Filologia mediolatina
Studies in Medieval Latin Texts and their Transmission
Rivista della Fondazione Ezio Franceschini
XVII
2010
ESTRATTO
FIRENZE
EDIZIONI DEL GALLUZZO
PER LA FONDAZIONE EZIO FRANCESCHINI
2010
FULVIO DELLE DONNE
LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM»
DI IACOPO STEFANESCHI
Il 28 gennaio 1319 Iacopo Stefaneschi, da Avignone, indirizzava ai religiosi
viri del monastero di Santo Spirito di Sulmona una lettera che accompagnava l’invio di un manoscritto – ora perduto – della sua opera che generalmente viene chiamata Opus metricum, perché venisse conservato in quel
luogo1. Sul modo in cui si dovesse interpretare questa lettera, con cui Stefaneschi dava spiegazioni sul contenuto dell’opera e raccomandazioni sulla
sua custodia, non aveva dubbi il primo editore, Daniel Papebroch, che, nel
titolo, la definiva senz’altro Epistola dedicatoria2.
Una lettera dello stesso tipo Stefaneschi aveva inviato in precedenza –
ma non sappiamo precisamente quando – al capitolo generale dell’ordine
dei Celestini3. Anche in essa si parlava dell’invio della medesima opera, che
però l’autore aveva differito, per i molteplici impegni che gli avevano im-
1. Della lettera verrà seguita l’edizione (non impeccabile) fornita da F. X. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana. Quellen zur Geschichte des Papstes Coelestin V., Paderborn 1921, pp. 3-4,
che è stata ritoccata in qualche lezione (segnalata in nota) e nella punteggiatura. Un’altra
edizione è in R. MORGHEN, Il cardinale Iacopo Gaetano Stefaneschi e l’edizione del suo Opus
metricum, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano» 46 (1930), pp. 1-39, alle pp. 29-30, dove
viene, però, seguito il solo ms. della Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigi I VI 234.
2. AA. SS. Maii, IV, Antverpiae 1685, p. 437.
3. Questa lettera è edita solo da MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], pp. 28-29, secondo il
codice di Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Corsini 45 G 14, l’unico
che la riporta.
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pedito di portarne a termine la revisione. Così aveva finito col mandare solo
tre responsori, un Alleluia e tre preghiere su Pier da Morrone.
Le due epistole sono molto simili, anzi quasi identiche nella prima parte. Nell’intitulatio, cambiando solo i nomi dei destinatari, Stefaneschi si rivolge «religiosis viris, amicis carissimis», e usa la medesima formula di salutatio «salutem et sincere dilectionis affectum». Immediatamente, poi, passa a
parlare della sua opera. Nella lettera del 1319, quella che accompagna l’invio del cosiddetto Opus metricum, si dice così: «grandem nobis admodum
mirandamque cunctis historiam, quam dudum per nos heroico metro inchoatam proxime vacationis preterite tempore devotione perfecimus, vitam, mores, regulas, electionem ad papatum, gesta in eo, renuntiationem,
obitum, canonizationem, postremo quoque miracula sancti confessorisque
mirifici, fratris Petri de Murrone, quondam Celestini pape quinti, ordinis
vestri ac observantie precipui sub beati Benedicti regula fundatoris, necnon
eisdem interiectam felicis recordationis Bonifatii pape octavi coronationem
ipsiusque sollemnia, ardua, ni fallimur, rhetorica veridicaque descriptione
suffultam, succinctamque prosam eiusdem historie materiam enodantem,
una cum vobis dudum destinatis responsoriis tribus, Alleluia uno cum versibus in littera cantuque ac orationibus tribus per nos de ipso confessore
compositis, nunc vobis primum ac ordini vestro leta animi iucunditate
transmittimus, et si non adprime utcumque tamen, ceu negotiorum ingruentia fuit, aliquali discussione correctam»4.Traducendo: «rimettiamo ora
a voi e al vostro ordine, per la prima volta e con lieto compiacimento spirituale, se non immediatamente, per l’accavallarsi di impegni inderogabili,
comunque corretta dopo una certa revisione, una storia senz’altro grande
per noi, e ammirevole per tutti, che – da noi iniziata in metro eroico già da
tempo, abbiamo portato devotamente a compimento impegnando il periodo dell’ultima vacanza papale – tratta la vita, i costumi, la regola, l’elezione
4. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 3. Cfr. anche MORGHEN, Il cardinale
cit. [nota 1], pp. 29-30, dove vengono omessi «tempore» e «una cum vobis dudum destinatis
responsoriis tribus, Alleluia uno cum versibus in littera cantuque ac orationibus tribus per
nos de ipso confessore compositis»; e dove si scrive «regulam» invece di «regulas», «sanctissimi patris» invece di «sancti», «enodatam» invece di «enodantem», «sinit» invece di «fuit».
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al papato, le cose da lui fatte in quella dignità, la sua rinunzia, la morte, la
canonizzazione e infine anche i miracoli dell’ammirevole santo padre e
confessore di fede, il fratello nostro Pietro di Morrone, già papa Celestino
V, eminente nel vostro ordine e nella vostra osservanza, sotto la regola di san
Benedetto, vostro fondatore, e, inserita nel mezzo, l’incoronazione di papa
Bonifacio VIII, di felice memoria, e le sue solennità, il tutto sorretto da ardua – se non andiamo errati – descrizione retorica e veridica, nonché la
breve prosa che spiega la materia della stessa storia, insieme con i tre responsori, già a voi inviati con un Alleluia in versi scritti e annotati per il
canto e le tre preghiere da noi composte per lo stesso santo confessore».
Le differenze rispetto alla lettera precedente, quella relativa all’invio delle antifone, dell’alleluia e delle preghiere, sono davvero poche. Nella prima,
infatti, si parte direttamente con «istoriam» (con la variante grafica dell’omissione dell’h iniziale), eliminando gli attributi precedenti «grandem nobis admodum mirandamque cunctis», dopo «inchoatam» si scrive «hoc» invece di «preterite», poi «regulam» invece di «regulas» (che andrebbe quasi
certamente corretto), «patris et confessoris» invece di «confessorisque»5;
omette «necnon eisdem interiectam felicis recordationis Bonifatii pape octavi coronationem ipsiusque sollemnia» e immediatamente dopo scrive «ardue» invece di «ardua»; per il resto, è tutto identico fino a «enodantem», e
la parte restante viene sostituita con «vobis primo ac Ordini vestro destinare decrevimus». In quest’ultima parte, viene tralasciato il pezzo sull’invio dei
responsori, dell’alleluia e delle preghiere, ma solo apparentemente, perché
esso viene recuperato, quasi identico, in seguito, quando, scusandosi del
mancato invio dell’«opusculum tardativum», afferma di voler evitare che,
frattanto, il «devotionis modulus sileat»6.
5. Va ricordato, comunque, che nell’edizione di MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], p. 28,
già risulta che il manoscritto chigiano aggiunge «patris» anche nella lettera del 1319; così
come, precedentemente, scrive «regulam» invece di «regulas».
6. Cfr. MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], p. 28: «Verum ne interim nostre devotionis
modulus sileat quin immo sub dulcis armonie musica ipse vesterque chorus eidem eggregio
confexori [sic] laudibus nubilet, responsoria tria unum cum versibus alleluya in lictera cantuque ac orationes tres per nos composita de ipso confexore […] destinamus».
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Comunque, a parte questa posposizione e le altre discrepanze minime,
forse imputabili anche ad accidenti di trasmissione, la differenza di carattere più sostanziale riguarda l’aggiunta, nella lettera del 1319, dell’accenno al
testo sull’incoronazione di Bonifacio VIII. Un’aggiunta che ci mette a conoscenza della circostanza che, nel tempo intercorso tra l’invio della prima
lettera e quello della seconda lettera, Stefaneschi aveva deciso di inserire tra
i due testi dedicati a Celestino V anche una sezione dedicata al papa che lo
aveva creato cardinale.
Tuttavia, andando oltre la semplice constatazione di questo dato di fatto,
non possiamo esimerci dal porci qualche interrogativo sul modo in cui Stefaneschi aveva concepito la sua opera. Ovvero, perché, in un primo momento, egli aveva promesso al capitolo generale dell’Ordine dei Celestini
solo le parti su Celestino V? E, di conseguenza, fino a che punto la sua opera può considerarsi una elaborazione strutturalmente unitaria?
Qualche elemento utile per rispondere a queste domande ci viene fornita dalla prosa introduttiva, che Stefaneschi scrisse dopo aver composto e
rivisto l’intera opera, in fase di successiva rielaborazione redazionale, tra il
24 giugno e il 24 luglio del 13157. Già il suo titolo ci dice qualcosa: «Iacobi sancti Georgii ad Velum aureum diaconi cardinalis prosa in huius totius
sui triplici operis metrici precognitionem prefatiuncula»8; «piccola prefazione in prosa di Iacopo, cardinale diacono di San Giorgio in Velabro, destinata alla comprensione preliminare di tutta questa sua triplice opera metrica». L’opus metricum viene definito triplex, a indicare la natura non assolutamente omogenea dell’opera.
7. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 13: «fere mensibus XV post eius [Bonifatii] obitum vacationis in qua sumus, computatis […]». Anche la Prefatiuncula è edita in
MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], pp. 30-9; il passo in questione è alle pp. 37-8. Si veda inoltre A. FRUGONI, La figura e l’opera del cardinale Jacopo Stefaneschi (1270 c.-1343), «Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei. Rendiconti, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche»
Ser. VIII, 5 (1950-1951), pp. 397-424, a p. 418 nota 1; nonché A. FRUGONI, Il cardinale Jacopo
Stefaneschi biografo di Celestino V, in FRUGONI, Celestiniana, Roma 1954, pp. 69-124, a p. 113
nota 1.
8. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 4; cfr. anche MORGHEN, Il cardinale
cit. [nota 1], p. 31, dove viene omesso «prefatiuncula», che non risulta attestato dai mss. Chigi I VI 234 e Vat. lat. 4932.
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I titoli, si sa, non sono, generalmente, significativi, perché non sempre
sono quelli scelti dall’autore, ma possono essere stati aggiunti o modificati
dai copisti.Tuttavia, il fatto che il titolo attribuito alle pagine prefatorie risulti presente sia nei codici che trasmettono la prima redazione dell’opera,
sia in quelli che trasmettono la seconda, può forse farci propendere verso
l’ipotesi che esso sia stato assegnato proprio dall’autore9.
In ogni caso, anche all’interno della prosa introduttiva si dice: «materia
quippe nobis duplex ingeritur, una brevis succinctaque nondum stilo manu
apposita sed voto preconcepta, metro videlicet cuiusvis Romani pontificis
consecrationis misteria, coronationis insignia, processionisque cleri sollemnia veteresque ritus in illis intexere, quod versibus trecentis expedire futurorum insciis vel circiter spes pollicebatur, altera longior prolixiorque»10;
cioè: «la materia ci si presenta distinta in due parti, una breve e rapida, non
ancora affidata dalla mano alla scrittura ma solo prefigurata nel progetto di
esporre in versi gli arcani della consacrazione di qualsivoglia pontefice romano, le insegne che accompagnano la sua incoronazione, le solennità delle processioni del clero, gli antichi rituali osservati in quelle occasioni, che,
senza sapere cosa avrebbe riservato il futuro, la speranza prometteva di sbrigare in circa trecento versi, l’altra più lunga e più abbondante». Il proposito iniziale, dunque, appena concepito e certamente non messo in atto, era
quello di esporre brevemente la liturgia con cui venivano celebrati l’incoronazione e l’insediamento del papa. E la cosa ci viene confermata da Stefaneschi ancora all’inizio della parte del suo Opus metricum dedicata all’incoronazione papale di Bonifacio VIII: «ad prelibandum utcumque huius li9. Nel ms. della Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4932, del XIV sec., che tramanda la prima redazione dell’opera, la Prefatiuncula è collocata alla fine del codice, e manca la
lettera del 1319: cfr. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. XXXI; inoltre, FRUGONI, La figura cit. [nota 7], p. 418; nonché FRUGONI, Il cardinale cit. [nota 7], pp. 81-2 e 114.
Questo elemento, da un lato, ci fa comprendere che la prefazione, come detto, fu composta
in occasione della seconda revisione redazionale; dall’altro, però, rende meno certa l’ipotesi
che il titolo sia stata attribuito dallo stesso autore, perché la prefazione potrebbe essere stata
copiata (per mano dello stesso copista) da un manoscritto che la riportava.
10 SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 4; MORGHEN, Il cardinale cit. [nota
1], p. 31, dove è da segnalare che a «veteresque ritus» viene preferita la lezione «ceterosque
ritus».
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belli materiam sciendum est, quod actoris iam dudum intentio fuerat coronationem Romani pontificis retexere metro ad aliqualem exercitationem
ingenii, et quia pene nullus actorum stilo prosaico vel carmine alicuius
triumphum principis reserasse conspicitur […]»11; «per una prima comprensione della materia di quest’operetta bisogna sapere che all’inizio l’intenzione dell’autore era stata di rappresentare in versi l’incoronazione del
pontefice romano, per tenere in qualche modo in esercizio il suo ingegno,
ancheperchénonèpossibiletrovarequasinessunaltroscrittorechein
PROsaoinversiabbiatrattatodeltrionfodiunqualsivogliasiffattoprinci
PE[…]».
Probabilmente nel quarto anno di pontificato di Niccolò IV, cioè verso
il 1291, Stefaneschi aveva dato inizio all’opera12. Poi, gli straordinari eventi
che si susseguirono nella seconda metà del 1294, ovvero l’elezione papale e
la successiva rinuncia di Pier da Morrone, dovettero spingerlo a decidere di
scrivere un poemetto storico su quel pontefice. Giunto, però, al momento
in cui avrebbe dovuto trattare dell’incoronazione di Celestino V, il principale intenctum di descrivere rapidamente i cerimoniali dell’incoronazione fu
rinviato13. Insomma, intorno e non oltre il 1295, prima di essere creato cardinale, il 17 dicembre 1295 o il primo gennaio 129614, Stefaneschi dovette
11. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 84.
12. Cfr. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 6 (MORGHEN, Il cardinale cit.
[nota 1], p. 32); inoltre, FRUGONI, La figura cit. [nota 7], p. 405; nonché FRUGONI, Il cardinale
cit. [nota 7], p. 79.
13. Cfr. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 10 (MORGHEN, Il cardinale cit.
[nota 1], p. 35).
14. Nell’incipit di ciascuno dei tre libri che compongono il De electione Stefaneschi dice
che lo scrisse ante cardinalatum. Per la determinazione della data in cui Stefaneschi fu fatto
cardinale cfr. FRUGONI, La figura cit. [nota 7], pp. 402 ss.; nonché FRUGONI, Il cardinale cit.
[nota 7], pp. 76 ss., che propende per il 17 dicembre 1295. Tuttavia, va detto che Frugoni
prende in considerazione, per poi scartarla, un’informazione contenuta nel necrologio di
Santa Maria in Trastevere, al 22 giugno: «Ob. r. pat. et d. n. d. I[acobus] Gayetanus card. qui
fuit cardo et regula Romane curie anni .XLIIII., mensibus .V., diebus .XXII. orate pro quo
tenemini» (Necrologi e libri affini della provincia romana, ed. P. Egidi, Roma 1908, I, p. 95). Frugoni, riteneva che Stefaneschi fosse morto nel 1343 (e non nel 1341, come fu effettivamente); inoltre, nella nota del necrologio, leggeva «anni XLIII» e non «anni XLIIII»; infine sbagliava il calcolo; arrivava pertanto a dire che, secondo quel necrologio, si giungeva all’im-
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comporre il De electione, la prima parte – dedicata all’elezione, al regno e
alla rinuncia di Celestino V – di quello che viene generalmente chiamato
Opus metricum. Invece, forse già intorno al 1296-1297, in un contesto diverso, dopo essere stato creato cardinale, scrisse il De coronatione, la seconda parte dell’opera, dedicata alla minuziosa descrizione del cerimoniale seguito
per l’incoronazione di Bonifacio VIII15. E, infine, solo parecchi anni dopo,
attorno al 1315, compose il De canonizatione, la terza parte, dedicata, appunto, alla canonizzazione di Celestino V16.
Il cosiddetto Opus metricum si presenta, pertanto, come una raccolta di tre
differenti opere, scritte in contesti e in momenti diversi: non concepito, originariamente, con una fisionomia unitaria, venne accresciuto man mano
con aggiunte successive. Del resto, il ms. Vat. lat. 4932, quello che contiene
la prima redazione, mostra ornamentazioni e glosse esplicative elaborate
dallo stesso autore solo per le prime due sezioni, dedicate alla vita di Celestino V e all’incoronazione di Bonifacio VIII17: cosa che potrebbe, forse, indurci a pensare che già lo stesso Stefaneschi avesse aggiunto la terza sezione, dedicata alla canonizzazione di Celestino ed elaborata con criteri diversi, a un manoscritto già idealmente ultimato. E posta questa premessa –
così come è stato stigmatizzato di recente18 – forse non è neanche del tutTOCORRETTALIDENTIFICAZIONECOMPLESSIVADELLOPERACOME/PUSMETRICUMGIÌ
possibile conclusione che Stefaneschi fosse stato creato cardinale il primo febbraio 1299. Invece, il necrologio suggerisce effettivamente la più plausibile data del primo gennaio 1296.
Comunque, il necrologio, alla data del 23 giugno, aggiunge anche, per altra mano, quest’altra nota: «Ob. d. Iacobus Gaytanus S. Georgii diac. card. qui hanc eccl. habuit in commendam et donavit eccl. pulcerima paramenta, scilicet planetam, dalmaticam et tunicellam de
dyaspro albo et unum dossale pro altari».
15. Cfr. FRUGONI, La figura cit. [nota 7], pp. 403-4; nonché FRUGONI, Il cardinale cit. [nota
7], p. 78, che reinterpreta un passo della Prefatiuncula, in SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit.
[nota 1], p. 7 (MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], pp. 32-33), suggerendo che l’opera fu composta durante il secondo anno di pontificato di Bonifacio VIII.
16. Cfr. FRUGONI, La figura cit. [nota 7], p. 418; nonché FRUGONI, Il cardinale cit. [nota 7],
pp. 113-4.
17. Cfr. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. XXXI.
18. Cfr. A. DE VINCENTIIS, Scrivere contro la storia. Il cardinale Iacopo Stefaneschi (1260 ca.1341) e i suoi opuscoli metrici, in Frammenti di memoria. Giotto, Roma e Bonifacio VIII, a cura di
M. Andaloro - S. Maddalo - M. Miglio, Roma 2009, pp. 7-15, alle pp. 9-10.
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abbiamo visto, del resto, che, nella prefatiuncula, a quell’espressione veniva
aggiunto l’aggettivo triplex, a indicare proprio la complessità della raccolta.
Tuttavia, i titoli, seppure aggiunti o inventati da copisti ed editori, sono utili e comodi. E poi, comunque, siamo proprio sicuri che Stefaneschi non volesse che i lettori considerassero come interrelate le tre sezioni che compongono il cosiddetto Opus metricum?
Certo, effettivamente – in entrambe le classi dei manoscritti, sia quella
che fa capo alla prima redazione, sia quella che deriva dal perduto manoscritto inviato a Sulmona – spicca soprattutto la presenza di un testo sull’incoronazione di Bonifacio VIII, posto com’è in mezzo a due componimenti dedicati a Celestino V. E se è lecito chiedersi perché Stefaneschi abbia fatto questa scelta, e perché, invece, abbia deciso di non includere, per
esempio, anche l’opera dedicata al giubileo del 130019, non è, però, facile
ipotizzare una risposta.
Di certo, almeno il De coronatione potrebbe costituire opera a sé, e così è
stata talvolta anche considerata, dal momento che un manoscritto, il Vat. lat.
4933 della Biblioteca Apostolica Vaticana, lo tramanda da solo, sciolto dalle
altre sezioni: ed è notevole che esso sia stato esemplato dallo stesso copista
che ha vergato anche il Vat. lat. 4932, che trasmette la prima redazione del
cosiddetto Opus metricum20. D’altronde, nella prima lettera, quella inviata al
Capitolo generale dei Celestini, che accompagnava i responsori, l’alleluia e
le preghiere, Stefaneschi prometteva solo le due sezioni dedicate a Celestino V, e non anche quella dedicata all’incoronazione di Bonifacio VIII.
Quindi, evidentemente, egli, in un primo momento, dovette considerare
l’opera dedicata a Bonifacio VIII come a sé stante. Del resto, se risulta immediatamente comprensibile il motivo che lo spingeva a mandare all’Ordine di Pier da Morrone le opere “celebrative” dedicate a Celestino V, più difficile è capire perché poi, nel 1319, quando effettivamente consegnò il codice, egli vi abbia accluso anche la sezione su Bonifacio VIII, ossia su colui
CHEGENERALMENTEVENIVACONSIDERATOLOCCULTOMANOVRATOREDELLARINUNCIA
19. IACOPO STEFANESCHI, De centesimo seu iubileo anno. La storia del primo giubileo (1300),
ed. P. G. Schmidt, trad. e note di A. Placanica, a cura di C. Leonardi, Firenze 2001.
20. Cfr. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. XXXIII.
LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM» DI IACOPO STEFANESCHI
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al papato di Celestino V. Qualche motivo, però dovette esserci, altrimenti
non avrebbe riunito le tre opere in un medesimo codice, diffidando, perdipiù, chiunque dal metterci mano, così che dovesse essere considerato quasi
originalis.
Abbiamo detto che l’Opus metricum, così come si presenta nei manoscritti che derivano dall’archetipo inviato dall’autore a Sulmona, è formato
dalla giustapposizione di tre differenti opere, che, di fatto, costituiscono una
sorta di storia del papato dalla morte di Niccolò IV a quella di Clemente
V21. Una storia del papato, però, intesa, probabilmente, a evidenziare, da un
lato, la continuità tra le reggenze pontificie che si susseguirono, e, dall’altro,
la legittimità della rinuncia di Celestino V e quella della elezione di Bonifacio VIII. Il tutto, poi, culminato nella canonizzazione di Pier da Morrone, ad opera di un papa creato ad Avignone, ma in continuità con i predecessori romani22, e tale da caratterizzare con i crismi della straordinarietà
quella «grandem nobis admodum mirandamque cunctis historiam» che viene annunciata nella lettera del 1319.
Insomma, quei tre testi, nati inizialmente come indipendenti tra loro, diventano un opus che, nella sua unità, in se stesso comprende e sublima la triplicità, o – mi sia consentito lo scherzo verbale – la trinità. E a suggellare
l’acquisita metamorfosi intervengono non solo la complessiva prefatiuncula
esplicativa dell’intero opus, ma anche la lettera di accompagnamento del
1319.
Ma quella lettera, scritta per accompagnare l’invio di un particolare manoscritto, può essere stata concepita come destinata ad accompagnare anche ciò che vi era scritto dentro? Ovvero, essa deve essere considerata come
strumento di dedica di un singolo esemplare, oggetto concreto e tangibile;
oppure può assurgere al rango di dedica dell’opera, intesa come oggetto
astratto di creazione letteraria?
3ICURAMENTELALETTERANONSILIMITAAPARLAREDELMANOSCRITTOCOMEOG
GETTOANZIESSENZIALMENTEFARIFERIMENTOINNANZITUTTOALSUOCONTENUTO
21. Cfr. FRUGONI, La figura cit. [nota 7], p. 418; nonché FRUGONI, Il cardinale cit. [nota 7],
pp. 113-4.
22. Cfr. DE VINCENTIIS, Scrivere contro la storia cit.[nota 18], p. 15.
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«hanc igitur grate missam, grata, quesumus, familiaritate suscipite»23, «dunque, ricevete, vi preghiamo, con amichevole familiarità essa che è stata inviata amichevolmente», dice Stefaneschi riferendosi alla historia che ha
composto. E parlando del modo in cui l’ha elaborata, continua così: «tantoque illius vacate sermonibus, quanto eadem non ex precedentium scriptura pulchre, velut ex imaginibus fictis, depingitur, sed ex gestorum potius
forma certe, ac si ex veritatis radiis, designatur; eoque interdum defìcientes
nos supportate benignius, quo non in illa novum ex veteri cudimus, sed novum in opere metrum, ubi gnarus negligit formam, ex novo»24; «e vogliate
essere tanto più disponibili al suo dettato, in quanto essa non è dipinta in
maniera splendida traendo ispirazione – come da immagini fittizie – dalla
scrittura di qualcuno che ci ha preceduto, ma piuttosto è disegnata in maniera esatta ricalcando – come illuminata dalla luce della verità – la forma
degli eventi accaduti; e perciò, se talvolta siamo manchevoli, vogliate sopportarlo benignamente, perché in essa non traiamo il nuovo verso dal vecchio, ma, nell’opera, il nuovo dal nuovo, dove l’esperto non bada alla forma». La pittura è bella, ma ingannatrice; il disegno è semplice, ma preciso:
affermazioni che, forse, rimandano lontanamente alle teorie che si leggono
nella Repubblica di Platone; che, magari, riproducono l’antica ostilità dei Padri della Chiesa nei confronti della vanità del colore, il quale nasconde la
realtà delle cose25; o che, invece, anticipano alcuni principî che si diffonde-
23. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 3 (MORGHEN, Il cardinale cit. [nota
1], p. 30).
24. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 3. Il testo, però, è stato corretto in
due punti, sulla base dell’edizione offerta da MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], p. 30, e da
PAPEBROCH, AA. SS. cit. [nota 2], p. 437: si è preferito «vacate» a «vacare» e «quanto eadem»
a «quanto eodem»; è possibile che tali lezioni dell’edizione di Seppelt, da noi scartate, siano
state causate da refusi, perché in apparato non vengono riportate le corrispondenti lezioni
di Papebroch, altrove generalmente segnalate. Per quanto riguarda l’edizione di Morghen, è
da segnalare che, oltre alle due correzioni qui accolte, scrive «ac si veritatis» invece di «ac si
ex veritatis», «novum ex opere» invece di «novum in opere» e «formamus» invece di «formam».
25.Cfr.M.PASTOUREAU,Medioevosimbolico,Roma-Bari2005(ed.or.Paris2004),pp.
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LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM» DI IACOPO STEFANESCHI
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ranno soprattutto in età rinascimentale26; ma che, in ogni caso, non possono non colpire, se si considera l’eccezionale ruolo di mecenate che Stefaneschi ebbe nel patrocinare le opere di artisti eccelsi come, ad esempio,
Giotto. Ma, con quel paragone tra la scrittura e l’arte figurativa, egli vuole
far spiccare le peculiarità della sua historia, che è caratterizzata come nuova,
in quanto non ha contratto debiti con fonti o modelli precedenti, e per
questo è assolutamente veritiera. Se, da un lato, questa annotazione serve,
forse, a sostenere la correttezza della interpretazione da lui data alle vicende trattate, che vuole, magari, sgombrare il campo dalle dicerie che circolavano sull’atteggiamento ignavo di Celestino e sul comportamento illegittimo di Bonifacio, soprattutto dopo il processo che era stato intentato contro quest’ultimo27; dall’altro, essa ci rende consapevoli del rapporto stretto
che Stefaneschi instaura tra la lettera e il testo che accompagna. Dunque, si
fa sempre più forte l’ipotesi che quella lettera sia stata concepita come connessa con l’opera letteraria, e non con l’oggetto rappresentato dall’esemplare manoscritto.
Del resto, io credo che, prima della diffusione della stampa – cioè in
un’epoca in cui un’opera, una volta vergata dalla penna del suo autore, cominciava a vagare liberamente, e iniziava il suo avventuroso percorso di copie, errori di trascrizione, guasti meccanici, interventi restaurativi più o
meno necessari, modificazioni intenzionali – sia aleatorio, per non dire impossibile, distinguere tra dedica di esemplare e dedica d’opera. È ovvio che
quella lettera del 1319 fosse materialmente separata dal manoscritto inviato,
est ficto quodam colore inlita, nihil fidei et veritatis habentia»; «la pictura è detta quasi fictura; infatti è immagine finta, non verità. Perciò è anche contraffatta, perché è coperta da colore finto, che non ha niente della autenticità e della verità».
26. Cfr. soprattutto A. GRISERI, Il disegno, in Storia dell’arte italiana, Parte III, Situazioni,
momenti, indagini, II, Grafica e immagine, I, Scrittura, miniatura, disegno,Torino 1980, pp. 187-286
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27. Cfr. soprattutto T. SCHMIDT, Der Bonifaz-Prozess. Verfahren der Papstanklage in der Zeit
Bonifaz’ VIII. und Clemens’ V., Köln - Wien 1989 ; J. COSTE, Boniface VIII en procès. Articles
d’accusation et dépositions des témoines (1303-1311). Édition critique, introductions et notes, Roma
1995; A. PARAVICINI BAGLIANI, Bonifacio VIII,Torino 2003 (ed. or. Paris 2003), spec. pp. XIIIXX e 320-44.
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FULVIO DELLE DONNE
e quindi anche dal testo che esso conteneva, rientrando in quella categoria
che Gérard Genette classifica come peritesto28: allo stesso modo, per fare
qualche esempio, della problematica epistola con cui Dante avrebbe dedicato a Cangrande della Scala il Paradiso, oppure di quella con cui Petrarca
dedicava a Pandolfo Malatesta i Rerum vulgarium fragmenta (Sen., XIII 11).
Ed è vero anche che, fino al XV secolo, l’omaggio dedicatorio raramente
assume un ruolo autonomo, separato da un testo prefatorio, che spesso, poi,
viene anche formalmente inglobato nell’opera stessa29. Dunque, la lettera di
Stefaneschi costituirebbe, in qualche modo, un’eccezione, così come quelle di Dante e di Petrarca, a cui abbiamo accennato30. Ma tali eccezioni non
possono essere considerate come deroghe a una norma, che non esisteva e
non poteva, di fatto, esistere, in un’epoca in cui ogni esemplare presentava
anche i caratteri assoluti dell’unicità.
Proprio per questo possiamo concludere che Stefaneschi lega strettamente e indissolubilmente la lettera non solo al manoscritto che accompagna, ma anche al testo che esso contiene. E se egli ammette le manchevolezze della propria opera letteraria, non può accettare che la sua creazione
venga modificata, una volta passata in altre mani in seguito alla prima pubblicazione, coincidente, di fatto, con l’invio del codice al monastero del
Santo Spirito. «Et idcirco studentis ingenium vigilet, manus tamen abstineat, lingua dometur, ne fortassis incautus id corrigat, quod in illo velox
ignorat, presertim cum nec correctores tot exigat, quot idem lectores exposcit, et nos, si tempus affuerit, repetita ipsum lectione recurrere, recursum
discutere, discussumque corrigere properemus»31; «per la qual cosa l’inge28. G. GENETTE, Soglie. I dintorni del testo,Torino 1989.
29. Cfr. F. BRUGNOLO - R. BENEDETTI, La dedica tra Medioevo e primo Rinascimento: testo e
immagine, in I Margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica,Atti del Convegno Internazionale di Studi di Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di M. A.Terzoli, Roma - Padova 2004, pp. 13-54, a p. 14, ma anche alle pp. 29, 40; inoltre, F. BRUGNOLO, Testo e paratesto: la presentazione del testo tra Medioevo e Rinascimento, in Intorno al testo.Tipologie del corredo
esegetico e soluzioni editoriali, Roma 2003, pp. 41-60, a p. 48.
30. Cfr. BRUGNOLO, La dedica cit. [nota 29], p. 15.
31.SEPPELT,MonumentaCoelestinianacit.[nota1],p.3.Cfr.ancheMORGHEN,IlcardinaleCIT
cit.[nota1],p.30,dovesiscrive«audentis»invecedi«studentis»e«quot»invecedi«quotIDEMw
LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM» DI IACOPO STEFANESCHI
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gno del lettore sia vigile, ma la mano si freni, si domi la lingua, perché non
si trovi a correggere incautamente ciò che nella fretta non comprende nel
testo, soprattutto perché esso non ha bisogno di tanti correttori, quanti sono
i lettori che desidera, e noi stessi, se avremo il tempo, ci impegneremo a riesaminarlo rileggendolo, a riconsiderarlo dopo averlo riletto, e a correggerlo dopo averlo riconsiderato».
Probabilmente, proprio dalla lettura di questa frase scaturiva l’avvertimento degli Analecta Bollandiana, secondo cui il futuro editore, come un navigatore che affronta acque irte di scogli, avrebbe dovuto guardarsi non solo
dagli errori della tradizione manoscritta, ma anche da quelli dell’autore32.
In effetti, la lettura dell’opera risulta molto faticosa, e la sua comprensione
è ostacolata anche dalla mancanza di un’edizione critica accettabile33. Stefaneschi rivela ambizione di scrittore, più che gusto, ha scritto Claudio Leonardi nell’introduzione alla più recente edizione del De centesimo seu iubileo
anno34; richiamandosi implicitamente a un giudizio già espresso da Ferdinand Gregorovius, secondo cui, «la sua lingua, anche negli scritti in prosa,
pare un ammasso di geroglifici ed un tale viluppo di barbarismi che fa meravigliare e deve essere tenuto in conto di bizzarria contro natura»35.
32. «Analecta Bollandiana», 16 (1897), p. 385: «Il faudra partir de ce principe que l’original tel qu’il sortit des mains de l’auteur, était, de son propre aveu, rempli d’incorrections. Si
l’on oublie cet état d’imperfection primitive, le texte risque fort de perdre sa physionomie
originelle. D’autre part nul doute que bien des erreurs proviennent des abréviations, de la
mauvaise écriture, des distractions et des fantaisies des copistes, inévitables dans la transcription d’un ouvrage obscur et de longue haleine. C’est entre ces deux écueils que doit s’exercer la sagacité de l’éditeur».
33. Giudizi negativi e senza appello sull’edizione dell’Opus metricum curata da Seppelt
sono espressi da MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], pp. 1-39; FRUGONI, La figura cit. [nota
7], p. 410 nota 3; nonché FRUGONI, Il cardinale cit. [nota 7], p. 82 in nota; V. LICITRA, Considerazioni sull’Opus metricum del card. Jacopo Caetani Stefaneschi, in S. Pietro del Morrone Celestino V nel medioevo monastico,Atti del Convegno storico internazionale, L’Aquila, 26-27 agosto 1988, a cura di W. Capezzali, L’Aquila 1989, pp. 185-201, alle pp. 195-6; E. CONDELLO, Di
alcuni codici dell’Opus metricum di Iacopo Stefaneschi. Contributo ad un’edizione critica, in Studi
sulle società e le culture del Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di L. Gatto - P. Supino Martini, Firenze 2002, pp. 115-134, alle pp. 115-6.
34. C. LEONARDI, Introduzione a I. STEFANESCHI, De centesimo cit. [nota 19], p. IX.
35.F.GREGOROVIUS,StoriadellacittàdiRomanelMedioEvo,X,CittàdiCastello1942
P90.
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FULVIO DELLE DONNE
Eppure, nella Prefatiuncula all’Opus metricum, parlando in terza persona,
Stefaneschi ci fa sapere degli studi compiuti nelle arti liberali: «hic igitur
post rudimenta grammatice, adolescentie pubertatisque primordiis scientiarum fonte Parisius liberalibus philosophieque disciplinis traditus adeo Dei
munere profecit, ut nondum triennio elapso scolaribus tamen illarum cursim prelectis libris aliquibus in facultate, quam liberalium artium vocant,
magno favore magnaque sui decentia meruerit obtinere licentiam, ac magna e vestigio sollemnitate laudeque non minima cathedram magistralem
ascendere, qua eum profecisse, erudisse et docuisse constat»36; cioè: «egli,
dopo aver appreso i rudimenti della grammatica, nella prima fanciullezza e
giovinezza, consegnato agli studi liberali e filosofici a Parigi, fonte delle
scienze, con l’aiuto di Dio, progredì a tal punto che, in meno di tre anni,
dopo aver fatto una prima rapida lettura di alcuni testi scolastici di quelle
materie, meritò di conseguire il titolo, nella facoltà che chiamano di arti liberali, con molto favore e molto onore, e, con solennità grande e non piccola lode, di ascendere subito alla cattedra e all’insegnamento, da cui consta che ottenne buoni risultati erudendo e istruendo». Però, sempre parlando in terza persona del suo successivo trasferimento in Italia per dedicarsi
al diritto, aggiunge anche: «interdum absque instructore interim se ipso, Lucani vacans acumini Virgiliique rhetorice suavitatis profluo, unius geste arduitatem, alterius ficte rei subtilitatem, ac amborum stili gravitatem altitudinem circumspectans, horum, ut prefati sumus, brevem librorum succinctamque materiam quarto scilicet Nicolai pape quarti anno tunc existens
subdiaconus exortus est»37; «intanto, senza alcun maestro, da solo, dedicandosi alle acutezze di Lucano e al profluvio della soavità retorica di Virgilio,
guardando attentamente all’altezza del contenuto storico dell’uno, alla sottigliezza del contenuto fantastico dell’altro, e alla grandiosa altezza dello stile di entrambi, come abbiamo detto, nel quarto anno del pontificato di
36. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 6. Cfr. anche MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], p. 32.
37. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], pp. 6-7. Cfr. anche MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], p. 32, dove si scrive «altitudinemque» invece di «altitudinem» e «Papie existens» invece di «tunc existens».
LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM» DI IACOPO STEFANESCHI
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l’autogiustifICAZIONE.ELRIMARCARELACIRCOSTANZACHEAVEVALETTOEAMMIRA
rato «absque instructore» i versi di Lucano e Virgilio, intende far sapere innanzitutto che la passione per la poesia e per ciò che maggiormente ispirava il suo animo non lo aveva abbandonato neppure quando, invitus, era stato costretto a passare agli studi giuridici. Ma forse vuole anche accattivarsi
la benevolenza del lettore comunicandogli che la lingua da lui usata non è
quella di un letterato professionista. Se lo faccia per giustificare le imprecisioni e le manchevolezze ravvisabili nella sua opera, oppure per rivendicare l’autentica veridicità del suo racconto rispetto alle mendaci finzioni che
generalmente caratterizzano le opere poetiche, non è consentito dirlo. Entrambe le ipotesi possono essere sorrette da quanto dice lo stesso Stefaneschi nella lettera del 1319, come abbiamo già visto.
Una cosa, però, non è possibile dirla: che Iacopo Stefaneschi non fosse
munito di una insolita e, se vogliamo, inaspettata, orgogliosa coscienza del
valore del suo lavoro, di quanto era riuscito a fare, o almeno di quanto
avrebbe voluto fare. Innanzitutto dal punto di vista dell’elaborazione letteraria e delle scelte stilistiche da lui compiute. Infatti, al termine del De centesimo seu iubileo anno, egli afferma: «hactenus iubilei gestis, indulgentie motivis, eius volito, concedentis plenitudine etsi non suffitienter, nobis tamen
supra vires reseratis, dehinc in hiis heroicum parumper metrum agressuri
prosayce finem ceptis stabilimus, ceteris has sufficere rati hesitationibus abstenti. Quos vetustiori nec moderno, nec non minus nobis familiari, veritati tamen reique geste magis gravitati congruenti stilo, scriptitasse iuvat, legentium ad apostolorum principem, gentium doctorem, devotarum precum iuvamenta flagitantes […]»38; «dopo aver sin qui illustrato, se non sufficientemente, almeno già oltre le nostre capacità, le vicende del giubileo, i
motivi dell’indulgenza, il suo intento, la piena potestà di chi lo concesse,
poniamo termine a quest’opera in prosa, per accingerci di qui innanzi a
38. STEFANESCHI, De centesimo seu iubileo anno cit. [nota 19], pp. 32-3.
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FULVIO DELLE DONNE
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familiare e più adatto alla verità e alla maestà dell’avvenimento, implorando il soccorso delle devote preghiere che i lettori vorranno rivolgere al
principe degli apostoli e al dottore delle genti […]»39.
Le espressioni usate a proposito dello stile da lui impiegato non lasciano
dubbi sul fatto che Stefaneschi abbia compiuto una scelta attenta, con la
piena consapevolezza di chi è in grado di valutare quale forma sia più adatta ai vari argomenti, e di comprendere le differenze tra lo stile “antico” e
quello “moderno”, delineando caratterizzazioni precise su cui ci siamo soffermati in altra occasione40. E, come abbiamo già visto prima, non lasciano
dubbi neppure i perentori ammonimenti contenuti nell’epistola del 1319,
rivolti all’incauto che osasse intervenire su un testo che non comprendeva.
Oltre a ciò, sembra proprio che Stefaneschi – che aveva studiato a Parigi e, quindi, conosceva gli esiti di alcune tecniche di copia – fosse ben consapevole anche della pericolosa sorte a cui poteva andare incontro un manoscritto, quando non era più controllato dall’autore, anche un manoscritto prezioso, come doveva pensare che fosse il suo. «Manus tamen abstineat,
lingua dometur», avvertiva, quasi con quelle stesse formule che usavano i
copisti quando cercavano di scongiurare i furti o i danni che potevano guastare la loro fatica. Per questo cerca di premunirsi contro ogni evenienza:
«ceterum presentem librum prefatam metri proseque continentem historiam, quem per religiosum virum amicum nostrum carissimum, fratrem
Antonium de Ysernia, monasterii vestri priorem, sancto devotum et Ordi-
39. La traduzione proposta si discosta parzialmente da quella offerta da Antonio Placanica, che, a proposito dello stile moderno e di quello antico, rende così: «e ci piace esser venuti componendo ciò non secondo lo stile moderno, bensì nell’antico, e a noi meno familiare, ma tuttavia più adatto alla verità e alla maestà dell’evento […]».
40. F. DELLE DONNE, Tra antico e moderno: note sullo stile di Stefaneschi, in IACOPO STEFANESCHI, De coronatione, in corso di stampa per l’Istituto storico italiano per il medioevo,
Roma. Sull’accezione di tali termini cfr. anche M. MIGLIO, Stefaneschi antico e moderno, in
Frammenti di memoria cit. [nota 18], pp. 1-6.
LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM» DI IACOPO STEFANESCHI
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DESTINANDUMQUASIORIGINALEMPENESMONASTERIUMVESTRUM3ANCTI3PIRITUS
DE-URRONEPROPE3ULMONEMPERPETUOMANEREDECREVIMUSw ) iDELRESTO
il presente libro, contenente la menzionata storia in versi e in prosa, che abbiamo pensato di mandare per il tramite del religioso nostro amico carissimo, frate Antonio di Isernia, priore del vostro monastero, devoto al santo e
all’Ordine, e che ha anche una sorta di introduzione allo stesso libro, abbiamo stabilito che dovesse rimanere per sempre, come fosse l’originale, nel
vostro monastero del Santo Spirito di Morrone presso Sulmona». Stefaneschi, stabilendo – il verbo decerno, da lui usato, sembra imporre ai destinatari qualcosa di più di un obbligo morale – che il codice non dovesse mai
più uscire dalla sede a cui l’aveva destinato, per evitare che andasse perso,
qui pone anche, per la prima volta, la distinzione tra il liber, cioè il manoscritto, il contenitore, e la historia, cioè l’opera, il contenuto. E se questa distinzione ci fa conoscere, forse, un possibile titolo che Stefaneschi aveva in
mente per la sua opera complessiva (historia, appunto)42, il modo in cui è
organizzata la frase sembra indicare anche che l’introduzione, ossia quella
che normalmente viene chiamata Prefatiuncula, forse era separata dal manoscritto ed affidata a parte ad Antonio di Isernia: ma gli scarti sintattici con
cui Stefaneschi elabora la sua prosa non ci permettono di affermarlo con
sicurezza.
Comunque, immediatamente dopo, prosegue: «cuius interim fratribus et
conventibus Ordinis vestri, maxime ubi studium vigeat, secularibus etiam
dari permittimus, proviso quod liber hic quasi originalis, de monasterio ipso
non transeat, quodque ipsius extracta copia veraciter, punctatim cum interlinearibus sive glossulis ibi positis concedatur»43; «intanto, consentiamo che
41. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], pp. 3-4 (MORGHEN, Il cardinale cit.
[nota 1], p. 30).
42. DE VINCENTIIS, Scrivere contro la storia cit. [nota 18], p. 10, soffermandosi sul titolo maggiormente appropriato all’opera, sulla base della lettera del 1319 suggerisce Liber, trascurando Historia, evidentemente senza tener conto della distinzione che qui abbiamo notato.
43. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 4 (MORGHEN, Il cardinale cit. [nota
1], p. 30).
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modo che questo libro, come fosse l’originale, non esca fuori dal monastero stesso, ma che ne sia data una copia fatta con precisione, puntualmente
con le annotazioni interlineari e le glosse in esso presenti».
Stefaneschi, soffermandosi ancora sul codice inviato, chiarisce cosa abbia
inteso quando ha chiesto che venisse conservato quasi originalis: l’espressione non sta necessariamente a indicare – come sottolinea anche Papebroch
in una nota alla sua edizione44 – l’autografo dell’autore, ma l’esemplare autenticato dall’autore che deve essere usato per trarre successive copie45.
Contestualmente, Stefaneschi rimarca inoltre la condizione vincolante che
il copista avrebbe dovuto ricopiarlo per intero: da un lato, dichiarando, implicitamente, la struttura definitivamente unitaria della sua opera, e dall’altro, ribadendo l’importanza di preservare fedelmente la memoria delle vicende descritte, secondo una prassi cronachistico-notarile che si stava diffondendo proprio in quel periodo46. Ma egli specifica anche che non dovevano essere escluse le annotazioni e le glosse che egli stesso aveva elaborato, forse perché esse avrebbero conferito maggiore importanza e dignità
al suo testo, equiparato, così, almeno nell’organizzazione esteriore, ai classici studiati nelle scuole47; ma forse anche perché si rendeva conto che alcuni passi più problematici e alcuni termini più inconsueti avevano bisogno
di essere chiariti. Così come, prima di passare al saluto finale, Stefaneschi affermava concludendo la sua lettera: «alioquin quod veremur accideret, ut
ignotus liber redderetur ignotior, criminaretur absque culpa compositor, et,
quod quam maxime vitandum est, ut futura ex presentis operis inspectione ad sanctum devotio decresceret, quam speramus»48; «altrimenti si verifi44. PAPEBROCH, AA. SS. cit. [nota 2], p. 437 nota e.
45. Sul concetto di originalis, nell’ambito della produzione manoscritta, come opera scritta, dettata o curata dall’autore, e quindi come sinonimo di archetypus o di exemplar, cfr. S.
RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973, pp. 318-9.
46. Su tale tipo di produzione storiografica cfr. soprattutto M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999.
47. Cfr. FRUGONI, La figura cit. [nota 7], p. 406; FRUGONI, Il cardinale cit. [nota 7], p. 81.
48. SEPPELT, Monumenta Coelestiniana cit. [nota 1], p. 4. Cfr. anche MORGHEN, Il cardinale cit. [nota 1], p. 30, dove si scrive «vitandum» invece di «vitandum est».
LA DEDICA DEL COSIDDETTO «OPUS METRICUM» DI IACOPO STEFANESCHI
CHEREBBEQUANTOTEMIAMOCHEUNLIBRONONCOMPRESODIVERREBBEANCORA
meno compreso, che chi lo ha composto sarebbe accusato senz’avere colpa
e, cosa che è soprattutto da evitare, che dalla lettura della presente opera
subirebbe un detrimento la futura devozione al Santo, che noi ci auguriamo». Qui Stefaneschi torna a usare il sostantivo liber, ma allargandone l’accezione da quella più specifica di “manoscritto” – di cui aveva fatto uso prima – a quella più generale di “opera”; e ricorre all’aggettivo ignotus e al suo
grado comparativo ignotior, che rimandano immediatamente al verbo ignoro, già usato in precedenza quando ammoniva il corrector incautus a non correggere nel testo «quod in illo velox ignorat». E definitivamente rivela la sua
aspirazione – appena celata dal desiderio di accrescere la devozione verso
Celestino – a essere considerato come un auctor, che non può e non vuole
essere accusato di manchevolezze di cui non è colpevole.
Tutte queste cautele servirono effettivamente a scongiurare ciò che Stefaneschi temeva? Per rispondere – e qui concludiamo – lasciamo la parola
a Daniel Papebroch: «[librarius] non ubique assecutus [est] mentem sui auctoris: qui utinam otium habuisset singula relegendi ad suas ipsius schedas!
Invenisset enim praecipitem librarium, saepe compendiariis notis, saepe interlineationibus liturisque deceptum, mutato ordine verborum, quandoque
et linearum, sensum non raro reddidisse vix intelligibilem per conjecturam,
praesertim in prosa»49; «non dappertutto il copista comprese la volontà dell’autore: e magari questi avesse trovato il tempo per rileggere ogni cosa
confrontandola con le sue pagine originali! Avrebbe infatti riscontrato che
il copista era stato frettoloso, che spesso era stato ingannato dalle abbreviazioni, dalle note interlineari e dalle correzioni, e che, non di rado, soprattutto nella prosa, cambiando l’ordine delle parole, e talvolta anche quello
delle linee, aveva fatto in modo che il senso potesse essere a stento compreso solo per congettura».
49. PAPEBROCH, AA. SS. cit. [nota 2], p. 437 nota e.
20
FULVIO DELLE DONNE
ABSTRACT
On 28 January 1319, Iacopo Stefaneschi sent a letter to the religiosi viri of the
monastery of Holy Spirit of Sulmona: it accompanied the sending of a manuscript
– now lost – of his work, which is generally called Opus metricum, and asked that
it could be kept in that place.That letter, even if it is connected with the gift of a
particular manuscript, appears to be a dedication of the three texts that the
manuscript contained.The so-called Opus metricum, in fact, is composed of the juxtaposition of three works, written in quite different times and contexts, but subsequently revised and restructured into the final version in the codex given to the
Monastery of Sulmona.The letter of dedication, setting precise constraints on the
way in which the manuscript was to be kept and imposing that it should be recopied meticulously and fully (including annotations and glosses), allows us to understand that Stefaneschi – showing full and complete self-consciousness that he
was an auctor – wanted the three originally autonomous sections to be considered
as closely interrelated, creating a structurally uniform work.
Scarica

La dedica del cosiddetto Opus metricum di Iacopo Stefaneschi