Le strategie
della comunicazione
a cura di Enzo Kermol
Trieste, 2000
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Indice
Prefazione
La rivoluzione tecnologica della comunicazione umana
di Enzo Kermol
Comunicazione e mass-media
di Eugenio Aguglia
Dei difetti della legislazione, o diritto e comunicazione
di Mauro Barberis
La comunicazione: emergenza del virtuale tra tecnologie
e società
di Giovanni Boccia Artieri
Comunicazione e servizio sociale
di Edda Bormioli Riefolo
Il contesto collaborativo
di Giovanna Cavagnino
Le mappe cognitive come strumenti per comunicare
di Manuela Cecotti
La discussione come momento di confronto e di crescita
in un contesto sociale
di Loredana Czerwinsky Domenis
Elementi di metacomunicazione: dal cinema alla realtà virtuale. Analisi di un campione di film con ambienti simulati
di Enzo Kermol
La creatura planetaria
di Giuseppe O. Longo
L’informazione come risorsa e come rischio nei servizi d’aiuto alla persona. Una
prospettiva metodologica
di Daniele Nigris
Questioni tecnologiche, relazione tra esperti e profani e nuove tecnologie della comunicazione
di Luigi Pellizzoni
La moltiplicazione delle cornici
di Marina Sbisà
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I rapporti interpersonali nella comunicazione in ambiente virtuale. Strategie e sviluppi
di Mariselda Tessarolo
Strategie della comunicazione politica
di Daniele Ungaro
L’arte e il dilemma della comunicazione
di Laura Verdi
L'uomo non sceglie se essere o meno comunicante, ma può scegliere intenzionalmente,
ogni volta, se comunicare e in che modo comunicare. La comunicazione diviene perciò
l'elemento fondamentale dell'agire umano. Tutto si riconduce al segno, quindi al messaggio.
La comunicazione si presenta come un oggetto di studio intrinsecamente interdisciplinare, che richiede conoscenze e competenze diverse: dalla linguistica alla fonetica, dalla
semiotica alla filosofia, dalla sociologia alla psicologia. Tale complessità diviene momento di proficuo scambio di competenze fra i diversi ambiti disciplinari. Tuttavia la sintesi si
presenta come compito non facile per chi affronta l'estesa trattazione relativa alla multidisciplinarietà della comunicazione. Abbiamo riunito un gruppo di studiosi, docenti di varie discipline nelle università italiane, per cercare una prima sintesi di tale trattazione. Un
avvenimento che, come indica la prefazione, si riconduce a quella rivoluzione tecnologica
della comunicazione umana dovuta all'utilizzo di nuovi strumenti atti a facilitare la comunicazione stessa. Il gruppo è composto da sociologi (Giovanni Boccia Artieri, Daniele
Nigris, Luigi Pellizzoni, Mariselda Tessarolo, Daniele Ungaro, Laura Verdi), psicologi
(Manuela Cecotti e Loredana Czerwinsky Domenis), massmediologi (Francesco Pira),
informatici (Giuseppe O. Longo), psichiatri (Eugenio Aguglia), giuristi (Mauro Barberis), studiosi dei servizi sociali (Edda Bormioli Riefolo e Giovanna Cavagnino) e semiologi (Marina Sbisà). Tutti riuniti attorno al tema dell'analisi delle strategie comunicative
utilizzate in prossimità del secondo millenio.
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Prefazione
La rivoluzione tecnologica della comunicazione umana
di Enzo Kermol
Keiki o shiru to iu koto1
Miyamoto Musashi
1. Aree e temi
Il titolo di questa prefazione volutamente rimanda alle parole utilizzate da Giorgio Braga 2 per
aprire il suo discorso attorno alla comunicazione sociale. Come molti autori contemporanei3 sottolineano il tema della comunicazione umana è divenuto di grande attualità scientifica nel corso
degli ultimi trent'anni. In discipline quali la sociologia, la psicologia, la linguistica e l'antropologia
è stata messa in risalto l'importanza del fattore comunicativo nella vita dell'uomo. "Per questo
motivo" come ci suggerisce Anolli "la comunicazione si presenta come un oggetto di studio intrinsecamente interdisciplinare, che richiede conoscenze e competenze diverse: dalla linguistica alla
fonetica, dalla semiotica alla filosofia, dalla sociologia alla psicologia. Tuttavia, tale complessità
rischia di produrre confusive sovrapposizioni, anziché un proficuo scambio di competenze4". Sintesi dunque che si presenta come compito non facile per chi affronta l'estesa trattazione relativa
alla multidisciplinarietà della comunicazione.
Secondo Braga5 una teoria della comunicazione umana implica due scelte preliminari. La prima di prendere come elemento di base osservabile l'azione, cioè rinunciare a una visione globale
del fenomeno, ricostruibile solo in seguito attraverso l'analisi delle singole parti, la seconda
nell'effettuare una distinzione fra comunicazione e azione. Sempre secondo Braga l'azione a sua
volta comprende due aspetti quello energetico, che permette la modificazione dell'ambiente esterno, e quello formale che garantisce la percezione degli eventi seguenti. La comunicazione si strutturerebbe dunque in comunicante (primo) - canale - comunicante (secondo) che sosterrebbe un
processo culturale analogamente strutturato codice (primo) - messaggio (flusso semico) - codice
(secondo). Tale struttura si presta sia allo spostamento dei messaggi in un'unica direzione (canale
unidirezionale) che in entrambe (canale bidirezionale). Sostanzialmente possiamo considerare il
processo di comunicazione sociale secondo il seguente sviluppo: formazione - emissione - trasmissione - ricezione - interpretazione. "Lo schema può essere letto nel seguente modo: un comunicante, in quanto formatore, forma il messaggio (processo psicologico) ed, in quanto emettitore,
lo emette (processo fisiologico). Il messaggio, parte del flusso semico, viaggia lungo il canale
1
. "Valutare le circostanze", in Miyamoto Musashi, Il libro dei cinque anelli, Mondadori, 1993.
. Non a caso Braga intitolò con le stesse parole, La rivoluzione tecnologica della comunicazione umana, sia la
prima parte che il primo capitolo del suo volume La comunicazione sociale, ERI, Torino, 1974. Riteniamo particolarmente utile la trattazione compiuta da Braga sia per la collocazione storica del suo studio - che si colloca alle radici dell'analisi della comunicazione - sia per la completezza e attualità del contenuto.
3
. Ad esempio Luigi Anolli e Rita Ciceri hanno curato un'ottimo volume, intitolato Elementi di psicologia della comunicazione, Led-Zannichelli, Milano, 1995, che può essere considerato un punto di riferimento nel panorama della situazione di studio sulla comunicazione umana anche al di là del mero ambito psicologico.
4
. L. Agnoli e R. Ciceri, Elementi di psicologia della comunicazione, Led Zannichelli, Milano, 1995, pag. 13.
5
. G. Braga, La comunicazione sociale, ERI, Torino, 1974 e G. Braga, Comunicazione e società, Franco Angeli, Milano, 1961. Vedi anche M. Tessarolo, Il sistema delle comunicazioni, Cleup, Padova, 1991.
2
4
(processo fisico) per essere ricevuto da un altro individuo, il quale, in quanto recettore, lo riceve
(processo fisiologico) per poi, come interprete, interpretarlo (processo psicologico)"6.
La sociologia, secondo la Tessarolo, avrebbe interesse per l'azione solo se questa è provvista di
significati. "Tuttavia molti tipi di comportamento tradizionale (automatico o di routine) sono così
ricorrenti da essere quasi sprovvisti di significato, come pure molte esperienze personali sono così interiori che difficilmente possono essere comunicate. La sociologia riguarderebbe lo studio
dell'azione sociale e quindi gli atteggiamenti soggettivi costituirebbero azioni sociali solo quando
sono orientati verso il comportamento degli altri, solo così l'agire diventa sociale. Il passaggio
dall'azione sociale alla vita sociale avviene attraverso una tipologia di azioni dotate di senso"7.
Tuttavia la psicologia si addentra anche in quella fascia comunicativa meno approfondita dalla
sociologia. Secondo Anolli e Ciceri infatti l'uomo può essere definito come "comunicante", "la
comunicazione cioè pertiene all'essere umano non in modo opzionale, ma in modo costitutivo,
come il suo essere sociale e pensante. La comunicazione costituisce non uno strumento di cui egli
può far uso, ma piuttosto un suo modo di essere, mediante il quale si evolve e che, a sua volta,
egli sviluppa per poi scegliere, di occorrenza in occorrenza, secondo quali modalità esercitare
questa sua funzione. L'uomo pertanto non sceglie se essere o meno comunicante, ma può scegliere
intenzionalmente, ogni volta, se comunicare e in che modo comunicare"8.
2. Libere associazioni
La comunicazione diviene dunque l'elemento fondamentale dell'agire umano. Tutto si riconduce
al segno, quindi al messaggio. Pensiamo al concetto di gruppo. Due esseri umani formano un
gruppo. Diadico. Con meccanismi di funzionamento diversi da quelli di qualsiasi altro gruppo più
complesso. Ed anche la comunicazione soggiace a leggi particolari. Tuttavia ciò che forma il
gruppo, e con le debite eccezioni, qualsiasi azione umana vede la partecipazione di un gruppo, è
determinato essenzialmente dai canali e dalla frequenza di passaggio dei messaggi. Se la complessità del messaggio lo richiede necessitano varie discipline per decodificare e riproporne forma e
contenuto. Ma il dubbio che sorge spontaneo, qui come in altri casi analoghi, riguarda l'utilizzo di
analisi settoriali, vocabolari e codici specifici, per indicare una quantità enorme di forme come in
una rappresentazione ideografica anziché lessicale delle idee. Se la comunicazione può riguardare
infiniti aspetti e categorizzazioni dell'agire umano altrettanto non può dirsi di ciò che viene trasmesso.
Un esempio, curioso ma significativo.
Prendiamo il cinema, la televisione o le più recenti live-webcam9. Ciò che viene rappresentato
sono delle vite umane. I contesti variano, i film seguono i generi - sono di guerra, di fantascienza,
d'amore, comici, erotici, western, commedie sofisticate, noir, ecc. - le trasmissioni televisive portano la loro originalità - le soap-opera, i serial, le situation-commedy, i giochi a premi, il varietà,
le candid-camera, ecc. - le live-webcam permettono di seguire i personaggi sempre anche quando,
negli altri spettacoli, cala il sipario. Ma qual è l'elemento che accomuna queste diverse tipologie
di trasmissione di una rappresentazione della vita umana? Ciò che interessa non è il luogo dove si
svolge l'azione, non a caso esso diviene sempre più rarefatto, spoglio, fittizio, inesistente. Non è
la persona che svolge un ruolo, spesso viene sostituita da un altro attore (soap-opera o livewebcam) ed il seguito di pubblico rimane uguale. Non è neppure la storia della rappresentazione,
6
. Giorgio Braga, La comunicazione sociale, Torino, Eri, 1974, p.212.
. Mariselda Tessarolo, Il sistema delle comunicazioni, Cleup, Padova, 1991, p.33.
8
. Luigi Anolli e Rita Ciceri ,Elementi di psicologia della comunicazione, Led-Zannichelli, Milano, 1995, p. 25.
9
. Il fenomeno è divenuto noto dopo l'apparizione del film di Peter Weir The Truman Show, che narrava in trasmissione televisiva diretta la vita, 24 ore su 24, di un ignaro protagonista. In realtà sono molte le persone che trasm ettono su vari siti internet 24 ore al giorno la loro vita grazie ad alcune piccole telecamere digitali. Tra siti più noti,
con frequenze d'accesso fra le sessantamila e le cinquecentomila al giorno (dichiarazioni delle protagoniste di queste vite in diretta), vi sono www.jennicam.org, www.babetv.co.uk, www.charliecam.uk.
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ripetuta centinaia, migliaia di volte da ognuno dei vari media. L'interesse si sposta altrove. Sui
rapporti interpersonali. Solo ed unicamente su questi. Sulla visione di come ci si rapporta con gli
altri. Come si comunica. Cosa si trasmette. E cosa viene trasmesso a noi spettatori.
Emozioni?
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Comunicazione e mass media
di Eugenio Aguglia
L‟uomo non è un essere isolato dall‟ambiente in cui vive e dagli altri esseri viventi, ed avendo
egli sempre un comportamento che, qualunque esso sia ha inesorabilmente valore di messaggio,
possiamo premettere che per l‟uomo è impossibile non comunicare, per lo meno nel senso più
ampio del termine. Comunicare significa rendere partecipe, collegare, trasmettere, e la radice
“com“ sottolinea il mettere insieme, l‟unire, quindi una relazione tra due o più entità. E‟ implicito
il concetto di movimento, il trasportare, il passaggio da un‟entità ad un‟altra. Già Aristotele poneva la comunicazione come il preliminare all‟edificazione di ogni alta conoscenza.
La definizione dell‟uomo come sistema capace di raccogliere ed elaborare informazioni non
deve essere vissuto come un‟istanza meramente biologica e riduttiva.
Esiste infatti sempre uno scambio nella vita relazionale dell‟essere umano, tra l‟interno e
l‟esterno, fra la persona ed il mondo. Come scriveva G. Miller nel „67, “fra le capacità razionali
dell‟essere umano, la disposizione dell‟uomo alla comunicazione è certamente la più evidente e la
più importante“.
La psicologia ha studiato il sistema comunicativo a vari livelli: nelle interrelazioni umane (es.
la scuola di Palo Alto), secondo modelli cibernetici, nelle dinamiche istituzionali, con le teorie
dell‟apprendi-mento, con lo studio del linguaggio analogico.
Uno dei principali mezzi usati dall‟uomo per comunicare è indubbiamente la parola. Le dinamiche del linguaggio parlato sono state anch‟esse analizzate e connesse alle capacità mentali di
lettura dei simboli linguistici. Un‟espressione parlata viene ascoltata, in prima istanza, non fosse
altro che come stimolo uditivo. Il livello successivo consiste nel riscontrarla, come sequenza fonemica, quindi accettarla come enunciato, sulla base delle proprie conoscenze grammaticali. Il
processo termina con l‟interpretazione semantica e la comprensione nell‟ambito delle conoscenze
contestuali dell‟ascoltatore. In ultima analisi, si può credere o meno a quanto udito. Per rafforzare
quest‟ultimo passaggio, come vedremo, la pubblicità ha inventato sempre nuove tecniche e strategie di immagine.
Altrettanto importante nell‟ambito del processo comunicativo è la parte analogica, non verbale,
di un discorso. Un esempio interessante del grado di interferenza della gestualità nella comprensione e nel condizionamento del comportamento umano ci viene fornito dall‟ip-nosi analogica.
Questa tecnica, diventata purtroppo famosa grazie al suo utilizzo per alcune rapine in banca,
sfrutta prevalentemente i segnali non verbali per indurre lo stato di trance, con una rapidità ed
un‟efficacia che supera di gran lunga le tecniche convenzionali. Ogni essere umano possiede una
particolare sensibilità a gesti e rumori, che vengono recepiti al di là della barriera cosciente, e
che, se opportunamente direzionati, superano la volontà del soggetto.
Queste situazioni si verificano in modo casuale nella vita di ogni giorno, ma possono essere
sfruttate in campo pubblicitario, dopo che i messaggi sublimali sono stati individuati e messi fuori legge.
La comunicazione umana è ai nostri giorni enormemente amplificata dalla presenza dei media.
In più, la fine del nostro secolo vede nascere l‟uso su larga scala della multimedialità, che con
internet connette l‟intero pianeta pensante, creando una crescita esponenziale delle possibilità di
contatti transculturali a tutti i livelli.
A seconda del livello, la comunicazione tramite mass media pone differenti problematiche di
ordine etico inerenti cosa e come si trasmette. Dalla veridicità delle informazioni delle testate
giornalistiche, alla violazione della privacy delle riviste scandalistiche per quanto concerne la
stampa, si passa ai programmi violenti o comunque non adatti ai minori delle televisioni.
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Numerose ricerche sono state effettuate per valutare l‟impatto dei media sulla popolazione: un
esempio significativo è costituito dal rilevamento di un aumentato numero di suicidi sulle autostrade in Austria dal 1990 al 1994. I ricercatori verificarono che si trattava prevalentemente di
soggetti più giovani rispetto ai restanti suicidi di quegli anni, e che la scelta del metodo “autostradale” era aumentata dopo dei reportage televisivi riguardanti lo stress presentato dai conducenti
dei treni riguardo la possibilità di investire dei suicidi sulle rotaie.
I media hanno quindi presentato un modello suicidario alternativo, recepito soprattutto dai più
giovani (i due tipi di suicidio sopraindicati sono assimilabili come gravità), (Deisenhammer et al.,
Nevenzarzt, 1997).
Un altro esempio, più che mai attuale, è dato dalla diffusione di notizie intimidatorie e scorrette
da parte dei mass media sulla trasmissione del morbo di Creutzfeldt-Jakob e di altre encefaliti
spongiformi trasmesse da prioni, come riportano Budka ed al. nel „96.
Preparando adeguatamente il contenuto ed il modo di trasmettere l‟informazione, i mass media
possono in realtà prestarsi a delle iniziative educative e preventive a vari livelli volte alla popolazione generale, come ad esempio la campagna contro l‟uso del tabacco o per la prevenzione della
malattie cardiovascolari tramite la promozione dell‟attività fisica (Schooler C., Flora J. A., 1996;
Owen N., 1996).
Come abbiamo già anticipato, in questi ultimi anni le problematiche si spostano, di pari passo
con l‟evolvere della nuova tecnologia, su altri piani di comunicazione.
L‟Internet e la multimedialità in genere hanno infranto i confini dell‟informazione, hanno oltrepassato la censura ed i problemi linguistici, creando un universo di comunicazione virtuale che
presenta sempre meno confini.
I benefici a livello di istruzione, di ricerca, di contatto per così dire umano sono indiscutibilmente enormi. La quantità di informazioni da immettere o a cui accedere è di una tale portata da
richiedere preparazione specifica per potersi muovere agevolmente fra le migliaia di dati disponibili.
I siti Internet sono in grado di coprire quasi ogni argomento possibile: dal fans club di Elvis
Presley all‟associazione madri single. Ed è a questo livello che iniziano i primi interrogativi. Per
amore della libertà, si rischiano errori più gravi o forse più pericolosi di quelli già menzionati dei
mass media di più vecchio stampo.
1. Internet
Il dolore e la solitudine sono costanti che hanno accompagnato l‟uomo nel corso dei secoli. E‟
necessaria una premessa esistenziale ad una analisi dell‟universo telematico e dei suoi confini, in
quanto qualsiasi criterio si adotti per giudicare la realtà umana e stabilire un canone di normalità
all‟interno di essa può venire criticato.
Possiamo quindi vedere la realtà come costituita dalla soggettiva esperienza esistenziale, di noi
stessi e degli altri.
Descrivere il dolore e la solitudine connesse ad Internet presuppone l‟apprestarsi a svelare un
giuoco di scatole cinesi per arrivare a definire la realtà concreta ed immutabile del dolore umano.
Vorremmo parlare del dolore profondo non fisico che ogni uomo ha provato e prova in alcuni
momenti della propria vita senza poterne capire l‟origine oppure il senso. Possiamo ipotizzare che
tale dolore derivi dall‟assoluta incongruenza ed incompatibilità esistenti tra la finitezza della corporeità ed il bisogno metapsichico di comprendere il senso della vita.
Intendiamo cioè dire che ogni uomo di qualsiasi epoca, di qualsiasi condizione sociale, vive
gran parte della propria esistenza corporea e perciò limitata nascondendo a se stesso, con artefatti
sempre più raffinati, l‟incombente caducità del proprio corpo, e che il dolore che saltuariamente
emerge nasce esclusivamente dal contrasto tra lo scorrere del tempo soggettivo e l‟assoluta onnipotenza e disperata volontà di sfuggire con ogni mezzo alla morte ed all mancanza di senso.
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Risulta quindi chiaro come la finitezza umana sia un peso assolutamente individuale. Proprio
perché la solitudine connette direttamente il singolo all‟angoscia di base va costantemente rifuggita con ogni mezzo, ed un artefatto utile ad alleviare il dolore risulterà ulteriormente potenziato
qualora appaia in grado di alleviare anche la solitudine: Internet è, allo stato di attuale conoscenza tecnica, il risultato apparentemente materializzato delle esperienze attinte dall‟Uomo in secoli
di fughe da se stesso.
2. Psicopatologia
In questi pochi anni sono già state condotte diverse ricerche sulle implicazioni tecniche e sociali
dell‟avvento di Internet Milton P. e coll. (1996) che si sono occupati del livello di interazione umana in Internet dal punto di vista delle aspettative di comunicazione e delle problematiche inerenti il volume e le caratteristiche delle informazioni, in un‟ottica di applicazioni future anche in
ambito psichiatrico.
Poiché l‟uomo è costituito da corpo e mente, e non viviamo ancora in un universo virtuale in
cui è stata raggiunta la “sensorialità umana decorporizzata”, considereremo come parametri di
normalità quelli che sono stati posti come base per definire la psicopatologia stessa, cioè i concetti di benessere e malattia, quest‟ultima intesa come condizione dolorosa per l‟essere umano.
Il concetto di contesto è importante per il nostro studio, considerando che la comunicazione in
Internet avviene nell‟ambito di uno schema rigido, che non prevede variazioni a seconda del messaggio, e pertanto è scevra della componente emozionale da ambo le parti, e come vedremo è un
dato rilevante dal punto di vista psicopatologico. Manca inoltre la componente analogica del linguaggio, cioè tutta la comunicazione non verbale che risulta comunque determinante nello stabilire il contesto relazionale (Watzlawick P. et al., 1971).
La comunicazione che usa come sistema di dialogo l‟interfaccia digitale, schermo “difensivo”,
avviene senza visione dell‟interlocutore, senza ascolto, senza linguaggio parlato, in definitiva senza coinvolgimento corporeo delle parti dialoganti. Questa situazione virtuale evita il contatto umano diretto e consente quindi una difesa emozionale, in quanto la componente emozionale, anche
se presente, viene filtrata dalla situazione virtuale. Il soggetto è protetto dal punto di vista fisico
ed emotivo, qualsiasi tipo di contatto stia operando, dallo scambio di idee all o scambio di invettive, dal racconto di leggende metropolitane alle esperienze sessuali cibernetiche (Berretti A.,
1995).
Il dialogo via rete può quindi assumere le caratteristiche di una comunicazione di tipo autistico
nel momento in cui trascende il suo valore originario, ed isola, se si sviluppa una sindrome da dipendenza, dal contesto sociale, in cui personalità con tratti autistici di base hanno difficoltà di inserimento adeguato. E‟ possibile anche scorgere un parallelismo, sia pure in senso lato, con i concetti di “identità” e di “frontiera” che B. Bettelheim (1990) proponeva per i bambini. Nonostante
nell‟adulto con marcati tratti autistici il contenimento delle emozioni avvenga in modo meno eclatante e l‟esperienza del tempo sia vissuta in modo meno angoscioso, il computer può assumere
ruoli similari ai concetti di Bettelheim nella loro funzione di controllo dell‟identità dell‟ambiente e
di separazione del proprio ambito dal resto del mondo.
Oltre a personalità con tratti autistici o fragilità dell‟Io, le caratteristiche della rete possono
colludere anche con aspetti ossessivo-compulsivi del carattere. La possibilità di controllo continuo delle informazioni è più facile tramite computer, e consente ad una personalità di tipo ossessivo di esercitare questo controllo con la permanenza in Internet a tempo indefinito. viene così ad
instaurarsi anche la compulsione del ritorno incessante alla rete, pena la comparsa dell‟angoscia
che le ripetitive manovre di controllo servivano ad evitare. La comunicazione in questo caso è univoca e finalizzata ad incanalare le pulsioni inconsce in un sistema difensivo classico di isolamento ed annullamento, che può trovare un modo di esprimersi fino a questo momento sconosciuto.
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Si può parlare anche di modalità relazionale simbiotica, nel senso più ampio del termine, con il
computer, inteso come una “grande madre”, che appaga i bisogni pressanti dell‟utente e ne crea
essa stessa sempre di nuovi. Si addice al nostro studio la definizione di simbiosi, intesa come tendenza alla fusione, rappresenta un‟ampia gamma di espressioni e di necessità mentali, fa parte
della vita normale ed adulta, mentre essa è patologica laddove non esprime l‟armonia comunicativa e reciprocamente fertile di due mondi interni, ma piuttosto la netta esplicitazione di una concreta necessità di uso dell‟altro.
I sintomi dell‟Internet Addiction Disorder fanno pensare all‟”inoculazione” da parte della rete
di una qualche “sostanza virtuale” in grado di “placare la sete” indotta dalla rete stessa.
Qualsiasi sia la natura di questo placebo ambivalente, che aumenta la necessità in chi lo assume, lascia un punto interrogativo negli osservatori esterni. Si può però osservare come le modalità stesse di Internet, i tempi di attesa, il necessario know-how che può essere attinto dalla rete
stessa, le parole d‟ordine per accedere ai siti più ambiti, indichino come la rete funzioni in modo
analogo ad un gioco di ruolo in via di evoluzione, dove al giocatore è concesso di fare qualsiasi
cosa a patto che la sua esperienza glielo permetta. Uscire dal gioco significa incorrere nella possibilità di venir superati dagli altri giocatori, ed ecco uno dei motivi per cui chi è dipendente sente
di dover essere continuamente rifornito di “punti esperienza”. A questo punto si può facilmente
ipotizzare che il placebo-Internet abbia a che fare con un senso di potenza che al di fuori di
Internet viene immediatamente ridimensionato.
In rete ci si può sentire simili a “divinità” in grado di fare, vedere, conoscere sempre di più in
tempi sempre più brevi, situazione questa irrealizzabile nella quotidianità, dove i tempi sono lunghi ed i dubbi pesanti e difficili da gestire.
Se fosse pertanto possibile a questo punto individuare una personalità premorbosa comune, la
ricerca andrebbe indirizzata verso quelle con i tratti narcisistico-onnipotenti anche se non manifesti, non in grado cioè di rapportare la propria megalomania all‟esterno, nel mondo. Se si verificano le opportune condizioni in rete, tali personalità sono però in grado di crearsi un proprio regno
fatato ove è possibile costruire e distruggere mondi interi in pochi minuti.
La dipendenza deriverebbe in questo caso da un‟onnipotenza di base slatentizzata dalle caratteristiche di totipossibilità insite nella rete stessa, a cui farebbe però da contraltare uno scontro con
la realtà sempre più duro, giacché sempre più evocante i propri limiti spazio-temporali e di inanità concreta. Internet, tramite il disturbo da dipendenza, ci rivela il suo lato più nascosto: la rete
alimenta i sogni segreti dell‟essere umano, di poter fare tutto senza tener conto del reale, ma così
facendo ci allontana da quella vita in cui l‟essere uomini ha radici, allontana cioè l‟individuo dalla
fisicità relazionale. In realtà, la rete alimenta ed uccide allo stesso tempo.
E‟ importante tenerne conto, perché sotto questo profilo la prevenzione è fondamentale, in particolare per adolescenti e bambini, per i quali l‟onnipotente Internet costituisce un miraggio buono
e bello. Deve infatti essere tenuta in considerazione la facilità con la quale è possibile attrarre un
bambino che non ha ancora una personalità sufficientemente forte e strutturata, con la promessa
del “tutto è possibile”, e di come sarà poi improbabile che lo stesso bambino accetti di vivere in
un quotidiano fatto di cose apparentemente più piccole, banali, limitate. In quest‟ottica, i sintomi
dell‟IAD deriverebbero da un senso di perdita di potenza in grado da solo di attivare angosce arcaiche di inadeguatezza e di castrazione proprie del periodo precoce della vita di ognuno.
La prevenzione risulta essere, quindi, la miglior difesa possibile, attuabile mediante una più
congrua diffusione di informazioni riguardanti i rischi connessi all‟uso eccessivo della rete.
L‟eventuale terapia sarà ovviamente mirata a ristabilire nei soggetti colpiti la sensazione di poter agire con successo nel quotidiano, e quindi sarà applicata tramite l'uso di rinforzi positivi.
Dei difetti della legislazione, o diritto e comunicazione
10
di Mauro Barberis
Il faut peu de lois. Où il y en a tant, le peuple est esclave
(L. de Saint-Just)
Vi sono molti modi di affrontare il tema dei rapporti fra diritto e comunicazione: per esempio,
si può trattarlo dal punto di vista del diritto positivo (si pensi alla questione se l‟ignorantia legis
scusi o no)10, oppure da quello delle tecniche di redazione delle leggi (c. d. drafting legislativo)11
o ancora da quello dell‟elaborazione elettronica dei dati (informatica giuridica)12. Anche a trattarlo nella prospettiva della filosofia del diritto, il tema offre molte alternative: se per la filosofia
giuridica speculativa o tradizionale esso richiede una riflessione sulla certezza del diritto13, per la
giusfilosofia analitica e/o per la semiotica giuridica esso finisce per identificarsi con l‟oggetto
stesso di questi accostamenti, costituito appunto dall‟analisi linguistica e/o semiotica della comunicazione giuridica14.
Nel breve spazio di questo intervento non ci si potrà certo occupare di ognuno di questi argomenti; se ne tratterà però un altro che, sotto molti profili, si rivela preliminare o pregiudiziale rispetto ad essi. L‟argomento è il seguente: può ancora la legislazione costituire lo strumento privilegiato o addirittura esclusivo della comunicazione giuridica, com‟è stato sul continente europeo
negli ultimi due secoli15? L‟interrogativo nasce non solo dal fatto che il modello di comunicazione
giuridica basato sulla legislazione sembra entrato in crisi, ma anche dalla circostanza che fra i
critici di tale modello almeno uno - Bruno Leoni, come vedremo - sembra aver delineato anche un
modello alternativo, che chiameremo giurisprudenziale.
Qui di seguito, dunque, il tema dei rapporti fra diritto e comunicazione verrà affrontato considerando tre modelli comunicativi, indicati rispettivamente come legislativo, giurisprudenziale e
misto. „Diritto‟, occorre precisare, verrà usato nel senso di istituzione sociale che assolve tipicamente alle funzioni di dirimere i conflitti d‟interesse fra privati, punire i crimini, istituire il potere
(e altre simili a queste); „comunicazione‟, nel senso di trasmissione di informazioni - in senso ampio: sia precetti sia informazioni in senso stretto - da un emittente a un fruitore: emittente e fruitore che nel caso del diritto sono rappresentati rispettivamente dalla cultura giuridica interna (legi16
slatore, giudici, giuristi) e dalla cultura giuridica esterna (il pubblico, i cittadini in senso lato) .
1. Il modello legislativo
Il modello comunicativo legislativo è relativamente semplice: la comunicazione passa da un
emittente, che si riduce al legislatore, al fruitore, il cittadino. In questo modello il legislatore finisce per monopolizzare le funzioni comunicative che in altri modelli sono assicurate anche o soprattutto da giuristi o giudici: l‟informazione giuridica, cioè, viene canalizzata dalla legislazione,
intesa come insieme di documenti autoritativi prodotti da superiori politici con l‟intenzione di cre10. Cfr., ad esempio, L. Pegoraro, Linguaggio e certezza della legge nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, Giuffrè, Milano, 1988 (specie in relazione alla sentenza n° 364 /1988 della Corte Costituzionale, per la quale la
presunzione di conoscenza della legge penale da parte del cittadino, ex art. 5 c. p., non può valere incondizionatamente in una situazione di inflazione legislativa).
11. Cfr., ad esempio, S. Bartole (a cura di), Lezioni di tecnica legislativa, Cedam, Padova, 1988.
12. Cfr. , ad esempio, M. G. Losano, Il diritto privato dell’informatica. Corso di informatica giuridica, Einaudi,
Torino, 1986.
13. Cfr., ad esempio, F. Lopez de Oñate, La certezza del diritto, Giuffrè, Milano, 1952.
14. Cfr., ad esempio, M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria del diritto, Giappichelli, Torino, pp. 305-348 (l‟intero
capitolo intitolato “Semiotica giuridica”).
15. Per esempio: gli studi sul drafting danno spesso per scontato il carattere legislativo dei testi giuridici da redigere, e presuppongono il modello di comunicazione giuridica qui chiamato legislativo.
16. Per questa distinzione, cfr. L. Friedman, The Legal System. A Social Science Perspective (1975), trad. it. Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1978, specie pp. 371-372.
11
are diritto17. In questo modello, tutti gli altri documenti che potrebbero mettere in comunicazione
cultura giuridica interna ed esterna - dalle sentenze dei giudici agli scritti dei giuristi - ruotano attorno alla legislazione, di cui costituiscono una mera riformulazione a fini applicativi o dottrinali.
Almeno nei sistemi giuridici continentali o di civil law - formatisi a partire dalla compilazione
giustinianea del diritto romano e poi passati attraverso le grandi codificazioni sette-ottocentesche
- il modello comunicativo legislativo è anzi talmente diffuso e radicato da far dubitare persino che
possa parlarsene come di un semplice modello, alternativo rispetto ad altri. Qui e oggi, infatti,
una comunicazione giuridica che non privilegi lo strumento legislativo è diventata quasi inconcepibile; a due secoli dalla codificazione e a quasi un secolo dall‟inizio della decodificazione (il processo di espansione della legislazione speciale a scapito di quella generale rappresentata dal codice)18, il modello legislativo non sembra più neppure un oggetto di scelta, ma qualcosa di simile al
destino.
Dal punto di vista della teoria della comunicazione, il modello in questione comporta un passaggio di informazioni di tipo unidirezionale e asimmetrico: unidirezionale, nel senso che avviene
dal legislatore al cittadino (e non viceversa), e asimmetrico, nel senso che il legislatore - autocratico o democratico che sia - è pur sempre un superiore politico, sicché la comunicazione avviene,
per dir così, dall‟alto in basso. Si tratta quindi di comunicazione che si presta particolarmente
all‟attribuzione di funzioni precettive, o direttive, o normative, cioè di guida del comportamento:
com‟è stato sostenuto dai teorici del diritto dell‟Ottocento e del Novecento, che proprio sulla legislazione hanno esemplato le loro concezioni del diritto come comando, norma o precetto19.
Il modello legislativo, anche dopo quella codificazione che sembra averne segnato la definitiva
affermazione in Occidente, ha sempre avuto dei critici, sia fra i giuristi positivi sia fra i filosofi e
gli storici del diritto; molti di costoro hanno spesso esaltato esperienze giuridiche preesistenti o
concorrenti, quali quelle del diritto romano-comune continentale o della common law angloamericana. Critiche ed esaltazioni siffatte sono spesso apparse antimoderne, regressive e/o reazionarie:
almeno sinché, in coincidenza con fenomeni quali quelli etichettati come legificazione, entropia
della legge o, più comunemente, inflazione legislativa 20, le critiche al modello legislativo, e le
(ri)proposte di altri modelli sono parse assumere un altro segno, questa volta (neo)liberale.
Ciò è avvenuto soprattutto in un autore per più versi eccentrico rispetto al mainstream teorico-generale e filosofico-analitico: il giurista e scienziato politico Bruno Leoni. Come l‟economista
e metodologo delle scienze sociali Friedrich August von Hayek, sulle cui idee giuridiche ha profondamente influito21, Leoni ha mosso al modello legislativo un‟obiezione generale e tre obiezioni
particolari. L‟obiezione generale è che tale modello dipenderebbe dall‟assunzione, da parte dello
Stato, di compiti pianificatorî, redistributivi e assistenziali, che richiederebbero una legislazione
sempre più pletorica, minuziosa e illiberale; le tre obiezioni particolari potrebbero chiamarsi, ri-
17. Sulla nozione di legislazione, cfr. almeno: da un punto di vista teorico, R. Guastini, Analysing Legislation (and
Some Related Concepts), in “Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova”, XXV, 1993-94, pp. 205-229; da
un punto di vista storico, J.-M. Trigeaud, La funzione legislativa, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”,
1994, pp. 620-665.
18. Cfr. N. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano, 1979; Id., Decodificazione, voce, in Digesto delle discipline privatistiche. Sez. civile, V, Utet, Torino, 1989, pp. 142-148.
19. Si tratta della posizione che G. Carcaterra, La forza costitutiva delle norme, Bulzoni, Roma, 1979, specie pp. 918, chiama prescrittivismo, e che accomuna le dottrine chiamate tradizionalmente imperativismo e normativismo.
20. Cfr., ad esempio, G. Teubner, Aspetti, limiti, alternative alla legificazione, in “Sociologia del diritto”, 1985 e
G. Lazzaro, Entropia della legge, Giappichelli, Torino, 1985, nonché molti degli interventi ospitati nelle seguenti
opere collettanee: A. Giuliani, N. Picardi (a cura di), Modelli di legislatore e scienza della legislazione, E. S. I.,
Napoli, 1987; M. Basciu (a cura di), Legislazione. Profili giuridici e politici, Giuffrè, Milano, 1992; P. Di Lucia (a
cura di), Nomografia. Linguaggio e redazione delle leggi, Giuffrè, Milano, 1995.
21. Cfr. R. Cubeddu, Friedrich A. von Hayek e Bruno Leoni, in “Il Politico”, 1992, pp. 393-420, e M. Stoppino,
Introduzione a B. Leoni, , Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica, a cura di M. Stoppino, Società Aperta, Milano, 1997, pp. V-XXII.
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spettivamente, della dispersione dell‟informazione, della sovranità del consumatore, e della certezza del diritto a breve termine.
L‟obiezione della dispersione dell‟informazione è formulata da Leoni nella sua opera maggiore, Freedom and the Law (1961), riprendendo un argomento contro la pianificazione avanzato sin
dagli anni Venti a opera della Scuola economica austriaca. Ciò che renderebbe inefficienti sia la
pianificazione sia la legislazione sarebbe il fatto che l‟informazione è infinitamente dispersa fra
gli individui: nessun pianificatore centrale potrebbe conoscere le preferenze dei consumatori meglio di quanto riesca agli imprenditori sulla base dell‟informazione incorporata nei prezzi di mercato; analogamente, nessun Parlamento potrebbe conoscere le aspettative giuridiche dei consociati meglio di quanto riesca ai giuristi sulla base dell‟informazione incorporata nelle soluzioni di casi concreti già fornite22.
L‟obiezione della sovranità del consumatore è stata avanzata da Leoni soprattutto nel saggio
intitolato Consumer Sovereignty and the Law (1963); secondo questo lavoro, vi sarebbe una differenza fondamentale, nelle relazioni che intercorrono fra produttori e consumatori di beni industriali, da un lato, e fra “produttori” e “consumatori” di leggi dall‟altro. La produzione di merci
avverrebbe a partire dalla domanda del consumatore: anche un bambino di cinque anni, comprando un gelato, influirebbe sulla produzione industriale di gelati, e sarebbe in questo senso “sovrano”. La produzione di leggi realizzata nei parlamenti contemporanei, invece, sfuggirebbe al controllo dei “consumatori”, se si eccettua la delega in bianco rilasciata ai parlamentari da parte degli elettori23.
L‟obiezione della certezza del diritto a breve termine è stata proposta da Leoni, oltre che in un
noto capitolo di Freedom and the Law, nel saggio The Law as Claim of the Individual (1964),
forse il suo lavoro più ambizioso dal punto di vista teorico. La legislazione produrrebbe solo una
certezza del diritto a breve termine, che si esaurirebbe nella reperibilità del testo della legge; la
vorticosa mutabilità delle leggi, peraltro, impedirebbe loro di corrispondere stabilmente alle aspettative o pretese giuridiche dei consociati24. Una certezza del diritto a lungo termine, come vediamo subito, potrebbe venire assicurata solo da un diritto giurisprudenziale: un diritto, cioè, elaborato gradualmente da giudici o giuristi attraverso un meccanismo di tipo processuale che vede
la partecipazione degli interessati.
2. Il modello giurisprudenziale
Il modello comunicativo che potrebbe chiamarsi giurisprudenziale - nel senso più lato
dell‟aggettivo25 - appare molto più complesso del modello legislativo. Nel modello giurisprudenziale, infatti, la comunicazione fra cultura giuridica rispettivamente interna ed esterna non parte
dal legislatore per arrivare al cittadino, ma vede l‟interazione fra i singoli consociati, portatori di
aspettative e di pretese individuali, e i tecnici del diritto - giudici o giuristi - cui i primi chiedono
la soluzione dei loro conflitti. Il modello giurisprudenziale non è né lineare né unidirezionale, co22. Cfr. B. Leoni, Freedom and the Law (1961), trad. it. La libertà e la legge, Liberilibri, Macerata, 1994, specie p.
22; cfr. anche F. A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty (1973-1979), trad. it. Legge, Legislazione e Libertà, Il
Saggiatore, Milano, 1989, specie pp. 111-113, e The Fatal Conceit. The Errors of Socialism (1988), trad. it. La
presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Rusconi, Milano, 1997, specie pp. 147-152.
23. Così B. Leoni, Consumer Sovereignty and the Law (1963), trad. it. La sovranità del consumatore e la legge in
Id., La sovranità del consumatore, a cura di S. Ricossa, Ideazione, Roma, 1997, p. 117; cfr. anche ivi, p. 118: “Controllare la produzione della legislazione è per i “consumatori”, ossia le persone cui le stesse regole sono destinate,
un compito evidentemente senza speranza”.
24. Cfr. B. Leoni, Freedom and the Law, cit., specie pp. 87-107 e Id., The Law as Claim of the Individual (1964),
trad. it. Il diritto come pretesa individuale in Id., Le pretese e i poteri, cit., pp. 119-133.
25. Per „diritto giurisprudenziale‟, in base ai due sensi principali di „giurisprudenza‟, si può intendere sia un diritto
elaborato dai giuristi (così L. Lombardi (Vallauri), Saggio sul diritto giurisprudenziale, Giuffrè, Milano, 1967), sia
un diritto prodotto dai giudici (così M. Bessone (a cura di), Diritto giurisprudenziale, Giappichelli, Torino, 1996).
Qui di seguito l‟aggettivo verrà inteso in entrambi i sensi.
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me quello legislativo, ma circolare: la comunicazione muove dalle pretese individuali, viene mediata dalle soluzioni elaborate dal giurista o dal giudice e torna al pubblico come riserva di precedenti o di princìpi.
Non si tratta neppure di modello asimmetrico, come quello legislativo: il giurista o il giudice
non sono superiori politici, ma tecnici della soluzione dei conflitti, professionisti che, come vedremo, non sono necessariamente incardinati in un‟organizzazione di tipo statale. La comunicazione, conseguentemente, non assume i caratteri univocamente precettivi del modello legislativo:
in un modello giurisprudenziale puro “il diritto, in ultima analisi, è qualcosa che ognuno crea ogni
giorno con il proprio comportamento”26, e che il giurista o il giudice si limitano a dichiarare su
richiesta degli interessati. Qui la funzione del diritto, dunque, non è tanto quella di guidare il
comportamento, tipica della legislazione, quanto quella di garantire la sicurezza delle aspettative
dei consociati27.
La superiorità del modello giurisprudenziale su quello legislativo è argomentata da Leoni nei
termini delle tre obiezioni sopra considerate. Nei termini dell‟obiezione della dispersione
dell‟informazione, anzitutto, nessun legislatore saprebbe “stabilire da solo, senza una continua
collaborazione da parte di tutti gli interessati, le regole governanti il comportamento effettivo di
tutti”28. Ben diversa sarebbe la situazione nel caso del diritto giurisprudenziale: questo, infatti, si
formerebbe a partire delle richieste degli interessati e, almeno nel caso del diritto civile, anche con
la loro collaborazione; le soluzioni proposte da giudici e giuristi, ancora, varrebbero tendenzialmente solo per le parti in causa e non sarebbero fornite arbitrariamente ma, di solito, sulla base di
(soluzioni) precedenti29.
Nei termini dell‟obiezione della sovranità del consumatore, poi, la delega della produzione di
diritto al legislatore comporterebbe una sorta di esproprio dei suoi legittimi titolari, che sarebbero
gli stessi cittadini; Leoni invita anzi i consumatori di diritto a riappropriarsi della loro sovranità,
tornando “alla loro reale funzione di produttori delle loro proprie regole, o almeno di quelle regole
- e non sono poche - la cui produzione altrimenti essi controllerebbero, mentre oggi non lo possono”30. In questo rifiuto della rappresentanza politica e del monopolio statale della produzione e
applicazione del diritto, Leoni ha trovato dei prosecutori negli anarco-capitalisti americani, che
propongono la dissoluzione dello Stato in una pluralità di giurisdizioni private in libera concorrenza fra loro31.
Infine, nei termini dell‟obiezione della certezza del diritto a breve termine - che è anche la più
rilevante, sotto il profilo comunicativo - la legislazione comporterebbe l‟inconveniente che “tutte
le leggi [sono] certe, cioè espresse con precisione in una formula scritta, però nessuno [è] certo
che qualsiasi legge, valida oggi, [possa] durare fino a domani senza essere abrogata o modificata
da una legge successiva”32. Il continuo mutamento del panorama normativo, determinato dalla
legislazione, comporterebbe l‟impossibilità di formarsi aspettative giuridiche durature e di formulare progetti per il futuro; solo un meccanismo giurisprudenziale di elaborazione del diritto, inevi-
26. B. Leoni, Consumer Sovereignty and the Law, cit., p. 120.
27. Su questa opposizione, cfr. N. Luhmann, Ausdifferenzierung des Rechts (1981), trad. it. La differenziazione del
diritto, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 81-101 (l‟intero capitolo intitolato “La funzione del diritto: sicurezza delle
aspettative o guida del comportamento?”).
28. Così ancora B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 22 (in corsivo nel testo), che così prosegue: “nessun sondaggio, nessun referendum, nessuna elezione mettono davvero i legislatori nella posizione di determinare queste
regole”.
29. Ivi, p. 25.
21. B. Leoni, Consumer Sovereignty and the Law, cit., p. 121 (trad. it. modificata).
31. Cfr. per esempio D. Friedman, The Machinery of Freedom (1973), trad. it. L’ingrananggio della libertà, Liberilibri, Macerata, 1997, p. 172: “le norme giuridiche verrebbero prodotte con la logica del profitto in un libero mercato, proprio come vengono prodotti oggi i libri o i reggiseni”. In Italia, queste tesi sono state riprese da F. M. Nicosia, Il diritto di essere liberi, Facco, Treviglio, 1997.
32. B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 89.
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tabilmente più lento di quello legislativo, consentirebbe la formazione di una certezza del diritto a
lungo termine.
Occorre subito precisare che Leoni non pretende certo l‟integrale sostituzione del modello legislativo con il modello giurisprudenziale; di fatto, mentre si danno modelli legislativi puri, non vi
sono quasi esempi - se non in epoche lontane e in culture poco sviluppate - di sistemi giurisprudenziali puri: anche la common law inglese e il jus civile romano hanno a lungo concorso con la
legislazione. Leoni, dunque, si limita a chiedere una più o meno vasta delegificazione - nel suo
caso, il “trasferimento di norme dall‟area del diritto scritto a quella del diritto non scritto” 33 - e
un‟ampia deregolazione (deregulation), tale da ridurre “la vasta area attualmente occupata dalle
decisioni collettive nella politica e nel diritto, con tutti i parafernali delle elezioni, della legislazione, e così via”34.
Occorre chiedersi, peraltro, se delegificazione e deregolazione siano compatibili: se cioè il
passaggio anche parziale da una produzione centralizzata di diritto, quale quella legislativa, a una
produzione decentrata, quale quella giudiziale, non comporterebbe un aumento piuttosto che una
diminuzione delle regole35. Ci si potrebbe anche chiedere, anzi, se la deregolazione - intesa nel
senso stretto di diminuzione delle regole - non sia un falso obbiettivo: si può certamente diminuire
il numero delle leggi, cioè delle norme statali, ma non quello delle regole, perché negli spazi deregolati, o piuttosto delegificati, finiscono per svilupparsi regole di altro tipo. Se le cose stanno così, però, l‟alternativa non è affatto fra libertà e regole, bensì fra diversi tipi di regole.
Se poi si pensa che lo stesso Leoni si rivolgeva anzitutto al pubblico angloamericano, e che il
modello giurisprudenziale sarebbe comunque difficilmente esportabile in un‟organizzazione giudiziaria come quella italiana36, diviene ancora più arduo ricavare da tale modello concrete indicazioni di riforma. Sotto questo profilo, anzi, le obiezioni mosse da Leoni al modello legislativo
sembrano prestare il fianco a controobiezioni rovinose. All‟obiezione generale che l‟adozione del
modello legislativo deriverebbe da una scelta politica antiliberale, ad esempio, si può replicare
che essa “fa parte di un processo evolutivo di grande importanza storica”, e “non può essere fatta
discendere da una semplice decisione politica che può essere in qualunque momento arbitrariamente mutata”37.
Come testimonia il passo citato in epigrafe38, neppure il giacobino Saint-Just voleva la proliferazione delle leggi, proprio come i teorizzatori illuministi dello Stato minimo non miravano certo all‟odierno Stato-provvidenza: entrambi i fenomeni si sono prodotti inintenzionalmente, come
effetti perversi di azioni miranti a scopi diversi, se non opposti. Fenomeni del genere possono forse essere controllati, ma non aboliti per decreto: specie ove l‟alternativa sia rappresentata da un
modello giurisprudenziale più adeguato a società chiuse e aristocratiche che alla democratica società aperta39. La complessità e conflittualità delle società odierne, in effetti, rendono poco probabile che i giudici tornino a dichiarare regole certe, perché corrispondenti a valori unanimemente
condivisi.
Eppure, è vero che nelle tesi antilegislative di Leoni, oggi, spira qualcosa come lo spirito del
tempo; che alla rivalutazione del diritto giudiziale avanzata nella cultura di common law dai cultori dell‟analisi economica del diritto, ad esempio, corrispondono, nella cultura di civil law, pro33. B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 147 (trad. it. modificata).
34. B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 145.
35. Che delegificazione e deregulation possano entrare in conflitto è segnalato da A. Barbera, Appunti sulla “delegificazione”, in “Politica del diritto”, 1988, specie pp. 417-418.
36. Cfr. U. Scarpelli, Considerazioni conclusive, in P. Di Lucia (a cura di), Nomografia. Linguaggio e redazione
delle leggi, Giuffrè, Milano, 1995, specie pp. 74-76.
37. Così G. Teubner, Aspetti, limiti, alternative alla legificazione, cit., p. 12.
38. Cfr. L. de Saint-Just, Fragments sur les Institutions républicaines (postumo, 1800), a cura di A. Soboul, ed.
originale, ma con il titolo italiano Frammenti sulle istituzioni repubblicane, Einaudi, Torino, 1952, p. 45.
39. Sul carattere tendenzialmente aristocratico del diritto giurisprudenziale, cfr. ancora L. Lombardi (Vallauri),
Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., p. 46.
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poste di un ritorno al diritto dei giuristi40. Di più, l‟idea di Leoni che il rimedio all‟inflazione legislativa vada cercato non “in “migliori” leggi [ma] in qualcosa di completamente diverso dalla legislazione”41, sembra davvero corrispondere a talune tendenze evolutive del diritto contemporaneo: si pensi alla sempre più diffusa delega al giudice di decisioni che il legislatore non può o non
vuole prendere42, oppure al sempre più ampio ricorso, specie nel commercio internazionale, ad
arbitri privati43.
Tutto ciò consente forse di raccogliere la provocazione antilegislativa di Leoni, cercando di elaborare un modello misto - legislativo-giurisprudenziale - di comunicazione giuridica. Lo stesso
Leoni sembra implicitamente suggerire questa possibilità là dove ammette che il modello comunicativo giurisprudenziale conviene soprattutto al diritto privato, autentico nucleo tanto della common law quanto del jus civile; di fatto, come vedremo, egli si occupa quasi esclusivamente proprio di questo tipo di diritto, mentre sembra ignorare le esigenze specifiche di diritti quali il costituzionale e il penale. È dunque possibile seguire questo implicito suggerimento, e sostenere che a
tipi diversi di diritto possano convenire modelli comunicativi diversi.
3. Il modello misto
Per modello misto (o legislativo-giurisprudenziale) non s‟intende affatto una delle tante posizioni teoriche che - riconoscendo il contributo giudiziale alla produzione del diritto - tendono ad
attribuire anche al giudice funzioni (para-)legislative: si pensi al realismo giuridico,
all‟ermeneutica giuridica o allo stessa dottrina pura di Kelsen. Teorie siffatte, che concepiscono il
giudice alla stregua di solo produttore del diritto e/o di legislatore del caso concreto, sono in realtà esemplate su una situazione tipica del diritto legislativo: il Parlamento non riesce più a rispondere alle attese sempre crescenti dei consociati, ed è costretto a delegare parte della risposta al
giudice, producendo una legislazione fraseggiata in modo da non vincolarlo nel momento
dell‟applicazione44.
Un modello misto, legislativo-giurisprudenziale, non va neppure pensato come una specie di
contaminazione dei modelli puri, legislativo e giurisprudenziale, sul tipo della caratterizzazione
dei sistemi giuridici come informativo-normativi proposta da Enrico di Robilant45. Caratterizzazioni del genere possono essere accolte solo a patto di specificare che funzione informativa (o
meglio di garanzia della aspettative) e funzione normativa (o meglio di guida del comportamento)
non sono attribuibili indistintamente a tutto il diritto, considerato come fenomeno monolitico; già
40. Cfr., per una prima introduzione al dibattito sull‟efficienza della common law; M. R. Ferrarese, Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti, Giappichelli, Torino, 1992, specie pp. 447-457, e M. Barberis, L’evoluzione nel diritto,
Giappichelli, Torino, 1998, pp. 260-270. Per due recenti proposte di ritorno al diritto giurisprudenziale, cfr. invece
M. Fioravanti, Costituzione e Stato di diritto, in “Filosofia politica”, 1991, specie p. 350 (“Che sia per caso ancora
il tempo dei giuristi?”) e M. Corsale, Il giurista fra norma e senso comune. Verso un nuovo diritto giurisprudenziale?, in F. D‟Agostino (a cura di), Ontologia e fenomenologia del giuridico. Studi in onore di Sergio Cotta, Giappichelli, Torino, 1995, p. 141: “potrebbe essere venuto il tempo per una rivincita di Savigny”.
41. B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 7.
42. Si vedrà fra poco, peraltro, come molti di questi fenomeni costituiscano mere varianti del modello legislativo,
sovraccaricato di richieste che non possono essere soddisfatte se non delegandone parzialmente l‟adempimento ai
giudici.
43. Cfr. ad esempio S. Chiarloni, Diritto dei privati e giustizia stragiudiziale, in M. Bessone, Diritto giurisprudenziale, cit., specie pp. 339-342, nonché lo stesso B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 198.
44. Cfr. ancora N. Luhmann, Ausdifferenzierung des Rechts, cit., p. 118: “attraverso la positivizzazione del diritto,
il peso della decisione si è tanto esteso da dover essere distribuito e assunto in parte anche dal giudice” (trad. it.
modificata). Cfr. anche la critica di Leoni alla “reintroduzione del processo legislativo in una veste giudiziaria” (Id.,
Freedom and the Law, cit., p. 203) e alla sua insistenza sul fatto che “il potere giudiziario dovrebbe essere il più
possibile separato dagli altri poteri” (ivi, p. 147).
45. Cfr. E. Di Robilant, Sistemi informativo-normativi e operatività nella società complessa, in AA. VV., Studi in
memoria di Giovanni Tarello, Giuffrè, Milano, 1990, vol. II, pp. 425-431.
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dalla definizione resa in premessa risulta che „diritto‟ designa un fenomeno composito, ai cui elementi costitutivi non possono attribuirsi né caratteri né funzioni comuni46.
Il modello misto combina gli altri due modelli, dunque, sulla base del riconoscimento che non
c‟è necessariamente qualcosa di comune a funzioni quali la composizione di controversie, tipica
del diritto privato, la punizione di crimini, tipica del diritto penale, l‟istituzione del potere, tipica
del diritto pubblico o costituzionale. Non c‟è ragione di pensare, dunque, che a ogni tipo di diritto
convenga lo stesso modello comunicativo, come si pensa di solito sulla base di un concetto unitario di diritto: si può ipotizzare, al contrario, che il modello giurisprudenziale convenga soprattutto
alle esigenze del diritto privato, che il modello legislativo convenga soprattutto alle esigenze del
diritto penale, mentre alle esigenze di diritti come il costituzionale potrebbbero convenire l‟uno e
l‟altro modello47.
Di fatto, lo stesso Leoni avanza il modello comunicativo giurisprudenziale soprattutto per il
diritto privato: tutti gli esempi da lui allegati - in particolare la common law inglese e il jus civile
romano - rinviano soprattutto a questo tipo di diritto. Ed è proprio nel caso del diritto privato,
almeno sinché sono in gioco interessi meramente economici e/o diritti disponibili delle parti, che il
ricorso a giudici o ad arbitri privati appare del tutto ammissibile e anzi fruttuoso: si pensi solo
diritto commerciale48. Naturalmente, anche in campo privatistico - specie ove si tratti di diritti individuali indisponibili - la legislazione conserva importanti funzioni: come ha osservato Hayek,
criticando proprio Leoni, essa può servire a correggere indirizzi giurisprudenziali altrimenti irreversibili49.
Mentre i diritti civile e commerciale sembrano prestarsi all‟applicazione del modello giurisprudenziale, questa sembra ardua per altri tipi di diritto, quali il pubblico e il penale: lo stesso
Leoni, dopo aver insistito sul carattere giurisprudenziale del diritto privato romano, afferma che
“il diritto statuito era per i romani principalmente diritto costituzionale o amministrativo (e anche
penale)”50. Si tratta, per inciso, di una delle poche menzioni del diritto penale reperibili in Leoni:
e pour cause, perché è proprio per questo tipo di diritto che pare più giustificato l‟atteggiamento
filo-legislativo di illuministi come Voltaire, Beccaria e Bentham; proprio in campo penale, in particolare, sembra ineludibile l‟esigenza della subordinazione del giudice alla legge51.
Qualcosa del genere sembrerebbe sostenibile pure per il diritto costituzionale, relativo
all‟istituzione dei poteri supremi e alla dichiarazione dei diritti; anche qui, dopotutto, i liberali
hanno sempre rivendicato una costituzione (scritta). In realtà - ciò che porta acqua al mulino della
specificità dei diversi rami del diritto - il diritto costituzionale sembra irriducibile a mera legislazione sia per l‟istituzione dei poteri supremi sia per la dichiarazione dei diritti. Come dimostra la
costituzione inglese, istituzioni liberali possono svilupparsi anche in assenza di un testo scritto,
che comunque non riesce mai a catturarne interamente il funzionamento effettivo; dove poi il testo
46. Questa tesi - sostenuta sviluppando idee di Herbert Hart e di Giovanni Tarello - è argomentata più diffusamente
in M. Barberis, L’evoluzione nel diritto, cit., specie pp. 130-141.
47 Per una posizione simile, cfr. ancora M. Corsale, Il giurista fra norma e senso comune, cit., specie pp. 140 (“Si
potrebbe insomma procedere a una graduale delegificazione, quanto meno nel campo del diritto privato”) e 141:
“Certo, il discorso che si può fare per il diritto privato non può essere semplicisticamente esteso a quello costituzionale e a quello penale”.
48. Cfr. ad esempio Th. E. Carbonneau (ed.), Lex Mercatoria and Arbitration: A Discussion of the New Law Merchant, Transnational Juris Publications, Dobbs Ferry (N. Y.), 1990.
49. Così F. A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, cit., pp. 114-115 (l‟intero paragrafo intitolato “Perché il
diritto spontaneo richiede delle correzioni legislative”), specie p. 114, n. 35: Leoni “non mi ha persuaso che si possa
fare a meno della legislazione neppure nell‟àmbito del diritto privato, che è il campo di cui egli specificamente si
occupa” (trad. it. modificata).
50. B. Leoni, Freedom and the Law, cit., p. 94 (trad. it. modificata).
51. Basti rinviare, in argomento, all‟ormai classico L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale,
Laterza, Roma-Bari, 1989. Che le tesi di Leoni non possano estendersi al diritto penale è notato da G. Marini, r ecensione a B. Leoni, La libertà e la legge, cit., in “Il pensiero politico”, specie p. 333.
17
riguardi i rights individuali, esso può anche limitarsi a dichiarare, in senso forte, i diritti già ri52
conosciuti dai giudici .
52
. Cfr. ancora B. Leoni, Freedom and the Law, cit., pp. 67 ss., rife-rimento a uno degli aspetti caratterzzanti della
dottrina del rule of law di Albert Dicey
18
La comunicazione:
emergenza del virtuale tra tecnologie e società
di Giovanni Boccia Artieri
Masse umane, gas, energie elettriche sono state gettate in campo, correnti ad alta
frequenza hanno attraversato le campagne, nuovi astri sono sorti nel cielo, spazio aereo
ed abisso marino hanno risuonato di motori, e da ogni parte si sono scavate nella Madre Terra fosse sacrificali. Questo grande corteggiamento del cosmo s’è compiuto, per
la prima volta, su scala planetaria, cioè nello spirito della tecnica.
W. Benjamin, A senso unico.
L‟aforisma di Benjamin, sintesi dell‟era moderna e dei suoi miti energetici e meccanici, introduce con forza la connessione tra tecnica e planetarizzazione che contraddistingue mutatis mutandis l‟orizzonte contemporaneo postmoderno: il mito dell‟energia sostituito con quello
dell‟informazione e quello della meccanica con quello della robotica e dei chip di silicio che supportano l‟ascesa del cosmo computazionale.
La dimensione “planetaria” che il sociale assume in uno stretto accoppiamento con
l‟evoluzione e diffusione della tecnologia (in particolare oggi quella a base computazionale) crea
un orizzonte di riferimento sia per i vissuti soggettivi che per quanto riguarda le dinamiche di sviluppo macrosistemiche. Il divenire di tale dimensione non è un‟operazione che si deve dare per
scontata ma piuttosto va problematizzata a partire da un concetto che vede tecnologia e globalità
sempre più connesse: la comunicazione. E parlare in questo senso di comunicazione significa
parlare di comunicazione in quanto tale.
1. La comunicazione in quanto tale
Scopo del presente saggio è quindi innanzitutto di tratteggiare la forma che la comunicazione
in quanto tale assume nell‟intrecciato gioco di co-determinazioni che si sviluppa tra la dimensione delle tecnologie e quella del sociale così come la realtà contemporanea complessa ci propone.
Parlare di comunicazione in quanto tale significa sottolineare la specificità che la forma comunicativa assume nel sociale emergendo come dimensione autonoma rispetto alla superficie del
mondo: agli oggetti e ai soggetti. Si tratta di un processo di distacco tra la realtà e il suo segno53
che rende la dimensione della comunicazione sempre più autonoma rispetto alle “cose”; un processo il cui percorso evolutivo è orientato dallo sviluppo delle tecnologie mediali capaci di supportare la forma comunicativa in quanto tale.
Questo distacco è un movimento che si svolge in sincronia con un‟evoluzione del sociale che
mostra sempre di più il versante di surmodernità del mondo: “sur” come modalità dell‟eccesso,
come eccedenza dei fatti sociali rispetto a se stessi sino a rendere evidente il farsi concreto di una
“sovra” dimensione che avvolge il mondo come una pellicola trasparente. Tale pellicola è lì a dirci che dietro il fatto concreto, dietro alle “cose”, c‟è qualcosa di più, di altro, di diverso: c‟è
l‟emergere di complessità e contingenza intesi come un orizzonte di riferimento ineliminabile fatto
di altre possibili combinazioni selettive che costituiscono uno sfondo di possibile altrimenti che si
fa concreto. Le combinazioni possibili non sono limitate ma tendono all‟infinito così che i fatti, le
“cose”, il sociale, in definitiva, diventano sempre possibili altrimenti.
53. Per l‟analisi di questo progressivo distacco tra la realtà e i suo segno si veda il suggestivo percorso tratteggiato
da Jean Baudrillard dai suoi lavori storici sino ai più recenti. Cfr. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano
1979; Il delitto perfetto, R. Cortina, Milano 1996.
19
E‟ questa una tensione per la quale i fatti, le “cose”, tendono a staccarsi da sé stessi, non più
vincolati a ciò che sono ma aperti a ciò che potrebbero (o non potrebbero essere), alla loro virtualità: si costituisce una via per la quale le “cose”, i fatti, eccedono se stessi, vanno oltre la loro
concretezza materiale, incarnano l‟idea stessa dell‟arte combinatoria e di permutazione.
Diviene allora sempre più difficile in tal senso ricondurre un evento a spiegazioni monocausali
che imbrigliano il sociale entro le dinamiche classiche delle strutture e dei ruoli: la complessità
del sociale fa infatti esplodere le logiche esplicative lineari e teleologiche in forme rizomatiche54,
morfogenetiche55, multicausali56.
Sono questi dei percorsi che seguono la logica del pensiero postmoderno che privilegia le dinamiche concorrenti, le ibridazioni, i meticciaggi delle forme, sostituendo alla logica moderna
dell‟aut aut quella dell‟et et.
Ma se la postmodernità è l‟immagine che rappresenta ciò che avviene sullo strato del sociale,
la surmodernità è l‟immaginario che si distacca da questa superficie, che rende conto, esplicativamente, del moto di volatilizzazione dei legami sociali sempre meno spiegabili con categorie tradizionali di riferimento (la solidarietà primaria, la famiglia, ecc.), dei fenomeni di globalismo culturale che non si comprendono con le categorie del radicamento territoriale, della comunicazione
che si fa sempre più una realtà sovraindividuale.
2. La comunicazione-luogo
Questo delineato sinora è il quadro di riferimento, la finestra di comprensibilità, per osservare
ciò che la comunicazione diventa: comunicazione come realtà sempre meno oggetto trasmissibile57 e sempre più luogo del sociale.
In tal senso la comunicazione viene qui definita come:
1. il luogo nel quale l‟informazione si generalizza rispetto ai soggetti, tende a svincolarsi dai
vissuti concreti;
2.
il luogo nel quale germoglia la virtualità del sociale come strato emergente della realtà.
Innanzitutto, dunque, comunicazione intesa come “luogo” e non come processo di interazione o
dinamica di relazione tra soggetti o tra sottosistemi sociali.
Dire luogo significa mettere in luce come oggi la comunicazione tenda a svincolarsi dalle particolarità, dalle quote di soggettività, dalle fattispecie concrete per diventare sempre più un “posto” dove l‟informazione diventa un fatto che trascende le competenze individuali58, una realtà autonoma.
Comunicazione, dunque, non come operazione di trasmissione di un messaggio tra emittente e
ricevente, ma come una realtà nella quale l‟informazione non è più identificabile con i soggetti
che comunicano ma li trascende.
Tale processo di svincolamento della comunicazione dai soggetti comunicanti ci porta a considerare la comunicazione in quanto tale, al di là delle specificità che può assumere, cioè del fatto
di essere quella conversazione in quel luogo a quell’ora.
Le tecnologie di comunicazione (i tecnomedia) consentono in tal senso la produzione e gestione
dell‟informazione al di là del faccia a faccia, del radicamento nel tempo e nel luogo. E‟ un percor54. Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Rizoma, Castelvecchi, Roma 1996.
55. Cfr. N. Luhmann e R. De Giorgi, Teoria della società, Angeli, Milano 1992.
56. Cfr. E. Morin, Il metodo. Ordine, disordine e organizzazione, Feltrinelli, Milano, 1983.
57. Per un esaustivo riferimento alle teorie trasmissive della comunicazione si veda l‟interessante lavoro di M.
Morcellini e G.Fatelli, Le scienze della comunicazione, NIS, Roma; ma anche U. Volli, Il libro della comunicazione, il Saggiatore, Milano 1994. Per una critica al paradigma trasmissivo dell‟informazione mi si permetta di rimandare a G. Boccia Artieri, Lo sguardo virtuale. Itinerari socio-comunicativi nella deriva tecnologica, Angeli, Milano 1998.
58. Cfr. G. Piazzi, La ragazza e il direttore, Angeli, Milano 1995.
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so che comincia con la scrittura e si sviluppa come dinamica di distacco dell‟informazione dai
vincoli della presenza corporea dei soggetti59 consentendo di superare i confini dei luoghi (circolazione delle idee) e del tempo (conservazione del sapere) e che porta sino alle borse valori informatizzate governate dalle logiche dell‟artificiale che generano un flusso informativo in tempo reale che ha un movimento globale autonomo e autogenerntesi.
3. Virtualizzazione della comunicazione
Ciò che è stato messo in luce sinora è un processo in atto di virtualizzazione della comunicazione, cioè di sottrazione dell‟evento comunicativo dalla sua concretezza hic et nunc e di generalizzazione dello stesso sino a fargli incarnare la dimensione di non attualità, cioè delle infinite
possibilità combinatorie, di ciò che potrebbe (o non potrebbe) essere. La comunicazione tende a
valere di per se stessa al di là del fatto comunicativo spazio-temporalmente determinato. Si tratta
di un processo che si posiziona nell‟intersezione co-evolutiva tra sistema sociale e tecnomedia.
Da una parte c‟è il sociale inteso sempre più come il sistema della comunicazione60 entro il
quale viene cioè esaltato il contenuto allo stato puro dell‟evento comunicativo, al di là della forma
che questi può assumere.
La comunicazione è cioè soggetta a un‟operazione di generalizzazione del contenuto rispetto
alla forma. Il contenuto nella comunicazione è sempre più contenuto (informazione) allo stato puro: il cosa si dice si svincola sempre più dal chi dice e dal come si dice. In tale modo l‟evento
può essere sempre altrimenti, in altri modi, in altri tempi e in altri luoghi. L‟evento si lega cioè
alla contingenza del sociale, al fatto di essere percepibile da parte dei soggetti come sempre possibile altrimenti o meglio, dire contingenza significa dire che c‟è un rinvio continuo all‟orizzonte
di possibilità inespresse tale da creare con l‟evento un legame en pontillè che lo rende volatile pur
nella sua concretezza, che gli fa incarnare l‟arte combinatoria e di permutazione: in definitiva è
questo il processo di virtualizzazione61.
Dall’altra parte c‟è la deriva dei tecnomedia, cioè un‟evoluzione dei media che genera traiettorie potenziali – dunque contingenti e quindi che comprendono come componente necessaria
l‟imprevedibilità – nelle quali le tecnologie mediali sono sempre più capaci di trattare l‟evento
come informazione allo stato puro: l‟evento può allora essere faxato, trasmesso via satellite, digitalizzato e reso fruibile in real time insomma: reso disponibile – quindi attualizzabile – in luoghi
e tempi differenti e secondo modalità altrettanto diverse. Virtualità che si attualizzano e attualità
che si virtualizzano.
4. L’apparato di resa e cattura: attualizzazione/virtualizzazione
La comunicazione nel sociale contemporaneo è dunque soggetta ad un doppio movimento di resa e cattura62, ad un processo di virtualizzazione e attualizzazione continuo e reversibile.
59. Un‟immagine suggestiva dell‟autonomizzarsi dell‟informazione rispetto alla concretezza di un corpo emittente
la ritroviamo nella logica di produzione di un‟icona mediale generata come pura informazione: l‟Aidoru. L‟Aidoru
è una sorta di eidolon greco che si materializza sotto forma di costrutto elettronico e che diviene un attrattore per la
riflessione. L‟industria culturale ha portato all‟attenzione recentemente tale fenomeno sul versante letterario con il
romanzo post-cyberpunk di Gibson che ne descrive le suggestioni possibili (W. Gibson, Aidoru, Mondadori, Milano
1997) e su quello dei consumi quando l‟agenzia giapponese di modelle Hori-Pro produce Kyoko, un‟entità artificiale, con l‟intento di farne un idolo dei giovani. Kyoko diviene una protagonista della scena musicale producendo un
disco (Love communication) che si posiziona all‟interno delle classifiche e un videoclip; conduce un programma
radiofonico su un‟emittente di Tokio; la si può contattare e chattare con lei sulle sue pagine web: eppure non è altro
che un puro prodotto informativo del mondo delle merci.
60. Cfr. N. Luhmann e R. De Giorgi, op. cit.
61. Cfr. G. Boccia Artieri, op. cit.
62. Cfr. H. Bergson, Materia e memoria, in Opere 1889-1896, Mondadori, Milano 1986.
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Da una parte esiste una modalità di generalizzazione, di astrazione che separa la comunicazione dal supporto materiale, dai soggetti. In tal senso si può utilizzare l‟efficace suggestione di Negroponte63 del passaggio dagli atomi ai bit per descrivere come lo strato del reale materiale tenda
per opera delle tecnologie a posizionarsi ad un nuovo livello di realtà che occorre analizzare per
comprendere i fenomeni contemporanei connessi alla comunicazione.
Dall‟altra il fatto che la comunicazione si virtualizzi, si svincoli cioè da supporti concreti e
specifici, dallo strato di materialità del reale (da fogli di carta, da videocassette, ecc.) fa sì che essa si possa attualizzare in nuove forme (è quella pagina scritta che via fax diventa altra pagina
mantenendo il contenuto ma traslando il supporto), con modalità diverse (è la parola parlata che
tramite un decodificatore vocale si fa parola scritta sullo schermo), in altri intorni spaziotemporali (è l‟evento registrato e fruito in altro momento rispetto alla diretta; è la voce della segreteria telefonica che comunica in questo momento che voi non ci siete; è la videoconferenza che
consente un‟intimità faccia a faccia al di là della presenza corporea).
5. (Il) farsi virtuale (del mondo)
Se da una parte dunque la comunicazione sembra perdere di concretezza, si astrae, si generalizza, dall‟altra, nel suo rendersi sempre più fruibile grazie all‟azione dei media, nel suo generare
un movimento connettivo e globale, tende ad entrare proprio nella sua forma di comunicazione in
quanto tale, nella struttura del quotidiano, nel mondo della vita dei soggetti. E‟ così che la comunicazione nel suo virtualizzarsi supporta e svela, allo stesso tempo, l‟emergere del virtuale nel
mondo.
Virtuale come apertura al ventaglio delle possibilità, all‟orizzonte del non attuale, all‟arte
combinatoria e di permutazione degli eventi; come affermarsi del concetto guida di contingenza,
cioè di un‟esistenza e di un agire che non è necessario (non vi è motivo per cui le cose siano così e
non altrimenti) e tuttavia non è impossibile:
La stessa identità attuale di ciascuno di noi non è che la risultante di selezioni e biforcazioni irripetibili o perl omeno altamente improbabili: se in determinati momenti della nostra vita ci fossimo imbattuti in altre occasioni, o se
di fronte ad alternative cruciali avessimo assunto una decisione diversa da quella che abbiamo effettivamente preso,
saremmo oggi persone certo diverse da quelle che siamo64
La virtualità dunque come meccanismo di comprensione del cortocircuitarsi dei paradossi del
reale, che consente la coesistenza di spinte globali ed universalistiche e l‟affermarsi di movimenti
localistici e neo-comunitari; virtualità come partitura della comunicazione contemporanea sospinta e supportata dai tecnomedia e che emerge come vettore evolutivo sia nelle logiche sistemiche
che in quelle soggettive.
Si tratta ora di capire e delineare i percorsi di intreccio tra comunicazione e tecnomedia entro
un quadro del sociale che si virtualizza.
6. Fattori emergenti nella deriva dei tecnomedia
Lo schema di riferimento per la nostra riflessione prende le mosse dall‟evidenziarsi di quattro
fattori che sono il prodotto dell‟evoluzione della relazione tra sistema dei tecnomedia e sistema
sociale. Si tratta di elementi generati nella deriva tecnomediale: deriva in quanto co-evoluzione
tra versante tecnologico e sociale non lineare, non deterministica ma frutto di percorsi discontinui,
contingenti e a volte altamente improbabili65. Deriva come generazione, nell‟evoluzione, di traiet63. Cfr. N. Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano 1995.
64. G. Marramao, Zone di confine, Il Mondo 3 Reprint, Roma 1996, p.59.
65. Per una definizione più esaustiva dl concetto di deriva tecnologica mi si permetta di rimandare a Boccia Artieri.
L‟analisi dell‟evoluzione di tecnologie e media secondo percorsi non deterministici la ritroviamo oggi sempre più
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torie potenziali di sviluppo, più che di percorsi predeterminati; traiettorie che generano nuovi paradigmi tecnologici entro un contesto nel quale intervengono più attori sociali (inventori, consumatori, produttori, divulgatori, ecc.) e tecnologici (invenzioni, prodotti hardware e software) che
interagiscono secondo una logica conflittuale basata su interessi differenti e spesso contrastanti. Il
modello tecnomediale che emerge (il diffondersi di una certa tecnologia o il successo di un determinato prodotto tecnologico) è allora il frutto di questi percorsi complessi di relazione tra fattori
tecno-sociali che non sempre portano ad emergere il modello migliore o quello su cui la ricerca
punta. Basti vedere lo scarso successo del modello Videotex nella telematica66 o l‟affermarsi esplosivo ed inaspettato di Internet67.
I quattro fattori emergenti nella deriva tecnologica che qui vorrei evidenziare sono i seguenti:
1. pervasività e convergenza di tecnologie della comunicazione che supportano un immaginario mondializzato.
La realtà tecnomediale contemporanea è caratterizzata da una crescente convergenza tra settore della telecomunicazione, dell‟audiovisivo e delle tecnologie dell‟informazione che si accompagna ad una crescita della diffusione dei tecnomedia. Va osservato però come il dato relativo alla
reale diffusione di tecnologie della comunicazione sia caratterizzato da una dinamica di capillarizzazione per l‟occidente a capitalismo avanzato e da una accelerazione per le fascie del terzo e
quarto mondo (si pensi alle immagini dei tetti della favelas con parabole televisive ad intercettare
l‟economia del consumo globale e le sue logiche).
D‟altra parte le possibilità connaturate alle tecnologie wireless (cellulare, satellitare, ecc.) aprono una significativa alternativa all‟esistenza ed installazione di infrastrutture comunicative pesanti (cavo) ponendo in essere le possibilità, per zone scoperte e/o telecomunicativamente marginalizzate, di un recupero temporale importante.
Ma al di là del fattore tecnologico (comunque fondamentale) l‟effetto di mondializzazione comunicativa è supportato da una presenza diffusiva e pervasiva di immagini (tecno)mediali che,
nell‟istantaneità spazio-temporale dei media di massa, si fanno immaginario condiviso. La produzione di icone mediali dà vita ad una generalizzazione dei prodotti dell‟immaginario che si radicano nelle quotidianità del locale (cultura, costumi, consumi…) restituendo i vissuti soggettivi e
comunicativi ad una dimensione glocal. Si pensi ad esempio ai fenomeni legati ai consumi per
quel che riguarda le “marche” o a quelli di divismo “planetario” connessi al consumo musicale
(Madonna, Spice Girls, ecc.) che è anche merchandising.
In definitiva il quadro che si genera è sorretto da una crescita di comunicazione mediata (e mediatizzata, cioè di sollecitazione dei media) dove l‟alter della comunicazione è non un ego specifico nella sua concretezza materiale ma un alter mediato generalizzato. E‟ qui che si afferma la dinamica di produzione della comunicazione in quanto tale che ho cercato di specificare più sopra.
2. crescita delle potenzialità connettive.
La convergenza e diffusività dei tecnomedia è accompagnata da una crescita delle potenzialità
connettive degli stessi, del loro disporsi secondo una forma reticolare sempre più integrata.
L‟intreccio delle maglie tecnomediali disegna una trama comunicativa ad alta connettività che ridefinisce l‟intorno spazio temporale dei soggetti: vicinanza e distanza sono concetti che si svincosignificativamente presente in una letteratura sociologica: vedi tra gli altri i lavori di P. Flichy, Storia della comunicazione moderna. Sfera pubblica e dimensione privata, Baskerville, Bologna 1994; e P. Ortoleva, Mediastoria.
Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Pratiche, Parma 1995.
66. Eccettuata la storia del Minitel in Francia.
67. Come esempio del fatto che Internet solo recentemente diviene un elemento interessante per gli investimenti
produttivi basti pensare che fino a tempi recentissimi Bill Gates) non lo riteneva un ambito di interesse per le compagnie informatiche. Oggi la Microsoft guarda invece alla rete come dominio peculiare per il proprio sviluppo.
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lano dai loro presupposti materiali, si svuotano del loro aspetto formale per fare emergere il contenuto comunicativo: il viaggio non è più‟ radicato nello spostamento fisico e temporale da un
luogo all‟altro della terra ma assume un significato differente connesso all‟attraversamento di panorami di senso, all‟esplorazione dei vissuti soggettivi, è il divenire concreto della metafora della
conoscenza come viaggio.
Vicinanza e distanza si relativizzano entro le trame definite da un network paradigm che sovrappone allo spazio-distesa una rete a maglie tecno-comunicative che punteggia la spazialità con
nodi comunicativi intelligenti, cablati, interattivi. Spazio e tempo comunicativo nell‟istantaneità
della connessione mediale si fanno prossimità comunicativa. Nascono dunque nuove forme di vicinanza comunicativa – ad esempio comunità virtuali – non strettamente legate a vincoli tradizionali di solidarietà e vicinato che trovavano significato in un radicamento fisico nel luogo.
3. progressiva digitalizzazione del comunicabile.
Si verifica per opera dei media un tendenziale annullamento del reale analogico e una sua conversione in reale digitale: dalla particolarizzazione del reale segnata dall‟esaltazione delle differenze si passa alla sua generalizzazione e gestione digitalizzata seguendo un percorso – del quale
peraltro ho già in parte tracciato i contorni – di virtualizzazione dell‟esistente.
Il computer, con le sue peculiarità di gestire la trasformazione del contenuto digitale in strutture informazionali, diviene la piattaforma di convergenza dei media che traghetta i media tradizionali dalla forma analogica a quella digitale, dalla logica di rappresentazione del reale a quella di
produzione. E‟ il trionfo dell‟immagine di sintesi.
La tendenziale riduzione del reale in bit e la generazione di un‟infosfera che si propone come
orizzonte operativo per la produzione di senso – sia a livello dei singoli soggetti che per ciò che
riguarda il macro sistema – è espressine di quel processo autonomo di convergenza tra universale
e particolare più sopra esplicitato, una glocalizzazione la cui base è in tal senso informazionale.
L‟informazione è globalizzata nel medium computazionale poiché ogni particolarità informazionale viene generalizzata in bit e connessa globalmente grazie a reti informatico-telematiche che
sono però la base stessa per un processo di (ri)localizzazione.
4. crescita di telepresenza.
Si opera uno svincolamento della relazione dal qui ed ora corporeo. Telepresenza è esperienza
della presenza in un ambiente attraverso un medium di comunicazione. Siamo in tal senso dinanzi
ad un medium comunicativo che al contempo diviene ambiente di comunicazione. Un ambiente
che può essere costruito artificialmente dalle elaborazioni di un calcolatore e presentarsi come
micromondo “interno” alla macchina – sia esso basato o meno sul modello di un ambiente reale;
o essere un ambiente “esterno” alla macchina sul quale si può agire, come ad esempio un fondo
marino esperito grazie ad un robot teleguidato (si parla in tale caso di teleoperazione); o un ambiente generato da una situazione di videoconferenza, nella quale il medium si pone come una sorta di finestra sugli ambienti reali dei partecipanti che diventano, nel medium, un ambiente unico
condiviso.
La possibilità di essere telepresenti significa una mutazione dei confini percettivi e cognitivi
che allarga l‟orizzonte di riferimento dell‟azione oltre i vincoli fisici e al di là delle barriere spazio-temporali. Tale fatto ha ripercussioni elevate anche nella quotidianità dell‟agire che acquista
un nuovo significato man mano che il punto di riferimento si sposta dal vissuto concreto della
propria territorialità ad una dimensione mediale che apre ad un orizzonte di possibilità mondializzate.
7. La cultura del virtuale
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I fattori emergenti dalla deriva tecnomediale ora descritti si intrecciano al movimento di virtualizzazione del reale producendo nel sociale effetti che possiamo leggere secondo due direzioni:
I. nella generazione di un reale virtuale.
Si tratta di effetti connessi al versante epistemologico del virtuale (epistéme virtuale) che definiscono il reale nel suo stato di contingenza facendone un “possibile altrimenti”, incarnando l‟arte
combinatoria e di permutazione che fa emergere di ogni evento la struttura di eccedenza. Su questo versante possiamo applicare il meccanismo teorico di attualizzazione/virtualizzazione che le
tecnologie di comunicazione rendono esplicito ed effettivo consentendo lo svilupparsi di fenomeni
di dematerializzazione ed evanescenza ma anche di ineludibile presenza (foss‟anche telepresenza)
del mondo.
II. nella generazione di Realtà Virtuali.
Si tratta della manifestazione fisica della virtualità consentita dai tecnomedia che incarnano e
realizzano il versante dell‟epistéme virtuale nella tecnica (téchne virtuale); che danno vita a produzioni im(materiali), che mostrano lo strato di virtualità del mondo sotto forma di prodotti di simulazione, ambienti di realtà artificiale, prodotti di Intelligenza Artificiale (IA), vita artificiale,
immagini di sintesi, fotorealismo digitale, ecc. E‟ il divenire concreto della virtualità.
Virtuale
Stato
Coalescenza con l’attuale
Modalità
Doppio movimento di resa e cattura
(attualizzazione/virtualizzazione)
In questo contesto il reale è dunque soggetto ad un doppio movimento di resa e cattura (attualizzazione/virtualizzazione) che viene reso effettivo dall‟agire delle tecnologie di comunicazione e
che mette in evidenza l‟emergere dello strato virtuale del reale che è in coalescenza con quello attuale.
Fattori della
deriva tecnologica
reale virtuale
(rv)
A Pervasività e conComunicazione
vergenza di tecnolo- mediata
gie di
comunicazione
B Crescita delle po- Spazio notenzialità connettive
mologico
dei tecnomedia
- Culture reticolari
- Nomadismo
C Progressiva digiCultura
dei
talizzazione del co- flussi immateriamunicabile
li
D Telepresenza
Cyborg
Realtà rVituale
(RV)
Cultura
del virtuale
I mondi RV
Att./virt.
della
comunicazione
-Comunità
virtuali
- Internet
Att./virt.
dello spazio
- Immagini di
Att./virt.
sintesi
delle cose
- Infoggetti
- Avatar
- Cloni
Fig. 1 La cultura del virtuale
25
Att./virt. del
compatto mente corpo
Nel sociale sembra oggi emergere in definitiva una vera e propria cultura del virtuale che possiamo intendere come un‟operazione che rende sempre più visibile, cioè percepibile e concreta,
nella realtà quotidiana la dinamica di attualizzazione/virtualizzazione. Cultura del virtuale significa appropriazione dei codici di lettura di una serie di fenomeni di attualizzazione/virtualizzazione cui il sociale è soggetto e che rivelano lo strato immateriale ma non per questo
irreale del mondo. Questo apparato di resa e cattura, così come sinora è stato definito, diviene evidente in particolare quando abbiamo a che fare con fenomeni che riguardano la comunicazione,
lo spazio, le cose, il corpo.
Per dar conto dell‟emergere di una culture del virtuale possiamo creare un quadro sinottico che
spiega il fenomeno in atto intrecciando quei fattori originati nella deriva dei tecnomedia che ho
più sopra descritti con le due variabili di virtualità (epistéme e téchne) appena spiegate, cioè il reale virtuale e la Realtà Virtuale, dando così vita allo schema di riferimento rappresentato in Fig.1.
7.1. Attualizzazione/virtualizzazione della comunicazione
Innanzitutto la comunicazione, come sin qui descritto, è soggetta ad un movimento duplice di
resa e cattura che l‟astrae e la generalizza per poi consolidarla in forme “altre”, secondo modalità
spazio temporali differenti. Basti pensare a come sia possibile pensare oggi la comunicazione al
di là delle forme singolari e concrete cui dovrebbe essere soggetta (un libro, un disco, ecc.) per
renderla operativa e gestibile attraverso il proliferare di autostrade informative sulle quali fluisce,
nella sua immaterialità, come un contenuto allo stato puro. Entro questa dinamica gestita dalla
convergenza e pervasività mediale la comunicazione tende a spogliarsi da una sua identificazione
con la dimensione alfabetica a favore di una dimensione simbolica nella quale convergono e si
ibridano tutti i segni (parole, suoni, immagini, oggetti,…) secondo una logica di multimedialità.
La dimensione RV che si produce in tal senso è sintetizzata con efficacia con i mondi di realtà
virtuale che si generano nell‟intreccio tra protesi immersive (Data Glove e Head Mounted
Display) e costruzioni algoritmiche di realtà multisensoriali. La comunicazione nei mondi di realtà virtuale supera le ristrettezze della dimensione linguistica e libera il flusso stesso della comunicazione delle regole del turn taking sino al limite che Jaron Lanier, inventore del termine “realtà
virtuale” e progettista di mondi virtuali, definisce, azzardatamente, di comunicazione post simbolica:
Questo significa che quando tu puoi improvvisare una realtà come puoi fare con la Realtà virtuale, e quando
questo è condiviso con altri, allora non hai veramente bisogno di descrivere il mondo perché puoi semplicemente
creare quella contingenza. Non ti occorre descrivere realmente un‟azione perché puoi creare quella azione. 68
Ciò che si produce nell‟immersività dei mondi artificiali è la possibilità di vivere la dinamica
comunicativa come co-produzione concreta di mondi sintetici da esperire. Il messaggio è lo stesso
contesto nel quale si è immersi e che si partecipa a produrre con le proprie azioni.
Questa è la suggestione teorica che proviene dalle sperimentazioni delle tecnologie di RV che
rappresentano, per ora, uno stimolo per la riflessione più che una preoccupazione applicativa visto che ancora una serie di problematiche tecniche devono essere affrontate, così come un processo di commercializzazione e diffusione di ampio respiro è al momento remoto.
Il reale virtuale che si genera a livello della comunicazione fa emergere il carattere di mediatezza che questa assume. La comunicazione mediata diviene la cifra dello stato di virtualizzazione
della comunicazione stessa la quale genera legami caratterizzati da distanza e istantaneità, coinvolgenti e fugaci allo stesso tempo. E‟ uno stato questo che produce prossimità a distanza in
68. J. Lanier, Comunicazione senza simboli, in F. Berardi (a cura di), Più cyber che punk, a/traverso 5, Bologna
1990, p.39.
26
quanto genera legami socio-comunicativi che superano i vincoli spaziali e assumono la velocità
relazionale del tempo reale.
La comunicazione mediata genera spesso uno stato comunicativo che associa all‟anonimato del
mezzo una maggiore intimità – penso ad esempio al Minitel francese o in generale alle chat line
di Internet, ma anche alle party line telefoniche per non parlare dei telefoni “a luci rosse”. Si tratta di una forma di intimità comunicativa che mette in relazione di solidarietà soggetti distanti legando i loro vissuti emozionali con un collante solido che consente scambi autentici (dal punto di
vista della condivisione dei vissuti comunicativi) e che genera forme aggregative che vengono definite comunità virtuali.
7.1.1. Le comunità virtuali
Le comunità virtuali sono un fenomeno emergente di Realtà Virtuale supportato dalla crescita
di potenzialità connettive dei tecnomedia di stampo computazionale che legano secondo una dinamica di rete soggetti entro le maglie di una comunicazione mediata. In particolare è Internet,
rete di reti, il collettore tecno-comunicativo di questo fenomeno sociale.
Le comunità virtuali sono forme comunitarie sui generis che si distinguono dalle forme comunitarie tradizionali di solidarietà primaria, di vicinato, ecc. Il collante sociale sul quale si consolidano è rappresentato da una socievolezza diffusa che stratifica la forma di sociazione nel quale i
soggetti si inscrivono.
Come sostiene Simmel69 la sociazione è
la forma che si realizza in innumerevoli e differenti modi, in cui – sulla base di quegli interessi sensibili o ideali, momentanei o durevoli, consci o inconsci, che spingono in modo causale o che muovono in
modo teleologico – gli individui crescono insieme in un‟unità in cui questi interessi si realizzano.
Ecco quindi il proliferare di news group e chat line tematici sorti attorno ad interessi comuni,
siano essi di loisir, di lavoro, politici, sessuali, ecc. nei quali i soggetti si incontrano sullo schermo come righe di testo che si susseguono in modalità sincrona 70 o asincrona71.
E‟ entro queste dinamiche comunicative prodotte dalla navigazione in rete telematica – frutto
di incontri spesso casuali ed occasionali, vissute sull‟onda dell‟emozionalità alla velocità del tempo reale (caratteristica del tecnomedia) – che si consumano rapporti intensi e coinvolgenti ma
spesso fragili e sfuggenti, vissuti sull‟onda di una passione (culturale, affettiva, ecc.) momentanea
che porta a condividere la propria vita con uno sconosciuto dietro lo schermo che ci appare in tutta la sua trasparenza comunicativa.
Eppure il legame di vicinanza comunicativa che si instaura tra soggetti nella rete fonda la sociazione come forma del sociale al di là delle motivazioni di adesione a gruppi di discussione che
spesso hanno le loro radici nell‟effimero, nella navigazione senza meta, nel flusso di messaggi del
net, nella curiosità di indossare panni elettronici diversi da quelli reali. La navigazione online non
significa già in sé e per sé sociazione, né la costituiscono semplicemente i materiali con cui si rea-
69. G. Simmel, La socievolezza, (a cura di G. Turnaturi), Armando Editore, Roma 1997, p.38.
70. E‟ il caso delle chat room nelle quali due soggetti si possono, per così dire, isolare e svolgere una conversazione
telematica o dei sistemi phone che suddividono lo schermo del computer in due parti nelle quali, come in una conversazione di tipo telefonico, due soggetti si alternano.
71
Come i messaggi telematici di più soggetti che compaiono sullo schermo seguendo l‟ordine di scrittura e che non
portano avanti sequenzialmente un‟unica conversazione ma si intersecano necessitando che la forma dialogica ve nga costruita ex post o i messaggi di posta elettronica che costruiscono una forma dialogica non contemporanea.
27
lizza la vita sullo schermo 72. La sociazione è piuttosto il prodotto di questi stessi materiali quando essi, per parafrasare Simmel,
trasformano la mera vicinanza degli individui in forme determinate di convivenza e collaborazione che rientrano
nel concetto generale di interazione 73.
Ecco dunque che queste forme eterogenee ed istantanee spesso si solidificano entrando concretamente nella vita dei singoli come raccontano le tante esperienze di relazioni affettive sviluppate
in via telematica e sfociate in incontri reali, come quella di Norman X e Monique Z, lui americano, lei francese, che per mesi strutturano la loro esistenza attorno a quei messaggi che i loro computer scaricano quotidianamente74; o come raccontano i frequentatori della notissima comunità
virtuale WELL (Whole Earth ‟Lectronic Link) collegamento elettronico della rivista “ Whole Earth”:
Fin dai primi mesi di questa avventura, avevo la netta consapevolezza di partecipare
all‟autoprogettazione di un nuovo tipo di cultura. Ho assistito all‟espansione e al cambiamento dei contratti sociali vigenti nella comunità… in una sorta di evoluzione sociale accelerata. Il WELL l‟ho vissuto
fin dall‟inizio come un autentico ambito sociale perché si radicava nel mio mondo concreto quotidiano75.
La comunicazione mediata telematicamente fa del vissuto emozionale online un elemento che
entra a far parte della vita quotidiana dei soggetti e che struttura interazioni sullo sfondo di legami elettronici che hanno il peso della realtà pur distinguendosi da essa. Ma al di là della concretizzazione dei legami telematici, delle forme di sociazione che rappresentano il versante di attualizzazione di questi legami, le comunità virtuali trovano la loro essenza caratterizzante sul versante di virtualità.
7.1.2. Il sociale allo stato puro
In tal senso si tratta di realtà frutto di interazioni comunicative dialogiche opera della virtualizzazione del reale, che si pongono cioè al di là della concretezza materiale, che fondano
un‟immateriale che però non è irreale.
Forme nelle quali la società diventa un valore in sé al di là delle forme assunte, diviene cioè un
sociale allo stato puro. E questo è ciò che Simmel definisce come socievolezza, una sorta di estratto allo stato puro della sociazione, una “connessione fluttuante e reciproca degli individui”:
In sé la “società” vera e propria è infatti quell‟insieme di azioni reciproche, collaborazione e rivalità
in cui interessi e contenuti materiali o individuali assumono una forma o si rafforzano grazie impulsi o
finalità. Queste forme acquistano una vita propria libera da qualsiasi legame dai contenuti per compiersi
come fini a se stesse in virtù del fascino che emana dall‟essere distaccate. Ed è proprio questo il fenomeno della socievolezza76.
72. Per riprendere il titolo del libro di S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali
nell’epoca di Internet, Apogeo,Milano 1997. che analizza attravero una casistica diretta alcune modalità dei vissuti
online.
73. G. Simmel, op. cit., p.38.
74. Norman X e Monique Z, Norman e Monique. La storia segreta di un amore nato nel ciberspazio, a cura di Giuseppe Salza, Einaudi, Torino 1996.
75. H. Rheingold, Comunità virtuali. Parlarsi, incontrsrsi, vivere nel ciberspazio, Sperling & Kupfer, Milano
1994, p.2.
76. Simmel, op. cit., p.41-42.
28
Se parlare di società significa presupporre una reciprocità generale fra gli individui, nelle reti
telematiche la reciprocità è comunicazione e comunicazione significa reciprocità. Al di là delle
forme concrete nelle quali il legame comunicativo si realizza è la stessa natura effimera, coinvolgente e sfuggente, emozionale ed istantanea che costituisce la natura delle comunità virtuali; la
sua forma sociologica di socievolezza come strato di virtualità che può attualizzarsi secondo modalità differenti, in tempi differenti e in luoghi diversi. Non necessariamente un legame nato su
Internet sfocerà in un incontro reale di tipo faccia a faccia eppure non per questo non sarà un legame reale: reale, dunque, senza essere attuale.
7.2. Attualizzazione/virtualizzazione dello spazio
La rete costituita dalla proliferazione e diffusione di tecnologie comunicative è una connessione
fluttuante di soggetti che costruisce un territorio mobile di stampo comunicativo, che genera
quindi spazi sociali che non sono spazi tradizionali di azione delimitati da vincoli materiali e caratterizzati dalla sedentarietà. Si tratta piuttosto di territori nomadi, spazi di attraversamento:
spazi nomologici77. Lo spazio nomologico assume nella rete la configurazione del cyberspazio,
una sorta di ambiente di comunicazione totale condiviso dai soggetti e co-generato nelle catene di
interazione uomo-macchina78.
Essere nella rete è essere attraverso lo spazio più che nello spazio. Ciò dà vita ad una sorta di
cultura nomade il cui senso non si struttura semplicemente attorno ad una condizione di erranza
nello spazio ma piuttosto come vissuto mentale79, come stato esistenziale:
Muoversi non è più spostarsi da un punto all‟altro della superficie terrestre, ma attraversare universi
di problemi, mondi vissuti, paesaggi di senso. Il nomadismo odierno dipende principalmente dalla trasformazione continua e rapida dei paesaggi, scientifico, tecnico, economico, professionale, mentale… 80
7.2.1. Cultura nomade
Oggi si genera dunque una cultura nomade che assume i caratteri del glocale: generalizzazione
e particolarizzazione vengono vissuti come un flusso, come una forma fluida da attraversare –
grazie a media che consentono “navigazioni a vista”, come Internet, o “crociere organizzate”,
come la televisione – e che ci attraversa – come serie di stimoli audio-visivi e polisensoriali la cui
base è informazionale.
Il movimento di generalizzazione e particolarizzazione, suscitato in maniera pervasiva dalle
tecnologie mediali, si traduce nel sociale in un apparente paradosso che dà vita a un moto di uniformità – si pensi al fenomeno della moda, dei consumi di massa – e, allo stesso tempo, di differenziazione – sintetizzata all‟estremo nella crescita di fanatismi politici e religiosi. Ciò genera nel
sociale la nascita, da una parte, di valori astratti “invasanti, valori comuni proclamati dai media e
dai poteri economici e politici, sia che li si magnifichi o al contrario – ma è la stessa cosa – che li
77. Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Nomadologia. Pensieri per il mondo che verrà, Castelvecchi, Roma 1995.
78. Il termine cyberspace è stato coniato dal romanziere cyberpunk William Gibson per definire la matrice di dati
generati dalle reti di computer, esplorabile tramite un‟esperienza fisico-mentale ottenuta tramite connessione neuronale ad un computer (Cfr. Neuromante, Nord, Milano 1996). Tale termine ha rappresentato un imbuto semantico
1. per il mondo scientifico catalizzando attorno alle fantasie cyber un interesse culturale per la definizione dei fenomeni connessi alla generazione di mondi per via computazionale (Cfr. M. Benedikt, Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Muzzio, Padova 1993); 2. per alcuni movimenti culturali (in particolare della scena underground
) interessati alle problematiche relative all‟uso socio-politico delle tecnologie dell‟informazione (Cfr. R. Scelsi (a
cura di), Cyberpunk Antologia, Shake Ed., Milano 1990).
79. Cfr. A. Dagnino, I nuoi nomadi. Pionieri della mutazione, culture evolutive, nuove professioni, Castelvechi,
Roma 1996.
80. P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996, p.16.
29
si contesti”81. Dall‟altra si assiste alla rinascita di valori arcaici sotto forma di celebrazioni di natura tribale82 che si sviluppano spesso secondo logiche estreme.
Tale condizione però è lungi da essere un vero e proprio paradosso ma si presenta in tutta la
sua forza come una condizione di ambivalenza della postmodernità, nella quale gli opposti convivono secondo una logica di compresenza non oppositiva, di dualismo non risolvibile, di un terzo
(la sintesi) che non è dato.
E‟ in tal senso che le culture della rete sono rette da una logica erratica che cristallizza i soggetti nella forma nomade: l‟erranza non è altro che una modalità operativa che consente di sostenere ed affrontare un pluralismo strutturale. E‟ questa una logica del sociale che trova forti riscontri nelle culture di rete: l‟io tende a farsi molteplice, ad oscillare a vivere in tempo reale oppure (e allo stesso tempo) in tempo differito, così come il sociale, nel porsi comunicativamente come
sociale allo stato puro, si presenta come successione di possibili altrimenti, di combinazioni diverse. In qualche modo l‟identità nomade – un io in movimento, plurale, molteplice – consente di
strutturare percorsi di compatibilizzazione di una realtà socio-comunicativa che si presenta al
contempo come estremamente quotidiana e inesorabilmente estranea.
Ecco allora nella comunicazione di rete la possibilità di costruire identità diverse, contigue e
differenziate, rispetto a quella localizzata da una residenza sociale e professionale, vincolata ad
un principio di identità di stampo moderno. Dietro alla moltiplicazione dell‟uso di soprannomi
(nick name) o di avatar – icone che ci rappresentano sullo schermo in ambienti simulati condivisi
e che sono costruite in base a “come ci vogliamo mostrare” – non c‟è tanto la messa in opera dell‟
“arte della fuga” quanto piuttosto l‟esplicitazione del “gioco dell‟Io”83 che diviene per il soggetto
una modalità di operare nel postmoderno.
7.3. Attualizzazione/virtualizzazione delle cose
Altro tratto della cultura del virtuale è rappresentato dalla virtualizzazione delle cose intesa
come operazione di dematerializzazione del mondo e sua incarnazione in forma comunicativa.
Il sociale è in tal senso soggetto ad una dinamica per la quale, come sostiene il sociologo francese Baudrillard (utilizzando il termine reale laddove si dovrebbe trovare quello di attuale), tutti i
segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale84, intendendo con
ciò il fatto che il carattere simbolico del reale tende ad emergere nel sociale, tende a divenire il sociale.
Tale processo in atto non è però a riassumibile in una tesi di progressiva erosione della realtà,
cioè con un processo di crescita della irrealtà, quanto piuttosto come una dinamica di virtualizzazione delle cose del mondo che le sottrae al loro versante concreto, definito, singolare ed individuabile: in una parola alla loro attualità.
Le cose tendono a farsi superfici comunicative che rendono evanescente la loro forma e il loro
carattere materiale a favore del simbolico che supportano: è in tal senso che si genera una cultura
dell‟immateriale
La “cosa” si dissolve nella sua materialità per assorbire parte della nostra produzione culturale […] Ci intratt eniamo con “cose” alienate e in esse proiettiamo affetti, passioni, costrutti di senso85.
Nel mondo delle merci il prodotto smette di farsi cosa per farsi segno il che introduce una dimensione di intrattenimento affettivo con gli oggetti più che una relazione con il versante materia81. M. Maffesoli, Du nomadisme. Vagabondages initiatiques, Le livre de poche, Paris 1997, p.101.
82. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù: il declino dell’individualismo nelle società di massa, Armando, Roma 1988.
83. A. Melucci, Il gioco dell'Io, Feltrinelli, Milano 1991.
84. Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit.
85. A. Ferraro, G. Montagano, La scena immateriale, in: A. Ferraro, G. Montagano, La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, Costa&Nolan, Genova 1994, p.13.
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le di questi: è il trionfo della dimensione estetica dell‟oggetto-monile, che si presenta sulla scena
del consumo come un‟opera aperta, che coinvolge il soggetto nel processo di significazione a discapito dell‟oggetto-merce guidato dalla logica del valore d‟uso e regolato dal movimento di denaro.
7.3.1. Infoggetti
In tale quadro di virtualizzazione delle cose, generante una diffusa cultura dell‟immateriale, il
reale materiale tende a farsi dimensione comunicativa e, in quanto tale, diviene soggetto
all‟operazione digitalizzatrice delle tecnologie che tendono a ridurre il reale al suo segno generando flussi immateriali – sotto forma di autostrade dell‟informazione, borse valori telematiche, ecc.
– che attraversano il sociale, il mercato, i media, la politica, ecc. Questi flussi dell‟immateriale
generano una nuova progenie di oggetti – infoggetti, gli oggetti-informazione – svuotati dalla
forma (ma non per questo informi) per divenire contenuto allo stato puro. Gli infoggetti radicalizzano le caratteristiche affettive, simboliche e in definitiva barocche dell‟oggetto-segno sintetizzando il carattere comunicativo scolpito sugli oggetti di consumo – marca, design, packaging,
ecc.
E‟ lungo questo percorso che si genera un reale fatto di immagini circolanti che doppiano
l‟oggetto. Non si tratta però qui semplicemente di un‟operazione di rappresentazione nella quale
l‟immagine sta per la cosa reale, e il termine “ridurre” non significa spezzettamento dell‟originale
a favore di una copia (che altro non sarebbe se non una sorta di involucro vuoto). Riduzione va
intesa in senso operazionale come movimento di virtualizzazione, di astrazione significante capace di sintetizzare i nodi significativi e restituirli sotto forma di immagini, in qualche modo, autonome. Ci troviamo cioè dinanzi a nuovi territori conoscitivi nei quali la mappa è il territorio86,
ovvero esiste una percorribilità ed esplorabilità delle immagini che non sono più semplici astrazioni per erosione della realtà ma hanno la natura di realtà vere e proprie.
E‟ questo il caso delle immagini di sintesi, prodotto delle tecnologie a base computazionale, che
rappresentano il versante di Realtà Virtuale del fenomeno (Fig. 1) che stiamo esaminando. Esse
non sono semplici immagini di qualche cosa, come le immagini fotografiche, ovvero solo a livello
di simulazione di superficie87 possiamo considerarle tali, mentre a livello di simulazione di profondità rimandano ad uno statuto di autonomia interna: a questo livello esse sono linguaggio e
non semplice segno del reale. Con l‟immagine di sintesi non c‟è quindi la riproduzione di nulla,
non c‟è un rapporto analogico con il reale: fra l‟oggetto e l‟immagine si frappone lo schermo del
linguaggio informatico88 sino al limite estremo che consente di affermare che è oramai il leggibile
a generare il visibile89. Le immagini infografiche possono imitare la natura, tradurre le teorie in
forma sensibile o proiettarci in mondi che non hanno regole e proprietà basate su una qualche realtà che non sia pura fiction, non per questo possiamo considerarle come qualcosa meno che reale.
86. Una celebre affermazione di G. Bateson, uno dei grandi epistemologi contemporanei e cibernetico, è: la mappa
non è il territorio. Con ciò si intende il fatto che ogni rappresentazione della realtà, per quanto si voglia accurata,
sarà sempre una figura monca rispetto all‟originale.
87. Il livello di simulazione di superficie riguarda il comportamento dell‟immagine nella duplice accezione di simulazione di un‟interazione tra uomo e macchina e di simulazione dell‟interazione tra individuo e ambiente artificiale;
quello di simulazione di profondità riguarda il livello di simulazione del modello e incarna le virtualità di questo
che vengono attualizzate nel livello simulativo di superficie sotto forma di interattività.
88. Cfr. E. Couchot, La sintesi numerica dell’immagine. Verso un nuovo ordine vi-suale, in Albertini e Lischi (a cura di) Metamorfosi della visione. Saggi sul pensiero elettronico, ETS, Pisa, 1988.
89. Cfr. P. Quéau, Éloge de la simulation, Champ Vallon, Seyssel 1986
31
Un esempio concreto di queste teorizzazioni provengono da due tipologie di infoggetti presenti
sulla scena dell‟immateriale:
1. i prodotti di artificial life
2. i progetti infografici
I prodotti di artificial life sono simulazioni computazionali autonome di (s)oggetti che “vivono” all‟interno dello schermo seguendo regole evolutive che li portano ad evolvere in modi imprevedibili rispetto alla progettazione:
Si tratta quindi di
… organismi digitali la cui riproduzione è completamente informativa e in un certo senso formale; qui non si
tratta di crescita materiale e di consumo di sostanze come nel caso degli organismi biologici… 90
siamo infatti dinanzi ad una forma dell‟immateriale che si genera nel flusso di dati.
E‟ il caso questo delle entità sintetiche progettate dal videoartista Karl Sims91 e il cui DNA è il
prodotto di algoritmi genetici. Ciò significa che la vita artificiale di queste entità non viene progetta in anticipo, come può essere per un robot, e che i comportamenti che nel tempo si possono
notare sono emergenti.92
I progetti infografici sono una serie di oggetti immateriali prodotti nello sviluppo del design
avanzato93 e che costituiscono prototipi veri e propri manipolabili e con i quali è possibile interagire sia visivamente (orientandoli e zoomandoli sullo schermo di un computer o con una visione
immersiva grazie a data display indossabili) che, in alcuni casi, tattilmente (è il caso di prototipi
virtuali esplorabili con data glove). In molti casi di questi prototipi non rimane traccia come invece avviene per i modellini in scala, i prototipi materiali o i disegni su carta, ma a differenza di
questi il loro livello di realtà consente al progettista o all‟utente di fare esperienza del modello oltre ad averne un‟idea.
7.4. Attualizzazione/virtualizzazione del compatto mente/corpo
Sostiene Donna Haraway, epistemologa del cyberfemminismo e attenta osservatrice delle dinamiche postmoderne,
Alla fine del ventesimo secolo… siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organ ismo: in
breve siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è un‟immagine condensata di fantasia e realtà materiale, i due centri congiunti che insieme strutturano qualsiasi possibilità di trasformazione storica 94.
Il cyborg rappresenta dunque una metafora guida (che però è molto concreta) per capire le mutazione bioculturali cui è soggetto il compatto mente/corpo.
Parlare qui di compatto mente/corpo, più che della sola corporeità, è utile al fine di sgombrare
il terreno da relativismi riduzionistici e mettere in luce la duplice natura che genera una struttura
complessa nel quale il corpo va inteso al contempo95:
90. C. Emmeche, Il giardino nella macchina. Della vita artificiale, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p.55.
91. Si veda la videoinstallazione Genetic Images, 1995.
92. Si utilizza il termine emergenza per evidenziare come i comportamenti si generino nell‟interazione complessa
(non lineare) tra unità semplici. Lo stesso possiamo dire per i cosiddetti “virus” informatici, programmi che si r iproducono e si diffondono sui calcolatori anche se, per ora, non sono capaci di autoevolvere.
93. Si va dalla progettazione di macchinari o di parti di questi, a quello di edifici sino all‟arredamento di interni.
94. D. J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p.41.
95. Si veda per la disamina del problema del compatto mente /corpo dal punto di vista bioculturale M. Focault,
Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976 e dal punto di vista delle scienze cognitive il testo F. J. Varela, E.
32
1. come organismo vivente nella sua accezione di realtà empirica, componenti organiche interrelate dalle rispettive funzioni;
2. come soglia verso la costruzione dell‟identità soggettiva e sociale.
Il corpo dunque come struttura fisica a base biologica che costituisce l‟ambiente dei meccanismi cognitivi e come struttura esperienziale vissuta, “interna” all‟individuo.
7.4.1. Corpo tecnorganico e corpo postorganico
Il cyborg rappresenta un ibrido tra organismo e componente cibernetica, tra carne e sangue e
chip di silicio, tra dimensione naturale e artificiale, tra uomo e macchina 96: la sintesi di un percorso dove natura e cultura generano meticciaggi che si incarnano in figure molto concrete. E‟ la visualizzazione epistemologica della proliferazione di innesti artificiali e bionici, di protesi, più o
meno intrusive – rotule artificiali, pacemaker… – su organismi viventi, sino alla generazione della vita (l‟evento forse più naturale) controllata dalla tecnologia scientifica – fecondazione in vitro,
utero artificiale…
Possiamo allora parlare di:
 cultura tecnorganica intrusiva (tecnologia dentro il corpo). E‟ questa la dimensione
nella quale la componente tecnologica produce un accoppiamento in profondità con il corpo sostituendosi ad organi, arti o parti, oppure aggiungendosi sotto forma di devices di
controllo97, o ancora invadendo la corporeità con strutture osservative (si veda ad esempio
l‟uso di sonde endoscopiche o la radiologia medica computerizzata);
 cultura tecnorganica di superficie (tecnologia sulla pelle). E‟ questa la dimensione
nella quale l‟intervento tecnologico produce un accoppiamento di superficie con il corpo
trasformandolo, come la chirurgia estetica e il body building, significandolo, rendendolo
cioè una superficie comunicativa (come le pratiche di tatuaggio, o di piercing e branding),
estendendolo, con protesi di prolungamento sensoriale e cognitivo (dagli occhiali ai wearable computer98).
Il cyborg in tal senso è al di là di ogni dualismo e mostra come ci troviamo dinanzi ad un significativo incrocio tra corporeità e tecnologia nel quale “il corpo stesso… può essere disperso e interfacciato in modi polimorfi e pressoché infiniti”99, nel quale il corpo viene, in definitiva, disseminato100 nelle reti e negli spazi immateriali delle macchine computazionali.
Thompson e E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1992, in originale intitolato The ebodied mind, la mente incarnnata.
96. Per una sintesi dei dibattiti in corso e della tensione dell‟arte verso il tecno-post-organico si veda tra gli altri P.
L. Capucci, Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994; T. Macrì, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della
performance, Costa & Nolan, Genova 1996; B. Marenko, Ibridazioni. Corpi in transito e alchimie della nuova carne, Castelvecchi, Roma 1997.
97. Kevin Warwick, docente di cibernetica, si è fatto innestare nel gomito un chip che trasmette impulsi elettronici
che gli consentono di interagire con apparecchiature dell‟ambiente circostante realizzando un primo passo nella r icerca dell‟integrazione tra uomo e macchina.
98. All‟MIT, noto politecnico di Boston sede per eccellenza dell‟innovazione tecnologica, è in stato avanzato un
progetto di wearable computer (letteralmente computer da indossare) relativo alla progettazione di abiti intelligenti
connessi via satellite a computer dislocati in ambienti remoti e ad accessori (borse, occhiali, ecc.) contenenti devices computazionali (tastiere, schermi, note pad, ecc.).
99. D. Haraway, op.cit., p.59.
100. Caronia, critico della letteratura fantascientifica e attento lettore delle modificazioni de l corpo
nell‟immaginario e nella realtà, vede un‟evoluzione in rapporti tra corpo e tecnologia che ha portato dai processi di
33
Corpo tecnorganico
Corpo postorganico
Modalità di suModalità intrusiva
Modalità elusiva
perficie
Tattoo, piercing,
steeling, protesi inClonazione, Avatar, simulabranding,
body vasive,
endoscopia, cri, telepresenza, RV immersiva
building radiologia trapianti di organi artimedica compouteriz- ficiali
zata,
protesi
esterne
(occhiali, lenti a contatto…), esoscheletri, wearable computer
… cyborg …
Fig. 2
Il cyborg si spinge allora oltre la sua metafora immediata, che ancora contiene in sé la dimensione organico-materiale del corpo – certo sollecitata e ripensata dalle componenti più o meno
intrusive di natura elettromeccanica: le tecnologie digitali innestano il corpo nella scena immateriale suggerendone un‟evanescenza, un percorso nel quale, per dirla alla Perniola, il corpo si fa
veste estranea, si fa cosa:
le vesti di carne dei nostri corpi stanno come gli abiti che lasciamo sulla poltrona la sera prima di andare a letto101
In questa corporeità che si fa cosa confluisce una duplice tensione presente nel sociale che si
virtualizza per la quale “sembra che le cose e i sensi non si combattano più tra loro, ma abbiano
stretto un‟alleanza grazie alla quale l‟astrazione più distaccata e l‟eccitazione più sfrenata sono
quasi inseparabili e indistinguibili”102, una tensione irrinunciabile quindi tra la sensibilità umana
sensorialmente esperita e la necessità di farsi cosa: corpo postorganico.
Il corpo postorganico è sempre presente nei processi di interazione ma non nella sua concretezza materiale spazio-temporalmente definita: è un corpo tele-presente. Come nei sistemi di RV
immersivi dove il corpo “naturale” (patron, nel processo che si genera) raddoppia e si associa ad
un puppet, simulacro senziente che agisce in un altro intorno spazio-tempo la cui natura è immateriale.
Non abbiamo qui a che fare cioè con una tecnologia che si pone semplicemente come un prolungamento della sensorialità umana, come ad esempio intende i media McLuhan103 (telefono come prolungamento dell‟orecchio, televisione come prolungamento dell‟occhio…), ma piuttosto
siamo di fronte ad un processo di virtualizzazione/attualizzazione del corpo che i tecnomedia rendono evidente.
Il corpo virtualizzato si ricontestualizza nelle reti telematiche sotto forma di avatar, doppi “altri” di un‟identità risemantizzata nei percorsi digitali. Il corpo in tal senso diviene in modo evidente una superficie di incontro di codici d‟informazione: da quello genetico a quello informatico ed
in tal senso è soggetto all‟operazione digitalizzatrice delle tecnologie computazionali, è materiale
di elaborazione per l‟apparato di resa e cattura. In una visione estremizzata e tesa alla denuncia si
potrebbe affermare che
replica del corpo a quelli di invasione del corpo per arrivare alla sua disseminazione. Cfr. A. Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato in rete, Muzzio, Padova 1996.
101. M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p.14.
102. Ibidem, p.3.
103. Cfr. M. McLuhan, Strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.
34
il mondo cyber in cui viviamo ha dissolto l‟organico in una serie di flussi elettronici che controllano la nostra esistenza: dalle transazioni bancarie, alle biotecnologie mediche, fino alle più svariate forme di comunicazione spe rsonalizzata104.
Dal postorganico al post-umano?
7.4.2. Volatilizzazione ed eccesso di corporeità: tra estetica della sparizione ed estatica
dell’apparizione
Eppure il tema della sparizione del corpo rappresenta solo un versante nella complessità cui la
logica del virtuale impone di dare conto. Piuttosto si può affermare che il corpo, nel doppio movimento di resa e cattura che diviene leggibile nell‟immaginario tecnologico, è soggetto:
1.
da una parte ad una estetica della sparizione105 e
2.
dall‟altra a un‟estatica dell’apparizione.
Da una parte cioè siamo dinanzi all‟erosione del corpo, un corpo che si nullifica di fronte alle
protesi di RV per risensorializzarsi all‟interno di mondi virtuali; un corpo che prosegue il processo di santificazione tramite la mortificazione della carne (flagellazione, digiuno, ecc.) in una direzione dove alla dimensione religiosa della beatificazione si sostituisce quella psicologica della
colpa, una dimensione che lo porta a sottrarsi a se stesso nella forma anoressica; un corpo che diventa obsoleto, come nelle performances di The Body Suspensions (1976-1988) di Stelarc, artista
australiano che si fa sospendere in spazi urbani (strade e gallerie) nella ricerca di uno sradicamento del corpo tramite desensibilizzazione, un progetto di enhancing the body, dove il corpo che
si innalza è un distaccamento dal corpo.
E‟ nell‟estetica della sparizione che il corpo esula da se stesso e si ripropone facendosi immagine:
Nel reame delle immagini multiple e del morphing l‟impotenza del corpo fisico è apparente. Oggi il corpo performa meglio come sua immagine… Ciò significa che essere umani non è più essere immersi nella memoria genetica ma piuttosto essere riconfigurati nei confini elettromagnetici di un circuito – nel reame delle immagini106
Il corpo immagine diviene un corpo che si immagina: da ridisegnare, da ritoccare, da modellare… un percorso allora che porta alla riappropriazione della dimensione corporea come eccesso
del corpo-immagine.
Dall‟altra parte ci troviamo quindi di fronte all‟estasi dell‟apparizione del corpo, ad un eccesso
di corporeità, al corpo che si ripresenta a se stesso modellato (nelle pratiche culturistiche e nelle
sedute in beauty farm) rinnovato (da interventi chirurgici) come superficie comunicativa per i tatuaggi (disegnando il corpo), per le pratiche piercing (perforandolo con anelli), steeling (trapassandolo con pezzi di acciaio), branding (marchiandoselo a fuoco con le griffe di stilisti).
E‟ il corpo della performer Orlan che viene mutato da una serie di operazioni chirurgiche seguendo il progetto di Art Carnel che mira all‟“incarnazione di un pensiero direttamente nel corpo”
e che muta al di là del valore estetico portando alla mutazione dell‟identità – nel progetto c‟è
104. R. Braidotti, La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea, in D. Haraway, op.
cit.i, p.20.
105. Cfr. P. Virilio, Estetica della sparizione, Liguori, Napoli 1992.
106. Stelarc http://merlin.com.au/stelarc
35
l‟idea di affidare ad agenzie pubblicitarie la ricerca di un nuovo nome e di intraprendere
un‟operazione legale per farselo riconoscere sui documenti associato alla nuova immagine.
Ma il processo di virtualizzazione del corpo non si esaurisce col renderlo un territorio sempre
possibile altrimenti, una cosa tra le cose nella scena dell‟immateriale. Virtualità del corpo significa deterritorializzazione/riterritorializzazione del corpo: organi espiantati e trapiantati che si
scambiano tra individui ma anche tra specie diverse – cornee, fegati animali; costituzione di
grande banche dati di un corpo che si è esteriorizzato e che raccolgono sangue in sacche conservanti, ovuli e spermaozoi congelati in provetta per poi riterritorializzare il corpo tramite trasfusioni, fecondazioni in vitro, inseminazioni artificiali.
Il corpo cioè si virtualizza astraendo le componenti dai corpi particolari, rendendole trasportabili al di
là dei singoli organismi, generalizzando i processi (ad es. la fecondazione) al di là dei concreti compatti
mente/corpo; e al contempo si attualizza impiantando componenti organiche nei singoli e concreti corpi,
dando origine a nuovi corpi .
8. Scenari aperti: (dis)individualizzazione generalizzante
Il quadro delineato sinora, teso tra le sollecitazioni di una epistemologia del virtuale e le incarnazioni concrete esplicitate da una tecnologia del virtuale, pone con forza alcune riflessioni di
natura sociologica sulla forma relazionale che viene supportata dalle dinamiche esaminate.
Innanzitutto il processo di virtualizzazione in atto rimanda ad un percorso di generalizzazione
ed astrazione che svincola il sociale da ciò che è particolare e singolare. Tale percorso non significa però soppressione di ogni individualità ma piuttosto che questa incarna la dimensione del
molteplice, si apre all‟arte combinatoria e di permutazione, acquisisce senso nel globale, segue
percorsi che la portano a confluire nella realtà intersoggettiva.
Ecco allora che l‟individuo inscritto nella società fluisce nella massa dando forma ad una socialità di massa nella quale la singolarità trova un percorso di senso.
La forma relazionale alla quale si perviene è caratterizzata da una soggettività vissuta in comune che porta l‟esperienza biografica del singolo a confluire in quella collettiva, estendendola in
una sorta di biografia generalizzata. Nella disindividualizzazione comunitaria l‟Io soggettivo confluisce in un noi generalizzato, retto da un senso di prossimità, di vicinanza, di riconoscimento
dell‟esperienza altrui che avviene per contiguità, per esili sfioramenti.
Di qui l‟affermarsi di teorie esplicative come quella che riconosce nel sociale l‟emergere di una
forma di neo-tribalismo107, caratterizzato da condensazioni istantenee che risultano essere fragili
ma al contempo ad elevato investimento affettivo, configurate da assembramenti puntuali e sparpagliati e da un incessante giravoltare dei soggetti da un gruppo all‟altro. E‟ un processo per il
quale ci si fonde nella comunità ma senza necessariamente rispecchiarsi nell‟altro, instaurando
piuttosto un rapporto effimero, contingente, un‟unione en pontillé (al tratteggio) che garantisce la
cristallizzazione di gruppi sociali nel fluire della massa. Gruppi però che non rappresentano “ancore di salvezza” rispetto alla logica dell‟annullamento di massa ma che ne rappresentano piuttosto la natura contingente.
Altra teoria concorrente, ma che mette in luce l‟affermazione nella logica comunitaria della
specificità del singolo, è quella dell‟intelligenza collettiva 108 che trova un significativo spunto di
attualità nelle proprietà connettive delle tecnologie di comunicazione.
107. Cfr. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, op. cit.
108. Cfr. P. Lévy, op. cit. L‟autore intende per intelligenza collettiva non il fattore cognitivo in sé ma piuttosto la
condivisione di intenti che porta a generare “… un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata,
coordinata in tempo reale, che porta ad una mobilitazione effettiva delle competenze”, p.34.
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Il concetto di intelligenza collettiva va collocato in un ambito di riflessione che considera il legame sociale fondato sul rapporto con la conoscenza, dunque ha a che fare con la costituzione di
uno spazio del sapere che si genera nel sociale e con un concetto di identità come “identità di sapere”:
… ogni atto di comunicazione, ogni relazione umana implica un apprendimento. Un percorso di vita, per le conoscenze e le competenze che richiede, può alimentare continuamente un circuito di scambio, nutrire una socializzazione del sapere109.
Lo spazio del sapere collettivo è in tal senso valorizzazione del singolo soggetto in quanto portatore di conoscenza con competenze peculiari che si fa entità molteplice, un soggetto in perenne
metamorfosi in quanto è in continuo apprendimento e che si fa nomade all‟interno dei percorsi
conoscitivi. Il soggetto trova dunque la propria specificità nei percorsi del collettivo senza annullarsi in un “magma indistinto” ma tramite una continua operazione differenziatrice.
Se nel caso del neo-tribalismo è più evidente il percorso del singolo teso alla virtualizzazione,
al farsi possibile altrimenti, ad incarnare la contingenza come apertura illimitata alle possibilità,
con l‟intelligenza collettiva è il versante di attualizzazione ad emergere come percorso di individuazione nella generalizzazione. E‟ evidente ancora una volta come il legame di coalescenza tra
attuale e virtuale richieda di interpretare i percorsi al di là di facili dualismi ed opposizioni: neotribalismo e intelligenza collettiva sono comunque percorsi di annullamento attivo nella dimensione macro attraverso una percorso di generalizzazione delle differenze che porta ad una moltiplicazione di differenze di differenze… in un orizzonte di possibilità illimitate.
109. Ibidem, p.32.
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Comunicazione e servizio sociale
di Edda Bormioli Riefolo
Il tema nel servizio sociale è dibattuto da tempo ed a diversi livelli, credo si possa affermare,
infatti che la comunicazione, nei suoi diversi aspetti e forme, rappresenti la condizione essenziale
per l‟esercizio della professione di servizio sociale.
Gli ambiti istituzionali della professione sono delineati dalla legge naz. n. 84 del 1993 110 che
mette in evidenza una serie di meccanismi strettamente interconnessi ed indispensabili
all‟esercizio delle attività quotidiane della professione: comunicare con le persone, con le organizzazioni, con le diverse professionalità e con le varie presenze del territorio si costituisce come
possibilità primaria per innescare e condurre il processo di aiuto peculiare del servizio sociale,
anche se questa possibilità rappresenta, a mio parere, la base indispensabile per l‟esercizio di tutte le professioni di aiuto che agiscono attraverso un percorso di tipo relazionale.
Forse da questi cenni si può desumere come specificità del servizio sociale, un aspetto di pluridimensionalità e contemporaneità dei percorsi comunicativi, in quanto questa professione, per la
sua collocazione prevalente nelle strutture pubbliche e private, comunque di servizio, e per i compiti che la legge le attribuisce, riceve un mandato specifico orientato a produrre un cambiamento
in positivo non solo nella situazione della persona utente (si tratti di un individuo, o gruppo, o
comunità) ma anche nelle politiche dell‟organizzazione cui appartiene attraverso l‟introduzione di
nuovi servizi e/o prestazioni.
L‟intervento di Servizio Sociale come relazione di aiuto prevede infatti dei percorsi multipli di
spessore e percorso metodologico differenziato (con la persona, nel servizio o nella comunità) anche a seconda che esso si attui in un progetto di carattere preventivo (con strumenti di informazione, di promozione culturale, di programmazione dei servizi) o in un contesto di mediazione o
ancora nelle situazioni (purtroppo molto frequenti anche ai giorni nostri) gravemente deteriorate a
livello familiare o sociale. Di conseguenza è necessario individuare i codici e le strategie di comunicazione utili a stimolare, anche dentro all‟organizzazione, quei cambiamenti che possano renderla più adeguata ai bisogni espressi dall‟utenza, in sostanza più rispondente ai propri fini; perchè si arrivi a questo risultato è però essenziale che il professionista a contatto con il pubblico sia
in grado di rappresentare correttamente i bisogni delle persone, ed i loro diritti, attivando una re-
1. La L.N. 23 maggio 1993 n. 84 “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell‟albo profe ssionale” recita: “L’assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi
dell’intervento (omissis), svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione dei servizi sociali".
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lazione reale, che si traduce in un processo comunicativo costante tra i due poli della relazione
(operatore ed utente).
Parallelamente nelle frequenti occasioni di forte complessità sociale è sempre più importante e
significativo conoscere le reti comunicative del contesto territoriale dove, in molte situazioni
l‟assistente sociale è divenuto agente di raccordo e coordinamento tra pubblico e privato, tra servizi e gruppi informali di aiuto che spesso, più degli stessi servizi sono collegati alle dinamiche
della compagine sociale.
Si tratta quindi di una richiesta “forte” che il professionista riceve rispetto allo sviluppo delle
proprie abilità comunicative, perchè i sistemi di rapporto (le reti) che si intrecciano nel territorio
sono a volte molto difficili da interpretare e, ormai, anche molto mutevoli nel tempo. Si pensi ad
es. all‟eterogeneità etnica, culturale e sociale dell‟utenza che attualmente si presenta ai servizi socio-assistenziali, ed anche sanitari e quindi alla complessità che gli operatori debbono affrontare
nell‟interpretazione della domanda. A volte si tratta di comunicare con soggetti in situazione di
grave sofferenza o disagio che, essendo portatori non solo di bisogni oggettivamente rilevabili, ma
e forse più ancora, di bisogni appartenenti ad un‟area di totale soggettività, non riescono ad entrare in tempi relativamente brevi all‟interno di quel circuito comunicativo che potrebbe consentire il
pieno esplicitarsi della relazione di aiuto.
In questi casi la comunicazione avviene a senso unico e quindi viene a perdere uno dei suoi requisiti fondamentali (contenuti già nel suo significato etimologico) che prevede uno scambio, una
messa in comune di significati.
Il 2° aspetto altrettanto importante è quello delle comunicazioni che le diverse professioni soprattutto se appartenenti ad aree differenziate debbono instaurare all‟interno delle organizzazioni:
infatti il moltiplicarsi dei nuovi servizi se da un canto riveste un significato molto positivo perchè
da la possibilità di costruire risposte più articolate e flessibili, dall‟altro può ingenerare anche situazioni di indefinitezza e sovrapposizione di compiti che possono tradursi, nella migliore delle
ipotesi, in una dilatazione dell‟offerta di prestazioni induttrice di domanda indifferenziata (e quindi difficilmente correlata al bisogno) da parte dell‟utenza, nell‟ipotesi peggiore in stati di tensione
fra servizi e operatori (anche del 3° settore) che disorienta il cittadino nelle sue possibilità di fruizione delle risorse, qualora non vi sia un sistema comunicativo formalizzato e condiviso.
Aldilà quindi della necessità di costruire dei percorsi formativi comuni all‟interno dei servizi
per una integrazione funzionale degli stessi, va anche potenziato il sistema delle comunicazioni
interne ed esterne che consenta non solo la velocizzazione dei tempi di lavoro, ma soprattutto la
correttezza e l‟oggettività dell‟informazione attraverso una strumentazione efficace.
L‟acquisizione di un buon sistema comunicativo è certamente un passo utile a valorizzare il lavoro di tutti i professionisti dell‟area sociale e sanitaria, ma si rivela indispensabile nel lavoro
per progetti dove la visione globale dell‟obiettivo da perseguire deve poggiare su logiche condivise, su informazioni comuni, pure nella specificità dei singoli interventi.
Certamente le professioni di aiuto vivono e sperimentano quotidianamente il condizionamento
di comunicare in situazioni a volte particolarmente difficili e complesse: la stessa normativa che
regola i rapporti tra servizi e cittadino propone facilitazioni ma anche limiti alla possibilità di comunicare, si pensi alla legge sulla trasparenza degli atti amministrativi - n.241/90 - e alla legge
sulla tutela del diritto alla riservatezza.
Questi sono temi certamente alquanto specifici che si ricollegano comunque alla necessità di
semplificare e rendere quindi possibile la comunicazione servizio-utente, nonchè organizzazioneservizio e organizzazione-organizzazione: va rilevato a proposito del rapporto tra informazione e
comunicazione come, probabilmente, oggi più di un tempo gli operatori dei servizi socio-sanitari
abbiano la possibilità di raccogliere molte informazioni, ma si debba forse ancora completare il
passaggio alla qualità della comunicazione, passaggio che richiede una attenta analisi a tutta la
gamma dei rapporti che vengono messi in atto nelle strutture di servizio, per una ricollocazione
rispetto agli obiettivi del servizio stesso.
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Il contesto collaborativo
di Giovanna Cavagnino
Le modificazioni introdotte dalla nascita di un mercato globale e dalla sempre maggiore internazionalizzazione della politica avranno delle ripercussioni anche nel campo del lavoro, ripercussioni, in particolare, che andranno a interessare coloro che uscendo dal mondo della formazione
intendono immettersi nel mercato.
Entrare nel mondo del lavoro significa, in primo luogo, incontrare un'organizzazione, entrare in
contatto con un ambiente costruito sulla base della stabilità: qualcosa di già costituito ed esistente. Si tratta di un contesto - visto dal punto di vista dei nuovi immessi sul mercato del lavoro - che
diverrà luogo di apprendimento sociale, un nuovo strumento di verifica, diverso pertanto da quello precedentemente acquisito con l'esperienza scolastica.
Il primo punto da chiarire riguarda il rapporto tra la conoscenza di chi si immette sul mercato
del lavoro e la struttura organizzativa del mercato stesso: il know how del professionista nuovo
assunto è caratterizzato dalla flessibilità, dal permanere in una situazione di dinamicità, tipica del
lungo e graduale processo di apprendimento fino ad allora sperimentato; l'organizzazione, al contrario, si caratterizza per la sua staticità, presentandosi al nuovo professionista con regole, ordine
e gerarchia.
Nella situazione attuale - ancora, ma soprattutto nel passato - l'organizzazione assumeva il
professionista per essere confermata nella sua stabilità e nella sua funzione. Questo meccanismo
statico dell'organizzazione, d'altra parte, si rivela in genere assolutamente opposto alle aspettative
del professionista, che invece ritiene di poter essere indice di innovazione e ammodernamento,
crede di essere stato assunto per questo scopo: per dinamicizzare il prodotto dell'azienda e per
renderlo competitivo.
Si tratta di una dicotomia fondamentale che viene ad istituirsi tra organizzazione e professionista: una dicotomia di base, che può dare origine, a seconda di come viene gestita, a un contesto
lavorativo di carattere collaborativo o indurre un processo di rivendicazione.
Tale contesto si delinea a partire dal comportamento dell'organizzazione: in particolare, un'organizzazione che non è disposta ad attuare alcun cambiamento quando assume i professionisti
(che poi paga) rischia di creare un contesto rivendicativo, in quanto il professionista - che ritiene
di essere legittimato dall'assunzione a portare il proprio sapere innovativo - viene completamente
deluso; alla fine del processo, l'organizzazione - pur assumendo nuovi dipendenti - continua a
perpetuarsi rispetto alla sua funzione originaria.
La creazione di un contesto lavorativo di questo tipo non risponde alle regole di funzionalità
del mercato. Un contesto di carattere collaborativo, invece, tende a risolvere questo tipo di conflitti: esso si instaura, in particolare, ove si inserisce la possibilità, lo spazio, per il dialogo tra organizzazione e professionista. Ritengo cioè di fondamentale importanza, da parte dei due soggetti,
agire nel senso di una continua verifica e interazione, dando luogo a un contesto di collaborazione
e di continuo apprendimento.
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Si introduce quì il concetto di contesto come luogo di apprendimento sociale, dove le posizioni
sono certamente e inevitabilmente definite dalla gerarchia dell'organizzazione, ma dove il professionista che si immette in esse - presentandosi con una serie di richieste motivate e una posizione
dialogica - ritiene che l'organizzazione sia disponibile all'innovazione e al cambiamento.
Per dare luogo a un contesto collaborativo, il nuovo assunto deve prima conoscere la gerarchia
dell'organizzazione, e riuscire a capire come essa si ponga di fronte alle nuove assunzioni. E' necessario che il professionista prima di assumersi il compito del cambiamento, basandosi solo sul
fatto di essere stato assunto, studi se e quali spazi gli siano consentiti per innovare.
Il neoassunto, in sintesi, deve mettersi in una posizione dialogica, essere propositivo, e inserirsi
nell'organizzazione prima in una posizione di ascolto, per essere in grado di captare in maniera
corretta i segnali che l'organizzazione gli invia.
Chiarito questo primo punto, bisogna tenere conto di cosa stimolerà l'organizzazione a cambiare nell'immediato futuro. Ci sono infatti chiari segnali che indicano una imminente modifica del
mondo del lavoro. Una modificazione non voluta dalle organizzazioni, ma causata da due fattori:
l'instabilità economica - dovuta alla globalizzazione dei mercati finanziari, con una sempre più
massiccia ingerenza da parte dei mercati asiatici sulle borse europee - e l'instabilità politica, dovuta all'internazionalizzazione. Si tratta, come tutti hanno modo di vedere, di due fenomeni che
stanno avvenendo su scala mondiale: per quanto riguarda la globalizzazione dell'economia, gli effetti diretti che le economie asiatiche stanno avendo attualmente sui mercati europei e statunitensi
viene percepita come un fenomeno di cui si cercano le cause. Gli economisti, d'altra parte, assicurano che si tratterà, in futuro, di una dimensione permanente, non dovuta a qualche passeggera
influenza, ma causata, come detto, dalla globalizzazione degli investimenti.
Anche l'instabilità politica, da parte sua è un elemento che indurrà dei cambiamenti, non riguarda solo l'Italia ma è estesa a livello mondiale. Questi due accadimenti stanno costringendo le
imprese (e il fenomeno diventerà sempre più urgente e pressante nel corso dei prossimi anni) a rivedere la propria modalità operativa. Per poter restare sul mercato, essere competitive, si renderà
necessaria una trasformazione, che prenderà le forme non di un processo di carattere cognitivo di una scelta ragionata - ma di una vera e propria lotta per la sopravvivenza. E gli equilibri richiederanno strategie di cambiamento.
Questa trasformazione implicherà per sua natura anche un processo di revisione delle strutture:
un'organizzazione non potrà più definirsi come "ordine costituito", come un'agenzia in grado di
funzionare e avere successo proprio grazie alla stabilità delle sue regole. Visto che le regole cambieranno continuamente, infatti, l'organizzazione sarà chiamata a modificarsi e mettersi in discussione, attuando un procedimento tale da correlare la propria struttura a quella che verrà richiesta
dal mercato in continua evoluzione.
Nell'immediato futuro l'instabilità dei mercati diventerà permanente, non verrà quindi più interpretata come una "crisi" - cosa che avviene attualmente - e il perdurare di questa situazione di
instabilità obbligherà le imprese a imparare a convivere con essa. Tanto più verranno allargati i
confini del mercato, tanto prima svanirà la possibilità di rimanere rigidamente ancorati a un concetto di ordine, di regolarità e di stabilità.
La modifica del sistema socio-economico-politico avrà certamente delle ripercussioni sul "mercato dei professionisti" che si immettono nel mondo del lavoro: chi andrà a lavorare quando queste nuove logiche saranno divenute patrimonio stabile, dovrà essere capace di riverificare continuamente il proprio tipo di formazione, ed essere disponibile a modificare spesso e rapidamente il
proprio campo di intervento. Ad essere precisi, non si tratterà soltanto di disponibilità al cambiamento, ma necessità di sviluppare nuove capacità di apprendimento. Anche in questo caso, come
per la trasformazione del mercato, non si tratterà di un processo coordinato e armonico: tra aspettative del mercato, conoscenze acquisite e domanda di flessibilità non ci sarà un dialogo, ma una
serie di complessi rapporti di forza. Questa situazione riguarda in parte anche il mondo della
formazione, che è intrinsecamente stabile e di per sé poco attento alle modifiche del mercato, che
- come abbiamo visto - chiederà in particolare la flessibilità delle conoscenze: la formazione richiederà continui aggiornamenti.
Il professionista quindi dovrà attrezzarsi in merito: per saper rispondere senza sosta alle esigenze in continuo cambiamento del mercato, dovrà creare intorno a se un contesto collaborativo,
abbandonare la sicurezza della formazione di tipo rigido e saper intuire e rispondere alle nuove
richieste. Egli dovrà imparare a leggere la propria posizione, a definirla non come singolo, ma
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come soggetto in rapporto all'organizzazione, in modo da poter aprire un dialogo con l'organizzazione stessa, e con essa riverificare continuamente il proprio ruolo in un contesto destinato a mutare continuamente per questioni di sopravvivenza.
Forse è utile, in vista dei cambiamenti che interessano l'organizzazione, analizzare anche un altro aspetto della situazione, che riguarda le modifiche, nell'immediato futuro, della dimensione
organizzativa delle imprese. Elemento fondamentale sarà infatti la progressiva riduzione dalla
grande alla piccola e media impresa, sul modello di quanto sta già avvenendo nel Nord Est dell'Italia. Attualmente, infatti, questo sistema organizzativo del NE è un modello di gestione del lavoro e del prodotto che, nel corso degli anni, verrà "esportato" in tutta Italia, anche al Sud. La riorganizzazione delle imprese sulla base del modello attualmente fornito dalle piccole e medie industrie del Nord Est pone alcuni importanti vantaggi: si tratta di una struttura organizzativa semplificata e quindi più dinamica, ove è possibile intervenire agilmente con le modifiche necessarie,
dettate - come dicevamo prima - dalle modifiche dell'economia e del mercato del lavoro. Questa
nuova organizzazione prenderà con certezza piede in tutto il tessuto economico dello Stato: se si è
riusciti a modificare l'esercito - per sua natura immagine di ordine costituito, rappresentazione
emblematica della burocrazia dello Stato - sarà possibile e, aggiungerei, indispensabile operare
degli interventi di modifica anche nel sistema economico pubblico e privato. Modifiche più vicine
alla struttura della piccola e media impresa che a quelli attualmente presenti nelle grandi industrie. Il contesto delle medie e piccole imprese comprenderà una serie di elementi innovativi: più
spazio alla formazione del personale, alla logica della distribuzione, all'acquisizione di nuove tecnologie. Tali, importanti, mutamenti - e in particolare la questione dell'utilizzo di nuove tecnologie - avverranno non solo per scelta o volontà dell'imprenditore, ma, come già abbiamo evidenziato, per necessità di sopravvivenza nell'ambito dei nuovi mercati. L'impresa che per sua natura
tende a non modificare il proprio contesto organizzativo sarà costretta a innovare per essere competitiva rispetto ad altre aziende che hanno adottato le nuove tecnologie. In ultima analisi, la possibilità di restare economicamente attivi nell'ambito di un mercato internazionale provocherà la
necessità di attrezzarsi con tecnologie e personale adatti alle nuove esigenze economiche. Da questo punto di vista, resta da evidenziare quali saranno le caratteristiche del nuovo manager, chiamato a lavorare nel nuovo contesto organizzativo dell'azienda, nell'ambito del mercato globale e
fortemente concorrenziale.
In primo luogo, il nuovo manager sarà chiamato ad analizzare una situazione in continua evoluzione, che non si fonda solo su basi storiche, ma che dipende dagli accadimenti (politici, economici e sociali) di medio e breve periodo. Il manager, in altre parole, non avrà dati o serie storiche per trovare elementi necessari a superare la crisi: in questa situazione, continuamente sottoposta a modifiche, ove i controlli mirati si dimostrano spesso inefficienti o inadeguati, il manager
dovrà essere in grado di dotarsi di nuove tecnologie in grado di verificare la situazione dell'organizzazione, che non sarà più una rappresentazione dell'ordine, ma un'immagine dinamica. Anche
per l'aspetto della comunicazione, il manager sarà chiamato a fare un salto qualitativo: la sua capacità comunicativa, infatti, dovrà permettergli di leggere una situazione in evoluzione, di cui si
conoscono solo gli elementi di partenza, caratterizzati dal modelli di una gerarchia rigidamente
costituita che è andata via via modificandosi. Anche le conoscenze, quello che potremmo definire
il curriculum, dovranno essere adeguate alla nuova situazione, e quindi sempre più flessibili rispetto a nuovi apprendimenti. Anche da questo punto di vista, si sta instaurando una legge di
mercato, che è in grado di stabilire momento per momento quali sono le professioni più ricercate.
Queste nuove competenze si riassumono nella necessità, per il manager, di essere in grado di inserirsi in una modalità comunicativa flessibile e morbida tale da consentire l'instaurarsi e lo svilupparsi di un contesto collaborativo. Non sarà più possibile definire in maniera rigida le competenze
e il curriculum di studi di un manager; le caratteristiche di un diploma e di una laurea serviranno
ad inserirsi nel mondo del lavoro, ma non saranno più utili per restare in una posizione attiva del
mercato. Le caratteristiche dei curricula, infatti, per utilizzare una terminologia estremamente
concreta, serviranno solo per inserirsi nel mercato, ma non per "fare carriera". Per progredire
nell'organizzazione, ci vorranno, come accennato, ulteriori capacità.
Tutti coloro che avranno l'ambizione di diventare dei manager nel prossimo futuro dovranno
attrezzarsi a vivere in una situazione relazionale, nella quale l'impresa a cui appartengono tenderà
a modificarsi molto lentamente, ma, al contrario, chiederà ai propri collaboratori di essere molto
elastici e rapidi nel rispondere ai cambiamenti necessari all'azienda. Gli operatori dovranno di
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conseguenza abbandonare molto velocemente le loro mappe cognitive tradizionali, per assumere
nuovi elementi di conoscenza dell'organizzazione e di gestione del cambiamento. I manager dovranno imparare a rivedere le proprie posizioni acquisite: la cultura specialistica - oggi predominante nel mercato del lavoro, e, all'interno dell'azienda, nella composizione della gerarchia - diverrà formazione di base, da integrare a seconda di ciò che il mercato richiederà nel preciso momento storico-economico che l'impresa attraverserà in una fase sempre più competitiva.
Coloro che non sapranno rispondere a queste esigenze, mantenendosi incollati alla visione statica e tradizionale dell'organizzazione aziendale, non sapendo leggere le necessità del cambiamento, verranno posti ai margini dell'impresa. Non verranno, probabilmente, licenziati, ma diventeranno obsoleti, a seguito della loro incapacità di elaborare il cambiamento e interpretare le volontà dell'azienda. Sarà compito del manager, per non venire espulso dal processo continuo di riorganizzazione ed elaborazione, riproporre la propria competenza: egli dovrà essere capace di evolvere le conoscenze entrando e uscendo dall'azienda per utilizzare strumenti formativi. Questo fenomeno porterà in parte anche alla messa in discussione dell'attuale mito dell'efficientismo, dove
il profitto viene calcolato sulla base della presenza in azienda. Il nuovo concetto di efficienza sarà
invece basato sulla capacità relazionale del manager nel modificare il proprio comportamento
formativo e le proprie conoscenze sulla base delle richieste dell'azienda che lo occupa. Il processo
attraverso cui il manager giungerà a questa presa di coscienza del suo nuovo ruolo dipende dalle
sue capacità di relazionarsi con l'impresa e con la capacità di non leggere le proprie competenze
come assolute. L'errore di considerarsi "un intoccabile laureato" è pericoloso, perché molti non
laureati, in grado di elaborare un'elevata motivazione alla carriera partendo da un curriculum di
studi peggiore ma una flessibilità acquisita sul campo potranno ottenere maggiore successo, carriera e spazio in un'azienda flessibile e in movimento sul mercato. Un laureato che non pensa alla
sua continua ricollocazione nell'azienda, alla necessità di continua formazione e ridefinizione di
ruoli rischia di diventare un "burn out", un soggetto tagliato fuori dal progresso economico. Per
evitare questo pericolo il soggetto deve essere in grado di attrezzarsi per rivitalizzare il proprio
ruolo, la propria formazione e la posizione che in ogni momento occupa all'interno dell'impresa,
tutto ciò partendo da un unico paramento di riferimento - il passato - sapendo però prevedere, in
relazione ai mutamenti esterni, al mondo allargato che richiede sempre nuove modalità comunicative, il proprio futuro. Solo in questo modo il manager del 2000 sarà in grado di sviluppare strategie adatte a potenziare il suo apprendimento, per sopravvivere con una proficua soddisfazione
nel mercato globale del futuro.
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Le mappe cognitive come strumenti per comunicare
di Manuela Cecotti
1. Introduzione
Il concetto di mappa riguarda un‟ampia gamma di rappresentazioni grafiche, aventi lo scopo di
offrire l‟immagine unitaria di una determinata situazione. La mappa è una metafora che, insieme
a quelle dello spazio, del viaggio e della navigazione, suggerisce una somiglianza simbolica tra i
percorsi nel mondo esterno e quelli nel mondo interno della nostra mente.
In ambito psicologico con mappe cognitive si indicano i processi mentali messi in atto quando
si organizza spazialmente la conoscenza, ci si riferisce in questo caso ai processi di cognitive
mapping (Siegel e White, 1975), ma le mappe sono anche dei prodotti, delle rappresentazioni sintetiche, degli schemi che premettono di cogliere in maniera unitaria informazioni e conoscenza.
Nel presente intervento verranno individuati i principali presupposti teorici collegati
all‟ideazione ed all‟utilizzo delle mappe, verranno presi in considerazione alcuni importanti ambiti di applicazione di questo strumento e ne saranno forniti degli esempi relativi alla formazione ed
al lavoro di gruppo. Verranno suggeriti infine alcuni aspetti comunicativi che è possibile cogliere
e sviluppare nel confronto e nella costruzione di mappe.
2. Aspetti teorici
La metafora della mappa risulta essere ampiamente utilizzata in psicologia e in diverse applicazioni educative.
Mappe cognitive (Meazzini e Soresi, 1991 e Bonino, 1994), mappe mentali (Buzan, 1986) e
mappe concettuali (Novak e Gowin, 1989; Damiano, 1994) sono le diverse accezioni con cui
vengono individuati degli schemi grafici aventi diverse radici teoriche.
Per una vasta parte della ricerca in campo psicologico la mappa cognitiva è un‟organizzazione
euclidea che coordina una pluralità di informazioni dislocate nello spazio.
La mappa cognitiva in psicologia simboleggia anche il modo umano di ricordare, attraverso
l‟attivazione di processi mentali di cognitive mapping.
Quando il processo di organizzare spazialmente le informazioni, si applica alle informazioni
spaziali, ci si riferisce alle ricerche ed agli studi relativi alla conoscenza ed alle rappresentazioni
dell‟ambiente. La mappa è in questo caso uno strumento cognitivo che l‟individuo si costruisce ed
utilizza per coordinare informazioni ambientali (Czerwinsky, 1993). Ma non è solo ai processi di
organizzazione spaziale che ci si può riferire.
Dal punto di vista della psicologia cognitiva, la mappa è anche un‟organizzazione che rappresenta, più ampiamente, il modo in cui le informazioni sono collegate tra loro nella memoria a lungo termine. Tale organizzazione viene descritta attraverso modelli di memorizzazione e rievocazione (Reed, 1989). Si è verificata sperimentalmente l‟attendibilità di questi modelli, che partono
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dal presupposto che per recuperare le informazione nella nostra memoria, dobbiamo essere in
grado di organizzarla e che l‟organizzazione delle informazioni si basa sul loro significato.
Un‟organizzazione di tipo semantico e gerarchico renderebbe dunque più facile il recupero delle
informazioni in memoria a lungo termine.
Il modello della rete gerarchica utilizza concetti e nessi. I concetti sono rappresentati da termini
linguistici, i nessi sono linee di collegamento, che rappresentano le relazioni tra i concetti, si formano così le proposizioni. Secondo questo modello a rete gerarchica ogni parola della rete viene
immagazzinata insieme con i nessi (frecce), che specificano come essa si colleghi con le altre parole della rete. Gli attributi vengono a trovarsi a differenti livelli della gerarchia, perciò alcuni si
collocano vicino al concetto base, altri si trovano a livelli più periferici.
Gli studi relativi ai rapporti tra mente e cervello, in collegamento con le ricerche riguardo alla
biologia del cervello, forniscono un altro interessante contributo teorico. Le nuove tecnologie
hanno ampliato le nostre conoscenze riguardo alle correlazioni tra sistemi cognitivi e circuiti funzionali cerebrali (Bonino, 1994). In questa prospettiva si enfatizza soprattutto la non linearità
dell‟organizzazione mentale.
Gli organismi si presentano come complessi ed articolati, ne consegue la proposta di pensare
ad un‟organizzazione dell‟informazione strutturata in maniera analoga (Buzan, 1986). Viene inoltre tenuta in considerazione l‟influenza dell‟individualità: ogni concetto ne attiva e si collega con
altri concetti, ma questi non sono gli stessi per ogni individuo.
Vediamo ora il punto di vista della psicologia dell’educazione. La teoria cognitiva
dell‟apprendimento di Ausubel (1978) è quella che maggiormente tiene in considerazione concetti
e proposizioni. Nell‟apprendimento significativo l‟autore considera l‟importanza di un costante
collegamento tra conoscenze possedute e nuove informazioni. In questa prospettiva il sapere evolve strutturandosi, e non attraverso il puro accumulo di notizie. Consideriamo infine la teoria
metacognitiva. La metacognizione si riferisce alla conoscenza sia dei processi mentali relativi al
conoscere, sia delle strategie utilizzate per conoscere.
Ecco una proposta operativa. Si tratta di una scheda facente parte di un programma finalizzato
allo sviluppo delle abilità di studio. In questo caso si invita lo studente ad assumere consapevolezza dei processi mentali in atto nell‟elaborazione delle informazioni.
Le mappe possono essere considerate degli stumenti di tipo metacognitivo, poiché hanno la
funzione di far emergere e di rappresentare la struttura della conoscenza ed i processi di elaborazione della conoscenza stessa (Cornoldi, 1995). Tutto ciò può servire per imparare ad imparare,
vale a dire per porsi in maniera attiva nei confronti dell‟apprendimento, considerando in maniera
sovraordinata il come imparo, il che cosa so, rispetto alle diverse discipline ed ai differenti contenuti che si vogliono afforontare.
3. Ambiti di applicazione
Le mappe vengono utilizzate in numerosi ambiti applicativi.
Le mappe sono considerate molto utili nell‟approccio alle conoscenze scientifiche (Novak e
Gowin, 1989), vengono adoperate come strumenti per la comprensione dei testi (Meazzini e Soresi, 1991 e Paoletti), sono presenti nelle ricerche sui metodi di studio efficace (Buzan, 1986), trovano un vasto impiego nella programmazione per concetti (Damiano, 1994).
Le procedure ed oganizzazioni di tipo lineare, come diagrammi di flusso, scalette ed elenchi,
non vengono considerate, in questa prospettiva, condizioni necessarie all‟apprendimento. La presentazione di tipo lineare viene, anzi, criticata da alcuni autori che ritengono essa possa costituire,
in molti casi, addirittura uno svantaggio (Buzan, 1986).
La struttura di tipo non lineare come la mappa, invece, viene preferita per almeno 2 motivi:
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1. ha un forte impatto visivo, infatti una sola rappresentazione è in grado di sintetizzare relazioni
gerarchiche e trasversali che risultano contemporaneamente percepibili, mentre la struttura lineare sembra non possedere un impatto percettivo consistente;
2. indica chiaramente le relazioni di tipo sovra e sotto ordinato tra concetti chiave e proposizioni,
mentre la procedura lineare mescola concetti, proposizioni ed eventi.
Nella programmazione degli interventi didattici altri autori consigliano invece di alternare
l‟utilizzo di procedure lineari e mappe (Novak e Gowin, 1989, Serafini, 1995).
Dal punto di vista applicativo, la costruzione di una mappa è insomma un‟operazione mentale
e grafica allo stesso tempo, la rappresentazione fisica si organizza contemporaneamente alla eleborazione mentale delle informazioni vecchie e nuove, che si integrano tra loro. Tale constatazione avviene dunque contemporaneamente alla identificazione dei concetti, alla ricerca, esplicitazione e discussione intorno alle loro relazioni e non è una costruzione a posteriori.
4. Proposte di applicazione in ambito formativo
In ambito formativo la costruzione di mappe rappresenta un‟importante risorsa per poter lavorare contemporaneamente sui contenuti e sul processo in corso nel gruppo di formazione.
E‟ utile presentare al gruppo l‟attività di costruzione di mappe come una strategia di cui ci si
può appropriare facilmente e per innumerevoli scopi.
Ecco un esempio di proposta per l‟utilizzo di mappe in ambito formativo.
All‟inizio di un percorso il formatore può fare della mappa un uso diagnostico, raccogliendo le
conoscenze possedute dal gruppo, individuando bisogni, lacune rispetto alle informazioni, contraddizioni (che sorgono soprattutto tra le teorie ingenue e quelle scientifiche) o mancanze di collegamenti. Si attua una sorta di brainstorming, viene valorizzata la dimensione creativa e si lascia
libera la mente di richiamare tutto ciò che si pensa nell‟ambito dell‟idea centrale (Buzan 1986).
La ricognizione iniziale viene ad assumere un aspetto diagnostico nella misura in cui si costruisce
la mappa delle preconoscenze su un determinato argomento come procedura preliminare
nell‟affrontare un percorso di studio, una ricerca, un lavoro cognitivo (Damiano, 1994).
Durante il percorso formativo si provvede allora ad arricchire e completare la mappa di partenza, esplicitando le relazioni ed aggiungendo progressivamente elementi (concetti e connessioni) e negoziando significati nel gruppo. La mappa si può sempre espandere, con nuovi concetti e
nuovi collegamenti. E‟ in questo modo visibile costantemente la posizione in cui ci si trova rispetto al percorso in atto.
Al termine di un percorso di lavoro la mappa serve come verifica di ciò che quel particolare insieme di persone è riuscito a formulare in maniera esplicita rispetto ad un determinato tema.
Va specificato infine che tali fasi riguardano, e quindi possono essere rappresentative, di almeno tre piani:
1. quello del formatore, o l‟equipe di formazione,
2. quello del gruppo di lavoro,
3. quello del singolo individuo posto di fronte al proprio percorso personale.
Fare formazione utilizzando le mappe ci dimostra che è possibile imparare ad imparare valorizzando le conoscenze e l‟esperienza di partenza come forti elementi motivazionali. E‟ possibile
insegnare ad usare il criterio della coerenza piuttosto che del giudizio per valutare le conoscenze
possedute e ad essere capaci di riflettere sulla conoscenza (Caravita, 1993).
4. Dimensioni comunicative
Il confronto tra mappe di uno stesso individuo/gruppo o tra individui/gruppi, può assumere
una forte valenza comunicativa.
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Ecco l‟esempio di due mappe prodotte dallo stesso gruppo e riguardanti lo stesso argomento,
ma facenti riferimento a contesti informativi differenti: nella prima si tratta delle notizie ricavate
da giornali e riviste, nella seconda si tratta di temi affrontati entro il curricolo di studi dei primi
tre anni del corso di laurea in scienze dell‟educazione.
Nel lavoro in gruppo conoscere i collegamenti e le associazioni che gli altri fanno rispetto ad
una parola-chiave ci consente di comprendere più chiaramente la natura delle nostre conversazioni, dei disaccordi e dei fraintendimenti (Buzan, 1986). Costruire una mappa collettiva implica una
comunicazione chiara ed una comprensione reciproca durante tutta la costruzione, richiede inoltre
di confrontare la propria visione soggettiva con quella degli altri e cercarne, a volte, una condivisa.
Il confronto di mappe assume inoltre l‟importante funzione di far vedere a che punto il gruppo
si colloca rispetto ad un percorso e quindi di aiutare a riflettere sul punto di partenza e di arrivo
del percorso stesso.
Esiste un limite nella difficoltà di interpretazione delle mappe, dei concetti e in particolar modo
delle relazioni individuate (Casadio e altri, 1991). Quando si prepara una mappa individuale perché altri ne possano fruire è infatti necessario assumere, nella presentazione grafica, un forte intento comunicativo.
Ritornando alla metacognizione possiamo infine affermare che l‟esperienza di costruire una
mappa implica una comunicazione con il proprio mondo interno. Esplicitare il proprio sapere,
pensiero e posizione a se stessi e agli altri è un‟esperienza significativa. Costruire una mappa può
dunque essere considerato un modo di viaggiare nel mondo della propria mente e di entrare in
comunicazione con la mente degli altri.
5. Bibliografia
Ausubel D.P. (trad. it.) (1978), Educazione e processi cognitivi, Milano, Franco Angeli.
Bonino S. (1994), Dizionario di psicologia dello sviluppo, Torino, Einaudi.
Buzan T., (1986), Usiamo la testa, Frassinelli.
Caravita S. (1993) Azione, discorso e partecipazione nel lavoro di gruppo, in C. Pontecorvo (a
cura di) La condivisione della conoscenza, Firenze, La Nuova Italia.
Casadio C., Grimellini Tomasini N., Pecori Balandi B. (1991), Caratteristiche, strumenti e metodi delle ricerche sulle rappresentazioni mentali, in Grimellini Tomasini N. e Segre G. (a cura di)
Conoscenze scientifiche: le rappresentazioni mentali degli studenti. Firenze, La Nuova Italia.
Cornoldi C. (1995), Metacognizione e apprendimento, Il Mulino.
Czerwinsky Domenis L. (1993), Conoscere e rappresentare l’ambiente, Del Bianco.
Damiano E. (a cura di), (1994), Insegnare con i concetti, Torino, SEI.
Meazzini P. Soresi S., (1991), Insegnare a studiare. Un’arte che può essere appresa, in Psicologia e Scuola, n.53, pp.47-54.
Novak J,D. Gowin D.B., (1989), Imparando ad imparare, Torino, SEI.
Paoletti G., (presentato a), Mappe concettuali e comprensione del testo. Il ruolo delle preconoscenze nella comprensione e nell‟apprendimento, in Scuola e città.
Reed S.K., (1989), Psicologia cognitiva, Milano, Il Mulino.
Serafini M.T., (1995), Come si studia, Milano, Bompiani.
Siegel A.W. White S.H. (1975), The development of spatial rapresentation of large-scale enviroment, in Reese W. (a cura di) Advances in child development and behavior, 10, Academic
Press, New York.
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La discussione come momento di confronto
e di crescita in un contesto sociale
di Loredana Czerwinsky Domenis
1. La discussione nelle situazioni di vita quotidiana
Iniziamo richiamando alla mente una situazione di vita quotidiana. Parafrasando la scena del
pranzo di E. Ochs, pensiamo ad un crocchio di persone, durante la pausa caffè, attorno ad un distributore di bibite nei corridoi di un ufficio. Uno dei presenti inizia a parlare di un fatto di cronaca successo in città o di un episodio curioso avvenuto sul posto di lavoro, un altro continua il
racconto iniziato dal primo, un terzo aggiunge un fatto nuovo, non conosciuto dagli altri ed appena appreso. I vari interlocutori apportano conoscenze e opinioni diverse che si integrano tra di loro, si coordinano e si arricchiscono e alla fine ognuno di loro saprà su di quell‟argomento più di
quanto ne sapesse all‟inizio. Si sono trovati coinvolti in una situazione di scambio comunicativo
di co-narrazione.
La co-narrazione potrebbe venir definita come una situazione di contesto socio-comunicativo
in cui, grazie a una uniformità di conoscenze, opinioni e prospettive interpretative, si verifica una
progressiva giustapposizione e concatenazione di idee o elementi conoscitivi tra loro coerenti e
concordanti.
Non sempre però tra colleghi si realizza una co-narrazione. Se, per esempio, l‟argomento su
cui i colleghi di lavoro iniziano a parlare sono i risultati delle partite del campionato di calcio e le
conseguenze per società, giocatori e allenatori, in questo caso i diversi interlocutori, il più delle
volte, manifestano opinioni diverse, forniscono descrizioni diverse di uno stesso evento: le loro
conoscenze sono in contrasto, non si integrano. Allora subentra una fase di argomentazione dove
ognuno, per avvalorare il proprio punto di vista, indica le proprie fonti di informazione (trasmissione televisiva, testata giornalistica, ecc.), esibisce argomenti ed informazioni ulteriori, fornisce
ragioni e giustificazioni a favore o contro una determinata tesi.
Si apre così quella che potremmo definire una discussione, un momento di confronto che non
sempre neppure gli adulti riescono a gestite o a trasformare in un momento di accrescimento, ma
che riducono sovente ad un scontro di opinioni, che si conclude alla fine con il persistere di ognuno nelle proprie idee e convinzioni.
La discussione diventa invece un momento di dialogo e di arricchimento quando i partecipanti
riescono a concretizzare un ragionamento collettivo, nel quale la conoscenza si costruisce attraverso una concatenazione di contributi informativi che vengono portati separatamente dai singoli
partecipanti, ma vengono elaborati attraverso un pensiero collettivo.
Il non essere d‟accordo, la divergenza di opinioni, costituisce un contesto socio-comunicativo
in cui gli interlocutori si sentono obbligati a
a) giustificare le proprie affermazioni, citando le proprie fonti d‟informazione e fornendo ulteriori informazioni,
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b) motivare le spiegazioni, fornendo le ragioni delle proprie scelte,
c) ricercare insieme le caratteristiche e le ragioni di fenomeni non completamente conosciuti.
Tutto ciò, se realizzato, provoca sia un approfondimento sia una articolazione maggiore del
ragionamento ed il pensare assieme non corrisponde più al pensare di nessuno dei singoli partecipanti, ma diventa una conoscenza socialmente condivisa.
2. La discussione in classe
La discussione di gruppo, se intesa nel senso appena descritto, si presenta in realtà come una
strategia di apprendimento di una conoscenza socialmente condivida. Pur essendo la scuola un
luogo deputato all‟apprendimento, tuttavia la discussione di gruppo trova raramente una sua collocazione all‟interno delle attività didattiche come specifica strategia di apprendimento. Ciò dipende probabilmente da alcune convinzioni, non sempre corrette, radicate nei convincimenti pedagogici legati al senso comune. Talvolta non risulta facile accettare l‟idea che il bambino possa
imparare, cioè accrescere e modificare le proprie conoscenze, in una situazione collettiva di
scambio comunicativo tra pari, in quanto si ritiene che il bambino acquisisca informazioni e sapere soprattutto attraverso la mediazione didattica dell’adulto (nella fase di ricezione delle conoscenze) e apprenda grazie ad una attività individuale (nella fase di assimilazione delle conoscenze). Molto spesso inoltre l‟insegnante ritiene che il bambino non sia in grado di gestire un confronto di opinioni e che questo possa ridursi ad una perdita di tempo o peggio rischi di trasformarsi in uno scontro di opinioni .
L‟insegnante sovente preferisce realizzare con tutta la classe un esercizio di ricordo orchestrato: è questa una situazione didattica in cui l‟insegnante, dopo aver affrontato un argomento
con spiegazioni, letture, rielaborazioni scritte, ecc., cerca di riorganizzare con i propri allievi le
loro conoscenze. L‟insegnante non solo regola la negoziazione del turno dei parlanti, ma regola
anche la conversazione sul piano contenutistico in quanto segue mentalmente una propria scaletta
in cui i diversi argomenti sono strutturati e concatenati tra loro. Fa domande che tendono a richiamare informazioni pregresse, stimola a fare confronti, ridimensiona eventuali digressioni,
corregge qualche informazione inesatta, imprecisa o incompleta, nel sacro terrore che idee sbagliate girino per l‟aula. È questa una occasione di confronto che ha certamente una sua validità
didattica, con una funzione specifica di riepilogo e di coordinamento di conoscenze già apprese;
non è però un momento di apprendimento diretto.
Per momento di apprendimento diretto si può intendere, per esempio, una situazione di apprendimento per scoperta guidata, dove il bambino viene stimolato dall‟insegnante, con la predisposizione di opportune situazioni di problem-solving, a recuperare conoscenze pregresse, a collegarle
tra loro, a scoprire nuovi e diversi legami, a trarre inferenze personali.
Una situazione di apprendimento analoga è quella della discussione, dove più bambini vengono
stimolati indirettamente dall‟insegnante a confrontarsi con punti di vista diversi dai propri, a trovare elementi comuni, a scoprire nuovi criteri classificatori, a trarre inferenze tra idee e contributi
non solo propri, ma anche proposti da altri. La discussione, se intesa come strategia di apprendimento, va considerata come una delle possibili situazioni didattiche che l‟insegnante sceglie di
predisporre in relazione al contenuto, all‟obiettivo, alle potenzialità cognitive degli alunni,
all‟estensione del loro patrimonio esperienziale e delle loro competenze.
3. La discussione come contesto sociale di apprendimento
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La discussione può risultare un valido momento di confronto e di arricchimento individuale e
collettivo anche in molte altre situazioni di formazione in contesti sociali diversi da quello scolastico.
Non si fa certo riferimento in questo caso alle trasmissioni televisive incentrate sullo scontro
più che sul confronto tra due o più persone o gruppi di persone, dove lo scopo è quello di fare
spettacolo, dove ognuno partecipa per mettere in evidenza differenze e contrapposizioni, per sostenere a spada tratta le proprie ragioni, dove manca la volontà di una costruzione o ricostruzione
finale di un rapporto o di una visione d‟insieme, dove si tende alla giustapposizione contrastiva e
non alla composizione coesiva.
Nella società attuale si lavora molto spesso per progetti e per team, in situazioni cioè molto dinamiche, caratterizzate dalla mobilità e varietà dei componenti e degli argomenti di interesse. In
una organizzazione di questo genere i partecipanti hanno una funzione legata alle loro effettive
competenze, ma nel contempo debbono superare la settorialità delle competenze, dimostrare flessibilità e interdipendenza operativa e concettuale. Un team non deve essere solo in grado di realizzare un brain storming, ma di utilizzare le idee più disparate, con opportune modificazioni ed integrazioni, in una visione unitaria ed articolata.
Se questo è un nuovo modo di procedere a livello di produttività lavorativa è anche vero che
può essere assunto come modello di arricchimento conoscitivo in una situazione di formazione
permanente. La discussione può venir utilizzata in molteplici casi: con gruppi di ragazzi con funzione educativa (scoutismo), ma anche da allenatori con i propri atleti, da educatori sia in situazioni di disagio o per rispondere alle esigenze informative (sportelli) o di benessere (progetti giovani), dai formatori con adulti in situazioni di riqualificazione, operando sia con le informazioni
che con i saperi pratici, dai vigili urbani quando vengono chiamati a fare educazione stradale nelle
scuole, e gli esempi potrebbero continuare.
Ciò che importa sottolineare è che non si tratta solo di uno stratagemma per rompere il ghiaccio, per alleggerire gli interventi frontali, per guadagnare tempo, per vedere come la pensa
l‟uditorio.
È possibile usare la discussione in momenti diversi e con funzioni diverse. All‟inizio di un percorso comune una situazione di discussione può permettere di verificare quali sono le conoscenze
pregresse che le persone possiedono già, di individuare sia le aree con carenze conoscitive sia le
aree di mancata o scarsa sensibilizzazione a certe problematiche. Una tale analisi permette di elaborare un progetto di intervento che parte dalle effettive conoscenze dei partecipanti.
Durante il percorso le discussioni, se realizzate opportunamente, permettono ai partecipanti di
recuperare le conoscenze nuove, appena acquisite, di elaborarle personalmente, di riutilizzarle in
una situazione collettiva, confrontandosi con le elaborazioni altrui: è questo un momento didatticamente importante in quanto si passa dall‟incameramento individuale di nozioni o conoscenze al
loro utilizzo critico in una situazione di collazione e di raffronto.
4. La realizzazione di una situazione di discussione
L‟attuazione di un momento di discussione, come momento comune di apprendimento e di arricchimento cognitivo - sia esso realizzato in classe o in altra situazione sociale, con bambini o
con adulti - richiede da parte del tutor (insegnante, educatore, formatore, ecc.) la predisposizione
e la realizzazione di un insieme di condizioni particolari, una programmazione specifica che per
molti aspetti è simile a quella necessaria per realizzare una situazione di apprendimento individuale per scoperta guidata.
Riprendiamo qui alcune considerazioni che C. Pontecorvo (1992) faceva in riferimento
all‟intervento dell‟insegnante e recuperiamo, con alcune chiose ulteriori, tre specifici accorgimenti
procedurali da lei indicati e che a nostro avviso è necessario vengano tenuti presenti da qualsiasi
tutor.
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a) La realizzazione o individuazione di una esperienza comune, facilmente condivisibile, che risponda ad un interesse o esigenza reale delle persone coinvolte e che presenti una pluralità di
letture e di interpretazioni.
b) La proposta da parte del tutor, al momento della discussione, di una rielaborazione
dell‟esperienza comune in forma problemica.
c) Il cambiamento progressivo delle usuali regole di partecipazione alla conversazione.
Analizziamo ora più nel dettaglio questi tre accorgimenti che potremmo definire senz‟altro didattici.
a) - La realizzazione o individuazione di una esperienza comune, facilmente condivisibile, che
risponda ad un interesse o esigenza reale delle persone coinvolte e che presenti una pluralità di
letture e di interpretazioni.
Individuare o condividere una esperienza comune, cui fare riferimento, riduce i margini di ambiguità ed i possibili malintesi. Si tenga presente però che non è sufficiente che gli interlocutori
usino la medesima etichettatura verbale per aver la certezza che si riferiscano alla medesima realtà oggettiva e viceversa. Spesso la mancata chiarificazione a livello semantico provoca quelle tipiche situazioni di ristagno dove gli interlocutori ripetono più volte i loro convincimenti senza riuscire a giungere ad una integrazione in quanto parlano di cose diverse pur usando gli stessi termini, oppure senza rendersi conto che, al contrario, stanno dicendo esattamente le stesse cose con
parole diverse.
Un’insegnante incominciò a parlare con i suoi allievi di seconda elementare dei grandi magazzini: tutti affermarono di conoscerli, ma l’insegnante si rese ben presto conto che in realtà i significati che venivano
attribuiti a questa espressione verbale erano molto diversi. Solo alcuni bambini le davano il significato di
negozio in cui vengono venduti al minuto articoli e prodotti diversi. Per alcuni bambini l’espressione era
sinonimo di magazzini, intesi come depositi di merci, di grandi dimensioni; altri invece facevano riferimento ai centri commerciali, dove sono concentrati più punti vendita di prodotti diversi. Altri ancora, sentite le
definizioni che sottolineavano la vendita di una pluralità dei prodotti, si posero il problema se si potessero
definire così anche i negozi, tipici dei piccoli paesi, con pluralità di licenze, dove in un unico ambiente si
vendono prodotti molto diversi. Le diverse interpretazioni proposte dai bambini stavano predisponendo le
condizioni ottimali per l’instaurarsi di una situazione di elaborazione comune della conoscenza.
La possibilità di una lettura differenziata della medesima realtà può favorire di per sé il confronto di opinioni, facilitando l‟avvio della costruzione di una conoscenza comune. È necessario
però che si discuta effettivamente su contenuti di cui gli interlocutori hanno una qualche conoscenza pregressa e sui quali si sono fatti una loro opinione.
Alle volte la lettura differenziata non avviene spontaneamente, allora è necessario proporre espressamente
agli allievi delle letture differenziate, escogitando accorgimenti metodologici particolari. Ad un gruppo di
ragazzini di prima media si propose una sorta di caccia al tesoro che doveva guidarli alla scoperta del loro rione. Pur percorrendo tutti le medesime strade, furono inviati, in gruppi separati, a fare rilevazioni diverse: chi doveva individuare i monumenti o gli edifici di rilievo (aspetto storico), chi i negozi e le fabbriche (aspetto economico), chi la presenza sul territorio di servizi, come farmacie, fermate di autobus, cabine
telefoniche, centro civico, ecc (aspetto sociale), chi ancora la presenza o meno del verde (aspetto ambientale).
b) - La proposta da parte del tutor, al momento della discussione, di una rielaborazione
dell‟esperienza comune in forma problemica.
La presenza di opinioni e letture diverse di uno stesso avvenimento o fenomeno può favorire, di
fronte ad una situazione problemica, la proposta di soluzioni differenti e quindi il realizzarsi di
una situazione di conflitto cognitivo, che può stimolare il confronto di idee, la spiegazione della
propria opinione, la negoziazione di significati, la ricerca di una soluzione compromissoria univoca.
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Si tenga presente però che talvolta, soprattutto (ma non solo) con i bambini più piccoli, ancora in una fase
egocentrica di indifferenza ai punti di vista e di incapacità di decentrazione cognitiva, non è ancora sufficiente che i bambini esprimano idee diverse perché si realizzi un conflitto cognitivo e scaturisca una discussione. Un adulto mi riferiva divertito una sua esperienza in prima elementare: ricordava che un giorno
la maestra chiese loro di spiegare perché piove. Egli ricordava che intervennero tutti i bambini e che le i nterpretazioni che fornirono erano diverse. Ma alla fine egli se ne ritornò a casa convinto, come prima, che
la pioggia la mandasse Gesù Bambino.
Effettuata una esperienza comune, per far scaturire una discussione, non è sufficiente proporre
ai membri del gruppo di parlarne tutti assieme.
Se, dopo una visita in una fabbrica ci si limita a chiedere a dei ragazzini di raccontare quello che hanno
visto durante la visita, il risultato sarà il più delle volte una semplice co-narrazione, con aggiunte progressive di informazioni, secondo una sequenza temporale o spaziale.
Non è sufficiente neppure porre una domanda, anche originale, perché scaturisca la discussione tra i membri di un gruppo.
Una studentessa universitaria durante un Laboratorio di Psicologia, volendo sensibilizzare un gruppo di
adolescenti alla problematica del “consumo critico” dei prodotti, dopo vari ripensamenti, propose loro
una domanda senz’altro originale “Secondo voi fare la spesa è come votare?”. L’intento era quello di predisporre un parallelismo tra la necessità di una conoscenza e di una comparazione di più candidati quando
si deve effettuare una scelta motivata per le elezioni e una conoscenza altrettanto accurata quando si deve
scegliere un prodotto da acquistare. Nella realtà i ragazzi non riuscirono a vivere la domanda come una
situazione problemica che li coinvolgesse direttamente. Forse mancava loro consapevolezza anche per
quanto riguardava la scelta di un candidato, situazione problemica su cui il tutor intendeva far leva per
realizzare un ragionamento parallelo.
È necessario affrontare un argomento all‟interno di un‟ottica che coinvolga personalmente i
partecipanti, calato in una situazione che non risulti di pour parler, ma che abbia un qualche risvolto di costruttività personale o operatività collettiva.
Ritorniamo all’esempio della caccia al tesoro per le vie del rione. Quando i gruppi tornarono in classe dopo l’esplorazione, si chiese loro di valutare oggettivamente, in base alle indicazioni da loro raccolte, se il
rione in cui vivevano era ad alto o basso grado di vivibilità, in funzione di una modifica comportamentale
del singolo cittadino e di una proposta concreta di intervento presso la Circoscrizione Rionale. Per assolvere a questo compito i ragazzi dovettero i individuare i criteri di valutazione e fornire una risposta giust ificata. Al momento del confronto i ragazzi scoprirono che le vie attraversate erano fisicamente le stesse,
ma che le informazioni ricavate erano diverse e che quindi le impressioni e le valutazioni erano differenti:
dovendo fornire una valutazione unitaria a quel punto si iniziò un confronto di idee, sentito e partecipato
da parte di tutti i ragazzi.
La discussione quindi è un momento in cui l‟individuo si trova inizialmente a recuperare conoscenze e convinzioni che già possiede ed a utilizzarle in funzione di una elaborazione finalizzata.
Il confronto con gli altri gli può consentire l‟acquisizione di conoscenze o prospettive nuove proposte da altri, ma soprattutto la costruzione di un percorso o di un progetto comune permette alle
persone di “metabolizzare” le conoscenze pregresse e di arrivare a una elaborazione nuova ed originale che comprende le idee di tutti, modificando ed integrando i contributi singoli.
c) - Il cambiamento progressivo delle usuali regole di partecipazione alla conversazione.
La realizzazione di una situazione di discussione con funzione di apprendimento richiede una
modifica comportamentale sia da parte dei membri del gruppo che debbono abituarsi a gestirsi da
soli i turni di discorso, sia da parte del tutor che deve imparare a sostituire le domande con atteggiamenti di stimolazione e di guida indiretta. Su questo secondo aspetto ritorneremo in seguito. Ci
soffermiamo qui sulla graduale acquisizione da parte dei membri di un gruppo di abitudini comportamentali proprie di una situazione di discussione.
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Far acquisire le regole di partecipazione alla conversazione non significa semplicemente insegnare loro a rispettare i turni di intervento, a non parlare contemporaneamente ma uno alla volta,
a non monopolizzare la conversazione ma a lasciare spazio anche agli altri, a non alzare la voce
ed alterarsi, tutte buone abitudini conversazionali che talora neppure gli adulti possiedono o riescono a gestire. Si tratta senz‟altro di una competenza sociale che gli interlocutori in un gruppo
debbono gradualmente imparare a padroneggiare.
I partecipanti debbono anche acquisire la capacità di esprimere correttamente e completamente
a livello verbale il proprio pensiero, ma prima ancora debbono sentire la necessità di farlo, superando talora quel residuo di egocentrismo che li porta ad essere convinti che le loro idee e convinzioni, in quanto logicamente coerenti, possono essere le sole possibili in relazione ad un certo argomento. Si tratta in questo caso di una competenza linguistica di base.
Ma non basta che ogni interlocutore sia in condizione di esprimersi, deve anche essere in grado
di ascoltare e di interagire con l‟altro attraverso l‟argomentazione. Chi argomenta intende esercitare un‟influenza su chi ascolta, ma l‟uditore a sua volta deve essere disposto ad ascoltare e subire l‟azione dell‟oratore. Chi vuol persuadere non può partire dall‟idea che tutto ciò che dice sarà
accettato dall‟interlocutore: in altre parole con l‟argomentazione mira a ottenere, non a imporre,
l‟adesione e il consenso degli altri, ma per persuadere è necessario che sappia tener conto delle
reazioni altrui e adattare il proprio discorso a queste reazioni. Inoltre, in una discussione di gruppo è necessario avere la flessibilità mentale per passare di volta in volta dal ruolo di oratore a
quello di ascoltatore. Riuscire a persuadere senza plagiare significa possedere anche una competenza comunicativa.
Un‟ultima precisazione: il risultato positivo di una discussione non sta sempre nel fatto che alla
fine tutti debbono per forza risultare d‟accordo su di un argomento, condividendo la medesima
idea.. In una situazioni in cui si ricerca assieme una spiegazione causale, come nelle scienze fisiche o naturali, ciò è possibile. La stessa univocità non ci può essere se si discute su spiegazioni
che hanno per oggetto la causalità dell‟agire umano: infatti non tutti gli uomini agiscono con motivazioni analoghe nella stessa situazione. Se poi si affrontano discussioni su problematiche sociali o su realizzazioni pratiche non esiste una soluzione univoca: ognuno si appella alla sua esperienza personale o alla sua creatività. Ci si trova così coinvolti in una discussione argomentativa
in cui ognuno propone ragioni a supporto delle proprie asserzioni, ognuno poi, a livello valutativo, decide se una tesi può venir accettata o rifiutata, ma sovente lo fa in base a criteri personali
diversi (è o non è opportuna, socialmente utile, giusta, equilibrata ecc.). Oggetto di discussione in
questo caso dovrebbero essere non solo i contenuti, ma anche i criteri di valutazione.
5. Il comportamento del tutor
Se da una parte i componenti di un gruppo debbono acquisire una serie di competenze che porteranno ad una modificazione del loro comportamento reciproco, sono necessarie anche alcune
modifiche comportamentali da parte del tutor in relazione al suo ruolo di guida e alla sua funzione di scaffolding.
Cerchiamo di individuarne e commentarne alcune:
a) conoscenza approfondita del contenuto
b) accettazione del punto di partenza e del punto di vista dei componenti il gruppo
c) organizzazione dinamica della conoscenza in mappe cognitive
d) assunzione dell‟atteggiamento di rispecchiamento
e) valutazione del processo di apprendimento e non solo del prodotto.
a) - Il tutor che voglia predisporre una situazione di discussione deve avere una conoscenza molto
approfondita del contenuto che stabilisce di affrontare con i suoi interlocutori.
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Predisponendo un intervento frontale l‟esperto (l‟insegnante, l‟educatore, il formatore, ecc.)
decide di soffermarsi, nella sua spiegazione, sugli aspetti che meglio conosce, e per converso di
sorvolare o addirittura di eliminare quegli argomenti che conosce meno o che ritiene di non padroneggiare completamente. Per predisporre una situazione di discussione il tutor deve invece conoscere in modo approfondito tutti gli aspetti dell‟argomento, in quanto deve essere in grado di
riconoscere un contributo positivo, che necessita di essere sviluppato per arrivare o perlomeno
per avvicinarsi alla soluzione finale, anche in un intervento in cui uno degli interlocutori esprime
una idea fondamentale in modo ellittico, embrionale o incompleto, smozzicato ed impreciso.
b) - L‟intervento didattico che si basa sulla discussione finalizzata all‟acquisizione di conoscenze,
intesa quindi come strumento di pensiero e di apprendimento, produce risultati soddisfacenti se il
tutor si dimostra disponibile ad accettare il presupposto che qualsiasi cosa dicano gli interlocutori, se frutto di un loro ragionamento e non risposta purchessia, può comunque diventare il punto
di partenza per il confronto o può venir accettato come valido contributo alla discussione. Accettare questi due presupposti significa porsi nella prospettiva di agire in quella che Vygotskij definisce la zona di sviluppo prossimo.
c) - Il tutor che, prima di realizzare una situazione costruttiva di discussione, voglia prepararsi
con un approfondimento di tipo contenutistico, si rende conto abbastanza presto che il sistema di
solito seguito per predisporre un lezione in questa situazione non funziona. Generalmente infatti
si è soliti predisporre un scaletta dell‟intervento, costituita da una lista di elementi o argomenti
organizzati gerarchicamente o secondo una sequenzialità causale o temporale. Avendo organizzato mentalmente il contenuto da affrontare in una struttura di questo genere, al tutor può riuscire
difficile il compito di seguire e sostenere il ragionamento dei membri del gruppo, ragionamento
che si va costruendo davanti a lui, per aggiunte successive, con salti imprevisti, tra accostamenti
e differenziazioni, tra generalizzazioni e disamine di esperienze personali. Con una strutturazione
mentale dell‟argomento all‟interno di una scaletta prefissata il tutor, anche se lascia per un po‟
che i partecipanti discutano per conto loro, dopo un certo numero di interventi sentirà probabilmente la necessità di intervenire, di riportare il discorso sui binari da lui prestabiliti, secondo il
suo piano d‟azione, il suo progetto d‟intervento.
Una preparazione da parte del tutor più adeguata per concretizzarsi poi nella realizzazione di
una situazione di discussione, potrebbe essere quella basata sull‟approfondimento culturale che si
avvale di una organizzazione dinamica della conoscenza in mappe cognitive. Le mappe cognitive possono costituire uno strumento di organizzazione delle conoscenze più agile in quanto
 partono dall‟idea centrale come elemento unificatore di diversi temi argomentativi, descrittivi
o narrativi,
 mettono graficamente in evidenza le idee generali, suddividendole in categorie (per es. cause,
conseguenze, rimedi) e le idee secondarie, raggruppate nei sottonodi, collocando a raggera le
prime spazialmente più vicine al centro, all‟idea centrale, le seconde via via in posizioni più
lontane,
 evidenziano, sempre con una rappresentazione grafica, anche le associazioni, i rapporti tra le
diverse idee, sia in senso verticale, verso l‟esterno lungo uno stesso raggio, sia in senso trasversale, unendo alcuni punti omologhi di raggi diversi.
Predisponendo in fase preparatoria le proprie conoscenze entro una struttura mentale di questo
genere, passando poi alla fase esecutiva risulta
 psicologicamente più semplice accettare il punto di partenza dei partecipanti e partire quindi
da un punto qualsiasi della raggera e non dalla prima riga dello schema a scaletta,
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 razionalmente più facile individuare i collegamenti trasversali e raccordare un aspetto contenutistico con un altro, una informazione con l‟altra, ma anche riconoscere le possibili contrapposizioni,
 didatticamente più funzionale individuare le carenze, gli aspetti che non sono stati toccati dalla discussione o le eventuali digressioni dall‟argomento,
 psicologicamente più facile aggiungere le idee nuove che non si erano previste e che possono
venir proposte spontaneamente dai membri del gruppo.
d) - Durante la situazione di discussione il tutor che voglia dare libero spazio argomentativo ai
suoi allievi deve essere in grado di evitare ogni intervento diretto o perlomeno a ridurne il numero.
Questo atteggiamento didattico risulta psicologicamente difficile da accettare, almeno inizialmente, in quanto si ritiene che il compito del conduttore sia proprio quello di formulare domandare,
stimolare sollecitare, incitare, spiegare, correggere. Una tecnica che viene suggerita dalla Pontecorvo e applicata dalle sue collaboratrici è quella del rispecchiamento. Tale tecnica venne predisposta e utilizzata da Rogers con i suoi pazienti, la Lumbelli la utilizza con successo come tecnica individuale di stimolazione e di sostegno. Il rispecchiamento consiste nella ripetizione da parte
del conduttore di un atto linguistico (parola, frase) pronunciato da un partecipante. Non c‟è da
parte del tutor, in questa ripetizione, né una interpretazione, né una valutazione, ma solo un incoraggiamento a proseguire, chiarire, elaborare il proprio pensiero, muovendosi in libertà assoluta
entro la propria zona di sviluppo prossimo.
Il rispecchiamento può venir realizzato in più forme diverse, come
 ripetizione di atti linguistici oscuri che il membro del gruppo potrà chiarire,
 riformulazione di atti linguistici ambigui,
 estensione di atti linguistici incompleti,
 focalizzazione dell‟attenzione su di un argomento che meriterebbe di esser ampliato e che rischia invece di venir perso o sottovalutato,
 accostamento di due informazioni fornite da uno stesso o da due diversi partecipanti, che possono coordinarsi o che invece sono in contrapposizione.
Questo tipo di intervento in una situazione in cui si confrontano più interlocutori ha senz‟altro
un effetto positivo in quanto favorisce la partecipazione sia della persona direttamente coinvolta
sia degli altri e fa sì che gli interventi successivi siano in sintonia con l‟intervento iniziale.
e) - Questa diversa impostazione nel lavoro con i partecipanti ad una discussione, che tende ad
ottenere non un apprendimento individuale, ma un arricchimento conoscitivo attraverso un ragionamento collettivo, pone al tutor anche una nuova necessità: quella di mettere a punto strumenti
valutativi nuovi, che gli permettano di valutare i risultati e la ricaduta di tale esperienza, strumenti dunque diversi da quelli individuali comunemente usati. Tali strumenti valutativi debbono risultare finalizzati alla descrizione ed interpretazione di ciò che avviene di fatto nell‟interazione sociale indirizzata alla conoscenza e all‟apprendimento. Nell‟affrontare questo nuovo tipo di esperienza didattica è opportuno che il tutor si prefigga di interessarsi non esclusivamente al prodotto,
misurato in termini di livello di apprendimento o di prestazione, ma soprattutto al processo, analizzando ciò che ha avuto luogo nell‟interazione, come questa si è effettivamente svolta, con una
attenzione analitica ai meccanismi esplicativi e ai loro modi di funzionamento, in modo da capire
i processi interattivi che si sono verificati.
6. Riferimenti bibliografici
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Elementi di metacomunicazione: dal cinema alla realtà virtuale. Analisi di un campione di film con ambienti simulati
di Enzo Kermol
1. C’era una volta il cinema
Il cinema porta con se il concetto di simulato, di non reale, e in primo luogo di “realtà virtuale”. Questo ben prima che il termine indicasse una precisa categoria della tecnica utilizzata nel
cinema e in altri mezzi di comunicazione. Da Méliès in poi l‟artificio caratterizza il concetto stesso di film. Se pensiamo alla categoria “effetti speciali” immediatamente focalizziamo l‟attenzione
su uno dei principali temi che suscitano l‟interesse del vasto pubblico: quello di una ricostruzione
della realtà talmente perfetta da essere migliore del vero. Così si arriva, dopo un lungo cammino,
di cui citeremo alcuni passi, al Titanic (id., Usa, 1997, di James Cameron) ricco di effetti computerizzati vicini alla simulazione totale, premessa al progetto dello stesso regista di un film in cui
gli attori “virtuali” si accompagneranno a quelli in carne e ossa in maniera indistinguibile da questi.
Il passaggio successivo, dopo l‟abolizione degli esseri umani dalla pellicola, prevede
l‟abbandono stesso del mezzo cinematografico. Per creare degli ambienti tridimensionali in cui
interagire direttamente con l‟avventura. Con tutte le emozioni e senza alcun rischio.
Quello che c'interessa al momento è tuttavia qualcos'altro. Vale a dire come il termine “realtà
virtuale” sia stato comunicato e in quale modo sia stato interpretato dal ricevente, principalmente
in relazione al mezzo cinema. Nel supplemento Sentieri selvaggi della rivista Cineforum (n. 306,
7/8 – luglio/agosto 1991) si parla di fantascienza Cyberpunk, ovviamente di William Gibson, e di
“realtà virtuale”. Pur risultando distaccata dal cinema - non è ancora apparso Il Tagliaerbe - se
ne discute proprio su una rivista di cinema. Il numero presenta ben nove citazioni-definizioni del
termine “realtà virtuale”. Sono di varia origine, anche se Robert Wright appare come l‟autore
maggiormente utilizzato. Tuttavia le citazioni che attirano maggiormente l‟attenzione sono quelle
scritte da altri. La prima, di Debbie Harlow, si riferisce alle origini del progetto consumer della
realtà virtuale: “La VPL Reaserch è nata in un garage di Palo Alto, con pochi soldi e senza mai
accettare fondi dal ministero della difesa o dalle multinazionali. Il nostro scopo primario nella
realizzazione della realtà virtuale è stato quello di far partecipare la gente. Farla entrare dentro i
film, la tv, i computer, la tecnologia”. Definizione questa che indica chiaramente il settore
d‟impiego di questa tecnologia. Soprattutto ne annuncia il futuro uso in campo cinematografico.
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Tuttavia l‟elemento di maggior interesse risulta essere il riferimento a Derrick De Kerckhove: “La
realtà virtuale è “quasi un punto terminale nella nostra analisi di Mc Luhan sulla tecnologia come
estensione mutante del corpo umano (…) Non abbiamo più a che fare con una singola estensione
totale e non specializzata. La realtà virtuale contiene tutti i media fin qui inventati e ridà al corpo
un senso dimenticato di immediatezza”. Parole che tolgono ogni dubbio sul futuro di questo media. Non ora. Neppure domani. Ma poi, chissà.
Nonostante queste considerazioni l‟ambiente degli storici e critici del cinema è lento ad assorbire le mutazioni sociali e i cambiamenti tecnologici (basti pensare alla discussione ancora in atto
sull‟opportunità del passaggio dal muto al sonoro). Così appena nel 1994 sulla rivista “Segnocinema” (n. 65, gennaio-febbraio 1994) viene inserito uno speciale dedicato alla “realtà virtuale”.
La raccolta di saggi si apre con una presentazione che si richiama sostanzialmente a Il tagliaerbe
di Brett Leonard e marginalmente ad altri film. Nel complesso si tratta di una riflessione completa
sui vari aspetti della nuova tecnologia, anche se prevale l‟aspetto “letterario” rispetto a quello
“scientifico”. Le connessioni che traspaiono sono di estremo interesse. Se da un lato si esprime
perplessità, ben riassunta da Bottiroli111 con l‟interrogativo “la realtà virtuale è la promessa della
più radicale trasformazione delle nostre vite ad opera della tecnologia, o in larga misura un
bluff?” dall‟altro abbiamo i più entusiasti che, come Azzalin112, pongono le premesse per un futuro incontro fra realtà virtuale e immagine virtuale in olografia immaginando una tecnica che possa far prelevare dalla lastra olografica l‟oggetto di cui avremo percezione fisica e spaziale facendo sì che non vi sia più differenza fra dimensione reale e virtuale. In mezzo si collocano le analisi
“economiche” che probabilmente lasciano intravedere lo sviluppo, e i campi applicativi più fruttuosi per questa tecnologia. Opportunamente Girlanda e Glenn Rovella113 fanno notare come il
mercato dei videogiochi sia già un connubio fra cinema e prodotti software, non a caso il solo
mercato statunitense ha un giro d‟affari di 5.3 bilioni di dollari l‟anno, con di titoli di giochi derivati da film di successo (solo alcuni ad esempio: Alladdin, Jurassic Park, Cliffhanger, Dracula,
Terminator-Skynet, Demolition Man, Superman, Indiana Jones, Beetlejuice, Alien-Rampage,
The Rocketeer, The interactive Rocky Horror Show, Star Trek, X-Files, Blad Runner, Man in
Black) e all‟inverso giochi di enorme diffusione che si sono trasformati in film (Super Mario
Bros., Mortal Kombat, Tomb Raider). Le linee di tendenza nel settore si spostano sempre di più
verso il gioco in rete e il tridimensionale, preludio questo alla possibilità di una realizzazione futura in ambiente virtuale.
2. Computer e affini
Se alla fine del 1991 nel settore prettamente cinematografico la parola “realtà virtuale” risulta
ancora un po‟ oscura ed evocatoria di generi “lontani” dalle passioni cinefile (la tecnologia, la letteratura, la sociologia) ciò non è altrettanto vero in quello dedicato ai computer. Se esaminiamo
solo alcuni numeri di una delle riviste italiane più nota del settore (Microcomputer) ed esattamente dal gennaio al luglio-agosto 1992 (n. 114-120), cioè i mesi in cui è compresa l‟uscita del
film Il Tagliaerbe in Usa e in Italia, osserviamo qual è lo stato dell‟arte virtuale da un punto di
vista tecnologico. Nel n. 114 ci informano Elisa Varino e Gaetano Di Stasio (The Virtual Reality
Factory, p.211) che “il lancio in Europa del primo sistema al mondo di realtà virtuale ha avuto
luogo ad Imagina ‟91, a Montecarlo dal 30 gennaio”. Un sistema che consente all‟utente di en1. Giovanni Bottiroli, L’impero del bene. Riflessione sulle virtualità del virtuale, in Segnocinema, n. 65, gennaiofebbraio 1994, pag. 20.
112. Claudia Azzalin, Feedback to the Future. A monte dell’olofilm, in Segnocinema, n. 65, gennaio-febbraio 1994,
pag. 27.
113. Elio Girlanda, Adolescenti bionici. Nuove generazioni RV e…, in Segnocinema, n. 65, gennaio-febbraio 1994,
pag. 30.
Vincenzo Glenn Rovella, Come al cinema. I videogiochi cinemorfi, in Segnocinema, n.65, gennaio-febbraio 1994,
pag. 33.
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trare in un mondo immaginario già creato. Visori, guanti, pedane e postazioni appaiono descritte
e realmente utilizzabili dai visitatori114.
Quello che traspare dagli articoli scientifico-divulgativi è sostanzialmente l‟effetto “novità”
maggiore di quello provocato nel cinema. Inoltre appare interessante la contemporanea uscita di
un film di genere fantascientifico in contemporanea all‟apparizione sul mercato di prodotti estremamente costosi (si parla di 30 milioni per una stazione non immersiva e di 80 e più per un set
immersivo completo). L‟elemento d‟interesse (n. 115) sta nell‟affermazione che la realtà virtuale,
le sue apparecchiature, sono un monopolio (di Jonathan Walden), che se ne parla a sproposito
negli ambienti più diversi (e sui giornali) con applicazioni immaginarie (dall‟allenamento degli
sportivi alle prestazioni sessuali in differita) e quindi che “il sistema Virtuality è nato come ambiente di ausilio nelle applicazioni CAD, in campo architettonico, ingegneristico e in biologia (per
lo studio tridimensionale delle molecole alla base dei farmaci). Poi si è pensato di introdurlo nelle
sale giochi e quindi di continuare nelle applicazioni scientifiche utilizzandolo in campo medico e
chirurgico115. Nel cinema però, come a sottolineare la scarsa conoscenza dell‟argomento, o forse
la pretestuosità del richiamo ad un termine di moda, gli indirizzi nell‟uso della “realtà virtuale”
vengono interpretati proprio nei termini più negativi per la nuova tecnologia, basti pensare al “pericolo” intravisto ne Il tagliaerbe o l‟effetto devastante proposto due anni più tardi in Strange
Days. Ma se nel settore spettacolo (e tutto sommato anche negli altri) l‟effetto novità svanisce relativamente rapidamente (a distanza di cinque anni nessuno ne parla più) all‟interno del discorso
relativo all‟informatica il prodotto dà sempre maggiori risultati applicativi.
Ci si potrebbe chiedere infatti se la tecnologia legata al termine “realtà virtuale” si sia esaurita
nell‟impatto spettacolare della sua immissione sul mercato o abbia avuto una sua evoluzione autonoma rispetto al singolare esordio. Se esaminiamo, per comodità di raffronto, alcuni articoli
scientifico-divulgativo116 coevi alla stesura di queste note osserviamo quali sono i campi di mag114. Riporto un breve elenco degli articoli scientifico-divulgativi apparsi sulla rivista Microcomputer da gennaio
1992 a luglio-agosto 1992, l‟arco di tempo in cui il film Il tagliaerbe è stato distribuito negli Stati Uniti e in Italia:
E.Varino, G.di Stasio, The Virtual Reality Factory, n. 114, gennaio 1992, p.211.
G.di Stasio, Virtual Reality, n. 115, febbraio 1992, p. 192.
G.di Stasio, Le prime applicazioni scientifiche, la VR a Imagina ’92, n.116, marzo 1992, p.201.
F. Carlà, Buon compleanno videogame, n,116, marzo 1992, p.195.
G.di Stasio, Stato dell’arte e prospettive, n. 117, aprile 1992.
G.di Stasio, Teleoperazione e interfaccia utente, n.119, giugno 1992.
G.di Stasio, Medicina e realtà virtuale, n.120, luglio-agosto 1992, p. 186.
G.di Stasio, M.Serpelloni, Virtual Reality International ’92, luglio-agosto 1992, p. 192.
5. Gli argomenti utili alla presente trattazione, che troviamo nei successivi numeri della rivista Microcomputer,
possono venire così riassunti: l'elemento trainante della pubblicistica scientifica esaminata relativa alla Realtà vi rtuale è la “novità”. Si parla di prime applicazioni (n.116) e, nell‟ambito dei convegni dedicati, spiccano gli argomenti trainanti, così “Mondi virtuali”, dedicato a concetti, prospettive e popolarità del mezzo, con analisi di caratt ere sociologico e tecnologico; “L‟interazione degli uomini e delle macchine”, mirato all‟analisi dell‟uso del virtuale
come mezzo di comunicazione, dal guanto interattivo equipaggiato con i sensori cinestesici, che permettono di registrare tutte le configurazioni della mano, e di sistema di ritorno degli sforzi capace di dare l‟i llusione del tatto (progetto di Massimo Bergamasco), al sistema di ricerca oculare Eyegaze (Dixon Cleveland) applicabile in campo civile. Non manca anche la base del cinema “sintetico” “Performance Cartoon” che utilizza attori sintetici (sullo stile
della Jessica di “Roger Rabbit”). “Attori equipaggiati di sensori sistemati in punti strategici del corpo potranno animare personaggi fittizi in tempo reale. Le registrazioni dei dati dei loro movimenti permetteranno in seguito il
calcolo dettagliato dei personaggi di sintesi” come ci racconta Gaetano di Stasio. Infine attorno alle Applicazioni dei
mondi virtuali nascono progetti concernenti lo “spazio multimediale virtuale”, cioè stanze virtuali che possono ess ere condivise e percepite da utenti diversi nello stesso modo. Non mancano neppure progettualità sulle simulazioni
in campo biomedico, come la chirurgia plastica che agisce sul “corpo elettronico” o la simulazione multisensoriale
in ambiente spaziale.
116. Ci soffermiamo su alcuni articoli in particolare: Gaetano Di Stasio, Dispositivi di visualizzazione per la ricerca, per l’industria, per l’intrattenimento, saggio in tre parti, Microcomputer n.179, dicembre 1997, pag. 300; n.
180, gennaio 1998, pag. 284; n. 181, febbraio 1998, pag. 274. Gaetano Di Stasio, Il futuro della computer grafica
interattiva, Microcomputer n.182, marzo 1998, pag. 274. Gaetano Di Stasio, Simulatori di processo nell'industria
meccanica, Microcomputer n. 183, p. 276. Gaetano Di Stasio, Assistenza chirurgica "virtuale", Microcomputer n.
59
gior applicazione del virtuale. Si ha la sensazione di una diffusione capillare anche se limitata a
fasce alte di consumatori. Sono rappresentati quasi tutti i settori, da quello ingegneristico e progettuale a quello medico-chirurgico, da quello museale alle applicazioni in campo psicologico e
sanitario, dai settori di ricerca all'intrattenimento puro. La visione tecnologica ha avuto il sopravvento. Parallelamente si sono affievolite le interpretazioni (o ipotetiche "applicazioni") estreme e
paradossali più vicine al desiderio che alla realtà (pensiamo alle applicazioni di "corpi spaziali",
sessualità a distanza, ecc.).
Alla luce dell'attuale indirizzo intrapreso da questa versione "tecnologica" della realtà virtuale
può ancora essere valido ciò che diceva De Kerckhove quando affermava “ho coniato il termine
psico-tecnologia, modellato su quello di bio-tecnologia, per definire una tecnologia che emula, estende o amplifica le funzioni sensomotorie, psicologiche o cognitive della mente. La “realtà virtuale aggiunge il tatto alla vista e all‟udito ed è tanto vicino a “drogare” il sistema nervoso umano
come nessuna tecnologia lo è mai stata. Con la realtà virtuale noi proiettiamo letteralmente la nostra coscienza al di fuori del nostro corpo e la vediamo obiettivamente forse per la prima volta”117? O forse il termine è divenuto contenitore di qualcosa d'altro rientrando in una categoria
scientifico-tecnologica ed uscendo da un linguaggio filosofico e metapsicologico?
Ma ciò forse riguarda il futuro. Ritorniamo un passo indietro, al primo impatto del termine
sull'immaginario collettivo.
3. Prima di iniziare
Ed eccoci arrivati alla ricerca vera e propria. Lo studio si compone di due parti. La prima, di
carattere compilativo, deriva da osservazioni e opinioni espresse in un ambiente fortemente caratterizzato (quello degli studiosi di cinema) in cui il fattore "film" diviene elemento di mediazione, e
filtro, con il reale. La percezione d‟avvenimenti, e lo scambio d‟informazioni, possono avvenire
talvolta con modalità distorsive, risultare perciò valide solo se riferite all'ambiente ristretto in cui
avvengono, mentre in altri casi percezione e informazioni sono riportate correttamente nonostante
il media particolare utilizzato.
La seconda parte di questo scritto presenta i risultati di un breve questionario ideato per quantificare i rapporti esistenti fra la "realtà virtuale" e l'informazione. Il questionario e stato somministrato ad un campione di 54 studenti universitari al fine di verificare attraverso quali media le
informazioni riguardanti la "realtà virtuale" hanno raggiunto i destinatari potenziali.
4. Ipotesi
Alcuni film, sia nella forma di documentario scientifico che di fiction a forte contenuto tecnologico, rappresentano il momento d‟incontro tra cinema e informazione grazie alla loro capacita
di presentare, in maniera semplice, elementi di conoscenza relativi a scoperte di carattere
propriamente scientifico.
L'esame di una serie di titoli particolarmente significativi di pellicole a soggetto permette di evidenziare i meccanismi di trasmissione dell'informazione attraverso questo canale, e la ritenzione
della notizia, grazie anche alla forte spettacolarizzazione dell'informazione stessa e all'impatto
emotivo che ne deriva.
I titoli individuati si raggruppano attorno ad un unico tema tecnico-scientifico portante, pur essendo presenti nelle singole opere altri elementi secondari sempre a contenuto scientifico, che non
esamineremo per l'eccessiva frammentarietà degli stessi e la scarsa rilevanza di questi sullo spettatore.
184, maggio 1998, p. 276. Gaetano Di Stasio, Un virtual exihibitor per musei virtuali, Microcomputer n. 185, giugno 1998, p. 244. Gaetano Di Stasio, Progetto Vebim: Virtual environment for body image modifications, Microcomputer n. 189, novembre 1998, p. 242.
117. Derrick De Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, 1992, p.22.
60
L'elemento "scientifico" che analizziamo riguarda, nel senso più vasto del termine, il fenomeno
definito come "realtà virtuale".
I film presi in esame sono i seguenti:
1) Sol Levante (Rising Sun, Usa, 1993) di Philip Kaufman, da Michael Crichton;
2) Il mondo appeso ad un filo (Welt am draht, RFT, 1973) di Rainer Werner Fassbinder;
3) L'invenzione di Morel (Italia, 1974) di Emidio Greco, da Jorge Bioy Casares;
4) Tron (id., Usa, 1982) di Steven Lisberger;
5) Il tagliaerbe (The Lawnmower Man, Usa, 1992) di Brett Leonard, da Stephen King;
6) Atto di forza (Total Recall, Usa, 1990) di Paul Verhoeven, da Philip K. Dick;
7) Strange Days (id., Usa, 1995) di Kathryn Bigelow;
8) Johnny Mnemonic (id, Usa, 1994) di Robert Longo, da William Gibson;
9) Intrappolata nella rete (The Net, Usa, 1995) di Irwin Winkler;
10) L'ultimo grande eroe (Last Action Hero, Usa, 1993) di John McTiernan;
11) Brainstorm. Generazione elettronica (Brainstorm, Usa, 1981) di Douglas Trumbull;
12) Essi vivono (They Live, Usa, 1989) di John Carpenter;
13) Il corvo (The Crow, Usa, 1994) di Alex Proyas;
14) Mortal Kombat (id., Usa, 1995) di Paul Anderson, dal videogioco omonimo;
15) La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, Usa, 1985) di Woody Allen;
16) Forrest Gump (id., Usa, 1994) di Robert Zemeckis;
17) Zelig (id., Usa, 1983) di Woody Allen.
Citiamo inoltre alcuni altri titoli, anche se le vicende trattate e l'elemento scientifico presente risultano marginali rispetto all'argomento centrale della "realta virtuale". Tuttavia
all'interno di questi film vi sono elementi che possono risultare utili alla trattazione nel suo complesso. Si tratta di La camera verde (La chambre verte, Francia, 1978) di Francois Truffaut e
Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A., Usa, 1985) di William Friedkin.
Conclude la disamina una breve osservazione su alcuni serial cine-televisivi di elevata diffusione, in cui la "realtà virtuale" e apparsa come elemento costitutivo (anche se solo di singoli
episodi), come X-Files o Star Trek, può essere di aiuto all'analisi della diffusione delle informazioni che la riguardano. Va ricordato infatti che questi telefilm hanno dato luogo a vari
fenomeni di natura extra-cinematografica. La loro enumerazione ragionata permette la valutazione degli aspetti più propriamente sociologici dell'impatto delle informazioni riportate nel
filmato sugli spettatori.
5. Tra cinema e realtà virtuale
L'elemento "scientifico" che analizziamo riguarda il fenomeno definito come "realtà virtuale"
nelle sue applicazioni all'interno di film di vario genere.
Sol Levante (1993) di Philip Kaufman presenta una particolarità rilevante. Nella ripresa effettuata da una telecamera, che inquadra un omicidio, svanisce un personaggio. Il nastro magnetico viene manipolato in modo tale da presentare una nuova realtà in cui la figura risulta assente.
Questa situazione e l'elemento di partenza di una altro film, Il mondo appeso ad un filo (1973) di
Rainer Werner Fassbinder. Qui il protagonista si accorge di vivere in un mondo creato da un
computer, in cui le sparizioni di uomini e cose sono quotidiane. Solo la sua memoria riesce a conservare traccia dei mutamenti. Ed alla fine riuscirà a trasferirsi nel mondo reale ben sapendo che
in tal modo perderà "l‟immortalità" acquisita nel mondo virtuale. Di parere contrario, ma in situazione analoga, il messaggio di L'ultimo grande eroe (1993) di John McTiernan. Dalla dimensione virtuale, dove l'eroe e immortale (e protagonista di una serie di film), ci si trasferisce nel
mondo reale, dove l‟invulnerabilità è perduta. Ma alla fine l'eroe ritorna nel proprio mondo, dove
tutto scorre senza problemi, tutto e modificabile, ma nulla crea imprevisti. Questo tema pero, il
passaggio dall'opera d'arte al reale - parallelo al concetto di realtà virtuale - annovera una lunga
61
trattazione sia a teatro che al cinema, da Pirandello a Majakovkij, per arrivare a La rosa purpurea del Cairo, (1985) di Woody Allen. Con L'invenzione di Morel (1974) di Emidio Greco, si
parte da dove Fassbinder abbandona il discorso. Qui la decisione del protagonista e inversa. Sacrifica la propria vita reale per entrare in un universo concreto e tangibile di ripetizione infinita in
cui sarà sempre presente. Dapprima ne è spettatore, poi decide di divenirne parte integrante. Il
prezzo da pagare per l‟eternità sarà dunque la morte. Il "ricordo" come elemento di, tangibile in
questo caso, presenza imperitura. In maniera più povera richiama alla mente il tema conduttore di
La camera verde (1978) di Francois Truffaut. Si rimane vivi finche il ricordo degli scomparsi sarà presente in una "camera ardente" imperitura.
Due sono le categorie principali introdotte: l'entrare nel mondo virtuale (o l'uscirne) e il vedere
il risultato della costruzione virtuale. Potremo aggiungere come variabile fissa la "spiegazione"
dell'apparecchiatura scientifica necessaria ad effettuare questa costruzione. Ma anche altri valori, alcuni meno "scientifici", fanno la loro comparsa ripetutamente: il reale, il virtuale,
l‟immortalità, la morte e la trasformazione.
Sul versante dell'immissione all'interno di un mondo virtuale esistono varie formule come in
Tron (1982) di Steven Lisberger, in cui il soggetto trova il mondo artificiale anche nell'aspetto, o
in Il tagliaerbe (1992) di Brett Leonard, in cui si alternano visioni di mondi possibili simili al nostro o totalmente di fantasia.
Atto di forza (1990) di Paul Verhoeven, pone una nuova condizione, il vissuto virtuale deve
sembrare vero cosi che gli stessi ricordi sembreranno conferma del passato ricreato in laboratorio. Anche qui il gioco sta nel porre sempre in dubbio il confine fra reale e artificiale. La stessa
considerazione risulta valida per Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow, dove proprio di memorie "attive" si tratta che permettono attraverso lo scambio di "ricordi" preregistrati di vivere
in ambienti trasformati in "non reali". Con Johnny Mnemonic (1994) di Robert Longo, si entra
nella dimensione della "rete" tra computer che crea un "autentico" luogo di movimento e catalogazione. Ma l'azione si sposta nella spazio reale oscillando solo saltuariamente nello spazio costruito artificialmente.
Di caratteristiche contemporanee risulta Intrappolata nella rete (1996) di Irwin Winkler, dove
l'elemento reale, i collegamenti telematici, servono per annullare lo spazio, e soprattutto l‟identità
del soggetto. Si vive nel reale ma, come in Fassbinder, tutto può mutare fisionomia, ruolo, e vita solo che un genio bizzarro, o un entità malefica - sotto le spoglie di un programmatore di computer - decida di digitare nuove istruzioni.
Rimangono alcuni elementi marginali. Brainstorm. Generazione elettronica (1981) di Douglas
Trumbull, sorta di archeologia del virtuale, in cui si prefigurano situazioni simili a quelle di
Strange Days. La capacita di vivere un mondo totalmente virtuale, ma costruito in laboratorio.
Sul concetto di apparenza, di vedere un reale distorto, ritorna estremisticamente Essi vivono
(1988) di John Carpenter, distorsione cromatica per indicarci un'altra possibilità: l'esistenza
di un mondo reale, in cui viviamo, ma che presenta un "aspetto" diverso da quanto percepiamo.
Il reale viene mascherato. La nostra percezione ci inganna e cosi viviamo contemporaneamente
in due sistemi.
Sulla percezione "ingannata" sono d'obbligo almeno tre citazioni: Forrest Gump (1994) di
Robert Zemeckis, Zelig (1983) di Woody Allen e Vivere e morire a Los Angeles (1985) di William Friedkin. Nei primi due abbiamo un'alterazione della pellicola (come in Sol Levante) che
permette a Woody Allen e a Tom Hawks di apparire al fianco di personaggi storici, in filmati di repertorio. Nell'ultimo un'inquadratura di paesaggio, certa e credibile, improvvisamente si muove, rivelandosi solamente un fondale dipinto, o fotografato, facendo cosi svanire
il senso di "sicurezza" percettiva fin li accumulato.
Meritano una nota ancora due pellicole Il corvo (1994) di Alex Proyas, primo esempio di
"resurrezione" cinematografica. Un attore morto durante le riprese (Brandon Lee) rivive
elettronicamente per poter completare il film. Ed infine Mortal Kombat (1995) di Paul Anderson
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tratto dal videogioco omonimo (vi sono molti film tratti da giochi per computer, ma questo risulta particolarmente riuscito nella trasposizione solitamente piuttosto lacunosa). I protagonisti dell'universo virtuale dei giochi elettronici si trasferiscono in una dimensione "reale" quanto cioè quella cinematografica, e da li vengono proiettati in un nuovo mondo virtuale. Come in un
gioco di scatole cinesi.
6. Elementi unificanti dell’interpretazione cinematografica
I film presentati possono venire considerati come varianti di una serie di universi logici, coerenti al loro interno, con un legame "forte": la macchina pensante. Di dimensioni colossali,
meccanica, elettronica, dal contenuto nascosto e protetto da qualsiasi effrazione, ma comunque generatrice di dimensioni parallele al reale. L'artificio si collega al quotidiano, al dischetto del computer, allo schermo di casa, alla tastiera digitata con impazienza, o noia, ogni
giorno. Un'espansione del consueto che porta sulla tavola imbandita del sapere una nuova comunanza. Il messaggio dell'innovazione tecnologica, del computer come creatore del/i mondo/i diviene tangibile. Non un astratto pensiero, un'ipotesi da verificare, ma una serie di possibili verità. Cosi come alcune serie cine-televisive, Spazio 1999, Star Trek e X-Files, hanno
imposto una tecnologia d'avanguardia in contesti fantascientifici portando quindi la volgarizzazione di conoscenze altrimenti destinate al ristretto gruppo degli scienziati che operano nel
settore. Ovviamente si tratta di informazioni superficiali, irripetibili ed irrealizzabili
dal profano, tuttavia la loro conoscenza viene garantita. La linea di trasmissione del sapere
attraversa l'universo cine-televisivo ed approda felice sulle sponde di chi non sa. L'interesse che
film e sceneggiati suscitano (basta pensare alle folle di fan che accorrono a proiezioni e vendite
di libri divulgativi e gadget delle loro serie preferite) tocca, più che marginalmente, il flusso di informazioni che esso trasmette, funge da amplificatore per nozioni altrimenti di difficile proponimento ad un grosso pubblico.
7. I risultati del questionario
Il campione esaminato è formato da 54 studenti universitari di età compresa fra i 21 e i 43 anni
con un‟età media di 22-23 anni. La provenienza geografica e uniformemente distribuita fra tutte
le provincie delle regioni Friuli Venezia-Giulia e Veneto. Il 93% degli intervistati sono di sesso
femminile e i 7% maschile. Il questionario presenta una serie di domande riguardanti la conoscenza della "realtà virtuale", le modalità con cui i soggetti sono venuti a conoscenza del
termine, il loro interesse per l'argomento ed una lista di film in cui appare citato il termine
"realtà virtuale". Il 59% afferma di conoscere il significato del termine "realtà virtuale", il 30%
dichiara "vagamente o in maniera non molto approfondita" e infine l'11% non sa di cosa si tratta.
Oltre ai diciassette film indicati (vedi elenco al paragrafo 2.) sono stati aggiunti dagli intervistati i seguenti titoli: Terminator 1 e 2, Nirvana, Il Corvo 2, Rivelazioni, Space Jam. Il numero massimo di film visti da un singolo soggetto e stato di nove, il minimo di uno la media di 3
film. I film che compaiono citati più di sovente sono quattro: Forrest Gump 60%, Il Corvo
48%, Atto di forza 37%, Il tagliaerbe 37%. Non sono stati segnalati Il mondo appeso ad
un filo, L'invenzione di Morel, Intrappolata nella rete, Brainstorm. Le rimanenti pellicole
hanno avuto citazioni comprese fra il 3% e l'11% delle risposte. Il 56% degli intervistati ha
dichiarato di aver conosciuto la definizione di "realtà virtuale" prima di aver visto i film citati (o altri contenenti elementi riferentesi a questo argomento). Il 44% ha appreso il significato del termine dopo la visione dei film. Per il 33% i film sono stati la fonte principale
d'informazione sulla realtà virtuale, mentre per il 67% sono stati altri media a fornire i dati. I
media citati (sono valide risposte multiple) sono (il primo dato e il valore relativo alla percentuale di risposte positive sui media, il secondo, in parentesi il dato riferito al totale delle rispo-
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ste): televisione 72% (48%), giornali 61% (41%), videogiochi 17% (11%), applicazioni per
computer 11% (7%), romanzi 6% (4%). Solamente un intervistato ha in seguito approfondito
l'argomento attraverso servizi televisivi e articoli su rivista. Per il 37% il contenuto scientifico
dei film non era corretto, il 26% non sapeva rispondere alla domanda, il 22% riteneva appropriato il contenuto scientifico e il 15% solo in parte.
L'ultima domanda riguardava l'interesse suscitato dalla "realtà virtuale". Per il 26% non
vi e alcun interesse, per il 41% e scarso o dettato solo da curiosità, per il 26% vi e un interesse medio che abbisogna di ulteriori approfondimenti, e infine per il 7% vi e un alto interesse
ben sintetizzato dalla frase rilasciata da un'intervistato: "La realtà virtuale mi interessa
molto a livello evasivo: infatti i film che sono permeati da questo argomento sono i miei
preferiti, perché consentono di evadere dalla realtà attuale e rifugiarsi in un altro mondo, dove
niente e impossibile".
8. Considerazioni conclusive
I risultati del questionario possono essere considerati come originali. Si desume che la categoria scientifica "realtà virtuale" gode di una buona conoscenza presso un pubblico indifferenziato. Tra i film elencati nel questionario almeno quattro hanno avuto un'elevata diffusione nelle sale (e un alto pubblico anche tra gli intervistati) garantendo cosi omogeneità al
campione che, in ogni caso, ha visionato nel corso degli anni almeno tre pellicole contenenti
riferimenti alla categoria scientifica esaminata. Il dato di maggior significatività e rappresentato dalle percentuali di utilizzo dei vari media nella trasmissione delle informazioni riguardanti la categoria "realtà virtuale". La televisione (48%) e i giornali (41%) sono i media deputati alla trasmissione dell'informazione, e le percentuali relative sono una conferma anche
in questo caso di un dato ormai noto. L'elemento innovatore e costituito dal film (33%) che
raggiunge un alto livello di capacita di trasmissione dell'informazione, suggerendo cosi una
parziale conferma all'ipotesi "suggestiva" avanzata nell'ambito della discussione propriamente
legata al cinema. Infatti il media "cinema" risulta utilizzabile come tramite per la diffusione
dell'informazione scientifica, pur nei limiti di attendibilità dell'informazione stessa, considerata
come "non corretta" dal 37% degli intervistati, "parzialmente corretta" dal 15% e "appropriata" dal 22%.
Se dal punto di vista del passaggio dell'informazione possiamo essere soddisfatti del risultato abbiamo infatti osservato come non solo i canali deputati siano stati coinvolti nella diffusione del
termine "realtà virtuale" - da quello dell'approfondimento del contenuto rimaniamo delusi. Sostanzialmente, nella maggior parte degli intervistati, il termine si associa al primo significato assegnato alla realtà virtuale, quello inerente la "fuga" dal reale, la costruzione di un modo alternativo a quello di ogni giorno. Prevale dunque l'elemento fantastico e del desiderio, che forse ha trovato, per un istante di superficialità scientifica, e parallelo rinforzo in ambito letterario e cinematografico, il luogo dove realizzarsi. Non nel reale, e neppure nell'immaginario per quanto fantascientifico e lontano nel tempo, solo in un termine, una parola che ha avuto la potenza evocativa
di un universo che non c'è, e probabilmente non vi sarà mai. Tuttavia il valore della parola rimane. La realtà virtuale diviene concreta e tangibile. Anche se solo nei sogni.
9. Riferimenti bibliografici
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Il fenomeno "dell'informazione" relativa alla realtà virtuale si manifesta grazie alla produzione cinematografica del film Il tagliaerbe. Come abbiamo visto vi erano state anche
precedentemente pellicole con un soggetto simile ma, dal punto di vista dell'informazione, nessuna
di queste aveva riportato risultati utili. Con l'uscita sugli schermi di Il tagliaerbe (marzo 1992
negli Usa, giugno in Italia) si assiste invece ad un proliferare di saggi e articoli su riviste
specializzate mentre quotidiani e periodici trattano con largo spazio argomenti inerenti alla
realtà virtuale e al film diretto da Brett Leonard. Riportiamo i titoli di una parte degli interventi
apparsi in contemporanea all'uscita (statunitense e italiana) del film per indicare quanto essa
abbia influenzato la stampa sull'argomento:
Aa.vv. (1992), Il corpo elettronico. Intervista con Daniele Brolli, Materiale informativo
MystFest, Cattolica.
AA.vv. (1992), Rivoluzione Usa. Il pubblico "entrerà" nello schermo, Corriere della Sera, 18
aprile 1992.
Antonio Caronia (1992), Sara virtuale, ma e già arte. Bastano un computer e dei caschi e
guanti speciali per vedere svanire la realtà di ogni giorno e entrare in una dimensione dove
tutto e possibile. E' qui che un drappello di artisti ha iniziato a esplorare possibilità
creative finora consentite soltanto dai sogni, L'Europeo, 1 maggio 1992.
Cinzia Fiori (1992), Chi ha paura della realtà virtuale? Se la fantascienza diventa scienza.
Vista, udito, tatto, olfatto, gusto: le frontiere della ricerca. Giro del mondo, opinioni e
scoperte sulla nuova illusione elettronica, Il Corriere della Sera, 27 aprile 1992.
Maria Pia Fusco (1992), La vita? Possiamo crearla. Con Il Tagliaerbe nella realtà virtuale, La Repubblica, 19 settembre 1992.
Roberto Genovese (1992), Il computer ha fatto ciak. Tutte le tecniche usate per realizzare
il film, L'Espresso, 28 giugno 1992.
Antonio Gnoli (1992), La fabbrica dei nuovi mondi. La realtà virtuale, un capitolo inquietante della scienza dei calcolatori. Ecco un'avventura mentale e corporale che qualcuno ha
paragonato alla droga, La Repubblica, 1 aprile 1992.
Carlo Infante (1992), La realtà virtuale. Ti tocco, ti sento, ma non esisti. Un guanto con
sensori, un casco con due minitelevisori e un computer, cosi nasce un mondo artificiale al
confine fra tecnologia e allucinazione, La Stampa, 29 aprile 1992.
Carlo Infante (1992), Voglio una vita simulata, Il Venerdì di Repubblica, 19 giugno 1992.
Andrea Maioli (1992), Nuove tecnologie. Il mondo parallelo, Il Resto del Carlino, 19 giugno
1992.
Andrea Maioli (1992), E il cinema era stato profeta, Il Resto del Carlino, 19 giugno 1992.
Mar. (1992), La realtà virtuale impigliata nei sogni. Applicazioni del computer per il
cinema del futuro, ma c'è anche un risvolto etico, Il Corriere del Ticino, 27 aprile 1992.
Roberto Nepoti (1992), Paura nei mondi simulati. Il Mystfest, nel segno della Virtual Reality, e iniziato con Lawnmower Man. A Cattolica l'orrore arriva dal computer, La Repubblica,
30 giugno 1992.
Gloria Satta (1992), Amiamoci nel computer. Un amplesso telematico e la scena chiave
della pellicola che il 28 inaugura il MytFest. Arriva Il tagliaerbe, film che si avvale
dell'informatica. Diretto da Brett Leonard e ispirato a un racconto di Stephen King, racconta la storia di un giardiniere scemo che diventa onnipotente grazie alla tecnologia.
Sofisticatissimi gli effetti speciali, Il Messaggero, 19 giugno 1992.
Lorenzo Soria (1992), A me il mondo virtualmente, L'Espresso, 28 giugno 1992.
Lorenzo Soria (1992), Che piacere il cibersesso, L'Espresso, 28 giugno 1992.
Nello stesso anno viene stampato in Italia il volume:
Myron W. Krueger (1992), Realtà artificiale, Addison-Wesley.
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A Krueger, il maggior studioso dell'argomento, viene dedicato anche un periodico specialistico che nasce nello stesso anno: (1992), Realtà Virtuale, la prima pubblicazione italiana di
realtà virtuale. Mentre l'anno successivo viene stampato il primo numero di: (1993), Virtual,
mensile di realtà virtuale e immagini di sintesi.
La creatura planetaria
di Giuseppe O. Longo
1. I filtri della comunicazione
Ogni comunicazione, anche quella più semplice, anche la normale comunicazione orale e interpersonale, è soggetta a una serie di filtri, che agiscono, modificandoli, sul messaggio e sul suo
supporto fino a costituire, in certi casi, una barriera o addirittura un impedimento alla comunicazione. Di conseguenza, nell'analisi del processo comunicativo, il filtro dev'essere sempre tenuto
presente come elemento di grande importanza.
I filtri cui è soggetta la comunicazione non sono sempre gli stessi, ma variano da una transazione comunicativa all'altra e da un'epoca all'altra. Ad esempio, in passato, i filtri più importanti
erano: la famiglia, dov'era il pater familias a decidere quali fossero i libri da leggere e i libri da
non leggere o quali fossero gli argomenti di conversazione dicevoli e disdicevoli; la scuola, che
stabiliva il canone delle nozioni da impartire e dei testi da studiare; la religione, che considerava
importante ciò che era contenuto nei libri sacri e non importante, addirittura sospetto o condannabile, ciò che essi non contenevano.
La scienza stessa, con le ortodossie e con le scuole, ha costituito e tuttora costituisce un filtro
potente per la propagazione dell'informazione e delle conoscenze.
Si può affermare che nel corso dell'evoluzione della comunicazione questi filtri (in ultima analisi collegati al costo della comunicazione, al valore di scambio e d'uso delle conoscenze e al potere che esse consentono di esercitare) hanno imposto una selezione molto forte dei messaggi
scambiati, tanto che in passato - prima di quella che si può definire la "rivoluzione tecnologica
della comunicazione" - il flusso comunicativo era scarso, molto sorvegliato, e instaurava tradizioni forti e persistenti. Di conseguenza, nella società o nei suoi vari settori le idee si radicavano e si
mantenevano vive a lungo: prima che un nuovo paradigma si potesse affermare, bisognava attendere che i rappresentanti del vecchio paradigma scomparissero, cioè, in definitiva, morissero.
L'"ecologia delle idee" (per usare un'espressione alla moda) è stata dunque caratterizzata per
secoli da una dinamica molto lenta. Oggi i processi di comunicazione sono stati sconvolti, la loro
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dinamica si è accelerata enormemente e, grazie alla rivoluzione microelettronica, la comunicazione è diventata molto rapida, molto efficiente e, soprattutto, costa poco o nulla.
Queste caratteristiche della comunicazione attuale - la rapidità, l'efficienza e soprattutto la gratuità - rappresentano un fatto innovativo e sconvolgente: per la prima volta, infatti, una società
dispone di una tecnologia che comporta un aumento smisurato di efficienza e una riduzione fortissima dei costi.
Queste caratteristiche di efficienza e di basso costo hanno una conseguenza molto evidente: le
reti che stanno avvolgendo il globo sono inondate da un frenetico profluvio di messaggi; e poiché
non sempre la qualità cresce con la quantità, spesso accade che la rete sia saturata da un "chiacchiericcio" continuo, disarmante, a volte fastidiosissimo. Le reti offrono a tutti la possibilità di
esprimersi, e naturalmente quando tutti possono parlare nessuno vuole ascoltare. Non c'è quindi
da stupirsi che l'efficienza del sistema e il basso costo delle comunicazioni in rete conducano a
importanti conseguenze di tipo sociale e psicologico.
2. La cosiddetta neutralità della tecnica
Il tema dei filtri comunicativi è legato anche alla questione della "neutralità" della tecnologia.
Si sente spesso affermare che la tecnologia, come la scienza, sarebbe neutra, e che le sue conseguenze dipenderebbero dall'uso che se ne fa.
Ritengo che questa sia una visione semplicistica e insostenibile, e che la si debba superare. Una
tecnologia importante esplica tutte le sue potenzialità, nel bene e nel male. Ciò è vero in particolare nel caso della tecnologia dell'informazione, una tecnologia fondamentale che tocca ciò che di
più intimo possiede l'essere umano, cioè l'intelligenza, e che incide sul delicato rapporto tra mente
e corpo. La tecnologia dell'informazione, quindi, modifica l'epistemologia e la stessa ontologia
dell'essere umano. Per questo ritengo che, se la tecnologia in generale non è neutra, quella dell'informazione lo sia meno di ogni altra: essa incide profondamente sull'individuo e sulla società a
tutti i livelli, modifica la visione che l'uomo ha di sé stesso e del mondo. Oltre a ciò, la tecnologia
dell'informazione, una volta radicatasi nella società, esplica i suoi effetti anche senza che ce ne
rendiamo conto. Direi anzi che essa comincia a manifestare i suoi effetti in maniera più profonda
e più subdola proprio quando, in un certo senso, "scompare". Quando cioè diventa trasparente,
pervasiva e onnipresente, tanto che non si è più in grado di vederla e di riconoscerla. In quel momento, la tecnologia comincia a esercitare effetti imponenti, scende a un livello profondo, quasi
direi "cablato", a quel livello profondo dell'essere umano dove si trovano i meccanismi biologici
che consentono al corpo di funzionare senza che la coscienza se ne renda conto esplicitamente.
E' a questo punto che la tecnologia comincia a diventare importante: le nostre categorie mentali
- che sono state plasmate dall'evoluzione biologica e che oggi vengono foggiate dall'evoluzione
culturale - vengono filtrate e modificate dalla tecnologia, e soprattutto nel momento in cui la tecnologia non è più visibile. Cioè quando per comandare la macchina, per esercitare il controllo,
non si fa più fatica e non s'impegna più l'attenzione consapevole, ecco che la macchina assume
una grande importanza, perché si integra pienamente con l'essere umano.
Orbene, gran parte degli sforzi compiuti dall'inizio dell'era informatica fino ad oggi hanno avuto proprio lo scopo di rendere sempre più gradevole e facile il rapporto tra l'uomo e la macchina.
Una volta i calcolatori si programmavano in "linguaggio macchina", nel senso che bisognava configurare la macchina con le cifre binarie zero e uno a livello dei componenti elementari. Oggi si
usano linguaggi di programmazione di livello molto elevato, facili da usare per l'essere umano, e
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tutta la fatica della traduzione in linguaggio macchina viene scaricata sul calcolatore: il rapporto
è diventato molto più facile per l'uomo, che a volte ha quasi l'impressione di dialogare con un altro essere umano. Ma proprio nel momento in cui la tecnologia diventa facile, quasi inavvertita,
comincia a esercitare i suoi effetti psicologici e d'altro tipo.
3. L'evoluzione bioculturale
Aguglia ha fatto alcune affermazioni che in buona parte condivido: vorrei solo aggiungere un
paio di postille. E' evidente che la comunicazione attraverso Internet, come attraverso qualunque
altro mezzo, viene filtrata, cioè che alcune componenti della comunicazione vengono attenuate o
scompaiono, mentre vengono potenziate altre valenze comunicative: quindi c'è un bilanciamento,
e ciascuno, o la società nel suo complesso, fa le scelte più convenienti ai propri scopi. Accanto
agli ammonimenti che abbiamo ascoltato, e che sono motivati da considerazioni fondate e condivisibili, bisogna tuttavia mettere in luce e sottolineare altri aspetti importanti: ci sono esseri umani che, per menomazioni fisiche, motorie o psicologiche, sarebbero completamente isolati da ogni
contesto comunicativo, e che invece, inseriti o incapsulati nella nuova tecnologia, riescono ad avere un minimo di contatto comunicativo con il resto del consorzio umano. Non dimentichiamo
che fino a qualche tempo fa coloro che soffrivano di minorazioni psicofisiche vivevano in uno stato di esclusione, cioè isolamento, sociale: oggi, con le nuove tecnologie, è possibile (e ci sono esempi concreti che lo confermano) inserire almeno parzialmente queste persone sfortunate in un
contesto comunicativo, e dunque in un contesto sociale. Quindi l'uomo "a tecnologia limitata",
l'uomo tradizionale, che si serve sì della tecnologia ma non è ancora diventato un "simbionte" della macchina, vive ancora in un mondo in cui le leggi dell'evoluzione e della selezione sono soprattutto quelle darwiniane, biologiche. Con l'avvento della cultura e in particolare della tecnologia e
della scienza, in questo quadro essenzialmente darwiniano fanno naturalmente la loro comparsa
importanti componenti lamarckiane: le idee non si propagano (solo) per mutazione e selezione,
ma (anche) per eredità dei caratteri acquisiti. E' quindi necessario operare una rivoluzione concettuale: bisogna tornare indietro e recuperare quel lamarckismo che, sconfitto nell'ambito della biologia, ha invece una funzione importantissima nell'ambito della cultura.
Comunque l'uomo a tecnologia limitata viveva e vive in un ambiente che possiamo definire
"naturale", sia pure fortemente modificato. Con l'avvento prepotente della tecnologia informazionale, l'uomo sta diventando un essere "ad alta tecnologia", e l'ambiente in cui questo essere ad alta
tecnologia nasce, vive, si evolve e opera è molto diverso dall'ambiente a tecnologia limitata. In
questo ambiente nuovo la nuova unità evolutiva è il simbionte uomo-macchina; vale a dire che in
questo ambiente il simbionte è più adatto alla sopravvivenza che non l'uomo puro e semplice,
l'uomo senza tecnologia, o meglio l'uomo a bassa tecnologia. Quindi, estrapolando per assurdo
ma non troppo, può darsi che le persone che oggi consideriamo minorate, domani, ben integrate
con le loro protesi macchiniche, sopravvivano meglio, in un ambiente sempre più artificiale, delle
persone che oggi consideriamo normali. Si sta aprendo insomma una prospettiva di evoluzione
biotecnologica, che prolunga l'evoluzione bioculturale finora dominante, e in questa prospettiva si
potrebbero presentare molti cambiamenti radicali.
A questo punto è importante osservare che, quando si immagina il futuro, gli scenari possibili
vanno considerati e valutati cercando di non confondere i nostri valori con quelli che potrebbero
essere domani i valori di un'altra società: il confronto tra diverse epoche non è sempre lecito o
possibile, perché non è lecito o giustificato proiettare i nostri valori su una società del passato o
su un'ipotetica società del futuro. Chi nasce nel mondo della televisione o nel mondo di Internet è
probabilmente destinato a sviluppare una scala di valori diversa da chi, come me, è nato nella civiltà del libro. Questa incommensurabilità dei valori va sempre tenuta in conto quando si tenta,
anche con le migliori intenzioni, di proiettare la nostra scala di valori su un mondo che ancora
non esiste.
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4. L'estensione del Sé
Chiusa questa parentesi, torniamo al tema principale della comunicazione e dei filtri. E' vero
che alcuni aspetti e alcune caratteristiche importanti della comunicazione - ad esempio l'aspetto
prossemico, l'aspetto corporeo, l'aspetto emotivo - sono filtrati in modo più o meno totale da
Internet. Ma anche il telefono filtra alcuni aspetti, magari diversi, della comunicazione. Quindi
non esiste una cesura così forte tra i mezzi di comunicazione tradizionali e i mezzi più moderni: in
questo processo di estensione e nello stesso tempo di contrazione delle possibilità comunicative
c'è piuttosto una sorta di continuità. E' dunque necessario analizzare il fenomeno sotto molteplici
angolature, senza indulgere a semplificazioni eccessive.
Riassumendo, si potrebbe forse dire che il sistema di comunicazione odierno comporta una sorta di estensione dell'Io, del Sé, cioè di quella importante caratteristica individuale che abbiamo
via via sviluppato nel corso dell'evoluzione bioculturale e la cui prima caratteristica, in apparenza
paradossale, è quella di non terminare dove termina l'individuo. Sappiamo che il Sé non finisce
dove finisce la pelle e che i canali comunicativi che ci collegano col resto dell'universo, integrati
dai canali effettori, cioè quelli con cui noi agiamo sull'universo, prolungano il Sé in tutto l'ambiente.
Oggi questo prolungamento ha cominciato ad assumere forme più tangibili anche se forse ugualmente immateriali: la rete, infatti, estende il Sé potenzialmente a tutto il globo. Si assiste a
una vera e propria estensione e diffusione o disseminazione del Sé, per cui i nostri sensi più "estremi", quelli comunicativi, che ci mettono in relazione con il resto del mondo, sono diventati
sensi lunghi e lontani.
Tutto ciò fa parte di un processo che è stato costante nel corso dell'evoluzione culturale, e che
potremmo chiamare estroflessione delle facoltà e degli organi comunicativi. Con l'estroflessione
le conoscenze diventano un oggetto linguistico su cui è possibile compiere certe operazioni.
Già la lingua parlata fa uscire il Sé del parlante e lo prolunga, collocandolo accanto all'ascoltatore; la lingua scritta, poi, consente di raccogliere le nostre conoscenze, i nostri prodotti intellettuali, le nostre speculazioni matematiche e filosofiche in un deposito che sta fuori di noi. Con l'informatica questo processo di estroflessione delle conoscenze e delle facoltà assume proporzioni
ancora più ampie e articolate: con il calcolatore siamo in grado di elaborare in maniera parzialmente automatica l'oggetto linguistico uscito da noi. Questo processo di estroflessione ed elaborazione esterna rappresenta una tendenza costante nel corso della storia: alla dotazione ereditaria di
ogni singolo individuo, cioè il cervello incapsulato nel corpo, si affianca e si integra un complesso
che comprende anche organi esterni con funzioni di deposito ma anche di elaborazione. Dunque,
dal punto di vista comunicativo ed epistemologico, l'Io, il Sé, si sta estendendo, e questo è un fenomeno di estrema importanza. Dunque, almeno sotto il profilo epistemologico, comunicativo e
conoscitivo, stiamo assistendo alla formazione di un nuovo organismo, che io non esito a chiamare una "creatura planetaria", di cui la rete, o le varie reti integrate, costituiscono una sorta di sistema nervoso e comunicativo.
5. La creatura planetaria
Questa creatura planetaria, almeno dal punto di vista quantitativo, ma a volte anche qualitativo, comincia a essere sede di fenomeni comunicativi importanti rispetto ai fenomeni comunicativi
che si svolgono all'interno delle sue varie componenti. Quando si vuole individuare una componente comunicativa bisogna in primo luogo tener conto della quantità di messaggi che vengono
scambiati all'interno di quella componente. Per esempio, all'interno di un essere umano si svolge
un flusso di messaggi, consapevoli e inconsapevoli, di natura fisico-chimica, di natura psicologica
e così via, che è enorme rispetto alla quantità di messaggi che si scambiano due persone. Ragio-
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nando in questo modo, si può affermare che l'unità comunicativa è rappresentata dal singolo essere umano, mentre un qualunque insieme di esseri umani costituisce un'unità comunicativa molto
più debole. L'integrazione di esseri umani e macchine porterà via via alla nascita di una nuova
unità comunicativa complessa. Attualmente all'interno di questa nuova unità lo scambio comunicativo è ancora molto debole rispetto allo scambio interno a ciascuna persona, tuttavia sta crescendo: quando raggiungerà una certa soglia si formerà una nuova unità comunicativa di livello
superiore, che non sarà più solo sociale, bensì "sociomacchinica", cioè conterrà componenti nuove (artificiali) rispetto alle unità comunicative delle società tradizionali. Del resto questo fenomeno non è nuovo: nel corso dell'evoluzione biologica si è prima passati dalla cellula procariota alla
cellula eucariota, un aggregato di cellule procariote che non solo stanno insieme, ma si specializzano e si scambiano materia, energia e informazione; poi si sono formati i metazoi, cioè gli organismi pluricellulari, in cui lo scambio comunicativo non avviene solo all'interno delle singole cellule, ma anche tra le cellule.
Questi flussi di comunicazione "inter" e "intra" diventano importanti per stabilire quali sono i
sistemi da considerare come unità di comunicazione. Oggi assistiamo alla formazione incipiente
di una nuova unità comunicativa, e si tratta appunto di questa creatura planetaria che si sta formando, la quale potrà costituire un nuovo stadio dello sviluppo sociobioculturale. Che essa abbia
la natura di organismo - e che quindi non si tratti di una semplice metafora - lo si vede da molti
segni.
Primo segno è il fatto che la creatura planetaria, questa rete integrata di uomini e di macchine,
resiste ai tentativi di disgregazione, tende cioè ad autoconservarsi. Essa possiede una forte capacità di automantenimento omeostatico, che è ovviamente alimentata dagli esseri umani che fanno
parte della rete: gli "entusiasti della tecnologia" non sono altro che i custodi o i serventi del sistema; essi mantengono e accrescono la struttura, la complessità e le potenzialità di questa rete,
svolgendo così, sotto il profilo evolutivo e cognitivo, una funzione ben più ampia di quella che
credono di svolgere: essi, in definitiva, contribuiscono alla formazione di una creatura più ampia,
che li trascende.
6. Intelligenza collettiva e intelligenza connettiva
Anche la società umana manifesta un'intelligenza collettiva. Quando si dice che oggi ne sappiamo più dei Greci antichi, il soggetto di questo "sappiamo" è collettivo: si tratta dell'umanità nel
suo complesso, insieme con le biblioteche, con le formule matematiche, con le macchine (le macchine sono condensati di conoscenze che consentono di eseguire in modo più o meno automatico
certi compiti). Precisato ciò, si può fare il confronto tra noi e i Greci: non più dunque un confronto tra i singoli individui, bensì tra soggetti di intelligenza e conoscenza collettivi.
Oggi l'intelligenza collettiva dell'umanità sta diventando un'intelligenza connettiva. E' quindi un
passo ulteriore, perché la comunicazione non solo si svolge in maniera sempre più facile, sempre
più agevole, sempre più intensa, ma si svolge all'interno di un complesso di uomini e di macchine
connessi in rete. Si sta dunque formando un nuovo soggetto di conoscenza, che ha molte delle caratteristiche di un organismo biologico: automantenimento, accrescimento, proprietà vicarianti.
C'e poi un altro fenomeno curioso, che è quello dei virus. Questo soggetto di conoscenza connettivo è affetto da patologie che sono tipiche di un organismo vivente. I virus (e si noti che, pur con
tutte le cautele necessarie, si tratta di una metafora che non è stata certo scelta a caso) rappresentano infatti una sorta di contagio, un'infezione: sono patologie tipiche di quei sistemi che siamo
abituati a chiamare organismi biologici.
La formazione di questa intelligenza collettiva, che oggi diventa connettiva, ci pone di fronte
alla formazione incipiente di un nuovo soggetto di conoscenza. La rete integrata di uomini, macchine, banche dati, calcolatori e cervelli umani, è un organismo, almeno sotto il profilo epistemologico, che sa e che sa fare cose che nessuna delle sue componenti da sola sa o sa fare. Grazie al-
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la comunicazione in rete, i ricercatori riescono, per esempio, a compiere esperimenti e a dimostrare teoremi di matematica che nessuno di loro singolarmente riuscirebbe ad effettuare o a dimostrare. Non solo, ma quando un teorema di matematica molto astruso e importante è stato dimostrato (e grazie a questa collaborazione tra uomo e macchina ne sono già stati dimostrati parecchi), un singolo individuo umano non è sempre in grado di capirlo da cima a fondo, tutto in una
volta, nel senso in cui si capisce tutto in una volta, per esempio, il teorema di Pitagora. Certo, un
teorema dimostrato grazie alla collaborazione uomo-macchina si può capire passo passo, ma si
tratta di una comprensione locale e puntuale, non della comprensione globale che si ha dei più
semplici teoremi classici della geometria o dell'analisi. Come un cane, per quanto bravo, volonteroso e ben addestrato, non potrà mai capire il teorema di Pitagora (che pure è un teorema molto
semplice), così anche l'essere umano ha i suoi limiti di comprensione, e certi teoremi non potrà
mai capirli. Esistono teoremi grandiosi, come quello che fornisce la classificazione dei gruppi finiti, che nessun singolo matematico è in grado di padroneggiare: però questi teoremi sono stati
dimostrati, e bisogna chiedersi dove siano depositati. Chi li padroneggia? In qualche modo, il deposito di conoscenze che li contiene è l'intelligenza collettiva dell'umanità (o quella connettiva della rete).
Il nuovo soggetto cognitivo trascende i soggetti ordinari, nel senso che riesce a conoscere e a
comprendere cose che nessuno di essi sa capire e conoscere, quindi si sta veramente formando
qualcosa di nuovo.
7. La metafora della rete
La rete, oltre ad essere un sistema concreto e tangibile, è anche una grande metafora che impronta di sé molta della nostra cultura. Noi viviamo in una situazione socioculturale che ha molte
caratteristiche "a rete": vengono a mancare le strutture gerarchiche forti, la distinzione tra centro
e periferia si annulla, proprio come nelle reti. Nella letteratura moderna non non si narra più una
storia linearmente (chi oggi raccontasse una storia linearmente, forse farebbe ridere o creerebbe
imbarazzo, perché non siamo più ai tempi di Flaubert). Abbiamo avuto esperienze che ci invitano, o ci costringono, a narrare "a rete": ecco perché il libro può andare su Internet, ecco perché
non soltanto il teorema di matematica o il risultato di fisica, ma anche la nostra narrativa può essere costruita grazie ai contributi di tanti autori. Ne segue che anche l'autore diventa un soggetto
connettivo, e la sua identità sfuma.
Questo soggetto collettivo o connettivo, o l'una e l'altra cosa insieme, ci pone di fronte a problemi che domani diventeranno urgenti. Già oggi siamo costretti a operare ampie deleghe specialistiche: da tempo ampi settori della nostra attività richiedono l'intervento degli specialisti, ai quali deleghiamo il compito di svolgere quelle attività e, insieme, deleghiamo anche la responsabilità
che quelle attività comportano.
Oggi c'è un fenomeno nuovo: la delega tecnologica. Non soltanto gli specialisti uomini, ma
anche le macchine vengono da noi delegate a eseguire e a decidere certe azioni e certi compiti. Ma
le macchine, almeno fino a questo momento, non sono soggetti giuridici. Quindi si sta configurando un vuoto di responsabilità, di cui la legislazione dovrà prima o poi occuparsi.
Dunque, con l'ingresso della rete a livelli diffusi, si sta configurando non solo un nuovo soggetto di conoscenza, ma anche un nuovo soggetto giuridico. La novità non è dunque soltanto di carattere epistemologico, bensì anche di carattere antropologico e ontologico.
E' abbastanza evidente che vi saranno problemi anche di carattere etico, di fronte ai quali oggi
siamo senza risposte, perché tutta la nostra millenaria tradizione di civiltà non ci ha preparato a
questo mutamento, che è un vero e proprio salto di tipo evolutivo.
71
L'informazione come risorsa e come rischio nei servizi d'aiuto alla persona. Una prospettiva metodologica
di Daniele Nigris
1. Il significati del termine informazione
L‟uso del concetto di “informazione” presenta caratteristiche di marcata problematicità a causa
della forte polisemia del termine. È nota infatti la molteplicità di significati che si ritrovano in discipline diverse, come anche all'interno di sottosettori della medesima disciplina, e a questa costitutiva ambiguità, già presente all‟interno del ragionamento scientifico, si aggiunge la sovrapposizione tra questi usi e quelli di senso comune. Si vede facilmente, in riferimento al linguaggio quotidiano, che sotto la rubrica di “informazione”, viene ricompresa una quantità di fenomeni assolutamente inconciliabili tra loro sia da un punto di vista fenomenologico, sia da un punto di vista
ontologico.
Si parla indifferentemente di "informazione", ad esempio, sia prendendo in esame il caso della
domanda, dell'interrogazione intersoggettiva,
cioè riflettendo sull‟informazione che
nell‟interazione face-to-face si riceve in risposta ad una richiesta, sia nel caso in cui ci si stia riferendo all'insieme di conoscenze, di notizie118 che un soggetto porta a conoscenza di altri. La differenza è che nel primo caso, l‟interrogante sta ponendo in essere un‟azione sociale di ricerca di un
oggetto (cognitivo) attraverso il riconoscimento (implicito nell‟atto dell‟interrogazione) della capacità potenziale119 del soggetto interrogato di fornirla. Nel secondo caso, al contrario, l‟atto di
volontà nasce da parte del soggetto che intende informare, ed è da parte di questi che promana ol-
118
. Utilizzando il termine in senso generico. Si sottolineeranno in seguito le differenze tra il concetto di notizia e
quello di informazione.
119
. Potenziale in quanto, ovviamente, nulla si può predicare, in astratto, della volontà del soggetto interrogato di
venire incontro alla richiesta stessa, manifestando una volizione complementare a quella dell‟interrogante. La locuzione azione sociale è utilizzata nella sua accezione weberiana.
72
tre all‟intenzione anche la sua realizzazione, e cioè la messa a disposizione di coloro che vogliano120 prenderne atto, di un corpus di conoscenze.
Su un altro piano, si parla spesso di “informazione” con una gamma di sottintesi connotativi,
come di un “diritto del cittadino”, di una “necessità politica e morale” (da parte dell'amministrazione pubblica, ad esempio): un insieme di attività più o meno pianificate, dunque, che vengono
messe in atto con il fine di assumere o far assumere conoscenza - del tutto indifferentemente, in
seno al presente discorso, in quale chiave di urgenza e pertinenza, o con quali fini. In queste accezioni del termine, evidentemente, la conoscenza che una persona verrà ad assumere in merito ad
un determinato oggetto è solamente un effetto indiretto (pur essendone, comunque, il fine) di
un'attività concepita ed avviata da agenti esterni al soggetto conoscente121. Indubbiamente l'apporto di conoscenza sembra concretizzarsi (ammettendo che almeno una parte dell'informazione di
cui si porta i soggetti a conoscenza sia pertinente e non nota); ma il significato attribuito
all'”informazione” in questo senso implica l'assenza (almeno iniziale) di una cosciente e volontaria attività di ricerca di informazioni da parte del soggetto. Inoltre, i veicoli di quell'informazione sono progettati, decisi e posti in essere esternamente all'ambito decisionale del loro destinatario, che per così dire se li trova prefigurati, senza però aver parte nel processo che porta alla
loro produzione122, né dal punto di vista del contenuto, né da quello della forma.
Nel linguaggio comune, si utilizza ancora il termine “informazione” in un altro senso. Ci si può
trovare infatti a parlare di “informazione” a proposito di quello che spesso viene definito il sistema dell'informazione, e cioè della stampa, spesso indicata metonimicamente, a sua volta, come
“l‟Informazione”. Lo slittamento semantico che si attua mediante differenti usi del medesimo termine, in mancanza di una chiara definizione intensionale dei nessi termine-concetti indicati, sembra evidente: si passa dal designare l‟informazione come un oggetto, alla sua designazione come
predicato (“l‟informare”), ai soggetti agenti dell‟attività consistente nell‟informare visti come sistema sociale. Si eviterà in questa sede di affrontare la pur fondamentale tematica del sistema informativo, e si ridurrà la dimensione concettuale inerente l‟attività informativa alla sola elucidazione delle dimensioni strettamente collegate al reperimento, trattamento ed analisi delle informazioni, e alla produzione di oggetti informativi, nell‟ambito dei servizi d‟aiuto alla persona.
Va fatto peraltro notare come ai problemi accennati si aggiunga spesso un utilizzo sostanzialmente sinonimico di altri due termini, l'uno dei quali appartenente al linguaggio comune, l'altro
proveniente dal linguaggio scientifico. Si sente infatti spesso parlare indifferentemente di notizia e
di informazione, così come di informazione e di dato. I primi due termini hanno molto in comune, ma presentano significative differenze quanto alla loro possibile pretesa di verità: l'informazione si basa su analisi - che dovrebbero trarre origine nella valutazione della stessa fonte – tali
da garantire la veridicità dell'informazione medesima, requisito di per sé non necessario alla notizia. Nelle parole di un esperto di attività informative, operante nel campo dei servizi di sicurezza,
si trova ad esempio precisato che
“la notizia ha quindi un valore unicamente orientativo e solo dopo la sua valutazione (controlli,
riscontri, supplementi di dati, conferme) potrà essere considerata un'informazione la cui validità è
direttamente proporzionale alla sua veridicità.
120
. Il richiamo alla volizione individuale non è, come si vedrà nel prosieguo del ragionamento, un‟insistenza scol astica, ma racchiude in sé un elemento fondamentale dal punto di vista della definizione intensionale del concetto di
informazione per come chi scrive lo concepisce.
121
. Il linguaggio adottato è di natura evidentemente modellistica: non vuole essere un linguaggio descrittivo di uno
specifico processo reale, ma soltanto della sua possibile forma.
122
. Tale indicazione si ripropone a livello modellistico, e soprattutto ad un livello modellistico semplificato. Gli
effetti di retroazione che si verificano nella realtà, e che possono venir integrati nel modello, esistono e fanno sent ire il loro peso non soltanto a processo terminato, ma anche (e spesso) durante il processo stesso, in maniera tale da
modificare gli equilibri strategici del campo d'azione, e conseguentemente da influire sullo stesso prodotto finale.
73
Non va dimenticato, infatti, che il significato originale della parola informazione è quello di
mettere in forma, e cioè di dare alla notizia una forma attraverso la sua valutazione123.”
Un‟altra confusione nasce dalla pretesa fungibilità di due termini, che vengono talora utilizzati
in maniera inesatta come mutuamente sostituibili, informazione e dato. Se appare indubbio che i
due concetti presentino una parziale sovrapposizione, vanno cionondimeno tenuti ben distinti.
Nella letteratura metodologica, si parla quasi esclusivamente di dati. Il termine "informazione /
i", laddove compare, non sempre è definito, rimanendo così un assunto aproblematico, talora
coincidente con "dati", talora distinto, ma in maniera non sempre chiara. Si veda ad esempio una
discutibile definizione proposta dal Dictionary of statistics and methodology di Vogt, che definisce data come
“Informazione (sic) raccolta da un ricercatore”124.
Questa definizione pare riproporre una visione realista e anticostruttivista della prassi di ricerca, ed ancor più sembra riportare verso un uso del tutto ingenuo dei due termini, che in quanto
sinonimi vengono necessariamente fatti appartenere al medesimo livello di realtà, in questo caso
al mondo. Così non si vede né se vi sia distinzione tra il mondo, (oggetto cognitivo apparentemente aproblematico), e la matrice, né come - ammesso che esista - possa venire detta questa distinzione.
Contributi di maggiore spessore analitico sottolineano, naturalmente, la necessità di una distinzione. Costantino Cipolla ad esempio sostiene che:
“In generale, ogni informazione per assumere veramente tale veste, deve percorrere un ciclo,
metodologicamente definito, che (...) comporta all'inizio la trasformazione dell'elemento conoscitivo dovuto al messaggio o allo stimolo in dato osservativo o empirico (fase della costruzione).”125
Sulla medesima linea si situano, in ambito metodologico, i contributi di Alberto Marradi, che
definisce il dato come
“(...) il valore convenzionale assegnato allo stato di uno specifico caso su una specifica proprietà sulla base della sua attribuzione a una modalità della corrispondente variabile”126,
e di Alessandro Bruschi, che – in un quadro di riferimento parzialmente diverso - sostiene che
“Il dato esprime una relazione d'appartenenza di una o più proprietà a un soggetto. Esso consiste in un enunciato atomico, dove non sono presenti connettivi; in sede logica, però, non è la proprietà che appartiene al soggetto, ma il soggetto che appartiene alla proprietà: è un suo caso. Possiamo anche dire che un caso è un'istanza della denotazione di una proprietà empirica; (...). Dal
punto di vista dell'analisi, i dati sono scomponibili in casi e variabili. I casi sono le unità di rife-
123
. In un testo, peraltro, di natura non scientifica: A. F. Viviani Il manuale della controspia, Milano, Mondadori
1988.
124
. P. W. Vogt Dictionary of statistics and methodology. A nontechnical guide for the social sciences, Newbury
Park-London-New Delhi, Sage 1993, p. 59.
125
. C. Cipolla Teoria della metodologia sociologica. Una metodologia integrata per la ricerca sociale, Milano,
Franco Angeli 1988, p. 127.
126
. A. Marradi L'analisi monovariata (2ª ed. accr.), Milano, Franco Angeli 1995, pp. 11.
74
rimento dell'informazione (grammaticalmente i soggetti); le variabili le proprietà dei soggetti
(grammaticalmente gli aggettivi).”127
Anche tra gli informatici si fa uso di definizioni che sottolineano la necessità di una distinzione.
Carlo Batini e colleghi sostengono che
“Col termine informazione indichiamo (...) tutto ciò che produce variazione nel patrimonio conoscitivo di un soggetto.
(...) Col termine dato indichiamo le registrazioni della descrizione di una qualsiasi caratteristica della realtà su un supporto che ne garantisce la conservazione e mediante un insieme di segni
ne garantisce la comprensibilità e la reperibilità.”128
Se metodologicamente questa specificazione non sembra sufficiente, appare però chiaro il legame dell'informazione con una dimensione di cognizione, e del dato con una dimensione sia cognitiva sia pragmatica successiva, e di carattere strutturante rispetto alla precedente.
2. Il concetto di informazione nelle scienze umane e le critiche alla metafora della trasmissione
Molto di quanto può venire detto oggi a proposito del concetto di “informazione” è stato in origine detto e pensato al di fuori dell'ambito di studi e di analisi delle scienze sociali. Dalla metà
degli anni '40129, infatti, il concetto è stato prevalentemente analizzato e sviluppato operativamente
da quell'insieme di branche della matematica e dell'ingegneria spesso accorpate sotto la definizione globale di teoria dell'informazione, e successivamente nell'ambito della disciplina oggi conosciuta come informatica. Il prestigio sociale di queste scienze, e l'importanza delle loro realizzazioni pratiche per la vita quotidiana, ha portato fin dagli inizi all'esportazione in ambito non specialistico e anche in altri ambiti disciplinari delle definizioni da esse proposte. Il cosiddetto modello Shannon - Weaver (SORGENTE - TRASMITTENTE - RUMORE - RICEVENTE - DESTINATARIO) ha
avuto un'enorme influenza nel campo delle scienze sociali negli anni '60 e '70, e quando si ragiona
di comunicazione o di informazione, concetti peraltro ben distinti, viene ancor oggi quasi certamente proposta una versione più o meno semplificata di questo modello come modello esplicativo
per la comunicazione interumana, laddove - invece - sembra trattarsi di uno schema concettuale
la cui genesi e le cui caratteristiche non potrebbero esserne più lontane.
Si ha ragione di ritenere che nei processi interumani, dove giocano dinamiche di ampiezza ben
più complessa, l'isomorfismo con un modello così riduttivo non risulti sostenibile. Infatti la letteratura successiva ha riportato al centro dell'analisi quegli aspetti che nel modello analizzato non
potevano trovare la giusta collocazione, e che si possono riassumere sinteticamente nei seguenti
termini:
- la comunicazione interumana non pare essere una comunicazione monodirezionale, ma una
comunicazione bidirezionale. Questa constatazione analitica, presente in nuce anche nella tratta127
. A. Bruschi La competenza metodologica. Logiche e strategie nella ricerca sociale, Roma, Nuova Italia Scientifica 1996, p. 180.
128
. C. Batini (e altri) op. cit., p. 20.
129
. Il riferimento, storicamente, è la pubblicazione avvenuta nel 1948 del saggio sulla Mathematical theory of
communication di Shannon sul Bell System Technical Journal, poi riedito in volume con l'aggiunta di un contributo
di Weaver. Cfr.. E. Shannon, W. Weaver, The mathematical theory of communication, University of Illinois Press,
Urbana, 1949.
75
zione di alcuni aspetti del modello Shannon-Weaver, emerge esplicitamente nei modelli di Newcomb130 (1953) e Schramm131 (1954) e verrà poi sistematizzata, da parte dello psicoterapeuta
Paul Watzlawick132 (1967);
- l'ambiguità pare essere costante nel (e costitutiva del) processo della comunicazione umana, e
della stessa informazione, emergente in seguito a passaggi interpretativi, come risulta dai modelli
di Gerbner133 (1956), Berlo134 (1960), dello stesso Jakobson135 (1958), e nel modello semioticoinformazionale di Eco e Fabbri136 (1965);
- la compresenza di codici nella comunicazione è un dato fondante dell'esperienza umana, come
è stato messo in rilievo principalmente da parte di Watzlawick137. Parlare di potere informativo
della parola, e non tenere nel dovuto conto il potere informativo di un silenzio o di un semplice,
impercettibile cenno del capo, porta a perdere di vista il senso stesso della capacità significante
dell'uomo, per sua natura ente plurisensoriale, e perciò, nei termini di Shannon e Weaver, multicanale;
- il contesto della comunicazione può considerarsi determinante per l'interpretazione della stessa, e quindi per l'emergere ermeneutico dell'informazione, come messo in luce ad esempio nel modello di Slama-Cazacu138 (1973), e in quello semiotico-testuale di Eco-Fabbri139 (1978).
L'ultimo punto che distingue la comunicazione umana da qualsiasi altra realtà comunicativa
che si possa basare sul concetto di trasmissione come ad esempio lo scambio di segnali tra macchine, è che tale metafora non sembra rendere adeguatamente conto del concetto di “informazione”. Commentando le parole del politologo Harlan Cleveland, che definiva l'informazione come
"umana, espandibile, comprimibile, sostituibile, trasportabile, diffusiva e condivisibile140", Mason
e colleghi sottolineano che
“Forse la caratteristica più importante dell'informazione dal punto di vista economico è che
l'informazione non si esaurisce con l'uso. In effetti, può anche venire aumentata con l'uso, come
nell'addestramento, nella propaganda e nella pubblicità.”141
Su un piano teoreticamente più articolato, l'insufficienza della metafora della trasmissione emerge chiaramente dalle critiche di Niklas Luhmann142. Non potendone qui sottolineare la rilevan130
. T. H. Newcomb An approach to the study of communicative acts, “Psychological Review”, 60, 1953, pp. 393404.
131
. W. Schramm "How communication works", in The process and effects of mass communication, Chicago, University of Illinois Press, 1954.
132
. P. Watzlawick, J. Beavin, D. Jackson Pragmatics of Human Communication, New York: W.W.Norton & Co.
1967 (tr. it.: Pragmatica della comunicazione umana, Roma: Astrolabio, 1971).
133
. G. Gerbner Towards a general model of communication, “Audio Visual Communication Review”, 4, 1956.
134
. D. K. Berlo. The process of communication. An introduction to theory and practice, London, Holt, Rinehart &
Winston 1960.
135
. R. Jakobson Essais de linguistique générale, Paris, Éditions du Minuit 1963; tr.it.: Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli 1966.
136
. U. Eco (e altri) Prima proposta per un modello di ricerca interdisciplinare sul rapporto televisione / pubblico,
Perugia, Istituto di Etnologia e Antropologia culturale, 1965, mimeo.
137
. P. Watzlawick, J. Beavin, D. Jackson, op. cit., passim.
138
. T. Slama-Cazacu Introduzione alla psicolinguistica, Bologna, Pàtron 1973.
139
. U. Eco, P. Fabbri Progetto di ricerca sull'utilizzazione dell'informazione ambientale, “Problemi dell'informazione”, 4, 1978, pp. 555-597.
140
. H. Cleveland Information as a resource, “The Futurist”, 4, 1982, pp. 34-39.
141
. "Perhaps the most significant economic feature of information is that it is not depleted with use. Indeed, it can
even be enhanced with use, as with training, propaganda or advertising", in R. O. Mason, F. M. Mason, M. J. Cu lnan Ethics of information management, Thousand Oaks-London-New Delhi, Sage 1995, p. 44-45.
142
. N. Luhmann Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 1984
(tr. it.: Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna, il Mulino, 1990).
76
za nella complessa teoria del sociologo tedesco, vanno comunque ricordati alcuni punti della sua
trattazione. Innanzitutto, secondo l'Autore, l'informazione viene veicolata potenzialmente da un
oggetto (dalla sua forma segnica, e dal veicolo materiale sul quale è fissata), ma non coinciderebbe con esso. Infatti
“Un'informazione il cui senso viene ripetuto, non è più un'informazione. L'informazione, se ripetuta, conserva il suo senso, ma perde il suo valore di informazione.”143
Quest'annotazione appare di non trascurabile importanza, solo che si specifichi: per il medesimo soggetto, e a patto che il soggetto in questione non conservi più nel suo patrimonio di conoscenza ciò di cui quell'informazione è portatrice (come contenuto). Il significato di questa
glossa appare duplice. Da un lato, Luhmann sottolinea giustamente che ciò che fa dell'informazione un'informazione è il suo aspetto di novità, indipendentemente dalla forma in cui essa si manifesta. Da un altro lato, però, sempre a livello pragmatico, la differenziazione tra sistemi organizzativi e individui è fondamentale: le persone dimenticano, comprendono in maniera selettiva ed
imperfetta, viziata dal desiderio e non sempre aderente all'oggetto144. In più, nell'ipotesi di diffusione di informazioni con un destinatario generico (un aggregato), ci si trova nell'impossibilità di
definire a priori se l'informazione sia davvero tale o no, e per chi lo sia, dal momento che
all‟aumentare del numero di soggetti percipienti non aumenta “la probabilità che il recepito non
costituisca novità”, ma aumenta l‟ampiezza della zona di indecidibilità per il soggetto che propone l‟informazione riguardo alla reale natura informativa di quanto proposto.
Luhmann stesso, proseguendo l'analisi del concetto, fa una puntualizzazione interessante, che
marca la distanza con qualsiasi errato impiego dei concetti di derivazione statistica nelle scienze
umane: l'informazione non è necessariamente, come da parte di taluni ancor oggi si dice, una fonte di riduzione dell'ambiguità. Infatti, sostiene l‟autore
“Le informazioni (...) possono anche aumentare la complessità, ad esempio quando la possibilità esclusa era un'aspettativa negativa (...); nascono ovviamente dei casi in cui l'informazione
presenta un nuovo oggetto rispetto al quale è possibile ricostruire uno schema di possibilità solo
mediante informazione, e magari, in un primo momento, solo molto astrattamente.” 145
L'autore, poi, terminando la trattazione del concetto nell'ambito dell'analisi della comunicazione, porta a fondo la sua critica al concetto di "trasmissione" dell'informazione:
“La metafora della trasmissione è inadatta perché implica una quantità eccessiva di ontologia.
Essa suggerisce che il mittente consegni qualcosa che il ricevente ottiene. Ciò non è esatto per la
semplice ragione che il mittente non esterna niente che egli stesso perda. L'insieme delle metafore
del possedere, dell'avere e del dare, del ricevere, le metafore di tipo materiale nel loro insieme sono inidonee per quanto riguarda la comprensione del concetto di comunicazione. (...) La metafora
(...) sopravvaluta l'identità di ciò che viene "trasmesso". Usandola si è tentati di immaginare che
l'informazione trasmessa sia la stessa per il mittente e il ricevente. (...) Occorre (...) concepire l'identità di un'informazione in modo che sia compatibile con il fatto che essa significa due cose ben
diverse per il mittente e il ricevente.”146
Su tale punto, di rilievo teorico, si è già accennato a proposito delle osservazioni proposte da
Cleveland. La condivisibilità dell'informazione, infatti, sembra rappresentare l'elemento che spes143
. Ivi, p. 155.
. E comunque, anche per le organizzazioni si pongono di frequente problemi di smarrimento di documenti...
145
. Ivi, p. 156.
146
. Ivi, p. 253.
144
77
so appare trascurato dai suoi teorici, lo specifico che la caratterizza: se l'informazione non coincide con il suo veicolo, ma con la sua capacità informativa, essa è a disposizione di una pluralità
di destinatari, per una pluralità di utilizzi possibili.
L'analisi dell'informazione si è man mano espansa nell'alveo teorico delle scienze sociali, assumendo forme anche molto lontane dalla vera e propria modellistica sulla comunicazione, e rivolgendosi alle pratiche informative nella vita quotidiana. Tra i molti contributi rilevanti, gli psicologi sociali Richard Nisbett e Lee Ross hanno sottolineato la rilevanza scientifica dell'analisi delle
forme inferenziali (e cioè, di nuovo, da questo punto di vista, di produzione di informazione) anche se, invece che al ricercatore, si pensi al membro competente della società, al “ricercatore ingenuo”, che non immagina nemmeno l'esistenza di qualcosa definito “forme dell'inferenza”, ma
che cionondimeno - come ampiamente documentato da Nisbett e Ross147 - le applica costantemente. Già in precedenza, un contributo significativo alla comprensione dei fenomeni semioticoinformativi nella quotidianità era stato fornito naturalmente dall'opera di Erving Goffman, nella
cui analisi appare chiaro il fondamento semiotico della natura morale dell'interazione sociale per
come egli la descrive. L'interazione, infatti, è morale proprio in quanto si basa sulle apparenze, e
non “chiede i documenti” ai suoi attori, nella speranza - che poggia su un meccanismo tipicamente inferenziale, a volte induttivo, a volte abduttivo - che a ciò che appare corrisponda ciò che secondo una regola sociale dovrebbe corrispondervi, in una sorta di “semiosi sociale illimitata”148.
Rivolgendosi invece alle strategie individuali dell'attore all'interno di un contesto organizzativo,
e alle costrizioni che quel contesto impone sull‟attore individuale149, un contributo rilevante è certamente costituito dall‟ormai classico L’acteur et le système di Michel Crozier ed Erhard Friedberg, soprattutto se si consideri l'impulso che esso ha fornito ad una concettualizzazione dell'azione per quanto attiene alla comunicazione e all'informazione in termini di vincoli, e non semplicemente di libertà dell'attore. Quest'aspetto emerge chiaramente, per fare un esempio di rilievo per
il presente scritto, quando gli autori sottolineano che
“L'organizzazione crea potere semplicemente attraverso il modo con cui organizza la comunicazione e i flussi d'informazione tra le proprie unità e tra i propri membri. Così, per potere adeguatamente assolvere il compito o la funzione relativi al suo posto, un individuo avrà bisogno di
informazioni provenienti da altri posti occupati da altri individui. E se, per diverse ragioni, non
può scavalcarli o fare a meno del loro aiuto, essi potranno esercitare su di lui un potere, semplicemente per il posto che occupano in una data rete di comunicazione; infatti, il modo con cui trasmetteranno le loro informazioni (con un ritardo più o meno grande, filtrandole o "truccandole"
più o meno, ecc.) inciderà profondamente sulla capacità d'azione del destinatario.”150
Per mentire, quindi, può essere sufficiente ritardare la diffusione, così che l'informazione non
possa dirsi più tale (e cioè informativa) perché è invecchiata.
3. Oggetti informativi ed effetti informativi nei servizi d’aiuto alla persona
Si possono, alla luce dei contributi ricordati, definire alcuni punti fermi:
147
. R. Nisbett, L. Ross Human inference: strategies and shortcomings of social judgment, Englewood Cliffs (NJ),
Prentice Hall 1980 (tr. it.: L'inferenza umana. Strategie e lacune del giudizio sociale, Bologna, il Mulino 1989).
148
. Come durata nel tempo. L'espressione, che presenta però in origine un diverso significato, è di Umberto Eco, e
appare nel Trattato di semiotica generale, Milano, Garzanti, 1975.
149
. M. Crozier, E. Friedberg L'acteur et le système. Les contraintes de l'action collective, Paris, Seuil 1977 (tr.it.
Attore sociale e sistema Milano, ETAS, 1978).
150
. M. Crozier, E. Friedberg, op. cit., pp. 57-58.
78
- nella quotidianità, come nell'attività scientifica, viene fatto uso delle medesime forme di ragionamento inferenziale, logiche o statistiche, con differenti gradi di controllo e di correttezza
nell'uso a seconda dell'ambito d'azione;
- l'informazione che gli individui rilevano ha aspetti di incompiutezza e lacunosità; nelle discipline scientifiche e nelle professioni che da queste traggono alimento, il problema non trascurabile
appare consistere nell'opportunità di ridurre tale incompiutezza;
- le strategie e gli strumenti per il controllo della qualità dell'informazione sono applicabili a
tutti i tipi di informazione raccolta, e debbono accompagnarsi al controllo delle successive attività
di natura inferenziale, generatrici di nuova informazione;
- lo stato informativo degli individui (la base di partenza per le loro azioni) sembra porsi come
funzione dell'informazione di cui essi credono di disporre.
Sulla scorta di quanto detto, pare di poter definire alcuni termini-chiave nella maniera che segue.
EFFETTO INFORMATIVO. Mutamento prodotto nella cognizione di un aspetto del reale da parte
di un soggetto in seguito (i) ad esperienza diretta, oppure (ii) al contatto con informazione incorporata in oggetti informativi.
INFORMAZIONE. Porzione di conoscenza sul reale (incorporata o meno in un supporto di qualsiasi natura) in quanto produca un effetto informativo. (Naturalmente la natura di incertezza nel
singolo caso circa la capacità di una porzione di conoscenza di produrre un effetto informativo in
un destinatario definito è ciò che porterà - pur parlando per brevità di “informazione” - a concettualizzare detta porzione di conoscenza in quanto semplice cognizione del reale come “informazione potenziale”).
OGGETTO INFORMATIVO. Un qualsiasi supporto incorporante informazione potenziale.
ATTIVITÀ INFORMATIVA. Attività umana coscientemente rivolta a reperire o produrre, trattare,
archiviare, analizzare, gestire, diffondere informazioni.
A partire dalla definizione di “effetto informativo” fornita, sembra ora possibile introdurre alcune specificazioni. Nella sfera d'azione dei servizi sociali, potrebbe dirsi - su un piano deontico,
e non solo descrittivo - che la conoscenza da acquisirsi, trattarsi o diffondersi, per farsi informativa, debba essere:
a) riconoscibile da parte del soggetto. Per l'operatore ciò significa che le fonti secondarie devono essere alla sua portata, che egli deve essere in grado di gestire le rilevazioni primarie progettate, e le successive analisi. Per il cliente, questo significa che l'informazione a lui diretta dev'essere comprensibile, e cioè fruibile, leggibile;
b) rilevante per il soggetto. Per l'operatore, ciò significa che le fonti secondarie debbono essere
scelte rispetto ai fini del servizio, che le attività di ricerca debbono essere coerentemente pianificate rispetto ai costi che comportano e ai benefici che possono apportare, che gli strumenti (a partire dalla modulistica) debbono essere progettati con accuratezza e coerentemente con i fini conoscitivi (e deontologici) del servizio. Per il cliente, questo significa che l'informazione a lui diretta
dev'essere l'informazione di cui ha bisogno nella sua specifica situazione;
c) tempestiva. Sia per l'operatore che per il cliente, la tempestività è una funzione del tempo
trascorso tra il momento dell'esperienza diretta - o della fissazione dell'informazione su un supporto - e il momento in cui essa produce il suo effetto informativo. Questa caratteristica è quella
che dimostra più nello specifico la situazionalità di questo concetto, dal momento che nella sfera
d'azione dei servizi d‟aiuto alla persona l'informazione rilevante non è quasi mai di carattere tran-
79
stemporale (come quella potenziale incorporata in un testo d'analisi matematica), ma al contrario
è quasi sempre contingente, e strettamente legata ad una dimensione temporale di breve periodo;
d) esaustiva. Per l'operatore, l'esaustività sembra indicare una condizione di “sufficienza” 151,
dovendo decidersi dell'esaustività necessaria in base ad una valutazione della priorità rispetto alle
risorse disponibili (tempo nel caso dell'analisi della situazione del singolo cliente, altre risorse monetarie, umane - nel caso della ricerca). L'esaustività quindi sarà da intendersi in senso assolutamente relativo, relativo cioè ai fini decisionali. Per il cliente, esaustività dell'informazione significa essenzialmente possibilità di utilizzare l'informazione in prima persona all'interno di propri corsi d'azione. L'informazione deve cioè tendere a creare di per sé, nell'ottica deontologica del
servizio sociale, autonomia d'azione nella persona.
Una delle caratteristiche dell'oggetto informativo è quella della sua fruibilità potenziale fino a
consunzione fisica del supporto. Il termine “potenziale”, non è altro che un aggettivo che si riferisce all'effetto informativo: l'oggetto esiste, ed è portatore di senso. Se sia anche portatore di informazione, dipende (come visto in precedenza) dallo stato informativo di uno specifico soggetto percipiente. Una seconda caratteristica dell'oggetto informativo nell‟ambito dei servizi sociali è
almeno talvolta quella di venire diffuso ad un destinatario indistinto, o, per meglio dire, di venire
diffuso secondo possibilità di successo non sempre prevedibili ex ante, avendo in mente un destinatario testuale che nella realtà non è un singolo individuo, ma un aggregato sociale: la popolazione, o una fascia di popolazione. Cade, così, la possibilità di parlare a priori di informazione
come “effetto generato” o “non generato”: data la natura aggregata del destinatario infatti, si apre
un'intera dimensione problematica, cui si accenna solamente, che verte attorno ad interrogativi
quali la natura dello stato informativo medio152 prima della diffusione dell'oggetto informativo, la
penetrazione effettiva dell'oggetto informativo (in termini molto concreti: quanti opuscoli andranno gettati via, e quanti invece verranno utilizzati?), l'effetto informativo finale raggiunto, e l'effetto informativo a distanza di tempo.
L'oggetto informativo prodotto o circolante nei servizi sociali può riassumersi - nel contesto di
un'analisi metodologica - nel modo seguente:
a) contesti di acquisizione secondaria o indiretta delle informazioni (“fonti”)
b) strumenti di rilevazione diretta o primaria delle informazioni
c) strumenti di archiviazione
d) strumenti per la diffusione delle informazioni
Nella prima categoria possono essere collocati: letteratura professionale, dati statistici e altri
indicatori riferiti al territorio, materiale informativo di altri enti pubblici, privati o di terzo settore.
Nella seconda categoria trovano posto: cartelle sociali o sociosanitarie, schede di registrazione
per l'attività di segretariato, e la rimanente modulistica, di vario tipo e destinazione.
Nella terza categoria si possono ricomprendere: registri per gli interventi, o per le prestazioni,
strumenti per la documentazione dei rapporti con la comunità, archivi delle risorse, degli utenti, o
di altro tipo.
151
. Chi scrive deve questa precisazione al sociologo Y. Berman, direttore del Dipartimento di pianificazione e an alisi sociale del Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali di Israele, che con felice sintesi definisce l'”esperto” come “colui che è in grado di prendere una decisione con il minimo di informazione disponibile” (comunicazione
personale).
152
. Ammesso che lo si possa sottoporre a rilevazioni tramite scaling, e quindi metricizzare. Preferibile, forse, fare
uno sforzo linguistico-metodologico e definirlo stato informativo modale. A favore di questa scelta milita, tra l'altro,
la considerazione secondo cui nella pratica dei servizi è più facilmente integrabile una strumentazione di verifica
pilota dello stato informativo di una popolazione-destinatario che si limiti al livello categoriale dell'informazione, e
questo anche per un'ovvia ragione di costi della rilevazione e dell'analisi rispetto all'obsolescenza degli strumenti
informativi tradizionali (dépliant, opuscolo, pubblicazione mirata).
80
L'ultima categoria ricomprende tutti quei supporti materiali che un servizio produce per condividere con altre agenzie, o perché siano diffusi indistintamente all'esterno: relazioni per altri enti,
opuscoli, brochure, dépliant, guide informative, videotape, manifesti, campagne di stampa, e altri.
Tale classificazione non ha pretesa di esaustività, vuole solamente indicare a livello metodologico gli strumenti normalmente in uso alla luce del lavoro informativo che li vede coinvolti. Essa
sembra però anche rivelare un sostanziale isomorfismo rispetto alle tradizionali classificazioni
delle tecniche di rilevazione dei dati (se contestualizzate entro le varie fasi del processo di ricerca). Se infatti le fasi della ricerca possono riassumersi sinteticamente nella maniera proposta da
Luca Ricolfi153, che - adattate terminologicamente - diventano PROGETTO - RILEVAZIONE - TRATTAMENTO - ANALISI - DIFFUSIONE, emerge chiaramente come le fonti siano da collocarsi entro la
fase del disegno (o progetto) della ricerca, gli strumenti di rilevazione diretta in quella che Ricolfi definisce “costruzione della base empirica”, e che viene più spesso indicata come “fase di rilevazione dei dati” (o delle informazioni), e gli strumenti di archiviazione entro le due fasi di organizzazione (o trattamento) e analisi dei dati.
Significativamente, può rilevarsi invece come la fase di “esposizione dei risultati” nel processo
di ricerca non veda, nella ricerca sociale, l'esistenza di strumenti per la diffusione delle informazioni peculiari, che invece compaiono - con una rilevanza determinante - nell'intervento sociale.
Analizzando secondo quest'ottica l'attività di raccolta delle informazioni pare chiarirsi l'equivoco generato dalla falsa dicotomia “raccolta amministrativa versus raccolta scientifica” di informazioni. Il “metodo scientifico” può in questo senso intendersi non come una sfera separata
dell'azione sociale, quanto come un metodo di lavoro potenzialmente estendibile a qualsiasi attività umana, e certamente e doverosamente proponibile per le procedure di carattere amministrativo, e ancora più a quelle di carattere tecnico che rientrano nelle competenze dell'operatore sociale.
Visto in quest'ottica, il metodo assume il ruolo di un insieme di procedure di controllo, sia costitutive del sapere, sia di riesame del sapere già costituito.
La dicotomia tradizionale (documentazione da un lato, ricerca dall'altro) può dunque considerarsi fallace, nel momento in cui la si analizzi secondo l'ottica integrata proposta. In questo caso,
il perno del ragionamento, come anche della pratica, non sarà più allora l'amministrazione
dell'informazione (ordinaria versus straordinaria), da cui far dipendere due tipi diversi di procedura, e cioè documentazione oppure ricerca dell'informazione, ma l'informazione stessa, raccolta
secondo modalità egualmente corrette e rigorose (e all'interno di piani d'indagine diversificati a
seconda delle necessità conoscitive) in modo continuativo oppure in una singola occasione. Si
può parlare, in questo caso, di rilevazione periodica in contrapposizione a rilevazione occasionale154, ed è chiaro come nel primo caso il modello soggiacente sia quello dell'osservatorio, o del
monitoraggio ripetuto, o dell'archivio-risorse di un'area continuamente aggiornato, mentre nel secondo sia quello di un'indagine mirata sulle condizioni di un individuo, di un quartiere, di una fascia d'età su un'area.
4. L'informazione come risorsa e come rischio nei servizi d’aiuto alla persona
153
. L. Ricolfi La ricerca empirica nelle scienze sociali. Una tassonomia, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3,
1995, pp. 389-418.
154
. Si mutua questa distinzione da E. Webb, (e altri) Unobtrusive measures. Nonreactive research in the social
sciences (Chicago, Rand Mc Nally 1966), laddove viene distinto tra running record (cap. 3, pp. 53-87) ed episodic
e private records (cap. 4, pp. 88-122), indicandosi con questa terminologia da un lato la rilevazione periodica - a
qualunque fine essa sia rivolta - e dall'altro, i documenti che solitamente si definiscono come afferenti alla sfera del
privato, o - distinzione insolita, ma di estremo interesse - alla sfera della privatezza intesa in senso lato, come nel
caso degli archivi di un'industria. Significativa la prima parte del titolo dei due capitoli: "Archives I" ed "Archives
II".
81
Avendo scisso in dimensioni componenti il concetto di “informazione”, in relazione alla pratica
delle strutture che si occupano d'aiuto alla persona, va ora brevemente analizzata la dimensione di
carattere situazionale attinente alla dicotomia risorsa - rischio che l'informazione può generare.
Dati i limiti di quest'intervento, ci si manterrà sul piano metodologico sul quale ci si è sin qui basati, senza affrontare la rilevantissima componente etica 155 connessa.
Se si definisce la risorsa come
i mezzi (materiali e no) che vengano impiegati da un soggetto per modificare in positivo il
suo stato rispetto ad una data proprietà o situazione,
si potrà definire il rischio come
la possibilità di conseguenze negative (indesiderate, spiacevoli, dannose...) in dipendenza di
un dato corso d'azione.
La strutturazione di un processo d'aiuto vede compresenti due soggetti, a pari dignità umana,
anche se non a pari dignità informativa dal momento che i diritti comunicativi nell'interazione risultano, di norma, squilibrati. Seguendo l'accennato schema delle fasi della ricerca, ed applicandolo prima ad un cliente e poi ad un operatore, emergeranno chiaramente sia le differenze tra un
procedere di senso comune ed un procedere (sperabilmente) fondato da un punto di vista procedurale, sia le implicazioni ambigue perché situazionalmente determinate, del concetto di informazione.
La problematica, dal punto di vista del cliente, viene riassunta schematicamente in Fig.1.
Fig. 1 - Modello schematico dei processi informativi teorizzati - versante del cliente
PROGETTO
RILEVAZIONE TRATTAMENTO
ANALISI
155
DIFFUSIONE
. Il dibattito etico nel mondo del Servizio sociale è sempre stato ricco, e negli ultimi anni il tema dell'informazi one è stato al centro di questo dibattito, per quanto - in un'ottica operativa, ed organizzativa - solitamente non si siano approfondite le dimensioni intrinsecamente riguardanti le condizioni di produzione e di acquisizione dell'informazione, nel senso di metodo su cui ci si è soffermati nel presente studio. Ben presente, invece, è stato nel dibattito
il problema connesso dei diritti del cliente alla conoscenza dell'informazione che lo concerne, come quello delle organizzazioni di servizio di trasmettersi dati sui clienti. Su quest'importante tematica, che peraltro esula dal nucleo
centrale di quest'indagine, si rimanda a K. Cigno, G. Gottardi Il diritto dell'utente all'informazione e alla riservatezza: l'accesso dell'utente alla documentazione del servizio, “Rivista di Servizio Sociale”, 4, 1988 pp.33-56; “Eurosocial” Report n. 30, 1987 Client access to personal social services records (report di B. Munday), European
Centre for Social Welfare Training and Research, Wien; B. Gallagher, S. Creighton, J. Gibbons Ethical dilemmas
in social research: no easy solutions, “British Journal of Social Work”, 25, 1995 pp.295-311; M. Gray The ethical
implications of current theoretical developments in social work, “British Journal of Social Work”, 25, 1995 pp.5570; Local Government Training Board, Confidentially yours. Handling personal information in the personal social
services, Luton (GB), Luton LGTB, 1989; R. O. Mason, F. M. Mason, M. J. Culnan, op. cit.; K. Murray Client access to social work records, Glasgow, University of Glasgow, Department of Social Administration and Social
Work, 1985.
Sulla più vasta tematica etica nel Servizio sociale, oltre al già citato saggio di Mason e colleghi, può vedersi S.
Banks Ethics and values in social work, London, Macmillan 1980; C. Clark Social work and social philosophy. A
guide for practice (con S. Asquith), London-Boston-Melbourne-Henley, Routledge & Kegan Paul 1985; A. J.
Kimmel Ethics and values in applied social research, London, Sage 1988; A. A. Vass (a cura di) Social work competences. Core knowledge, values and skills, London-Thousand Oaks-New Delhi, Sage 1996.
82
NO
SI
NO
SI
SI
(SUI SERVIZI)
(SUI SERVIZI) (SU DI SÉ)
risorsa
risorsa rischio risorsa rischio
La fase di progetto della ricerca di informazioni è, dal punto di vista del cliente, inesistente. Le
persone si recano direttamente nei luoghi e dalle persone dove credono di poter trovare delle risposte.
La fase di rilevazione delle informazioni è presente, soltanto sotto la specie della risorsa: informarsi sulle condizioni alle quali poter avere accesso ad un determinato servizio non comporta
rischio di alcuna natura, e meno che mai di spreco di risorse, data la natura minimale dell'azione
necessaria.
La fase di trattamento delle informazioni non è presente
La fase di analisi e presente, certamente come risorsa: il soggetto può approfondire le implicazioni costituite dai vincoli all'accesso ad un dato servizio, e può scoprire di avervi diritto del tutto
gratuitamente, mentre ne era all'oscuro. Ma nell'analisi è contenuta una parte di rischio: su un
mercato del servizio d'aiuto alla persona che è sempre più ricco come offerta, e d'altro canto manifesterà sempre più la crescita al suo interno della monetizzazione, la comparazione delle varie
offerte di servizi - da parte, appunto, di un cliente, e non più di un utente - diventa essenziale.
La fase di diffusione, poi, presenta una caratteristica: per il cliente, a differenza che nei due casi della rilevazione e dell'analisi, in questo caso si tratta di diffondere informazione su di sé. È
senz'altro presente sia la dimensione di risorsa, dal momento che la valutazione da parte dell'operatore deve partire dalla conoscenza del soggetto, e che il medesimo accesso a determinati servizi
è vincolato al possesso di determinate caratteristiche. Ma per gli stessi motivi (oltre che per tutte
le ragioni di natura soggettiva, come il timore del giudizio, o del rifiuto sociale) è altrettanto presente la dimensione del rischio, ineliminabile ogniqualvolta - come Goffman fece notare - un soggetto si “scopre”.
Dal punto di vista dell'operatore (Fig. 2), il processo assume ovviamente connotazioni del tutto
diverse.
Fig. 2 - Modello schematico dei processi informativi teorizzati - versante dell’operatore
PROGETTO
SI
RILEVAZIONE
SI
SI
(SUI CLIENTI)
risorsa rischio risorsa
TRATTAMENTO
SI
(SUI CLIENTI)
rischio risorsa
ANALISI
rischio
DIFFUSIONE
SI
(SUI CLIENTI)
(SUI SERVIZI)
risorsa rischio
risorsa rischio
La fase di progetto, quella di rilevazione, quella di trattamento, quella di analisi, e quella di
diffusione comportano sempre e necessariamente una dimensione potenziale di rischio, accanto
ad una di risorsa.
83
Il progetto: risorsa se correttamente impostato, spreco di risorse se male impostato, e rischio
di produzione di informazioni fallaci (un monitoraggio d'area che fornisca dati non fedeli) se non
condotto correttamente. La rilevazione: risorsa se guidata in maniera corretta, rischio di trovarsi
con dati non organizzabili, o peggio ancora ridondanti, o non paragonabili al loro interno in caso
contrario. Il trattamento: valgono le considerazioni precedenti, aumenta però la competenza tecnica necessaria per ridurre il rischio. L'analisi: la competenza tecnica necessaria per ridurre il
rischio aumenta ancora, in special modo per ciò che attiene all'utilizzo delle tecniche d'analisi statistiche, di per sé suscettibili di fornire una qualsiasi lettura dei dati se utilizzate da non competenti, tanto più se viste come “scientificamente valide in quanto oggettive ed avalutative” come
talune vulgate metodologiche ingenuamente sostengono ancor oggi.
La fase di diffusione presenta le medesime caratteristiche di risorsa e di rischio (si badi che,
specularmente a quanto accade per il cliente, qui rilevazione, trattamento ed analisi riguardano in
prima istanza il cliente, e l'ambiente relazionale dell'organizzazione, e la diffusione, al contrario,
l'organizzazione stessa): se la risorsa è costituita dalla maggiore conoscenza diffusa su di sé, si
possono in linea di massima individuare due fonti di rischio principali, segnatamente quella di
generare una domanda cui non si è, alla fine, in grado di fare fronte, oppure - se la progettazione
era insufficiente, di diffondere oggetti informativi del tutto inadatti rispetto ai destinatari che si
volevano raggiungere.
Con le scissioni intensionali descritte, e con l'utilizzo collegato dei concetti di risorsa e di rischio, si è cercato di sottolineare la complessità del concetto e degli oggetti che si celano sotto il
velo del termine informazione. L'”informazione” non è un ente, meno che mai un possibile soggetto d'azione. In nessun modo potrà applicarsi al concetto un‟imputazione causale che ricordi
nemmeno linguisticamente quella del Preludio di Sraffa, la “produzione di merci a mezzo di merci”. Non si può dare, infatti, “produzione di informazione a mezzo di informazione”, come alcuni
entusiasti della cosiddetta “società dell'informazione” talvolta paiono sottintendere, bensì “produzione di informazione a mezzo di attività informativa”, enunciato che rimanda inequivocabilmente alla questione della responsabilità dei produttori. È questa la ragione dell'insistito richiamo anche di carattere etico su una metodologia consapevole dell'acquisizione di informazioni, dal momento che - potenzialmente - in siffatta attività non può dirsi esservi nulla di innocuo, e certamente nulla di neutrale. Raccogliere o non raccogliere informazioni, diffonderne o non diffonderne, a
chi, e come: queste, accanto ad altre, sono domande cui gli operatori sociali non possono sottrarsi, né a livello etico, né a livello della corretta applicazione delle appropriate procedure di metodo.
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85
La morte della televisione
di Francesco Pira
"Credo che continui ad esserci, nel campo della comunicazione, una lotta immane tra chi vuole
controllare, chi vuole orientarsi e chi vuole nascondersi, con qualunque fine: per fare l'amore o
per preparare un attentato o per avere più potere a sua volta ricattando [...] per tornare alla scatoletta, illuderci che la televisione sia un risibile elettrodomestico controllabile in sé perché è fatta
da persone che si riconoscono, siamo in Italia e tutto sommato non siamo una società enorme ma
abbastanza villaggesca (Paolo Villaggio), riconosciamo le facce, ci sembrano famigliari e c'è
Maurizio Costanzo che mette tutti d'accordo - è garanzia. Ma c'è qualcosa che ci sfugge nella televisione, soprattutto se viene posseduta da cattivi o cattivoni che ne vogliono fare cattivo uso:
mediante essa possono influenzarci e, chissà come, farci vivere in un certo modo".
Enrico Ghezzi così "recita" nel suo recente volumetto Il Mezzo è l'aria. E lo scrive mentre in
Italia si ha la precisa sensazione che la fine della televisione é davvero vicina.
Sembrano molto lontani i tempi in cui Orson Welles diceva: "Odio la televisione, la odio come
le noccioline. Ma non riesco a smettere di mangiare le noccioline". E sembra ormai quasi dimenticato l'allarme lanciato dalla buonanima di Karl R. Popper: "Una democrazia non può esistere se
non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino a
quando il potere della televisione non sarà pienamente scoperto. Dico così perché anche i nemici
della democrazia non sono ancora del tutto consapevoli del potere della televisione. Ma quando si
saranno resi conto fino in fondo di quello che possono fare la useranno in tutti i modi, anche nelle
situazioni più pericolose. Ma allora sarà troppo tardi".
Nella mia esperienza giornalistica una delle cose che mi è rimasta più impressa è quella che ho
scoperto a Baghdad, dove mi sono recato per realizzare un reportage per il telegiornale di Videomusic.
I cacciabombardieri americani durante il primo raid in Iraq colpirono, facendo centro con
grande precisione, come primo obiettivo la televisione di stato Iraqi Tv. Ed il dittatore Saddam ha
visto morire per qualche giorno il suo amore più grande. Infatti vinta la rivoluzione Saddam ha
regalato a tutti i capi famiglia un apparecchio televisivo che tutte le sere doveva essere acceso per
86
ascoltare il suo verbo. Andando verso il sud dell'Iraq ancora oggi è facile vedere vere capanne con
dentro accesa una televisione, vecchio modello, ma in buone condizioni.
Questa premessa per dire che la televisione è un mezzo da dittatori, un po' come sono stati la
radio ed il cinema, per la coppia Mussolini - Hitler.
Ma la verità è che quella che vediamo oggi è una brutta televisione, come dimostrano i varietà
semi-demenziali diffusi in quasi tutte le reti nazionali, pubbliche e private. Ma non è facile sostenere, e scrivere oggi in Italia, che tutto è già stato scritto e che, per certi versi, in America è già
successo.
Il futuro è dei media interattivi, e la televisione sarà sempre più all'angolo fino ad estinguersi
del tutto. Naturalmente le televisioni generaliste, non quelle locali che invece hanno un grande futuro.
Uno dei più grandi consulenti d'impresa americani, George Gilder, che ha insegnato presso la
Scuola di Governo di Harvard, ha dedicato alla "problematica" addirittura un saggio dal titolo
imbarazzante "La vita dopo la televisione".
Gilder non si è risparmiato. Ha "divulgato questo nuovo scenario" sbizzarrendosi in articoli e
trasmissioni televisive e partecipando a decine e decine di convegni. Nessuno ha pensato che forse
poteva avere ragione. Ma il tempo è galantuomo ed oggi tutti i grandi gruppi di comunicazione si
stanno strenuamente battendo per "assicurarsi un posto al sole nel mercato della multimedialità e
delle autostrade dell'informazione".
In Italia paese, al momento, di teledipendenti, il libro non è stato un caso editoriale come negli
Stati Uniti. Anche se George Gilder di cose interessanti ed in cui possiamo ritrovarci ne scrive e
dice tante. Ad esempio "la televisione è un sistema di trasmissione che si fonda sull'idea che tutti
gli esseri umani siano essenzialmente simili e che possono essere soddisfatti con 40 o 50 canali,
fino ad arrivare a 500".
In Europa o in Asia 500 Canali possono sembrare un'esagerazione. Ma paragonateli con la
gamma di quattordicimila riviste e con la pubblicazione di circa cinquantacinquemila libri nei soli
Stati Uniti e vedrete che non è un'esagerazione.
In Italia da anni ci dicono che tra poco saremo inondati da canali che arriveranno via cavo e
via satellite soprattutto da quando ci sarà un'unione europea anche per la televisione. E pensate al
povero utente spagnolo che a distanza di anni si ritroverà a vedere la Carrà che fa riabbracciare
amici e parenti! Mentre la televisione dovrebbe consumare questi "delitti" Gilder in America ha
già annunciato che le aziende che si occupano di telefonia e televisione sono "morenti ed emanano
un'aria sempre più fetida".
Le reti dei computer trasmettano dati digitali "a una velocità minima di circa 10 milioni di bit
al secondo, raggiungendo i 155 milioni di bit al secondo". Una sorta di alluvione digitale che cancella il potere della televisione e del telefono.
"La televisione non vuole riconoscere la rigogliosa diversità dei suoi utenti" scrive Gilder.
La gente fa migliaia di lavori diversi, ha hobbies diversificati, legge centinaia di migliaia di differenti pubblicazioni.
La televisione ignora la realtà che gli esseri umani non sono patate lesse ma reagiscono ai messaggi pruriginosi e alle paure e alle ansietà morbose. Naturalmente la televisione, puntando a raggiungere il bersaglio al suo più basso denominatore comune, peggiora sempre di più ogni anno.
Le reti telematiche rispondono a tutte le caratteristiche umane che le reti televisive ignorano e
rendono possibile un'interattività da pari a pari piuttosto che trasmissioni dall'alto in basso".
Se Gilder dal suo osservatorio particolare dice che per la televisione non c'è speranza, in Italia
c'è chi, come Enrico Menduni, invece ribatte che ci vorrà una "convergenza necessaria" e che il
futuro dei media sarà caratterizzato dalla convergenza multimediale "ossia un processo - già in
atto - di avvicinamento tra tecnologia, in cui il computer mette a disposizione il linguaggio digitale, e le connesse grandi possibilità di trattamento, velocizzazione e compressione dei dati. La telefonia fornisce la sua rete di connessione che, attraverso cavi satelliti e altre promettenti tecnologie
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(come le microonde), copre ormai tutto il pianeta; la televisione può offrire la sua grande capacità
di lavorare con le immagini in movimento e i suoni, creando storie e contenuti narrativi giudicati
dal pubblico gradevoli, e il suo grande archivio, costituito da un secolo o quasi di immagini trattate, industrializzate e riproducibili all'infinito attraverso il cinema e la televisione. E puntualizza
ancora Menduni: "L'incontro fra le tecnologie del telefono, del computer e della televisione è probabilmente destinato a modificare le tradizionali partizioni del tempo a cui il nostro secolo ci ha
abituato.
Il telefono e il computer sono tecnologie nate nel mondo del lavoro e degli affari, che progressivamente si sono estese a un uso domestico e personale. Sono tecnologie vuote prive di un messaggio da comunicare, fondate sulla connessione (il telefono) e sul trattamento dei dati (il computer); il loro uso varia a seconda delle informazioni che noi vi inseriamo. Al contrario la televisione
nasce in un ambito domestico, tende, moltiplicandosi ad un uso personale e non solo familiare, e
non ha mai avuto una "utenza affari" come il telefono.
È una tecnologia "piena": fornisce un contenuto che deve risultare gradevole e adatto a trascorrere il tempo libero". E Gilder al contrario profetizza: "La televisione morirà perché offende la
vera natura umana la tendenza verso l'automiglioramento e l'autonomia". Ed allora anche nel nostro paese quale è lo scenario che si preannuncia: è forse quello delineato da Mauro Miccio e
Marco Mele nel volume Le televisioni del futuro, di un italiano che leggerà dalla televisione e vedrà dal computer?
"Lo sviluppo dei nuovi media - scrivono i due esperti italiani -, e in particolare di quelli televisivi si addice poco ai pronostici. Nulla appare più azzardato che elaborare previsioni sull'avvento
dei nuovi servizi per i prossimi dieci - vent'anni. Il passato invita alla massima cautela. Secondo
uno studio compiuto per conto dell'Agenzia spaziale italiana, ai tempi in cui si proclamava l'avvento del Grande Satellite nazionale con pochi canali e tanta potenza, il tasso di penetrazione della televisione via satellite avrebbe raggiunto l'11% dell'utenza televisiva dieci anni dopo, cioè nel
1992, e il doppio, cioè il 22%, nel 1995, pari a circa 3.500.000 d'utenti.
A fine '96 le abitazioni dotate di un'antenna parabolica sono un milione, circa il 2% di quelle
totali. Pensare che quelle previsioni, allora, venivano utilizzate per dimostrare che per il futuro
della televisione via satellite non era il caso di essere troppo ottimisti.
Previsioni o meno, gli Stati Uniti hanno lanciato la loro sfida globale all'Europa e al mondo sul
fronte della comunicazione. In Italia, è approvata una legge di regolamentazione dell'intero sistema della comunicazione, già passata al Senato nel maggio '97. Ma lo scontro politico tra i partiti
nazionali si è imperniato sul numero delle reti per Mediaset, Rai e Telepiù, molto meno sulla possibilità per Stet di fare televisione e troppo sui poteri della Commissione di vigilanza rispetto
all'Autorità di sistema. Solo in Italia, Governo e Parlamento non affidano a esperti indipendenti
uno studio sui possibili effetti della legislazione.
Fanno da soli, e si vede".
Ed oggi, come scrive ancora Ghezzi "[...] è come se improvvisamente avessimo scoperto questo pericolo solo perché il possessore di tante televisioni è divenuto capo del governo, fortemente
competitivo sul piano politico.
Prima per dieci anni nessun problema di par condicio: Berlusconi possiede tutte le televisioni
che vuole, non c'è legge. Tutti, ma proprio tutti, aderiscono tranquillamente al fatto che non ci sia
legge [...] bisogna essere apocalittici a priori verso la televisione, e non solo se improvvisamente
un giorno Pippo Baudo dice una cosa terribile, e ci si rende conto che è un mostro.
C'è la guerra del Golfo, non sia mai: c'è. Baudrillard dice che non c'è. Dice che non c'è perché
s'è vista solo in televisione, e non è vero: se c'è una guerra che non s'è vista in televisione è appunto la guerra del Golfo. Ma Baudrillard dice: "S'è vista solo in televisione, quindi non c'è. Io credo
- scrive ancora Ghezzi - invece che quello sia stato uno dei momenti di massima trasparenza degli
ultimi vent'anni: abbiamo visto cosa è la guerra". E allora naturalmente, col ben noto orrore per
l'orrore quando irrompe invece che verso l'orrore quotidiano, c'è stata una levata di scudi, la stes-
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sa che c'è periodicamente verso blob o verso molti dei programmi che facciano vedere dove la
morte arriva, si vede, e invece non si dovrebbe vedere".
Un problema di stile quindi, ma anche di mercato, come puntualizza Giuliano Beretta, ingegnere elettronico e direttore degli affari commerciali di Eutelsat nel suo libro Televisione dello spazio: con la moltiplicazione dell'offerta televisiva resa possibile dalla televisione digitale, alcuni
degli equilibri che hanno retto il mercato televisivo europeo almeno dalla metà degli anni ottanta
si romperanno.
Operatori satellitari, produttori di hardware ed emittenti dovranno fare i conti da una parte con
i costi di accesso che le nuove tecnologie impongono ai potenziali telespettatori, dall'altra con una
concorrenza molto più intensa di quella del passato, sia tra loro sia con i nuovi attori che inevitabilmente si faranno avanti". Tesi accettata anche da Miccio e Mele che insistono: "Uno dei terreni
di scontro riguarda i terminali domestici: televisione e computer si contenderanno il tempo e i budget dei singoli componenti le famiglie che vorranno ricevere i nuovi servizi multimediali e a valore aggiunto.
Dalla televisione non si è abituati a leggere, dal computer non si è abituati a vedere. Oggi. Ma
la televisione diventerà uno schermo piatto guardabile anche da posizione angolata e già si traducono i servizi Internet per lo schermo televisione; mentre il monitor del computer avrà sempre più
la funzione e la qualità di uno schermo televisivo.
Si è aperto un gigantesco scontro industriale tra chi produce televisori e chi produce computer:
a decidere sarà chi controlla i programmi, da Microsoft a Hollywood". Un duello finale che "si
giocherà sui contenuti, sulle macchine che dovranno percorrere le autostrade dell'informazione.
Purtroppo nel nostro paese l'industria dei contenuti e la sua promozione (e più in generale, la questione culturale e dell'identità nazionale) occupano uno degli ultimi posti nell'agenda della nostra
classe politica. È da tempo ai primi posti, invece, in quella delle classi dirigenti di altri paesi".
Emerge la necessità di un quadro di indirizzi legislativi di cui dotare le imprese nazionali pubbliche e private "necessari - concludono Miccio e Mele - per diventare competitive di fronte alla
sfida del terzo millennio, quella della conoscenza e dell'informazione.
Ci vorrebbe un'autorità unica per il sistema della comunicazione caratterizzata dalla piena indipendenza dagli enormi interessi in campo, compresi quelli dei partiti. Si dovrebbe valorizzare il
ruolo della Rai quale impresa di servizio pubblico, focalizzandone la missione in direzione della
qualità e dell'universalità del servizio. Il condizionale, su tutto ciò è più che mai d'obbligo. Siamo
in un mondo in cui la conquista del tempo, risorsa scarsa, non ampliabile a piacere, sarà un fattore decisivo nello scontro tra i possessori dell'informazione e della conoscenza. Ma c'è il fondato
sospetto che saranno altri a conquistare il nostro tempo e forse un giorno, anche la nostra televisione".
Giusta riflessione ma già annunciata da Gilder che rileva che "la caduta della televisione tende
ad essere il simbolo più visibile di una serie di mutamenti a cascata che inghiottiranno il mondo
negli anni novanta.
Grandi organizzazioni, dai network di trasmissioni alle burocrazie governative, dalle gerarchie
multinazionali ai sistemi scolastici centralizzati sono in subbuglio. Ma cosa li rimpiazzerà?
Se gli Stati Uniti possono ancora prevalere nelle tecnologie centrali dell'epoca, quali strategie
dovrebbero seguire queste società e i politici?
Nuove politiche sono necessarie. Gli Stati Uniti dovranno adottare una nuova politica nella
corsa tecnologica, andando oltre la televisione verso il regno di una nuova tecnologia. Piuttosto
che giocare una gara certamente perdente con il Giappone, l'America dovrà mantenere la promessa creativa del suo sistema e delle sue tecnologie [...] l'America può sfruttare le sue industrie del
computer che sono globalmente dominanti.
Un passo centrale sarà il rovesciamento delle strutture legali e dei regolamenti che hanno impedito alle più potenti compagnie americane di guidare il mondo alla svolta oltre la televisione.
Ma per realizzare questo nuovo obiettivo gli Stati Uniti dovranno per prima cosa comprendere
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perché la televisione ha dominato a lungo la cultura e l'intrattenimento nel mondo, e perché adesso è obsoleta".
E perché la televisione é obsoleta? Perché è difficile oggi guardare dei programmi di qualità in
televisione?
Karl Popper l'aveva a suo modo spiegato: "È molto più facile rimediare gente che produce venti ore al giorno di materia media e cattiva, e forse una o due ore al giorno di qualità buona. E'
semplicemente un compito di estrema difficoltà e quante più sono le stazioni emittenti tanto più
diventa difficile trovare professionisti che siano davvero capaci di produrre cose sia interessanti
che di valore.
Si può facilmente produrre materia che si può definire come "non cattiva e noiosa", ma non
certo materia sia attraente sia di qualità per venti ore al giorno.
C'è una difficoltà fondamentale, interna, che é stata alla radice del deterioramento della televisione.
Il livello è sceso perché le stazioni televisive, per mantenere la loro audience, dovranno produrre sempre più materia scadente e sensazionale. Il punto essenziale è che difficilmente la materia
sensazionale è anche buona". E se tutti questi autori che come ad una tavola rotonda virtuale abbiamo messo a confronto a loro insaputa, vivi e morti, pro e contro, a loro modo avranno ragione
e se soprattutto il nostro "eroe" Gilder la sua previsione si rivelerà fino in fondo nemmeno la preghiera del Cardinale Carlo Maria Martini che, parafrasando San Francesco nel suo libro "Dialogo con il televisore", scrive una lode che forse non salverà la televisione. Così riedita: "Laudato
sii mio Signore con tutte le creature, specialmente fratello televisore, che riempie ore delle nostre
giornate, ed è bello e irradia con grande splendore e di te. Altissimo porta significazione."
E poi l'uomo della Chiesa lancia un monito che, in prospettiva rivolge anche al "fratello computer" :"specialmente sia lodato per quanti, usando i mass media, sapranno ricordarsi che nulla al
mondo vale più della persona umana…"
E cosi sia?
Riferimenti Bibliografici
Giuliano Berretta, Televisione dallo spazio, Il Sole 24 Ore Libri, Roma, 1997.
Enrico Ghezzi, Il mezzo è l'aria, Bompiani, Milano, 1997.
George Gilder, La vita dopo la televisione, Castelvecchi, Milano, 1995.
Enrico Menduni, La televisione, Il Mulino, Bologna, 1997.
M. Miccio, M. Mele, Le televisioni del futuro, Sperling & Kupfer, Milano, 1997.
Francesco Pira, Come creare un ufficio stampa, Sperling & Kupfer, Milano, 1997.
Ivan Rizzi, Etica e Comunicazione, Banca Europa Stampa Inedita, Milano, 1997.
K. R. Popper, J. Coundry, Cattiva maestra televisione, Donzelli Editore, Milano, 1998.
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Questioni tecnologiche, relazione tra esperti e profani e nuove tecnologie della comunicazione
di Luigi Pellizzoni
1. Introduzione
Negli ultimi decenni i conflitti sull‟uso delle tecnologie sono andati intensificandosi. Essi hanno
naturalmente origini diverse e vedono coinvolti attori differenti da caso a caso. Spesso, tuttavia,
un conflitto tecnologico vede fronteggiarsi esperti e profani. Gli uni e gli altri non possono essere
rappresentati come soggetti omogenei, ma tuttavia la divisione di campo è chiara. Da una parte
abbiamo coloro che detengono il know-how necessario per comprendere e gestire una data tecnologia. Dall‟altra abbiamo coloro che, privi di tale competenza specialistica, nondimeno contestano
in misura crescente la validità di una legittimazione puramente tecnocratica a partecipare a decisioni che possono avere effetti rilevantissimi, talvolta vitali.
Il sorgere di un conflitto può essere letto come deficit comunicativo, come una discussione interrotta, degenerata o addirittura mai avviata realmente. Perché ciò avviene? La questione è intricata e non può essere affrontata compiutamente. In questo contributo mi propongo piuttosto di
svolgere una breve riflessione, concentrandomi su una delle ragioni che stanno alla base dei problemi comunicativi e quindi dei conflitti tra esperti e profani: l‟esistenza di differenziali cognitivi
che marcano i ruoli dei due tipi di attori. Vedremo che ci sono due modi principali di concepire
tali differenziali, e che questo ha delle conseguenze sulla maniera di impostare la ricerca di una
situazione comunicativa non conflittuale. Ciò offrirà anche lo spunto per riflettere sul ruolo che
possono assumere in questo contesto le nuove tecnologie della comunicazione.
2. Rischio e comunicazione
Per inquadrare correttamente la questione, va rammentato che l‟analisi dei problemi comunicativi tra esperti e profani si è inizialmente sviluppata nell‟ambito della risk analysis, nata alla fine
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degli anni „60 per studiare le problematiche connesse alle innumerevoli fonti di rischio tecnologico. All‟interno di essa si è ben presto distinta un‟area dedicata alla comunicazione del rischio.
Percorriamone velocemente lo sviluppo (Fischhoff 1995; Leiss 1996).
In un primo momento l‟approccio seguito per analizzare i rischi connessi all‟impiego di tecnologie inquinanti o in grado di provocare gravi incidenti, si è focalizzato sugli aspetti „ingegneristici‟ e sulla definizione probabilistica del rischio. Secondo questo approccio sarebbe bastato definire in termini rigorosamente matematici le dimensioni dei differenti rischi e spiegare il tutto al
pubblico dei profani per ottenere un consenso generale sulle scelte da compiere e sui comportamenti conseguenti. Al massimo si sarebbe dovuto „tradurre‟ in forme accessibili al pubblico termini e concetti di difficile comprensione. La comunicazione del rischio pareva non porre particolari problemi.
La „sorpresa‟ è stata che la gente rifiutava di ragionare in termini probabilistici e insisteva a
comportarsi in modo „irrazionale‟: per esempio sovrastimava rischi trascurabili in termini di probabilità di accadimento e sottostimava invece rischi notevoli solo perché vi era abituata o vi si
sottoponeva volontariamente. Si fa così strada l‟approccio psicometrico (Kahneman et al 1982),
volto allo studio dei meccanismi psicologici responsabili della costruzione soggettiva del rischio.
Dal punto di vista della comunicazione, questo comporta una progettazione accurata
dell‟interazione con i profani. Si tratta di riuscire a superare le „resistenze‟ all‟accettazione di una
visione „corretta‟ dei problemi, dovute a „errori inferenziali‟, abitudini comportamentali e così via. L‟analisi costi/benefici non porta alcuna sostanziale modifica a questo quadro relazionale, poiché aggiunge semplicemente la necessità di considerare, rilevandole solitamente in modo indiretto,
le preferenze degli interessati, sulla cui base tarare l‟analisi probabilistica in modo da definire una
soglia di accettabilità dei rischi.
In questa fase la comunicazione del rischio assume i connotati della comunicazione persuasiva.
Si adottano cioè i quadri concettuali e le strategie che i tecnici della comunicazione applicano da
decenni nel campo della pubblicità e della propaganda. L‟idea è, in sostanza, che se è difficile far
ragionare „correttamente‟ la gente, allora forse si può convincerla nello stesso modo in cui la si
convince dell‟utilità di un prodotto o dell‟onestà di un candidato politico.
La realtà è però ancora una volta deludente. Le tecniche persuasive funzionano molto meno del
previsto e i conflitti continuano a sorgere. Spesso la gente non sembra affatto disposta a credere a
quello che gli esperti dicono, né ad accettare rischi in cambio di compensazioni economiche (denaro, lavoro, servizi): dunque anche l‟analisi costi/benefici non pare in grado di cogliere le effettive dimensioni del problema della tollerabilità dei rischi. Occorre attendere lo sviluppo degli approcci socio-antropologici al rischio perché si faccia strada la consapevolezza che esso è, per i
profani ma anche per gli esperti, un concetto influenzato da variabili culturali, in cui gli aspetti
distributivi e fiduciari giocano un ruolo determinante. L‟analisi griglia/gruppo di Mary Douglas
(Douglas e Wildavski 1982), benché criticabile sotto diversi punti di vista (cfr. p. es. Alexander e
Smith 1996), ha il merito innegabile di determinare un consistente mutamento di prospettiva nel
modo di considerare la relazione tra esperti e profani. Anche il concetto di „amplificazione sociale
del rischio‟ (Kasperson e Kasperson 1992) svolge un ruolo importante nell‟attirare l‟attenzione
verso variabili non strettamente psicologiche ma propriamente sociali e culturali nelle dinamiche
del risk management. A questo punto il compito della comunicazione del rischio viene ridefinito,
poiché ci si rende conto che solo dialogando realmente con la gente, rendendola partecipe dei processi decisionali, e non semplicemente „spiegando‟ o „persuadendo‟, si può riuscire a costruire un
consenso attorno alla gestione delle tecnologie. Si arriva insomma al riconoscimento della necessità di instaurare un vero e proprio legame collaborativo tra esperti e popolazioni, basato su un
coinvolgimento degli stakeholders nelle questioni che li riguardano e nell‟attenta considerazione e
mediazione tra punti di vista, interessi e valori in gioco.
92
L‟ingresso di questa prospettiva nel risk management è ancora molto recente. In Italia, in particolare, si contano pochissimi esempi di una gestione delle dinamiche comunicative improntata
(almeno formalmente) al dialogo piuttosto che alla persuasione o allo scambio economico156.
Riassumendo, possiamo dire che nell‟ambito della risk analysis la problematica della comunicazione tra esperti e profani si è sviluppata secondo tre linee principali:
a) comunicazione come informazione;
b) comunicazione come persuasione;
c) comunicazione come dialogo, collaborazione e mediazione.
3. I nuovi rischi e il mutamento nel ruolo dell’expertise
La progressiva elaborazione degli scopi e dei metodi della risk analysis and communication ha
il suo contraltare, sia pure leggermente sfalsato nel tempo, in una intensificazione del dibattito teorico sulle conseguenze sociali e politiche dei rischi tecnologici. Dopo la fase segnata dal concetto
di „limiti dello sviluppo‟ dove, in coincidenza con la prima crisi energetica (inizi degli anni „70),
si affaccia alla ribalta l‟ipotesi di una insuperabile barriera fisica alla crescita economica, la reazione delle società avanzate consiste nell‟avvio di politiche ambientali volte a „correggere‟ i processi produttivi e di consumo affidandosi alla capacità della scienza e della tecnologia di trovare
soluzioni ai problemi in termini di maggiore efficienza, internalizzazione dei costi ambientali,
spinta all‟innovazione tecnologica non più spronata solo dalla concorrenza, ma anche dall‟attività
regolativa delle autorità di governo (standard sulle emissioni ecc.). In questa fase la sociologia
approfondisce soprattutto aspetti legati alla divisione internazionale del lavoro e ai nuovi movimenti sociali (Melucci 1982; Offe 1987; Diani 1988), mentre diviene emblematico l‟approccio ai
„limiti sociali allo sviluppo‟ sviluppato dall‟economista Fred Hirsch (1981).
I successi registrati grazie alla parziale „conversione‟ ambientalista delle politiche economiche
trovano una sia pure controversa sistemazione teorica, attorno alla metà degli anni ‟80, nel concetto di „sviluppo sostenibile‟, che in campo sociologico viene elaborato soprattutto nel quadro
della teoria della „modernizzazione ecologica‟ (Huber 1985; Jaenicke 1985). Tali successi lasciano però ben presto lo spazio alla consapevolezza che si tratta di conquiste molto piccole, contraddette da tendenze all‟incremento dei consumi e degli sprechi, e soprattutto dal profilarsi sempre
più minaccioso di problemi di carattere nuovo. Si tratta di questioni quali l‟effetto serra, il buco
nella fascia dell‟ozono, la perdita del patrimonio genetico, gli effetti dell‟ingegneria genetica,
nuove malattie quali l‟AIDS (forse di origine tecnologica). Vi è poi l‟acutizzarsi di problemi già
noti ma mai affrontati seriamente quali la gestione delle scorie radioattive.
E‟ indubbiamente l‟incidente alla centrale nucleare di Chernobil a offrire all‟opinione pubblica
l‟occasione per constatare come la scienza e la tecnica siano non solo incapaci di controllare realmente crisi improbabili ma catastrofiche, ma anche di offrire interpretazioni convergenti dei fatti, dati non contraddittori, letture non legate a petizioni di principio. L‟immagine pubblica della
scienza, quella di un sapere certo e affidabile (immagine mai corrisposta a quella interna
all‟impresa scientifica ma allo stesso tempo presupposto e conseguenza della centralità
dell‟expertise tecnica nel policy-making), subisce un duro colpo. Il caso Chernobil porta poi alla
ribalta un‟altra questione: quella del rapporto tra conoscenza esperta e conoscenza profana (lay
competence), spesso di carattere locale, cioè radicata nella relazione tra comunità e territorio. La
difficoltà ad accertare e gestire l‟interazione tra gli effetti radioattivi di Chernobil e quelli della
centrale nucleare britannica di Sellafield diviene un caso di studio (Wynne 1992; 1996a) che non
soltanto ripropone il tema dell‟incertezza e dell‟insufficienza dei modelli scientifici di analisi, ma
evidenzia il difficile rapporto con un sapere locale in vari casi (Clark e Murdoch 1997) idoneo a
1. Tra questi, vi è il recente (1996) caso del progetto di terminal metanifero proposto dalla SNAM per il sito di
Monfalcone, nel golfo di Trieste.
93
meglio comprendere e dominare i fenomeni ambientali, ma del tutto sottovalutato dalla scienza
ufficiale.
Alcuni rischi tecnologici vengono dunque progressivamente concettualizzati come „nuovi‟, sia
sul versante delle scienze naturali che delle scienze sociali, per il fatto da un lato di avere un potenziale catastrofico enorme, dall‟altro di sottrarsi a un‟analisi svolta secondo i tradizionali parametri scientifici, e ciò non solo in termini di previsione ma perfino di descrizione; dall‟altro ancora, perché portano alla ribalta la questione del rapporto tra competenza specialistica e competenza profana. Diverse discipline iniziano ad approfondire la problematica, tematizzata di volta in
volta come „complessità‟, „rischi globali‟, „incertezza epistemologica‟ e così via. In campo sociologico la conseguenza è il rapido declino del paradigma della modernizzazione ecologica e
l‟ascesa del nuovo paradigma della „società del rischio‟ e della „modernizzazione riflessiva‟ (Mol
e Spaargaren 1993; Spaargaren 1996; Cohen 1997). Gli alfieri di questo nuovo approccio sono
da un lato Niklas Luhmann (1989; 1993), che lo sviluppa nel quadro sempre più raffinato ma anche esoterico della propria teoria dei sistemi, dall‟altro Ulrich Beck (1992; 1995) e Anthony Giddens (1990; 1991), che lo legano strettamente alla teoria della modernità riscuotendo in tal modo
un successo molto più ampio. Non vanno dimenticati tuttavia i contributi provenienti dal campo
più specialistico della sociologia della scienza (Jasanoff 1995; Irwin e Wynne 1996).
Tra gli aspetti più interessanti di questa spinta all‟elaborazione teorica, secondo la quale i nuovi rischi creano condizioni di incertezza completamente nuove e avviano una trasformazione radicale della società (non necessariamente in direzione del post-moderno), vi è la messa in discussione del ruolo centrale di policy advisor che scienziati e tecnici hanno occupato durante la modernità e soprattutto negli ultimi cento anni. Un ruolo le cui potenziali conseguenze antidemocratiche
erano state peraltro colte da tempo dai sociologi della Teoria Critica (per essere poi riprese da
Habermas: cfr. p. es. 1974) e, ancora prima, sia pure in termini parzialmente diversi, da Max
Weber.
Il tema della tecnocrazia e della crisi del rapporto fiduciario tra scienza e società, fra esperti e
profani, esprime tuttavia posizioni anche piuttosto difformi da quelle di Giddens e Beck. In particolare, si contesta che, come questi autori sostengono, la sfiducia verso l‟expertise rappresenti un
tratto distintivo della tarda modernità e si sostiene invece l‟ambivalenza strutturale del rapporto
tra scienziati e profani (Wynne 1996b). Anche queste prospettive, in ogni caso, sottolineano come
i nuovi rischi globali determinino una profonda modificazione politica e scientifica prima che economica (com‟è implicito nel modello dello sviluppo sostenibile). Si crea in tal modo un contatto
con elaborazioni provenienti da campi diversi quali la politologia e l‟epistemologia. Il terreno di
confronto è proprio la politica dei rischi tecnologici, quando questi sono caratterizzati da ampi
margini di incertezza e complessità, sia che di essi vengano colti gli effetti sui sistemi democratici
(dove la questione si connette al tema della tecnocrazia) o sull‟attività scientifica (dove la questione si collega al tema del rapporto tra scienza „normale‟ e mutamenti di paradigma), sia che ne
vengano rilevate le conseguenze economiche e culturali (qui la problematica si aggancia ai temi
della tarda o post-modernità, della globalizzazione, dei sistemi di welfare, dei modelli postfordisti di produzione, della scienza come impresa sociale e così via).
4. Due approcci al rapporto tra esperti e profani
Il rapporto tra esperti e profani risulta quindi oggi al crocevia di diversi interessi disciplinari.
La questione è per molti, nella sostanza, la seguente. Posto che l‟expertise tecnica ha assunto un
ruolo preminente nella gestione delle tecnologie come garante di soluzioni certe, efficaci e assiologicamente „neutrali‟ rispetto ai problemi, e posto che questo modello mostra la corda sotto vari
punti di vista (più o meno latente autoritarismo, incapacità di controllare efficacemente le conseguenze indesiderate delle tecnologie, incapacità di confrontarsi con saperi non codificati, impossibilità di riproporsi come conoscenza „oggettiva‟ sganciata da assunti di valore e finalità particola-
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ri ecc.), la domanda è: come facciamo a riequilibrare il rapporto di potere tra esperti e cittadini,
attualmente sbilanciato in favore dei primi, recuperando in tal modo democraticità e efficacia del
policy-making? Le risposte che vengono date sono diverse, ma quasi tutte si allontanano decisamente dagli orientamenti tecnocratici della „modernizzazione ecologica‟ e insistono invece sulla
necessità di realizzare un autentico dialogo tra esperti e profani, in modo che tutti possano confrontarsi e discutere sui rispettivi punti di vista, conoscenze, scopi, preferenze, valori. Se, in altri
termini, finora vi è stata incomunicabilità fra esperti e gente comune, quello che occorre è trasformare un rapporto basato essenzialmente sul potere in un rapporto basato sullo scambio comunicativo, sull‟apertura agli altri, sull‟intesa. Si determina, su questo punto, una chiara convergenza tra approcci teorici e approcci al management del rischio.
Sul come perseguire l‟obiettivo indicato le idee sono diverse, ma possono essere raggruppate a
seconda del modo in cui viene concepito lo squilibrio cognitivo tra esperti e profani. La diversa
concezione dei differenziali cognitivi comporta, a sua volta, un modo diverso di definire il contesto e lo scopo della comunicazione.
Per illustrare questo punto, che mi sembra importante, mi soffermerò brevemente, riprendendo
e elaborando alcuni spunti tratti da precedenti lavori (Pellizzoni 1996; 1997; in corso di stampa),
su due approcci teorici: quelli del politologo Robert Dahl (1985; 1989) e dei filosofi della scienza
Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz (1992; 1993). Il primo ha affrontato il tema che qui ci interessa
dal punto di vista della teoria della democrazia; i secondi dal punto di vista delle sfide cognitive
poste dai nuovi problemi tecnologici. In entrambi i casi viene sviluppata una critica della tecnocrazia, ma l‟impostazione del rapporto comunicativo tra esperti e profani è sensibilmente diversa.
1. Dahl. Per Dahl le questioni tecnologiche sollevano in modo nuovo un tema classico della
teoria politica: l‟alternativa tra democrazia e guardianship (o governo dei guardiani). La discussione si incentra sul caso del controllo delle armi nucleari. Problemi come questo sono caratterizzati dalla complessità e l‟enorme importanza delle loro implicazioni. Per trattarli occorrono competenze specifiche che la maggior parte dei cittadini non possiede, nemmeno per capire entro quali
limiti delegare la decisione agli esperti o per valutare le conseguenze di una scelta. Inoltre,
l‟elevata incertezza al riguardo, dovuta alla mancanza di sperimentazione e alla quantità spesso
enorme delle variabili in gioco, fa sì che mezzi e fini siano intimamente connessi: per poter decidere sui mezzi gli esperti devono necessariamente pronunciarsi sui valori.
Si riaffaccia così l‟idea, di origine platonica, della guardianship. Se le capacità di governo
(morali e tecniche: saper individuare il bene comune e i mezzi più appropriati per raggiungerlo)
non sono equamente distribuite tra i cittadini, è forse opportuno affidarsi alla minoranza dotata di
tali capacità, sacrificando la democrazia a favore della qualità delle decisioni.
Dahl lo nega. Ma per contrastare la logica della guardianship non basta dire che siamo tutti
moralmente competenti e che a superiore cognizione specialistica non corrisponde superiore cognizione morale, se poi l‟intreccio tra soluzioni tecniche e scelte di valore fa sì che a prevalere
siano proprio le preferenze morali dei pochi in grado di comprendere e decidere le questioni tecniche (ovviamente, poi, non è per nulla certo che gli esperti perseguano il bene comune). Occorre
invece realizzare una parità di competenze scientifiche tra esperti e cittadini. Occorre portare il
più possibile la gente comune al livello cognitivo dei tecnici, mettendola in condizione di formulare giudizi ben fondati sulle politiche da adottare e sui termini in cui le scelte possono essere delegate, e di controllare poi che l‟azione corrisponda alla decisione assunta.
Dahl mira a incrementare il numero delle persone politicamente competenti aumentando
l‟accessibilità e la comprensibilità delle informazioni, a offrire ai cittadini una concreta possibilità
di influenzare l‟ordine del giorno della discussione pubblica, e infine a creare un corpo ristretto di
cittadini molto ben informati, rappresentativo dell‟intera cittadinanza. Si tratta innanzitutto di
sfruttare il potenziale delle tecnologie della comunicazione per far sì che l‟informazione giunga a
tutti i cittadini in forme accessibili e non manipolate: ciò grazie al controllo esercitato da commissioni di esperti indipendenti e selezionati in modo pluralistico e grazie alle telecomunicazioni, per
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mezzo delle quali la gente può far sentire la propria voce in „tempo reale‟, indicando i temi di volta in volta più urgenti e influenzando l‟agenda del dibattito politico. E‟ tuttavia impossibile far sì
che i cittadini acquisiscano sufficiente competenza su tutti i problemi, soprattutto quelli più complessi. Occorre allora un nuovo tipo di rappresentanza, che Dahl chiama minipopulus. Occorre
dare vita a un minipopulus (persone scelte a caso, pagate, con un mandato limitato nel tempo, e
opportunamente istruite e assistite da comitati pluralistici di esperti) per ogni singolo grande problema (o categoria di problemi): esso dovrà valutare rischi, benefici e compatibilità di ogni possibile soluzione rispetto ai valori e agli obiettivi in gioco. Dalla discussione uscirà l‟ordine di preferenza dato alle opzioni tecnicamente realizzabili da parte di un gruppo rappresentativo di cittadini. In questo modo si può risolvere, secondo Dahl, sia il problema dei differenziali cognitivi tra
esperti e profani, sia quello dell‟intreccio tra aspetti tecnici e valoriali determinato dalla complessità delle questioni. Ai cittadini viene restituita la possibilità di stabilire democraticamente la soluzione più „giusta‟, nel doppio senso di moralmente corretta e tecnicamente adeguata.
2. Funtowicz e Ravetz. Secondo Funtowicz e Ravetz (F&R) i nuovi problemi ambientali, tecnologici, bioetici, hanno aperto una nuova fase scientifica, che essi chiamano, riallacciandosi a
Kuhn, scienza „post-normale‟. Tra l‟attività scientifica tradizionale e quella post-normale vi è
continuità ma anche differenze sostanziali. Le strategie di problem-solving variano infatti a seconda del tipo di problema, in base al livello di incertezza e alla posta in gioco (decision stakes),
la quale dipende dalle proporzioni di costi, benefici e parti coinvolte in una data questione. Gli
odierni dilemmi tecnologici presentano caratteri che li differenziano dai tradizionali problemi tecnici e scientifici. Si tratta spesso di questioni mondiali nella loro dimensione e di lungo termine
nel loro impatto; anche quelle locali hanno sovente confini spaziali e temporali non ben definiti,
mentre i dati sono non di rado insufficienti a comprendere i fenomeni, rendendo scarsa
l‟affidabilità di modelli e simulazioni. La scienza deve così fare i conti con incertezza, imprevedibilità, impossibilità di controllo completo e di conseguenza con „una pluralità di prospettive legittime‟ (1993: 739) su ogni problema.
Occorrono allora approcci nei quali i valori non vengono più tenuti fuori dall‟analisi o dati per
presupposti ma resi espliciti, e un‟estensione della legittimazione a partecipare al dialogo. Quando l‟incertezza e la posta in gioco sono molto elevate, la tradizionale contrapposizione tra hard
facts e soft values viene infatti invertita: sono i fatti a essere soft, discutibili, opinabili, non accertabili con sicurezza. L‟incertezza non è più quella classica, su quale sia la soluzione ottimale a un
problema ben definito. L‟incertezza è epistemologica, esprime i limiti della conoscenza scientifica
tradizionale. La partecipazione non serve allora solo a conseguire un consenso più ampio e stabile, bensì a elevare la qualità delle decisioni (Pellizzoni 1992). Il confronto fra sapere profano e
sapere esperto ha un valore non solo politico ma anche cognitivo: può migliorare la conoscenza.
Le comunità locali, in particolare, devono essere legittimate a partecipare alla discussione non solo in nome di un principio democratico, ma per il fatto di essere in possesso di una propria competenza, un bagaglio cognitivo diverso e non sostituibile da quello degli esperti. Chi vive da anni
in un certo luogo, chi è direttamente coinvolto in un problema, può essere in grado di cogliere aspetti che gli esperti trascurano, dando loro un rilievo maggiore di quello attribuito dai tecnici
nell‟applicare al singolo caso il loro bagaglio di cognizioni generali e astratte. Questo significa
accogliere una concezione „estesa‟ dei dati importanti, includendovi aneddoti, surveys informali,
percezioni soggettive e più in generale materiali raccolti con metodi non scientifici.
L‟ampliamento della peer community implica l‟ampliamento dei fatti rilevanti. Esempio emblematico del nuovo paradigma è per F&R la vicenda dell‟AIDS, dove la peer community oggi
comprende pazienti, famiglie, istituzioni di assistenza, giornalisti, filosofi, gruppi commerciali,
comitati di raccolta di fondi. Questi soggetti influiscono sul lavoro dei ricercatori, discutendo gli
approcci al problema, le direzioni di ricerca, i tipi di soluzioni proposte.
L‟estensione delle peer communities e dei fatti rilevanti è necessaria affinché la scienza offra
un valido supporto alla decisione. F&R non definiscono, a differenza di Dahl, un quadro istitu-
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zionale in grado di garantire un dialogo produttivo tra esperti, politici e profani, ma attribuiscono
comunque un ruolo fondamentale all‟educazione e alle tecnologie della comunicazione.
Come si vede, per Dahl come F&R le prospettive di valore si legano a corsi d‟azione differenti,
che non possono essere giustificati sul piano esclusivo della cognizione scientifica: occorre quindi
allargare il numero di coloro che partecipano al dibattito. Tuttavia, la lettura dell‟intreccio tra conoscenze e valori, scienza e morale, è diversa. Per Dahl il punto centrale è che a superiore competenza tecnica non corrisponde superiore competenza morale. Per F&R è che la superiorità nella
competenza tecnica è oggi in molti casi fittizia, e dunque non solo il confronto assiologico ma anche quello cognitivo si deve svolgere su un piano di parità. Dahl intende i differenziali cognitivi in
senso quantitativo, come situazioni di vantaggio/svantaggio da ridurre il più possibile; F&R li intendono in senso qualitativo, come conflitti tra saperi diversi ma ugualmente preziosi che devono
riuscire a comprendersi. Per l‟uno si tratta di far sì che la gente prenda coscienza delle implicazioni morali delle scelte tecniche, per gli altri di far sì che vengano valorizzati tutti gli orizzonti
etico-cognitivi. Per Dahl il problema è che il dislivello di conoscenza esclude dal dibattito democratico alcuni soggetti, per F&R è che il dislivello di potere decisionale collegato alla supremazia
della scienza esclude il contributo potenziale di soggetti che non sono né tecnici né scienziati. Per
l‟uno tutte le prospettive assiologiche hanno eguale dignità e non devono essere oscurate dai differenziali cognitivi; per gli altri, vi è un‟influenza reciproca tra orizzonti assiologici e cognitivi.
5. Due visioni dei differenziali cognitivi e dei contesti comunicativi
Non mi dilungo sulle obiezioni che si possono sollevare nei riguardi di queste proposte. Di ciò
mi sono occupato altrove (Pellizzoni 1996; 1997). Le difficoltà e i problemi di una realizzazione
effettiva di ciascun modello sono notevoli, anche se F&R possono affermare che extended peer
communities sono di fatto già osservabili, soprattutto nell‟ambito della cosiddetta popular epidemiology (Brown 1997). Mi interessa invece sottolineare come il tipo di approccio ai differenziali cognitivi condizioni il modo di concepire la comunicazione tra esperti e profani.
Come si è visto, è possibile immaginare i differenziali cognitivi nel senso che gli esperti sanno
di più dei profani oppure nel senso che sanno cose diverse dai profani. Nel primo caso la conoscenza scientifica rimane l‟unica forma di conoscenza valida: il problema è che essa è male distribuita. Nel secondo caso la conoscenza scientifica appare come una fra le diverse possibili
forme di conoscenza: il problema è che a queste ultime non viene riconosciuto alcuna legittimità e
viene dunque negata la possibilità di intervenire a orientare le decisioni. Nel primo caso a essere
enfatizzato è il fatto che un maggior sapere si trasforma in potere. In particolare il potere di imporre agli altri i propri scopi, le proprie visioni del mondo, le proprie preferenze e così via. Il sapere tecnico garantisce la supremazia di assunti di valore che non sono stati oggetto di discussione democratica. Nel secondo caso a essere enfatizzato è il fatto che l‟incapacità di accettare
l‟esistenza e l‟importanza di saperi non scientifici comporta la rinuncia a costruire descrizioni e
soluzioni dei problemi più articolate, efficaci e condivise. In altre parole, il rifiuto di ammettere
che il sapere non è unico e non è separato dagli assunti di valore implica una perdita di efficacia
del policy-making.
In entrambi i casi si riscontra un deficit comunicativo, una mancanza di dialogo tra esperti e
profani. Non si dialoga con i profani perché si pensa che essi non abbiano nulla da dire dal punto
di vista cognitivo, al di là cioè della semplice espressione delle proprie preferenze, opinioni, desideri. Il recupero di dialogicità, di una autentica dimensione comunicativa impone dunque la conquista di una parità fra comunicanti. Tale conquista passa però per strategie differenti, come abbiamo visto. Nel primo caso si tratta di portare i profani al livello degli scienziati, farli diventare
competenti come gli esperti; nel secondo caso si tratta di portare gli esperti al livello dei profani,
di mostrare cioè che su questioni come quelle dei rischi tecnologici non esiste alcuna scontata su-
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premazia cognitiva degli esperti, ma anzi possono a volte essere i „profani locali‟ a saperne di
più.
Questo porta a sensibili differenze nel modo di concepire il contesto e i contenuti della comunicazione. Nel caso di Dahl ci troviamo di fronte a assemblee ristrette, costituite in modo formale e
opportunamente preparate, in cui si dibattono con eguale competenza da parte di tutti le implicazioni delle varie soluzioni tecniche ai problemi, analizzando in che senso, rispetto a quali gerarchie di valori stabilite, un‟opzione possa essere considerata preferibile ad altre. Nel caso di F&R,
ci troviamo in una situazione più informale, assemblee cui tutti i portatori di interessi partecipano
senza mediazioni e senza preventivo „adeguamento‟ cognitivo. Oggetto del dibattito è un confronto fra le diverse prospettive su un problema (inclusa la sua stessa definizione) e l‟enucleazione di
una soluzione preferibile da parte di tutti gli interessati (su cosa significhi „preferibile‟ tornerò tra
poco).
A prescindere da ogni altro genere di osservazioni, si può notare come dal punto di vista strettamente comunicativo sorgano in entrambi i casi varie difficoltà. In questa sede mi limito a menzionarne alcune. Per quanto riguarda Dahl, un primo problema è dato dall‟assegnazione a istituzioni indipendenti di esperti del ruolo di consulenza e „filtro‟ dell‟informazione: simili gruppi sono
conflittuali e manipolabili come ogni altro. Sembra in effetti contraddittorio immaginare, come fa
Dahl, una comunicazione neutrale (o in cui tutte le posizioni sono equamente rappresentate) tra
„consulenti‟ e membri dell‟assemblea, poiché se ciò fosse possibile non sarebbe nemmeno necessario ricorrere ai cittadini: gli esperti potrebbero giungere direttamente a soluzioni tecnicamente e
assiologicamente valide ai problemi. Che succede, inoltre, se dell‟assemblea fanno parte individui
che non hanno nessuna idea, nessun punto di vista personale sui temi trattati se non quello che
viene loro dall‟educazione intensiva cui vengono sottoposti? Non è improbabile che le informazioni ricevute da costoro trovino un aggancio alquanto labile con i propri valori e principi: gli esperti potrebbero così facilmente manipolarli, anche inconsapevolmente.
L‟influenza del pubblico sull‟agenda del dibattito è poi condizionata dall‟andamento del dibattito stesso, che si svolge secondo dinamiche cicliche, in gran parte non prevedibili o controllabili
(Hilgartner e Bosk 1988; Jasper 1988; Ungar 1992). Non è detto che le richieste della gente offrano sempre l‟indicazione migliore su come orientare la discussione, che quello di cui si vuole
parlare sia il problema più urgente e quello di cui non si discute più sia un problema superato.
Dare voce al pubblico non conduce di per sé a stabilire la giusta gerarchia dei problemi. Inoltre,
non basta proporre alle persone un‟informazione completa e comprensibile: occorre che esse siano interessate a recepirla e a ragionarci sopra. Questo problema si lega sia alla ciclicità del dibattito sulle varie issues sia al tema dell‟educazione: da questo punto di vista, la scuola pare
un‟istituzione centrale per la democrazia almeno quanto le istituzioni politiche.
Inoltre, il minipopulus non può essere considerato un organismo rappresentativo della popolazione anche perché se alcuni profani diventano, in certa misura, degli esperti, essi non rappresentano più la generalità dei cittadini né dal punto di vista cognitivo né (dato il legame tra i due aspetti) dal punto di vista assiologico. Dahl non considera questo aspetto per la ragione che ho indicato come essenziale nel precisare la sua posizione: perché per lui i profani sanno meno degli
esperti, e non cose diverse.
Quest‟ultima è, come si è visto, la prospettiva di F&R, ma ciò non significa che la loro posizione sia priva di difficoltà. Ci possiamo chiedere innanzitutto se sia sufficiente garantire a tutti
un‟eguaglianza formale nel diritto di accesso al dibattito, per far sì che le comunità dialoganti si
estendano realmente e che il dialogo sia produttivo. F&R insistono sull‟espansione della sfera
pubblica, ma anche a loro, come a Dahl, si può obiettare di trascurare l‟andamento ciclico del dibattito, che garantisce a chi se ne occupa professionalmente, cioè continuativamente, gran parte
del potere. In più è possibile che alcuni degli aventi diritto non vogliano per qualunque ragione
(mancanza di interesse, opinioni, tempo, capacità di sostenere pubblicamente le proprie tesi, fiducia nel dibattito e in chi lo gestisce ecc.) far sentire la propria voce. La mobilitazione collettiva
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può avere così un andamento „a pelle di leopardo‟: solo alcune prospettive vengono rappresentate
e elementi importanti per la discussione possono non venire alla luce. E‟ necessario tenere conto
anche di chi non partecipa? E in che modo?
Ma il problema sta anche all‟interno del dibattito. Esso presuppone la possibilità di intesa tra
esperti e pubblico, ma va osservato che i differenziali culturali creano presumibilmente difficoltà
tanto maggiori quanto più ampia e diversificata è la comunità dialogante. Le differenze linguistiche e cognitive, che sono all‟origine della separazione tra esperti e profani, non possono improvvisamente perdere la loro forza disgregativa. Al di là delle migliori intenzioni l‟opinione degli esperti può facilmente ancora prevalere. Consideriamo ad esempio quello che Boudon (1986) definisce „effetto autorità‟: idee, concetti, principi scientifici vengono trattati dal pubblico come scatole nere, poiché la loro accettazione dipende più dal prestigio di chi le formula che dalla riproduzione dei ragionamenti necessari per pronunciare un giudizio motivato. Ciò non è irrazionale:
semplicemente non abbiamo tempo, denaro, capacità sufficienti per acquisire una accettabile
competenza su ogni argomento. E‟ quindi probabile che le conoscenze in possesso del profano
risultino filtrate, inserite nei frames concettuali e narrativi della comunità scientifica, indipendentemente da un intento prevaricatore di quest‟ultima. Da un lato gli scienziati, per tenere conto dei
fatti estesi, devono tradurli in un linguaggio scientificamente accettabile; dall‟altro gli stessi profani sono portati ad accettare l‟autorità e la superiore forza argomentativa dell‟esperto (derivante
dall‟impianto teorico e dal supporto empirico strutturato di cui questi dispone). Non ultimo, gli
esperti spesso detengono il potere di decidere quali informazioni comunicare ai profani (a volte di
vitale interesse per costoro), collocandoli in una posizione di oggettiva debolezza. I fatti estesi di
cui parlano F&R possono finire insomma, per una ragione o per l‟altra, per assomigliare molto ai
„soliti‟ fatti scientifici. Alla tradizionale censura della scienza sugli extended facts può aggiungersi una sorta di autocensura da parte dei profani.
Quanto all‟educazione, essa può avere troppo poco successo o troppo: troppo poco perché
un‟infarinatura scolastica non permette ai profani di discutere efficacemente con gli esperti ma
può portarli semmai ad adottare più facilmente e passivamente linguaggio e frames di questi ultimi. Troppo perché, come già osservato a proposito di Dahl, l‟istruzione può condurre a
un‟uniformità di punti di vista assiologici e cognitivi tra esperti e profani, facendo perdere la ricchezza che viene dalla diversità.
In sintesi, da tutto il discorso svolto si possono ricavare quattro ordini di difficoltà comunicative tra esperti e profani che le proposte analizzate (e altre qui non considerate) non spiegano come
superare.
a) Il problema della manipolazione dell‟informazione.
b) Il problema della supremazia linguistico-argomentativa degli esperti nel dialogo con i
profani.
c) Il problema della perdita di contenuti cognitivi (e valoriali) da parte dei profani nello
sforzo di adeguarsi agli standard linguistico-argomentativi degli esperti.
d) Il problema dell‟esclusione o dell‟autoesclusione dalla conversazione da parte di alcuni
soggetti legittimati a parteciparvi (prescindendo completamente, qui, dalla questione dei
criteri di legittimazione a partecipare: quali sono, chi ha l‟autorità di definirli e di sedare
eventuali controversie al riguardo).
Possono forse le nuove tecnologie della comunicazione aiutare ad affrontare meglio, se non a
risolvere, una o più di queste difficoltà?
6. L’ambigua promessa delle nuove tecnologie della comunicazione
I protagonisti del dibattito sulla governance delle democrazie avanzate si sono spesso soffermati sulle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione, affiancandosi
all‟entusiasmo di molti specialisti del settore. Dahl e F&R non si sottraggono a questa tendenza:
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in entrambi i casi i nuovi media elettronici vengono considerati con favore, quale veicolo per
un‟intensificazione dello scambio informativo e del dibattito.
Se però mettiamo da parte per un attimo i luoghi comuni del futuro informatico, ci possiamo
chiedere perché i tecnocrati della comunicazione - cui la piena realizzazione di una „democrazia
elettronica‟ consegnerebbe un potere rilevantissimo - dovrebbero essere più affidabili degli altri
tecnocrati, di cui si vuole invece limitare lo strapotere. I fautori della rivoluzione comunicativa
basata sul computer obiettano che grazie alla loro potenziale pervasività, facilità di accesso e
struttura non gerarchica, i network informatici sembrano in grado di sfuggire alle usuali possibilità di censura e manipolazione, assicurando più trasparenza nei processi decisionali e incentivando
la partecipazione. In effetti, le esperienze di community networking sembrano parzialmente confermare queste possibilità teoriche (Guthrie e Dutton 1992). Tuttavia, quando si studia il possibile impatto delle tecnologie bisogna ricordare che vi sono vaste possibilità di interazione tra variabili tecniche, sociali e fisiche e non limitarsi a estrapolare il futuro incrociando le caratteristiche
di una tecnologia con gli attuali assetti sociali: una prassi, questa, che in passato ha portato a errori clamorosi (per l‟esempio del telefono si veda DeSola Pool 1983). I network informatici possono rendere più agevole la partecipazione, ma nuove linee di discriminazione sociale o territoriali
tra gli inclusi e gli esclusi dalla rete già si profilano (Thomas 1995). Essi intensificano lo scambio
comunicativo, ma ciò non significa che tutti i messaggi siano rilevanti, affidabili e sinceri. Il sovraccarico di informazione è già oggi un problema serio (Quarantelli 1997), e non è detto che un
dialogo interno a „comunità virtuali‟ sia sufficiente ad aiutare l‟individuo a vagliare la correttezza
e accuratezza di messaggi provenienti da organizzazioni e soggetti che seguono una propria agenda particolare. Nuove forme di manipolazione e controllo sono già apparse (Lyon 1994). Sembra
tra l‟altro che le persone mostrino minore cautela e scetticismo verso le fonti informative elettroniche rispetto alle fonti umane (Waern e Ramberg 1996), il che può avere a che fare con la facilità di accesso all‟informazione o con la sua stessa quantità. Comunicare in tempo reale è poi una
bellissima cosa, ma significa anche che un‟informazione di bassa qualità può essere diffusa direttamente e ampiamente (Quarantelli 1997).
Insomma, sembra che le nuove tecnologie della comunicazione non possano di per sé che riprodurre il gap esistente tra esperti e non esperti. La trasparenza e l‟apertura formale della comunicazione elettronica non impediscono che i suoi contenuti vengano distorti in vario modo o rimangano „scatole nere‟ per il cittadino comune. In questo senso, le potenzialità democratiche delle
tecnologie informatiche sembrano potersi tradurre sia in maggiore libertà e rapidità di scambio di
informazioni, sia in maggiori possibilità di manipolazione. Non solo, poi, la „virtualità‟ delle relazioni tra comunicanti rende più difficile il controllo individuale dell‟informazione, ma il fatto stesso di coinvolgere gli individui in un dialogo ad ampio raggio e formalmente paritario può portare
a una sovrastima delle proprie capacità di giudizio. Occorre dunque studiare con attenzione, e
senza pregiudizi in senso positivo o negativo, gli sviluppi della rivoluzione informatica.
7. Conclusioni
La conclusione di queste riflessioni non può che essere aperta. C‟è molto lavoro da fare per
comprendere meglio le dinamiche della comunicazione tra esperti e profani in una situazione in
cui i ruoli si stanno facendo mobili e in certa misura confusi. C‟è molto lavoro anche per individuare le strutture istituzionali al cui interno il dialogo possa svolgersi in modo il più collaborativo
e il meno conflittuale possibile.
Sia la proposta di Dahl sia soprattutto quella di F&R (e diverse altre apparse negli ultimi anni)
puntano in direzione dell‟idea di „democrazia deliberativa‟ (Dryzek 1990; Miller 1992): una democrazia basata sulla partecipazione attiva dei cittadini. Il dialogo, in questo contesto, dovrebbe
ispirarsi all‟idea di comunicazione non distorta avanzata da Habermas o a qualche concetto affine.
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Habermas è stato criticato sotto molti punti di vista, alcuni dei quali si possono collegare alle
obiezioni sopra accennate nei confronti delle proposte di Dahl e F&R. La principale debolezza
della sua teoria non sta però, come spesso si è sostenuto, nell‟irrealtà e irrealizzabilità degli assunti. Essa infatti manterrebbe intatto il suo valore anche se dovesse servire come un ideale cui
tendere nella concreta prassi politica: ruolo che Habermas tende in effetti ad assegnarle negli
scritti più recenti (1996, 1997). La debolezza, che in posizioni come quella di F&R si traduce in
un‟ambiguità non risolta sugli obiettivi dell‟extended peer review, sta nel fine della discussione,
individuato nell‟ottenimento di una soluzione „preferibile‟ ai problemi, intendendosi per preferibile la soluzione valutabile come ottimale allo stato delle conoscenze. Tale soluzione, nella prospettiva di Habermas, è quella che ottempera alla regola di universalizzazione, secondo cui una norma può essere considerata valida quando „tutti possono accettare liberamente quelle conseguenze
e quegli effetti secondari che prevedono derivare, per la soddisfazione degli interessi di ogni singolo individuo, da un‟osservanza universale della norma discussa‟ (Habermas 1989: 103). Detto
altrimenti: „nelle norme valide i risultati e le conseguenze secondarie che probabilmente derivano
da un‟osservanza universale per il soddisfacimento degli interessi di ciascuno devono poter essere
accettati senza costrizione da tutti‟ (Habermas 1994: 8). La soluzione a un problema tecnologico
dovrebbe quindi prevedere un accordo generale su una norma o una gearchia di valori da cui discende una scelta ottimale, nel senso che le sue conseguenze sono nell‟interesse di tutti i soggetti
coinvolti.
L‟incertezza epistemologica tipica di molte questioni tecnologiche, bioetiche, ambientali, rende
però tale regola impossibile da rispettare, poiché le conseguenze di una scelta e chi ne sarà affetto
divengono opinabili: la risposta dipende dagli orientamenti di valore che, secondo Habermas, tale
definizione dovrebbe servire a valutare (Pellizzoni 1996). Né una risposta a questa difficoltà
sembra poter venire dalla strada seguita di recente da Habermas (1996) nel distinguere questioni
morali, per le quali sarebbe applicabile la regola di universalizzazione, e questioni etiche, che
ammetterebbero solo compromessi equi: la distinzione tra le due categorie è in se stessa altamente
incerta e discutibile (Pellizzoni 1996; Ferrara 1994), come lo stesso Habermas ha finito per ammettere157.
Se insomma l‟ideale di democrazia deliberativa propugnato dall‟Etica del Discorso di Habermas sostiene che la pubblica discussione, qualora condotta in condizioni di parità tra i partecipanti e apertura alle ragioni di ognuno, è in grado di produrre una soluzione tecnicamente preferibile
a tutte le altre al momento disponibili, in quanto corrispondente alle finalità concordate e quindi
all‟ordinamento assiologico stabilito (in particolare ai criteri di giustizia e equità adottati), bisogna riconoscere che laddove vige una grande incertezza sugli aspetti essenziali di un problema e
sulle possibili conseguenze delle scelte, una simile soluzione è indeterminabile. A questo punto si
aprono due strade per il dialogo: o esso va avanti all‟infinito, e diviene quindi una discussione filosofica completamente staccata dalle esigenze della decisione politica, oppure esso viene troncato a un certo punto, quando la decisione si fa impellente. Ciò è lecito, dal punto di vista dell‟Etica
del Discorso, solo qualora le decisioni siano reversibili (Dellavalle 1994). Ma questo, in molte
decisioni legate alle tecnologie, è impossibile, proprio perché gli effetti di una scelta non sono
prevedibili con una qualche precisione e attendibilità. L‟interruzione del dialogo e la decisione divengono così arbitrarie, sfociando facilmente nel conflitto.
C‟è una via di uscita a tutto ciò? C‟è un modo per evitare che la discussione tra esperti e profani (e tra gruppi di esperti o gruppi di profani) divenga un dialogo infinito o sfoci nel conflitto
che voleva evitare? A mio avviso c‟è, e consiste nel ridefinire l‟obiettivo della discussione. Se invece di cercare soluzioni „ottimali‟ e accordi su principi ci orientiamo a cercare soluzioni pratiche
e limitate a problemi pratici e limitati, allora forse possiamo sperare che il dialogo non solo duri
un tempo limitato ma produca un risultato condiviso. Il problema è semmai, a questo punto, capi2. L‟ammissione è avvenuta durante un dibattito svoltosi a Gallarate nel dicembre 1996, nell‟ambito del VII Incontro del Seminario di Teoria Critica.
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re come possiamo incentivare un atteggiamento cooperativo invece che strategico all‟interno della
comunità di discussione, e come possiamo fare per garantire una sufficiente stabilità nel tempo
alle decisioni assunte (Pellizzoni, in corso di stampa). Si tratta indubbiamente di questioni notevoli, ma che si può sperare di affrontare gradualmente in termini di affinamento degli strumenti di
governance, laddove l‟impostazione originaria di Habermas va incontro a difficoltà a mio avviso
insuperabili, tali da vanificare l‟impegno di chi, sulla scorta della teoria, si sforza di precisare le
condizioni di una comunicazione non distorta tra esperti e profani.
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La moltiplicazione delle cornici
di Marina Sbisà
Propongo qui alcune riflessioni sul tema delle cornici o frames, un elemento della nostra vita
sia cognitiva che sociale che si trova a giocare un ruolo di crescente complessità nella società
contemporanea, in connessione, fra l'altro, con il diffondersi delle tecnologie della comunicazione.
Illustrerò dapprima il concetto di cornice e la molteplicità che alle cornici è inerente, facendo
riferimento al pensiero del sociologo Erving Goffman e alla sua analisi dei modi in cui si organizza l'interazione sociale (1974, 1981, 1995). Successivamente cercherò di vedere come e con quali
conseguenze le cornici del nostro agire sociale si moltiplicano ulteriormente nella società contemporanea, in parte con il concorso delle tecnologie elettroniche.
1. Cornici e chiavi
Che cosa sono le cornici (o frames) secondo Goffman? Si tratta del fatto che azioni ed eventi
prendono sempre senso solo in un contesto, devono essere in qualche modo "incorniciati" per riuscire ad essere capiti da noi in qualche maniera. La stessa dualità di eventi ed azioni è un primo
sintomo della necessità di una cornice: infatti Goffman (1974) distingue due tipi di cornici, che
chiama primarie: la cornice primaria naturale e la cornice primaria sociale. Ciò significa che una
qualunque cosa che accade, se noi la incorniciamo inserendola in una cornice primaria naturale,
la interpretiamo e la comprendiamo nell'ambito di una catena di cause e di effetti, e ci appare
quindi come un evento; se invece la inseriamo in una cornice di carattere sociale, la comprendiamo piuttosto come azione di un soggetto. Già il fatto che non abbiamo un'unica parola per indicare sia le azioni che gli eventi, ma dobbiamo usare queste due parole diverse, indica qual è l'importanza delle cornici primarie: noi distinguiamo eventi da azioni non in quanto i fatti ci impongano
questa differenza, ma essenzialmente in quanto si tratta di "messe in cornice" basilarmente e fondamentalmente diverse.
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Vi sembrerà una cosa banale: se si tratta dell'azione di un soggetto, o se abbiamo a che fare
con un evento inserito in una catena causale, lo si capisce subito. Ma non è proprio così, perché
noi possiamo considerare l'azione dei soggetti, per esempio il comportamento delle persone, come
causata all'interno di una catena deterministica, degradandola ad evento; e all'inverso possiamo
considerare un evento naturale come azione di una forza in qualche modo personificata. Quest'ultima cosa non la fanno solo gli animisti; l'antropomorfizzazione di attori naturali si trova nel mito, nella fiaba, e da questi passa al nostro linguaggio quotidiano, diventando ancora più evidente
quando abbiamo a che fare con delle macchine. Si pensi per esempio a quando si parla della propria automobile personificandola ("Non vuole partire"), o persino ci si rivolge ad essa come se
fosse una persona. L'esistenza di queste possibilità mostra che la differenza fra azioni ed eventi
non si basa semplicemente su dati di fatto oggettivi, ma è la differenza fra due modi in cui noi
incorniciamo i fatti con i quali veniamo a contatto.
Naturalmente le cornici primarie non sono le sole due cornici: da sempre gli umani hanno lavorato a costruire cornici subordinate, che costituiscono diversi livelli di realtà. Fra le cornici subordinate hanno grande importanza quelle che Goffman chiama messe in chiave o chiavi (keys),
fra le quali un esempio altamente intuitivo è quello del gioco. Il gioco è qualcosa che noi facciamo, ma che non facciamo sul serio. Il gioco infatti non si trova collocato nella cornice primaria
sociale dell'azione, ma in una cornice ad essa subordinata, in cui alcune coordinate della nostra
comprensione di ciò che accade cambiano; quello che viene fatto per gioco non viene veramente
"fatto" nel pieno senso della parola, mentre quello che viene fatto nella cornice sociale primaria
viene effettivamente fatto a titolo completo. Nel gioco non si fa sul serio, si fa e non si fa.
Un altro caso di cornice subordinata citato da Goffman è quello delle cerimonie. I gesti che noi
compiamo per espletare una cerimonia, un rituale, sono quelli che sono, ma sono anche e soprattutto un qualcosa d'altro: gli anelli scambiati durante la cerimonia di matrimonio sono stati comprati dai due sposi, quindi non se li stanno regalando, ma il gesto dello scambio conta ai fini cerimoniali, indipendentemente da chi abbia messo il denaro per comprare i due oggetti che lì si fa
mostra di donare; la cosa importante non è tanto a chi appartenessero prima, e a chi appartengono dopo al gesto dello scambio, ma è il fatto che effettuando quel gesto si compie una parte della
cerimonia del matrimonio, che ha l'effetto convenzionale, istituzionale, di costituire un determinato legame tra le due persone. Le cerimonie sono dunque cornici subordinate: cambiano la nostra
comprensione di quello che accade.
Così pure sono cornici subordinate numerosi tipi di ridescrizioni e rifacimenti (potrei parafrasare così alcuni dei termini usati da Goffman per parlare delle messe in chiave). Esistono nella
società molte attività che vengono ridescritte o ricontestualizzate in quanto hanno scopi diversi da
quello che sarebbe lo scopo naturale, primario, dei gesti che vengono eseguiti. Un esempio semplicissimo è quello della visita medica. Qui la nudità del corpo o il toccare un corpo nudo non sono quello che sarebbero altrove; vengono ridescritti, perché hanno uno scopo, una funzione diversa, esprimono una diversa attività da quella che potrebbe svolgersi in un altro contesto, impegnano gli attori in ruoli diversi. Il buon selvaggio che appartiene a una tribù dove sia uso che lo stregone si tenga a distanza dal corpo del malato, e che non ha mai visto una visita medica, non può
capire che cosa succede, perché non ha la possibilità di costruire quella cornice subordinata particolare che fornisce la ridescrizione dei gesti nei termini di un nuovo tipo d'azione. Un rifacimento,
invece, si ha quando facciamo non veramente quell'azione i cui gesti comunque eseguiamo, ma
una prova, dimostrazione o esercizio. Si può guidare la macchina per andare da qualche parte,
oppure per fare esercizio di guida, magari con la scuola guida - e allora, se non è un vero guidare,
ci vorrà la macchina con i doppi comandi, oppure il cartello "P" che segnala i principianti. Per chi
guida come per chi fa esercizio di guida, le attività, i gesti, sono esattamente gli stessi; eppure chi
fa esercizio di guida non "guida" semplicemente, la sua attività può venir considerata come un rifacimento tecnico, appunto un fare esercizio o un fare pratica. Un altro caso di rifacimento è
quello delle dimostrazioni: se vi viene a casa il rappresentante che presenta un nuovo tipo di mac-
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china per le pulizie e vi fa una dimostrazione, non vi pulisce la casa, anche se dove avrà fatto
passare la sua macchina sarà più pulito di prima.
Tutti questi sono esempi di cornici, del tipo particolare delle messe in chiave. Spero che abbiano servito a chiarire il concetto su cui voglio ragionare.
2. Le cornici e il soggetto
Nel passaggio da una cornice all'altra cambia l'attività svolta, e cambia anche il ruolo dell'agente o, in un certo senso, l'agente stesso. Che cos'è infatti un soggetto agente? E' un'entità sempre correlativa alla sua azione: è il soggetto di una determinata azione, di una determinata attività, colui o colei a cui l'azione o attività possono essere ascritte, che ne è responsabile. Così anche
quando parliamo, siamo ogni volta il soggetto enunciatore di quel determinato discorso. Tenendo
presente questo, possiamo dire che quando si passa da una cornice all'altra non cambia soltanto
ciò che si fa, ma anche chi fa; l'agente assume una qualifica, un ruolo diversi, rappresenta per gli
altri un personaggio diverso (un uomo qualunque oppure un medico; un guidatore o un apprendista; un incaricato di fare le pulizie o un rappresentante di elettrodomestici).
Vi è anche un altro modo in cui il soggetto ha a che fare con i passaggi da una cornice all'altra.
Questi hanno luogo grazie a un ristrutturarsi complessivo della situazione, ma hanno anche i loro
segnali, che sta ai soggetti produrre e interpretare.
Ciò è particolarmente importante per le "chiavi" che sono un tipo di cornici che possono essere
efficacemente attive soltanto se vengono riconosciute come tali dai partecipanti. Tuttavia la nozione di cornice non è applicabile solo alle "chiavi" goffmanniane, ma può avere usi più estesi,
giungendo ad abbracciare tutti i tipi di contesto che sottostanno a qualche regola convenzionale o
a un insieme di aspettative socialmente stabilite. Anche in questi casi si entra e si esce dalla cornice in virtù dell'uso di segnali, sia non verbali che verbali. Goffman ha studiato molto attentamente i segnali di cambiamento di cornice (1974, 1981); questo studio è proseguito in molti altri
contesti, anche di carattere sociolinguistico. Così, nelle ricerche pragmatiche e sociolinguistiche
sull'interazione verbale si fa molta attenzione a quelli che sono gli indicatori verbali, le marche
linguistiche e paralinguistiche presenti nel discorso, che aiutano a contestualizzare il discorso
stesso, e quindi a capire qual è l'attività comunicativa che il soggetto intende svolgere (si pensi
alla nozione di contextualization cues in Gumperz, 1982). Tono di voce, gesto, posizione del corpo, direzione dello sguardo possono tutti servire a un passaggio di cornice; e inoltre, naturalmente, può esservi l'uso di determinate parole-chiave, o anche semplicemente un cambiamento di lessico, di registro: lo stesso passare del discorso da un registro informale a uno formale o tecnico
può segnalare il passaggio da una cornice ad un'altra. Per esempio, quando incomincia una lezione? Dalle chiacchiere del più e del meno prima della lezione, cui può partecipare anche l'insegnante, all'inizio effettivo della lezione (benché in molti casi siano presenti altri segnali sia verbali
che non verbali) si può passare anche solo in questo modo - tramite un cambiamento di registro.
Si noti che capire quale attività un soggetto sta svolgendo significa contemporaneamente capire
come quale tipo di soggetto colui che parla intende presentarsi: si presuppone infatti che l'agente
sia qualificato per l'azione o attività che svolge. Così, anche il soggetto enunciatore si qualifica in
modi diversi a seconda di qual è il tipo di attività comunicativa che segnala di star svolgendo.
3. Le cornici e il mondo di oggi
Come agiscono le cornici nella società contemporanea? Mi sembra importante che ci si renda
conto che nella società di oggi vi è una moltiplicazione sia di cornici che di soggetti. Le nostre identità sono multiple, non possono essere racchiuse da definizioni univoche. Ma ciò dipende, se
non esclusivamente, perlomeno anche dal fatto che siamo continuamente coinvolti in una serie di
contesti in cui giochiamo in modi diversi.
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Possiamo fare un esempio molto banale, direi quasi di maniera: la questione femminile. Tradizionalmente - prima ancora della rivoluzione industriale - le donne avevano nella società determinate funzioni che circoscrivevano in modo relativamente saldo una loro sfera d'azione. Identificarsi con queste funzioni era possibile e forse relativamente pacifico, poiché non si percepivano
drastici cambi di contesto e di tipo di attività. Nel momento in cui, nella società contemporanea,
lavoro e casa sono ormai due contesti distinti, e un essere umano di sesso femminile vi è impegnato con ruoli diversi, c'è invece un continuo cambiare cornice; la persona, apparentemente, è la
stessa, si tratta di uno stesso individuo, ma passando da un contesto all'altro impersona due attori
sociali distinti.
Beninteso, non sempre il passaggio di cornice è legato al passaggio da un ruolo all'altro; può
anche essere legato alla sospensione momentanea dell'esercizio di un ruolo. Pensiamo a una pausa
sul lavoro e ai colleghi che vanno al bar: la cornice "conversazione al bar" comunque comporta
un tipo di interazioni diverse rispetto alla cornice "lavoro", anche se è proprio in quanto colleghi
di lavoro che le persone in questione vanno al bar insieme. Se pensiamo alle situazioni in cui ci
troviamo quotidianamente, in una società ricca di funzioni distinte e ampiamente percorsa da istituzioni diversificate, troviamo molti possibili esempi di passaggi di cornice, alcuni dei quali neppure pensabili in una società caratterizzata da una maggiore staticità, e da una maggiore se non
totale aderenza del singolo individuo a un raggio di funzioni predeterminate. I passaggi di ruolo
della lavoratrice a moglie/madre di famiglia e viceversa non sono infatti un caso isolato; era accettabile in passato, non solo che l'appartenenza al sesso femminile assegnasse un individuo a un
certo raggio di funzioni, ma anche che l'appartenenza a una certa famiglia assegnasse il figlio a
un certo mestiere; noi invece siamo continuamente chiamati a fare scelte, a decidere che ruolo assumere o in che cornice metterci, e per giunta ci si richiede di essere più cose diverse e a volte
persino indipendenti l'una dall'altra, inserendoci, trasformati, di cornice in cornice.
Ma vediamo adesso un altro aspetto della questione: esistono nella società contemporanea, anche grazie alle tecnologie elettroniche, nuovi modi di identificazione. Alcuni di essi hanno, paradossalmente, un potere identificatorio nuovamente capace di attraversare più contesti; altri sono
specifici per un certo contesto e una certa funzione del soggetto. Il codice fiscale, per esempio, ha
costituito una grande evoluzione nell'identità delle persone, perché mentre prima avevamo tutti
quanti nome, cognome, indirizzo - le nostre generalità - e queste in certi casi potevano anche essere problematiche (pensiamo all'omonimia o al doppio cognome delle donne sposate), ora ciascuno
di noi è identificato con una sigla, assegnata una volta per tutte e utilizzabile in molti contesti.
Certo, alla potenza identificatoria del codice fiscale sul piano pratico non si accompagna un'adesione soggettiva; non ci identifichiamo con il nostro codice fiscale, di cui non ci importa nulla,
mentre ci identifichiamo tuttora come persone mediante le nostre generalità. Il codice fiscale, nonostante la sua potenza o forse proprio a causa di quella, rimane limitato a usi di carattere economico o burocratico.
Oltre che persone con delle generalità, e codici fiscali, siamo anche in certi casi numeri di telefonino, indirizzi e-mail, o siti Internet. Siamo la stessa cosa e la stessa persona, siamo lo stesso
soggetto sotto tutti questi punti di vista? Si e no.
Torniamo per un momento al caso delle generalità e del doppio cognome delle donne sposate.
Qui mi identifico come prof. Sbisà, se vado a scuola alla riunione dei genitori sono invece la signora Tommasi, sono due persone? Bè, no, ma in un certo senso sono due soggetti, due diverse
istanze soggettive, perché svolgo ruoli diversi in cornici diverse. Così come assegnataria di codice
fiscale sono un soggetto economico, e nell'e-mail sono una casella dell'Università di Trieste, il
terminale cui arriva e da cui parte un certo raggio di corrispondenze.
In questa prospettiva che correla cornici, attività e soggetti ci si può interrogare anche sull'effetto, in qualche modo strutturante la soggettività, che ha su di noi l'uso del computer e in particolare quello di determinati tipi di software. Anzitutto, molti software ci chiedono di identificarci
mediante user name e password: non conta chi usi fisicamente il programma, conta che sappia
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identificarsi come un utente autorizzato. D'altra parte chiudendo una sessione di lavoro al computer una delle opzioni offerte può essere "riapri come altro utente", e evidentemente non conta se è
la stessa persona che continua a lavorare. Voi uscite da un programma come un utente, e rientrate
come un altro utente, siete due soggetti nella relazione con il computer. E consideriamo inoltre
com'è fatto Windows: tutto con icone e finestre. Ci sono finestre attive, finestre sovrapposte, finestre nascoste ai margini dello schermo. L'utente è un agente in ciascuna di quelle finestre, ciascuna delle quali permette e definisce una particolare attività. L'utente non è dunque un unico agente, è in qualche modo un agente doppio, triplo, quadruplo, che in ognuna di quelle cornici può
fare operazioni diverse, e magari tenere un'operazione ferma a un certo stadio, e intanto farne
un'altra. Il passaggio tra l'agire in un modo e l'agire in un altro è legato al passare da una finestra
all'altra, finestre che in fondo equivalgono a cornici, e che forse possiamo vedere come metafore
visive della stessa nozione di cornice di cui qui stiamo discutendo.
4. Alcune reazioni
Vorrei ora passare a considerare alcune conseguenze del moltiplicarsi delle cornici nella società contemporanea, che abbiamo visto essere enfatizzato anche se evidentemente non provocato in
prima battuta dalle tecnologie elettroniche.
Si evidenziano tre possibili reazioni: la nostalgia, l'illusione (o viceversa disperazione), l'approfondimento critico.
4.1. La nostalgia consiste nel desiderare l'unità della persona, il ricompattamento dell'individuo, nella radicata convinzione che nei tempi andati tutto ciò esistesse davvero (e nelle forme in cui
oggi è possibile sentirne la mancanza). Una fonte di individualità univoca o supposta tale è costituita da gruppi e comunità, a volte fondamentalisti, l'adesione ai quali fornisce al soggetto un'identificazione forte, al patto però di essere riassorbito nel gruppo. Quando un individuo si riconosce totalmente ed esclusivamente come membro di un gruppo, allora egli ha l'impressione di essere una persona unica, e di essere sempre e solo quello stesso "se stesso". Si tratta però di un'operazione estremamente pericolosa, perché la comunità può dare l'illusione di una individualità univoca, ma proprio al patto di minacciare la libera individualità del soggetto. Sono manifestazione
di una strategia di nostalgia anche le enfatizzazioni dell'individuo psicofisico come naturalmente
"persona", visto che questo concetto è profondamente messo in forse dall'esperienza dei passaggi
da cornice a cornice.
Quanto sto dicendo non significa che io ritenga che questioni come la dignità della persona o il
rispetto della persona siano cose di poco conto. Io credo invece che siano questioni etiche fondamentali, che nel contesto contemporaneo vanno comprese e approfondite sullo sfondo di quella
che è la nostra esperienza frammentata e dinamica della soggettività. Le strategie di nostalgia, in
conclusione, o "lasciano il tempo che trovano", o possono addirittura riuscire pericolose.
4.2. C'è poi una secondo tipo di reazione, l'illusione, che ha luogo quando si è molto felici della
dinamicità del soggetto, del suo saltare di cornice in cornice trasformandosi. Quest'esperienza può
infatti essere presa come una forma di libertà, di liberazione dal peso della propria individualità
psicofisica a cui temevamo di essere inchiodati, di potenziamento tendenzialmente illimitato delle
proprie sfere d'azione. La possibilità di scambiare il passaggio da cornice a cornice con una maggiore libertà dell'individuo si ritrova anche al di fuori dei contesti informatici: non a caso la dualità di contesto casa-lavoro è stata chiamata "emancipazione" femminile. Ma l'impressione di un
potenziamento del sé ha spesso una stretta relazione con l'uso di tecnologie elettroniche. Così
Internet ti fa arrivare dove fisicamente non potresti, ti regala la gioia di un contatto con chi altrimenti ti sarebbe irraggiungibile, può farti credere d'essere vicino all'onniscienza. Ma persino
Windows, con la possibilità di tenere aperti più files, può essere fonte di una illusione di potenza:
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un soggetto, utilizzando questo strumento, pensa di essere diventato più bravo, un Cesare che detta più lettere in una volta.
Un altro importante elemento generatore d'illusione è costituito dall'esasperazione della dimensione ludica: che si esplica per esempio nelle reazioni entusiaste alla "realtà virtuale", oppure nello stesso uso di Internet, nel navigare giocosamente, nel perdersi nella navigazione. Al gioco si
associa, non più l'illusione di onniscienza, ma quella di una sorta di onnipotenza, un'indiscernibilità dei limiti del proprio agire.
Ma l'illusione ha una faccia oscura. Infatti, quale soggetto è quello che godrà dei vantaggi della
libertà, del gioco, del potenziamento del sé, se questo sé è frammentato in tanti soggetti, se dunque un vero soggetto non sussiste? L'illusione si rivela come tale, e può convertirsi in disperazione. Si parlerà allora di indebolimento o morte del soggetto, di debolezza del pensiero, di instabilità, decostruzione o persino perdita del senso, con un'insistenza e un'implicita ansietà che indubbiamente colgono qualcosa che effettivamente esiste nella società e nella cultura contemporanee,
ma che restano sterili a causa del loro tono vagamente masochistico, che non va oltre al rovesciamento speculare del tono autocelebrativo dell'illusione.
4.3. Come terza possibilità di reazione, vorrei proporre le seguenti considerazioni. Io penso che
sia possibile e costruttivo tentare di approfondire la situazione creata dal moltiplicarsi delle cornici, come dato di fatto che non è modificabile come vorrebbero le reazioni ispirate alla nostalgia,
ma neanche ingestibile, come sembrano implicare le reazioni improntate a disperazione.
Quest'approfondimento dovrà anzitutto tener conto di un fatto molto importante: i soggetti, ininterrottamente, non sono soli, ma sempre in interazione con altri soggetti all'interno delle cornici in
cui si trovano. A mio modo di vedere, un primo passo sarà quello di riuscire a capire l'importanza
dell'interazione tra soggetti, e il fatto che non è la singola scelta del soggetto, ma questa interazione - quindi il feedback dell'altro - a permetterci di definire o ridefinire, in ciascun contesto, la
soggettività (Sbisà 1989, 1996).
Un altro aspetto parzialmente connesso a questo, che può condurre a un approfondimento, consiste nel rendersi conto che, in ultima analisi, il soggetto partecipa alla "sua propria" trasformazione di cornice in cornice, se non altro perché mette in atto procedure e offre segnali che comportano il passaggio da una cornice all'altra, e che sono efficaci proprio in quanto intersoggettivamente recepiti. Questo ci permette di affermare che non è vero che la soggettività risulta completamente frammentata: rimane il delicato legame tra uno stadio e l'altro del soggetto, che comunque deve essere gestito dai soggetti stessi (e intersoggettivamente), perché è il soggetto che, in
fin dei conti, mette in atto le procedure di passaggio da un contesto all'altro, ed è in grado di segnalare questo passaggio a un altro soggetto, da cui vuol essere capito. Senza misconoscere l'aspetto parzialmente frammentato e dinamico della soggettività che intravediamo nel moltiplicarsi
delle cornici, c'è spazio, a mio avviso, per riconsiderare la nozione stessa di soggettività e il ruolo
estremamente importante dei soggetti, della loro interazione, del loro mutuo riconoscimento sia
all'interno di ciascuna cornice, sia nel passaggio da una cornice all'altra.
Infine, vorrei accennare a un altro aspetto da approfondire: la questione, cui Goffman giustamente accenna, ma che spesso è trascurata o misconosciuta, dell'esistenza di uno sfondo di risorse
psicofisiche, che sole possono permettere a ciascun soggetto le proprie operazioni. Nelle interazioni sociali interpersonali o informatiche possono agire ventimila soggetti frammentati, ma se
non esiste un certo "grumo" di risorse psicofisiche al di sotto di questi, nessuno di questi può agire o parlare né passare più o meno allegramente da una cornice all'altra. Questa necessità
dell'"ancoraggio" è un po' la spada di Damocle di tutta la moltiplicazione delle cornici e dei soggetti, come pure il tallone d'Achille delle tecnologie elettroniche (e se qualcuno desse una martellata al mio computer? dove vanno il sapere e saper fare che io possiedo come suo utente, i miei
contatti elettronici, le mie illimitate potenzialità? alcune forme di soggettività con cui sono abituata a identificarmi andrebbero distrutte, o perlomeno momentaneamente sospese). Questo proble-
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ma dell'"ancoraggio" che, si noti bene, non è identità e appiattimento dei soggetti rispetto a un individuo psicofisico, ma individuazione di una dipendenza, in qualche modo di un "debito", non
deve essere affrontato in maniera superficiale, ricadendo nel discorso della nostalgia; l'appiattimento corrisponderebbe a un impoverimento di significato, a una rinuncia a capire i fenomeni.
Ma è chiaro che la modestia, la conoscenza del limite, il riconoscimento e rispetto del limite proprio e dell'altro, che derivano dalla consapevolezza dell'"ancoraggio", possono essere degli ingredienti-guida nella gestione delle interazioni e quindi delle forme di soggettività anche in scenari
moltiplicati.
5. Riferimenti bibliografici
Goffman E., Frame Analysis, New York, Harper and Row, 1974.
Goffman E., Forms of Talk, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1981, tr.it. Forme
del parlare, Bologna, Il Mulino, 1987.
Goffman E., "Introduzione a 'Frame Analysis'" (trad. it.), Aut Aut 296, pp. 17-34, 1995.
Gumperz J., Discourse Strategies, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.
Sbisà M., Linguaggio, ragione, interazione, Bologna, Il Mulino, 1989.
Sbisà M., "Il soggetto al femminile. Dimensioni d'analisi", in Borghi L. e Svandrlik R.,
S/Oggetti immaginari, Urbino, Quattro Venti, pp. 63-75, 1996.
I rapporti interpersonali nella comunicazione in ambiente
virtuale. Strategie e sviluppi
di Mariselda Tessarolo
1. Premessa
Tutte le forme di comunicazione prendono come proprio modello la comunicazione interpersonale o faccia a faccia. Tale comunicazione è caratterizzata da interpersonalità e immediatezza, è
di tipo orale, quindi frammista all'azione e, di conseguenza, in essa prevale la funzione mediatrice
dell'azione.
Il carattere interpersonale di questa comunicazione ha alcune importanti implicazioni che consistono nella facilità di adattamento reciproco tra i comunicanti e in un impiego considerevole di
soggettività. Si ottiene inoltre una facile retrocomunicazione e quindi un adattamento reciproco
oltre che un'eventuale comunicazione supplementare. Di notevole importanza è l'attivazione di
canali secondari ausiliari, mimica e cinesica, utilizzabili sia in diretta che in retrocomunicazione,
canali che diventano particolarmente utili ai fini comunicativi (sguardi, cenni, assensi e tutto
quanto va a far parte della paralinguistica). Nella comunicazione interpersonale esiste inoltre la
possibilità di riferirsi alla situazione di comunicazione mediante le rispettive posizioni (prossemica) e le indicazioni gestuali. La natura immediata che caratterizza l'oralità porta a una notevole
quantità di stimolazione che perviene al ricettore tramite aspetti paralinguistici (pause, intonazioni, eccetera); a una certa quantità di ridondanza, causata dal rumore che entra nel canale e, infine,
all'impossibilità di riportare indietro il messaggio se non chiedendo all'emittente di ripetersi (Braga, 1977; Tessarolo, 1991).
La comunicazione interpersonale può essere considerata anche ad un livello macrosociale in
cui viene attuata, sempre personalmente, mediante il linguaggio verbale presentando opportunità
d'impiego a seconda dei gruppi sociali in cui è inserita e diversificandosi in funzione della struttura della società: comunità, gruppi etnici e religiosi, classi sociali, attività professionali, classi di
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età e altro. La comunicazione interpersonale, a livello microsociale, assicura l'immediatezza dello
scambio comunicativo e i rapporti sociali assumono un grado elevato di ripetibilità includendo
rapporti di scambio, di utenza e di consumo con variazioni tollerate di stile (Tessarolo, 1991, pp.
67-68).
La comunicazione faccia a faccia utilizza strumenti biologici dai quali si separa quando, per
comunicare, vengono usati supporti strumentali che distaccano la comunicazione dalla biologicità
della persona e le si pongono di fianco. Tra le prime tecnologie inventate dall'uomo si trovano tutte le forme per fissare la visione (graffiti, pittografie, scultura) seguite dalle tecniche scrittorie che
hanno portato alla formazione di una "memoria sociale" dando la possibilità di comunicare a distanza. Non inganniamoci pensando che queste comunicazioni siano "unilaterali", poiché la comunicazione, per sua stessa definizione, è sempre un processo circolare attraverso il quale il messaggio passa da uno o più comunicanti ad altri. Non si deve, infatti, confondere il cosiddetto "livello neutro" cioè l'artefatto, il messaggio nella sua materialità, con il processo comunicativo che
avviene nel momento in cui tale messaggio viene attivato con la lettura o con l'ascolto. La rivoluzione tecnologica della comunicazione umana, inoltre, ha portato anche all'aumento dei processi
diffusivi, alla nascita di nuovi tipi di canali e allo sviluppo della telematica.
2. Spontaneità e "formato"
Goffman (1989) offre la possibilità di indagare all'interno dei "nuovi" tipi di comunicazione introducendo la nozione di "formato di produzione" che permette di capire come gli eventi linguistici avvengono all'interno di situazioni sociali chiarendo le possibili comunicazioni secondarie e i
fenomeni di collusione e di allusione. Lo stesso vale per il concetto di "schema di produzione"
che, oltre a facilitare i diversi tipi di eventi linguistici (ad esempio uno speaker radiofonico o televisivo, un traduttore simultaneo, l'attore che recita una poesia) funzionano istituzionalmente attraverso la capacità di diventare una macchina fonica che dà vita a un testo di cui non è né autore
né responsabile; mentre nel parlato, spontaneo e informale, le funzioni di animatore, autore e
mandante sono generalmente sovrapposte nella stessa persona (Giglioli, 1987, p. 17). In ogni
conversazione, sia formale che informale, queste funzioni vanno tenute analiticamente distinte,
perché ciascuna proietta un particolare self e implica un'identità che può essere non accettata dalle altre.
3. La virtualità e l'interpersonalità
La telematica si situa tra il primo e il secondo livello di comunicazione pur utilizzando tecnologie avanzate 158. Dall'agire simbolico a quello performativo, quando sono connessi in modo tale
che lo spazio percettivo e di azione sia condiviso, si ottiene il dialogo
1. Alcuni autori parlano di superamento della forma di comunicazione "unilaterale" dei mass media verso una forma
di comunicazione "bilaterale" e reciproca tramite media individuali. Come detto sopra l'uso dei termini unilaterale e
bilaterale è impropria, se non addirittura scorretta. L'utilità euristica dell'accettazione della tipol ogia braghiana dei
livelli comunicativi porterebbe ad evitare molte banalità in questo campo. Braga (1974) infatti parla di tre livelli,
interpersonale, culturale e di massa, che si differenziano principalmente per la struttura e non tanto per il flusso
culturale. Non si deve dimenticare che anche quando non sembra esserci risposta, la si deve ritrovare o in un altro
sistema simbolico, o in un'azione o nel rifiuto di comunicare. Il non capire, e quindi il non comportarsi da comunicante, non è comunicazione (neppure a una via). Si pensi, infine, alle notevoli sanzioni che nelle diverse società ha
il "parlare da soli". L'introduzione del termine "a una via" e "a due vie" credo debba essere attribuito a Watzlavich
et al (1971) quando parla di "doppio legame". Probabilmente tali termini possono essere adeguati alla comunicazi one "patologica". Infine non si deve dimenticare che la comunicazione culturale e quella di massa producono artefatti
111
L'idea di una metamorfosi telematica dei mass media in media individuali intende ricreare con
mezzi tecnici l'ordine comunicativo del dialogo in condizioni di assenza spazio-temporale dei comunicanti (dialogicità telematica) (Kramer, 1995, p. 113). Ma questa non sembra essere la via
più adeguata in quanto anche la comunicazione telematica troverà delle forme simboliche particolari come l'interpunzione introdotta con l'uso della scrittura. L'idea persistente, che consiste nel
tentativo di ricreare l'oralità con strumenti elettronici, risale a McLuhan che riteneva che la neutralizzazione delle differenze spaziali e temporali con i media elettronici potesse riportare in vita
le modalità comunicative della cultura orale 159. In questo approccio la crescente importanza delle
metafore riferite al dialogo mostra che il grado di presenza sociale e di vicinanza che una tecnica
di comunicazione può rendere disponibile in modo compensativo, in condizioni di assenza spaziotemporale di coloro che comunicano, diventa il punto di riferimento e il criterio per giudicare la
telecomunicazione computerizzata (Short, Williams, Chritie, 1976; Chilcoat, De Wine, 1985;
Kiesler, Sproull, 1991).
I miti che circondano la comunicazione telematica consistono nell'idealizzazione del dialogo
presente nella comunicazione interpersonale, in cui si attua la presenza e l'immediatezza. E' questo il prototipo e il modello di tutte le forme di comunicazione. Un secondo mito può essere ricercato nel modello antropomorfo di tecnica: la funzione delle tecniche di comunicazione consiste nel
ricreare una situazione familiare in situazioni comunicative pretecniche e interazioni naturali
(Kramer, 1995, p. 114) 160.
Sarebbe quindi più opportuno non usare metafore relative al dialogo, bensì alla scrittura e, in
particolare, a quella elettronica. La testualità telematica, infatti, incorpora una modalità di scrittura che si distingue da quella tradizionale principalmente quando si tratta di ipertesti in cui si
dissolve l'unità del testo fondata sull'autore (Kramer, 1995, p. 115).
L'interattività telematica dischiude una forma di comunicazione sconosciuta. Diversamente dalle situazioni di dialogo la comunicazione nella rete elettronica rimane impersonale e anonima e,
diversamente dalle situazioni di lettura, il testo generalizzato viene sostituito da un testo contingente e singolare.
L'interattività telematica si ha quando:
1. nella rete elettronica si interagisce con strutture di dati e non di persone 161;
2. per questo si prescinde dagli aspetti illocutivi (cioè paracomunicativi) dell'attività simbolica
162
;
3. le interazioni nella rete hanno status di gioco;
4. l'universo di dati leggibile dalla macchina è l'esteriorizzazione del principio dell'intertestualità;
5. si fonda una nuova memoria collettiva 163.
Per quanto riguarda il primo punto, utilizzando l'interattività telematica si interagisce con le
strutture e non con le persone (come nella telecomunicazione, nella ricerca dati e nelle banche dache vanno a finire nella memoria sociale e che diventano "comunicazione" quando vengono "attivati" da un comunicante. Per un approfondimento vedere Tessarolo (1991; 1997).
2. Tale idea è in realtà curiosa. Potrebbe valere per quanto riguarda la teleconferenza o la permanenza in video dei
due comunicanti, altrimenti non si vede come possa essere diversa ad esempio dall'uso del normale telefono cellul are, via cavo o videotelefono, anzi quest'ultimo avrebbe molti più vantaggi rispetto al computer.
3. Ci si rende conto che già la scrittura e il telefono non corrispondono più al "prototipo" in quanto nella prima
manca la presenza dei due comunicanti e la simultaneità, nel secondo la presenza faccia a faccia.
4. I dati non si creano da sé, sono i soggetti che li fanno. Questo anche se si pensa al programma Aschi. Lo stesso
succede con l'alfabeto fonetico solo che in questo caso, non ci si chiede più il perché e il come. I caratteri Aschi fu nzionano da programma nascosto che viene attivato usando la tastiera.
5. Anche in questo caso non è del tutto vero: la scrittura telematica usa le "icone" e impiega anche l'interpunzione
come qualsiasi tipo di scrittura.
6. Questa memoria è di tipo particolare perché in continua modifica e non in continuo accumulo, anche se una volta
cancellata, l'informazione può essere recuperata con programmi particolari.
112
ti). Le reti mediate da computer, inoltre, interagiscono sempre con testi (ovvero con strutture digitalizzate di simboli) e non con persone. E questo vale anche per i gruppi di discussione su temi
specifici e per le comunità virtuali in Internet. Questa convinzione nasce dal fatto che si tende a
"far fare ai nuovi media il mestiere dei vecchi", come diceva McLuhan. Se si guarda fino in fondo
"all'interazione tra strutture" si trova che "questa" è la novità delle reti telematiche, cioè il loro
modo di produrre comunicazione al livello neutro (cioè prima di attivare il rapporto comunicativo) (Tessarolo, 1997).
La comunicazione in Internet si distingue sia dalla partecipazione ad un colloquio che dalle
pratiche di scrittura, in quanto coloro che comunicano restano anonimi in via di principio. Lo
scambio si effettua tra esistenze cifrate e contraddistinte da nomi autogenerati (Kramer, 1995,
pp. 116). Non si esclude che le sigle possano corrispondere a nomi veri di persone, ma con questa
identità artificiale si apre la possibilità di comunicare nella rete con identità differenti 164.
Nella comunicazione in ambiente virtuale si prescinde dagli aspetti illocutivi e paracomunicativi dell'attività simbolica della comunicazione faccia a faccia anche se, nel parlato sono implicate
convinzioni, le intenzioni, le opinioni, i desideri e le speranze di chi enuncia 165.
L'affermazione espressa nel terzo punto, riguardante lo status di gioco assunto dalle interazioni
nella rete 166. La trasgressione può essere punita solo simbolicamente con l'esclusione dal gioco.
Tali interazioni possono essere considerate un gioco perché l'azione garantisce che ciò che accade
al suo interno si sottrae alle regole del rafforzamento quotidiano dell'azione (Bateson, 1982).
Questa carenza di importanza dell'interazione telematica non è sempre presente perché altrimenti
si renderebbe superfluo trattare la telematica come una nuova modalità comunicativa.
Si può parlare di simulazione che non appartiene al solo campo dei giochi, è sempre esistita e
serve a "far apparire reale ciò che non lo è". Questo è stato detto già della scultura greca, della
prospettiva, della pittura barocca. L'informazione attribuendosi anche funzioni di visualizzazione
è riuscita a costruire un percorso che va dall'immagine all'oggetto congiungendo i due estremi.
L'informatica offre un ambiente adeguato alla definizione degli oggetti indipendentemente da
ogni eventuale visualizzazione ed è in grado di rinnovare la loro modalità di espressione e disposizione. Con le nuove procedure di modellizzazione e programmazione l'informatica ha connotato
la virtualità quale spazio manipolabile di sperimentazione intermedia tra il progetto e l'oggetto,
modificando la primaria convinzione che il virtuale fosse esclusivamente un luogo deputato all'attività immaginatoria contribuendo alla ridefinizione della nozione di immagine, oggetto e spazio
percettivo (Weissberg, 1990, pp. 48-49), tanto che può accadere che ci sia una presentazione del
reale grazie al virtuale (come ad esempio il simulatore di volo) e un'interpretazione del reale da
parte del virtuale (microscopio elettronico anche se non è così perfetto come il computer). Il virtuale non rimpiazza il reale, ma lo aiuta a creare significati come accade per tutti gli artefatti culturali prodotti dall'intelligenza umana.
La novità è rappresentata dalla telepresenza reale nel virtuale che non consiste in una ipotetica
sparizione del mondo reale, ma piuttosto nell'acquisizione di uno strato aggiuntivo che riesce a
combinarsi ai precedenti. L'orizzonte che ci prospettano i comunicanti del virtuale non è una linea
che separa il reale da ciò che non lo è, ma una nuova prospettiva per ridefinire le categorie alle
quali erano ancorate le tradizionali classificazioni (Weissberg, 1990, p. 58) 167.
7. Anche questo è un mito che costantemente si riscontra quando si parla di tale tipo di comunicazione. Non è tut tavia sicuro che chi entra in una comunità virtuale resti anonimo: può assumere un'identità diversa, usare pseudonimi,
usare il proprio nome o un suo anagramma, proprio come succede talvolta con gli articoli dei giornali o con i libri.
8. Bisogna ricordare i toni di voce al telefono e l'interpunzione nello scritto. Tuttavia non si tratterà mai di comunicazione interpersonale che avviene in presenza, la scrittura elettronica sta inventando la propria modalità vitale.
9. Entra in vigore anche la Netiquette cioè un galateo di rete.
10. Secondo i pessimisti l'uomo virtuale è immobile davanti al suo computer, fa l'amore attraverso lo schermo e st udia per teleconferenza. Si prepara a diventa un handicappato del movimento. Sarebbe questo il prezzo che si deve
113
La lettura dello schermo è completamente differente da quella dello sguardo. E' un'esplorazione
digitale in cui l'occhio si sposta seguendo il cursore. Il rapporto con l'interlocutore nella comunicazione è dello stesso tipo: tattile ed esplorativo lo stesso vale per la voce 168. Questa sensazione
che dovrebbe essere presente anche in altre modalità di comunicazione, ad esempio nel cinema,
mostra con chiarezza che la possibilità di interfacciarsi, di modificare tragitti, di creare messaggi
contemporaneamente o alternativamente ad altri o, infine, in solitudine, è realmente la novità di
questa nuova modalità comunicativa che è più simile alla comunicazione culturale che non alla
comunicazione interpersonale.
Non esiste solo la tastiera e la voce, l'interfaccia fisica offre di dialogare con il computer anche
tramite casco e guanto, ma solo per manipolare il mondo illusorio che il progettista ha messo dentro il computer e che realizza una virtualità che, incorporata, può essere vista come una nuova
concezione del rapporto tra persone e artefatti tecnici e quindi come una realtà virtuale.
4. Incontri al computer
Le possibilità di incontro e di dialogo tra persone che comunicano via computer sono molte.
Ovviamente ci sono molte combinazioni: persone che si conoscono direttamente già da prima;
persone che non si conoscono e che non si conosceranno mai, persone che non si conoscono ma
che potrebbero conoscersi e altri che non si conoscono ma che comunicano per conoscersi (come
ad esempio la posta elettronica). Ci sono situazioni asincrone che non richiedono la presenza contemporanea dei partecipanti (posta elettronica) e altre, come le teleconferenze, in cui è invece necessaria (Mantovani, 1992, p. 46).
Si è soliti affermare che nella comunicazione mediata dal computer le persone si esprimono più
liberamente che non nella comunicazione faccia a faccia, tanto che è stato persino coniato il termine "flaming" per indicare la comunicazione disinibita 169. Nella comunicazione mediata la dissimulazione è causata dal fatto che mancano o sono attenuati, i contorni sociali che abitualmente
regolano o influenzano le dinamiche di gruppo. Colui che si immette nella rete sa che gli altri ignorano la sua situazione e identità. La de-individualizzazione interviene quando le persone partecipanti perdono la loro individualità e l'utocontrollo nell'anonimato di un gruppo. Tale anonimato rende possibile una partecipazione più ugualitaria e offre maggiori opportunità di intervenire,
specialmente per le persone di basso rango, ma porta anche difficoltà, da parte del gruppo, ad esprimere un leader e a mantenersi in posizioni estreme.
Mantovani (1995) si chiede che cosa succederebbe se gli individui che entrano negli ambienti
elettronici venissero isolati. Sembrerebbe che in tali ambienti di comunicazione elettronica le persone diventino più aperte e più libere di esprimersi, ma che aumentino anche la loro impulsività e
irresponsabilità. E' tuttavia discutibile che gli ambienti elettronici rendano, per la loro stessa natura, più disinibite le persone. Sembra, in ogni caso, eccessivo attribuire ai contesti sociali una valenza repressiva, dato che essi svolgono spesso importanti funzioni di sostegno per le persone. La
comunicazione mediata dal computer sembra operare in un vuoto sociale, la comunicazione elettronica creerebbe una situazione in cui l'identità personale dell'emittente e degli eventuali riceventi
pagare per diventare operativi. Non dimentichiamo però che esistono sempre gli "apocalittici" e gli "integrati", e ntrambe posizioni difficilmente realistiche.
11. Né la distanza né la contiguità sono quelle del corpo: troppo vicini per essere veri, troppo lontani per essere falsi (Baudrillard, 1990).
12. Le segreterie telefoniche dei media, una per tutte Radio Radicale, hanno assistito allo stesso fenomeno. Inoltre
le lettere anonime e di insulti sono esistite anche in altre modalità comunicative. Goffman trat ta molto bene quelli
che definisce "incontri non focalizzati".
114
tenderebbe a sfumare fino a svanire lasciando spazio a una condizione di de-individualizzazione
in cui le persone perderebbero il senso delle proprie responsabilità personali e del rispetto dovuto
alle norme sociali (vedi il flaming). Il che è relativamente raro e sembra essere provocato da frustrazioni derivanti dall'inefficienza comunicazionale del medium, specie in condizioni di pressioni
temporali, piuttosto che dall'assenza del contesto sociale e normativo.
La comunicazione mediata dal computer non istigherebbe lo sviluppo di comportamenti impulsivi solo nel modo di esprimersi, ma anche nelle azioni e nelle decisioni. Sembra che abbiano una
marcata capacità di polarizzzare il gruppo, di stimolare cioè le persone a prendere decisioni estreme (Mantovani, 1995, p. 163; Spiegel et al. 1986).
Il fatto che la comunicazione mediata dal computer socializzi o isoli dipende dalle caratteristiche del contesto in cui la comunicazione elettronica si sviluppa. Nella discussione sulla presenza
delle norme sociali in questa modalità comunicativa si riflettono le divergenze nel modo di percepire le persone che possono essere viste o come individui isolati o come dotate di un'identità sociale. E' tutto basato sulla domanda "Come comunicano due persone quando la loro unica connessione è un messaggio via computer?". E' esagerato vedere questo rapporto in modo completamente negativo, come fanno Sproull e Kiesler (1991) che considerano tale comunicazione sostanzialmente a-sociale. Si deve tenere in considerazione che i mezzi tecnologici non sono l'unico
elemento che tiene collegate le persone, ma che i collegamenti vengono attuati da una rete organizzativa, da bisogni e obiettivi in parte condivisi e da aspettative di cooperazione più o meno
ampie170.
In contrapposizione a questa visione a-sociale e apocalittica della comunicazione in ambiente
virtuale, per i teorici dell'identità sociale gli individui portano il sociale e le sue regole dentro se
stessi. Tale teoria sostiene che le persone hanno diverse identità: da un lato un'identità irriducibile
come individui unici; dall'altro lato un'identità sociale come membri di uno o più gruppi sociali. I
differenti contesti attivano di più l'uno o l'altro dei due poli a seconda delle situazioni e dei bisogni
dell'attore. Il sociale non è solo fuori, ma anche dentro le persone, come parte della loro identità, e
funziona anche quando esse siedono da sole davanti un computer (Mantovani, 1995, p. 164).
Nella comunicazione mediata dal computer quanto viene omesso non è tanto l'informazione vera e propria relativa allo status, quanto piuttosto l'insieme della gestualità, la postura, ecc. che
confermano, nell'interazione faccia a faccia, il riconoscimento reciproco.
Anche nella comunicazione mediata i contesti sociali e normativi sono importanti nella presa
delle decisioni. Se è vero che la comunicazione può portare a comportamenti disinibiti, si riscontra normalmente che le persone mostrano rispetto per le norme sociali e anche una forte identificazione con il proprio gruppo di riferimento. Sarebbero in gioco i processi di identità sociale più
che i processi di de-individualizzazione e di de-responsabilizzazione.
La presenza spaziale fisica non è più quindi l'elemento indispensabile per esperire la realtà, non
significa neppure fare esperienze reciproche. Lo spazio virtuale è "reale" senza essere attuale e i
"non luoghi" hanno percorsi di tipo soggettivo.
13. Non cade in nessun tipo di comunicazione, che non sia patologica, il principio della cooperazione o decodificazione anticipatoria. L'adozione della prospettiva dell'"altro" non basta a spiegare alcune capacità, ad esempio di leggere un articolo come articolo e una poesia come poesia. L'attitudine alla distinzione testimonia l'esistenza di una
capacità generalizzata di adottare le prospettive di diversi "altri", capacità che costituisce l'aspetto sociale più genuino della competenza comunicativa (Tessarolo, 1991, p. 138). La decodificazione anticipatoria implica un pr ogramma di simulazione di sé nella situazione dell'altro, in modo che quest'ultimo diventi una proiezione di sé. Ma
vi è anche una seconda prospettiva in tale decodificazione che può essere intesa come simulazione dell'altro: l'autore
o il parlante può inferire, sulla base della conoscenza che ha del fruitore, la sua realtà sociale realizzando una sim ulazione di sé contro una simulazione dell'altro. Si deve tener presente che il significato deriva dai "contratti" e dai
"meta-contratti" che vengono tacitamente accettati e che appartengono al tipo di realtà sociale che è stata intersoggettivamente stabilita al momento del "discorso" (Tessarolo, 1991).
115
Secondo alcuni studiosi le comunità virtuali sono gruppi sociali emergenti di soggetti il cui collante è dato da legami a sfondo comunicativo (Mazzoli, Boccia Artieri, 1995); possono essere
considerati degli aggregati sociali che restano uniti fino a che hanno conseguito il loro scopo.
A differenza delle weberiane "comunità di emozioni", le comunità virtuali sono l'esplicazione di
ordine telecomunicativo di un fenomeno di indifferenziazione e de-individualizzazione proprio
della società contemporanea. Creazione di siti con gruppi di discussione o piazze telematiche nelle
quali si condividono esperienze piacevoli o traumatiche.
Più forte sembra farsi il sentimento comunitario di tipo emozionale quando è supportato da
tecnologie di telecomunicazione. Gli utenti telematici si uniscono in forma neo-tribale in piccoli
gruppi, solamente al fine di avere un'emozione 171. Non è un prevalere del senso societario di appartenenza quanto piuttosto quello di una socialità di adesione. La forma aggregativa è quella tribale, ma la dinamica che la regola è quella nomade (Boccia Artieri, 1995, p. 132). Lo spazio comunicativo in cui vivono e muoiono questi legami realizza una modalità comunicativa che può
essere definita teleconvivialità. Le reti connettive telematiche fanno parte di soluzioni innovative
della dimensione della socialità.
Lo spazio nell'evoluzione del pensiero sociale sta assumendo un'importanza senza precedenti. Il
recupero del fattore spaziale a discapito di quello temporale è un fatto centrale nel dibattito sociologico (Giddens, 1990). Lo spazio eterogeneo delle reti telematiche crea uno spazio effimero: la
comunicazione in tempo reale dell'economia finanziaria, ad esempio, corre sulle autostrade virtuali; lungo le fibre ottiche, indifferenziando l'origine e la destinazione della notizia (Minca, 1996,
p. 65) 172. La temperie post-moderna sta infatti rivoluzionando la percezione spazio-temporale e
con essa il senso dell'"altrove", del passato e del lontano (Minca, 1996, p. 5).
La territorialità moderna continua ad esistere e produrre spazi, a volte in concorrenza, a volte
in simbiosi o quasi mimetizzati con lo spazio "post-moderno". Questa coesistenza di moderno (logica della scoperta dei luoghi da convertire alla propria progettualità) e di post-moderno (che aumenta a dismisura gli effetti implosivi dell'immagine e concentra i non luoghi turistici), possiede
un potere attrattivo senza precedenti, potere che annulla l'effetto distanza e diluisce il significato
dello spostamento verso un "altrove" ormai a portata di mano.
Lo spazio può diventare un dubbio poiché si deve continuamente individuarlo e designarlo: non
è mai "mio", non viene dato, ma deve essere conquistato strappandolo a brandelli al tempo. L'eliminazione di vincoli spazio-temporali, cardine della concezione post-moderna porta all'iper-realtà
che inflaziona le costruzioni del reale e che satura di scambi e di informazioni scardinando l'architettura del mondo quotidiano con immagini che rimandano a eventi destinati a farsi dimenticare in
fretta, nel vortice dei media (Perec, 1989).
Tra le dominanti dell'esperienza post-moderna si fa spazio il senso di frammentazione del presente e di rottura col passato, di mancanza di profondità e di perdita di riferimenti stabili. E' la
caduta delle divisioni tradizionali sulle quali si è fondato il pensiero occidentale moderno: la separazione tra soggetto e oggetto, tra rappresentazione e realtà, tra scienza e mito, tra fiction e storia.
E' il trionfo dell'affettivo.
Se il modernismo può intendersi come un fondamentale processo di differenziazione che ha
rimarcato le distinte sfere del sociale e soprattutto del culturale, il post-moderno comporta la dissoluzione di queste categorie, l'invasione reciproca di queste sfere. Ma si suppone anche la creazione di nuove sfere in cui il rapporto con le cose e con l'esterno avvenga, in determinate circostanze e situazioni, attraverso organi artificiali dei quali non possono essere controllate le procedure. Se i prodotti culturali possono essere continuamente riprodotti meccanicamente, se gli eventi, il lontano, implodono indistintamente attraverso lo schermo nelle nostre case e informano le
14. Il carattere tribale non implica però la prevalenza di uno dei cinque sensi, ma sorge da una loro dinamica. E'
strano che questo non si dica dei gruppi reali, delle bande o di altro.
15. Il viaggiatore parte per tornare e non torna indenne (Zanetto, 1991).
116
nostre pratiche conoscitive, ci si può chiedere, con Lasch (1990), quale controllo si può avere sui
dispositivi che li selezionano.
Il cosiddetto post-moderno è per Augé (1993) la surmodernità che è forte produttrice di "non
luoghi" i quali integrano al più in maniera allegorica i luoghi antichi (Minca, 1996, p. 144). Quello dei "non luoghi" è uno spazio franco per costruzione e aterritoriale. La semantica dei "non luoghi" è pretestuosa, richiama un referente ideale, ad un senso del luogo senza essere luogo. I "non
luoghi" rappresentano l'avamposto spaziale della nostra epoca. Lo spazio turistico dei "non luoghi", nell'anonimato dei rapporti che lo regolano, allegerisce sostanzialmente il turista visitatore
del suo portato di individuo inserito in un determinato contesto (Minca, 1996, p. 151). Il computer e la telematica in genere possono essere considerati "non luoghi", ma anche la fantasticheria e
la creatività umana non avvengono con spostamenti del corpo, da un luogo all'altro, e con essi si
può scrivere, disegnare, scoprire, creare formule, ecc. con i più diversi mezzi.
La conoscenza umana traduce nel linguaggio che le è proprio una realtà senza linguaggio, la
sola realtà immediata che ci rimane è la nostra rappresentazione della realtà e la sola realtà concepibile è la nostra concezione della realtà (Morin 1989, p. 234). Secondo Morin dall'incapacità
umana di conoscere, se non per computazione di segni/simboli, sorge l'incertezza della natura
profonda della realtà: possiamo determinare l'oggettività della realtà conosciuta, non della realtà
di quella realtà.
Incertezze di comprensione sorgono dai rischi legati a ogni comunicazione e infine dai rischi di
errore e di deformazione legati alla tradizione.
La comunicazione in ambiente virtuale, la relazione tra i due o più comunicanti di un messaggio, si colloca in un contesto normativo sociale che non ha riscontro nella comunicazione faccia a
faccia. Quest'ultima si sviluppa in prevalenza in un quadro cooperativo gestito dai partecipanti
come accade per la scrittura interpersonale e per il telefono 173. La conversazione faccia a faccia,
anche se è l'unica che si svolge tra persone fisicamente presenti, non è tuttavia l'unica in cui le
parti si trovano d'accordo sul fatto di interagire e negoziano le forme e i contenuti della loro interazione in vista dei loro scopi.
Nella conversazione interpersonale la cooperazione tra gli interlocutori viene costantemente
monitorata attraverso una serie di sottili adattamenti e di correzioni reciproche e immediate in
messaggi, in quanto elaborati senza alcun ritardo rispetto al momento in cui vengono emessi, anzi
è necessario che ciascuno di essi sia compreso e accettato perché la comunicazione possa continuare.
Nelle altre modalità di comunicazione, in particolare in quella in cui la cornice collaborativa è
più debole, si teorizza che esista una scarsità d'impegno a collaborare da parte dei partecipanti sia
per quanto riguarda la cooperazione alla formulazione del messaggio sia nel momento dell'elaborazione immediata dello stesso. Se così fosse, tale forma, non sarebbe più annoverabile tra quelle
comunicative. Anche nella più semplice comunicazione faccia a faccia non è detto che si attui la
negoziazione e l'accettazione del significato sociale del messaggio, il che succede anche quando si
ricorre alla chiarificazione del senso in cui un determinato significato va inteso 174.
5. Note conclusive
Sembra, in conclusione, che la comunicazione interpersonale serva solo da elemento comparativo per rilevare diversità e "mancanze" dei nuovi mezzi. La comunicazione con il computer è una
particolare modalità di comunicazione in cui si concretizzano alcuni aspetti psicologici che pos-
16. La cooperazione esiste in tutta la comunicazione, in parte è presente anche nella comunicazione in ambiente
virtuale come nel caso della posta elettronica.
17. Non è detto che la comunicazione attraverso il computer eviti le più elementari forme di rinforzo quali l'invio di
un messaggio solo per dire "sì", "giusto", con la scusante che tali messaggi occupano spazio costoso nel disco.
117
sono essere elencati nei concetti di "realtà", di "telepresenza", di "simulazione", di "televirtualità"
e di "previsione sulle possibili ripercussioni future" della realtà virtuale (Balboni, 1995).
I meccanismi di riorganizzazione dell'ambiente virtuale e il ritorno a quello fisico richiedono
tempo e sforzo cognitivo. Tuttavia l'avvento della realtà virtuale ha portato alla riscoperta della
soggettività e dell'importanza della prospettiva relazionale e costruttivistica, ma ha anche evidenziato la relatività delle tradizionali dicotomie del pensiero occidentale: corpo/mente, soggetto/oggetto, interno/esterno.
Tuttavia l'affermazione che la comunicazione virtuale annulli il soggetto e lo de-individualizzi
è molto problematica ed è davvero o una provocazione o una incongruenza. Si viene, infatti, ad
ipotizzare che il soggetto usi un'"autocoscienza" che indichi una coscienza tale che in essa non vi
sia alterità alcuna di soggetto e oggetto, e che le due entità siano la stessa. Ma nel momento in cui
si determina la coscienza di sé si richiede anche di differenziare un oggetto di coscienza da un
soggetto. Il fatto stesso di autoattribuirsi una qualche coscienza di qualcosa, comporta un essere
già aperto a sé in quanto essere come coscienza e marca la sua differenza da una relazione oggettivante (Padovani, 1997, p. 158).
Chi comunica sa che cosa sta facendo, ma può mutare, a seconda dei settori in cui la comunicazione virtuale viene applicata, il livello di percezione di spersonalizzazione dei rapporti 175. La
realtà virtuale tenta di costruire un mondo dentro al computer. Essa tuttavia è solo una mappa e
non un territorio e non comprende l'infinita ricchezza del mondo. Solitamente il computer serve
per svolgere il proprio lavoro, si presenta cioè come uno strumento piuttosto che come un interlocutore 176. Il maggior pericolo di fronte alle nuove tecnologie è quello di subirle passivamente delegando agli specialisti informatici il loro impatto sociale.
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119
Strategie della comunicazione politica
di Daniele Ungaro
1. Introduzione
Per comunicazione politica qui si intende l‟elaborazione di informazioni e la trasmissione di
messaggi pubblici. Questa definizione deve essere ovviamente spiegata. La spiegazione per essere
comprensibile verte su una chiarificazione del sostantivo (comunicazione) e dell‟aggettivo (politica). Definire la comunicazione come elaborazione di informazioni significa, seguendo Luhmann
(1984), distinguere tra informazione e atto comunicativo. Nel senso che l‟informazione riguarda
un processo preliminare di necessaria selezione dei temi comunicabili, mentre l‟atto comunicativo
consiste nella trasmissione di determinati messaggi. Da questo punto di vista per comunicazione,
riallacciandosi anche in parte alla definizione di Gallino (1997, 513), si può intendere la trasmissione da parte di un’emittente (E), tramite un medium (M) che seleziona l’informazione, di
determinati messaggi (Me) nei confronti di un ricevente (R) che hanno effetto sullo stesso R in
quanto questi li comprende attribuendovi un senso inteso che può coincidere in tutto, o parzialmente o per nulla con quello intenzionato da T.
Per chiarire ulteriormente il concetto qui utilizzato di comunicazione, va detto che:
A - la comunicazione ha sempre a che fare con una trasformazione degli “stati del mondo”. Nel
senso che - dato che il presupposto vincolante di un processo comunicativo risulta sempre essere
un‟informazione (selezione) riuscita - anche una comunicazione rifiutata o non intesa “informa”
il ricevente riguardo a una situazione.
B - Ciò significa, in altre parole, che per esserci comunicazione secondo la definizione sopra
offerta, deve esserci una condivisione (accettata, imposta, subita inconsapevolmente) della selezione operata tra emittente e ricevente.
120
C - A mio parere il famoso aforisma di McLuhan (1967) - “il medium è il messaggio” - può
essere operativamente interpretato e utilizzato nel modo seguente. In un processo comunicativo
l‟informazione avviene sempre a livello di medium. L‟aforisma va quindi interpretato non in senso letterale, ma distinguendo tra informazione (medium) e atto comunicativo (messaggio). In questo senso si potrebbe osservare che l‟informazione “informa” (principalmente nella forma di medium) il messaggio. Si vedranno tra poco le potenzialmente rilevanti conseguenze di una tale interpretazione.
D - Quando si parla quindi di senso intenzionato e di senso inteso non si fa riferimento a misteriosi flussi coscienziali, ma allo status dei messaggi, status incerto poiché sempre dipendente dalla situazione sociale strutturata dall‟informazione e in generale dalle mutevoli condizioni influenzanti il senso inteso, compresi i media utilizzati.
Prima di approfondire questi punti cerco di chiarire che cosa si possa intendere per informazioni e messaggi pubblici. Un bene pubblico è caratterizzato da tre fattori. L’impossibilità di esclusione. Per cui escludere qualsiasi individuo dal consumo di tale bene risulta essere o tecnicamente impossibile o troppo costoso in termini politici, sociali o economici. La non divisibilità.
Fattore che corrisponde alla necessità di provvedere a una offerta congiunta di tale bene. La non
rivalità. Nel senso che il consumo di un individuo non avviene a danno di un altro. Un esempio di
bene pubblico conseguente alla definizione data può essere la difesa nazionale. L‟esclusione da
essa può essere molto costosa, mentre il costo marginale (costo per fornire il bene a un individuo
addizionale) è praticamente uguale a zero. Per un bene pubblico, quindi, i benefici individuali sono uguali ai benefici collettivi (data la non divisibilità) e l‟efficienza riguardo all‟offerta del bene
accresce all‟aumentare del numero dei fruitori di tale bene.
Ritengo, sulla base di queste considerazioni, che in un sistema democratico la comunicazione
politica sia quella elaborazione di informazioni e trasmissione di messaggi che assume l‟aspetto
della produzione e dell‟offerta di un bene pubblico. La comunicazione politica risulta quindi essere elaborazione di informazioni e trasmissione di messaggi non esclusivi, non divisibili, non rivali, il cui effetto e la cui efficienza accrescono all‟aumentare dei fruitori delle informazioni e dei
messaggi.
Ciò che risulta paradossale da questa definizione riguarda le modalità di produzione e di gestione di tale bene, poiché per esempio in un grande sistema democratico contemporaneo, gli Stati
Uniti, la produzione e l‟offerta di comunicazione politica avviene quasi totalmente da parte di
privati.177 Tutto questo comporta, come si vedrà, molti problemi politici, pratici ed empirici, ma
nessun problema teorico, nel senso che anche l‟esclusiva produzione privata di comunicazioni
pubbliche (politiche) risulta vincolata dalle caratteristiche strutturali di tali prodotti. Da questo
punto di vista, quindi, la definizione di comunicazione politica qui offerta risulta più vasta della
propaganda politica, delle trasmissioni elettorali, delle “tribune politiche” ecc. (per un‟analisi
sull‟argomento cfr. Mazzoleni 1984), come si vedrà meglio in seguito qualsiasi tipo di comunicazione impostato come evento mediale (cfr. Dayan e Katz 1993) risulta essere, nel contesto della
mia proposta, comunicazione politica, se soddisfa le condizioni di offerta di un bene pubblico.
Perciò una partita della nazionale di calcio, un viaggio del papa, la proiezione in prima serata del
film “The Schindler’s List”, risultano comunicazione politica se trasmessi “pubblicamente”, cioè
in maniera non criptata o per un pubblico specifico di utenti paganti, al massimo grado quindi di
accessibilità possibile permesso dal medium utilizzato.
In sintesi si può concludere questa parte introduttiva definendo la comunicazione politica come
quella elaborazione di informazioni attraverso determinati media e trasmissione di messaggi risultanti assimilabili a beni pubblici, cioè non esclusivi, non divisibili, non rivali e maggiormente efficienti ed efficaci all‟aumento dell‟utenza. Per quanto riguarda i media, in questo lavoro mi soffermerò specialmente sulle funzioni della “Videopolitica” trasmessa dalla Televisione e sugli effetti della Videopolitica sulla carta stampata, effetti riconducibili probabilmente al sorgere del
177
Questa situazione è fortemente criticata per esempio da Sartori (1989).
121
New Journalism (cfr. Marletti 1984). Ovviamente come è noto la comunicazione politica si è storicamente verificata anche attraverso altri media; una specializzazione del linguaggio definita retorica, il saggio filosofico-politico attraverso la stampa, il samizdat attraverso la fotocopiatrice,
l‟espressione corporea e la drammaturgia degli atti collettivi nelle piazze, nelle strade e nei cinegiornali, la voce attraverso la radio, le ideologie tramite i giornali, ora i siti Internet, ma ritengo
che una trasformazione sociologicamente essenziale della sfera pubblica sia avvenuta e sia tuttora
in corso mediante gli effetti della comunicazione politica mediata dal video. Di conseguenza
quando parlerò di medium elettronico mi riferirò alla televisione, mentre quando citerò i nuovi
media, indicherò la Tv e le nuove forme di comunicazione attuate dalla stampa.
2. Media e situazioni sociali: uno schema teorico
La televisione influisce sul comportamento sociale non già attraverso l‟effetto dei suoi messaggi, mediante il contenuto, ma tramite la riorganizzazione delle situazioni sociali in cui gli attori
interagiscono, attraverso cioè la ristrutturazione della relazione, intendendo le situazioni sociali in
questo contesto nel senso di Goffman (1969; 1971; 1971a; 1974; 1981), cioè come una cornice in
grado di determinare in maniera cogente regole, ruoli e aspettative reciproche di comportamento.
Ciò avviene indebolendo e comunque modificando radicalmente il rapporto, un tempo stretto, tra
luogo fisico e luogo sociale (cfr. Meyrowitz 1985). Tutto questo produce degli effetti precisi e potenzialmente misurabili sulle nozioni di identità politica e socioculturale, di identificazione di
gruppo e di comportamento sociale adeguato. Si trasformano in pratica gli scenari comportamentali. Questi effetti avvengono a due livelli:
A - a livello di nuovi sistemi di informazione. Nel senso che si trasformano le procedure di selezione dei temi pubblici, le cosiddette regole di attenzione, tramite nuove e diverse rappresentazioni veicolate dal medium televisione.
B - A livello di stili di interazione. Nel senso che, in maniera logicamente dipendente dalla prima trasformazione, cambiano anche le modalità di trasmissione dei messaggi, in altre parole le
espressioni comunicative.
La prima osservazione teorica che quindi vorrei enfatizzare riguarda la misurabile influenza
dei media (delle modalità di elaborazione dell‟informazione) sulla struttura delle situazioni sociali. Su cioè una riconoscibile ristrutturazione dei palcoscenici sociali sui quali gli attori interpretano i loro ruoli con il conseguente cambiamento della nozione di “comportamento adeguato”.
Ciò avviene attraverso una trasformazione fondamentale. Già la radio, ma soprattutto la televisione, hanno modificato la comunicazione politica tramite la fusione di diversi pubblici e di diverse situazioni. Mentre quindi da un lato il processo di differenziazione funzionale della società a
partire dalla modernità contribuiva a specializzare in varie forme la legittimazione della politica
differenziandola dalla religione, dalla tradizione, ecc., da un altro il medium elettronico contribuisce in maniera determinante a concentrare e fondere la “geografia situazionale” della vita sociale. Tutto questo si verifica poiché, molto semplicemente, tale medium unisce tanti tipi di persone nello stesso luogo. Questo passaggio richiede un‟adeguata spiegazione.
Coerentemente con le ipotesi teoriche avanzate nell‟introduzione, il mezzo di comunicazione
non viene qui inteso come un sistema neutro di erogazione. La distinzione tra informazione e atto
comunicativo serve infatti a sottolineare come, nell‟approccio qui presentato, i media non sono
semplici canali che trasmettono messaggi tra due sistemi. In sintesi ciò significa ritenere che
l‟impatto delle forme di comunicazione vada oltre e in ogni caso preceda la scelta di messaggi
specifici. Questa importante trasformazione si verifica concretamente producendo nuovi rapporti
tra luoghi e persone e nuovi modi di raccogliere le informazioni. Per arrivare a stabilire in maniera operativa delle ipotesi teoriche verificabili si ritiene necessario, nell‟ambito di questo lavoro,
analizzare come i nuovi collegamenti tra luoghi e persone possano condurre a una trasformazione
122
del comportamento sociale e politico. Ciò significa prendere in considerazione due passaggi fondamentali: in che modo cioè
A - i mutamenti nei media possano cambiare le situazioni sociali ;
B - e come le trasformazioni delle situazioni sociali possano influire sul comportamento degli
attori sociali.
Si può infatti già affermare che, tramite la fusioni di pubblici e luoghi differenti, i nuovi media
“disconnettano” le situazioni sociali dalle precedenti modalità di interazione sociale. Espresso il
tutto in termini tecnici, sostengo che il quadro teorico fondamentale di analisi della comunicazione
politica possa fruttuosamente concentrarsi sull‟analisi della disconessione tra nuove situazioni
sociali forgiate dai nuovi media e precedenti modalità di interazione.
La premessa di queste importanti trasformazioni viene offerta dalle caratteristiche sociotecniche del medium Televisione. La Tv infatti non è funzionalmente dotata di un codice di accesso. La sua accessibilità quasi totale (l‟unico vincolo è il prezzo del suo acquisto e in Italia il costo
del canone) contribuisce ad accentuare notevolmente il carattere di pubblicità (nel senso di bene
pubblico) delle sue comunicazioni. Conseguenza diretta di questo fattore è il basso costo del medium in questione per l‟utenza, le stesse interruzioni pubblicitarie possono essere infatti evase con
il telecomando. La Televisione, inoltre, permette a chiunque la realizzazione di sequenze di contenuto. In altre parole ciò significa che il suo livello di comprensibilità risulta essere molto elevato.
Per capire la comunicazione televisiva non serve saper leggere (codice di accesso alla stampa), è
sufficiente saper vedere. La comunicazione televisiva, inoltre, non si basa su un ascolto astratto,
come quella radiofonica, non sostenuta da un‟ermeneutica dell‟immagine e quindi vulnerabile rispetto all‟eventuale incomprensione del testo pronunciato. La comunicazione televisiva, ancora,
non richiede uno spostamento fisico dell‟utenza, trasforma le case private in arene pubbliche. In
sintesi le caratteristiche socio-tecniche della televisione possono essere così riassunte:
A - elevata accessibilità fisica e semantica;
B - basso costo;
C - elevata comprensibilità;
D - decontestualizzazione e fusione degli spazi;
E - per tutti questi motivi, elevata diffusione.
Queste caratteristiche socio-tecniche risultano infine estremamente importanti perché rendono
la comunicazione televisiva maggiormente “pubblica” (nel senso qui inteso) delle comunicazioni
di altri media. La stampa, per esempio, ha un „accessibilità più bassa, un costo più alto, una
comprensibilità inferiore, uno spazio predeterminato e comunque esterno a quello privato di acquisto del bene e quindi, per tutti questi motivi, una minore diffusione.
Si possono quindi ipotizzare dei collegamenti, dei nessi causali, tra le caratteristiche sociotecniche del medium Tv - che come si è visto convergono su una maggiore pubblicità delle sue
comunicazioni - e la trasformazione dei ruoli sociali soprattutto su tre livelli (cfr. Meyrowitz
1985).
A - Al livello dei ruoli di affiliazione (dell‟essere, dell‟identità di gruppo);
B - a livello dei ruoli di transizione (del divenire, della socializzazione);
C - al livello dei ruoli di autorità - nel senso weberiano di Herrschaft - (del poter fare, della gerarchia).
Rispetto alle trasformazioni in corso in questi ruoli, nel lavoro qui presentato vengono individuate tre principali tendenze veicolate dai nuovi media.
A - La tendenza a fondere situazioni precedentemente separate, cioè utilizzando il linguaggio teorico di Goffman, la tendenza ha confondere spazio di scena con spazio di retroscena;
B - la tendenza a confondere la linea di confine tra pubblico e privato;
C - la tendenza a rompere il legame tra luogo fisico e luogo sociale.
Il collegamento tra le caratteristiche socio-tecniche del medium qui assunto come privilegiato,
gli effetti derivanti da queste caratteristiche e le trasformazioni in atto in due dei sistemi di ruolo
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sopraindicati (inerenti i ruoli di affiliazione e i ruoli di autorità) rappresentano in pratica il tema
centrale di questo lavoro. Dopo una premessa teorica generale, quindi, mi soffermerò sulle trasformazioni in atto nei sistemi di ruolo descritti e sui potenziali effetti dei nuovi media su queste
trasformazioni.
3. Messa in forma dell’informazione, trasmissione di messaggi e struttura del medium.
Premessa necessaria di un‟analisi degli effetti dei media sulle trasformazioni in atto nei sistemi
di ruolo, risulta essere una considerazione su come la forma delle informazioni e la trasmissione
di messaggi possano dipendere dalla struttura del nuovo medium principale. Si è già accennato
come il passaggio in un ambito di “situazionalità”, per esempio dai media a stampa ai media elettronici, corrisponde essenzialmente al passaggio dalle comunicazioni di ribalta alle comunicazioni
di retroscena. Questo perché, a livello di elaborazione dell‟informazione, i media a stampa precedenti all‟impatto della Videocomunicazione selezionavano informazioni di scena, mentre i nuovi
media selezionano soprattutto informazioni di retroscena. In maniera corrispondente
all‟elaborazione di informazione, i messaggi che nei media a stampa risultavano astratti e impersonali nei muovi media sono concreti e personali. La differenza fondamentale consiste essenzialmente nella forma delle informazioni che vengono offerte, nelle modalità di selezione dei temi comunicabili.
Seguendo Meyrowitz (1985), la differenza tra la comunicazione dei media a stampa e i nuovi
media può essere riassunta mediante tre dicotomie. Comunicazione/espressione, discorsivo/rappresentativo, digitale/analogico.
Per espressione (cfr. Goffman 1969) si possono intendere gli elementi di un‟immagine, quindi
la semplice presenza di un attore su una scena. Le espressioni dell‟attore non rimandano a nessuna “discussione” sui temi generali oggetto di comunicazione, ma forniscono ugualmente informazioni. Per comunicazione, nel senso di Goffman, si intende invece un‟informazione mediata principalmente dal linguaggio. A differenza delle espressioni, la comunicazione può essere astratta.
Quando quindi appaiono D‟Alema o Berlusconi in Televisione il pubblico li vede, piuttosto che
sentire quello che dicono. La prima selezione informativa dipende quindi dal fatto se uno dei due
leader sia ingrassato o dimagrito, pallido o abbronzato, calmo o furioso, sarcastico o accomodante, in completo grigio o in tuta da ginnastica. E se il giornalista sarà complice o ostile, accomodante o aggressivo, e così via. Per certi versi le espressioni sono più efficaci delle comunicazioni
perché le prime sono costanti e molto meno controllabili (a volte sono addirittura inconsapevoli)
delle comunicazioni. Forlani con la bava alla bocca esprime molto più di qualsiasi comunicazione
linguistica in senso goffmaniano su Tangentopoli. Infatti, mentre si comunica su argomenti le espressioni riguardano sempre come centro l‟attore che le trasmette. Nei rapporti umani quotidiani, infatti, è usuale decidere sulla base di espressioni. Risulta raro sposare una persona sulla base
del suo curriculum, senza averla mai incontrata, come di solito le assunzioni avvengono dopo un
colloquio nel quale si incontra una persona. Mentre i media scritti contengono molte comunicazioni e poche espressioni, il medium elettronico rende pubbliche tutta una serie di espressioni da
parte degli attori coinvolti nel processo comunicativo.
La differenza tra discorso e rappresentazione segue la stessa logica. Secondo la Langer (1972),
il rapporto tra simbolo discorsivo e rappresentato risulta profondamente diverso dal rapporto tra
simbolo rappresentativo e suo referente. I simboli discorsivi sono astratti e arbitrari. I simboli discorsivi, inoltre, si compongono di unità elementari separate, le parole, il cui significato dipende
anche da una convenzione grammaticale estranea da quanto viene descritto. I simboli rappresentativi, invece, sono collegati tramite un‟immagine al referente. L‟immagine di un individuo e la
parola individuo non sono quindi dei simboli equivalenti. Gli elementi di un‟immagine hanno uno
status di indipendenza inferiore rispetto agli elementi del linguaggio. In una fotografia, al cinema
o in Televisione essi sono vincolati dalla forma della visione. Si può quindi superficialmente af-
124
fermare che “da un certo punto di vista” le rappresentazioni sembrerebbero meno “manipolabili”
dei discorsi. Questa affermazione si basa sul fatto che le immagini presentano solo se stesse. Ora
il discorso sulla minore presunta manipolabilità, è valido solo se riconosce la maggior pubblicità
(nel senso di comunicazione di bene pubblico) della comunicazione rappresentativa rispetto a
quella discorsiva. Questa maggiore pubblicità conduce infatti la comunicazione rappresentativa a
comunicare per l‟appunto anche idee astratte come il patriottismo, l‟amore o la fratellanza universale. A tale livelli di astrazione la “manipolabilità” del messaggio non è ovviamente inferiore a
quella delle comunicazioni discorsive, esiste ovviamente, accanto a una retorica delle parole, anche una retorica delle immagini. Sul tema del patriottismo, per esempio, dal punto di vista di una
estetica della comunicazione, risultava molto più efficace il film di Eisenstein “Il principe Nevskij” (medium cinema) del discorso alla radio di Stalin dopo l‟aggressione tedesca all‟Unione
Sovietica, discorso in cui il leader sovietico usava i termini fratelli e sorelle, invece di compagni e
compagne. Ma, dal punto di vista della pubblicità della comunicazione, il medium radio disponeva di quelle caratteristiche socio-tecniche illustrate in precedenza e assimilabili a quelle della Tv
rispetto ai media a stampa. Quindi il secondo tipo di comunicazione appare esteticamente meno
valido, ma pubblicamente più efficace. La differenza tra validità estetica e funzione pubblica risulta estremamente importante nella trattazione dei nuovi media nella società contemporanea.
Secondo Watzlavick, Beavin e Jackson (1971) i simboli digitali sono unità discrete come i numeri e le parole, mentre i simboli analogici sono continui, basandosi sul principio del più o del
meno. Le comunicazioni digitali trasmettono quindi messaggi di contenuto, mentre quelle analogiche trasmettono messaggi di relazione. Il tutto può essere reinterpretato dicendo che le comunicazioni digitali corrispondono alla comunicazione nel senso di Goffman, mentre le comunicazioni
analogiche sono espressive. Prima dell‟avvento della Tv la stampa trasmetteva difficilmente messaggi analogici. I media elettronici trasmettono invece strutturalmente messaggi digitali in un contesto di espressioni analogiche. Se leggo su un giornale che Prodi taglierà le pensioni, percepisco
un messaggio di un certo tipo, ma se vedo in Televisione Prodi che sorridendo dice “taglierò le
pensioni senza massacrare il paese e se tutti sono d‟accordo”, io posso contestualizzare il messaggio digitale (dal cui punto di vista le pensioni si tagliano o non si tagliano, tertium non datur)
in una cornice analogica completamente diversa. Tale messaggio non verrà nemmeno ignorato
oggi dalla stampa, per cui in un successivo articolo l‟indomani si potrà leggere che Prodi conferma l‟intenzione di tagliare le pensioni, ma il modo con cui l‟ha detto non significa una sfida ai
sindacati, ma anzi ribadisce il valore della trattativa ai fini della ricerca del consenso (per cui alla
fine le pensioni si potrebbero anche non tagliare date altre condizioni). Questo non significa che
Prodi o qualunque altro siano dei bugiardi, ma che la comunicazione analogica è necessariamente
più ambigua di quella digitale e che nella combinazione delle due forme bisogna sempre tenere
conto di entrambe nell‟interpretazione di un messaggio.
Queste tre dicotomie enfatizzano in maniera efficace le differenze tra media a stampa preTelevisione e nuovi media. Le comunicazioni comunicative-discorsive-digitali della stampa pretelevisiva hanno possibilità e limiti profondamente diversi dalle comunicazioni espressiverappresentative-analogiche del medium elettronico. Chi scrive rifiuta la trasformazione indebita di
un‟analisi scientifica in un tribunale per l‟emissione di sentenze basate su giudizi di valore o su
considerazioni scientificamente irrilevanti su quale tipo di comunicazione sia eticamente preferibile o meno. Ciò che qui si può dire è che le comunicazioni espressive-rappresentative-analogiche
del medium elettronico detengono una rilevanza pubblica maggiore, date le caratteristiche già descritte, rispetto a quelle dei media scritti. Tutto questo determina degli effetti precisi, ne enuncio
solo alcuni.
L‟impossibilità di tradurre in un linguaggio discorsivo i messaggi rappresentativi della Tv rappresenta un handicap molto grave per le forme intellettualmente sofisticate di molta comunicazione scritta discorsiva. Spesso il giudizio negativo che a partire dal filone della teoria critica della
società ha caratterizzato la comunicazione elettronica nasce da questo fatto e dal non riconosci-
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mento che i messaggi rappresentativi della Tv sono funzionalmente incompetenti, è vero, ad accrescere in maniera specifica le nostre capacità di elaborazione concettuale, di tematizzazione o le
nostre idee, ma accrescono invece in maniera specifica il nostro bagaglio di esperienze elaborando
in maniera informativa prima e comunicativa poi il nostro “non esserci” negli eventi rappresentati, ma pur tuttavia condivisi.
Secondo alcuni (cfr. de Kerchove 1993) le differenze tra le due forme di comunicazione riguardano le modalità stesse di percezione ed elaborazione neuro-biologica delle nostre esperienze
(i cosiddetti Brainframes). Senza approfondire, per mancanza di competenze specifiche, questi
temi si può tuttavia riconoscere come i messaggi espressivi-rappresentativi-analogici siano incentrati su qualcosa di diverso rispetto a quelli comunicativi-discorsivi-digitali. La reazione da parte
di un qualsiasi pubblico a un messaggio verbale, non spettacolarizzato e scritto, sarà usualmente
di chiedersi se è vero o falso. Una comunicazione scritta nel contesto del medium libro sarà sottoposta a rigorose analisi delle sue argomentazioni, del suo stile letterario, del valore dell‟intreccio e
della validità estetica generale. Le reazioni di un pubblico strutturato come audience (su questa
trasformazione mi soffermerò in seguito) rispetto a una Videocomunicazione, per esempio, è usualmente profondamente diversa. Questo perché la presenza scenica trasmette messaggi diversi.
Nella comunicazione televisiva la fisicità della persona è totalmente presente simultaneamente per
milioni di persone. Il messaggio, quindi, non può mai essere totalmente impersonale. Da tutto ciò
deriva un fenomeno molto importante. Anche le emozioni private diventano comunicazioni pubbliche, il giudizio sulle emozioni sostituisce così il giudizio sulla verità degli enunciati espressi.
La negazione di questo fatto comporterebbe l‟impossibilità di spiegare razionalmente un concreto
fenomeno politico italiano quale Di Pietro. Anzi a volte, nella Videocomunicazione, per la trasmissione di messaggi complessi le parole sono inutili (si pensi all‟uso fatto di questo tipo di comunicazione da parte di Pannella; per un‟analisi approfondita cfr. Marletti 1984).
Tutto questo può essere riassunto dicendo che la forma delle informazioni dipende dalla struttura del medium. Nella Videocomunicazione il pubblico è in grado di fare una cosa che persino
nell‟interazione faccia-a -faccia risulta limitata dall‟educazione, il pubblico può cioè fissare con
insistenza l‟attore concentrandosi su come dice le parole piuttosto su che cosa dice. Un attore
conscio di ciò reciterà di conseguenza.
Gli effetti principali di queste forme comunicative espressive-rappresentative-analogiche riguardano però il fatto che le comunicazioni elettroniche non creano ingressi sociali separati. Come si può facilmente capire questa caratteristica dipende dai fattori socio-tecnici qualificanti il
nuovo medium e conduce direttamente a un fenomeno definibile come l‟abolizione, in un altro
contesto, delle “provincie finite di significato”. Le tradizionali distinzioni politiche tra gruppi sociali diversi per identità, livello di socializzazione e grado di influenza politica si basavano infatti
sulle distinzioni pre-elettroniche tra messaggi pubblici e comportamenti personali ed espressivi. In
sintesi questi diversi gruppi non avevano accesso allo stessa quantità e rilevanza di informazione.
Tali disparità di accesso potevano essere facilmente rilevate (registrando grado di istruzione, livello di reddito, numero di quotidiani, settimanali, mensili e/o libri letti, ecc.). Ora queste distinzioni non funzionano più, dato la grande rilevanza pubblica delle comunicazioni elettroniche facilmente accessibili a tutti. Rimane quindi un differenziale di accesso all‟informazione, ma è la
rilevanza pubblica di tale differenziazione a venire meno quando l‟arena politica decisiva diventa
la Televisione.
Si può quindi concludere questo punto sottolineando le funzioni essenziali svolte dai media elettronici nell‟elaborazione dell‟informazione e nella trasmissione di messaggi pubblici in direzione di una loro influenza accertabile sulla trasformazione in atto dei sistemi di ruolo. Da un lato il
medium elettronico ricrea la realtà nei termini delle funzioni sensoriali della comunicazione, superando cioè i limiti pre-tecnologici della comunicazione espressiva-rappresentativa-analogica confinata nei ristretti vincoli dell‟interazione faccia-a-faccia, dall‟altro tale medium abolisce le barriere tra le situazioni sociali.
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4. Effetti dei nuovi media sui ruoli di affiliazione e di autorità
Il doppio effetto derivante dalle funzioni svolte dal nuovo medium elettronico come illustrate in
precedenza consiste dunque nell‟estensione tecnologica delle capacità sensoriali, che assicura
un‟enorme diffusione delle comunicazioni espressive-rappresentative-analogiche, e da una tendenziale abolizione delle differenze tra diversi luoghi e situazioni sociali. Per quanto riguarda
l‟influenza dei nuovi media sui ruoli di affiliazione e di autorità, in altre parole sulle identità di
gruppo e sulle strutture gerarchiche, si possono individuare, a livello di ipotesi teorica, almeno
quattro grosse costellazioni di effetti. Definisco la prima (A) come “Villaggio globale e mente
locale”, la seconda (B) come transizione da un “Sistema politico discorsivo a un sistema politico rappresentativo”, la terza come “abolizione della distanza” e la quarta come “osservabilità
dell’osservazione”.
A - La prima costellazione di effetti riguarda in parte una conseguenza accennata nella nota
metafora di McLuhan relativa il “Villaggio globale” (McLuhan 1967). In un certo senso la forma
retorica usata da McLuhan corrisponde a un ossimoro. Villaggio globale significa infatti estensione totalizzante o comunque molto estesa di relazioni sociali limitate, ristrette, particolaristiche.
Uno dei fenomeni sociali più significativi verificatisi negli ultimi anni riguarda indubbiamente il
cosiddetto “Revival etnico” , fenomeno correlato alla crisi dello Stato-Nazione nella sua accezione moderna e ottocentesca. Ora il sorgere di fenomeni siffatti in un ambito di globalizzazione informativa può apparire paradossale. Come è noto, perlomeno fino agli anni ottanta,
l‟appartenenza a una minoranza di qualsiasi tipo si fondava su sistemi informativi isolati e su esperienze di gruppo molto particolari. Il risorgere di forme di appartenenza particolaristiche in un
contesto di globalizzazione informativa può quindi apparire come una sorta di paradosso mediatico delle minoranze.
Ora però la rinascita in molti gruppi sociali dell‟orgoglio per la propria identità particolare può
essere riferito alla relativamente recente capacità di vedere il proprio gruppo dall‟esterno, cioè dal
fatto che l‟evoluzione dei sistemi informativi non situa più l‟attore sociale esclusivamente nel
gruppo di riferimento particolare, dato che tale ipotetico attore non dipende più esclusivamente
dal gruppo di riferimento per la totalità delle sue esperienze rilevanti. I sistemi informativi contemporanei sono in grado di proiettare un singolo attore sociale dappertutto, ma proprio questa
proiezione illimitata lascia tale attore “senza senso di luogo” (Meyrowitz 1985). Si chiede di conseguenza il riconoscimento di un‟identità particolare al fine di negarla come fattore di esclusione,
come situazione sociale separata da contesti universalistici di riconoscimento. Questo diventa
possibile perché la coscienza sociale contemporanea si struttura sempre più nella forma di una
coscienza mediata. Tramite l‟effetto riflettente dei nuovi media in un contesto pubblico vengono
ora presentate situazioni precedentemente isolate che costringono i singoli attori, i gruppi sociali,
le istituzioni a prendere inevitabilmente posizione su temi prima esclusi dal dibattito pubblico
semplicemente perché privati. Ecco perché un processo di globalizzazione può risultare correlato
a effetti di localizzazione.
B - La seconda costellazione di effetti riguarda la transizione da un sistema politico discorsivo
a un sistema politico rappresentativo. Un sistema politico discorsivo elabora prevalentemente
l‟informazione politica tramite la stampa (pre-televisiva) e i dibattiti parlamentari. Anche in
un‟epoca pre-televisiva, ma caratterizzata dall‟avvento della radio e dei cinegiornali, un sistema
rappresentativo dell‟immagine politica viene comunque istituito tramite fenomeni, per esempio, di
“spettacolarizzazione della politica” (Mosse 1975). Un ulteriore processo di trasformazione nei
sistemi informativi della politica può essere trattato in parallelo alle note analisi di Kirchheimer
(1953; 1964; per ulteriori sviluppi cfr. Ungaro 1996; 1997) sulla deideologizzazione dei partiti
democratici di massa in Europa occidentale. Il passaggio da scopi pedagogici connessi alla mobilitazione politica delle classi sociali subalterne a una “massimizzazione del consenso al di là di
127
una rappresentanza ideologicamente coerente degli interessi” (Ungaro 1996, 71) si verifica anche
sulla base di una trasformazione del pubblico a cui il medium partito politico, tramite la stampa
specializzata, i volantini, la comunicazione porta a porta e i dibattiti in sezione, si riferisce.
L‟impatto dei nuovi media sull‟attivista politico si traduce quindi in una decrescente importanza del luogo dove ci si trova e in una accresciuta rilevanza su chi si è. Ciò è reso possibile dal fatto che l‟informazione politica elaborata dai nuovi media è in grado di offrire esperienze condivise
a tutti i militanti di quel soggetto politico, ma al contempo particolari per ogni singolo militante.
La Televisione riproduce la piazza, ma non riesce a ricreare l‟uomo-massa completamente eterodiretto delle grandi liturgie politiche del totalitarismo, perché la mobilitazione strutturalmente richiesta dai nuovi media è una mobilitazione intermittente.
Un‟altra caratteristica importante e spesso polemicamente sottolineata dai critici del nuovo sistema informativo della politica riguarda il nuovo status del contenuto di verità delle comunicazioni politiche. Poiché le nuove comunicazioni politiche sono tendenzialmente meno discorsive
delle precedenti esse appaiono maggiormente false. Ora tutto ciò non appare del tutto vero o perlomeno precisamente delineato. Da una parte, indubbiamente, le nuove comunicazioni politiche
appaiono maggiormente superficiali, piuttosto che maggiormente false. Come giustamente notato
da Sartori (1989), a volte la massima visibilità non rivela nulla del fenomeno guardato. Risulta
essere però anche vero che le esigenze del nuovo sistema informativo richiedono ai fini della credibilità degli attori politici una grande coerenza tra tutti i comportamenti visibili. Tenendo conto
di come ora la gamma di questi comportamenti si sia notevolmente estesa adesso il politico deve
“mettere in mostra tutto”. Ciò è a volte, o spesso, ridicolo o eccessivo, ma risponde anche alla elementare esigenza per cui più si svelano le conoscenze e le azioni dell‟autorità, meno esse sono
in grado o sembrano degne di esercitare un‟autorità assoluta. Risulta difficile immaginare un
leader che suda e sbuffa arrampicandosi in bicicletta su una strada in salita o che dopo il jogging
si tuffa in un McDonald possa diventare un “Grande Fratello” nonostante tutte le attuali potenzialità tecnologiche della comunicazione elettronica. L‟abolizione della distanza rimane una garanzia democratica.
Nei sistemi politici discorsivi, infatti, il leader aveva un facile accesso agli altri individui - pur
se limitato da limiti tecnologici che ne riducevano l‟impatto - e soprattutto un facile controllo
dell‟accesso a se stesso. Ora il pubblico ha un maggiore accesso ai comportamenti espressivi del
leader, di quanto ne abbiano i leader nei confronti del pubblico. L‟apertura sul comportamento di
retroscena delle autorità da parte dei nuovi media detiene infatti degli effetti molto importanti. Da
un certo punto di vista il pubblico appare moralmente coinvolto e maggiormente disposto a esigere regole etiche di comportamento anche nelle sfere di attività private prima escluse dalla comunicazione politica, costruendo in tal modo un‟identità morale di gruppo. Senza questa apertura al
comportamento di retroscena, senza questa publicizzazione del privato, fenomeni come il Watergate o Tangentopoli sarebbero impensabili. Ora il leader non può nemmeno sognarsi di trattare
male il gatto di casa senza che ciò venga comunicato con tutte le sue dirette conseguenze politiche. Un problema serio di questa trasformazione riguarda la confusione in atto nel pubblico, ma
anche negli operatori professionali della comunicazione e nei politici stessi, tra cambiamento nella
struttura dei sistemi informativi, che rende pubblico anche il retroscena, e il cambiamento nella
eticità sostanziale delle personalità individuali e dei comportamenti. Non si comprende, cioè, come l‟apparente caduta di eticità derivi in gran parte dall‟abolizione di distanze e mistificazioni
tra il leader e il pubblico. Anche per questi motivi l‟affiliazione politica di gruppo basata su
un‟immagine, su una rappresentazione politica totalmente osservabile, rimane sempre
un‟affiliazione debole nel lungo periodo.
C - La terza costellazione di effetti, definita “abolizione della distanza” e già in parte precedentemente illustrata in maniera astratta, riguarda essenzialmente, a livello di contenuto dei messaggi, la mescolanza tra sistemi informativi pubblici e privati. I nuovi media - mediante immagini o
commenti personalizzati in un‟analisi politica scritta o ancora tramite articoli riservati esclusi-
128
vamente al costume politico al di là di fatti specifici - non differenziano assolutamente tra spazio
di scena e spazio di retroscena. Secondo Sennet (1982), addirittura, nella società mediatizzata,
questo fenomeno di abolizione della distanza detiene perfino una valenza etica. Su questo livello,
però, deve essere detto come la stampa post-televisiva comporti degli effetti ancor più dirompenti
rispetto alla comunicazione televisiva. A differenza della stampa, infatti, la Tv non permette il
controllo su ciò che si esprime assieme a ciò che si comunica. In altre parole, il mezzo televisivo
ha sempre un vincolo collegato all‟immagine, da cui il commento non può eccessivamente distanziarsi. Certamente io posso presentare in Televisione, e commentare di conseguenza, un bacio appassionato come un‟aggressione sessuale, ma rimarrà sempre un vincolo insormontabile alla manipolabilità offerto dalla presenza dell‟immagine. Io posso essere dipinto come uno stupratore,
ma se in Tv la mia immagine nell‟atto in questione non assomiglia troppo a quella di uno stupratore, rimarrà sempre un dubbio. Tramite le comunicazioni espressive-rappresentative-analogiche
via stampa, invece, l‟immagine non viene mostrata, ma risulta insinuata. Anzi, solitamente i media a stampa post-televisivi usano il medium elettronico come parametro per stabilire
l‟adeguatezza” dei contenuti. Solo che, nei “pezzi di colore” e negli articoli di costume politico,
tale rimando non corrisponde nemmeno alla relativa onestà dell‟immagine presentata. In un servizio giornalistico scritto di tipo espressivo-rappresentativo-analogico io posso essere dipinto come
uno stupratore senza neppure la garanzia di un‟immagine almeno ambigua che possa quindi essere interpretata anche altrimenti. Spesso nei contenuti delle comunicazioni politiche della stampa
per parlare di un evento ci si riferisce esplicitamente al modo in cui è apparso in Tv. Questo rimando è potenzialmente controllabile da parte del lettore, ma in sostanza rimane sempre il fatto
che l‟immagine viene sostituita da un‟interpretazione o dalla citazione di un‟immagine non sempre controllabile. La stessa intervista come tecnica appare completamente trasformata. Essa ora
si mostra essenzialmente come un apparato di registrazione di “sensazioni”.
Il medium elettronico, in sintesi, ha introdotto una trasformazione importante, per la quale essere informato su un contesto è come essere in quel contesto. La stampa post-televisiva sostituisce però la “finzione” o “virtualità” dell‟immagine con quella del commento, dell‟insinuazione
dell‟immagine o dell‟uso disinvolto della citazione. La riduzione funzionale dell‟immagine a
commento scritto comporta un vincolo problematico fondamentale per i media scritti posttelevisivi.
D - La quarta costellazione di effetti, definita “osservabilità dell‟osservazione”, si basa sul fatto che nella società dell‟informazione di massa gli incontri ad accesso limitato destano sospetti.
Le recenti vicende italiane sul progetto di riforma costituzionale descrivono in maniera esemplare
il cambiamento di ruolo tra spazio di scena, la commissione parlamentare, e spazio di retroscena,
il salotto di casa Letta a Roma. D‟altra parte è stato già sostenuto come sia stato il medium elettronico a trasformare le case private in arene pubbliche. La fusione di arene e stili politici e la
trasformazione delle modalità di accesso ai luoghi sociali comportano quindi una ridefinizione del
contesto comunicativo del potere178. Questa riconfigurazione dello scenario politico esige innanzitutto che ogni sfera esposta all‟osservazione pubblica corrisponda a un disegno coerente. Sgarbi
può e in un certo senso deve essere sorpreso in un locale pubblico in compagnia di una pornoattrice. Per Prodi o Rosy Bindi questo sarebbe maggiormente imbarazzante, se non scandaloso. I
nuovi media, infatti, rivelano troppo o troppo spesso perché possano continuare a dominare i
concetti tradizionali di leadership politica basati sulla distanza dal pubblico e sulla irriducibilità
del retroscena alla ribalta. Ora questo non è più possibile, quindi vizi privati devono essere trasformati in pubbliche virtù. L‟incoerenza verrebbe infatti ipso facto considerata come una forma
odiosa di menzogna nei confronti del pubblico. Anche se il leader politico tentasse infatti di strutturare il contenuto di quanto presentato ai media, la forma di quanto verrebbe registrato cambierebbe inevitabilmente la natura dell‟immagine politica. Ciò significa che un leader politico debba
178
. A questo proposito si veda anche Luhmann (1979) e per quanto riguarda in maniera più specifica i contesti organizzativi rimando a Morgan (1995 ) e Bergquist (1994).
129
“ridursi” al rispettivo pubblico. Da questo punto di vista una manipolazione dal basso sembra
prevalere sulla manipolazione dall‟alto. Sussiste quindi un‟incompatibilità di fondo tra la grande
potenza tecnologica dei media elettronici e la loro totale apertura sociale.
Il fatto che, ovviamente, il rituale politico strutturi gran parte della realtà politica è un processo
in atto probabilmente fin dalle prime organizzazioni sociali umane. Con l‟avvento dei nuovi media non è cambiato quindi il “coefficiente di realtà” della politica, ma risulta cambiato lo stile di
uno spettacolo, quello politico, che rimane sempre vero quantunque recitato. Questo dipende essenzialmente dalle nuove circostanze sceniche attuate dal medium elettronico (Dayan e Katz
1993) e dalle nuove situazioni sociali modellate dai flussi informativi. I nuovi media stanno tendenzialmente creando un mondo privo di luoghi, cioè di comportamenti sociali esattamente “situati”. L‟alterazione strutturale dei confini delle situazioni, operata anche dai nuovi media, può spiegare come il piccolo industriale dell‟impresa post-fordista possa trasferire all‟estero la sua fabbrica e votare a casa per la Lega Nord.
L‟osservabilità dell‟osservazione intesa come fenomeno specifico della società mediatizzata
può essere impiegata come una metafora che uso per illustrare il rovesciamento della profezia
contenuta nel romanzo di Orwell, “1984”. Oggi, infatti, l‟osservazione del pubblico da parte del
sistema politico richiede l‟osservabilità di questi da parte del pubblico. Spesso si tratta di una osservabilità radicale, visto che comprende la propria sfera privata . I sistemi politici discorsivi erano sistemi di fatto elitistici che comprendevano in determinati contesti una forte mobilitazione ideologica delle masse. I sistemi politici rappresentativi sono sistemi in cui l‟élites devono accettare alti gradi di osservabilità e spesso la dipendenza da parte di sistemi informativi da loro influenzabili, ma difficilmente del tutto controllabili, per quanto riguarda l‟attuazione delle regole di
attenzione dei temi politici , in pratica la funzione dell‟agenda setting (cfr. Mazzoleni 1984). Risulta chiaro che l‟attuazione delle regole di attenzione non corrisponde a quella delle regole di decisione (su questo tornerò nell‟ultimo capitolo), ma il processo di massimizzazione del consenso
sembra poter avvenire nei sistemi politici contemporanei tramite la comunicazione politica solo
attraverso l‟osservabilità dell‟osservazione e la publicizzazione delle sfere private.
5. La differenziazione tra luogo fisico e luogo sociale: conseguenze politiche e socioculturali.
In questo capitolo tratterrò specialmente del fenomeno della ricollocazione domestica dello
spazio pubblico. Fenomeno in gran parte causato da processi di elaborazione dell‟informazione
rappresentati come eventi mediali (Dayan e Katz 1993). Per eventi mediali intendo un processo di
elaborazione dell‟informazione e di trasmissione di messaggi pubblici (ogni evento mediale quindi
di per sé risulta essere comunicazione politica) caratterizzato da quattro aspetti: (A) il feticcio
del pubblico; (B) sospensione dei meccanismi di filtraggio (elemento sintattico); (C) rottura cerimoniale della routine quotidiana (elemento semantico) e (D) comprensione e risposta (elemento pragmatico). Li prendo brevemente in considerazione.
(A) Il feticcio del pubblico. Secondo uno schema di analisi derivante direttamente dal senso
comune si può pensare l‟osservazione televisiva all‟interno di uno schema mentale per cui i programmi televisivi appaiono come prodotti e gli spettatori come consumatori. Nella comunicazione
politica che assume la forma di evento mediale si assiste invece a uno scambio di ruoli. Gli spettatori sono i prodotti, mentre i programmi televisivi diventano i consumatori. Questa definizione
consegue logicamente da quella proposta di comunicazione politica. Se si intende la comunicazione politica come offerta di un bene pubblico, le condizioni di tale bene - non esclusività, non divisibilità e non rivalità - spiegano la trasformazione degli spettatori in prodotti - l‟efficienza di offerta di un bene pubblico aumenta infatti all‟accrescere dell‟utenza dato il basso costo marginale e quella dei programmi televisivi in consumatori di pubblico. Questo avviene anche perché tanto
più un evento mediale ha successo quanto più pubblico riesce a coinvolgere, a “consumare” nel
suo cerimoniale. Il pubblico che viene consumato nel processo di comunicazione politica struttu-
130
rato nella forma di eventi mediali si trasforma in audience. L‟audience risulta costituita da raggruppamenti collettivi elementari caratterizzati da una separazione tra il luogo fisico sede
dell‟evento comunicato e il luogo sociale di comunicazione dell‟evento, luogo quest‟ultimo che
risulta proiettato nella sfera privata di ogni telespettatore. Il pubblico trasformato in audience diventa così un feticcio che il sistema dei mass media utilizza per legittimare le modalità delle sue
selezioni di contesti (informazioni) e i contenuti delle sue trasmissioni di messaggi (comunicazioni).
(B) Sospensione dei meccanismi di filtraggio. Si riteneva che la comunicazione non risultasse
tendenzialmente mai totale e istantanea. Come già notato agli albori delle ricerche sugli effetti dei
media (cfr. Lazarsfeld e Merton 1948), la molteplicità dei messaggi, la selettività delle audiences
e i filtri operati dalle reti sociali ostacolano una diffusione istantanea. La comunicazione politica
strutturata come evento mediale però supera questi filtri focalizzando l‟attenzione su un unico
centro cerimoniale ed esponendo gli spettatori dovunque e nello stesso momento. Fenomeni come
un viaggio del Papa o la “scesa in campo” di Berlusconi nel 1994 sono stati e vengono confezionati secondo queste modalità.
(C) Rottura cerimoniale della routine quotidiana. Ogni forma di comunicazione politica - data la sua “pubblicità”- si manifesta almeno parzialmente come rottura della routine. In quel momento si comunica sempre e in ogni caso la storia nella sua immediatezza, senza il differenziale
temporale di elaborazione, fondato sulla memoria, il ricordo o la testimonianza e i documenti, di
cui sono dotati gli storici professionisti.
(D) Comprensione e risposta. Il successo di un evento mediale dipende dal senso inteso del
pubblico. Le condizioni della riuscita di tale evento vanno studiate empiricamente caso per caso.
Secondo Dayan e Katz quelle particolari forme di comunicazione politica rappresentate come
eventi mediali possono essere collegate alla tipologia del potere operata da Weber. Si avrà così
l‟evento mediale presentato come competizione, collegato alla forma del potere razionale e rispondente alla domanda “chi vincerà?” (un dibattito politico finale tra due leader). Oppure un evento mediale presentato come conquista, collegato al potere carismatico e rispondente alla domanda “avrà successo?” (la discesa sulla luna, un viaggio del papa, una performance sportiva). O
ancora un evento mediale presentato come incoronazione, collegato al potere tradizionale e rispondente alla domanda “funzionerà?” (le nozze reali britanniche, una cerimonia d‟insediamento).
La legittimazione dell‟esito di una competizione verrà così offerta dal giudizio dell‟audience. Per
giudizio dell‟audience, in questo contesto, si intende l‟interpretazione data dagli esperti del giudizio dell‟audience, valutazione a sua volta basata su una stima dei “prodotti consumati” da parte
dei due competitori. La legittimazione di una conquista avviene invece sulla base di un processo
di sospensione dell‟incredulità (Freud 1979). In questo modo, secondo Turner (1972), si produce un cambiamento cognitivo per cui si passa da un approccio indicativo alla politica a uno ottativo caratterizzato da un eccezionale interesse verso la sfera del possibile. La sospensione
dell‟incredulità avviene dunque entro una cornice specifica, in quanto esercizio consapevole
dell‟immaginazione ed esplorazione del possibile, in questo processo risulta quindi accettato il
possibile anche altrimenti. La legittimazione di una incoronazione si basa invece sulla riproposizione di un contratto sociale, di un patto di fedeltà con l‟istituzione rappresentata.
Il contesto sociale risulta però profondamente mutato dal periodo dell‟elaborazione weberiana.
Riprendendo la definizione di Kornhauser (1959), la società di massa è infatti quel sistema dove
le élites sono facilmente accessibili all‟influenza delle non-élites e le non-élites sono facilmente
disponibili ad essere mobilitate da parte delle élites. Come si è già visto, questa disponibilità ipotizzata risulta soggetta a determinati vincoli, soprattutto si è verificato un fenomeno per cui lo
spazio pubblico si è trasferito da una dimensione esterna a una interna. La comunicazione politica
televisiva quindi, in un certo senso, depoliticizza la società, sia perché tiene il pubblico in casa,
sia perché contribuisce alla falsa impressione di un coinvolgimento politico. Come è già stato notato, però, questo deriva essenzialmente da un processo di omologazione attuato dal mezzo televi-
131
sivo, per cui risultano abolite le differenze di status tra l‟audience (il pubblico consumato). Il
passaggio essenziale dalle cerimonie analizzate compiutamente da Mosse (1975) agli eventi mediali contemporanei consiste nella trasformazione di un modo teatrale di costruzione dell‟evento
pubblico, basato quindi su un reale incontro tra protagonisti e pubblico in luoghi come chiese,
piazze, parlamenti, ecc., a un nuovo modello di costruzione dell‟evento basato sulla separazione
tra protagonisti e pubblico e sulla retorica della narrazione che sostituisce la virtù del contatto.
Attraverso questo processo si verifica la collocazione domestica dello spazio pubblico.
Le modalità estetico-politiche degli eventi mediali sono caratterizzate da quattro fasi essenziali.
(A) La possibilità di un accesso libero e universale all’evento. (B) La creazione di uno spazio
liminare, cioè di una cerimonia staccata tramite un rituale di separazione dalla quotidianità. (C)
L’attuazione di un ordine rituale. (D) Il posizionamento dello spettatore entro quello spazio e
quell’ordine in modo tale per cui egli possa identificarsi con un osservatore e rispondere come
un partecipante. Si tratta in pratica dell‟ingresso libero e rituale in uno spazio sacro, della costituzione di un rituale di separazione dalla realtà quotidiana e del ritorno con un nuovo ruolo alla
società normale. Da questo punto di vista il concetto di audience può essere utilmente differenziato da quello di massa, folla, pubblico, ecc., tenendo conto proprio di questa differenziazione del
luogo fisico da quello sociale. Quando non c‟è modo di “essere lì” viene creata una cerimonia per
incapsulare l‟esperienza del “non esserci”. Ma più che un‟esperienza impoverita o deviante si
tratta di un‟esperienza completamente differente.
La prestazione cerimoniale di un evento mediale si basa quindi su precise regole di etichetta. Se
si prende in considerazione un evento politico rilevante della recente storia italiana, come il successo ottenuto da un movimento politico, “Forza Italia”, formatosi in un arco brevissimo di tempo, si possono scorgere nelle modalità di presentazione di quel tipo di offerta politica tutte le caratteristiche proprie alla comunicazione di un evento mediale. I fattori di “novità” e lo stesso cleavage politico impostato sulla contrapposizione vecchio/nuovo, nelle elezioni del 1994, sono infatti derivati, al di là dei contenuti effettivi di quell‟offerta politica e dello status degli attori protagonisti, dalle regole di etichetta relative alla presentazione dell‟evento mediale. Tali regole possono essere ricondotte a tre passaggi essenziali.
A - Mostrare che l‟offerta politica presentata sotto forma di utopia è sempre stata una forza
trainante nella vita di quella società, tanto che la memoria collettiva mostra tracce di una continua
ispirazione verso di essa.
B - Confermare la fattibilità della trasformazione proposta investendo la forza delle aspettative
in un programma popolare di azione.
C - Superare l‟inaccettabilità cognitiva dell‟affermazione, “questa proposta politica rappresenta una nuova era”, derivante dalla sua mancanza di contenuto, attraverso la presentazione di un
messaggio finalizzato a una specie di “ritorno a casa”, per cui l‟offerta politica attuata indica in
fondo il proseguimento di una tradizione interrotta.
In questo modo, grazie alle condizioni socio-tecniche di un particolare tipo di offerta politica,
una proposta politica può assumere al contempo una dimensione nuova e tradizionale, innovativa
e conservatrice (cfr. Fedele 1996).
Naturalmente con ciò non si vuole affermare un determinismo comunicativo indotto dalle caratteristiche socio-tecniche del medium utilizzato, ma ritengo che a livello ipotetico non si possano negare gli effetti politici e socioculturali di un evento mediale. Per illustrare il non determinismo dell‟analisi qui presentata, si può brevemente descrivere l‟intero processo sociale che accompagna la costruzione di un evento mediale, prendendo poi in considerazione una possibile tipologia degli effetti politici e socioculturali derivanti.
6. Il processo sociale dell’evento mediale.
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A un primo elementare livello, si può distinguere il processo sociale dell‟evento mediale in tre
fasi distinte. La fase della latenza, quella dell‟evento propriamente detto e quella della valutazione.
La latenza rappresenta in questo caso le risorse sociali e politiche potenzialmente presenti in
quel sistema sociale e suscettibili di essere coinvolte negli effetti trasformativi dell‟evento mediale. Ritornando al caso “Forza Italia”, risulta evidente la presenza nella società italiana di valori e
interessi contrapposti alla sinistra. Tali risorse erano e sono a disposizione di una qualsiasi proposta politica economicamente liberale-liberista e socialmente conservatrice, quindi, ovviamente,
non sono state create dalla comunicazione politica. Ma il fatto che tali risorse siano state mobilitate e siano confluite proprio in quel soggetto politico e non in altri posizionati all‟incirca in quel
segmento del mercato elettorale (cfr. Ricolfi 1994) rappresenta un fenomeno spiegabile anche e in
maniera rilevante dalla comunicazione politica (per una discussione più approfondita su questo
punto rimando al capitolo 8).
L‟evento mediale propriamente detto si differenzia a sua volta nelle fasi della modellizzazione, della segnalazione e dell’incorniciamento. La modellizzazione assume la forma della costruzione sociale di un evento trasformativo. Nella modellizzazione, gli effetti trasformativi
dell‟evento mediale offerti in maniera specifica dai valori che vengono promossi possono essere
identificati dal pubblico senza ambiguità. La validità a lungo termine dei contenuti di tale proposta dipende però dalle interpretazioni fatte dalle varie componenti interessate da quel tipo di comunicazione.
Il periodo di latenza termina con la segnalazione per cui una posizione giudicata fino a quel
momento utopica diviene fattibile. Il segnalare rompe lo status quo. Favorisce il sorgere di nuovi
leaders d‟opinione. Da voce a risorse sociali e culturali considerate potenzialmente dominanti, ma
non adeguatamente rappresentate dalla congiura del silenzio attuata dagli avversari politici. La
segnalazione detiene quindi la funzione specifica di organizzare delle risorse disponibili allo stato
di latenza in vista di un cambiamento annunciato. La segnalazione funziona come una procedura
in grado di sospendere un paradigma considerato dominante. Essa tende a cancellare dal pubblico l‟ordine delle priorità esistenti. Anche gli avversari politici sono perciò costretti a comunicare
sulla segnalazione della novità proposta. Il vecchio paradigma - nel caso delle lezioni del 1994 ,
la competizione tra destra postfascista, destra ex-democristiana, vecchio centro cattolico e sinistra considerata dominante - viene “spostato” dal livello di ciò che viene dato per scontato a quello di ciò che può essere superato. Esso viene relativizzato come una possibilità tra le altre. In
questo modo, tramite la segnalazione, avvengono già dei cambiamenti. Nuove possibilità vengono
considerate dal pubblico e dai media stessi. Tale atmosfera contribuisce a creare un cambiamento
cognitivo. Al vecchio approccio indicativo alla realtà politica si sostituisce un grande interesse
verso la sfera del possibile. Quando l‟evento imminente è annunciato, tramite la segnalazione, il
pubblico percepisce una nuova comunicazione che contraddice lo status quo rappresentato da un
sapere considerato e designato come ufficiale. La nuova comunicazione si contrappone quindi al
sapere esistente. Nella forma della segnalazione dell‟evento mediale la comunicazione politica si
sottrae alle condizioni della razionalità argomentativa proprie alla Competizione, per rappresentarsi come Conquista (potere carismatico).
L‟incorniciamento (framing) assume la forma di un dialogo esplicito tra il leader ospite della
cerimonia e il pubblico. Nell‟incorniciamento l‟utopia si trasforma in una rappresentazione di un
fatto. Proprio nell‟incorniciamento dell‟evento mediale avviene la congiunzione tra novità e tradizione, tra innovazione e conservazione. Il leader ospite riorganizza la memoria collettiva del pubblico utilizzando la sua prestazione come formazione di una agenda setting proiettata al futuro,
ma estesa anche al passato. Per fare ciò, il leader rappresentato nell‟evento mediale non vuole né
può svolgere una descrizione scientifica del vecchio paradigma dominante od obbedire alle convenzioni storiografiche esistenti, ma intende produrre un nuovo punto di vista sul tempo passato e
futuro della società a cui si rivolge. Da questo punto di vista affermazioni sul “trentennale domi-
133
nio comunista in Italia” o sulla “perenne opposizione da lui svolta al potere politico in Italia” da
parte di Berlusconi risultano storicamente false, ma detentrici di effetti cognitivi reali. Ciò si può
verificare, però, solo se la contraddizione proposta al sapere ufficiale risulta condivisibile. Solo se
i cambiamenti annunciati dispongono di una quota di desiderabilità. L‟evento mediale, nelle sue
fasi della modellizzazione, segnalazione e incorniciamento, presuppone la latenza.
La valutazione dell’evento mediale dipende dalla sfasatura temporale che inevitabilmente si
viene a creare tra la comunicazione cerimoniale dell‟evento trasformativo e i suoi effetti non immediati. Per la sua stessa struttura un evento mediale è tendenzialmente irripetibile. La valutazione a lungo periodo di tale evento risulta perciò relativamente indipendente dalla comunicazione
politica proposta. Nel contesto del linguaggio teorico qui proposto, nelle elezioni del 1996 da parte di Forza Italia, potevano essere trasmessi dei nuovi messaggi, ma la dimensione informativa di
quel tipo di comunicazione politica era già stata data, non poteva quindi apparire più come nuova. Senza l‟aggancio alla novità, la struttura dell‟evento mediale risulta drasticamente ridotta. La
comunicazione politica non avviene quindi più nel contesto della Conquista (potere carismatico,
rispondente alla domanda avrà successo?), ma in quello molto più prosaico della Competizione
(potere razionale, rispondente alla domanda chi vincerà?). Mentre nell‟evento mediale rappresentato come Conquista ci si può sottrarre all‟argomentazione razionale, in quello strutturato come
Competizione non ci si può staccare troppo drasticamente dalle descrizioni scientifiche della realtà e dalle analisi storiche a disposizione. L‟evento mediale termina infatti in un preciso momento,
la valutazione dei suoi effetti a lungo periodo dipende da una molteplicità di fattori anche extracomunicativi.
7. Tipologia di effetti derivanti dagli eventi mediali.
Gli effetti derivanti dagli eventi mediali si strutturano essenzialmente come un nuovo tipo di relazione sociale. Essi riguardano in generale conseguenze di tipo locutivo - secondo la nota definizione di Austin (1987) - inerenti cioè i meccanismi informativi, di tipo illocutivo, riguardanti gli
aspetti cerimoniali e rappresentativi (contrapposti a quelli discorsivi) e di tipo perlocutivo, rispetto alla comprensione mediante senso inteso dei messaggi da parte del pubblico.
In maniera generale e astratta sulla scia dei presupposti teorici precedentemente esposti cerco
di offrire una tipologia preliminare di effetti derivanti dalla comunicazione di eventi mediali. Descrivo questa tipologia sulla base di una sorta di catalogo.
1 - Sostituendo le relazioni sociali tradizionali, nell‟ambito della comunicazione politica strutturata come evento mediale, i media ci dicono “qual è il nostro posto” piuttosto che farci riflettere
sullo status di razionalità di determinate argomentazioni. Nel contesto di questo tipo di comunicazione vengono offerte più ripetizioni e meno analisi, più miti e meno fatti, più proiezioni delle
nostre percezioni sensoriali che discorsi razionali. In un certo senso le tecnologie di elaborazione
dell‟informazione (le caratteristiche socio-tecniche del nuovo medium) incorniciano la nostra
mente in una struttura interpretante (de Kerchove 1993). Di solito, nella nuova situazione sociale
elaborata dai nuovi media, il nostro posto consiste nell‟ identificarci con un osservatore e di simulare una partecipazione comunque intermittente.
2 - I nuovi media attuano a livello politico una sorta di processo di disintermediazione (cfr.
Beniger 1986). Questo avviene, nell‟ambito del nuovo processo di comunicazione politica, mettendo in secondo piano l‟apparato di partito, privilegiando i rapporti diretti con il leader e la sua
immagine e neutralizzando l‟intermediazione professionale dei giornalisti della carta stampata,
sempre più costretti ad andare a rimorchio della comunicazione televisiva. Si assiste così, come
precedentemente accennato, a un fenomeno di contemporanea concentrazione di potere e incremento di aspettative di apertura e trasparenza dello stesso.
134
3 - La comunicazione politica nella forma di evento mediale rende comunque gli attori politici
in gioco maggiormente vulnerabili. Una cerimonia sbagliata può essere equivalente a un suicidio
politico.
4 - In questo tipo di comunicazione politica gli attori politici in gioco tendono ad assumere inevitabilmente un ruolo mitico. La trasmissione dell‟evento assume quindi le dimensioni di una profezia autoavverantesi (si veda il ruolo svolto dai sondaggi d‟opinione nei primi giorni successivi
alla presentazione del nuovo movimento politico di Berlusconi), mentre si manifestano fenomeni
di accentuazione di status (legittimità e carisma) e di autoconversione da parte degli attori politici
coinvolti.
5 - Nella comunicazione politica sotto forma di evento mediale si assiste a uno scambio di ruoli. Può succedere che i giornalisti assumano responsabilità direttamente politiche, mentre i politici
assumono in maniera rilevante capacità comunicative. Come già illustrato, inoltre, gli spettatori
diventano prodotti della comunicazione televisiva, mentre i programmi si trasformano in consumatori.
6 - In questo tipo di comunicazione politica risultano ridefiniti i confini sociali. Ciò avviene soprattutto ad opera della publicizzazione del privato domestico. Tutto ciò comporta anche un nuovo modello di identità pubblica. Il pubblico risulta “dissociato” dall‟evento inteso come fatto reale
e le sue reazioni si manifestano nel contesto di un sostituto simultaneo della prestazione originale.
7 - In questo contesto i nuovi media svolgono la funzione di agenda setting. Determinano cioè
le regole di attenzione sulle vicende politiche.
8 - La comunicazione politica di nuovo tipo tende ad accentuare la personalizzazione
dell‟offerta politica e a determinare delle cause consensuali a prescindere dai reali interessi in
gioco e dai comportamenti effettivi (si pensi al fenomeno “Mani pulite”).
9 - La comunicazione politica di nuovo tipo tende a ridurre l‟esposizione selettiva del pubblico
alla comunicazione. Nell‟evento mediale, come già scritto, vengono sospesi i meccanismi di filtraggio dei messaggi.
10 - In questo tipo di comunicazione politica si assiste a una completa rivalutazione dello spazio di retroscena rispetto a quello di scena.
11 - L‟evento mediale non risulta teletrasmesso, nel senso che corrisponde a una fotografia della realtà. Si tratta invece di un evento in sé, dotato di uno status specifico di realtà basato sulla
rielaborazione del “non esserci”. Per questo motivo gli eventi mediali modificano profondamente
l‟esperienza collettiva delle situazioni disconnettendo i luoghi fisici da quelli sociali. Gli eventi
mediali sono perciò costituiti da comunicazioni e dalla loro imputazione sotto forma di azioni da
parte del pubblico. Nella comunicazione di massa, perciò, non abbiamo a che fare con un mondo
pieno di cose o di fatti, ma con un insieme di informazioni e trasmissioni di messaggi continuamente presenti in una dimensione di attualità (cfr. Parsons 1975; Luhmann 1975; 1975a; 1981;
1981a; 1984).
12 - La comunicazione politica nella forma di evento mediale contribuisce alla riscrittura della
storia. Un insieme di ritualizzazione e funzionalizzazione cerimoniale dell‟evento rende evidente
come la registrazione professionalizzata della storia non è più sinonimo di ciò che si è effettivamente ricordato.
8. Società dell’informazione e opinione pubblica.
Si può definire l‟opinione pubblica in modi molteplici. Per Luhmann (1978) essa nasce quando
nell‟epoca moderna la verità non può essere più presentata come substrato tradizionale e religioso
del potere. Si passa quindi a considerare come supporto del potere politico l‟opinione, intesa come giudizio solo provvisoriamente consolidato su ciò che è giusto. Giudizio a sua volta accettabile se filtrato attraverso controlli razionali sulla ragionevolezza delle argomentazioni esposte e se
sviluppato tramite la discussione pubblica di istanze soggettive. In pratica l‟opinione pubblica di-
135
viene così un meccanismo al quale si affida la soluzione del problema di ridurre le molteplicità
soggettive di ciò che è politicamente possibile.
Habermas invece (1975; 1987; 1996) definisce l‟opinione pubblica sulla base delle regole di
una comune e reciprocamente condivisibile prassi comunicativa. Tali regole possono essere individuate in una sorta di profonda struttura sociale offerta dalla grammatica delle reciproche comprensibili informazioni radicate nel mondo-della-vita. Secondo altri (cfr. Gouldner 1976;
McQuail 1995), l‟opinione pubblica emerge da uno spazio pubblico disponibile a tutti per la libera espressione del pensiero e la rivendicazione di diritti. Da questo punto di vista, la società
dell‟informazione contemporanea (secondo la dizione di McQuail) è quel sistema sociale che deve
essere in grado di neutralizzare le esigenze di ruoli collegati ad ambiti ristretti per giungere a una
adeguata definizione di “pubblico”.
Questi temi devono essere però rivisti, a mio avviso, alla luce delle considerazioni teoriche precedentemente esposte. La linea Gouldner-McQuail, per esempio, non tiene conto del fatto che,
nell‟ambito della società dell‟informazione, a una moltiplicazione delle possibilità di comportamento, corrisponde una riduzione delle possibilità di partecipazione attiva. Mentre Habermas non
sembra considerare adeguatamente come i nuovi media, differenziando il luogo fisico da quello
sociale, differenzino anche l‟opinione pubblica dal mondo della vita quotidiana (almeno se questo
viene inteso nell‟accezione razionale-discorsiva habermasiana) contribuendo a “privatizzare” le
discussioni pubbliche.
Compiendo a questo punto un discorso meno astratto, vorrei tentare di illustrare in questo capitolo conclusivo un concetto adeguato di opinione pubblica nell‟ambito dei nuovi media, assumendo come riferimento alla discussione il dibattito sviluppatosi in Italia, a partire dalle elezioni del
1994, ma anche in precedenza, sulle trasformazioni in atto nei processi della comunicazione politica e sulle presunte capacità dei nuovi media di influenzare le scelte elettorali (per questo dibattito si vedano almeno tra gli altri: Bettinelli 1995; Biorcio 1996; Calise 1993; Legrenzi 1995; Livolsi e Volli 1995; Mancini 1990; Mancini e Mazzoleni 1996; Marletti 1990; Mazzoleni 1984;
1992; Morcellini 1995; Pasquino 1990; Ricolfi 1994; Sani 1995; Sani e Segatti 1996; Segatti
1995 ).
In un articolo apparso sul “Mulino” nel 1994, Ricolfi sostiene che nelle elezioni politiche di
quell‟anno:
A - la televisione abbia influito sul risultato elettorale.
B - L‟entità di tale influenza sia stata così ampia da determinarne l‟esito. Nella fattispecie la
comunicazione televisiva sia della Rai che dell‟attuale Mediaset come effetti complessivi, nel contesto di quella competizione elettorale secondo Ricolfi, ha premiato la destra rispetto al centro e
alla sinistra, ha in generale penalizzato il centro e ha in particolare, nel contesto della destra,
premiato Forza Italia rispetto ad altri schieramenti.
Secondo Ricolfi, da un punto di vista teorico, ci possono essere due chiavi opposte di lettura
relativamente all‟influenza della televisione sul comportamento politico (sul concetto di influenza
si veda anche Parsons 1975a). Una vede la comunicazione politica come manipolazione del consenso, l‟altra come mera informazione. Ricolfi sembra optare per un‟ipotesi teorica secondo la
quale la Tv non sia in grado di convincere direttamente il pubblico, ma possa alterare le strutture
della rilevanza dei teleutenti governando il traffico dei temi e dei personaggi e svolgendo quindi
qualcosa di paragonabile alla funzione di agenda setting precedentemente esposta. Secondo
quest‟ottica, quindi, si devono prendere empiricamente in considerazione, non solo le conduzioni
delle singole trasmissioni, ma anche le gestioni generali dei palinsesti, estendendo le analisi anche
a contenitori superficialmente neutri, perché non riconoscibili per le funzioni di trasmissione di
messaggi politici.
Il principale tema teorico che l‟autore espone alla conclusione della sua ricerca consiste
nell‟avanzare l‟ipotesi, derivata dalla psicologia cognitiva, secondo la quale l‟attore sociale risulta essere fondamentalmente un processore di informazioni capace di rielaborare i messaggi rice-
136
vuti. Quindi risulta vero che, al termine di questo processo, l‟attore sociale avrà sempre espresso
le sue “autentiche” preferenze, ma non si può al contempo negare l‟influenza del tipo di informazione ricevuta al fine della determinazione di tali preferenze. Quindi si può misurare l‟influenza di
tali informazioni sul comportamento elettorale al punto tale da individuare, tramite particolari
metodiche empiriche, quanti voti, ovviamente con una certa approssimazione, abbia potuto spostare la comunicazione politica televisiva.
Il problema così impostato risulta essere di grande importanza per le argomentazioni illustrate
in questo saggio. Vorrei quindi approfondirlo per illustrare anche un possibile abbozzo di concetto di opinione pubblica nell‟ambito della società dellainformazione contemporanea, caratterizzata
dai nuovi media.
A Ricolfi risponde Legrenzi (1995) avanzando le seguenti critiche alla ricerca svolta dal primo
autore e alle considerazioni teoriche che da tale ricerca sembrano derivare. Legrenzi prende in
considerazione la correlazione ipoteticamente esistente tra determinate variabili e scelta di voto.
Egli afferma che alla conclusione di un percorso logico al fine del quale una persona-tipo afferma
di
A - essere orientata in un certo modo e di
B - aver guardato per un certo numero di ore determinati canali televisivi e di
C - aver votato in modo coerente o meno con il suo orientamento precedente
non si possono trasformare gli e in perché. Quindi non si potrebbe affermare che una persona
orientata politicamente in un certo modo abbia poi votato in un altro perché ha guardato determinati canali televisivi. Secondo Legrenzi dalla ricerca di Ricolfi si possono al massimo ricavare
alcuni atteggiamenti, opinioni e comportamenti costituenti degli elementi diagnostici per prevedere determinati comportamenti. Nel caso specifico seguire certi canali televisivi invece di altri può
quindi essere interpretato come indice di determinati gusti che si tradurranno poi probabilmente in
determinate scelte di voto. In un certo senso Legrenzi rovescia il percorso causale illustrato da
Ricolfi nella sua ricerca, la comunicazione televisiva non causa determinati comportamenti, ma
semmai la preferenza di certi programmi invece di altri diventa indice di determinate opinioni politiche. Io, quindi, non voto Forza Italia perché guardo Rete 4, ma guardo Rete 4 come espressione di atteggiamenti e opinioni che condurranno probabilmente a votare Forza Italia invece che il
PDS.
Secondo Legrenzi, inoltre, Ricolfi confonde tra segni, che permettono di svolgere una diagnosi,
e cause, che permettono invece di spiegare un determinato comportamento. Il consumo televisivo
può essere quindi interpretato, secondo l‟autore, come segno, non come causa di... .
Da queste osservazioni critiche Legrenzi fa derivare delle conseguenze operative. Infatti, a suo
avviso, se si ritiene (secondo lui erroneamente) che l‟esposizione a determinati canali televisivi
causi certi voti, si sarà indotti a richiedere un controllo delle esposizioni, cioè delle fonti di informazione. Par condicio corrisponderà in questo modo a il diritto di avere pari informazioni. Se invece si ritiene che l‟esposizione televisiva sia uno fra i tanti elementi diagnostici - come la scelta
dei giornali, per esempio - sarà privo di senso chiedere un controllo dei programmi televisivi, così
come, di solito, non si regolano a priori i contingenti di copie di ciascun quotidiano nelle edicole.
Quindi così come comprare “l‟Unità” è un segno delle mie simpatie politiche, non la causa del
mio voto di sinistra, guardare Rete 4 è un segno dei miei atteggiamenti socioculturali, non la causa del mio voto a destra.
Legrenzi fa poi riferimento alla nota ricerca di Quattrone e Tversky (1990)179 relativamente alla confusione tra cause e segni diagnostici. Dagli esperimenti degli autori si può evincere una
considerazione generale riguardo ai modi di ottenere informazioni. Secondo Legrenzi,
l‟informazione può essere considerata come un input tra gli altri che, data una certa struttura di
meta-preferenze, conduce poi il singolo attore a una determinata scelta elettorale. Dagli studi
179
. Ho trattato i problemi relativi alla non-consequenzialità, riguardo alla razionalità del voto politico, nell‟ambito
di una discussione con V. Girotto, in Ungaro (1997a).
137
svolti nell‟ambito del marketing e della pubblicità, derivano infatti delle considerazioni per cui
informazioni uguali per prodotto, nell‟ambito di una pluralità di prodotti, possano condurre a
scelte diverse anche a parità di gusti dei consumatori. In questo modo così come non si può più
sperare di pianificare la semantica del consumo, appare irrilevante e comunque impossibile, secondo Legrenzi, cercare di distinguere tra effetti informativi e presunti effetti persuasivi della comunicazione, appare quindi indecidibile la questione se l‟esposizione alla comunicazione televisiva ci aiuti a scegliere meglio (ci aiuti a selezionare le nostre autentiche preferenze) o influenzi direttamente le nostre scelte (crei le nostre preferenze).
Questa discussione è importante perché illustra i termini costitutivi della possibile influenza
dell‟opinione pubblica nell‟ambito della società dell‟informazione. Ritengo quindi che possa essere affrontata utilizzando lo schema teorico illustrato in precedenza in queste pagine.
Legrenzi ha ragione quando afferma che, se non si dispone di una teoria, anche ingenua, per
spiegare come funzionano le cose, scambiare segni per cause risulta essere un pericolo sempre in
agguato. Applicando questo principio, intendo reimpostare la discussione appena illustrata alla
luce della definizione qui proposta di comunicazione, per cui si distingue, all‟interno del processo
comunicativo, tra informazione e trasmissione di messaggi, cioè tra selezione dei temi e atto comunicativo vero e proprio. Se si compie questa semplice distinzione ci si rende conto di come Legrenzi abbia ragione a livello di trasmissione di messaggi, atti comunicativi, ma torto, a mio avviso, a livello di informazione, di selezione dei temi, mentre viceversa Ricolfi confonda segni diagnostici e cause a livello di trasmissione di messaggi, di atti comunicativi, ma non abbia torto
sull‟influenza ipotizzata dell‟informazione sulle scelte politiche.
Infatti, riguardo alle argomentazioni di Legrenzi, risulta ovvio sottolineare come la possibilità
di scelta all‟esposizione comunicativa derivi dal sistema dell‟informazione vigente. Compiendo un
esperimento mentale, se io ipotizzo un sistema politico pluralista dove però ci sia un monopolio
del sistema informativo (Tv, radio, giornali), risulterà perfettamente logico ed empiricamente sostenibile ritenere che una quota di elettorato del partito al potere sia determinata dal monopolio
del sistema informativo (sembra essere il caso messicano, al di là dei brogli elettorali). Legrenzi
converrà, penso, che si possa affermare in questo caso che il monopolio dell‟informazione abbia
potuto causare certi voti per quel partito che tale informazione monopolizza. Di più, la stessa
struttura di accesso del medium Tv e le sue caratteristiche socio-tecniche, possono fare ipotizzare
che anche il solo monopolio dell‟informazione televisiva, a fronte di una stampa e di una radio
pluraliste, possa determinare una quota di preferenze elettorali in attori che, per tutta una serie di
motivi, siano poco o per nulla esposti a sistemi informativi alternativi (perché non ascoltano la
radio o non leggono i giornali, per esempio, basta guardare le statistiche relative alle percentuali
di fruizione di tali sistemi informativi per accorgersi della rilevanza di tale differenza).
Legrenzi non prende poi in considerazione il fatto che guardare la Tv non corrisponde a leggere
un giornale. Si tratta infatti di scelte strutturalmente diverse, come si è scritto in precedenza. Anzi, il giornale comporta una scelta nel vero senso della parola, per cui il lettore è un consumatore
e il giornale risulta essere il prodotto consumato. Per quanto riguarda la Tv, invece, la situazione
si inverte. Io singolo teleutente ho a disposizione in maniera facile e praticamente gratuita - comunque senza costi marginali - tramite il telecomando, un‟infinita gamma di trasmissioni che mi
consumano come prodotto. Io, quindi, posso anche scegliere di guardare solo il Telegiornale di
Rai 1, ma difficilmente, nel contesto dell‟ascolto televisivo generale, posso evitare di sentire
Raimondo Vianello affermare in una popolare trasmissione sportiva di prima serata che “voterà
per il Presidente”. Naturalmente non è la trasmissione di questo singolo messaggio a determinare
il mio voto, ma Raimondo Vianello, in questo caso, non trasmette solo un messaggio - cosa di per
sé irrilevante - ma struttura anche una situazione.
Nelle elezioni del 1994 si è verificato un fenomeno che Legrenzi non sembra cogliere. In un sistema informativo televisivo caratterizzato in pratica da un duopolio, la metà abbondante di quel
sistema si trasforma direttamente in attore politico. Sulla base di una situazione di latenza favo-
138
revole - come già illustrato - tale attore struttura la propria offerta politica come evento mediale
direttamente all‟interno di se stesso (non era ospite di un sistema informativo indipendente, ma
era lo stesso sistema informativo). L‟evento mediale viene costruito in maniera efficace e - data
anche la buona condizione di latenza - ottiene un notevole successo elettorale. Risulta, a mio avviso, estremamente azzardato affermare che tale sistema informativo non abbia spostato dei voti.
A Legrenzi sembra sfuggire che, quando si parla seriamente di parità di condizioni, non si fa riferimento alla trasmissione di messaggi, ma alla struttura dell‟informazione. Risulta ovvio considerare irrilevante la regolazione del numero di copie dei vari quotidiani nelle edicole, ma è altrettanto ovvio garantire che nelle edicole ci siano più quotidiani. Rispetto al sistema informativo infatti,
io, singolo attore sociale, non posso scegliere, perché tale sistema struttura le mie condizioni possibili di scelta.
Riguardo quindi alle preferenze, se si ritiene che esse costituiscano un insieme chiaro, preciso e
distinto per cui - secondo il dettato dell‟approccio della scelta razionale - ogni singolo attore sarà
sempre “il miglior giudice di se stesso”, è ovvio che nessuna informazione potrà mai cambiare
queste granitiche asserzioni. O in ogni caso, sulla base di questo assunto deterministico, sarebbe
indimostrabile ogni possibile forma di influenza, dato che un attore razionale sceglierà sempre il
meglio per sé. Ma, se questo fosse vero, non esisterebbero le religioni, le ideologie, la psicanalisi
, i processi di socializzazione secondaria in generale e i consulenti finanziari. Certamente Bertinotti può tifare Milan e non votare Forza Italia, ma quando è data in un certo settore una struttura incerta delle preferenze, l‟informazione, intesa come selezione dei temi comunicabili - e soprattutto se concretamente applicata come evento mediale cerimoniale - può influenzare le nostre scelte così come ci rivolgiamo a qualcosa di altro da noi quando abbiamo bisogno di consigli “sul nostro bene” in determinati campi.180
Da questo punto di vista, quindi, la concorrenza perfetta rimane il regime preferibile per i sistemi informativi, così come ci sono più consulenti finanziari, più religioni, più psicanalisti e
scuole di psicanalisi.181 In sintesi, quindi, ritengo che le informazioni - intese come selezioni - tutte le informazioni, influiscano sui comportamenti degli attori sociali, per questo il loro accesso
deve essere regolato nel senso di assicurare la garanzia della varietà necessaria dei vari sistemi
informativi.
Quello che vale per le informazioni (selezioni) non vale però per le trasmissioni di messaggi
(atti comunicativi). La differenza tra senso intenzionato e senso inteso deve essere tenuta infatti
sempre presente nella definizione di comunicazione. Perché allora sì, si rischiano di confondere
segni diagnostici con motivi causali. In altre parole la trasmissione di un messaggio specifico non
può essere mai considerato causa di alcunché, perché non si può mai sapere se il senso intenzionato sia corrisposto al senso inteso.
Riprendendo un esempio precedente, Raimondo Vianello quando ha dichiarato in una popolare
trasmissione televisiva in prima serata “io voto per il Presidente”, non ha spostato voti a livello di
atto comunicativo, per la trasmissione di quel messaggio, ma perché, a livello informativo, ha
contribuito a strutturare una situazione già caratterizzata dalla fenomenologia cerimoniale
dell‟evento mediale (la discesa in campo politico di un grande industriale, presidente di una squadra invincibile, proprietario di tre canali televisivi, ecc.). Se si interpretano infatti le trasmissioni
di messaggi, gli atti comunicativi, come cause di comportamenti specifici, si rischia sia la trappola del determinismo, per cui non ci si rende conto del fatto che un determinato messaggio potreb-
180
. Risulta interessante, ai fini di questa discussione, notare la dichiarazione di un dirigente sindacale per cui, pa rlando delle elezioni del 1994 e del pluralismo politico dei sindacati, ha puntualizzato come il sindacato “abbia difeso molti dei suoi iscritti, che avevano votato a destra, dalle conseguenze del loro stesso voto”.
181
. Se questa condizione viene rispettata allora sì diventa irrilevante cercare di scoprire se, per esempio, lo psicanalista mi abbia aiutato a scegliere meglio o abbia creato una mia preferenza inconscia o meno. Basta che ci siano le
condizioni per poter scegliere da chi farsi aiutare.
139
be convincere solo persone già convinte da altri fattori, che quella inerente la sottovalutazione degli effetti non intenzionali.
Svolgendo un altro esperimento mentale, ho letto da qualche parte una dichiarazione di Prodi il
quale affermava di aver deciso di impegnarsi in politica quando ha visto, su Rete 4, un Babbo
Natale invitare a votare per Berlusconi. Vero o falso da questa notizia si potrebbe far derivare
l‟assunto per il quale la comunicazione politica attuata da Rete 4 abbia causato la vittoria
dell‟Ulivo. Il Babbo Natale elettorale non aveva probabilmente il senso intenzionato di spingere
Prodi a candidarsi, ma quel messaggio ha contribuito in maniera non intenzionale a far decidere
proprio tale scelta all‟attuale premier. Per questo motivo mi sembra forzato - e in questo caso
concordo con Legrenzi - correlare alla scelta di voto il tempo di esposizione a una determinata
comunicazione televisiva. Un‟analisi degli effetti non intenzionali di tale comunicazione potrebbe
per esempio far scoprire anche un aumento di iscrizioni al PDS.
In sintesi, quindi, ritengo che la differenza tra informazione-selezione e trasmissione di messaggi-atto comunicativo, nel processo generale della comunicazione, risulti fondamentale anche
per una sua operazionalizzazione empirica. Come già sostenuto da Parsons (1975a), nel suo tentativo di distinguere l‟influenza dal potere, Alter può cercare di influenzare Ego specialmente attraverso il controllo della situazione in cui Ego è collocato. Ciò può avvenire poiché Alter può
persuadere Ego comunicando che, data la situazione e le sue presunte preferenze la cui partecipazione a quella situazione può rappresentarne un segno diagnostico, egli potrebbe operare determinate scelte. Naturalmente il medium di tale persuasione risulta variabile, ma si è già visto abbondantemente in questo saggio come i nuovi media siano in grado di costruire situazioni sociali estremamente pervasive e di facile accesso differenziando il luogo fisico da quello sociale. Dal
punto di vista della comunicazione politica, ritengo comunque che le elezioni del 1994 , in Italia,
siano state caratterizzate per la prima volta da un‟elevata influenza del sistema informativo, grazie anche ai profondi mutamenti accaduti nel sistema politico italiano, soprattutto a livello della
trasformazione dell‟offerta politica e dei cleavages esistenti (cfr. Ungaro 1997). Dalle considerazioni precedentemente svolte si potrebbe quindi ipotizzare, date certe condizioni afferenti in generale una situazione strutturata come evento mediale, la rilevante influenza dell‟informazione sul
comportamento elettorale, mentre la trasmissione di messaggi risulta condizionata da fattori concomitanti di persuasione - per cui la comprensione di un messaggio diviene un segno di determinate preferenze e non la causa di queste - e dagli effetti non intenzionali derivanti dalla trasmissione del messaggio medesimo.
Giunti a questo punto, si possono abbozzare alcune caratteristiche rilevanti costitutive
l‟opinione pubblica nel contesto della società dell‟informazione. L‟opinione pubblica contemporanea agisce (nel senso che le vengono imputate delle azioni) in un contesto determinato da un effetto di disconnessione. Effetto dato dal fatto che la comunicazione politica differenzia le situazioni sociali dalle precedenti forme di interazione e di relazione sociale. Tutto ciò contribuisce a
trasformare la sfera domestica in arena pubblica. La comunicazione televisiva, inoltre, non crea
ingressi sociali separati, questa condizione unitamente alle caratteristiche socio-tecniche del medium - alta accessibilità fisica e semantica, basso costo, elevata comprensibilità, decontestualizzazione e fusione degli spazi, elevata diffusività - costituisce le qualità maggiormente rilevanti
della comunicazione politica rispetto all‟opinione pubblica, queste derivano dalla grande potenza
tecnologica di una comunicazione siffatta (al contempo accessibile e pervasiva) unitamente alla
grande apertura sociale della stessa. Le nuove forme di comunicazione politica, infatti, fondono (e
confondono) scena e retroscena, pubblico e privato, differenziando invece - come già affermato - i
luoghi fisici da quelli sociali. Questo contribuisce a strutturare l‟opinione pubblica contemporanea come audience, cioè come prodotto consumato dai nuovi media. Tali fenomeni si basano su
un‟esperienza completamente innovativa, l‟elaborazione del “non esserci”, la possibilità cioè di
partecipare a determinati fenomeni politici e sociali senza essere fisicamente presenti. In questo
senso la comunicazione sostituisce le precedenti esperienze basate su “concrete” relazioni sociali.
140
Questi fenomeni non detengono solo caratteristiche deteriori. L‟abolizione della distanza tra
leader e pubblico, da una parte riduce il politico al suo pubblico - da qui una dequalificazione generale della classe politica - e favorisce processi populistici di disintermediazione, ma dall‟altra
offre garanzie di democraticità, elimina le mistificazioni precedenti, non rende solo accessibile il
pubblico al leader, ma anche e soprattutto il leader al pubblico, determina inevitabilmente una
maggiore esigenza di moralità. Anche se strutturata come audience, l‟opinione pubblica contemporanea detiene quindi ancora una funzione essenziale nata con il sorgere della modernità, la
funzione cioè di mantenere la comunicazione politica, a diverse condizioni, come bene pubblico.
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L’arte e il dilemma della comunicazione
di Laura Verdi
1. L’arte e il dilemma della comunicazione
Presentare come paradosso sin dal titolo il binomio arte e comunicazione (laddove il parlare di
strategie comunicative inviti piuttosto ad essere propositivi) può rischiare di apparire inutilmente
provocatorio. Mi sforzerò di spiegare come sia possibile, secondo il mio punto di vista, dissipare
questo sospetto di scandalo della razionalità, senza mancare di rispetto ad una sociologia intesa
come intelligenza della modernità e non come linguaggio stancamente impositivo. Scegliere di affrontare il problema dal suo lato più impervio (la difficoltà o addirittura impossibilità della comunicazione) anziché dal più agevole non presenta in realtà particolari vantaggi, se non quello di
arrivare all‟obiettivo seguendo strade meno consuete: e quindi non da quelle che ancora additano
nella cumulazione la strategia fondamentale per garantire la comunicazione stessa. Preferendo
l‟altra via, quella della sottrazione e dell‟assottigliamento del senso, cercherò allora di indicare
come essa sia praticabile per un‟arte che non cerchi l‟isolamento quanto piuttosto la relazione più
vivace con le istanze comunicative proprie di ogni società. Ancora, mi proverò ad indicare
l‟importanza dei punti di osservazione per la costruzione di un senso plurale, che per l‟arte contemporanea è diventato condizione esistenziale. Questo secondo punto, in particolare, riguarda il
problema cruciale di tutti i processi cognitivi: quello della reale o presunta oggettività dei loro risultati, o della loro capacità di proporre (senza più pretese di fondare) un senso praticabile
all‟agire (e all‟agire comunicativo in ispecie). Un senso tutto dispiegato nella dimensione fenomenologica dell‟heideggeriano Dasein, e non più nell‟incontrollabile regione (cara ai filosofi di ieri)
di un essere inattingibile, poco disposto a venire a patti con quella molteplicità di ragioni che sorreggono invece i soggetti storici ed il loro agire. E‟ rispetto a questa dimensione che il concetto di
143
Lebenswelt “resta sempre sullo sfondo”, come sostiene Habermas, essendo “il terreno senza problemi di tutti i dati di fatto nonché il quadro indiscusso nel quale mi si pongono i problemi che
devo affrontare”182. In quest‟ottica, sempre secondo Habermas, “soltanto il contesto direttamente
messo in discussione può [...] entrare nella problematizzazione dell‟agire comunicativo”183. Mentre il mondo vitale ha a che fare con il senso del limite e del confine culturale, e sta intorno alle
situazioni attuali di azione “come una realtà indiscutibile e al tempo stesso „in ombra‟”184 tanto
nella concezione di Schütz quanto in quella di Husserl, esso si rivela estraneo alle prospettive ermeneutiche; per trasporre il concetto da un piano trascendentale alla regione posta “all‟interno
del mondo oggettivo che costituisce la totalità dei fatti ermeneuticamente accessibili, storici o socio-culturali [...] è adatto piuttosto il concetto di quotidianità del mondo vitale ”185, quello stesso
che, equivalendo al concetto profano di “mondo”, più si avvicina alla dimensione dell‟esserci
(Dasein) che è propria dell‟arte. La quotidianità del mondo vitale diviene anzi, nella prospettiva
habermasiana, un “sistema cognitivo di riferimento” in cui l‟agire comunicativo tende insieme
“al rinnovamento del sapere culturale”, “alla produzione di solidarietà” e “alla formazione di identità personali”186. Esso ha dunque la funzione di indirizzare alla comprensione e all‟intesa, ma
anche all‟identità del soggetto in una prospettiva cisrazionalistica (mi si consenta il neologismo) e
semmai solidaristica che non è sempre inutile all‟arte187. A questo punto, Habermas ci ha già chiarito che cosa aveva in mente per intesa e per regola, facendo riferimento alle teorie di Wittgenstein, che fondano la validità delle regole linguistiche sulla loro sostanziale identità,
nell‟accezione di “validità intersoggettiva”188 (sanzionata dall‟uso all‟interno di quella che poi,
non a caso, diviene una koiné linguistica). E‟ nonostante l‟esistenza di regole di questo genere che
l‟arte del XX secolo incomincia ad esercitare il suo dubbio sul senso e sulla comunicazione.
L‟interrogazione sul senso che ne scaturisce coinvolge la filosofia (divenendo propria
dell‟ermeneutica più che della stessa estetica) e si dirige verso l‟essenza dell‟opera d‟arte ed il suo
valore quando essa sia sottratta al proprio ambito di Lebenswelt in senso trascendentale: la risposta che ne fornisce Heidegger è che “l‟essenza dell‟arte consisterebbe [...] nel porsi in opera della
verità dell‟ente”189, indirizzando così la nostra attenzione verso la fenomenologia dell‟arte. Si può
allora continuare ad affermare che l‟opera, una volta privata della sua dimensione storica e sociale, sia un fenomeno reversibile? La risposta del filosofo è senz‟altro negativa, perché quando “il
mondo che apparteneva all‟opera che ci sta innanzi è andato distrutto”, la sua sottrazione o “la
sua scomparsa non sono fenomeni reversibili. Le opere non sono più ciò che erano”, dal momento
che “lo stare in se stesse è dileguato”190, e di loro si conserva solo la materialità. Che ne è allora
della loro verità? Essa si storicizza nella forma della bellezza, dato che “l‟apparire ordinato
nell‟opera è il bello. La bellezza è una delle maniere in cui è presente [west] la verità”191. E tuttavia anche per Heidegger rimane aperto il problema del valore dell‟arte come valore eterno o tran1.
A. Schütz, T.Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, Frankfurt am Main, 1979, p. 26, cit. da J. Habermas, Teoria
dell’agire comunicativo, II, Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna, 1986, 1997, p. 721.
2. J. Habermas, Ibidem.
3. Ivi, p. 723.
4. Ivi, p. 727.
5. Ivi, pp. 729-730.
6. Cfr. ancora ivi, pp. 732-733. Qui Habermas si discosta tuttavia dalla tradizione di pensiero che va da Durkheim a
Parsons e che concepisce il Lebenswelt nel suo esclusivo aspetto funzionalistico di integrazione sociale. A questa
visione egli contrappone la propria di cultura, come “la riserva di sapere dalla quale i partecipanti alla comunicazione, intendendosi su qualcosa in un mondo, si dotano di interpretazioni” (p. 730).
7. Cfr. ivi, p. 569. La citazione è tratta da L.Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, in Idem, Schriften, vol.
I, Frankfurt am Main, 1960, p. 382.
8. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 21.
9. Ivi, p. 26.
10. Ivi, p. 41. Qui Heidegger aggiunge che le opere d‟arte “fanno sì che si storicizzi il non-esser-nascosto [...] in
relazione all‟ente”, cioè la verità che è in opera nelle opere.
144
seunte in cui, di tempo in tempo, la verità si storicizza. Una verità storicizzata sarebbe dunque,
fenomenologicamente, la condizione per la conoscenza dell‟arte: non più Knowledge that ma
Knowledge of, secondo la felice espressione di Umberto Eco, che richiama in questi termini la distinzione tra conoscenza ontologica (fondativa di verità) e conoscenza sociologica e fenomenologica (a determinate condizioni)192. Ci si può a questo punto riallacciare all‟importanza del concetto
già citato di intesa in Habermas, che può divenire (relativisticamente) fondativo di quello di valore: come dice Eco, “la garanzia che le nostre ipotesi siano “giuste” [...] non sarà più cercata
nell‟a priori dell‟intelletto puro [...] bensì nel consenso, storico, progressivo, temporale
anch‟esso, della Comunità”193. Il consenso sul valore appare così, inevitabilmente, come ciò che
assottiglia il senso, lo priva di un contenuto di verità che, fuori dalla dimensione dell‟essere (Sein)
si ridimensiona storicizzandosi (Dasein). Dopo Dilthey, il primo ad occuparsi del problema negli
stessi termini di Eco è stato Mannheim. Nella sua Sociologia sistematica, domandandosi che cosa siano i valori, si risponde: “Per il filosofo idealista -e anche per l‟uomo della strada- essi rappresentano qualità esterne, come doni o comandi del cielo, forze trascendentali. Per il sociologo
sono parte dei processi sociali: non sono entità astratte, né qualità intrinseche di un oggetto. [...]
E‟ radicata nei nostri modi di pensare l‟opinione che noi crediamo nei valori perché essi sono eterni, suggeriti da qualche potere superumano o superstorico. [...] Comunque, così come la scienza dovette distruggere il concetto secondo cui il sole girava attorno alla terra, [...] così dobbiamo
accettare il fatto che i valori sono generati dalla società”194.
Si fa strada da qui quello che è destinato a divenire il dilemma del senso, derivante dal dubbio
dell‟essere e dell‟estetica, ma anche quello di un senso costruito, come si diceva, non più per accumulazione, ma per sottrazione di punti di vista, derivanti da continue giustapposizioni, secondo
la lezione di Mannheim: che ci indica l‟importanza di un pensiero determinabile “dal punto di vista esistenziale”, pur senza indirizzarci verso quella che oggi chiameremmo una riduzione di
complessità (garantita anzi in aumento dall‟incremento stesso delle interazioni che intervengono a
modificare il senso). Su questa base, il pensiero non è più “formulazione, costituzione
dell‟oggetto, comprensione dei dati di fatto fondamentali, ma solo espressione di contenuti compresi da un qualche punto di vista diverso. In base a una tale svalutazione del pensiero, le contraddizioni interne (Hegel) e i paradossi non solo non devono essere concepiti come imperfezioni del pensiero, ma possono addirittura essere valorizzati come indice, come espressione
di contenuti già compresi nell’esistenza stessa”195. I paradossi dunque divengono fonte di comunicazione sociologica e perciò di sapere (standortgebunden, cioè “legato alla situazione”) già con
Mannheim ancor prima che con Merton196. Il fatto che molta sociologia posteriore, con Parsons in
prima linea197, abbia dimenticato questa lezione non significa nulla, poiché il seme del suo significato è germogliato anche altrove: nell‟antropologia culturale e nella semiotica, nell‟ermeneutica e
nell‟epistemologia (per rimanere alle scienze umane). Così, se l‟antropologo può scrivere che, rispetto alle pretese comunicative, “l‟universalismo presume di anticipare l‟incontro e parte dalla
sicurezza che non ci possono essere, non ci saranno equivoci. Il desiderio occidentale che l‟altro
11. U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, 1997, p. 53.
12. Ivi, p. 79.
13. K. Mannheim, Sociologia sistematica. Introduzione allo studio della società, Milano, 1960, pp. 163-164.
14. K. Mannheim (1925), Sociologia della conoscenza, Dedalo, Beri, 1974, pp.156-164.
15. Ivi, p. 122. In Merton acquistano particolare rilievo culturale le analisi sulle alternative funzionali e sulla teoria
della devianza in Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1970 (soprattutto nel vol. III, sulla Sociologia della conoscenza).
16. Quando sostiene che “non solo la cultura ha una struttura; essa “funziona” nell‟azione”, Parsons (in Teoria sociologica e società moderna, Etas Kompass, Milano, 1971, p. 129) rigetta comunque del tutto le teorie che “comportino quel relativismo epistemologico la cui possibilità occupava Mannheim. Che le cose stiano così dipende dalla concezione dell‟unità fondamentale della cultura umana e delle condizioni dell‟orientamento umano verso il
mondo. Ciò significa affermare che esistono dei criteri universali di validità empirica” (p. 137).
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sia come noi impedisce l‟incontro”198, il semiologo gli fa eco, riferendosi al ricorso all‟universale
non come a “una forma del pensiero ma [come ad] una infermità del discorso. [...] Il linguaggio
nomina appannando l‟insopprimibile evidenza dell‟individuale esistente”199. Di questa evidenza si
nutre l‟ermeneutica e su di essa si fondano le nuove epistemologie.
2. Il vedere, la perdita e la dimenticanza
Quali prospettive immaginare allora per la comunicazione artistica del secolo e del millennio a
venire? Non di senso universalisticamente inteso, secondo il messaggio che non solo l‟arte e le arti
ci trasmettono, ma insieme tutte le scienze: non è più tempo di conversioni e di evangelizzazioni
di massa (a questo pensano già a sufficienza i mezzi a tale scopo nominalmente deputati); piuttosto di messaggi minimali, quasi bigliettini nella bottiglia, lasciati andare alla corrente, verso dove
non si sa. Sta forse qui il senso di certo balbettamento dell‟arte contemporanea, di certa sua incapacità di dire. Ma anche il segno della sua presa di coscienza che il tempo degli universalismi è
finito, come il tempo dell‟affresco, linguaggio fatto per dire a tutti parole di eternità scolpite nel
cuore delle cattedrali. Se l‟uomo di oggi non ha più bisogno di pregare Dio è perché preferisce
comunicare con gli uomini; per questo, ad esempio, ha sostituito le cattedrali con i musei, ai quali
ha conferito la stessa grandiosa solidità, lo stesso valore simbolico: un senso praticabile all‟agire,
come si diceva. Atti a contenere non un messaggio corale (e ancora una volta universale) ma una
miriade di messaggi lanciati dagli uomini attraverso questi nuovi templi della comunicazione artistica: contenitori, come scrive Robert Hughes200, non isolati in uno spazio assoluto, semmai microcosmi inscritti nello spazio urbano, che in quello spazio respirano e sono destinati in qualche
modo a trasformarsi, per effetto dello sguardo dei visitatori. Uno sguardo rivolto più alla terra
che al cielo, forse, ma che non cessa di interrogarsi sul senso del fare artistico e della sua comunicazione. Uno sguardo errante, mai fermo, costretto anzi ad una mobilità faticosa ma irrinunciabile, unica garanzia di libertà. E‟ la condizione attuale, e forse futura, della comunicazione artistica: perdersi per ritrovarsi, dimenticare e distruggere per ancora creare e ricordare. E‟ di nuovo,
forse, la Wanderung dei romantici, il viaggio intrapreso non per arrivare, ma per conoscere il
senso di uno “spazio intermedio”, degli “interluoghi, luoghi di transito, tappe, stazioni” del viaggio, piuttosto che del viaggio compiuto e della meta raggiunta201. Quello di ogni oggetto artistico è
effettivamente un viaggio, di cui è noto il punto di partenza (le istanze creative del soggetto) ma
del tutto imprevedibile lo sbocco: quello del consueto circuito artista-pubblico, mediato dalle gallerie e dal mercato o addirittura dall‟ingresso nel museo, o quello dell‟erranza ondivaga, che
all‟opera d‟arte riserva tutt‟altro che sicurezze? Di fronte ad essa si apre allora un destino di nomadismo, di forzata Wanderung, che può per un verso acquietarsi a patto di farsi riassorbire da
quel processo di globalizzazione che ha investito la comunicazione come un turbine, e ridotto
l‟opera d‟arte in una condizione di asservimento allo standard. Per altro verso, si spalanca dinnanzi all‟opera una prospettiva di tribalizzazione, contrassegnata da un desiderio individuale di
regressione verso la legge del sangue della tribù202. E‟ forse seguendo questa alternativa che
all‟arte è dato ancora di produrre ipotesi di complessità comunicativa; non così in una prospettiva
17. cfr. F. La Cecla, Il malinteso, Laterza, Bari, 1997, p. 75.
18. cfr. U. Eco, op. cit., p.13. Il corsivo è dell‟A.
19. cfr. R. Hughes, “Bravo! Bravo! On a hill in Los Angeles and by a river in Spain, two leading architects unveil
grandly innovative, knockout buildings that climax the age of American museum expansion”,Time, (The
arts/architecture), november 1997, vol 150, n. 18.
20. Sul concetto di Wanderung si veda l‟affascinante analisi di P. Collini, Wanderung. Il viaggio dei romantici,
Feltrinelli, Milano, 1996. Le citazioni sono tratte dalle pp. 7-8.
21. La prospettiva di un destino comunicativo dell‟arte diviso tra globalizzazione e tribalizzazione è stata di recente
espressa da A. Bonito Oliva in una conferenza su Avanguardie, Neoavanguardie, Transavanguardie, tenuta a Padova il 6 novembre 1997.
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di globalizzazione, che pretende viceversa la comunicazione come anticipazione degli eventi, quasi una creazione organizzata e fittizia del gusto del pubblico. Non si vuole tuttavia con questo indicare come via d‟uscita un senso unico del senso, vicolo cieco verso cui la scelta di una sola delle due dimensioni (globalizzazione o tribalizzazione) finirebbe per condurre la comunicazione.
Per salvare tanto le radici del sapere (le genealogie all‟interno dell‟archeologia del sapere di
Foucault) quanto gli apporti continui della comunicazione interattiva, è necessario piuttosto uscire dalle strettoie dei sensi personalistici così come di quelli generalizzati. Rispetto all‟enorme
quanto vacua presunzione delle prospettive globalistiche, l‟arte può a questo punto riscattare la
propria caduta in un modo soltanto: aprendo il proprio sistema all‟entropia, ai principi caotici e
catastrofici che (unici) possono oggi farsi produttori di rinnovamento sociale e comunicativo.
L‟arte dovrà misurarsi con l‟erranza quanto con l‟imperfezione, con l‟estraneità e la disorganizzazione, con lo spaesamento continuo. Dovrà imparare a perdersi, a essere alla deriva, “alla mercé della presenza, delle presenze dei luoghi, senza nessuna delle sicurezze dovute alla consuetudine, all‟ambientamento, al nostro o ai nostri posti nel tessuto del reale che è la nostra cultura, il
nostro mondo”203. Ma c‟è una seduzione nel perdersi, nello smarrimento, che viene dalla differenza dei luoghi (geografici o metaforici, come quelli dell‟arte) che si attraversano senza più pretese
di colonizzazione; per il colonizzatore, “conoscere posti nuovi corrisponde sempre più a negarne
la differenza. [...] Non si viene più a patti con le potenze di un luogo. Non ci si può più perdere
perché i luoghi vengono divorati dall‟ordine che ci siamo portati appresso”204. La comunicazione,
in luoghi che divengono così tutti equivalenti, è pura illusione, perché si riduce alla conferma
dell‟uguale, al confronto sterile in cui il senso ha perduto il gusto del perdersi e della differenza.
Abbiamo bisogno di dare nomi alle cose, per poterle riconoscere, orientarci e riorientare il nostro
senso del luogo e della memoria collettiva; pure, troppe certezze offuscano se non ottenebrano la
nostra consapevolezza di appartenenza culturale, assuefacendoci al rassicurante ripetersi delle
nostre esperienze spaziali, ma privandoci definitivamente del sapore dell‟avventura. Le nostre
mappe mentali, costruite in ossequio all‟idea di un centro e di una periferia, e di tutta una serie di
segnali per non perderci, sono proprie di una cultura tradizionalmente stanziale, borghese, antinomadica e antiromantica. Una cultura che teme e stigmatizza la Wanderung e il perdersi come il
contrario delle certezze del capitalismo: il viandante che ha abbandonato ogni speranza, “sapendo
che vana è la ricerca di un senso centrale e di principi fondanti” , pure possiede un “eroismo niente affatto nichilistico poiché [...] vince sempre le sirene dell‟autodissoluzione e della mera negatività”205. Egli conserva, in altre parole, un‟urgenza dell‟erranza che supera la necessità del tempo;
ha perduto (o non ha mai posseduto) un nome e percorre la sua Winterreise (come quella mülleriana musicata da Schubert) con la stessa disperata determinazione dell‟Ebreo errante: “Vado
senza sostare e riposare/ la mia strada non conduce ad alcuna meta;/ straniero io sono in ogni paese,/ e ovunque tuttavia ben conosciuto”206. Ciò che egli vede si inscrive nella realtà sempre parziale di luoghi in cui egli non sta, che attraversa eppure costituiscono gli spazi della Wanderung,
come si diceva sopra. Spazi che oggi potremmo riassegnare di diritto all‟ermeneutica, ma che anche all‟antropologia interessano non poco. Un esempio ce ne viene dalle indagini di Marc Augé su
quelli che egli definisce nonluoghi per tutt‟altro genere di pellegrini: “Se un luogo può definirsi
come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico definirà un nonluogo”207. Uno spazio che esclude i “luoghi antichi [...] classificati
[...] “luoghi della memoria””, così come “un sociale organico”, proprio invece dei luoghi, creando
22. Cfr. F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, pref. di G. Vattimo, Laterza, Bari, 1988, p. 14.
23. Ivi, p. 28.
24. P. Collini, op. cit., pp. 140-141.
25. La citazione del testo del Wanderlieder di Müller (1823) è ancora ivi, p. 139, nota 24.
26. Cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1993, p.
73.
147
piuttosto “una contrattualità solitaria”208. I nonluoghi hanno perduto la bellezza disperata e solitaria degli spazi della Wanderung, e tuttavia si inscrivono in “una sorta di cosmologia che [...] è
oggettivamente universale nonché simultaneamente familiare e prestigiosa”. E che, come tutte le
cosmologie, “produce effetti di riconoscimento. Paradosso del nonluogo: lo straniero smarrito in
un Paese che non conosce (lo straniero “di passaggio”) si ritrova soltanto nell‟anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere”209. Le nozioni
di perdersi e ritrovarsi possono qui essere riprese, private della loro accezione più nobile: quel
concetto di dimenticanza,210senza il quale (ironia di quella che Augé chiama la surmodernità) si
cade nella sorte di ritrovare se stessi (quindi la propria identità) entro l‟indistinto dei luoghi di aggregazione di massa. Gli stessi in cui esercita il suo dominio “l‟impero della Comunicazione [che
con] la sua invadenza e la sua pretesa di presenza riduce “l‟incontro” [...o] presume di insegnarci
in cosa consiste incontrarci”211.
Destino misero e paradossale, ma non irreversibile: come ai nonluoghi ci lega una rinuncia alla creatività che non è definitiva, così all‟arte non tribale, ma organizzata e globale, anch‟essa
non aperta a esiti individuali, non ci può vincolare nessun destino. Se il computer imita Bach212, al
punto da comunicare l‟impressione che quello sia Bach, non può però sostituirlo: l‟invenzione si
può surrogare formalmente, ma a prescindere dal suo contenuto di creatività. E se questo è vero,
l‟arte come agire comunicativo ha ancora un senso.
27. Ivi, p. 87.
28. M. Augé, ivi, p. 97.
29. Sulla dimenticanza come dimensione costitutiva del sapere scientifico hanno scritto sia Max Weber sia Thomas
Kuhn, per i quali il superamento di vecchi punti di vista è essenziale per l‟avvenire della scienza.
30. F. La Cecla, Il malinteso, op. cit., p. 158.
31. Cfr. S. Cappelletto, “Quel computer sembra Bach”, La Stampa, 1 nov. 1997, p.1. Il musicologo ci aggiorna sulle
meraviglie di Emi (Esperimenti sull‟intelligenza musicale), programma per computer in grado di comporre e suonare un‟ Invenzione a due voci come se fosse di Bach. Ma la frontiera tra intelligenza artificiale e creatività è ribadita
dal riconoscimento che la capacità di creare il totalmente nuovo è soltanto umana.
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