delle prime due: la rassegnazione. “Sono
e tv dall’ansia provocata da questo stile tante – ha detto Tettamanzi – le persone
fuorviante? O, peggio ancora, chi o che che si stanno rassegnando alla mediocosa gli impedirà di ritrovarsi pressoché crità. Assistiamo all’eccessiva esibizione
anestetizzato davanti a ciò che gli acca- del privato in pubblico. Troppi programde intorno? Perché “se è sempre emer- mi sono fondati sull’esposizione oltre
genza, non sarà mai emergenza”, men- misura dell’intimità delle persone. Una
tre “la tensione non può essere sostenu- tendenza che, andando oltre i reality, sta
contagiando ogni campo della comunicazione. E non sempre è un privato
esemplare quello che viene mostrato:
spesso è stereotipato, caricaturale, se
non addirittura patologico e grottesco.
Anzi, se fosse normale, non sarebbe interessante mostrarlo”.
Quasi si volesse diffondere l’idea,
non esaltante ma tanto comoda, che
“così fan tutti”.
Da un lato allora banalità e mediocrità, dall’altro enfasi e spettacolarizzazione. E la colpa, questa volta, non è,
come ormai siamo abituati a raccontarci,
di internet. Anche se, a ben guardare, un
po’ di responsabilità le moderne tecnologie e i moderni canali di comunicazione
se la devono prendere anche qui. Ma
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
La testata del
prestigioso
giornale
americano.
A sinistra del
titolo: “All the
News That’s
Fit to Print”
(Tutte le notizie
che vale la pena di
stampare)
17
solo un po’. “Oggi – ha detto all’incontro milanese il direttore de “La Stampa”
Mario Calabresi – i giornali sono rimasti praticamente gli ultimi a dare le notizie. Oggi l’informazione è ovunque. Basta aprire un computer, basta una chiavetta, e si è travolti da una massa enorme
di notizie. Certo, si tratta di una ricchezza, ma quanto tempo ci lascia, questa ricchezza, per farci un’opinione? Quando
gli stimoli sono troppi, la confusione è
dietro l’angolo. E il giornalismo non è
pubblicare tutto, non è scaricare sul lettore qualunque cosa, bella o brutta, utile
o inutile, quasi a dirgli: tieni, arrangiati”.
“All the News That’s Fit to Print”:
“Tutte le notizie che vale la pena di
stampare”. È la scritta che accompagna
la testata del “New York Times”, e dovrebbe dirla lunga su che cosa dovrebbe
essere un giornale. Ma di questi tempi,
o quanto meno da noi, un simile, anglosassone invito alla misura e alla responsabilità non sembra trovare molti simpatizzanti. Troppa fatica vagliare, scegliere, prendersi la responsabilità di rinunciare a sparare in prima pagina un
fatto solo perché fa vendere, dare delle
chiavi di lettura. Molto più facile scavalcarlo, il senso delle proporzioni, e
puntare tutto sulla facile, e per l’appunto facilmente “vendibile”, spettacolarizzazione. “Un tempo – è stata l’amara riflessione di Calabresi – sul morto si
stendeva un lenzuolo. Oggi quello stesso lenzuolo lo si solleva. Siamo andati
troppo oltre”.
“Oggi – gli ha fatto eco il direttore di
“Famiglia Cristiana” Antonio Sciortino
– non importa che i fatti siano veri. È
sufficiente che siano verosimili. Va così.
I media, più che per informare, vengono
utilizzati come strumenti di consenso per
battaglie politiche e di potere, come armi
mediatiche per distruggere qualcuno.
Oggi, se tu dici qualcosa, non ti si risponde nel merito: ti si attacca personalmente per delegittimarti. Questo non è
da Paese civile”. Una barbarie grazie alla
quale, quasi senza far rumore, si è passati dai dossier di approfondimento al dossieraggio, finalizzato a colpire e ad
affondare la vittima di turno. In gergo, si
chiama “Metodo Boffo” (dal nome del
direttore di “Avvenire” costretto alle dimissioni nel 2009 a seguito della pubbli-
cazione, sulle colonne de “il Giornale”,
di una serie di attacchi personali per un
presunto caso sessuale). Ma va benissimo anche la definizione di Sciortino: killeraggio mediatico. “Che i giornalisti facessero i giornalisti, e basta”.
E
cco allora l’invito, scaturito da più
parti durante l’incontro, a fermarsi
davanti al dolore, a non trattare le tragedie umane come se si fosse tutti al
“Grande Fratello”, a non calpestare la dignità delle persone. E a guardarsi anche
dagli infidi, solo apparentemente veniali,
peccati di omissione. “Siamo ancora agli
stereotipi, ai luoghi comuni – ha sottolineato il direttore di “Famiglia Cristiana”
– Quante volte, in un servizio sugli immigrati, troviamo per esempio scritto che
gli stranieri concorrono per il 10% alla
ricchezza del Paese? Non è sulla libertà
della stampa che dovremmo farci domande, ma su quella del giornalista”.
Libertà e informazione: un binomio
oggi più che mai sofferto: “La gente ci
considera sempre al servizio di qualcuno
o di qualcosa. E noi stessi abbiamo un
po’ perso l’iniziale trasporto per la ricerca della verità, abbiamo ceduto all’omologazione, abbiamo anteposto il gossip
al racconto delle guerre dimenticate.
Non è questa la strada”.
“Prendiamo – ha detto nel suo intervento il direttore del Tg de «La7» Enrico Mentana – il caso di Avetrana e della povera Sarah Scazzi. Che cosa si è
fatto in quell’occasione? Si è preso un
fatto di sangue e lo si è trasformato in
un reality. Niente, e nessuno, è stato risparmiato. Secondo la vecchia logica
contadina per la quale, del maiale, non
si butta via nulla. Ora, vada anche che
la crisi economica dell’informazione
possa costringere i giornali ad adeguarsi
alla realtà e alle esigenze commerciali,
ma il nostro ruolo non è mettere in piedi
dei reality. È scegliere, è dare le notizie.
È raccontare senza faziosità, e magari
anche senza curarsi del fatto che le notizie che si danno siano a vantaggio o a
svantaggio di qualcuno”. Ma non va
proprio così.
“So bene – ha commentato il cardinale Tettamanzi – che le notizie che hanno il sapore della normalità raramente
troveranno posto sui giornali e nelle te-
levisioni. Ma, mi chiedo, che cosa è
«normale» oggi? Dai mezzi di comunicazione emerge, per esempio, una classe
politica che tende a mettere al centro
della propria azione le vicende personali
dei suoi più diversi protagonisti. Certo,
nessuno chiede di tacere episodi, fatti,
denunce, indagini che riguardano quanti
sono chiamati ad animare e a guidare il
Paese e dai quali tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato. Ma,
mi domando ancora: giornali e tv contribuiscono davvero a costruire e a promuovere la pubblica opinione quando si
lasciano contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che
dimentica o sottovaluta i bisogni reali e
concreti delle persone?”.
Di qui l’appello, non certo a tacere
gli scandali, veri o presunti non fa differenza, ma nemmeno a esaurirsi nel racconto degli scandali stessi. Tornando
magari a osservare e ad analizzare un
Paese reale che è sempre meno raccontato con onestà e intelligenza.
Rifiutandosi di fare da cassa di risonanza di qualcosa o di qualcuno. E sollevandolo, quel famoso lenzuolo bianco.
Ma non per indugiare sulla morte e sull’orrore. Bensì per far venire alla luce, e
far conoscere a tutti, la corruzione, la criminalità, l’omertà. Quelle sì “notizie che
vale la pena di stampare”.
RINNOVA
L’ISCRIZIONE
2011
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
SOLTANTO GLI ASSOCIATI AGLI
AMICI DELLA FONDAZIONE GIULIETTI
POTRANNO RICEVERE LA RIVISTA
18
La quota di iscrizione è fissata in euro 20,00
euro 50,00 «sostenitori», euro 100,00 «fedelissimi»
da versarsi sul C/C postale n. 70343140
oppure con versamento bancario
codice IBAN IT 57 X 01005 02802 000000007746
intestato alla «Fondazione Giulietti» Via dei Cairoli 16/C - 50131 Firenze
Piccoli segni per grandi idee
E la Stenografia
diventa
Stenokalokagathia
di ANNA MARIA
TROMBETTI
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
S
19
ono molte le definizioni che sono state coniate in epoca antica e moderna, della
Stenografia, intese ad evidenziarne, quando le prerogative funzionali di sinteticità e velocità, quando il binomio ontologico di arte e di scienza, quando ancora le
correlazioni culturali, disciplinari e di sociale impiego con le esigenze di fissazione
dei discorsi in questo o quell’ambito in cui tali esigenze abbiano a rivelarsi: persino il
settore bellico delle comunicazioni, meno di cento anni or sono, fece uso del mezzo
stenografico raccogliendo l’incitamento del generale Cadorna a portare “la Stenografia sui campi di battaglia”. Da ciascuna definizione, a qualunque contesto temporale
appartenga, traspare un quid di considerazione immensa per le potenzialità di quali Francesco Crispi – i quali vedono
questa modalità scrittoria affidata unica- nella Stenografia “uno spauracchio demente ai virtuosismi della mano e, come gli uomini di poco ingegno” o “il flageltale, dotata di perfetta autonomia, di lo dei cattivi oratori”. Qualche decennio
estrema duttilità alle circostanze di ripre- dopo Vittorio Emanuele III di Savoia,
sa, di immediatezza e praticità d’uso e, evidentemente riflettendo sugli storici
non ultimo importante requisito, di eco- corsi e ricorsi che ne avevano segnato le
nomia di mezzi e di costi.
alterne vicende (caduta dell’impero roQualche volta, la celebrazione delle mano d’occidente, imbarbarimento della
sue lodi è avvenuta in forma indiretta, o lingua latina, parentesi medievale, ripremagnificando la valentia degli stenografi sa rinascimentale e diffusione su larga
di portarne ad eccellenza l’arte sopraffi- scala a seguito della nascita dei parlana, o stigmatizzandone gli effetti “nega- menti e dell’attività giornalistica), inditivi” collaterali. Nel primo caso sono da vidua una stretta relazione tra il suo
ricordare, tra i tanti esempi, l’epigramma “brillare” e il “progresso dei popoli”.
218 (libro XIV) di Marziale “Corran
Con l’affermarsi ed il progredire depure le parole; la mano è più veloce di gli studi linguistici, che tanto favore e
quelle... Non ancora la lingua (le ha pro- sviluppo hanno incontrato nel secolo
nunciate) che la mano ha compiuto la trascorso, aprendosi a tutto campo alle
sua opera” e l’ode di Decimo Magno indagini storico-sociologiche e geneAusonio (IV secolo): “O abile scritto- rando nuove visioni e riproposizioni
re…con semplici segni tu esprimi un lun- della struttura e della didattica grammago discorso come fosse una sola paro- ticale, la riflessione si è fatta più
la…Vorrei che la mia mente fosse tanto profonda e la Stenografia – là dove si è
veloce nel concepire i pensieri quanto è arrivati a superarne il concetto meraveloce la tua mano nel prevenire le mie mente tecnicistico o economico/utilitaparole…”; nel secondo caso, – e siamo a ristico che in un recente passato ha prequindici circa secoli di distanza – fa ri- valso presso gli editori di testi didattici
flettere la caustica ammonizione conte- e le scuole elargitrici di lezioni private –
nuta nelle parole di Giulio Verne e di al- è stata riconosciuta di essere essa stessa
cuni personaggi che gli fanno eco – tra i una “linguistica applicata”. E mentre
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
20
Tavola sinottica dei 4
sistemi stenografici
ufficiali
da “Dattilografia e
elaborazione testi”
Le Monnier, Firenze
1990, p. 173,
di Maria Fiumetti
e Leonarda Amadesi
una sconsideratissima riforma scolastica, e la non meno perniciosa riforma
giudiziaria, ne escludevano sia l’insegnamento pubblico che l’inserimento
tra gli strumenti contemplati dal codice
di procedura penale per la verbalizzazione nei tribunali (con ciò dando prete-
sto alla stessa Camera dei deputati di allinearsi anch’essa sulla medesima direttrice), la consapevolezza della dignità e
dell’importanza sempre attuale della
“Stenografia, Signora della comunicazione” (titolo scelto per l’ultimo Congresso ANISDEC del 1992) non abban-
IL LIBRO
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
STORIA
DELLE
SCRITTURE
VELOCI
21
DI
FRANCESCO
GIULIETTI
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donava il campo e riorganizzava le fila
per trasferire al Terzo Millennio il prezioso deposito culturale accumulato.
Oggi, nuovi studi, nuove giovani
presenze si sono fatte strada nel nome di
una logica certezza: finché durerà la
scrittura manuale, vi sarà avvenire per la
“Regina delle scritture”, insuperabile nel
suo mix di tradizione e di futuro. E si
giustificheranno ulteriori approfondimenti ad ampio raggio sui caratteri tipologici dei singoli sistemi, tanto diversi
tra loro eppure dotati di una propria, distinta validità strutturale (non s’intende,
qui, un’equipollenza tout court, ma il
fatto che la funzionalità costitutiva di
ogni metodo stenografico è in grado di
essere padroneggiata a livelli ottimali da
coloro che lo utilizzano); sulla superiore
flessibilità della scrittura stenografica rispetto a qualunque altra forma di grafia
manuale e non (questione nient’affatto
pleonastica o retorica, ma che consente
di ricavare una previsione empiricamente verificabile di sopravvivenza maggiore rispetto a metodologie legate a questa
o quella apparecchiatura); sull’immenso
accumulo di materiale documentario costituitosi nei secoli e che necessita di essere reperito ed indagato; sul problema
della formazione; su molti concetti complessi e ancora poco esperiti.
Ed ecco un’interessante e originale
traccia di approfondimento conoscitivo
proposta dallo studioso Massimiliano
Motti, stenografo, resocontista, germanista, membro dell’ASMI e collaboratore
di Scripturae Munus, il quale scopre, nel
Gabelsberger-Noe, “una sorta di realizzazione di kalokagathia”, cioè di “quell’ideale ellenico di perfezione che fonde
etica ed estetica”. Ed indicandoci una
prima fonte di riferimento per la nostra
acculturazione, riporta quanto segue:
“Kalokagathia è l’adattamento di
un’espressione greca (καλòς
’
καγαθóς,
kalòs kagathòs, crasi di
’
καλòς και αγαθóς,
kalòs kai
agathòs).
Il termine kalokagathia esprime
come sostantivo astratto il concetto
condensato nella coppia di aggettivi
καλóς καγαθóς (“kalòs kagathòs” è
la crasi di καλóς και αγαθóς), la cui
polirematica significa, letteralmente,
bello e buono.
Con questi termini si indicava nella
cultura ellenica l’ideale di perfezione
umana: l’unità nella stessa persona
di bellezza e valore morale, un principio che coinvolge dunque la sfera
etica ed estetica ed estende la propria
influenza anche sull’arte ellenica.
Oltre a questo la kalokagathia in senso lato indica la reale fusione, per la
cultura greca antica, di etica ed estetica; per cui ciò che è bello deve necessariamente essere anche buono”.
È
un concetto antico che il platonismo
allargò ad una terza qualità morale: il
“vero”, e che ritorna costantemente ai nostri giorni. Come non ricollegarsi agli
studi che Benedetto Croce inserì nella
sua “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”? Non è stato
lui a classificare “sentimento” l’attività
spirituale concomitante di ogni altra forma di attività? A sostenere che “la scoperta di una verità… produce una gioia
che fa vibrare tutto il nostro essere”?
Tesi, questa, pienamente comprovata
dal trasporto che è nelle parole di Massimiliano Motti: “Oggi il gabbiano1 ha
voluto compiere un volo interstenografico inoltrandosi nella sua biblioteca privata, curiosando fra gli scaffali e aprendo quel libro di dattilografia che utilizzava durante il corso di studi superiore. Ed
ecco emergere un bellissimo esempio di
lettera commerciale redatto nei quattro
sistemi. Lo voglio inviare condividendo
con chi lo riceverà la gioia nell’osservare i quattro sistemi a confronto e tutti relativamente allo stesso testo. Lo trovo un
magnifico esempio di confronto visivo, di
critica comparata, di vera bellezza…”
La lista delle qualifiche della nostra
Disciplina scrittoria si è dunque arricchita di una nuova denominazione: basta
premettere “Steno” a “kalokagathia”…
Quale inestinguibile fonte d’ispirazione non è questa “permanente compagna” dei nostri pensieri! Sarebbe da immaginare una luminescente insegna pubblicitaria con queste cinque brevi parole:
“Piccoli segni per grandi Idee”...
Da tempo, il termine “gabbiano” è considerato
la forma contratta di “gabelsbergeriano”, cioè
GAB(B)... IANO.
1
Calligrafia
La
nella scuola italiana
dall’Unità
alla Seconda guerra mondiale
(parte prima)
di FRANCESCO
ASCOLI
Il presente excursus è un estratto dell’importante studio, che il Prof. Francesco Ascoli, uno dei massimi esperti e storici della Calligrafia, ha pubblicato, nel 2010, in lingua inglese, sulla rivista History of Education & Children’s Literature.
Introduzione
I
nsegnare a scrivere fu per molto tempo
una prerogativa della tradizione calligrafica. Questa materia entrò a far parte
del cursus studiorum a pieno titolo attraverso l’esperienza francese napoleonica
da una parte e quella austriaca dall’altra.
Tuttavia il dibattito sull’insegnamento
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Uno storico
manuale del 1786
22
della lettura e della scrittura, avviatosi
con l’avocazione allo Stato della questione educativa, aveva aperto a sperimentazioni e a riformulazioni nuove: il mutuo
insegnamento, l’insegnamento simultaneo di lettura e scrittura furono questioni
nelle quali la calligrafia non ebbe diritto
di accesso. Non mancarono iniziative di
singoli maestri di scrittura che proposero
nuove soluzioni e nuove metodologie pedagogiche, tutt’altro; ma il loro contributo non riuscì ad incidere sul dibattito pedagogico in maniera significativa, specialmente in Italia dove la tradizione calligrafica si era interrotta o quanto meno
significativamente ridimensionata già da
molto tempo. Non si ritenne più necessario un insegnamento di tipo calligrafico
per le scuole primarie. I programmi dell’Italia unita mettono in guardia i maestri
dall’esagerare con la calligrafia. Famosa
è la formulazione: “Non è ufficio delle
scuole elementari il formare dei calligrafi” recitavano i programmi del 1867.
D’altra parte, non si poteva nemmeno
pretendere che i nuovi maestri fossero
anche dei calligrafi, spesso sapevano loro
stessi a mala pena leggere e scrivere. Ciò
nonostante, almeno per un certo periodo
di tempo, alcuni grossi comuni come Milano o Torino si permisero di assumere
un professore di calligrafia nelle scuole
elementari, e rimasero comunque adottati
metodi calligrafici anche per quelle scuo-
le. La tradizione calligrafica invece assunse a pieno il suo ruolo nelle scuole secondarie, cioè nelle tecniche e nelle normali, dove l’allievo imparava i vari stili, a
metterli insieme, a saperli dosare e utilizzare in varie dimensioni e per gli scopi
più diversi.
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Nell’illustrazione:
Il trattato con il
quale Giovanni
Colombini
sosteneva, nel
1902, la bontà
della “scrittura
diritta”
23
La calligrafia nelle scuole primarie
Nei programmi Casati del 1860 la
calligrafia entra a far parte del curriculum
a partire dal secondo anno con laconici
“esercizi progressivi”, aggiungendo, nelle istruzioni ai maestri relativa alla seconda classe, che “[il maestro] eserciterà
specialmente gli alunni nella scrittura
fina e spedita”, senza per altro specificare
in che cosa consistesse esattamente questo tipo di scrittura. Molti calligrafi argomenteranno infatti che non è possibile,
per dei bambini di quell’età, riuscire a
tracciare caratteri minuti e rapidamente. I
programmi del 1888 prevedevano il procedimento di lettura e scrittura contemporanea. Anche qui i programmi indicano
che gli allievi debbano scrivere “il corsivo ordinario in modo nitido e spedito”.
Tuttavia, erano i maestri, non i professori
di bella scrittura, a dovere insegnare nelle
scuole primarie e non era pertanto più interesse di questi ultimi occuparsene. Si
sentì comunque presto anche la preoccupazione di dover dotare gli insegnanti di
sussidi didattici anche per l’insegnamento della scrittura. Uno dei metodi più diffusi a tal proposito fu ad opera di due
maestri A. e C., Guida teorico pratica
per l’insegnamento e la correzione della
scrittura, pubblicata nel 18691.
Ad ogni modo, non furono pochi i
calligrafi che pubblicarono metodi anche
per le scuole elementari, sia perché si
sentivano moralmente e responsabilmente investiti di quel compito, sia perché i
manuali rappresentavano comunque una
fonte di guadagno, ancorché non grande.
Giovanni Thevenet era uno di questi insegnanti che svolgeva la sua missione sia
nelle civiche scuole elementari di Milano sia nelle locali scuole tecniche. Autore di diverse pubblicazioni, scrisse, fra
l’altro, un opuscoletto dal titolo: “La
scrittura nella prima classe elementare”
pubblicato a Milano nel 1878 in cui critica sia l’insegnamento simultaneo della
lettura e della scrittura, sia l’abitudine di
molti maestri di far iniziare l’insegnamento della scrittura con asteggi di dimensioni esagerate.
Dopo che si era affacciata alla ribalta
delle questioni pedagogiche l’insegnamento simultaneo della lettura e della
scrittura, i metodi fonematici o sillabici,
un altro fantasma verso la fine del secolo
XIX cominciò a disturbare i sonni dei
calligrafi: la questione della scrittura diritta/inclinata. In Francia, in alcuni congressi nel 1862 e nel 1879, medici e
igienisti condannarono la scrittura inglese pendente, considerata fonte di danni
agli occhi e alla schiena. Il dibattito sulla
scrittura inglese diritta o pendente fu acceso e serrato. La questione fu ripresa e
discussa nel primo congresso nazionale
degli insegnanti di calligrafia tenutosi a
Roma nel dicembre 1901. Uno dei relatori, Giovanni Colombini, direttore del
periodico Scuola Fiorentina, ne traccia la
storia sostenendo la scrittura diritta e le
Sotto la sigla A. e C. si celavano in realtà due
fratelli delle Scuole Cristiane, frate Genuino Andorno e frate Silvestro Cathiard, prolifici autori di
testi scolastici.
1
Una tavola
con gli esempi
del Corsivo inglese
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Qui invece sono
indicati i caratteri
della “Scrittura
rotonda”
24
sue ragioni mentre inizia e continua l’ostracismo verso la classica scrittura inglese pendente. Scrive il Colombini nella
sua relazione: “La Società di Medicina
di Parigi con voto unanime nel 1879 condannò la scrittura pendente. Nel 1882 un
simile voto fu espresso dal Congresso internazionale d’igiene di Ginevra”. Nel
1881 il dottor Emile Javal nella “Revue
Scientifique” segnala come causa del
diffondersi della miopia la scrittura inclinata e suggerisce la conseguente adozione della scrittura diritta seguendo il mot-
to di George Sand: “Ecriture droite, papier droit, corps droit”. Seguirono numerose iniziative medico-scientifiche e pedagogiche. Il congresso d’igiene di Londra e l’Accademia di medicina si schierarono a favore della scrittura diritta.
Un’inchiesta presieduta da Ferdinand
Buisson, Emile Javal e altri stabiliva che
la scrittura diritta era preferibile a quella
inclinata. La differenza fra l’ipotesi francese e italiana era quella che mentre qui
la scrittura verticale era, in sostanza,
un’inglese raddrizzata, per i francesi si
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
25
TI SEI
RICORDATO
DI
RINNOVARE
L’ISCRIZIONE
AGLI AMICI
DELLA
FONDAZIONE?
trattava di voler ritornare alla scrittura in
voga prima dell’adozione dell’inglese, la
vecchia ronde. In ogni caso, i calligrafi
dovettero schierarsi per l’una o l’altra e
non furono pochi quelli che, indignati,
propugnavano accanitamente la scrittura
inclinata. Prosegue il Colombini enumerando numerosi esperimenti al riguardo
in cui magnificava con toni trionfalistici
il successo della scrittura diritta ovunque.
Nel 4 gennaio 1899 il dott. prof. Uberto
Dutto, incaricato dal ministro Baccelli,
presentò una favorevole relazione sul
metodo Colombini della scrittura diritta.
Detto metodo fu presentato anche a Napoli nell’anno seguente ad un congresso
internazionale di Educazione fisica. Seguirono vari altri “esperimenti” di scrittura diritta, a Firenze, Lucca, Napoli. A
Trieste, ancora austriaca, Lorenzo Gonan, maestro elementare e direttore della
rivista “Raccoglitore Scolastico” invece
fallì nel suo tentativo di introdurre la
scrittura diritta; tuttavia il fatto è spiegato
dal maestro a causa di un opuscolo guida
scritto in tedesco che aveva creato confusione e anche un certo moto di ribellione:
“Se tutti i docenti fossero stati obbligati
– scrive il maestro triestino – a fare l’esperimento ed avessero ricevute le istruzioni nella propria lingua, il resultato sarebbe stato, secondo me, l’adattamento
della scrittura verticale”. Il convegno dei
calligrafi concluse riguardo questa questione che la scrittura diritta non aboliva
quella pendente, ma si affiancava a questa e che quindi potevano convivere tranquillamente. I programmi scolastici recepirono gradatamente queste istanze, a
partire dai programmi Orlando del 1905
che iniziarono a suggerire accanto al corsivo la scrittura diritta, raccomandandola
successivamente sempre di più fino ad
ammetterla nel 1955 come unica forma
di scrittura.
La calligrafia nelle scuole primarie
ebbe quindi vita breve e contrastata. Fino
alla legge Daneo-Credaro, la scuola primaria era avocata ai comuni e solo quindi
quelli più importanti, come Milano o Torino, potevano permettersi di avere maestri qualificati o di pagare un incaricato
per l’insegnamento che potesse coadiuvare i maestri nel loro difficile compito. La
calligrafia vera e propria era materia di
scuole secondarie e normali. Con la rifor-
ma Gentile del 1923, la calligrafia nelle
scuole primarie fu sostituita dalla “bella
scrittura” associata al disegno. Come era
nello spirito della legge, i programmi raccomandavano poco dal punto di vista metodologico, specialmente per la scrittura,
per la quale si raccomandavano degli
esercizi preparatori. Tuttavia, nelle disposizioni relative alla seconda classe elementare si parla ancora di esercizi di calligrafia “diversi per i singoli alunni o gruppi di alunni, a seconda della loro capacità
e dei difetti da loro contratti”. I programmi precisavano inoltre che “Gli esercizi di
bella scrittura saranno facoltativi ed eseguiti non tanto su modelli calligrafici a
stampa, quanto su modelli tracciati dal
maestro alla lavagna.”
N
on furono quindi più pubblicati
manuali di scrittura per le elementari; questo compito fu demandato ai sillabari, nei quali generalmente si consigliavano i metodi fonici o sillabici. Tuttavia, questo vuoto pedagogico fu in parte riempito da diverse pubblicazioni che
venivano in aiuto ai maestri e che suggerivano diversi approcci e metodologie. A
questa esigenza strettamente pedagogica, il regime reagì con una risposta tutta
politica, dapprima con l’istituzione della
commissione per l’esame dei libri di testo fra il 1923 e il 1928 e successivamente con l’adozione del testo unico. Le annotazioni sull’argomento sono tuttavia
scarse, sintetiche e tutto sommato poco
significative, limitandosi alla costatazione che l’autore nel suo testo ha scelto la
scrittura diritta o il metodo fonico sillabico. Della commissione, diretta da Giuseppe Lombardo Radice, faceva parte
anche Alessandro Marcucci, ispettore
scolastico, direttore delle scuole dell’Agro Romano e autore di testi didattici fra
cui uno dedicato alla scrittura “La bella
scrittura nelle scuole elementari” pubblicato nel 1928. In questo libro si espone
un alfabeto simile a quello delle nuove
proposte didattiche coeve in ambito germanico; non a caso la pubblicazione è
curata da Heintze e Blanckertz di Berlino, noti fabbricanti di pennini ma anche
editori scolastici e che hanno una loro
rappresentanza milanese.
1 - Continua
Sotto la lente
del
anche la stenografia
va in analisi
grafologo
di SERGIO
SAPETTI
(parte prima)
S
ergio Sapetti, che i nostri lettori conoscono per le profonde ed esaurienti lezioni
di Grafologia, scritte a quattro mani con Riccardo Bruni, pubblicate in molte
puntate sulla nostra rivista (l’ultima è apparsa sul numero scorso), aveva promesso
agli appassionati una gradita sorpresa. Ha mantenuto la promessa. Si tratta, come
diciamo subito, di una singolare iniziativa editoriale. A cominciare da questo numero, pubblicheremo uno studio, a puntate, su un campo finora inesplorato: la grafologia applicata alla stenografia, o, meglio, la scrittura corsiva degli stenografi (professionisti, insegnanti, alunni di rilievo ecc)
comparata con la loro scrittura steno- lati aggressivi si tramutarono in melangrafica (in vari sistemi stenografici, pre- conici guaiti. Il lupo primitivo si evolse
valentemente però cimani). Il lavoro, ad in cane, servo fedele di quella scimmia
opera di Sergio Sapetti, è vecchio di che divenne uomo, grazie alla sua abilità
qualche anno, ma ciò non toglie sapore di utilizzare strumenti e di comunicare i
di originalità e attualità a questo sua pensieri del singolo a tutta la comunità.
ponderosa fatica, che – per la storia – è Essa divenne uomo per la destrezza dei
la “Tesi di ricerca”, presentata dallo movimenti fini delle mani (proprio quelli
stesso Sapetti all’I.S.F.E.S., Istituto Su- che ci permettono di scrivere) e per la
periore Formazione Esperti di Scrittura capacità di comunicare con sempre magdi Torino, nell’anno accademico 1994- giore dovizia grazie all’uso di un lin1995, per conseguire l’attestato di guaggio orale prima, quindi basato sulla
“grafologo”.
memoria personale, e scritto poi, perciò
a noi disponibile ancor oggi a millenni di
distanza dalla stesura dei primi pitton giorno di tanti, tanti, anni or grammi rupestri. Il grafologo può comsono, un lupo primitivo decise di prendere “tra le righe” quale sia la persoazzannare una scimmia primitiva, ricorse nalità del soggetto scrivente perché con
a tutte le sue abili astuzie, le balzò im- la comunicazione scritta noi estrinseprovvisamente addosso e ... si prese una chiamo tutte quelle doti che ci hanno
tremenda bastonata sul naso che lo fece permesso di evolverci sempre più rapidatornare sconfitto alla tana. Sorpreso dallo mente nel corso della nostra storia, colstrano strumento utilizzato dalla scim- lettiva e individuale. Quando il commermia, il lupo non si diede per vinto, con- cio e la politica sono divenuti il fulcro
vinse il proprio branco a seguirlo e, con del mondo civilizzato, si è sentita sempre
la perfetta tattica tipica dei lupi, si ripeté più l’esigenza di scrivere con celerità e
l’improvviso assalto alla famosa scim- comprendere con immediatezza, si sono
mia armata di bastone. Purtroppo per gli perciò poste le basi della stenografia,
assalitori, da funzionali nascondigli sbu- sviluppatasi parallelamente alla cultura
carono numerose altre scimmie, ognuna greca e latina, infine perfezionatasi,
armata con la sua terribile clava e gli ulu- dopo la stasi medioevale, nei recenti si-
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
U
26
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
27
stemi basati sulle abbreviazioni fonetiche e logiche del corsivo moderno.
La vita moderna è sempre più veloce
e frenetica, nel mondo della comunicazione molti giornalisti registrano le interviste, parecchie segretarie richiamano
dalla memoria di un elaboratore elettronico i prestampati necessari per il loro
lavoro, esistono macchine in grado di
trascrivere automaticamente dal linguaggio orale; ma, proprio per questi motivi,
così come il cittadino che conduce una
vita sedentaria ha la necessità di svolgere
un periodico allenamento fisico sotto il
controllo del medico e dell’istruttore, anche il professionista che desideri mantenere in perfetta forma la mente, deve
eseguire dei razionali esercizi che ne sviluppino e potenzino l’elasticità, per far
fronte alle sempre più dinamiche tecnologie moderne.
Sostituendo l’essenzialità alla formalità, studenti universitari e professionisti,
appartenenti alle più svariate categorie
commerciali e sociali, adottano una
scrittura notevolmente personalizzata per
prendere appunti durante le lezioni o durante conferenze e assemblee; molti di
loro, con intuito più o meno proficuo,
creano un proprio codice di sigle per rendere celere la scrittura.
La STENOGRAFIA è il metodo più razionale per evitare perdite di tempo durante la scrittura, essa adotta i meccanismi idonei per collegare, nel più breve
tempo possibile, due punti dello spazio,
facendo salva l’esattezza di decodificazione. Quando si stenografa, si incide il
foglio con dei tratti più o meno premuti a
seconda del significato dei simboli e si
ritiene sconveniente scrivere un tracciato
ascendente con pressione pesante. Tutti i
segni hanno obbligatoriamente dimensioni proporzionate fra loro, inoltre il
punto deve essere un punto, perché se è
un piccolo accento assume un significato diverso; per lo stesso motivo la pendenza delle aste non può essere invertita
rispetto alla norma. Gli angoli ottusi rallentano il dinamismo, quindi sono ridotti
al minimo, la distanza tra le parole è breve. Nell’antichità, Marco Tullio Tirone,
prima schiavo poi amico e tachigrafo di
Cicerone, codificò per la prima volta i
concetti razionali per l’abbreviazione
della scrittura ordinaria (Compendio di
Cultura Stenografica - prof. Luigi Chiesa - ed. Alpine, Bergamo 1954, pag. 29);
col passare dei secoli queste regole generali furono adattate alle scritture moderne. Anche ai nostri giorni i più validi sistemi stenografici sono originati dalla
sintesi della scrittura corsiva e tutti si basano sulle stesse regole di fonetismo, frequenza delle lettere, attrito del mezzo
scrivente sul foglio, abbreviazione in
base al senso della frase ecc.
H
o eseguito l’analisi grafologica della scrittura corsiva di numerosi stenografi, comparandola con le corrispondenti stenoscrizioni. La ricerca evidenzia
che lo “stenografo tipo” ha un carattere
eclettico e dinamico, capace di inserirsi
con duttilità nei più svariati ambienti
culturali: infatti si può ridurre del sessanta per cento il linguaggio scritto solo se
si sa comunicare in modo forbito e chiaro (la completa documentazione al riguardo è reperibile presso il Centro di
Scienze umane “Piemonte”, A.P.E.S. di
Torino: “L A SCRITTURA DELLO STENO GRAFO analisi del corsivo e comparazione con lo stenoscritto” Sergio Sapetti,
Torino 1995). Lo “stenografo tipo” possiede una pregevole essenzialità e concretezza nell’agire, organizza il proprio
lavoro con autonomia e creatività, ma
anche nel pieno rispetto delle esigenze
dell’Ente per il quale presta servizio, la
sua agilità di pensiero è unita alla tenacia
necessaria per raggiungere gli obiettivi
programmati; ecco perché con queste caratteristiche lo si può paragonare a un di-
rigente che sul lavoro debba prendere
delle rapide e responsabili decisioni (riferimento a “La selezione del personale
nelle aziende” Anna Maria Carena Acino, Centro di Scienze umane “Piemonte”, A.P.E.S. Torino 1994).
PROFILO GRAFOLOGICO
DELLO STENOGRAFO
Sulla base dei suddetti impegni operativi, dal carattere dello stenografo dovrebbero trasparire i seguenti tratti grafici ricavabili dalla scrittura corsiva normale:
– Velocità: rapida, fluida, parca, punti i
avanzati;
– Capacità di rapida sintesi: legata,
calma;
– Sinergia con l’équipe di lavoro: filetti sottili, curvilineità, interlettera nella
norma;
– Intelligibilità: chiara, calma, buon livello di forma, punti i non omessi;
– Concretezza: radicata, parca, robusta;
– Cultura: buon livello di forma, ortografia e sintassi corrette;
– Ecletticità: variabile, fluida, oscillante;
– Empatia: oscillante, occhielli variamente angolosi, interlettera larga, festoni, filetti sottili, predominio di aste rette
e curve;
– Senso di responsabilità: radicata,
aste erette e premute, larga tra parole,
divaricata, piccola o nella norma, interlettera nella norma;
– Elasticità: elastica, fluida;
– Comprensione dei concetti: chiara,
divaricata, legata, lieve contorta;
– Gestione delle risorse psicofisiche:
chiara, radicata, robusta e incisiva;
– Interesse per l’aggiornamento: elastica, fluida, dinamica, occhielli variamente angolosi, personalizzazione del
tracciato, scattante, lievemente ascendente, oscillante, divaricata, fluida, dinamismo verticale, antimodello;
– Apertura mentale e rispetto delle
idee altrui: variabile, interlettera larga,
festoni, scarse ritorsioni e segni di rigidità, non parallela;
– Decisionalità: eretta, incisiva, robusta, aderente, radicata, chiara, parca,
elastica con prevalente tesa, ricci dell’indipendenza;
– Contatti sociali: oscillante, interlettera larga, slanciata, fluida, festoni;
– Capacità intellettuali: buon livello
di forma, armonica e estetica ma personalizzata, divaricata, parca, scattante,
lieve ascendente, larga tra parole, radicata, piccola ma dinamica, occhielli variamente angolosi, raggruppata, aderente;
– Precisione: chiara, robusta, eretta,
piccola, ritmo omogeneo.
1 – Continua
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Il Gruppo Editoriale Giunti
ha messo a disposizione della Fondazione
le copie del volume
28
FRANCESCO GIULIETTI
STORIA DELLE SCRITTURE VELOCI
pp. 514
Chiunque fosse interessato a richiedere una copia può mettersi
in contatto con la segreteria della Fondazione
telefonando al numero 339.4262820.
Tagliamo la testa al “loro”
U
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Fuori la
lingua
di PAOLO
A. PAGANINI
29
n lettore ci ha scritto: “I giornali
non dovrebbero dare cittadinanza
agli strafalcioni d’uso comune. Se il parlato ne giustifica l’uso, una scrittura meditata dovrebbe essere più rispettosa delle leggi della grammatica. Mi riferisco al
titolone su due righe, riportato da la Reppublica del 2 gennaio 2010, pag. 10,
cioè: L’allarme di Napolitano per i giovani / “Dargli un futuro o democrazia
in scacco. La forma esatta dovrebbe essere: Dar loro un futuro ecc…”
Sono d’accordo con il lettore, quando sostiene che una scrittura meditata
dovrebbe essere più rispettosa delle leggi
della grammatica. Eppure, a malincuore,
e mandando giù questo e tanti altri rospi
linguistici, devo dare parziale giustificazione al titolo di Repubblica. La regola
grammaticale è di per sé chiara, ma non
impositiva. Il pronome maschile di terza
persona singolare, gli, si usa per il complemento di termine, con il significato
di: a lui. Così recitano le buone grammatiche. Per esempio: Ho visto Antonio e
gli ho detto quello che pensiamo (Vincenzo Ceppellini, Dizionario grammaticale – 1962). Ma poi prosegue (e notate
la data, mezzo secolo fa!): “Nell’uso familiare e parlato gli sostituisce le e loro.
Es. Vidi Elena e gli domandai cosa facesse; Se vedrò i tuoi amici, gli porterò i
tuoi saluti. Per quanto contrario alle buone regole grammaticali, questo uso del
pronome tende a estendersi e a diventare
normale”. In epoca più recente, l’uso si è
consolidato, anche se a un orecchio ben
educato, continua ad essere stridente.
Nella Garzantina, Italiano, di Luca Serianni (2006), si legge, tra l’altro: “L’uso
di gli per maschile e femminile (...) è largamente attestato nel corso della nostra
storia linguistica, (ma) si tratta di una
forma di livello popolare, non tollerata
nello scritto, che è opportuno evitare anche nell’uso orale...”. Ma, in un’altra
nota, osserva: “Gli per loro è largamente
accettato e, anzi, è raccomandabile nel
registro colloquiale. Oltre al frequente
impiego degli scrittori, antichi e moderni, c’è da tener conto di una ragione
strutturale: tutti gli altri pronomi personali atoni si presentano come monosillabi anteposti al verbo (mi parli, ci parli, vi
parlo ecc.); solo loro è bisillabo e posposto al verbo (parlo loro), e ciò contribuisce a ridurne l’uso”.
Ancora sulla virgola
U
n altro affezionato lettore (e collaboratore), F. A., mi ha mandato la
seguente nota.
– Se in un dialogo, in un discorso, le inflessioni di voce danno un colore e
un’interpretazione alle parole che si pronunciano, in un’esposizione letteraria è
la punteggiatura che dà precisione, risalto e ritmo del pensiero alle espressioni. Il
giorno in cui ho ricevuto “Civiltà della
scrittura” n. 20, e ho letto con interesse
quell’erudita chiosa, nella rubrica “Fuori
la lingua”, sulla virgola, avevo già annotato due errori, seppure veniali, ma di un
certo peso, riguardanti questo segno di
interpunzione, sul fondo de “il Giornale”
del 7 e del 9 gennaio. Il professor Francesco Forte scrive: “Giulio Tremonti ha
fatto due affermazioni che, a prima vista
convincenti, non lo sono.” Non v’è dubbio che l’inciso sarà “a prima vista” con
la virgola prima di convincenti. Quindi
“…che, a prima vista, convincenti non lo
sono.” E, poco più avanti, ...“Ora per
iniziativa di Angela Merkel, è stato instituito il Fondo europeo di stabilità…”
Qui, dopo “Ora”, una virgola ci vuole!
(“Ora, per iniziativa di Angela
Merkel,...”). Il giorno 9 è il direttore
Alessandro Sallusti che, dopo una decina
di righe, scrive: “Tanto per cambiare il
pallino ce l’hanno ancora una volta in
mano i giudici, quelli appunto dell’Alta
Corte...”. Ironicamente, quel “tanto per
cambiare” vuole evidenziare che le cose
non sono cambiate ma, senza la virgola
dopo cambiare, sembra che sia il pallino
ad essere cambiato! (Perciò…“Tanto per
cambiare, il pallino…”).
Mi permetto di fare una chiosa critica a
quanto scrive F. A.
Sono d’accordo, quasi su tutto, anche se,
talvolta, l’angoscia della punteggiatura,
e della virgola in specie, diventa un’ossessione di perfezionismo molto prossima alla nevrosi (parlo ovviamente per
me stesso). Spiego il mio quasi. Mi riferisco, in particolare, alla prima frase riportata, quella di Tremonti. Ritengo che
sia giusta com’è scritta nell’originale,
perché nella seconda ipotesi, suggerita
dalla correzione di F. A., cioè con la virgola dopo le parole “a prima vista”, verrebbe a indebolire il pensiero di Francesco Forte, che invece vuol ribadire con
forza che le due affermazioni sembrano
convincenti solo a prima vista, ma invece
non lo sono. Infatti, è il pronome lo che
giustifica la presenza della virgola e
quindi la sua correttezza. Il pronome si
riferisce a convincenti. Proviamo allora
a sostituirlo. La frase suonerebbe così:
Giulio Tremonti ha fatto due affermazioni che, a prima vista convincenti, convincenti non sono. E, in questo e nell’altro
caso, la virgola diventa ampiamente giu-
stificata. Per quanto il lettore si riferisce
alle altre frasi, niente da eccepire.
Il nostro consigliere Spellucci
nonno per la terza volta
Il 9 febbraio, Maria Elena è arrivata far
compagnia ai fratellini Maria Giulia ed
Enrico Maria, nonché ai genitori, Maria Claudia Spellucci, figlia di Giorgio,
nostro stimato Consigliere, e Pierfrancesco Macrì. Auguri vivissimi da parte
della redazione di “Civiltà della scrittura” e dei membri del Consiglio della
Fondazione Giulietti.
Sono più che triplicati nel 2010 i titoli italiani per e-book
S
ono più che triplicati nel 2010 i titoli di e-book disponibili sul mercato italiano: è quanto emerge dai dati presentati dall’Ufficio studi dell’Associazione
Italiana Editori (AIE).
L’offerta di titoli e-book arriva a coprire l’1,5% dei titoli – Secondo le elaborazioni su dati IE-Informazioni Editoriali, sono oggi 5.900 i titoli e-book in
italiano disponibili (esclusi articoli di riviste scientifico-accademiche), e arrivano a coprire l’1,5% dei titoli “commercialmente vivi”. Per un confronto, a gennaio 2010 erano 1.619, pari allo 0,4%.
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
I generi: in base alle elaborazioni dell’Ufficio studi AIE su 5.135 campionamenti, il 70% dei titoli riguarda la narrativa adulti italiana, seguiti a distanza dai
classici (11,5% dei titoli) e dai gialli
(8,4% dei titoli), dalla fantascienza e
fantasy (4,1%) e dalla narrativa rosa
(3,7% dei titoli).
30
IL LIBRO
DIDATTICA
DELLA
STENOGRAFIA
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Il mercato: si confermano le stime:
0,1% del mercato del libro – Si conferma il dato di stima presentato a metà
anno: oggi l’e-book vale in Italia lo 0,1%
del mercato trade (3.440.000 euro). Per
un confronto, secondo l’Association of
American Publishers, negli Stati Uniti le
vendite degli e-book si prevede supereranno a fine anno il 9% delle vendite
complessive di libri.
Acquirenti di e-book: sono 665 mila
nell’ultimo anno – L’1,3% degli italiani
(pari a 665mila persone) negli ultimi 12
mesi ha acquistato un e-book, come
emerge dalle elaborazioni dall’Osservatorio permanente contenuti digitali. Esistono forti correlazione con genere
(1,7% uomini rispetto allo 0,9% donne)
e titolo di studio (2,3% tra i laureati rispetto allo 0,7% licenza media).
Lettura su e-book: interessa già oltre 1
milione di italiani – Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio permanente, la
lettura (e l’abitudine a leggere) su schermi digitali continua a crescere: più o
meno è triplicata rispetto al 2006. Riguarda oggi oltre 2 milioni di italiani
(con più di 14 anni), che si percepiscono
lettori anche se il supporto non è più la
pagina ma internet, il computer, etc etc.
Di questi, il 2,1% (e parliamo di oltre un
milione di italiani – 1.091.000 persone
per la precisione) afferma di aver letto un
e-book.
E i piccoli? Pubblicano già il 6% dei
loro titoli in formato e-book - Sono 131
le case editrici italiane che hanno in catalogo “almeno un titolo” in formato ebook in lingua italiana. Di queste, 94
sono piccole case editrici, con un catalogo medio di e-book di 16 titoli. Complessivamente il “catalogo” che sviluppano è di 1.472 e-book corrispondente al
6% di titoli che la piccola editoria ha
proposto (tra novità e ristampe).
giochi
L’angolo dei
A
hinoi, cari amici, il numero dei
partecipanti ai nostri giochi sta calando paurosamente, tanto da mettere in
dubbio la sopravvivenza di questa nostra
pagina. Sono troppo difficili? Si sta anchilosando nei nostri concorrenti il piacere della competizione? Che altro mai?
Eppure gli enigmi sono sempre stati una
indiscutibile prerogativa dei cultori della stenografia (vecchi Maestri, come Ada
Beltrami e Giuseppe Capezzuoli ne erano accaniti appassionati). Forse è soltanto la formula di questa nostra pagina
che risente della stanchezza e non è più
capace di solleticare il piacere e la curiosità dei nostri vecchi amici? Scriveteci, avanzate delle proposte, dateci un segno di interesse. Il nostro campo d’azione sono i rebus, le crittografie e gli indovinelli (ché altro non potremmo fare, vista l’esiguità degli spazi). Avete qualche
idea da suggerirci per modificarne l’ordine, le proporzioni, le scelte? Scrivete
alla Redazione. Saremo felici di prendere in considerazione le vostre proposte.
Intanto, dopo le solite curiosissime
“Crittografie dantesche” fuori gara, troverete i nostri soliti giochi in concorso.
La soluzione esatta o della Crittografia
o di tutti e sei gli Indovinelli vi farà meritare uno storico libro di stenografia.
Coraggio, dunque.
CRITTOGRAFIE DANTESCHE
(Soluzioni qui sotto capovolte)
1 – Questi che guida in alto gli occhi
miei
(Purgatorio XXI – 143)
2 – Per l’aer nero e per la nebbia folta
(Inferno IX – 6)
3 – Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci
(Purgatorio XIII – 19)
4 – Diverse voci fan giù dolci note
(Paradiso VI – 124)
31
1 – Sestante
2 – Smog
3 – Sole
4 – Coro
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Soluzioni
CRITTOGRAFIA IN CONCORSO
(Soluzione sul prossimo numero)
RICOSTITUENTE
(di Alessandro)
INDOVINELLI IN CONCORSO
(Soluzioni sul prossimo numero)
1 – Abiti da ballo
Varia il colore ma son tutti a coda;
di massima attrattiva per gli amanti
sono stati e saran sempre di moda.
Nelle vetrine se ne vedon tanti!
Il Valletto
2 – Mia moglie, la medicina e la TV
Quando non voglio prender certe gocce
che son sempre nel bagno, allora l’apro:
lo faccio solamente perché questa
è una cosa che mi son messo in testa.
Il Nano Ligure
3 – Una moglie gelosa
Io che sto fra l’incudine e il martello
ne sento delle belle a destra e a manca;
ma se continua a fare con me il duro
un corno glielo metto di sicuro.
Odean
4 – Così vivo, se vi pare
Pur se la mia cultura un po’ ristretta
mi fa toccare il fondo, non saprei
farne a meno e, fra tante buone cime,
faccio i cavoli miei.
Marienrico
5 – I miei collaboratori
Pur se talora ne ho le tasche piene,
per ora farne a men non mi conviene:
con tipi così in gamba, senza fallo,
sono, per mo’ di dir, sempre a cavallo.
Il Maggiolino
6 – L’appuntamento
Paziente attendo per l’abboccamento:
ecco un prete che passa, non mi cale.
Qualche occhiata mi sfugge, poco male.
Ma ecco Alice arrivar; sono sincero:
l’amo, sì, l’amo e solo in questo spero.
Penna Nera
Premi – A quanti risolveranno la Crittografia o i sei Indovinelli in concorso sarà inviato uno storico libro di stenografia. Le soluzioni di questo numero dovranno pervenire
in Redazione entro la fine di maggio.
SOLUZIONI DEL N. 20
Indovinelli
1 – Il naso
2 – Il naufrago
3 – La nave
4 – Il neonato
5 – La notte
6 – Gli occhiali
Crittografia
Incontri pari
Rebus
Colla RI nodi D I A manti
= Collarino di diamanti
VIETATO L’ACCESSO
AI NON AUTORIZZATI?
L
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Miniere
navig@ndo
elettroniche
di INDRO NERI
32
Il poster del film
americano del
1983 intitolato
“WarGames
Giochi di guerra”
nel quale un giovane “smanettone”,
grazie ad una parola d’ordine facilmente intuibile,
riesce ad introdursi nel supercomputer del Pentagono
rischiando di scatenare la terza
guerra mondiale.
e reti sociali, o social networks – ovvero i siti elettronici come Facebook
tanto per citare il più famoso – sono diventati nel giro degli ultimi anni vere e
proprie realtà alternative con le quali si
interagisce quotidianamente. Recenti
statistiche indicano che i cinquecento
milioni di utenti di Facebook pubblicano
circa settecento aggiornamenti al secondo (!) e caricano in linea duecento milioni di fotografie al giorno.
Una massa di informazioni difficile
da afferrare nella sua totalità ma che è
indicativa di un aumento esponenziale di
dati privati messi allegramente a disposizione nel cyberspazio.
Ed aggiornamenti, curiosità personali, foto identificabili associate alle proprie generalità, date di nascita, nomi di
amici, familiari, luoghi, scuole frequentate, possono tutti diventare indizi preziosi nelle mani di malintenzionati, vere
e proprie miniere di dettagli riservati da
usare per guadagnare accesso ad un profilo elettronico (“account”).
Ogni giorno migliaia di account vengono violati a causa di una protezione
inadeguata basata sull’uso di una parola
d’ordine (“password”) banale, facilmente intuibile o esplicitamente contenuta
nei propri aggiornamenti come ad esempio il nome del proprio figlio. Ed è proprio una parola d’ordine troppo semplice
che permette al giovane David Lightman
di Seattle – il protagonista del film americano “WarGames - Giochi di guerra”
del 1983 – di introdursi nel supercomputer del Pentagono rischiando di scatenare
la terza guerra mondiale.
I siti di social network sono strutturati in modo da facilitare la condivisione
delle informazioni personali, e maggiore
è il numero di dati che uno mette a disposizione, maggiore è il valore che costui rappresenta per il sito. Sfortunatamente, questi servizi dimostrano di avere
un livello minimo di sicurezza: il più
delle volte non incoraggiano gli utenti
all’utilizzo di parole d’ordine complesse
o con scadenza, e quindi da modificare
dopo un certo numero di settimane.
Questo non sarebbe di per sé un problema se le parole d’ordine venissero
utilizzate solo in questi contesti sociali.
Succede invece che le medesime password vengano il più delle volte usate anche per accedere a molti altri profili, da
quello del sito interno della propria ditta,
a quello del proprio servizio di banca online, una vera e propria chiave passpartout che potrebbe dare pericolosamente
accesso a tutta la propria vita digitale.
I
l recente attacco sferrato alla banca dati
di un noto sito sociale ha dimostrato
quanto poco sicure possano essere le parole d’ordine scelte dall’utente medio.
Gli autori dell’incursione informatica
hanno usato un punto debole del sistema
per impossessarsi di trentadue milioni di
password e le hanno rese note su Internet. Questa enorme quantità di dati ha
messo subito alla luce interessanti statistiche che hanno permesso agli esperti di
sicurezza informatica di stilare una classifica delle parole d’ordine più comunemente usate. Al primo posto “123456”
ma nella lista compaiono anche “iloveyou”, “abc123”, e “qwerty”.
I cybercriminali usano principalmente tre modalità di attacco.
La prima è detta “Force brute attack”
(metodo di forza bruta) ed è basata sul
cercare di indovinare “a freddo” la parola d’ordine dell’utente utilizzando dapprima le password più banali, e se questo
riservate siano state divulgate nella pagina, e può essere seriamente ostacolato
qualora il sito Internet sotto attacco disponga o meno di meccanismi per la prevenzione di collegamenti automatici,
come il servizio chiamato Captchas, che
viene utilizzato per distinguere se dall’altra parte del monitor vi sia una persona vera e propria o un programma di
computer.
La terza modalità invece affronta il
problema dalla parte opposta: i cybercriminali cercano di indovinare non tanto la
parola d’ordine quanto la risposta precedentemente inserita dall’utente al momento della registrazione alla domanda
di controllo che dovrebbe servire per resettare la propria password. Un classico
esempio di domanda di controllo è “Qual
è il cognome da nubile di tua madre?”,
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Un poster informativo americano
realizzato dall’Università dell’Indiana appositamente disegnato
per richiamare
alla mente le locandine dei film
dell’orrore di serie B. Sul manifesto si legge “L’invasione dei ladri
di password” e
più sotto “E voi
credevate che la
vostra
parola
d’ordine fosse segreta!”.
non funziona, procedere ad eliminazione
basandosi sulle informazioni personali
della vittima reperibili in rete ed usando
un algoritmo che verifica tutte le soluzioni teoricamente possibili fino ad imbattersi in quella effettivamente corretta.
Più è larga la base degli utenti di un sito
(anche senza dover arrivare al mezzo miliardo di utenti di Facebook), più le possibilità che un attacco vada a buon fine
aumentano in maniera esponenziale.
L
a seconda modalità è detta “Dictionary attack” (attacco del dizionario) e
fa uso di programmi per computer che
raccolgono in maniera automatica le parole da una pagina elettronica (per esempio una pagina personale su Facebook)
per riordinarle in una lista che ne analizza la frequenza (tag cloud). Selezionando i termini più utilizzati, i malintenzionati possono cercare di indovinare la parola d’ordine con un force brute attack
più efficace. Il successo di questo sistema assistito di incursione elettronica dipende soprattutto dall’accuratezza dell’elenco, ovvero da quante informazioni
Non è solo scoprendo la parola d’ordine magica che i cybercriminali possono trarre vantaggio dalle informazioni su Internet. Il sito PleaseRobMe.com (PerPiacereDerubami.com) ha
recentemente sollevato l’indignazione dell’opinione pubblica perché collegandosi automaticamente ai profili di numerosi siti di social
networking ed analizzando lo stato degli utenti
e la loro attuale posizione geografica (segnalata tramite telefonino) rispetto all’indirizzo
dell’abitazione (presente nel profilo), compila
una lista di case presumibilmente vuote, facilitando non poco il lavoro di possibili malviventi. Il responsabile di PleaseRobMe.com ha
poi detto che il servizio vuole mettere in guardia chi lascia trapelare troppi dettagli personali in rete.
oppure “Di che colore era la tua prima automobile?” oppure ancora “Come
si chiama la tua maestra preferita?” tutte
informazioni queste che molte volte possono essere ripescate senza troppo sforzo
leggendo gli aggiornamenti sulla pagina
della vittima.
Se a questa pericolosa disponibilità
di dettagli personali si aggiunge che generalmente i siti di social networking si
limitano a richiedere parole d’ordine di
solo sei caratteri, e senza che vi siano so-
A sinistra: La rivista “2600”, una pubblicazione americana rivolta agli hacker di cui qui vediamo riprodotta una delle copertine, qualche
numero fa riportava un articolo che metteva in
guardia dai rischi dovuti all’utilizzo combinato
di informazioni pubblicamente accessibili in
rete. Avendo per caso ascoltato una ragazza
che forniva ad una amica il numero di telefono
dei suoi genitori, l’autore dell’articolo era riuscito a risalire tramite una semplice ricerca su
Internet all’indirizzo dell’abitazione. Usando
la tecnologia delle mappe satellitari di Google
ed inserendo via e numero civico aveva poi potuto notare che la casa non aveva recinti di
protezione e che quindi avrebbe potuto rappresentare un facile bersaglio. Collegandosi su
Facebook aveva infine scoperto che la ragazza
sarebbe andata in Messico con i suoi la settimana successiva.
fisticati controlli anti-intrusione, ecco che la situazione non è delle più rosee. Ovviare è possibile: i rischi di un attacco al proprio profilo possono essere
mitigati usando parole d’ordine complesse, che contengano lettere, numeri,
caratteri speciali e che siano lunghe almeno dodici caratteri (più lunghe sono,
più sicure sono).
L
CIVILTÀ DELLA SCRITTURA
Qui sotto: Una tag cloud basata sulle parole di
questo articolo. I cybercriminali utilizzano
programmi specifici che raccolgono in modo
automatico le parole da una pagina elettronica
(per esempio una pagina personale su Facebook) per riordinarle in una lista che ne analizza la frequenza (tag cloud). Selezionando i termini più utilizzati, possono poi cercare di indovinare la parola d’ordine con un force brute attack più efficace.
e password utilizzate non dovrebbero
poi essere facilmente collegabili alle
informazioni personali pubblicate sul
proprio profilo ed è buona regola utilizzare parole d’ordine differenti per ciascun servizio utilizzato, ovvero una per
la banca, una per la posta elettronica, una
per Facebok e via dicendo. Meglio ancora se le parole d’ordine diventano invece
frasi (“passphrases”) che sono facili da
ricordare e meno suscettibili ad essere
indovinate fortuitamente. Per esempio,
una frase come “Ogni settimana mi piace
stenografare almeno tre volte al giorno”
può essere usata per esteso oppure condensata usando solo le iniziali “0smpSa3v@g” mescolando lettere dell’alfabeto, sia maiuscole che minuscole, a numeri e caratteri speciali.
Una raccolta di approfondimenti su
questo articolo, incluso il trailer originale di “WarGames – Giochi di guerra” e l’elenco delle 20 parole d’ordine
più comuni, si trova all’indirizzo
www.nerisatellite.com/navigando selezionando il link “Miniere elettroniche”.
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